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Italian Pages 618 [620] Year 2023
Luca Cabassa ha conseguito il dottorato di ricerca in Filosofia presso il consorzio delle Università di Pisa e Firenze. Si occupa di epistemologia, in particolare del rapporto tra matematica e scienze del vivente. Francesco Pisano è assegnista di ricerca postdoc presso l’Università di Napoli Federico II e docente a contratto presso l’Università Niccolò Cusano di Roma, dove insegna Filosofia della scienza. Lavora sull’idea di un’epistemologia fenomenologica, sulla storia della logica trascendentale e su problemi di logica della conoscenza tra kantismo, pragmatismo e neoempirismo.
Luca Cabassa - Francesco Pisano (a cura di) Epistemologie
Frutto di un lavoro collettivo, questa antologia di traduzioni offre dei punti di fuga a chi studia epistemologia in Italia. Punti di fuga: ossia vie d’uscita dai programmi culturali che ancora vincolano il dibattito epistemologico italiano e, insieme, perni per l’articolazione di nuove prospettive di ricerca. I testi qui presentati, inediti in Italia, sono stati selezionati, tradotti e commentati attraverso un dialogo vivo e partecipato tra studiose e studiosi di diversa formazione. Il volume, suddiviso in tre sezioni (Unità e pluralità, Politica e scienza, Casi di studio), esplora i discorsi contemporanei sulle scienze, riflette sul loro rapporto con la sfera politica e suggerisce vie per la ricerca autonoma in ambito epistemologico.
Epistemologie Critiche e punti di fuga nel dibattito contemporaneo A cura di Luca Cabassa e Francesco Pisano Postfazione di Roberta Lanfredini Testi originali di Gilbert Simondon, François Laruelle, Timothy Williamson, Karen Barad, Reza Negarestani, Gaston Bachelard, Georges Canguilhem, Helen E. Longino, Donna Haraway, Yuk Hui, Gilles Châtelet, Jenann Ismael, Bastiaan C. Van Fraassen, Giuseppe Longo, Mäel Montévil, Dominique Lestel, Thomas Fuchs, Philip Mirowski, Bruno Karsenti, Sybille Krämer, Jean-Claude Milner
ISBN 978-88-5759-905-2
MIMESIS
Mimesis Edizioni Epistemologica www.mimesisedizioni.it
34,00 euro
9 788857 599052
MIMESIS / EPISTEMOLOGICA
MIMESIS / EPISTEMOLOGICA
N. 11 (Nuova serie) Collana diretta da Roberta Lanfredini comitato scientifico Carla Bagnoli (Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia) Vincenzo Costa (Università degli Studi del Molise) Luciano Floridi (Oxford University) Shaun Gallagher (University of Memphis) Daniel D. Hutto (University of Hertfordshire) Ernest Lepore (Center for Cognitive Science, Rutgers University) Giuseppe Longo (CNRS et École Normale Supérieure, Paris) Kevin Mulligan (Université de Genève) Wojciech Żełaniec (University of Gdańsk)
Epistemologica persegue chiarezza di analisi e rigore argomentativo tenendosi aperta a contributi provenienti da tradizioni di pensiero diverse. L’intento è tessere una trama concettuale il più possibile condivisa e canalizzare il crescente specialismo in un orizzonte di maggiore fruibilità filosofica. La Collana si colloca sul terreno teoretico senza trascurare la dimensione storica. Attenta alle molteplici diramazioni dell’odierno dibattito epistemologico, ospiterà accanto a studi di filosofia della conoscenza e delle varie scienze (naturali e umane) contributi di analisi fenomenologica, di filosofia del linguaggio, di filosofia della logica e della matematica, di filosofia della mente e delle scienze cognitive, di storia del pensiero epistemologico.
EPISTEMOLOGIE Critiche e punti di fuga nel dibattito contemporaneo
a cura di Luca Cabassa e Francesco Pisano
MIMESIS
MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] Collana: Epistemologica, n. 11 Isbn: 9788857599052 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL Piazza Don Enrico Mapelli, 75 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 21100089
INDICE
Per un pluralismo critico in epistemologia di Luca Cabassa, Francesco Pisano9 Nota di lettura
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Fonti dei testi originali
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UNITÀ E PLURALITÀ Commento introduttivo di Marco Ferrari 29 Cibernetica e filosofia di Gilbert Simondon37 Commento introduttivo di Francesco Pisano 67 La scienza dei fenomeni e la critica della decisione fenomenologica di François Laruelle75 Commento introduttivo di Dario Mortini 87 Senza fissa dimora cognitiva di Timothy Williamson91 Commento introduttivo di Valentina Bortolami 113 Incontrare l’universo a metà strada: realismo e costruttivismo sociale senza contraddizione di Karen Barad119 Commento introduttivo di Matteo Caparrini 167 Che cos’è la filosofia? di Reza Negarestani173
POLITICA E SCIENZA Commento introduttivo di Giovanni Minozzi 209 Valore morale della cultura scientifica di Gaston Bachelard217 Commento introduttivo di Giulia Gandolfi 223 Necessità della “diffusione scientifica” di Georges Canguilhem231 Commento introduttivo di Emma Barettoni, Francesca Putignano 243 Soggetti plurali e circolazione del potere di Helen E. Longino251 Commento introduttivo di Emma Barettoni, Francesca Putignano 263 La primatologia è politica con altri mezzi di Donna Haraway269 Commento introduttivo di Marco Pavanini 319 Sulla cosmotecnica. Per una relazione rinnovata tra tecnologia e natura nell’Antropocene di Yuk Hui325
CASI DI STUDIO Commento introduttivo di Luca Cabassa, Mattia Galeotti 351 Singolarità, metafora, diagramma di Gilles Châtelet359 Commento introduttivo di Luca Cabassa, Mattia Galeotti 377 La simmetria come guida per le strutture teoriche superflue di Jenann Ismael, Bastiaan Cornelis Van Fraassen383 Commento introduttivo di Luca Cabassa, Mattia Galeotti 411 Materia inerte contro materia vivente: criticità estesa, geometria del tempo, anti-entropia – una panoramica di Giuseppe Longo, Mäel Montévil419
Commento introduttivo di Fiorella Giaculli 441 Una concezione bi-costruzionista dell’etologia di Dominique Lestel447 Commento introduttivo di Francesco Pisano 467 La neuroscienza cognitiva incarnata e le sue conseguenze per la psichiatria di Thomas Fuchs475 Commento introduttivo di Marco Ferrari 495 Natura dissimulatrice, economia inafferrabile di Philip Mirowski503 Commento introduttivo di Giovanni Minozzi 525 Durkheim. Scienza e filosofia nella divisione del lavoro di Bruno Karsenti531 Commento introduttivo di Federica Buongiorno 559 Epistemologia della medialità: una riflessione filosofico-mediale di Sybille Krämer565 Commento introduttivo di Marco Ferrari 583 Lacan e la scienza moderna di Jean-Claude Milner593 Postfazione di Roberta Lanfredini613
Luca Cabassa, Francesco Pisano
PER UN PLURALISMO CRITICO IN EPISTEMOLOGIA
Questa antologia di traduzioni è il risultato di un lavoro collettivo che vorrebbe fornire a chi legge degli accessi significativi al dibattito epistemologico contemporaneo. Vogliamo, nello specifico, procurare dei punti di fuga a chi sta compiendo o ha compiuto la propria formazione epistemologica in Italia. La metafora del punto di fuga riassume le due funzioni degli scritti qui raccolti: mettere in prospettiva la discussione epistemologica internazionale, organizzando le sue molte voci attorno ai nuclei tematici che ci sembrano più significativi; suggerire delle vie d’uscita per chi voglia proseguire la propria ricerca oltre i confini fissati dalle tradizioni più frequentate in Italia. Nel mettere insieme questi testi, il gruppo di lavoro ha fin da subito abbandonato qualsiasi pretesa di completezza sia rispetto alla definizione del campo epistemologico in generale, sia rispetto alla definizione del campo più specifico dell’epistemologia italiana. È diventato necessario, quindi, trovare dei criteri di rilevanza che permettessero di selezionare i luoghi dell’epistemologia contemporanea più funzionali al doppio scopo che ci eravamo proposti. Per chi comincia oggi a studiare epistemologia in un’università italiana, è opportuno individuare strade alternative a un insegnamento accademico spesso legato a programmi culturali di corto respiro, disorganici e – nei casi peggiori – obsoleti rispetto a una discussione che, data la sua dipendenza dai molteplici fattori complessi in gioco nell’attualità delle pratiche scientifiche, può ormai svolgersi soltanto su un piano internazionale. Questo, almeno, è il presupposto che è emerso dal nostro comune sentire. È il comune sentire di studiose e studiosi provenienti da diversi atenei italiani, motivati da interessi di ricerca eterogenei e impegnati, negli ultimi anni, nell’esplorazione di diversi luoghi di ricerca e studio in tutta Europa. Qui possiamo giustificare l’adozione di questo presupposto negativo soltanto facendo riferimento alle nostre esperienze e alla discussione continua di queste nostre impressioni. Al di là del valore dei singoli contributi, quindi, la tenuta generale del volume dipende dalla solidarietà di chi legge con questo sentimento.
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L’ideale lettore o lettrice di questa raccolta studia o ha studiato epistemologia in Italia; sente o ha sentito, in questo percorso, il bisogno di estendere il proprio raggio d’azione verso un “contemporaneo” che attraversa luoghi esterni all’università (blog, comunità di laboratorio o comunità politiche, o altri ancora); vuole accedere in modo consapevole e praticabile alle fonti concettualmente più dense di questo “contemporaneo”. In breve, questo volume vuole fornire un punto di partenza in questa direzione attraverso una selezione critica e commentata di fonti. La raccolta comprende diciannove saggi che riprendono prospettive differenti su temi epistemologici comuni a dibattiti significativi per la comunità filosofica internazionale. Ogni saggio è preceduto da un commento introduttivo. Ciascun commento e ciascuna traduzione sono opera individuale delle studiose e degli studiosi coinvolti, secondo quanto indicato nell’indice. Ma, in un senso più ampio, sono anche il frutto di una discussione collettiva trasversale rispetto alla selezione dei testi, alla loro organizzazione entro questa raccolta, al lavoro di traduzione, al lavoro di commento e, infine, alla redazione di questa stessa introduzione generale. Questa parte collettiva del lavoro ha richiesto la messa a punto di alcuni parametri generali, utili a rendere il lavoro organico senza danneggiare la specificità di ciascuna prospettiva presentata. Il resto di questa introduzione generale illustra questi parametri. Tutte le traduzioni presentate sono inedite*.1La loro selezione ha incontrato dei limiti inevitabili: spazi, tempi, diritti e costi. Per rendere questi limiti quanto meno arbitrari possibile, abbiamo scelto di privilegiare tre macroaree attorno alle quali sviluppare l’organizzazione interna del volume. La prima sezione (Unità e pluralità) è imperniata sulla problematica consistenza della “scienza” come forma unitaria – ontologica, metodologica, linguistica, semantico-categoriale? – della sterminata varietà di pratiche scientifiche osservabili e praticabili. La questione si ripropone immediatamente per la stessa epistemologia in quanto teoria della scienza. Perciò, in questa sezione abbiamo a che fare con problemi ibridi, collocati a cavallo tra il campo epistemologico e quello che, in Italia, viene comunemente inteso come l’ambito della filosofia teoretica e della teoria della conoscenza. La seconda sezione (Politica e scienza) prende le mosse dai problemi propri delle scienze come pratiche effettive, aventi luogo entro un contesto sociale e storico. Ogni pratica a cui, a posteriori o a priori, la comunità at*
Ad eccezione di Lestel, D., Una concezione bi-costruzionista dell’etologia, comparso in M. Iofrida (a cura di), Scienza Tecnica Capitalismo. Una prospettiva ecologica, Mucchi, Modena 2020, pp. 97-116. Il testo è stato pubblicato in tale sede dopo che i lavori per questa antologia erano già iniziati.
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tribuisce valore di scienza è una pratica di fatto localizzata, tanto in senso spazio-temporale quanto in senso socio-culturale. Ogni pratica scientifica si trova, quindi, di fronte all’alternativa tra una consapevole presa di posizione rispetto alla moltitudine di problemi etici e politici che caratterizza le circostanze della sua attuazione, e un’inconsapevole funzionalizzazione in favore dell’ordine politico-economico di volta in volta esistente. In quest’ottica, la questione della soggettività scientifica – di chi opera nella scienza, secondo quali fini e in base a quali premesse epistemiche, organizzative, affettive e sociali – si rivela inaggirabile. La possibilità di delegare ad un’unica disciplina, magari la sociologia della scienza, le risposte a queste domande appare allettante, ma, a nostro parere, fallimentare. È solo nell’attivazione di diversi saperi, costitutivamente liminari, che ha senso avviare una critica della soggettività scientifica capace di mostrare gli impensati, le rimozioni e i limiti che ancora informano l’immaginario ereditato dall’Illuminismo settecentesco e dal Positivismo ottocentesco. I testi di questa sezione abitano, quindi, sul confine che il campo epistemologico condivide con politica, etica e sociologia. La terza sezione (Casi di studio) esplora lo spazio interno designato dai confini discussi nelle sezioni precedenti: tra “la scienza” e il qui e ora di ogni pratica “scientifica” individuale occorrono articolazioni, problemi e soluzioni specifiche. Per rendere praticabile questa esplorazione, abbiamo scelto di presentare dei casi di studio: saggi epistemologici che lavorano su una specifica disciplina scientifica per trarne concettualizzazioni dal valore critico più generale e trasversale, cioè concettualizzazioni “filosofiche”. Nonostante ogni sezione si occupi di tematiche distinte delle riflessioni sulle scienze, la collocazione di un testo in una sezione specifica non è univoca; in vari casi, il lettore o la lettrice potrebbe ritenere opportuna, o maggiormente adeguata, una sistemazione differente. Ciò è dovuto in parte al carattere estremamente generale delle macroaree individuate e in parte agli argomenti trattati e alla postura filosofica, spesso di ampio respiro, adottata in numerosi articoli. Le sezioni, pertanto, non devono essere considerate come compartimenti stagni, bensì come strumenti per orientarsi all’interno di un materiale variegato e complesso. Le informazioni specifiche su ciascun saggio sono fornite nel relativo commento introduttivo. Le fonti dei testi originali sono elencate alla fine di questa introduzione generale. Aggregatosi a partire da un’idea dei due curatori, il gruppo di lavoro si è formato attraverso la ricerca di tre caratteristiche: eterogeneità di formazione e interessi, per fare sì che questo volume fosse il prodotto di un dibattito tra prospettive effettivamente diverse e non necessariamente conciliabili; esperienza recente di studi epistemologici in Italia e
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all’estero; familiarità con temi e problemi “contemporanei”, cioè tali da smuovere e motivare chi oggi discute e studia attivamente – non solo in università – questioni epistemologiche. La discussione collettiva, iniziata nel corso del 2019, è oggi ancora in corso. Non abbiamo ottenuto risultati conclusivi. Questo volume non è, quindi, il prodotto definitivo di un lavoro compiuto. È, piuttosto, l’espressione di un laboratorio continuamente operativo per la discussione di questioni epistemologiche. Non possiamo evitare, a questo punto, di fornire la nostra definizione minima di “epistemologia”. In generale, l’epistemologia è la disciplina filosofica che ha che fare con la conoscenza scientifica, ma gli usi del termine variano in funzione della tradizione a cui si fa riferimento. Da una parte, chi risente maggiormente dell’influsso della letteratura inglese tende ad usare “epistemologia”, se non proprio come sinonimo, per lo meno come specificazione del più generico termine “gnoseologia”. L’epistemologia andrebbe perciò intesa come quella branca della teoria della conoscenza (theory of knowledge) che si occupa delle condizioni sotto le quali si può avere conoscenza scientifica e dei metodi per raggiungerla. Dall’altra parte, chi si rifà alla tradizione cosiddetta “continentale” distingue la teoria della conoscenza o gnoseologia (Erkenntnistheorie) dalla dottrina o teoria della scienza (Wissenschaftslehre), e riserva solo a quest’ultima il termine “epistemologia”. L’oggetto della gnoseologia sarebbe, in questo caso, il processo in atto del conoscere: i relativi problemi comprenderebbero, quindi, le questioni legate alla percezione, all’osservazione, alla formulazione delle ipotesi e della verifica. Di contro, l’epistemologia avrebbe come oggetto le scienze stesse considerate come individui, come “stati di cose” oggettivabili in molti modi (ad esempio, come “sistemi di proposizioni”). In questa accezione, dunque, l’epistemologia non si interesserebbe della produzione della conoscenza, né si interrogherebbe se questa debba valere o no come scientifica. Essa si occuperebbe, piuttosto, delle scienze come prodotto finito, come insieme di risultati già acquisiti e catalogati come scientifici. Il suo compito sarebbe trovare somiglianze e dissomiglianze tra le scienze particolari ponendosi a un livello meta-scientifico. Il che, ovviamente, significa che da proposizioni epistemologiche non si potrebbero dedurre proposizioni scientifiche vere e proprie. Questa doppia divisione – tra “analitico” e “continentale”, e tra “gnoseologico” ed “epistemologico” all’interno della tradizione continentale – ha ragioni storico-culturali complesse. Il loro perno concettuale, però, è relativamente semplice: queste distinzioni si sviluppano a partire dalle condizioni alle quali si ammette, se lo si ammette, un concetto unitario di “scienza”. Negli ambienti anglosassoni, questo concetto è separato da
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quello di “conoscenza”, comprensivo di tutte le implicazioni problematiche già elencate: o la conoscenza in questione è già implicata in pratiche scientifiche particolari, e allora è assorbita dall’epistemologia, che a sua volta può così diventare “filosofia della scienza”; o essa è discussa su un piano tanto generale e universale da fluttuare verso la psicologia o la metafisica. Dal lato continentale, invece, la “scienza” in generale resta legata alla “conoscenza” in generale tramite la distinzione ottocentesca tra dottrina della scienza e gnoseologia, cioè tra la questione della ragione (e del suo fondamento) e la questione dell’incarnazione di questa ragione entro una varietà articolata di processi psichici, trascendentali, linguistici e così via. Pur restando influente, nel corso del XX secolo, la distinzione tra gnoseologia e dottrina della scienza è stata oggetto di continui tentativi di sussunzione, risoluzione o dissolvimento. Dalla fenomenologia al neopositivismo, dall’epistemologia genetica al costruttivismo radicale, dall’epistemologia storica all’epistemologia evoluzionistica, numerose scuole hanno tentato via via di far valere o le ragioni o di una “epistemologizzazione” della gnoseologia o di una “gnoseologizzazione” dell’epistemologia. Nel primo caso, si tratterebbe di differenziare le indagini sulla produzione delle conoscenze scientifiche dal carattere troppo generale delle formulazioni gnoseologiche. Rilevando il fallimento di qualsiasi approccio aprioristico e normativo (tipico anche dei razionalismi e degli empirismi più accorti), l’epistemologia non potrebbe fare altro che procedere dalla conoscenza già acquisita per poi cercare di stabilire, fin dove è possibile e in maniera analitica, i principi del sapere scientifico, preferibilmente limitandosi a una disciplina scientifica particolare. Tali limitazioni renderebbero superflua la postulazione di una teoria della conoscenza poiché, dal punto di vista epistemologico, non ci sarebbe alcuna assurdità nel supporre che a ogni diversa scienza possa corrispondere una diversa gnoseologia. Di fatto, però, una tale supposizione corre facilmente il rischio di parcellizzare e isolare i vari discorsi scientifici che individua, nonché di astrarre eccessivamente dall’insieme di bisogni e pratiche comuni, “umane”, che si intersecano nella trasformazione di una varietà di saperi in un apparato (discorsivo e tecnologico) tecno-scientifico che sotto molti aspetti appare compatto e unitario nel suo funzionamento. Nel secondo caso, insistendo sulle analogie nei processi di scoperta, di giustificazione e di rettifica delle conoscenze che accomunano le diverse scienze, e sulla rilevabilità di costanti logico-formali all’interno dei processi razionali costitutivi dei vari discorsi scientifici, si tratterebbe di individuare una qualche forma di continuità tra le conoscenze extrascientifiche (tipicamente percettive o adattative in rapporto ad un ambiente) e le
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conoscenze scientifiche. Le varie declinazioni di questo progetto, nel corso degli anni, hanno di fatto provato a definire il loro modello di razionalità prendendo ad esempio una scienza sperimentale a tenore naturalistico (biologia, etologia, psicologia, sociologia, scienze cognitive, e così via). Considerate unilateralmente, entrambe le posizioni risultano astratte e indebitamente generalizzanti. Dal nostro punto di vista, la chiave di questa unilateralità sta nell’inflazione di “metodologico” e “razionale”: o si porta l’epistemologia a livello della metodologia, negando a priori dignità all’indagine delle costanti logico-formali del discorso razionale al di là delle varie metodologie; o si fa il contrario, universalizzando in modo illegittimo la metodologia di una scienza specifica e assumendola come una teoria della ragione in generale. Da entrambe le posizioni si può comunque trarre qualcosa. Dal primo approccio ricaviamo che non esiste alcuna metodologia generale, poiché i metodi sono plurali e la scelta di quale metodo adottare è condizionata dalla natura dell’oggetto della ricerca. Una stessa scienza può usare più metodi (sperimentale, deduttivo, ipotetico, statistico, comparativo, ecc.), così come, per converso, uno stesso metodo può essere usato da più scienze. Dal secondo approccio ricaviamo, appunto, l’esigenza di definire dei criteri di traducibilità per l’applicazione dello “stesso” metodo a scienze “diverse” – esigenza che ci porta a riproporre alcuni problemi dell’epistemologia continentale classica (l’unità di una scienza e della scienza in generale, la forma della spiegazione scientifica, le forme dell’inferenza scientifica, nonché i problemi della decisione razionale e della comunicazione tra pratiche scientifiche). Il mainstream angloamericano e francese ritiene che le pretese della gnoseologia siano obsolete, laddove l’epistemologia sarebbe invece caratterizzata da avvedutezza, maturità, delimitazione accurata e rigorosa del proprio ambito di applicazione. Per convincersene basterebbe prendere in esame uno dei tradizionali problemi gnoseologici – ad esempio quello dei rapporti fra soggetto e oggetto – e accorgersi che la costituzione stessa di accoppiamenti del genere dipende da presupposti metafisici propri di epoche in cui tanto la natura quanto l’umanità erano concepite molto diversamente. E in effetti è innegabile che, ormai da alcuni secoli, l’umanità agisce radicalmente sulla natura e che lo sviluppo della conoscenza scientifica è intrinsecamente legato a questo mutamento nei rapporti tra le forze in campo. A differenza della fisica del XIX secolo – che poteva ancora rappresentarsi, seppur con difficoltà, in continuità con la conoscenza quotidiana – la fisica contemporanea non può essere compresa come un raffinamento delle nostre sensazioni: dai fondamenti concettuali alle tecniche utilizzate, la cesura nei confronti del mondo dell’azione e dell’esperienza quotidiana
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è netta e incolmabile. Gli effettivi accrescimenti di conoscenza verificatisi negli ultimi secoli avrebbero reso impraticabile le vecchie maniere di filosofare, e la gnoseologia farebbe parte di questa vecchia maniera. Un’altra parte del dibattito, meno presente sulla scena internazionale ma per tanti motivi ancora influente in Italia e in Germania, rifiuta la scissione tra epistemologia e gnoseologia sulla base del radicamento della varietà delle pratiche scientifiche nella vita conoscitiva individuale e sociale, e più ampiamente nel complesso delle esigenze esistenziali che la scienza, intesa come sapere stabile e razionalmente giustificato, sarebbe chiamata ad assolvere. La tecnoscienza è oggi generalmente percepita come un apparato intimamente coeso, chiamato a esercitare autorità e potere regolativo sulla popolazione, apparentemente trasparente ma profondamente enigmatico nella logica interna dei suoi processi e dei suoi discorsi. Soltanto un’analisi della scienza che metta in rapporto il suo statuto razionale con processi conoscitivi incarnati, generali ed effettivamente riconoscibili potrebbe essere chiamata a svolgere una critica filosofica di questo apparato. Per noi è importante evidenziare, in questo conflitto di prospettive, che la tensione dialettica tra il polo epistemologico e il polo gnoseologico rappresenta qualcosa di ben più pervasivo di quanto ciascuna delle parti vorrebbe far credere, soprattutto in società sempre più gestite e rette in base a principi che si pretendono informati da una razionalità scientifica. È una sorta di rimosso che ostinatamente infesta la riflessione contemporanea. In gioco, infatti, c’è la possibilità di definire che cosa è “scienza” e di stabilire i rapporti tra le conoscenze scientifiche e le conoscenze extrascientifiche. Difficile sovrastimare il valore di questa posta, in un discorso pubblico dove la verità è un bene sempre più raro e conteso. Ovviamente, questioni di questo genere non possono essere risolte per semplice stipulazione e anche qualora si accettasse l’insignificanza delle riflessioni gnoseologiche, l’epistemologia si troverebbe sempre di nuovo ad affrontarle, pena la degenerazione in cattiva coscienza. La dinamica dialettica dell’opposizione tra epistemologia e gnoseologia può essere descritta grossomodo in questi termini. A ogni tentativo di identificare o di astrarre un fattore comune dalla diversità delle scienze esistenti, la critica epistemologica mostrerà che tale impresa è vana poiché la scienza non è altro che un collettivo plurale, privo di unità sistematica. Che si considerino gli oggetti o i metodi scientifici, poco importa, le varie scienze non possono che essere concettualizzate in un’ottica di pluralismo radicale. La critica gnoseologica interverrà, a questo punto, notando che questo pluralismo radicale sfocia nella dissoluzione dell’oggetto tematico verso la cui analisi ci si era incamminati: della scienza, della conoscenza
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e del loro nesso. Dato che la critica epistemologica non ci dice nulla a proposito dei criteri in base ai quali riconosciamo le scienze come tali e ci priva di ulteriori considerazioni generali, lo status delle scienze risulterà incerto e definibile, in ultima istanza, solo storicamente. Ma è innegabile che un modo per definire, seppur implicitamente, che cosa sia una certa scienza esiste, e tale definizione coincide, per lo meno, con l’apprendimento ogni volta rinnovato di tale scienza da parte di coloro che arrivano a dedicarvisi. A meno che non si professi una incomunicabilità radicale intra- e infra-soggettiva, considerazioni di natura generale restano quindi lecite e plausibili. Insomma: la tesi pluralistica è inaggirabile, ma deve essere modificata alla luce di fattori pragmatici che esulino da un controllo rigoroso delle semantiche e delle sintassi scientifiche. L’autonomia delle scienze è soltanto un’illusione, se non viene posta all’interno di determinati insiemi di pratiche pedagogiche, economiche, industriali, politiche. Nella misura in cui questi insiemi attraversano trasversalmente una varietà di pratiche, producono delle costanti nella forma dei discorsi, nel senso attribuito a essi, nei protocolli che divengono consueti in laboratorio o in archivio, e così via. I saggi proposti in questa raccolta vanno letti nella cornice – da intendere nel senso più minimale possibile – di questo pluralismo critico. Una volta fornita la cornice che riteniamo comune alle diverse accezioni del significato di epistemologia, resta da giustificare l’utilità di questa disciplina. Da quando le scienze hanno sostituito la filosofia e le religioni nell’apportare i grandi rinnovamenti nelle visioni del mondo, la filosofia ha cercato di spiegare la scienza. Tuttavia, in un’epoca in cui, ad esempio, un matematico non solo non può dominare allo stesso modo la fisica o la biologia, ma nemmeno l’insieme delle matematiche, com’è possibile penetrare il significato profondo di una scienza senza conoscerla perfettamente? Esiste, poi, una tale conoscenza perfetta o comunque sufficiente per far comunicare specialità diverse – o c’è soltanto un’estrema specializzazione, un’estrema e solitaria divisione del lavoro? Ovviamente esistono filosofi forniti di conoscenze scientifiche o di formazioni multiple. Ma nessuno di loro ha la competenza specialistica necessaria, in ciascuna delle discipline pertinenti alla sua formazione, per pretendere di discuterne i fondamenti. In quest’ottica, l’epistemologia o è compito di pochi scienziati (che però sarebbero, in ultimo, isolati: una scienza, uno specialista scienziato-epistemologo, un’epistemologia, una gnoseologia e così via) o non è altro che una forma parassitaria della produzione scientifica, un’imitazione derivata della forza creativa, un surrogato astratto che non ha alcun rapporto con i principali interessati. Di fatto, oggi, gli epistemologi sarebbero per lo più intellettuali dotati di un capitale conoscitivo specializzato che, costituitisi
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come classe di mediatori culturali, distribuiscono conoscenze scientifiche di seconda mano adattate ad un pubblico o di nicchia (se diretto ad altri epistemologi o filosofi) o generale (nella forma della divulgazione). Questa obiezione coglie due aspetti centrali del nostro discorso: a) La tentazione di definire l’epistemologia in maniera strettamente tematica. L’obiezione suona: dato che non ha alcun senso parlare in termini generali di scienza, sarebbe sempre bene delimitare il proprio ambito e occuparsi di una particolare “filosofia di…” (biologia, fisica, chimica, ecc. senza porre alcuna limitazione al grado di specializzazione). Ma questa via è aporetica, poiché conduce a far coincidere la filosofia con il suo oggetto. Ciò che viene guadagnato in specificità si perde in generalità e, in fondo, non resta nient’altro che un inutile doppione filosofico della scienza presa in esame. Rifiutare la tendenza della teoria filosofica a totalizzare il sapere è certamente possibile, ma il più delle volte inutile. Si può tentare di arginare il ritorno della totalità attraverso particolari accorgimenti istituzionali (dalla frammentazione alla specializzazione alla cancellazione), ma, prima o poi, ci si dovrà fare i conti perché la pratica delle scienze è fatta nel mondo, espressa in discorsi e apparati tecno-scientifici, e il mondo stesso ci si presenta come l’orizzonte di una totalità potenziale e ideale – o, almeno, si impone in questo modo in prima istanza alla nostra attenzione. La tematica scientifica, perciò, non può essere ridotta ad una particolare “ontologia regionale”. Occorre affrancarla da questa lettura restrittiva attraverso un’interpretazione capace di inserirla in un quadro di più ampio respiro. b) L’assegnazione di un’illegittima peculiarità ai prodotti della scienza rispetto ad altri prodotti culturali. La posizione che la scienza occupa nell’insieme della vita umana e della cultura, l’attività degli istituti scientifici, la legittimità della ricerca scientifica e l’uso legittimo della scienza sono oggetto di lotta e di scontro, nella società in generale e nello stesso mondo scientifico. Ogni discorso epistemologico rischia, perciò, di ridursi a discorso giustificativo di una posizione nel campo scientifico oppure di una versione falsamente neutrale del discorso dominante della scienza su se stessa. Le scienze hanno certamente conquistato un grado di autonomia piuttosto elevato nei confronti del mondo sociale, ma tale autonomia è legata a condizioni storiche peculiari che si sono verificate congiuntamente e che possono essere modificate. L’obiezione suona, dunque, così: l’attività scientifica e i suoi prodotti non sono definibili autonomamente in un senso che permetta una definizione saliente del campo epistemologico. La questione, per noi aperta, è se tale autonomia dal punto di vista della legittimità sociale abbia prodotto anche un’autonomia della ragione scientifica, un suo proprio insieme di scopi sganciati dalla funzionalità rispetto ad altre esi-
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genze sociali. Ci sembra che valga comunque la pena di affrontare la questione epistemologica anche se la questione della peculiarità della scienza resta aperta – a patto di considerare aperta la stessa questione dello statuto, delle possibilità e dell’eventuale unità dell’epistemologia. Le due questioni sono evidentemente correlate: si aprono e si chiudono insieme. Corollario: nella misura in cui l’epistemologia riguarda la scienza, ma non è oggetto di specializzazione – ossia, nella misura in cui l’epistemologia è filosofica –, la funzione epistemologica non è riducibile ad uno specifico ruolo. L’epistemologia non è né divulgazione né opera speculativa né nota di colore scientifico per i dibattiti tradizionali della metafisica. La funzione epistemologica viene opportunamente esercitata ogni qualvolta si pongono problemi di mediazione fra le specializzazioni scientifiche e altre pratiche sociali, e per questo è variamente declinabile tanto quanto sono varie queste specializzazioni e queste pratiche. Quanto precede dovrebbe aiutare a comprendere le scelte che hanno portato alla costruzione di questo volume. Abbiamo voluto offrire una selezione di testi non pregiudicata nei confronti della tradizione anglosassone o di quella continentale. Questa distinzione non è così netta nella pratica contemporanea, ma è rilevabile in rapporto agli autori frequentati e allo stile adottato. Ne segue anche una giustificazione della tematica della prima sezione. L’unità o pluralità delle scienze si dice, infatti, in molti modi: con considerazioni gnoseologiche, con il lavoro della divulgazione scientifica, con argomenti capaci di individuare cosa debba valere come scientifico e a che condizioni, con considerazioni speculative o confronti con nuove tendenze scientifiche. I numerosi dibattiti contemporanei sul tema, trasversali alle tradizioni anglosassone e continentale e spesso di natura storiografica, si sono mossi intorno a questa alternativa: esiste la scienza o esistono le scienze? Una risposta a tale questione dovrebbe determinare positivamente, e non speculativamente, la dialettica di autonomia ed eteronomia che sussiste fra la varietà di scienze di volta in volta tematizzata. Da una parte, ogni scienza tende asintoticamente all’autonomia: come una monade, ogni discorso scientifico tende a rispecchiare tutto il mondo, con inclusione delle altre scienze, senza incorrere in alcuna contaminazione della propria e unica prospettiva. Da questa tendenza ricaverebbe la sua interna unità. Ma è facile vedere che questa unità è frammentabile a ogni livello poiché ogni comunità e ogni specialista può essere rappresentato come portatore di una peculiare prospettiva autonoma. D’altra parte, è innegabile che le diverse scienze tendono a mischiarsi e a fecondarsi in maniera promiscua e difficilmente prevedibile. Idealmente, questa tendenza all’eteronomia condurrebbe, in ultimo, a un panorama in cui le diverse scienze potrebbero essere
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intese come affezioni, attributi e modi di un’unica e medesima scienza. Come si vede dai termini usati, questo dibattito è antico almeno quanto la modernità. Restando sotto l’egida della tradizione moderna, ci ritroviamo tra le mani solo due esiti possibili: una scienza in polvere o tante scienze aggregate e appiattite in un monolite. Cercando di fuoriuscirne – lasciando da parte, quindi, distinzioni come quella tra “analitico” e “continentale” – scopriamo che guardare “dall’esterno” alla dialettica di questa dinamica si dimostra molto utile in sede storiografica e di politica scientifico-culturale, poiché permette di stabilire analogie funzionali e omologie strutturali tra scienze che però restano distinte. Un discorso analogo può essere fatto per le altre due sezioni: per liberarci dalle implicazioni più rigide della nostra focalizzazione epistemologica, abbiamo anzitutto dovuto liberarci da alcune coordinate tradizionali e accettare, di conseguenza, una certa misura di disordine. Possiamo ora riassumere il nostro pluralismo critico in tre tesi. La prima: un’epistemologia lucida e impregiudicata, oggi, può essere soltanto un’epistemologia pluralista, che respinga qualsiasi idea rigida del proprio oggetto tematico e dei propri stessi metodi in favore di un atteggiamento flessibile e aperto. La seconda: nessuna teoria epistemologica è efficacemente astraibile dai nessi storico-culturali entro i quali si sviluppa di fatto come prestazione discorsiva. Non può guardare alla scienza o alle scienze dall’alto, per così dire, ma sempre come momento di un discorso che promuove, esplicitamente o implicitamente, una certa determinazione del nesso tra una specifica concezione della scienza e una specifica concezione dell’epistemologia. La terza: indagare le scienze come pratiche concrete, plastiche e unificabili soltanto in senso dinamico, significa rendere questa indagine inestricabile da tutta una serie di domande su verità e conoscenza, da un lato, e sulle politiche e le pratiche scientifiche, dall’altro. Da queste tre tesi risulta la scelta di politica culturale annunciata all’inizio, e implicita nel titolo di questa raccolta: in Italia, infatti, la locuzione “filosofia della scienza” è stata storicamente preferita a “epistemologia”. Di solito, le ragioni per preferire la prima espressione si riducono all’idea che la filosofia della scienza non possa prescindere dalla pratica scientifica e dalle sue espressioni nella realizzazione di apparati tecno-scientifici. Si tratta di una scelta conforme al modello anglosassone, anche se in senso negativo: se epistemology comprende anche la teoria della conoscenza, allora all’epistemologo italiano disinteressato alla conoscenza non resta che fare “filosofia della scienza”. Non si tratta solo di una questione terminologica, perché – al di là delle sovrapposizioni dei due termini nella pratica filosofica usuale – in gioco qui
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c’è il significato di una certa idea di aderenza della filosofia alla scienza, cioè di una certa idea di filosofia scientifica. Da tempo si lotta per definire cosa possa essere una filosofia scientifica, e a giusta ragione: la distinzione tra scienza e non-scienza è profondamente valoriale. Una filosofia scientifica sarebbe una filosofia rigorosa, lucida, metodologicamente consapevole e così via. Ora, un insieme di fattori diversi – tra gli altri: l’appropriazione delle domande “teoretiche” da parte di neoidealismo ed ermeneutica, e la stessa partizione accademica tra filosofia teoretica ed epistemologia; la diffusione disomogenea e spesso acritica, in Italia, della tradizione anglosassone e, in generale, dell’impostazione empirista che lega strettamente l’ottenimento della verità alla questione del metodo scientifico; la prevalenza di un’idea di impegno etico della filosofia anzitutto come impegno civile orientato da una cultura umanista, e lo stesso dominio della partizione tra cultura umanistica e cultura scientifica – ha fatto sì che la scientificità della filosofia venisse interpretata soltanto in senso negativo, cioè attraverso un’autolimitazione o addirittura un collasso della domanda filosofica sulla scienza nella scienza stessa. Questa idea di rigore filosofico come un mettersi da parte, come un autocontenimento delle astrazioni speculative, è stata storicamente favorita dall’emarginazione degli stessi filosofi della scienza, che a loro volta si sono trovati a definire la loro posizione soltanto in contrasto alla filosofia “metafisica” e alla cultura “umanistica” dominante (ci sia concesso, qui, un uso largo di questi termini). A noi sembra oggi opportuno, di contro, che l’epistemologia abbandoni questa posizione di retroguardia riconoscendo che, una volta lasciato il campo alla scienze positive, si è soltanto fatto spazio a una potenza tecnoscientifica ideologicamente caricata. Riprendere l’idea di epistemologia non significa tanto, per noi, aspirare a rientrare nella tradizione anglosassone – la cui opposizione con la tradizione “continentale” resta valida, semmai, per il secolo scorso. Significa, piuttosto, rivitalizzare il nesso tra conoscenza, verità, scienza e politica che quella tradizione riprende da una forma caratteristica di empirismo positivista funzionale tanto alla produzione di utopie politiche quanto dei primi apparati industriali. Questa tensione si ritrova, scavando più a fondo, nelle stesse radici platoniche del razionalismo occidentale. Ma non c’è bisogno di arrivare fin lì per sostenere che, se l’epistemologia è ciò che serve a mediare fra le specializzazioni scientifiche e le altre pratiche sociali, l’opportunità e l’urgenza di questa mediazione sono rese evidenti dal ruolo sempre più pervasivo che la tecnoscienza gioca nell’esistenza di chiunque. Sul lungo termine, dunque, lo scopo del nostro gruppo di lavoro è rimettere in causa l’idea di epistemologia per contribuire a contrastare la pro-
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gressiva frammentazione della riflessione epistemologica in nicchie specialistiche attraverso l’indicazione di un possibile approccio criticamente pluralista e tendenzialmente integrante. Il metodo prescelto non consiste in un rifacimento a priori della teoria della scienza attraverso la produzione di una qualche radicale novità concettuale, ma piuttosto, e più modestamente, nel guardare le pratiche scientifiche appunto come pratiche: cioè come eventi localizzati, ma collocati nello spazio di una potenziale messa in dialogo, di una potenziale sovrapposizione non sistematica ma comunque operativa. Questo volume consiste di un tale montaggio, che nel peggiore dei casi offre il panorama parziale di una serie di problemi e, nel migliore, un percorso collettivo di ricerca. Abbiamo immaginato questa antologia, dicevamo, come un’antologia di punti di fuga. Il punto di fuga, nella teoria della prospettiva, ha un doppio valore: organizza, nel disegno, la paradossale convergenza delle parallele; armonizza il procedimento effettivo del disegno, conferendo unità figurale a una serie di operazioni disparate. È un punto che non c’è, ma funziona. Un’unità non data, ma supposta. Nessuno dei saggi qui raccolti può pretendere di rappresentare un panorama al di là di sé stesso, se non attraverso questa finzione. Viceversa, è solo accettando questa finzione che il lettore o la lettrice possono utilizzare questo libro come un effettivo accesso ad altro: alla ricchezza specifica di ogni dibattito, alle voci qui non espresse, alle sottili parzialità che caratterizzano ognuna delle impostazioni di ricerca presentate, e al punto di fuga sotteso in questa pluralità di problemi. È l’idea della domanda epistemologica come domanda all’incrocio tra verità, conoscenza, storia e politica – sulle direzioni in cui è possibile percorrerlo e su quelle in cui vale la pena percorrerlo effettivamente. Se chi legge finirà per sentire, come noi, l’esigenza di porsi questa domanda e di mettersi al lavoro per risolverla, questa raccolta avrà raggiunto il suo scopo. Sono opportuni alcuni concisi, e tanto più sinceri, ringraziamenti. Grazie, anzitutto, a Roberta Lanfredini per il costante supporto scientifico e materiale, per aver accolto questo volume nella collana da lei diretta e, soprattutto, per la sua amicizia. Grazie a Roberto Revello per aver creduto nel nostro progetto editoriale, e a tutta la squadra di Mimesis per averci aiutato a realizzarlo. Ringraziamo i detentori dei diritti di traduzione dei testi originali qui presentati e, in particolare, Isabelle Alfandary, Charles Alunni, Philippe Canguilhem, Yuk Hui, Bruno Karsenti, Sybille Krämer, George Leaman, Dominique Lestel, Camille Limoges, Giuseppe Longo, Jean-Claude Milner, Maël Montévil, Reza Negarestani, Andreas Petrossiants, Nathalie Queyroux e Anne-Françoise Schmid per averci concesso i
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diritti di traduzione dei relativi testi a titolo gratuito. Vogliamo ringraziare, infine, tutti gli studiosi e le studiose che hanno fatto parte del nostro gruppo di lavoro, tanto per l’appassionante dibattito quanto per il contributo che hanno dato a questa antologia: Emma Barettoni, Valentina Bortolami, Federica Buongiorno, Matteo Caparrini, Marco Ferrari, Mattia Galeotti, Giulia Gandolfi, Fiorella Giaculli, Giovanni Minozzi, Dario Mortini, Marco Pavanini e Francesca Putignano. Bibliografia minima Le esigenze di economia richieste da un’introduzione generale di questo tipo ci hanno indotto a rinunciare a riferimenti bibliografici puntuali. Per evitare una falsa impressione di neutralità, però, ciascuno dei due curatori ha scelto di suggerire tre titoli che hanno influenzato i punti di vista espressi in questo testo d’apertura. Suggeriamo, inoltre, tre testi che propongono un’impostazione alternativa rispetto allo stesso complesso di questioni. Luca Cabassa: 1) E. Melandri, Sette variazioni in tema di psicologia e scienze sociali, Pitagora Editrice, Bologna 1984; in particolare il “Poscritto” alle pp. xv-xxii e “La psicologia come scienza galileiana” alle pp. 1-38. 2) G. Preti, Saggi filosofici, presentazione di Mario Dal Pra, La Nuova Italia, Firenze 1976, 2 voll.; in particolare “Pluralità delle scienze e unità eidetica del mondo scientifico”, vol. I, pp. 497-512. 3) I. Stengers (a cura di), Da una scienza all’altra. Concetti nomadi. Hopefulmonster, Firenze 1988; in particolare I. Stengers, “La propagazione dei concetti”, pp. 9-23. Francesco Pisano: 1) P. Parrini, Il valore della verità, Guerini, Milano 2011; in particolare i capp. VIVIII e l’Appendice conclusiva, pp. 175-233. 2) J. Petitot, Per un nuovo illuminismo, Bompiani, Milano 2009; in particolare il cap. III, pp. 153-182. 3) H. Wang, Beyond Analytic Philosophy. Doing Justice to What we Know, MIT Press, Cambridge-London 1986; in particolare il cap. V, pp. 181-213. Per un approccio alternativo alle tematiche trattate: 1) A. Jaubert e J.-M. Lévy-Leblond (a cura di), (Auto)critica della scienza, Feltrinelli, Milano 1976. 2) J. Ladyman, D. Ross, D. Spurrett, John Collier, Every Thing Must Go: Metaphysics Naturalized, Oxford University Press, New York 2007. 3) A. Pickering (a cura di), Science as Practice and Culture, University of Chicago Press, Chicago-London 1992.
NOTA DI LETTURA
L’ordine di lettura fissato dall’indice costituisce solo un suggerimento, motivato da alcuni fili tematici che legano i testi secondo misure diverse anche all’interno della stessa sezione. Allo stesso modo, anche la distinzione fissata dalle sezioni va considerata come un suggerimento. A seconda delle esigenze, chi legge potrà ritenere utile affrontare prima il testo per poi trovare inquadramenti generali e approfondimenti bibliografici nel commento, o potrà scegliere di fare l’inverso. Per distinguere le note apposte da traduttori e commentatori dei singoli testi tradotti da quelle apposte dai curatori dei testi originali, vengono usate rispettivamente le espressioni [N.d.T.] e [N.d.C.]. In generale, gli interventi sui testi originali sono segnalati da parentesi quadre. Laddove non venissero specificate indicazioni bibliografiche, le citazioni che compaiono nei commenti introduttivi si riferiscono al saggio che segue ciascun commento. Mentre la scelta e l’organizzazione dei testi sono state discusse collettivamente in modo approfondito, le scelte traduttive e stilistiche (relative, ad esempio, alla fedeltà a determinate scelte tipografiche presenti nei testi originali), nelle traduzioni così come nei commenti, sono in ultimo responsabilità degli autori e delle autrici segnalati in calce a ciascun testo. Qualsiasi altro errore presente nel testo è responsabilità dei curatori.
FONTI DEI TESTI ORIGINALI
1.
Simondon, G., Cybernétique et philosophie [1953], in Id., Sur la philosophie. 1950-1980, Presses Universitaires de France, Paris 2016, pp. 35-68. © Presses Universitaires de France / Humensis, 2016. 2. Laruelle, F., La science des phénomènes et la critique de la décision phénoméno-logique, in A.-T. Tymieniecka (a cura di), The Turning Points of the New Phenomenological Era, Analecta Husserliana 34, Springer, Dordrecht 1991, pp. 115-127. 3. Williamson, T., Cognitive homelessness, in “Journal of Philosophy”, XCIII, 11, November 1996, pp. 554-573. Permission granted by The Journal of Philosophy. 4. Barad, K., Meeting the Universe Halfway: Realism and Social Constructivism without Contradiction, in L.H. Nelson e J. Nelson (a cura di), Feminism, Science, and the Philosophy of Science, Springer, Dordrecht 1996, pp. 161-194. 5. Negarestani, R., What is Philosophy? Part One: Axioms and Programs, e-flux journal 67, november 2015, www.e-flux.com/journal/67/60702/what-is-philosophy-part-one-axioms-and-programs/; What is Philosophy? Part Two: Programs and Realizabilities, e-flux journal 69, january 2016, www.e-flux.com/ journal/69/60608/what-is-philosophy-part-two-programs-and-realizabili-ties/. 6. Bachelard, G., Valeur morale de la culture scientifique [1934], in Gil, D., Bachelard et la culture scientifique, Presses Universitaires de France, Paris 1993, pp. 7-11. © Presses Universitaires de France / Humensis, 1993. 7. Canguilhem, G., Nécessité de la “diffusion scientifique”, in “Revue de l’enseignement supérieur”, 3, 1961, pp. 5-15. Courtesy of the Author. 8. Longino, H.E., Multiplying Subjects and the Diffusion of Power, in “The Journal of Philosophy”, 88 (11), 1991, pp. 666-674. Permission granted by The Journal of Philosophy. 9. Haraway, D.J., Primatology is Politics by Other Means, in Proceedings of the Biennial Meeting of the Philosophy of Science Association, vol. 2, The University of Chicago Press, Chicago 1984, pp. 489-524. Permission granted by The University of Chicago Press. 10. Hui, Y., On Cosmotechnics. For a Renewed Relation between Technology and Nature in the Anthropocene, in “Techné: Research in Philosophy of Technology”, 21 (2-3), 2017, pp. 319-341. Courtesy of the Philosophy Documentation Center. 11. Châtelet, G., Singularité, métaphore, diagramme, in Id., L’enchantement du virtuel: Mathématique, physique, philosophie, a cura di C. Alunni e C. Paoletti, Éditions Rue d’Ulm/Presses de l’École normale supérieure, Paris 2010, pp. 69-83.
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12. Ismael, J. e van Fraassen, B.C., Symmetry as a guide to superfluous theoretical structure, in K. Brading e E. Castellani (a cura di), Symmetries in Physics: Philosophical Reflections, Cambridge University Press, Cambridge-New York 2003, pp. 371-92. © Cambridge University Press 2003; reproduced with permission of the Licensor through PLSclear. 13. Longo, G. e Montévil, M., The inert vs. the living state of matter: extended criticality, time geometry, anti-entropy — an overview, in “Frontiers in Physiology”, vol. 3, art. 39, 2012, pp. 1-8. 14. Lestel, D., What Capabilities for the Animal?, in “Biosemiotics”, 4 (1), 2011, pp. 83-102. 15. Fuchs, T., Embodied cognitive neuroscience and its consequences for psychiatry, in “Poiesis and Praxis”, 6 (3-4), 2009, pp. 219-233. Used with permission of Springer Nature; permission conveyed through Copyright Clearance Center, Inc. 16. Mirowski, Ph., Dissembling nature, elusive economy, in F. Gagliardi e D. Gindis (a cura di), Institutions and Evolution of Capitalism, Edward Elgar Publishing, Cheltenham 2019, pp. 44-61. ©Edward Elgar Publishing Limited 2019; reproduced with permission of the Licensor through PLSclear. 17. Karsenti, B., Durkheim. Science et philosophie dans la division du travail, in P. Wagner (a cura di), Les philosophes et la science, Gallimard, Paris 2002, pp. 823-866. © Editions Gallimard, Paris, 2002. 18. Krämer, S., Epistemologie der Medialität: Eine medienphilosophische Reflexion, in “Deutsche Zeitschrift für Philosophie”, 67 (5), 2019, pp. 833-850. Used with permission of De Gruyter; permission conveyed through Copyright Clearance Center, Inc. 19. Milner, J.-C., Lacan et la science moderne, in Collège International de Philosophie, Lacan avec les philosophes, Albin Michel, Paris 1991, pp. 333-351.
UNITÀ E PLURALITÀ
Commento introduttivo a Cibernetica e filosofia di Gilbert Simondon Marco Ferrari 1. Trasdurre la cibernetica Il testo di Gilbert Simondon che ci accingiamo a presentare ci è pervenuto nella forma di un manoscritto di lavoro incompiuto. Rimasto a lungo inedito, esso manifesta tutti i limiti di questo tipo di materiale e, tuttavia, al contempo – perlomeno a nostro avviso – consente, una volta applicatogli una serie di forzamenti che andremo immediatamente a dichiarare, non solo di far luce su uno degli snodi fondamentali della riflessione del filosofo francese – ancora lungi dall’essere stato compiutamente indagato dalla letteratura critica1 –, vale a dire il suo rapporto con la cibernetica, ma anche di derivare alcune implicazioni epistemologiche importanti per le questioni trattate all’interno di questa sezione dell’antologia. In un passaggio che troviamo poco prima della metà del testo è ravvisabile, a questo proposito, una sorta di dichiarazione d’intenti decisiva ai fini dell’argomentazione che cercheremo di sviluppare. “[…] non è sufficiente definire il senso della teoria cibernetica – scrive Simondon. Bisogna anche mostrare quali modificazioni preliminari la sua comprensione esige nella riflessione filosofica e quali trasformazioni la presa di coscienza filosofica può portare nella teoria cibernetica stessa”. Traduciamola, esercitando il primo dei forzamenti a cui abbiamo fatto allusione. Non è sufficiente – sebbene sia fondamentale – produrre una comprensione rigorosa di che cosa sia (stata) la cibernetica; è altrettanto necessario individuarne i limiti e gli impensati: il senso del problema, per dirla con Gaston Bachelard, che essa ha, per molti versi, individuato e contribuito a individuare, ma per cui ha, al contempo, sviluppato soluzioni inadeguate e che, per questa ragione, è necessario tornare a far brillare, riattivare, e provare a declinare in direzioni differenti. Proprio 1
Si vedano, tuttavia, almeno Bardin 2010; Guchet 2010; Iliadis 2013; Blanco e Rodríguez 2015; Hui 2015; Mills 2016.
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in questa direzione, proponiamo di denominare l’operazione messa in atto da Simondon – prendendo in prestito una delle sue categorie – una trasduzione della cibernetica, ovverosia un esercizio di déblocage degli ostacoli epistemologici su cui essa non ha potuto evitare di inciampare, attraverso l’introduzione di una serie di innesti in grado di rivivificare i problemi su cui essa ha contribuito a fare luce al fine di produrne nuove e differenti risoluzioni2. A tal fine, proprio nella misura in cui l’opera di trasduzione della cibernetica compiuta da Simondon costituisce un processo complesso, in divenire e, perciò, oggetto di numerosi andirivieni e cambi di rotta, sarebbe tanto insufficiente, quanto inutile limitarsi a produrre un sorvolo, più o meno completo, di questo manoscritto giovanile. Proveremo piuttosto ad utilizzarlo come un prisma e a fornire, attraverso di esso, una serie di bussole per orientarsi all’interno di tale trasduzione. 2. Epistemologia della cibernetica Non è sufficiente – dicevamo – produrre una comprensione rigorosa di che cosa sia (stata) la cibernetica. E, tuttavia, è al contempo fondamentale. È proprio a tale scopo che l’attraversamento di questo manoscritto simondoniano – insieme e accanto a quello di un altro manoscritto coevo, già disponibile in traduzione italiana, intitolato Epistemologia della cibernetica (Simondon 2018 [EC]) – si dimostra fondamentale. Fondamentale nella misura in cui ci restituisce l’immagine di un Simondon che – unico in quegli anni, all’interno del panorama filosofico francese, ma non solo (Hayward e Geoghegan 2012; Rodríguez 2019, p. 17) – seppe individuare con grande nettezza quella che, a nostro avviso, costituisce la singolarità storico-epocale della cibernetica. Retrivo ad abbracciare tanto la coincidenza, del tutto immaginaria – mitica, per dirla con il titolo di un articolo di Raymond Ruyer a cui Simondon si riferisce in questo manoscritto – tra la cibernetica e una crescente fascinazione per gli orizzonti fantascientifici dischiusi dalla robotica (“Non c’è niente di cibernetico in un robot”), quanto quella squisitamente tecnico-ingegneristica della cibernetica con gli sviluppi sempre più imponenti dell’automazione e della teoria dell’informazione (Fondements de la psychologie contemporaine (1956) [FPC], in Simon2
Prima di noi, anche Ludovic Duhem (2012) e Giovanni Carrozzini (2020) hanno utilizzato questo termine per qualificare una simile operazione. Per una chiarificazione ulteriore del senso complessivo di tale proposta, ci permettiamo di rinviare a Ferrari 2022.
Commento introduttivo a Cibernetica e filosofia di Gilbert Simondon
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don 2015a, pp. 19-270, qui pp. 183-187), il filosofo francese rileva nella creazione di Norbert Wiener, piuttosto, i germi di una nuova assiomatica delle scienze. Nuova rispetto a cosa? Potremmo dire, mantenendoci entro i confini temporali di questi manoscritti, nuova rispetto all’assiomatica di quell’oggettivismo fenomenista che la cibernetica condanna, se presa sul serio, a modificare (EC, p. 16). Oggettivismo fenomenista – i cui portavoce sarebbero principalmente Immanuel Kant e Auguste Comte –, che, secondo Simondon, si sarebbe reso responsabile della valorizzazione a senso unico delle strutture, a discapito delle operazioni, lo studio delle quali sarebbe stato progressivamente estromesso dal perimetro della conoscenza scientifica oggettiva e collocato prima, dopo o al di fuori di essa3. “La nozione stessa di fenomeno – scrive Simondon – nasce da questo divorzio. Il fenomeno non è più l’essere; non è un centro da cui irradia un potere di causalità, non è un principio dinamico, ma solamente un termine che un rapporto matematico lega a un altro termine; il fenomeno è l’essere impoverito, privato di ogni potere operativo […], l’essere divenuto immutabile e sempre identico a se stesso proprio a causa della sua inerzia essenziale” (EC, p. 14). Così facendo, l’oggettivismo fenomenista moderno avrebbe, al contempo, ereditato e rimodulato quell’antico “temperamento eleatico” (EC, p. 30) – secondo il quale non era (e non sarebbe) possibile alcuna conoscenza vera del divenire –, che era rimasto ben saldo anche dopo che “il meccanismo” aveva cessato “di essere un atomismo per diventare un geometrismo con Cartesio” (EC, p. 31). Innestandosi sui motivi di crisi di tale assiomatica – già resi evidenti dall’avvento della termodinamica e dalla progressiva consacrazione delle scienze biologiche (Allagmatica, in Simondon 20132; tr. it. 2011 [A], pp. 769-779, qui pp. 776-777) – la cibernetica avrebbe, al contrario, ribadito la necessità di pensare scientificamente la natura operativa del reale, sancendo l’ingresso in una “nuova epoca scientifica” e rendendo necessaria una “nuova epistemologia” (EC, pp. 26 e 24). Abbiamo detto “pensare scientificamente”, malgrado l’avverbio tecnicamente sia certamente più appropriato su un piano strettamente filologico. “Il terreno cibernetico è in primo luogo tecnico, e non scientifico – scrive, infatti, Simondon” (EC, p. 21). E, tuttavia, a nostro avviso, è proprio nella misura in cui pensa tecnicamente – ovverosia è, nelle parole 3
Emblematiche di tale disposizione sarebbero, secondo Simondon (EC), la collocazione, da parte di Comte, della matematica e della riflessione epistemologica ai confini estremi della sua filosofia positiva, al di fuori delle scienze che hanno un oggetto, e la distinzione di matrice kantiana tra ordine della conoscenza e ordine dell’azione, tra sapere e moralità.
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di Simondon, espressione di una tecnologia riflessiva4 – che la cibernetica sembrerebbe creare le condizioni per pensare scientificamente la natura operativa del reale. In primo luogo, con la loro stessa prassi, i cibernetici hanno fatto luce sull’esistenza di un possibile legame operativo di natura tecnica tra i differenti domini del sapere scientifico, fondato su un regime di compatibilità metodologica – operativa, per l’appunto. “Tecnica interscientifica” o “tecnica all’uso delle scienze”, la definisce talvolta Simondon, nella misura in cui è “guidata da una normatività scientifica” (EC, p. 23). Essa “è costituita dai servizi che una scienza può rendere a un’altra conservando tutto il suo rigore e la sua chiusura strutturale”; assolve realmente un ruolo di mediazione, “ma questo ruolo – precisa il filosofo francese – non si riduce alla sola mediazione strumentale; la mediazione strumentale si accompagna a una mediazione assiomatica”. Mediazione assiomatica nella misura in cui concerne il transito di “strumentazione concettuale sotto forma di tipi di operazioni e di definizioni che possono essere trasportate da un campo all’altro” – da una scienza all’altra (EC, p. 23). Tale terreno – metodologico e non oggettivo, che, a differenza delle pretese fondazionaliste dell’oggettivismo fenomenista, avrebbe il pregio di non rappresentare “una grande ipotesi scientifica che arriverebbe a unificare un ampio campo naturale oggettivo” (EC, p. 18) – costituisce il piano entro cui si muove la riflessione cibernetica. Attività inter-scientifica e sovra-scientifica al contempo, il suo è un “gesto filosofico […] – non punto orizzontale, ma verticale”. Essa transita a tutti gli effetti nello spazio proprio della filosofia – prende il suo posto, aveva affermato Heidegger (1984; tr. it. 2018), in una diagnosi della natura della cibernetica forse troppo astratta, ma non certo priva di interesse5. In secondo luogo, la cibernetica ha contribuito a definire una specifica attitudine; “attitudine che si può avere in ogni disciplina – ci dice il filosofo francese”. Quale? Quella che porta ciascuna scienza a prendere in esame il proprio oggetto nella sua dimensione operativa e la dota di un apparato categoriale adatto 4
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Sulla categoria di riflessività, si veda “Introduction” (Note sur l’attitude reflexive, autour de 1955), in Simondon 2016, pp. 19-25. La valenza epistemologicamente paradigmatica assunta dalla tecnica in Simondon – in un vettore che va dalla tecnologia generale all’allagmatica (Clarizio 2015) – andrebbe distinta, a nostro avviso, sia dal suo significato epistemico – ovverosia, quello concernente il modo di esistenza propriamente tecnico degli oggetti tecnici –, sia dal suo significato psicosociale – vale a dire, quello riguardante il fatto che gli oggetti tecnici possiedono sempre anche un modo di esistenza psico-sociale. “Ma per quale motivo questo aspetto del rapporto tecnologico tra le scienze si chiama cibernetica? Auguste Comte l’avrebbe chiamata filosofia” – si domanda, in una direzione simile, lo stesso Simondon.
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a procedere in tal senso (feedback, meccanismo teleologico, causalità circolare, ecc.). “Attitudine olistica” la definisce anche talvolta Simondon, nella misura in cui “l’oggetto è considerato al pari di un tutto che evolve, che è in grado di regolare [gouverner] o perlomeno di reagire agli impulsi che riceve, in una maniera particolare che testimonia un’elaborazione individuale da parte dell’oggetto dei messaggi che riceve”. 3. Critica dell’epistemologia della cibernetica. Verso l’allagmatica È su questi due vettori – epistemologico e ontologico – che si sviluppa il nuovo Discorso sul metodo della cibernetica. Si tratta di una nuova assiomatica in cui, all’altezza degli anni Cinquanta – se stiamo a quanto afferma nei manoscritti che stiamo prendendo in considerazione e in altro materiale inedito finalmente reso disponibile6 –, Simondon sembra riporre grande fiducia. Sono da interpretare in questo senso, a nostro avviso, gli inviti alla psicologia e alla sociologia ad assumere un’attitudine cibernetica che troviamo in questi manoscritti e i tentativi più organici posti in essere a tal fine altrove (Simondon e La Terrier 1957; tr. it. 1969; FPC). E tuttavia, se prendiamo una conferenza di pochi anni successiva – emblematicamente successiva, però, al 1958, anno di discussione delle sue due tesi di dottorato, L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e d’informazione e Del modo di esistenza degli oggetti tecnici, e di pubblicazione di parti di esse –, intitolata Forma, informazione, potenziali (in Simondon 20132; tr. it. 2011, pp. 731-759), ci troviamo di fronte a una situazione affatto differente. Il motivo di fondo è ancora una volta quello della ricerca di una nuova assiomatica delle scienze (umane, nello specifico). La novità risiede nel fatto che tale ricerca muove dai limiti dei tentativi di assiomatizzazione che l’hanno preceduta, tra i quali troviamo anche quello posto in essere dalla cibernetica. Se leggiamo L’individuazione – di cui questa conferenza costituisce, a nostro avviso, la sintesi più riuscita – e Del modo di esistenza degli oggetti tecnici, infatti, notiamo come Simondon, malgrado continui a riconoscere nella cibernetica un’interlocutrice essenziale, non le risparmi una serie di critiche in luoghi nevralgici della sua trattazione7. Non è questo il contesto per 6 7
Si vedano, in particolare, i materiali raccolti nella sezione Portée philosophique de la technique. Textes inédits, complémentaires à Du mode d’existence des objets techniques, in Simondon 2016, pp. 341-457. È possibile ricavare un’ulteriore prova di tale frattura se si osserva l’evoluzione dei contenuti dei corsi di psicologia che Simondon elargì, a partire dal 1950, pri-
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affrontarle in tutta la loro complessità. È opportuno, tuttavia, riconoscere in queste critiche i luoghi dello scivolamento della cibernetica in direzione di quell’assiomatica dell’oggettivismo fenomenista rispetto alla quale, secondo Simondon, essa aveva prodotto uno scarto e, al contempo, i luoghi del rilevamento di quegli impensati a cui abbiamo fatto riferimento all’inizio di questa presentazione. Accenniamoli solamente: i) la mediazione inter-scientifica della cibernetica, anziché produrre analogie reali e operative, procederebbe per individuazione di rassomiglianze immaginarie e strutturali (A, pp. 774-775), risolvendosi, così, nell’ennesimo tentativo ideologico e pseudo-scientifico di fondazione aprioristica e generica delle scienze; ii) la trattazione cibernetica della nozione d’informazione tradirebbe il suo permanere all’interno di un’ontologia determinista, sebbene non meccanicista e, tutto sommato, checché ne dica Simondon proprio in questo manoscritto, sostanzialista, sebbene declinata in senso dinamico e genetico-evolutivo8. Per certi versi, non sarebbe scorretto rilevare nei principi fondamentali della proposta simondoniana – denominata, invero poco felicemente, allagmatica – (anche) la presa in carico di tali impensati. All’altezza del manoscritto che le lettrici e i lettori andranno a leggere non ci troviamo, tuttavia, ancora a questo punto. Al suo interno, i confini tra l’epistemologia della cibernetica, la critica di quest’ultima e l’allagmatica sono ancora poco netti9. Ciò che la cibernetica, agli occhi di Simondon, avrebbe potuto
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ma all’Istituto di Touraine e all’Università di Poitiers e poi alla Sorbonne. Dopo il 1958, i riferimenti alla cibernetica si diradano fino a scomparire e, contemporaneamente, si assiste a un tentativo, da parte di Simondon, di ripensare lo statuto della psicologia a partire dalla riflessione sull’individuazione condotta nelle sue tesi di dottorato. Per quanto concerne la sociologia, il luogo della frattura, che sarà ripreso anche altrove (Simondon 20122; tr. it. 2020), è già nominato all’interno di questo manoscritto: l’inadeguatezza della categoria cibernetica di omeostasi per pensare la natura del sociale. Sul tema, in maniera più approfondita, ci permettiamo di rinviare a Bardin e Ferrari 2022. In tutt’altra direzione procede la riforma simondoniana dell’informazione attraverso l’individuazione. Per Simondon, l’informazione non è una cosa, ma “l’operazione di una cosa che giunge in un sistema e vi produce una trasformazione” (L’amplification dans les processus d’information (1962), in Simondon 2015b, pp. 157-176, qui p. 159); non è una forma, né un insieme di forme, ma “la variabilità delle forme, l’apporto di una variazione in rapporto a una forma” (Simondon 20122; tr. it. 2020, p. 154). Si scorgono alcuni tratti di ciò già nel paragrafo di questo manoscritto consacrato alla trattazione della questione della causalità. I sintomi più evidenti di tale cortocircuito si hanno, a nostro avviso, nel paragrafo del manoscritto dedicato alla produttività di un’estensione della teoria cibernetica alla fisica e alla biologia.
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essere si confonde con quanto essa è realmente stata. Se ne apprezzerà, tuttavia, après coup, il carattere dialettico e processuale, sintomo luminoso di un pensiero complesso e in costante divenire. Riferimenti bibliografici Bardin, A. 2010 Epistemologia e politica in Gilbert Simondon. Individuazione, tecnica e sistemi sociali, FuoriRegistro, Vicenza. Bardin, A., Ferrari, M. 2022 Governing Progress: From Cybernetic Homeostasis to Simondon’s Politics of Metastability, in “The Sociological Review”, 70, 2, pp. 248-263. Blanco, J., Rodríguez, P. 2015 Sobre la fuerza y la actualidad de la teoría simondoniana de la información, in J. Blanco et al. (a cura di), Amar a las máquinas. Cultura y técnica en Gilbert Simondon, Prometeo, Buenos Aires, pp. 95-120. Carrozzini, G. 2020 Variazioni su Simondon, Castelvecchi, Roma. Clarizio, E. 2015 Dalla “tecnologia generale” alla filosofia sociale. L’epistemologia analogica di Canguilhem e Simondon, in “Lessico di etica pubblica”, 5, pp. 66-76. Duhem, L. 2012 Apeiron et physis. Simondon transducteur des présocratiques, in “Cahiers Simondon”, 4, pp. 33-66. Ferrari, M. 2022 Simondon nella storia della filosofia, in “Philosophy Kitchen”, 22 maggio, URL: . Guchet, X. 2010 Pour un humanisme technologique. Culture, technique et société dans la philosophie de Gilbert Simondon, Puf, Paris. Hayward, M., Geoghegan, B.D. 2012 Introduction. Catching Up With Simondon, in “SubStance”, 41, n. 3, pp. 3-15.
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Gilbert Simondon
CIBERNETICA E FILOSOFIA
Manoscritto di lavoro, incompiuto, conservato in un dossier dal titolo “Ricerche filosofiche”1 Se il pensiero filosofico può essere definito riflessione incondizionata su ogni dato che l’esperienza spontanea presenta come problematico, quello stesso pensiero filosofico non può erigersi a giudice o paladino della giustizia a beneficio di una causa situata nel mondo delle opinioni. La filosofia non è un dominio di pensiero che ha delle frontiere con altri domini limitrofi e vive con essi, in pace o in guerra. Essa non può rappresentare un’applicazione del pensiero alla difesa degli interessi, spirituali o temporali, che l’esperienza vitale predetermina e valorizza, perché in tal caso perderebbe il suo senso riflessivo. Il programma filosofico comporta come unica obbligazione l’apertura del sistema riflessivo: la sua prima funzione è, dunque, una funzione di servizio [fonction d’accueil] grazie alla quale i domini che
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Al momento della stesura di questo testo (così come di Epistemologia della cibernetica (Simondon 2018), Simondon sta lavorando per creare un gruppo di ricerca in cibernetica che riunisca filosofi e scienziati attorno all’École normale supérieure. Questo progetto non ha avuto successo, ma la cibernetica e la teoria dell’informazione occupano un ruolo determinante nell’insieme della sua opera. Egli ne offre un’esposizione approfondita nel 1956 in Fondements de la psychologie contemporaine (in Simondon 2015a, pp. 190 e ss.). Nel 1952 Simondon incontra un collaboratore di Norbert Wiener negli Stati Uniti; è incaricato della segreteria e della preparazione degli atti del convegno di Royaumont del 1962 su Il concetto d’informazione nella scienza contemporanea, dove presenta una relazione (L’amplification dans les processus d’information, in Simondon 2015b, pp. 157-176). Nell’una e nell’altra delle sue due tesi, dopo un’esposizione attenta e comprensiva, conclude con una posizione critica: cfr. Simondon 20132; tr. it. 2011 per esempio pp. 299, 329, 716, e Simondon 20122; tr. it. 2020, pp. 49-50, 121, 127, 165-168. Cfr. anche il Cours sur la communication, in Simondon 2015b, pp. 53-156 [N.d.T. Questa, come tutte le note successive, non sono di Simondon, ma delle curatrici del testo – N. Simondon e I. Saurin. Le note del traduttore verranno, invece, contrassegnate tramite la sigla N.d.T. e le parentesi quadre].
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l’esistenza umana scopre come affetti da un carattere problematico sono riconosciuti, portati alla luce e sottomessi alla prova riflessiva. Non si deve, pertanto, reputare la comparsa nella coscienza di un nuovo campo di ricerche come una nuova “influenza” subita dal pensiero riflessivo. In realtà, se il pensiero filosofico è davvero riflessivo, l’emergenza di un nuovo campo di riflessività costituisce un fatto cruciale tanto per gli elementi in precedenza spontanei di quel campo, quanto per il pensiero riflessivo che si è appena rivolto verso di esso. Se volessimo utilizzare una metafora topologica inadeguata, dovremmo dire che ogni invasione del pensiero filosofico da parte di una nuova problematica spontanea innesca a sua volta un’invasione di questa problematica spontanea da parte dell’attività filosofica. Così, nel corso della storia, la problematica spontanea del governo della città, della conoscenza esatta, dei conflitti sociali hanno invaso la coscienza filosofica suscitando a loro volta un’invasione, sotto forma di teoria politica, teoria logica, teoria sociale. La soglia che separa lo spontaneo dal riflessivo è dunque superata innanzitutto nel senso che va dallo spontaneo al riflessivo, poi in quello che va dal riflessivo allo spontaneo. Ora, il caso presiede a questo primo incontro di una nuova problematica spontanea e della coscienza riflessiva. Infatti, se bisogna ammettere che ogni uomo è in qualche misura un cittadino e un individuo integrato all’interno di una classe sociale, non è raro, d’altro canto, che un uomo non sia affatto iniziato a una branca particolare della tecnica, dell’arte, della scienza, della vita religiosa. Perciò, l’esistenza di una nuova problematica all’interno di un dominio dell’attività umana non può superare la soglia del pensiero filosofico; a livello della spontaneità, una problematica può rimanere implicita senza apparire come una problematica; la sua realtà si traduce solamente, nella situazione vissuta, in una presenza negativa, una difficoltà insormontabile, un germe di morte e assurdità che esige un cambiamento di piano, una μετάβασις εἰς ἄλλο. Questo cambiamento d’ordine costituisce l’accesso alla riflessività. E il pensiero filosofico ha un senso perché il passaggio alla riflessività non può compiersi, in un dominio chiuso dalla spontaneità, con le sole forze, dati o strutture, che la situazione comporta; ma essa fornisce il ricordo delle prove passate che ha potuto portare a compimento, un carico relativamente universale di schemi, di concetti e di “gesti filosofici” che assumono un senso particolare nella nuova situazione. Si ritrova qui tutto il senso simbolico della maieutica antica: una problematica vitale può essere svelata dalla nascita di un nuovo individuo; il ruolo complessivo del gesto maieutico è quello di separare il nuovo essere individualizzandolo, donandogli autonomia di esistenza. Una problematica è svelata dall’aggiornamento di una nuova topologia dell’essere.
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Se il criterio attraverso cui è possibile riconoscere una problematica spontanea è, secondo l’espressione di Jankélévitch, la presenza di un elemento “tanatologico” all’interno della situazione, l’esistenza delle società umane d’oggigiorno manifesta un chiaro aspetto tanatologico in un dominio molto vasto: il rapporto dell’uomo all’automatismo tecnico. L’interesse che questo nuovo campo presenta per il pensiero filosofico è il fatto che, per la prima volta nella storia, è l’attività tecnica a chiamare in suo soccorso la riflessione filosofica. È dunque possibile che il “gesto filosofico” necessario per operare la modificazione topologica sia, in questo caso, particolarmente difficile e anche particolarmente fecondo, tanto per i suoi risultati per la tecnica (invasione di ritorno) quanto per le modificazioni strutturali che saranno state necessarie all’interno del pensiero filosofico. Come in tutti i casi precedenti, il pensiero filosofico dovrà presentarsi con tutti i suoi strumenti, tutta l’universalità della sua cultura e le forze dei suoi mezzi; ma è anche possibile che questa prova lo modifichi, lo obblighi a riorganizzarsi e a prendere coscienza di se stesso in modo nuovo. Infatti, la tecnica non contiene solamente gli elementi di una situazione umana che possono essere spiegati in termini umani; essa contiene i rapporti dell’uomo e del mondo, di una natura e di una coscienza. A causa probabilmente di questa natura mista, la tecnica era stata considerata fino ad oggi come una serva senza problemi, senza interiorità, senza autonomia. Il pregiudizio sociale che conduce al disprezzo dei servitori aveva rigettato la tecnica fuori dalla riflessione chiara: essa era utilizzata, ma non pensata. Ora, questa nuova problematica non potrà entrare nella coscienza filosofica senza che quest’ultima abbia universalizzato abbastanza i suoi schemi per poter pensare in maniera adeguata l’operazione tecnica. Possiamo considerare l’opera di Norbert Wiener pubblicata nel 1948 e chiamata Cybernetics – con il sottotitolo seguente: Control and communication in the animal and the machine – un nuovo Discorso sul metodo. Norbert Wiener è professore di matematica all’Istituto di Tecnologia del Massachusetts; è anche “Guest Investigator” all’Istituto Nazionale di cardiologia del Messico. L’autore spiega che la parola Cibernetica è stata scelta per designare l’intero dominio del controllo [commande] e della comunicazione [communication], per via del termine κυβερνήτης (pilota). Dall’altro lato, scegliendo questo vocabolo, a Norbert Wiener piace riconoscere che “il primo significativo scritto sui meccanismi a feedback è un articolo sui regolatori (governors) pubblicato da Clerk Maxwell nel 1868” e che “governor” (regolatore) deriva da una corruzione latina di
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κυβερνήτης. L’autore desidera, d’altro canto, riferirsi al fatto che “i motori per il governo delle navi sono una delle prime e meglio sviluppate forme di meccanismo a feedback” (La cibernetica, p. 20)2. Norbert Wiener, che è stato così condotto a battezzare questa nuova disciplina nell’estate del 1947, indica le circostanze della sua nascita: essa deriva da un programma di lavoro intrapreso da Norbert Wiener in collaborazione con il Dr. Arturo Rosenblueth, da più di dieci anni. Il Dr. Rosenblueth, collega e collaboratore del compianto Dr. Walter B. Cannon, dirigeva una serie di sedute di discussione di giovani uomini di scienza della Scuola di Medicina di Harvard; ci si riuniva per cenare attorno a una tavola rotonda nella Vanderbilt Hall, senza prerogative; dopo il pasto, qualcuno, membro del gruppo o invitato, doveva leggere una presentazione su un soggetto scientifico, all’interno del quale era accordato un ampio spazio alle questioni di metodologia: bisognava mostrare un senso critico acuto – generoso, ma senza riserve. “Era una perfetta catarsi per le idee non ben maturate, per l’insufficiente autocritica, per l’eccessiva presunzione e per l’ampollosità” (p. 23). Nel corso di queste riunioni, si è scoperto che i terreni più fecondi per lo sviluppo delle scienze sono quelli che sono stati trascurati in quanto no man’s land tra i differenti domini costituiti. Ora, dopo Leibniz, forse nessuno, dichiara l’autore, ha potuto abbracciare l’insieme [ensemble] dell’attività intellettuale della propria epoca: da quel momento, la scienza è stata sempre di più il lavoro degli specialisti, dentro a domini che manifestano una tendenza a divenire sempre più chiusi. Cent’anni fa, non c’erano più dei Leibniz, ma c’era un Gauss, un Faraday, un Darwin. Oggi, ci sono ben pochi scienziati che possono definirsi, senza riserva, matematici, fisici, biologi: ognuno è topologo, acustico, specialista 2
D’ora in avanti citeremo dalla traduzione italiana della seconda edizione di Cybernetics, or control and communication in the animal and the machine (Wiener 1961; tr. it. 1982) – pubblicata da Wiener nel 1961, con l’aggiunta, rispetto alla prima edizione del 1948, di due capitoli (IX. Macchine ad apprendimento e ad autoriproduzione e X. Onde cerebrali e sistemi autoorganizzanti) e una prefazione –, malgrado per ragioni temporali evidenti (il manoscritto che stiamo traducendo è stato fatto risalire al 1953) Simondon si riferisca alla prima edizione. Facciamo questa scelta – consentitaci dal fatto che la seconda edizione di Cybernetics costituisce un ampiamento rispetto alla prima, ma, per quanto concerne il corpo del testo originario, in nessuna parte una sua modificazione consistente – essenzialmente per ragioni di resa stilistica e scientifica. Per una traduzione italiana della prima edizione di Cybernetics, si veda Wiener 1948; tr. it. 1968. Anziché indicare gli estremi di ciascuna citazione, diretta o indiretta, attraverso delle note a piè di pagina, abbiamo preferito conservare i riferimenti più “approssimativi” inseriti da Simondon nel corpo del testo, in ottemperanza alla forma-manoscritto. [N.d.T.]
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dei coleotteri. Ognuno è riempito del gergo del proprio dominio e conosce tutta la letteratura che lo riguarda, e le sue ramificazioni, ma, il più delle volte, considera il soggetto vicino come qualcosa che appartiene al suo collega, alla terza porta del corridoio, e reputa ogni sguardo sul suo territorio come una violazione ingiustificabile di monopolio (p. 24). Questi domini specialistici si sviluppano incessantemente e invadono nuovi territori. Il risultato è simile a quello che produce l’invasione simultanea dell’Oregon da parte dei coloni degli Sati Uniti, dell’Inghilterra, del Messico, della Russia: un groviglio inestricabile di esplorazioni, di nomi, di leggi. “Vi sono campi di lavoro scientifico che, come vedremo in questo libro, sono stati esplorati dai differenti punti di vista della matematica pura, della statistica, dell’elettrotecnica e della neurofisiologia; nei quali ogni singola nozione riceve da ogni gruppo un nome diverso, e dove rilevante quantità di lavoro viene triplicata o quadruplicata, mentre altro considerevole lavoro è ritardato dalla mancanza, in un campo, di risultati che possono già essere diventati classici nel campo vicino” (La cibernetica, pp. 24-25). Questa è, dunque, l’origine della Cibernetica secondo Norbert Wiener: la volontà di esplorare le “zone vergini sulla carta della scienza”. Come vediamo, quest’opera non può che essere collettiva. D’altra parte, essa non è una specialità. Infatti, questi spazi bianchi della carta della scienza non possono collocarsi allo stesso livello di domini già stabiliti, riconosciuti, teorizzati. Passare da una moltitudine di specialità al livello delle “zone vergini” significa forse cambiare di livello e questo cambiamento costituisce l’accesso a un dominio riflessivo. C’è un gesto filosofico all’interno di questa metábasis – non punto orizzontale, ma verticale. La Cibernetica è la presa di coscienza filosofica di una problematica spontanea il cui terreno è quello di una tecnologia universale. Qui, ci permettiamo di aggiungere un’osservazione alla presentazione di Norbert Wiener, tradotta e riportata qui sopra. Di che natura sono le relazioni tra i differenti domini del sapere scientifico? Queste relazioni sono di due specie profondamente differenti: una scienza può incontrare un’altra scienza mediante un progressivo sconfinamento sul suo oggetto (è l’immagine della colonizzazione dell’Oregon) – così la biologia studia le forme cristalline perché i virus filtranti si presentano sotto forma cristallina; ma una scienza può incontrare un’altra scienza perché ha bisogno di essa come tecnica [comme technique] all’interno di un dominio da cui essa non cerca di uscire. Qui non c’è antagonismo nell’oggetto, ma possibile conflitto nell’incorporazione a un dominio di una scienza vassalla da parte di una scienza sovrana: bisogna allora che i
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due metodi – vassallo e sovrano – possano accordarsi. Da lì, un’esigenza di compatibilità tra due o più metodi scientifici. È così che la neurologia fa appello alla fisica come scienza vassalla per analizzare, attraverso i filtri di sequenza, i potenziali complessi rivelati dall’elettroencefalografia (analizzatore di Grey Walter). Ora, in ogni dominio, la scienza punta a una teorizzazione dell’esperienza; il gesto scientifico è libero. Importa solo il risultato teorico di tale gesto. L’attività operativa della scienza non ha, all’interno di ogni dominio, che un solo controllo [contrôle]: la compatibilità con l’esperienza, dunque con l’oggetto. Qui, al contrario, quando una scienza ha bisogno di un’altra scienza che ingaggia come tecnica [comme technicienne], i rapporti tra queste due scienze sono rapporti di compatibilità operativa. Alla compatibilità con l’oggetto si aggiunge una richiesta di compatibilità metodologica. Capiamo allora perché i rapporti uomo a uomo tra i ricercatori assumono così tanta importanza agli occhi di Norbert Wiener. L’atto scientifico è compiuto da una pluralità di soggetti che vivono in simbiosi intellettuale. Ugualmente, questa compatibilità operativa, norma di questo gruppo di soggetti, diventa sovra-scientifica [supra-scientifique] (se la scienza si limita a essere conoscenza teorica e specializzata di un oggetto). All’interno della compatibilità operativa inter-scientifica [inter-scientifique], quando non sovra-scientifica, si scopre un modo di relazione all’oggetto che non è più solo scientifico, ma tecnico. Infatti, la relazione tecnica soggetto-oggetto è più ricca della relazione scientifica. Quest’ultima è astratta e riguarda il caso limite di un oggetto non modificato dalla presa di conoscenza e senza relazione con il mondo (sistema isolato). Nella relazione tecnica, al contrario, l’oggetto è considerato nella totalità concreta dei suoi aspetti, nella sua relazione con il soggetto conoscente e con il mondo. Le no man’s land tra le scienze particolari non sono una scienza particolare, ma un sapere tecnologico universale, una tecnologia inter-scientifica che non è rivolta a un oggetto teorico ritagliato all’interno del mondo, ma a una situazione. Questa tecnologia delle situazioni può pensare e trattare allo stesso modo un caso di vertigine mentale in un alienato e un tropismo in un insetto; una crisi di epilessia e un regime di oscillazione di rilassamento in un amplificatore a impedenza comune di alimentazione; un fenomeno sociale e un fenomeno meccanico. È sufficiente, per definire l’interesse e la natura della cibernetica – questa tecnologia inter-scientifica –, far comprendere che essa non cerca di identificare un processo complicato con un processo più semplice – come si crede molto volgarmente – (per esempio, il pensiero umano con il fun-
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zionamento di un sistema meccanico), ma di stabilire delle equivalenze tra situazioni differenti nelle quali lo scienziato si trova in presenza di questo o quell’oggetto. Lo psichiatra, il medico, l’elettronico, il sociologo, il biologo possono trovarsi in situazioni equivalenti in presenza di oggetti molto differenti, ognuno nel suo dominio. Una situazione può esser detta equivalente a un’altra quando lo stesso gesto tecnico modifica queste situazioni allo stesso modo. L’equivalenza non è un’identità nella natura degli oggetti, ma nell’attività operativa che si deve esercitare su di essi per modificarli allo stesso modo. È un’analogia se si intende per analogia non un rapporto d’identità (somiglianza o similitudine), ma identità di rapporti, precisando che si tratta di rapporti operativi. Ma per quale motivo questo aspetto del rapporto tecnologico tra le scienze si chiama cibernetica? Auguste Comte l’avrebbe chiamata filosofia. La verità è che la considerazione del controllo e delle relazioni di comunicazione nell’oggetto costituisce un buon criterio per designare l’attitudine operativa dello scienziato di fronte al suo oggetto: l’oggetto è considerato al pari di un tutto che evolve, che è in grado di regolare [gouverner] o perlomeno di reagire agli impulsi che riceve, in una maniera particolare che testimonia un’elaborazione individuale da parte dell’oggetto dei messaggi che riceve: i suoi rapporti con il mondo non sono semplici influenze, scambi attivi o passivi di energia istantanea; l’oggetto è considerato qui al pari di un sistema olistico che ha con il mondo i rapporti che un individuo ha con un ambiente [milieu], o con una società, o anche che una società ha con una società. Non bisogna, dunque, cominciare col definire un oggetto della Cibernetica, come si definirebbe l’oggetto della cristallografia o dell’ottica, ma, al contrario, definire l’attitudine cibernetica presso lo scienziato, attitudine che si può avere in ogni disciplina. La Cibernetica rappresenta l’attitudine fenomenologica all’interno della riflessione scientifica. Si sarebbe potuta battezzare con un altro nome; per esempio, “eziologia” o “organologia”, dal momento che la situazione cibernetica è quella in cui l’essere diviene in qualche misura “causa sui”, tramite la ricorrenza della causalità, o perché la relazione olistica e la condotta olistica appaiono quando un essere possiede una struttura, come ha mostrato Goldstein nel suo studio su L’Organismo3. Non ci sono, tuttavia, un certo numero di scienze che sono radicalmente estranee al pensiero cibernetico? La risposta deve dipendere dal livello di 3
Cfr. Goldstein 1934; tr. fr. 1952; tr. it. 2010. [N.d.T.]
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sviluppo di queste scienze. Ogni ricerca comincia con l’essere analitica e con il supporre che la misurazione non modifica l’oggetto. Poi, dopo aver raggiunto un più perfetto sviluppo, essa sostituisce a questa prima considerazione dell’oggetto una valutazione olistica, nella quale l’evoluzione, continua o discontinua dell’oggetto, e la relatività della misurazione rispetto al misuratore possono essere scientificamente apprezzate. Così, la biologia delle “combustioni”, trattando l’organismo come un motore termico le cui performance possono essere misurate dalla camera calorimetrica, esclude la cibernetica; la biologia neurologica, o lo studio della regolazione ormonale all’interno dell’organismo, invita, al contrario, alla concettualizzazione operativa della cibernetica. Nel primo caso, infatti, ciò che è vero per tutto l’organismo lo è anche per una parte; nel secondo caso, la considerazione olistica è primordiale. In questa definizione del senso della cibernetica, bisogna distinguere l’attitudine cibernetica, o attitudine olistica (valida in ogni scienza che abbia raggiunto un grado sufficiente di sviluppo), dalle ricerche tecniche in automazione. L’automazione non è la cibernetica: è un settore della tecnica che, per la sua posizione, è obbligata a stabilire delle relazioni tra operatori umani e macchine automatiche: è l’automazione applicata, che costruisce dei meccanismi utili. Accanto a questa automazione applicata, sarebbe possibile concepire un’automazione pura, o automazione teorica, che costruirebbe dei montaggi in fisica e istituirebbe delle esperienze in biologia che avrebbero come solo fine quello di studiare la condotta olistica di un insieme; l’omeostato di Ashby costituisce un esempio di oggetto per una tecnologia dell’automazione pura: si può avere così una tecnica pura, come c’è una scienza pura, e questa tecnica pura è la cibernetica. Sono passati cinque anni dalla pubblicazione dell’opera di Norbert Wiener. Lo stesso autore ha proseguito l’applicazione che l’ultimo capitolo de La cibernetica faceva del nuovo metodo alla sociologia nella sua nuova opera tradotta in francese con il titolo Cybernétique et société4. Inoltre, molti autori, in Francia e fuori dalla Francia, hanno compiuto uno sforzo ragguardevole per far entrare la Cibernetica nel dominio della riflessione filosofica. Tra loro, Couffignal, ne Les Machines à penser, ha proseguito in modo approfondito, serio e onesto, un bello studio cominciato nel 1933, nella sua opera su Les Machines à calculer, leur principe, leur évolution. Pierre de Latil ha compiuto un gran bel tentativo di sintesi, approfondita e riflessiva, ne Il pensiero artificiale. Introduzione alla 4
Cfr. Wiener 1950; tr. it. parziale 20122. [N.d.T.]
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cibernetica del 1953. Louis de Broglie ha istituito delle conferenze di Cibernetica e la Revue d’Optique ha pubblicato i risultati di queste riunioni, che raggruppano le presentazioni di Fortet, Indjoudjian, Blanc-Lapierre, Aigrain, Oswald, Gabor (La cybernétique, théorie du signal et de l’information, Réunion d’études et de mises au point tenues sous la direction de Louis de Broglie, 1951)5… Un ingegnere ingegnoso ha saputo interessare i giovani a questi problemi6. Tuttavia, malgrado tentativi così vari, sforzi così belli, bisogna dire che la Cibernetica non ha superato, in Francia, la soglia del pensiero filosofico. Sarebbe altrettanto corretto dire che il pensiero filosofico non ha superato la soglia della riflessione cibernetica. I filosofi, fino a qui, hanno soprattutto preso posizione contro ciò che credono sia la cibernetica: possibile invasore di territori riservati, pericolo per la libertà e la dignità umana, pericoloso epigono del vecchio scientismo, forse materialista. Certo, è facile fare la psicoanalisi del gusto per la cibernetica, confondendo cibernetica e costruzione di robot. È facile, con il sarcasmo o tramite osservazioni marginali, gettare il ridicolo sui nuovi tentativi. In qualunque società, il misoneismo ha una carriera assicurata. Ma se l’insieme dei filosofi costituisce un corpo sociale, un ordine dei filosofi che si preoccupa di difendersi contro l’introduzione di un pensiero nuovo senza conoscerlo porta a pensare che la riflessione filosofica sia scomparsa da quest’ordine dei filosofi, capaci solamente di tradurre o di riprendere il passato, non di inventare. Se dobbiamo entrare in un Nuovo Medioevo in cui si confonderà, volontariamente o per mancanza d’informazione, mito popolare e ricerca scientifica, ciarlatanismo e lavoro costruttivo, non è compito dei filosofi difendere una società vecchia o un pensiero ufficiale contro il pericolo apparente di una riforma intellettuale. Questa psicoanalisi difensiva, che traccia un bilancio del mito e della realtà nella cibernetica per ridurla a una teoria dell’informazione, confonde l’amore popolare per il robot e la tecnologia dei sistemi olistici. Non c’è niente di cibernetico in un robot. Il robot inizia con la statua (ἀνδριάς), imitazione immobile dell’uomo, ξόανον (“immagine scolpita nel legno”) fisso e congelato, con due gambe unite in un unico tronco, che Dedalo rende sfuggente e più simile all’uomo slegandogli le gambe e a cui la decadenza greca aggiunge la profondità dello sguardo scavando le sopracciglia. La statua di Memnone, che emetteva suoni quando il sole la 5 6
Si vedano, rispettivamente, Couffignal 1933; 1952; Latil 1953; tr. it. 1962; Broglie 1951. [N.d.T.] Per una presentazione dettagliata su questo punto, si veda G. Simondon, Fondements de la psychologie contemporaine (1956), in Simondon 2015a, pp. 19-270.
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colpiva all’alba, è un robot. Il robot è un’imitazione dell’uomo la cui finalità funzionale è quella di imitare l’uomo. Il robot suppone dunque uno spettatore per il quale l’illusione esiste; un terzo termine che è la coscienza spettatrice al di là dell’imitatore e dell’unità. Al contrario, l’automa non ha per fine quello di imitare, né per oggetto l’illusione; non suppone una coscienza spettatrice; ha per fine quello di adempiere a un compito senza essere diretto da un uomo, vale a dire di essere un sistema olistico, che ha in sé la fonte e il principio della direzione del suo movimento. Come osserva perfettamente Couffignal nel suo studio su Les Machines à penser, l’automa adempie a un compito a cui l’uomo potrebbe adempiere, non imitando l’uomo, ma secondo metodi talvolta estremamente differenti. Così, la macchina calcolatrice dell’Istituto Blaise Pascal impiega un sistema numerico binario che l’uomo non potrebbe impiegare se non con un’estrema tensione di spirito e accettando un grande disagio; l’uomo, al contrario, perviene ai medesimi risultati impiegando un sistema numerico decimale, che sarebbe molto ingombrante e paralizzante per una macchina considerevole, esigendo un numero molto più grande di organi. L’automa si basa dunque sul principio di equivalenza dei metodi che consente di adempiere a una medesima funzione, comportando ogni struttura l’utilizzo di un metodo appropriato alla struttura. Si vede, dunque, che la teoria dell’automatismo non può in alcun modo condurre a una riduzione dell’uomo a robot. Il robot non è un oggetto della cibernetica. Infatti, un robot non è necessariamente un automa [automate]: è possibile concepire un robot eteroma [hétéromate], mosso da qualche dispositivo di telecomando. D’altronde, anche quando il robot è automa è raro che compia un’azione differente dallo svolgimento di un meccanismo preformato, regolato dal costruttore; il suo funzionamento non è quello di un sistema olistico. Si riconosce il funzionamento di un sistema olistico dal fatto che l’attività del sistema è modificata in modo permanente dai risultati di questa attività; la relazione con il mondo è così integrata allo svolgimento del meccanismo, che diviene “meccanismo teleologico”. Questa ricorrenza degli effetti dell’attività sull’attività si chiama reazione, feed-back, o risonanza interna. Con la reazione comincia il sistema cibernetico. Per classificare dei sistemi spesso confusi, dobbiamo stabilire una gerarchia in tre gruppi: quello dei robot, pure imitazioni; quello degli automi senza reazione (per esempio, un orologio, automa la cui funzione è quella di suonare ogni ora, un carillon con o senza statuette); infine, quello degli automi a reazione (per esempio, un motore termico a regolatore automatico, un sistema di riscaldamento a termostato, una postazione di pilotaggio automatico per una nave, il regolatore
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denominato “governor” che le università americane impiegano sulle automobili prestate ai professori e che chiude l’ammissione del carburatore quando il conducente vuole andare a una velocità eccessiva; quest’ultimo dispositivo risponde a due ambienti [milieux]: l’ambiente geografico e l’ambiente umano rappresentato dal conducente; l’automobile possiede tutta la sua potenza su un lato, ma perde la sua potenza quando, in piano o in discesa, il conducente accelera troppo). Oltre a questi tre gruppi fondamentali, si trovano i sistemi a scatto riflesso [déclenchement réflexe]: sono gli automi del secondo gruppo o del terzo gruppo, la cui entrata in attività è condizionata da un messaggio esterno: tale è il complesso scala mobile e cellula fotoelettrica o il complesso oscillatore a capacità esterna e relè che controlla lampade e statuette: lo scatto automatico [déclenchement automatique] è del secondo gruppo (determinato senza reazione). Una macchina calcolatrice è di questo tipo, dal momento che non ha relazione reattiva con l’adempimento della sua attività attraverso le sue conseguenze all’interno dell’ambiente esterno; il programma fornito alla macchina agisce come messaggio esterno che predetermina le azioni da compiere, così come l’iscrizione dei dati: non esiste ambiente [milieu] per una macchina calcolatrice; calcolo finito, la macchina registra i suoi risultati in un linguaggio chiaro per l’operatore, ma quest’ultimo termine dell’operazione non modifica l’adempimento dell’operazione di calcolo, dal momento che quest’ultima è terminata. Si può accettare il termine di “macchina pensante” [machine à penser] proposto da Couffignal, ma a condizione di precisare – come fa d’altronde l’autore – che si tratta qui del pensiero logico, ovverosia di un pensiero che si svolge secondo un’assiomatica chiusa (o saturata). Nello stesso ordine di idee, si possono denominare “macchine viventi” [machines à vivre] le macchine teleologiche come il “governor”, se intendiamo per vita il potere di adattamento, il che non significa che queste macchine pensano o vivono, ma che adempiono, in un caso particolare, delle modificazioni meccaniche, elettriche, forse chimiche (sebbene questo percorso sia rimasto quasi inesplorato) equivalenti all’adempimento di una funzione logica o vitale. Ci si può dispiacere solamente del fatto che certi ricercatori, dopo avere costituito un automa del terzo gruppo (di quelli che stabiliscono una compatibilità della loro attività e del suo effetto all’interno dell’ambiente) lo abbiano esteriormente trasformato in robot, rendendo la sua risonanza interna e lo scatto automatico dei suoi meccanismi un’analogia con gli istinti e i riflessi vitali. L’omeostato di Ashby, automa puro senza l’aspetto di un robot, è più interessante – in questo senso – per la riflessione filosofica delle tartarughe elettroniche di Grey Walter, la cui sorprendente pantomi-
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ma è stata eccessivamente divulgata dalla stampa. Ruyer ha perfettamente ragione a denunciare la sete di meraviglia che guida la ricerca dei robot (“La Cybernétique, mythe et réalité”)7. Tuttavia, non è sufficiente definire il senso della teoria cibernetica. Bisogna anche mostrare quali modificazioni preliminari la sua comprensione esige nella riflessione filosofica e quali trasformazioni la presa di coscienza filosofica può portare nella teoria cibernetica stessa. Innanzitutto, la teoria cibernetica obbliga il pensiero filosofico a modificare certe nozioni di base, per esempio quelle di causalità e di individuo. Il problema della causalità è rimasto aperto all’interno del pensiero filosofico, a partire da Malebranche e Berkeley, fino a Jean Laporte. Questo perché la nozione di causalità può assumere un senso solo grazie a un’ontologia preliminare, a una teoria della struttura, dell’energia potenziale e della modulazione. Consideriamo per esempio, nella teoria cibernetica, un relè continuo8; definiremo un sistema nel quale un’energia di alimentazione (energia potenziale) si attualizza più o meno all’interno di un effettore, essendo il passaggio dell’energia potenziale all’effettore condizionato da quella resistenza variabile che è il modulatore, resistenza essa stessa controllata dal grado di una grandezza di cui conta solo il grado e non la quantità di energia effettivamente fornita al modulatore. Quest’ultima grandezza, che si può denominare la forma di controllo, o il segnale, può essere detta una forma senza forza [forme sans force], mentre l’energia potenziale dell’alimentazione è una forza senza forma [force sans forme]; l’effettore riceve la sintesi del segnale e dell’energia potenziale, ovverosia una forza informata [force informée], che si denomina un’energia modulata da un segnale. Un modulatore è, dunque, un sistema che compie la sintesi di una forma e di una forza, grazie a una resistenza variabile inserita tra la fonte di energia e l’effettore e la cui variazione è regolata da una forma-segnale. Per esempio, un tubo elettronico, triodo, un amplificatore magnetico, un amplificatore dielettrico, un transistor, sono dei modulatori. La valvola di ammissione del vapore in un motore termico è 7 8
Cfr. Ruyer 1952. [N.d.T. Contrariamente a quanto indicato da Simondon, il titolo corretto dell’articolo di Ruyer è, per l’appunto, La Cybernétique, Mythes et Réalité]. Sul relè e la modulazione, e la loro importanza nell’ontogenesi, si vedano le presentazioni contenute in Simondon 2015b, L’amplification dans les processus d’information (1962), pp. 157-176, Le relais amplificateur, pp. 177-185, così come l’analisi della modulazione in Simondon 20132, tr. it. 2011, Allagmatica, pp. 769779 e Forma, informazione, potenziali, pp. 731-759.
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un modulatore, così come il disco forato di una sirena. Ogni modulatore ha due ingressi (ingresso dell’energia, o alimentazione, e ingresso del segnale – quest’ultimo è, in generale, denominato solo ingresso) e una sola uscita. Inoltre, il modo attraverso cui la forma condiziona la forza nel modulatore costituisce la struttura di quest’ultimo; essa ha delle soglie, superiore e inferiore, e una pendenza, o una curva caratteristica di pendenza, che caratterizza il modo attraverso cui la forma condiziona la forza per variazione della resistenza inserita tra alimentazione ed effettore. All’interno del modulatore perfetto, la resistenza d’entrata sarebbe infinita e la resistenza variabile potrebbe variare da infinito a zero; dall’altro lato, la fonte di energia potenziale avrebbe una resistenza interna nulla. In realtà, ogni modulatore è imperfetto, ovverosia ogni modulatore è in qualche misura un miscelatore [mélangeur]: dato che la resistenza d’entrata non è infinita e si trova in relazione con la resistenza variabile inserita tra alimentazione ed effettore, c’è ritorno della causalità del gruppo alimentazione-effettore sulla forma-segnale; la forma non può, dunque, essere veicolata da un’energia debole quanto si vuole; il rapporto tra alimentazione ed effettore necessita che la forma-segnale sia apportata sotto forma di un’energia finita, inversamente proporzionale alla resistenza del circuito di controllo. Si giunge, dunque, a questo risultato pratico: un modulatore è tanto più perfetto quanto più la ricorrenza della causalità del circuito effettore sul circuito di controllo è debole e il rapporto tra la resistenza variabile e la resistenza d’entrata è elevato. Tale è la ragione per cui un amplificatore con una curva di risposta lineare e un guadagno molto elevato si avvicina alle condizioni del modulatore perfetto. Ed è ugualmente la ragione per cui un tubo tetrodo è un modulatore migliore di un tubo triodo: la griglia-schermo, frapponendosi fra l’anodo e l’insieme griglia-catodo, mantiene costanti le proprietà dello spazio griglia-catodo, riducendo al minimo la ricorrenza delle modificazioni della resistenza interna della lampada sul circuito d’entrata. Questa proprietà modulatrice è ancora più perfetta nei pentodi con una grande resistenza interna, dove la griglia-soppressore impedisce il ritorno dell’emissione secondaria di elettroni dall’anodo che perturba il senso di trasferimento catodo-anodo sul quale riposa la funzione modulatrice. Scopriamo così che ogni amplificatore è un modulatore, il che non significa che ogni modulatore è un amplificatore: amplificatore è specie del genere modulatore. Una volta definito il modulatore semplice, possiamo studiare un modulatore complesso con diversi ingressi di forme-segnali (è il caso di un tubo pentagriglia con due griglie di comando ugualmente o diversamente distanti dal catodo; o del doppio triodo con anodi e catodi uniti e griglie separate) che condizionano entrambe la resistenza variabile catodo-anodo. Possiamo studiare anche il caso complesso di due modulazioni
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successive, nel caso in cui l’energia potenziale dell’alimentazione abbia già una modulazione: quali sono i sistemi di compatibilità tra queste due modulazioni? C’è prevalenza di una modulazione su un’altra? A quale grandezza è dovuta questa prevalenza? Qui, per esempio, troviamo che la condizione per cui una forma di controllo possa modulare completamente un’energia già modulata è che un elemento individuale di modulazione (per esempio, nel caso di una tensione sinusoidale, un ciclo) all’interno della forma modulante occupi una grande durata rispetto alla durata dell’elemento individuale di modulazione più lungo dell’energia di alimentazione già modulata. È necessario, dunque, che il più corto degli elementi individuali di modulazione all’interno della forma modulante sia lungo rispetto al più lungo degli elementi individuali di modulazione dell’energia di alimentazione. Nel caso particolare delle forme sinusoidali di frequenza costante, questa condizione diviene semplice: la frequenza del segnale modulatore dev’essere inferiore alla frequenza dell’energia modulata. Ma si può enunciare una forma statistica di questo rapporto tra due modulazioni: la durata media di un elemento di forma modulante non può essere inferiore alla durata media di un elemento dell’energia da modulare. Dunque, la quantità d’informazione appare così non come un dato da misurare, ma come una grandezza che può essere determinata in anticipo nella teoria generale del modulatore complesso. Nel caso particolare in cui la frequenza modulante e la frequenza modulata siano identiche, non può esserci predominio di una sull’altra di nessuna delle due modulazioni, ma solamente condizionamento della quantità di energia inviata all’effettore dal rapporto di fase entro la forma-segnale e la modulazione dell’energia di alimentazione. Abbiamo in questo caso un funzionamento puramente energetico del modulatore (è il caso del thyratron funzionante in corrente alternata alla stessa frequenza per le tensioni anodiche e le tensioni di griglie di controllo e che, utilizzato come regolatore [variateur], non assorbe energia). Notiamo, infine, che una teoria generale del modulatore incorpora come casi particolari i dispositivi di reazione positiva o negativa (feedback, controreazione, ricorrenza di causalità, causalità circolare); infatti, se si prende una parte dell’energia modulata che arriva all’effettore e la si riporta all’ingresso come segnale di controllo, si ottiene, secondo il valore di sfasamento [déphasage] imposto all’interno di questo rapporto, un’inibizione o una facilitazione più o meno grande; la reazione trasforma un modulatore semplice in modulatore complesso in cui due forme-segnali si combinano, essendo una la risultante dell’applicazione dell’altra a un modulatore, interessato [affecté] da uno sfasamento determinato. La reazione si riallaccia dunque al caso del modulatore complesso che riceve due segnali di frequenza identica.
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Da questi principi consegue che la parola causalità non è univoca: in un modulatore, l’energia di alimentazione è causa in relazione ai fenomeni di cui l’effettore è la sede; ma la forma-segnale è ugualmente causa; dall’altro lato, la struttura del modulatore è causa di certe caratteristiche che appaiono nell’effettore e che non si possono spiegare né tramite l’energia di alimentazione, né tramite la forma-segnale. Inoltre, si può avere equivalenza di una causa e di un’altra; così la reazione positiva o negativa, nel caso di una concordanza di fase o di uno sfasamento di 180o, si comporta esattamente come una modificazione delle caratteristiche interne del modulatore (diminuzione o aumento della pendenza). Siamo dunque portati a distinguere tre generi di cause: causa formale (forma-segnale), causa energetica (energia di alimentazione), che si può denominare anche causa efficace, e causa strutturale, o condizionale (la struttura interna del modulatore) con equivalenze possibili tra questi tre ordini di cause (così la combinazione di due cause formali equivale a una causa strutturale) e incompatibilità o compatibilità: così una modulazione conserva il suo valore di forma-segnale anche se appare come predeterminazione dell’energia di alimentazione, a patto che i suoi elementi individuali di modulazione siano grandi rispetto agli elementi individuali di modulazione dati all’ingresso del modulatore. Il predominio di una forma su un’altra forma deriva, dunque, non dal modo in cui essa appare all’interno del modulatore, ma unicamente dall’ampiezza temporale dei suoi elementi individuali: una forma che ha degli elementi più ampi di quelli di un’altra è dominante rispetto a quest’ultima: il modulatore gioca dunque anche il ruolo di comparatore di forme: l’ampiezza temporale di una forma è il suo potere di regolare, il suo potere modulatore: la forma più ampia si traduce nell’effettore tramite modificazioni più profonde di quelle che sono causate dalle forme i cui elementi individuali sono meno ampi. Qui abbiamo definito solo la modulazione temporale, con l’idea di elemento individuale di modulazione; ma nulla impedisce di pensare che una traduzione di forme spaziali in forme temporali sia possibile. Sappiamo già che un’energia interessata da una frequenza determinata può veicolare un’informazione riguardante dettagli spaziali grandi rispetto alla sua lunghezza d’onda, ma non dettagli più piccoli: è il caso della luce impiegata per osservare un reticolo [reseau], che non ci apporta più un’immagine del reticolo, ma che è profondamente perturbata dalla sua relazione al reticolo di dimensioni adeguate, come quando due frequenze identiche si affrontano all’interno di un modulatore. La causalità appare così nel suo caso più generale come una compatibilità tra forme, energia e struttura all’interno di un sistema considerato in modo olistico. Questa definizione non pregiudica il fatto che la causalità
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possa essere esterna o interna, o parzialmente esterna e parzialmente interna. Troviamo anche un’equivalenza possibile tra una causalità interna e una causalità esterna: la reazione (causalità interna) è equivalente alla causalità esterna che deriva da un’identità di modulazione nella forma-segnale e nell’energia di alimentazione: una compatibilità predeterminata delle due cause esterne equivale a una causalità interna e si traduce allo stesso modo in facilitazione o inibizione. È pertanto comprensibile che sia difficile, nel caso dell’essere vivente, assegnare con sicurezza una causa interna o una causa esterna a certi stati come l’inibizione o la facilitazione, la depressione o l’esaltazione. Questa formula di equivalenza può anche possedere un senso più profondo e designare un passaggio possibile dall’interiorità all’esteriorità. Abbiamo voluto prendere qui un esempio di pensiero olistico conforme [al metodo di induzione cibernetica]. Il metodo di induzione cibernetica, ponendo qualsiasi evento nel sistema olistico in cui ha origine, è il solo a poter rendere conto delle essenze particolari; esso è ontologico, senza essere sostanzialista; sfocia in un realismo epistemologico delle strutture, molto diverso dallo scientismo analitico. Dev’essere applicato alla sociologia e alla psicologia. Esso solo può definire funzionalmente l’individualità, la causalità, cogliendo gli stati e i livelli di queste differenti funzioni. A sua volta, la mediazione filosofica apporta una concettualizzazione induttiva tramite cui sintetizza e universalizza le nozioni tecniche della cibernetica. Questa universalizzazione deve riecheggiare sulla tecnica cibernetica stessa. Afferriamo, infatti, che un procedimento capitale di induzione cibernetica è il principio di equivalenza funzionale, che abbiamo più volte impiegato nei due esempi precedenti e che abbiamo scoperto in Couffignal nel caso particolare della macchina calcolatrice. Ora, questo principio ci consente di pensare che un modo di funzionamento (un’organizzazione temporale di funzioni) equivale a una struttura. Viceversa, una struttura equivale a un modo di funzionamento. Possiamo supporre, dunque, che un modo di funzionamento possa creare una struttura, fissarsi sotto forma di struttura? Sappiamo già, infatti, che ogni struttura permanente può tradursi in una serie di funzionamenti istantanei più o meno durevoli. Ma possiamo supporre che il passaggio contrario sia possibile, ovverosia la trasformazione di un modo di funzionamento istantaneo in struttura durevole? Tale questione obbliga la filosofia a porre alla fisica e alla biologia il problema dei limiti: a partire da quale momento un funzionamento induce il sistema
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olistico nel quale si produce a cambiare bruscamente struttura? In fisica, afferriamo qualche caso particolare di queste trasformazioni di funzionamenti in struttura; ma queste strutture non sono propriamente parlando che degli stati; tuttavia, la condizione di discontinuità, in un sistema a funzionamento quantistico, conferisce una capacità relativa di trasformazione del funzionamento in struttura. Se, per esempio, ad un modulatore elettronico continuo si combina un thyratron, che può essere considerato un modulatore discontinuo con solamente due stati (tutto o niente), la presenza del thyratron non si manifesta fino a che un certo limite di funzionamento del modulatore continuo non è raggiunto (questo limite può essere una tensione, una durata, un’intensità tradotta in tensione, il prodotto di una tensione e di una durata, una frequenza tradotta in tensione, un numero determinato di impulsi…); quando il limite è raggiunto, l’innesco [amorçage] del thyratron modifica la struttura del modulatore continuo (tubo a vuoto) (può, per esempio, modificare la sua pendenza di conversione). Con due thyratron, si può ottenere la reversibilità della modificazione del modulatore, ma il carattere quantistico di questa modificazione è conservato. Tuttavia, lo studio dei funzionamenti quantistici, forse, non è stato spinto abbastanza lontano in fisica e biologia: con ciò vogliamo dire che lo studio di questi funzionamenti si è compiuto all’interno di casi particolari, ma che l’universalizzazione cibernetica dei funzionamenti modificatori di struttura non è ancora compiuta: la riflessone filosofica può incoraggiare su questo punto il lavoro cibernetico; sarebbe interessante, per esempio, se il senso delle ricerche biologiche evocate da Andrée Goudot ne Les Quanta et la vie9 potesse essere integrato in una cibernetica allargata. La posta in gioco di questo studio sarebbe alta per la teorizzazione delle discipline come la psicologia o la sociologia, così come per gli studi sull’automazione. Fino ad ora, infatti, la psicobiologia con Pavlov e il suo allievo e continuatore Popov ha elaborato la nozione di ciclocronia; ora, noi pensiamo che due tipi di ciclocronia siano possibili: una ciclocronia continua o una ciclocronia quantistica; i lavori di Popov, ai quali abbiamo avuto l’onore di assistere parzialmente del corso dell’anno 1951, mostrano l’esistenza di forme elementari e di forme elaborate di ciclocronie quantistiche; universalizzando quest’idea e rappresentando l’essere vivente come un sistema olistico a strutture alternate, giungiamo a un’ipotesi molto importante: per l’essere vivente, tre operatori di causalità entrano in gioco nel rapporto tra l’interiorità individuale e l’esteriorità (ambiente o altri individui); la 9
Cfr. Goudot 1952. [N.d.T.]
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forma, il cui aspetto più semplice è la qualità; la quantità che si applica ai rapporti energetici; infine, la fase, che deriva dal rapporto tra la forma e la struttura interna del vivente. L’opposizione tra qualità e quantità può essere compresa solamente grazie al termine fase. Ora, il più delle volte come modello di ciclocronie si considerano le ciclocronie continue del tipo delle ciclocronie trofiche semplici (fame-assunzione di cibo, stanchezza-sonno, notte-giorno, stagioni…). Ora, in una ciclocronia continua, la fase non presenta aspetti critici; un ritardo o un anticipo di fase si traduce solamente in un’inibizione o una facilitazione più grandi; la variazione continua di fase produce una variazione continua di effetti; al contrario, se l’essere vivente possiede delle funzioni sottomesse a una ciclocronia quantistica, vediamo apparire due fenomeni fondamentali: 1) Un’indeterminazione di fase di mezzo periodo. 2) Come corollario di questa indeterminazione, la capacità che possiede un anticipo o un ritardo di fase infimo di capovolgere [inverser] la struttura del sistema olistico, quando, in un regime ciclocronico quantistico, il limite della fase critica viene superato. Indipendentemente dal fatto che la ciclocronia quantistica sia interna o esterna, una volta che questa ciclocronia si produce non in un regime continuo, ma in un regime di impulsi, vediamo che il sistema olistico possiede due proprietà: la prima, di ristabilire un ordine a partire da un disordine entro determinati limiti, grazie all’indeterminazione di fase, la seconda di capovolgere la struttura del sistema olistico quando il limite della fase critica viene raggiunto. Se è vero che la qualità è la forma più semplice, troveremo in questo regime ciclocronico quantistico del vivente la spiegazione dell’inversione [inversion] qualitativa caratteristica di certi affetti e di certe malattie mentali (inversione di polarità), così come l’inversione alternata forma-fondo studiata dalla psicologia sperimentale. Correlativamente, troveremo anche la possibilità di modificare il regime psicobiologico di un vivente, intervenendo sui suoi rapporti di fase con gli eventi esterni. Lo studio approfondito del riflesso condizionato raggiunge qui la psicoanalisi e si traduce in conseguenze psichiatriche o pedagogiche importanti, in particolare nella valutazione dei ritmi da osservare e del rapporto di fase da osservare nelle sessioni di terapia rispetto al ritmo della malattia o nelle ricompense e nelle punizioni rispetto al ritmo degli stimoli. Si possono avere delle terapie aggravanti e delle ricompense inibitrici a causa solamente del loro rapporto di fase rispetto alla ciclocronia del soggetto. Forse, persino lo sviluppo di queste considerazioni potrebbe portare a mostrare che le attività mentali più alte, le condotte che manifestano il più
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alto grado di integrazione e che realizzano le invenzioni e i cambiamenti di struttura più elevati e più fecondi, si producono quando la risonanza interna dell’individuo passa a una fase critica; se vi è, infatti, una risonanza interna continua (adattativa e trofica in una ciclocronia continua), si può avere una risonanza interna quantistica: l’essere possiede il potere di cambiare la propria struttura e questo cambiamento non è un adattamento progressivo, ma una conversione brusca. Il suo aspetto più comune, e che diventa perfettamente spiegabile, è l’inversione dei valori conseguente a questa conversione. Ora, questi cambiamenti di struttura possono condurre a stati stabili o instabili e la stabilità o l’instabilità di uno stato dipende non solamente dai caratteri interni del vivente, ma anche dal tipo di messaggi che riceve dall’ambiente, dall’attività che esercita su quell’ambiente e dall’energia che ne riceve. Lo stesso metodo è applicabile allo studio delle società, per esempio nella valutazione delle condizioni di stabilità dei regimi politici e delle possibilità di trasformazione di un sistema in un altro sistema; è così che l’aspetto d’inversione dei valori è caratteristico delle rivoluzioni politiche o sociali. Ogni gruppo sociale e culturale di rivoltosi si caratterizza per l’inversione dei valori della società di base; così, i surrealisti hanno definito la loro impresa di rivolta come una sovversione delle tavole dei valori, non solo estetici, ma etici. Lo stesso fenomeno si è manifestato all’interno della rivoluzione romantica. Non ci si deve più stupire, allora, nel vedere i surrealisti prendere Sade e Lautréamont come maestri: trovano in essi due modelli di inversione assiologica e colgono in essi l’attività d’inversione in corso di realizzazione. Così, l’aspetto discontinuo della storia del pensiero stesso può essere considerato per mezzo dell’induzione cibernetica elevata al livello di un metodo attraverso la riflessione filosofica: una serie temporale come quella offerta dalla storia può essere quindi pensata non solo nelle sue successioni [enchaînements] continue e regolari – nelle sue continuità –, come attraverso il metodo del determinismo analitico, ma anche nelle sue rotture e nelle sue rivoluzioni, nelle sue discontinuità fondamentali. La sociologia può ricevere un impulso costitutivo dalla filosofia iniziata al metodo cibernetico: essa può definire, infatti, il livello critico a partire dal quale un gruppo diviene società, ovverosia riceve una struttura che lo individualizza: un certo numero di individui elementari riuniti insieme non forma necessariamente una società, ma solamente un gruppo. Essi formano una società a partire dal momento in cui gli scambi di forma, di energia non modulata e di energia modulata tra gli individui raggiungono un livello suf-
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ficiente per cui un funzionamento olistico dell’insieme degli individui sia raggiunto. Ora, questi scambi devono essere valutati in termini di qualità, quantità e fase. Dunque, si può dire che il livello critico per la formazione di una società è raggiunto all’interno di un gruppo quando la possibilità, affinché un elemento individuale di modulazione di uno degli individui regoli all’interno di un altro individuo un elemento equivalente, raggiunge ½. Sopra ½, la società è stabile; a ½, essa è instabile; sotto ½, è impossibile e in via di decomposizione. L’equivalenza degli elementi individuali non è necessariamente un’identità di aspetto (come pensa Tarde nel suo lavoro sull’imitazione) che porta all’omogeneità delle condotte; può essere una relazione funzionale complementare (società sessuale, coppia). Si può denominare densità sociale questa possibilità che un elemento di esistenza individuale susciti un elemento equivalente in un altro soggetto. Questa densità sociale non si confonde con l’omeostasi per come è espressa da Norbert Wiener; infatti, la densità sociale non è necessariamente autoregolatrice, poiché significa solamente che il sistema olistico esiste, grazie a un livello elevato di risonanza interna; la densità sociale esprime il livello di coerenza della società, ma può condurre a delle azioni quantistiche collettive, come una rivoluzione o una sommossa; può rendere la società evolutiva, produrre uno sviluppo al suo interno. L’omeostasi è prodotta, al contrario, tramite la reazione negativa. La stabilità del gruppo in quanto gruppo, o coerenza, o densità, non si confonde con il suo adattamento all’ambiente, che implica ricorrenza della causalità e funzione della reazione. L’omeostasi può esistere solo se il sistema olistico è collegato ad un ambiente le cui caratteristiche sono fisse e se la causalità reciproca degli individui elementari si esercita tramite l’ambiente, che funge da organo d’intimazione introducendo determinismo e stabilità. Si può assumere, in linea di principio, che una società in cui la causalità interindividuale fosse esclusivamente mediata (passando per l’intermediario dell’azione di ciascun individuo sull’ambiente) sarebbe totalmente omeostatica, mentre, al contrario, una società in cui la causalità interindividuale fosse esclusivamente immediata (passando non per l’intermediario dell’azione sull’ambiente, ma per il tramite del puro simbolismo vocale, gestuale, posturale) non sarebbe affatto omeostatica, ma perfettamente densa e quantistica nelle sue azioni. Il primo caso è rappresentato da un organismo professionale, che è per essenza non evolutivo e cerca ogni mezzo per aumentare l’omeostasi; le comunità mediate (come una Chiesa, un’amministrazione) sono della stessa specie; il secondo caso è rappresentato dalle comunità politiche, mistiche, artistiche e dalle folle; una folla si caratterizza, infatti, per il fatto che tutti gli individui sono inseriti in una situazione di rapporti immediati, simbolici
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o fisici: ora, queste comunità hanno una condotta discontinua (miracoli, invenzioni, rivolte). Si può prevedere con ciò che la struttura di società più favorevole alla ricerca scientifica o filosofica, la più adatta a favorire l’invenzione, sia la struttura immediata, implicante rapporti autentici tra gli individui che si dedicano a una stessa ricerca o a delle ricerche differenti. Non è casuale che la cibernetica sia fuoriuscita dall’attività di una società simile e che si presenti allora come una disciplina nuova, poiché deriva da un’invenzione collettiva. Essa è per natura una disciplina collettiva. Infine, si potrebbe forse dire che la psicologia è in attesa di un metodo per costituirsi come scienza. Fino ad oggi, la psicologia si è divisa in due branche parzialmente antagoniste: il fascio degli psicologi scientifici, che costituisce un’esplorazione più o meno profonda del dominio psicologico a partire dalle frontiere della fisica o della biologia piuttosto che una scienza autonoma e la fenomenologia, interessata ad apprendere l’essere nella sua essenza e regolata da una preoccupazione di totalità. La sventura della psicologia consiste nel fatto che, per essere scientifica, essa è obbligata a dissociare il suo oggetto alienandolo nelle esperienze o nelle prove di misurazione, mentre per rispettare il suo oggetto essa è costretta ad abbandonare la misurazione. Misurazione dell’inessenziale o apprensione non scientifica dell’essenziale, tale è il supplizio di Tantalo imposto allo psicologo. Bisogna dire che fino a questo momento la psicologia non è riuscita a costituirsi come scienza. Il mimetismo dei metodi scientifici praticati altrove non è sufficiente a costituire una scienza. La psicologia sarà una scienza a partire dal giorno in cui avrà trovato un’unità di misurazione [unité de mesure] applicabile al suo oggetto che è, come indica l’etimologia, l’anima o il pensiero. Ora, siccome il pensiero appare solamente dentro a un sistema olistico già strutturato, è altamente probabile che il pensiero potrà essere conosciuto solamente tramite un metodo cibernetico, ponendo ogni fenomeno come funzionamento di un sistema olistico complesso. Ci permettiamo di indicare un percorso di ricerca sulla funzione della coscienza (che è, a prima vista, quantomeno una delle manifestazioni del pensiero): nel caso particolare in cui la coscienza del soggetto è coscienza di sé, essa realizza una reazione positiva o negativa. È dunque possibile valutare in modo comparativo un’operazione spontanea, fisiologica o psichica, e un’operazione riflessiva avviata allo stesso modo della precedente, ma che ha luogo in un soggetto la cui coscienza aumenta la risonanza interna. Si potrà allora valutare la differenza funzionale tra un sistema olistico fornito di coscienza e lo stesso sistema non fornito di coscienza; grazie al principio di equivalenza funzionale, sarà possibile sapere a quale struttura non cosciente la coscienza equivale in questo o
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quel caso particolare. Siccome l’introduzione della coscienza è quantistica, si troverà con ciò quale è l’unità individuale di coscienza: la coscienza si misurerà in strutture equivalenti; se vi sono più gradi di coscienza, vi saranno più gradi strutturali capaci di equivalere all’applicazione della coscienza a un caso particolare. Un caso interessante per lo studio della funzione coscienza è la psicofisiologia del “riflesso psicogalvanico”. Una diminuzione di resistenza elettrica dei tegumenti accompagna generalmente un’emozione. Ora, questa modificazione di solito non è nota al soggetto. Si può rendere questa modificazione cosciente traducendola attraverso un segnale uditivo o visuale: così, è possibile far regolare un oscillatore con una frequenza ultrasonora tramite la misurazione della resistenza del soggetto, secondo il procedimento abituale della modulazione di frequenza (un’impedenza variabile è messa in parallelo con un circuito oscillante). All’inizio – prima di ogni emozione – questo oscillatore variabile è regolato a battimento [battement] zero con un oscillatore di confronto. Una volta che il “riflesso psicogalvanico” si manifesta, un battimento di frequenza udibile tanto più elevato quanto è maggiore la variazione di resistenza consente al soggetto di prendere coscienza di questa manifestazione: dopo un tempo misurabile (qualche secondo), e variabile secondo i soggetti, una nuova modificazione di resistenza interviene se il soggetto ha potuto prendere coscienza del battimento udibile che procede generalmente nello stesso senso della prima (variazione spontanea); una terza onda di variazione di resistenza può, ancora in questo caso, manifestarsi. La registrazione delle variazioni di resistenza consente, quando la si effettua una prima volta senza battimento udibile, di misurare la differenza fra l’andamento di un’emozione spontanea e di un’emozione riflessa. È allora possibile caratterizzare la coscienza come una funzione di reazione, interessata da un certo sfasamento e dotata di un certo livello. Per certi soggetti e in certi tipi di emozioni, la coscienza si manifesta come una reazione positiva. Per altri soggetti e in certi altri tipi di emozioni, la coscienza conduce, al contrario, a una reazione negativa. La presenza di spettatori modifica ugualmente la fase e l’ampiezza di questa reazione, tanto che si può definire l’emozione al pari di una funzione sociale del soggetto o quantomeno una funzione che comporta un operatore di causalità sociale. Il pensiero, colto qui come coscienza di sé, permette uno studio caratteriologico e psicosociologico. Si raggiunge una misura di equivalenza, poiché si può scoprire quale emozione spontanea ha luogo come un’emozione riflessa determinata e comparare la struttura del sistema olistico in cui ha avuto luogo l’emozione spontanea e quello del sistema olistico in qui ha avuto luogo l’emozione riflessa.
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Non c’è nemmeno uno studio della funzione d’invenzione che non possa essere affrontato dal metodo cibernetico; tuttavia, quest’ultimo implica lo studio dei sistemi con un funzionamento quantistico, che, come abbiamo indicato, è ancora implicato nelle tecniche particolari e non ha ancora raggiunto il livello cibernetico. Al termine di questa indagine, vediamo che lo sforzo filosofico stesso può pensarsi ciberneticamente: lo sforzo filosofico, quando si manifesta all’interno di un dominio, costituisce una presa di coscienza di una certa problematica che, fino ad allora, esisteva in maniera spontanea e non poteva risolversi sulla base dei soli caratteri strutturali del sistema olistico all’interno del quale si manifestava; lo sforzo filosofico trasforma in due modi la struttura del sistema olistico: innanzitutto, esso apporta riflessività oltre alle funzioni spontanee, il che genera nuova risonanza interna. Ora, abbiamo visto che ogni reazione, positiva o negativa, si comporta funzionalmente come un cambiamento di struttura di un sistema olistico. Poi, lo sforzo filosofico non è solamente coscienza del sistema per sé in isolamento rispetto agli altri sistemi: esso è apporto della cultura e la cultura è una postulazione di legame rispetto a una totalità universale, rispetto al sistema olistico, immaginario o reale, capace di incorporare tutti i sistemi olistici esistenti. Lo sforzo filosofico porta dunque con sé il contatto con un’universalità reale; integra un sistema fino a quel momento isolato all’interno di un’immensa società di sistemi; risolve una problematica particolare integrandola a una problematica generale e fa cessare la solitudine dei problemi per creare il mondo dei problemi. Apre dunque un sistema per collegarlo ad altri, grazie a un cambiamento di piano; lo sforzo filosofico nella sua intenzione enciclopedica, nel senso hegeliano del termine, modifica l’individualità dei problemi, tendendo verso la problematica più sintetica ed elevata. Quest’apprensione del metodo cibernetico da parte del metodo cibernetico stesso, questo cogito di una nuova filosofia riflessiva dove la funzione si afferra essa stessa nel suo funzionamento, dopo il culmine ontologico che marca l’equivalenza tra essere e agire, tra operazione e struttura, permette di fondare un’assiontologia [axiontologie]. Secondo il metodo cibernetico, la sola assiologia valida è un’assiontologia. Norbert Wiener definisce le funzioni omeostatiche e mostra che i costumi, e in generale tutta la normatività, hanno una finalità omeostatica. Identifica, dall’altro lato, negentropia e processo vitale. Queste sarebbero due possibili fonti di valore, ma entrambe relative: si giungerebbe alla “social cohesiveness” a tutti i
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costi o alla dottrina di Spencer. Nessun compromesso tra queste due fonti di valore è, a nostro avviso, pienamente valido. Né l’omeostasi, né la negentropia sono modelli di valori in se stessi, ma solamente delle funzioni, dei meccanismi teleologici. Affinché ci sia valore, bisogna che ci sia problematica, ovverosia presenza di un elemento tanatologico in un sistema olistico. Il valore è ciò che, per un sistema olistico giunto a uno stato di incompatibilità problematica, è in grado di far apparire una nuova struttura di compatibilità; il valore è fonte di scoperta di compatibilità nuove. Il valore è, dunque, cambiamento di struttura; sappiamo che questi cambiamenti di strutture si compiono in due modi: o per aggiunta di una risonanza interna più perfetta (è la coscienza), o per ampliamento del sistema olistico. Generalmente, queste due modificazioni di struttura sono simultanee. Possiamo dire, per esempio, che l’accesso alla cibernetica a livello della riflessione filosofica costituisce un valore proprio per la cibernetica, perché, prendendo coscienza di se stessa, essa accresce la sua risonanza interna, nella sua unità, e perché, dall’altro lato, il sistema olistico della cibernetica si trova accresciuto tramite l’apporto della cultura filosofica, portando con sé una problematica universale. La funzione assiologica è dunque l’aspetto di modificazione strutturale di un sistema olistico: questa funzione ha due sensi associati, un senso interno e un senso esterno. La psicosociologia platonica, nel suo studio dei tipi politici, è, pensiamo, il primo testo filosofico che mette in rapporto le modificazioni interne e le modificazioni esterne della struttura, quelle del cittadino e quelle del regime civico. Un’assiologia puramente interna o esterna rischierebbe di essere illusoria. Bergson ha avuto torto nel non cercare nell’assiontologia una relazione più profonda tra le due fonti della morale. La nozione di individuo può essere considerata nella stessa maniera. Infatti, l’individuo è l’insieme olistico che comporta un certo numero di funzioni interne ed esterne; vi sono più livelli possibili di individualità. Nondimeno, bisogna determinare il momento a partire dal quale è possibile parlare di individualità. Ora, il criterio dell’individualità (non la definizione) è il carattere olistico delle funzioni che lo costituiscono. Un ambiente omogeneo non è un individuo; un cristallo è un individuo solo per il modo in cui si costituisce, non per il modo in cui sussiste, poiché può essere distrutto conservando le sue proprietà elementari. Tuttavia, conserva solo le sue proprietà specifiche (zolfo, ecc.), perché è una società. La maglia cristallina non può essere distrutta senza distruzione delle sue qualità cristalline. Il cristallo è l’individuo fisico-chimico ed è molto importante notare che è un individuo contemporaneamente fisico e chimico. In fisica e
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in chimica, ci sono solamente specie; l’individuo esige la fisico-chimica, poiché esige la compatibilità di diverse funzioni. Comprendiamo così perché si cerca di scoprire l’individualità fisico-chimica nell’atomo: il fatto è che la divisione distrugge le sue condizioni di compatibilità (Lucrezio). Al contrario, a livello del composto con un numero indefinito di molecole, c’è compatibilità confusa, evasiva, degli aggregati di sostanza gli uni con gli altri. Quando il cristallo macroscopico si costituisce attorno al cristallo elementare, al germe cristallino, fa ordine nel disordine: aggrega gli strati successivi di molecole orientate e accresce in maniera quantistica. Non ha un mezzo-strato di molecole. Il cristallo è un numero determinato, un numero intero di strati di molecole (questo punto sarebbe perlomeno da elucidare). Tuttavia, il cristallo non cambia struttura via via che accresce: il cristallo conserva la sua struttura e aumenta il suo dominio conservando lo stesso principio topologico: il suo accrescimento è piuttosto trofico che quantistico, piuttosto ciclico che discontinuo; dopo uno strato si ha un altro strato, senza che vi sia discontinuità nel passaggio da uno strato a un altro. Non c’è novità strutturale. Tuttavia, in un certo senso, vediamo che talvolta il cristallo comincia a spingere un nuovo cristallo in una direzione. E c’è stato almeno qualcosa di quantistico: il passaggio dallo stato amorfo a quello del germe cristallino. Là, c’è la fonte dell’individualità del cristallo. Tuttavia, questa società senza attrito che è il cristallo macroscopico non fa che tradurre su scala macroscopica una struttura microscopica. Il cristallo macroscopico è un caso particolare di società, in cui la struttura dell’insieme riproduce con esattezza la struttura dell’elemento (società analogica; è il caso della società platonica). Le società artificiali come le società monastiche, i falansteri, sono di questo tipo. Dall’altro lato, arriviamo all’individualità del vivente quando abbiamo un essere che possiede la capacità di cambiare struttura in modo da conservarsi, da trionfare su una problematica. Il cristallo ha solamente una struttura determinata; ciò che v’è di individuale in esso è l’esistenza di una struttura. L’individuo vivente, invece, è un essere policristallizzabile [polycristallisable], in grado di modificare nel corso dell’esistenza la sua struttura interna, di convertirsi da sé un certo numero di volte. Ecco il motivo per cui il cristallo è individuo in quanto accresce: mantiene la sua struttura “anche se potrebbe divenire amorfo” se un determinismo fisico o un determinismo chimico entrasse da solo in gioco. È la compatibilità tra due determinismi, la coerenza tra due determinismi, che ha prodotto questo carattere. Nell’essere vivente, siccome la compatibilità è meno semplice della compatibilità fra due determinismi, l’uno fisico e l’altro chimico, la facoltà di cambiare struttura per risolvere i problemi (un problema è un’in-
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compatibilità) si traduce attraverso l’associazione, la differenziazione, l’evoluzione continua o quantistica. La coscienza stessa, con il pensiero, è una facoltà di cambiare struttura: ci sono delle operazioni che diventano strutture. L’individuo è l’essere che è capace, all’interno di una struttura data, di compiere delle operazioni che gli permettono di cambiare struttura, grazie al principio di equivalenza operazione-struttura. La psicoanalisi è forse la disciplina che è andata più lontano su questa via poiché ha cercato di modificare la struttura psichica di un essere grazie a un’operazione, la presa di coscienza. Ora, esiste un’individualità degli esseri separati: ogni essere manifesta in modo particolare la sua individualità quando cambia struttura, nelle crisi discontinue di passaggio dalla puerilità all’infanzia, dall’infanzia all’adolescenza, dall’adolescenza alla maturità. Tale è dunque il senso di questa modificazione operazione-struttura; l’individuo è l’essere capace di trasformare un’operazione in struttura. Questo può essere fatto in due modi opposti: o in modo continuo, per addestramento, apprendimento, acquisizione di abitudini: il criterio ciclico e operativo si applica qui a una continuità nell’acquisizione, a una maturazione dei caratteri strutturali che ha un senso e un valore trofici; o in modo discontinuo, tramite conversioni quantistiche successive. Non è facile dire se il primo genere di mutazione dell’operazione in struttura caratterizza una forma di individualità inferiore a quella in cui si incontra il secondo. Tuttavia, vediamo che la dose di vita [dose de vie] è, forse, sempre la stessa a tutti i livelli, così negli animali semplici, come in noi; solamente, l’acquisizione di abitudini, che non necessita di un cambiamento di struttura profondo, è infinitamente più comune e, pare, sempre possibile anche nelle forme meno elaborate e complesse di organizzazione. Tuttavia, anche qui ci sono reazioni quantistiche che non sono dovute all’acquisizione di un’abitudine: migrazioni, suicidi collettivi. Solamente, questi cambi di struttura, poco durevoli, sono ottenuti tramite sostituzione di una condotta individuale con una condotta gregaria; ecco dov’è la libertà animale: il gioco tra la vita individuale e la vita specifica, regolato dall’istinto. C’è, sotto la vita animale specifica, una vita in cui la relazione tra gli esseri non può apparire come un cambiamento di struttura sempre possibile e risolutivo di certi problemi (lupi affamati che si dispongono in gruppo per attaccare: è una pulsione dell’individuo che cambia la sua struttura). Abbiamo, dunque, al grado inferiore, gli animali che restano sempre individualizzati e che non possono passare a un livello specifico di esistenza grazie a delle pulsioni individuali; al grado intermedio, gli animali che sono individualizzati altrettanto bene o meglio dei precedenti e che possono avere delle condotte collettive (per esempio insetti) – condotte queste, che sono
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spesso permanenti o quasi permanenti nel corso della vita di un individuo. Questi animali non possono cambiare struttura da se stessi, ma possono, presi in più di uno, cambiare il loro organismo sociale: qui ogni individuo può, senza modificare la sua struttura interna, modificare perlomeno la sua relazione con gli altri esseri della sua specie. Il cambiamento di struttura si compie a livello del gruppo, ma l’operazione – nella forma del pungolo dell’istinto – si compie a livello della vita individuale: l’istinto è ciò che consente una modificazione della struttura topologica. L’istinto è quantistico, brusco, come indica la sua etimologia, e spinge a un cambiamento di struttura dell’essere nella sua relazione con la società. Inoltre, la tendenza, la cui forma più elementare è il tropismo, esiste nelle forme animali degli individui che restano individui. Le tendenze sono continue; possono essere delle “tendenze gregarie”, ma sono continue. Gli istinti, al contrario, sono assolutamente quantistici: René reclama le tempeste: istinto migratorio. Le tendenze sessuali sono delle tendenze-istinti poiché sono sempre nella vita dell’individuo, ma si manifestano in modo abbastanza quantistico in un dato momento. La tendenza è principio d’abitudine (continua) e di riflesso condizionato; l’istinto è principio di cambiamento di struttura della specie; esso modifica, dunque, in parte l’individuo, poiché fa apparire delle nuove tendenze sorte in modo brusco e che possono trovarsi in conflitto con le tendenze dell’individuo. Infine, a livello superiore, l’individuo può cambiare la propria struttura grazie al pensiero, alla riflessione, senza il ricorso a questa μεταξύ (“tra”, “nell’intervallo”) che è la società; il pensiero è, dunque, equivalente al ricorso alla società da parte di un individuo. Esso aumenta la risonanza interna. Un’invenzione modificatrice di struttura gioca lo stesso ruolo del ricorso alla società dei simili. Si può dunque considerare che l’invenzione, o il ricorso alla riflessione, agisca come una divisione dell’individuo in sotto-individui; l’individuo che pensa diviene società e riassume in sé una struttura di società e una struttura di individuo: è molti, polifunzionale; classifica le esistenze. Ogni conversione è un raddoppiamento, triplicamento di un individuo seguito da una nuova sintesi che deve possedere elementi solidi di compatibilità. Questa ricerca di compatibilità è possibile solo grazie a un accrescimento. Per quanto riguarda i vegetali, essi hanno, sembra, solo tendenze. Sono meno individualizzati degli animali: i loro cambiamenti avvengono soprattutto nella generazione (anche per gli animali, una certa relazione sociale è quella che va verso il rinnovamento degli esseri; una famiglia è cristallizzata senza artifici). Inoltre, i vegetali sono esseri con un alto livello di risonanza interna e con delle tendenze molto marcate, dotate di adattamen-
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to, ma più legati al loro ambiente rispetto agli animali: sono situati rispetto al loro ambiente. Alla fine, questa situazione fa sì che siano in società con il loro ambiente, non potendo spostarsi rispetto ad esso e dunque coglierlo nella sua universalità. Questa relazione sociale con l’ambiente fornisce ai vegetali una maggiore omeostasi ma, d’altra parte, li priva di una possibilità importante per quanto concerne le relazioni sociali o anche le modificazioni della loro struttura. Queste modificazioni di struttura sono adattamenti all’ambiente: adattamento alla siccità, all’umidità, alla luce debole, al calore, mimetismi vari. Gli zoofiti, viventi fissi come piante, ma capaci di cambiare luogo di fissaggio quando le condizioni sono sfavorevoli, sono un po’ del medesimo ordine: sono animali viventi temporaneamente e successivamente come piante, ma capaci di revocare la loro situazione fitica per andare a cercarsene un’altra, ugualmente fitica, in un ambiente disposto altrimenti. Si passa così, in modo quantistico, tramite degli esseri quantisticamente animali, dal regno fitico al regno animale10. (Traduzione dal francese di Marco Ferrari) Riferimenti bibliografici Broglie (de), L. (a cura di) 1951 La Cybernétique, théorie du signal et de l’information, Éditions de la Revue d’optique théorique et exprérimentale, Paris. Couffignal, L. 1933 Les Machines à calculer, leur principe, leur évolution, Gauthier-Villars, Paris. 1952 Les Machines à penser, Minuit, Paris. Goldstein, K. 1934 Der Aufbau des Organismus. Einführung in die Biologie unter besonderer Berücksichtigung der Erfahrungen am kranken Menschen, Haag, Nijhoff; tr. fr. La Structure de l’organisme, tr. di E. Burckhardt e J. Kuntz, Gallimard, Paris 1951; tr. it. L’Organismo. Un approccio olistico alla biologia derivato dai dati patologici nell’uomo, tr. di L. Corsi, Fioriti, Roma 2010. Goudot, A. 1952 Les Quanta et la vie, Puf, Paris.
10 Seguono, per finire, delle note sui livelli di individualità (vegetale, animale non sociale, animale sociale, essere pensante).
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Commento introduttivo a La scienza dei fenomeni e la critica della decisione fenomenologica di François Laruelle Francesco Pisano Laruelle pone un problema di liberazione: come liberarsi dalla filosofia? Il presupposto è che vogliamo liberarcene. Pensare questa liberazione in favore di altre forme di discorso, le quali farebbero meglio ciò che la filosofia già fa, significherebbe mantenere lo stesso scopo per discorsi diversi. Ma la filosofia, dal punto di vista di Laruelle, consiste proprio nel suo scopo. È una struttura discorsiva internamente variabile, ma sempre caratterizzata da una certa idea di efficacia. L’efficacia della filosofia sta nella totalizzazione. La ragione filosofica vuole dire che cos’è tutto, cioè dire il tutto. È proprio per la peculiarità di questo scopo che la filosofia non può fare a meno di ridursi a esso, di diventarne una funzione. Un’epistemologia filosofica, in questo quadro, è anzitutto una per tutte le scienze, quindi deve correlarsi a una “Scienza”. Di conseguenza, tutte le differenze interne alle varietà delle scienze (temi, scopi, metodi e così via) si dissolvono. Ma questa correlazione finisce per risolvere anche le differenze tra filosofia e “Scienza” in un’architettonica più generale. Installate in una corrispondenza strutturale, né filosofia né “Scienza” possono davvero stare l’una senza l’altra. Perciò l’unico modo di caratterizzare la filosofia è fare riferimento a questa presunta posizione centrale nell’architettonica della conoscenza, facendo della filosofia una funzione unificante e un correlato strutturale di tutti gli altri discorsi. Se questa “Filosofia” centralizzante deve essere possibile, essa deve anche poter definire un’idea di totalità attraverso principi tali che il discorso che li esprime sia sufficiente1 a dire, appunto, tutto. Essa deve poter definire, insomma, lo stesso concetto di totalità che pone come proprio scopo. Se funziona, si autodefinisce. Pervade tutto nel momento stesso in cui si dissolve da sé. 1
È quello che Laruelle chiama “Principio di filosofia sufficiente”. Cfr. (Laruelle 1996, p. 22 passim).
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La non-filosofia (o filosofia non-standard2) di Laruelle cerca un modo per liberarsi da questa funzione totalizzante. Essa vorrebbe cambiare lo scopo che il pensiero si pone, o almeno aggiungere l’opzione di altri scopi. Il problema è che questa deviazione non può essere effettuata in modo diretto. La funzione totalizzante di ciò che Laruelle chiama filosofia, anche se combattuta o dispersa a livello istituzionale, di fatto ritorna sempre come pratica che infesta altri discorsi (politici, scientifici, artistici e così via). Il fatto che – nonostante se ne protesti da tempo e da più parti la fine – la filosofia continui effettivamente a stringere le sue maglie su alcuni nostri discorsi basta forse a farci desiderare una non-filosofia. Certo basta a motivare la domanda se in effetti sia possibile, per noi, uscire dal regime discorsivo della filosofia. Questa domanda non presuppone un’ammissione di fatto circa la piacevolezza o spiacevolezza della nostra situazione. È sufficiente avvertire la minaccia che un certo tipo di conoscenza abbia ormai catturato tutto il possibile; o, viceversa, sentire che se quel sapere prescelto non cattura tutto, allora è fallito. Il problema diventa: c’è altro, oltre la filosofia, oltre questo dispositivo3 progettato proprio per catturare il tutto? La filosofia, come dispositivo conoscitivo, è contingente o necessaria? L’eventuale contingenza della filosofia dovrebbe chiamare in causa, come dispositivo di pensiero, ciò che è altro da essa: nel caso di Laruelle, la “Scienza”, cioè un modello astratto da una grande varietà di pratiche tecnoscientifiche, e la filosofia non-standard, che è invece un’invenzione di Laruelle e un’autodescrizione della sua pratica. Il problema interno a questo trittico è epistemologico: il problema dei margini di libertà del pensiero nella sua tensione conoscitiva. Ma l’Altro più radicale con cui questo trittico a sua volta si confronta è il reale di cui pretende di dire qualcosa, che Laruelle chiama Uno. La filosofia va compresa, in chiave ontologica, a partire dalla sua radicale immanenza al reale e al suo commercio di cause ed effetti. Essa è un discorso pronunciato o scritto, una pratica discorsiva, qualcosa che accade realmente: parte dell’Uno. Ma essa pretende anche di mediare il nostro rapporto con tutto il reale, e quindi pretende di avere una cittadinanza parziale anche al di fuori e prima di esso, muovendo dall’a priori (non-empirico) al trascendentale 2
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I due termini, utilizzati qui come funzionalmente equivalenti sulla scia di altri commenti a Laruelle, rispecchiano in effetti un’evoluzione nel tempo e una specificazione: la non-filosofia va intesa specificamente come filosofia non-standard, nello stesso senso in cui ci sono geometrie non-standard, cioè non euclidee, che in un senso molto importante sono ancora geometrie. Una ricognizione concisa di questo passaggio si trova in (O’Maiolearca e Schmid 2019). Cfr. (Agamben 2016, pp. 21-22).
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(costitutivo dell’esperienza) fino al reale entro il quale e verso il quale l’esperienza avviene4. La non-filosofia di Laruelle non vorrebbe negare (dialetticamente) la filosofia, la quale accade e si sviluppa a prescindere dalla non-filosofia, ma illustrare le cause e gli effetti del dispositivo filosofico in quanto dispositivo contingente, avente luogo nell’Uno e in nessun senso prima di esso: in questo caso, infatti, avremmo già tra le mani una dualità. Se la filosofia è il dispositivo che analizza e riassembla il reale sulla base di un metaprincipio di sufficienza dei propri principi in rapporto al tutto, cioè sulla base di un principio di inevitabilità, allora la non-filosofia che vuole mostrarne la contingenza deve danzare tra epistemologia e ontologia senza sintetizzarle in un tutto risolutivo, pena la ricaduta nel dispositivo filosofico di unificazione. Danzare, come avviene in una performance artistica. La non-filosofia deve quindi essere performativa perché, in quanto non-platonica, non può essere dialettica e discorsiva. Laruelle (1937), che ha a lungo insegnato filosofia a Parigi5, in un’intervista del 2015 dichiara: “sono un collisionatore di concetti, non un dialettico” (Laruelle 2015); non un filosofo, ma un musicista che compone pezzi (atonali) con materiali concettuali. La contraddizione implicita nella posizione performativa che Laruelle si autoassegna è la stessa implicita in questa breve Introduzione, la stessa che la rende impossibile6. Verrebbe naturale collocare propedeuticamente l’opera di Laruelle al termine della scia Nietzsche-Heidegger-Derrida-Deleuze, in contrapposizione e in parallelo a quella di Badiou, e questa è in effetti la costellazione di autori entro la quale Laruelle è più spesso posizionato7. Ma, mentre la filosofia standard muoverebbe da una decisione di principio su sé stessa per poi applicarsi rigidamente alla totalità delle cose, la filosofia non-standard dovrebbe costituirsi come uno stile di pensiero che muta con il suo oggetto: quindi proprio come un movimento privo di definizione, identità logica e tradizione. Essa non è “né teorica, né pratica, né estetica, ecc. nel senso in cui la filosofia definisce regioni separate dell’esperienza” (Laruelle 1986, pp. 348-349), perché vuole essere tutte queste cose insieme. Essa paga la liberazione dalla filosofia con la libera4 5 6 7
Cfr. (Laruelle 2004, pp. 29-42). Uno schizzo biografico si trova in (O’Maiolearca e Schmid 2019, pp. 12-18). La bibliografia completa di Laruelle è presentata nello stesso volume, pp. 429-435. Il tema dell’estrema difficoltà o dell’impossibilità di introdurre Laruelle è un leitmotiv delle prime pagine di molte introduzioni a Laruelle, alle quali qui rimando comunque: cfr. (Gangle 2013, p. 7); (Galloway 2014, p. XI); (Smith 2016, pp. 1-5). Ed entro la quale, in certa misura, egli colloca sé stesso: uno dei testi di Laruelle che meglio funzionano come accesso al suo pensiero è (Laruelle 1986).
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zione dall’identità e con tutto ciò che ne consegue a livello di accessibilità epistemica. Viceversa, paga la liberazione da identità e differenza con la liberazione dalla filosofia, mettendo così a rischio lo spirito democratico dell’impresa non-filosofica (Laruelle 1996, pp. 56-62) attraverso la sua chiusura in un linguaggio ermetico, privo di termini di confronto e perciò suscettibile a derive dogmatiche. Questa ambigua liberazione avviene tramite una rinnovata radicalizzazione di una differenza già radicale: quella tra linguaggio e realtà. Se dal lato ontologico troviamo l’immanentismo assoluto dell’Uno, dall’altro troviamo allora una performance quasi- (cioè non-) filosofica, la quale si rende impossibile nel testo e come testo nel momento stesso in cui non lascia al linguaggio alcun margine di ulteriorità rispetto all’Uno. Il linguaggio, nel suo differenziarsi estremo dal reale, si fa quasi niente; e ciò che in esso è senz’altro reale – i suoi effetti e le sue cause – viene del tutto integrato nell’Uno. La non-filosofia si performa in modo quasi-linguistico dall’interno dell’Uno e in accordo con l’Uno. Essa scarta non solo la dialettica platonica, ma anche l’inizio presocratico della filosofia come pensiero del tutto e del suo principio. Perciò può solo far collidere concetti, mettere in scena la loro danza senza risoluzione dialettica. Ma in questo gioco Laruelle cerca ancora un valore teoretico, in quanto esso – sulla traccia di un’altra grande tradizione antidialettica, la mistica8 – dovrebbe mostrare l’Uno. Lo fa però, ancora, attraverso il testo9. Laruelle si pone nella posizione paradossale di voler trasmettere, attraverso una distanza discorsiva, un’esperienza della filosofia non come produzione di discorsi giusti o sbagliati sulla realtà (attraverso la differenza, la molteplicità o l’eventualità, come accade rispettivamente in Derrida, Deleuze e Badiou), ma come suo momento materiale e immanente: come un affetto nel commercio degli effetti e delle cause. Laruelle vuole, insomma, rivedere ciò che conta come pensiero. Vuole farlo secondo una prospettiva materialista e pluralista che vede la filosofia solo come un tipo di pensiero e come un momento dell’Uno. Di fatto, lo fa anzitutto sviluppando una critica dirompente di alcuni cardini secolari dell’epistemologia della filosofia 8 9
Un confronto puntuale con questo paragone spontaneo si trova in Laruelle 1987. Una tr. it. (senza firma) è disponibile a . È interessante ricordare che Badiou – probabilmente il più rilevante filosofo francese vivente, nonché opposto simmetrico di Laruelle in tanti punti del suo percorso filosofico – è anche drammaturgo. Pur praticando sia la scrittura filosofica che il teatro, egli mantiene le due pratiche separate. Laruelle, invece, non può fare a meno di mescolarle.
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– critica che, ai fini di questa raccolta, resta l’aspetto più interessante del suo lavoro, anche solo come testimonianza dell’esaurimento della “fine della filosofia” attraverso l’estremizzazione del suo intimo paradosso. Perciò l’impossibilità di introdurre Laruelle non deriva da una sua particolare oscurità espressiva. Il suo discorso non è più oscuro di quello presentato da altri filosofi di professione a cui stavano stretti certi linguaggi: Heidegger, o anche Wittgenstein. L’impossibilità di introdurre Laruelle deriva piuttosto dalla posizione paradossale in cui egli mette chi lo legge: o si danza già con il non-filosofo, e allora non si ha più bisogno della scala fornita dal testo laruelliano; oppure si rilevano le contraddizioni della sua performance discorsiva, restando però nel dominio logico-filosofico dell’identità e della contraddizione da cui il non-filosofo sta cercando di uscire. Questa ambigua libertà dell’inizio è all’origine delle insospettabili comunanze di Laruelle con la fenomenologia. Non potendo introdurre davvero Laruelle, commento qui le pagine seguenti secondo questo taglio quasi del tutto accidentale: la fenomenologia è una prima forma di non-filosofia; Laruelle, considerato su un piano esclusivamente epistemologico, è in dialogo anzitutto con Husserl10. Anche la fenomenologia inizia come un’istanza di liberazione da un apparato teorico avvertito come ormai esaurito e soffocante nella sua pretesa di totalità11. Da questa istanza si sviluppano, anche all’interno di essa, alcune delle movenze non-filosofiche a cui ho già accennato: un tentativo di riformulazione dello statuto epistemologico della filosofia sulla scorta di una certa forma di immediatezza non-dialettica, e quindi l’insistenza sulla priorità del mostrare rispetto al dimostrare; l’accento sul carattere “scientifico” della nuova pratica discorsiva, da un lato, e sul suo carattere performativo dall’altra; l’enfasi sulla decisione come momento d’inizio di una pratica radicalmente nuova; il rifiuto di appoggiarsi alla tradizione filosofica e la conseguente difficoltà nel formulare qualsiasi propedeutica per questa nuova pratica. Su punti decisivi le proposte di Laruelle e Husserl restano comunque divergenti. Intenzionalità incarnata contro immanenza radicale, descrizione contro collisione, Platone (e il suo dispositivo identità-differenza) rinnovato contro Platone scartato. La visione scolastica che isola uno Husserl rigidamente illuminista – correlata alla moda corrente in filosofia, la quale a sua volta vorrebbe Laruelle incastrato in tutt’altro luogo – ha poi già chiuso 10 Non si tratta di un legame del tutto peregrino, soprattutto considerando l’influenza della fenomenologia francese su Laruelle, le molte sue collaborazioni con riviste come Analecta Husserliana e, soprattutto, il ruolo di Husserl in (Laruelle 1996): cfr., ad es., pp. 70-76. 11 Mi riferisco al neokantismo. Si veda ad es. (Luft 2018).
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la partita su che aspetto potrebbe avere l’altro dalla filosofia: probabilmente un aspetto oscuro, antirazionalista, come ci si immagina di solito; o forse l’aspetto di un razionalismo rinnovato, di un illuminismo scampato alle sue stesse trappole concettuali e politiche; o ancora un altro aspetto, esterno a questa dicotomia e che qui non saprei delineare. Laruelle, invece, non ha chiuso la partita. Ora, a me sembra che, con buona pace dell’opinione ricevuta, in effetti non l’abbia chiusa nemmeno Husserl. Entrambi giocano ancora, e quindi possono giocare insieme – ma in quale campo? Cercando di liberarsi dalla funzione infestante della filosofia, Laruelle deve definire le caratteristiche strutturali di qualsivoglia pensiero totalizzante. E questo sembra un compito tipicamente filosofico, cioè totalizzante. Laruelle cerca la soluzione, quindi, nel campo del performativo. Il consiglio forse più opportuno, a questo punto, è di leggere le pagine che seguono proprio come una performance, come una musica suonata o una partita giocata, come un evento e non come la funzione di un prodotto concettuale. Questo evento mostra, in una delle sue declinazioni, il persistente sforzo laruelliano di immaginare cosa potrebbe significare fare filosofia dopo la fine della filosofia e, più in generale, fare scienza dopo la fine della “Scienza”. Riferimenti bibliografici Agamben, G. 2016 Che cos’è un dispositivo?, nottetempo, Roma. Galloway, A. R. 2014 Laruelle. Against the Digital, University of Minnesota Press, Minneapolis. Gangle, R. 2013 François Laruelle’s Philosophies of Difference: A Critical Introduction and Guide, Edinburgh University Press, Edinburgh. Laruelle, F. 1986 Les Philosophes de la différence. Introduction critique, Presses Universitaires de France, Paris. 1987 La Verité Selon Hermès, in “Analecta Husserliana”, XXII, pp. 397-401. 1996 Principes de la non-philosophie, Presses Universitaires de France, Paris. 2004 La Lutte et l’utopie a la fin des temps philosophiques, Kime, Paris. 2015 “Je suis un collisionneur de concepts, pas un dialecticien”, in “philosophi magazine”, .
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Luft, S. 2018 Kant, Neo-Kantianism, and Phenomenology, in “Philosophy Faculty Research and Publications”, 772, . O’Maiolearca, J. e Schmid, A. F. 2019 Introduction, in J. O’Maiolearca, A. F. Schmid (a cura di), La Philosophie non-standard de François Laruelle, Garnier, Paris, pp. 11-31. Smith, A. P. 2016 Francois Laruelle’s Principles of Non-Philosophy. A critical Introduction and Guide, Edinburgh University Press, Edinburgh.
François Laruelle
LA SCIENZA DEI FENOMENI E LA CRITICA DELLA DECISIONE FENOMENOLOGICA
1. La rettificazione scientifica della fenomenologia Ogni scienza è “scienza di fenomeni”. Ma come dare un contenuto rigoroso alla connessione della scienza e del fenomeno in quanto tali? Come articolare l’una e l’altro entro una scienza, e passare così dalla formula generica e positivista al concetto scientificamente elaborato di fenomeno? Senza dubbio, questo programma appartiene a qualunque fenomenologia, nella misura in cui essa è sempre un po’ una metafisica e quindi una scienza dell’essere. E tuttavia esso eccede, allo stesso tempo, l’orizzonte fenomenologico. Cosa può eccedere rispetto all’orizzonte della fenomenologia e, in ultimo, della metafisica? Una decostruzione, forse, ma forse anche una scienza tale da non essere mai stata, per definizione, una scienza dell’essere. Noi ci lasciamo guidare qui, nella realizzazione di questo programma, dall’Idea dell’autonomia radicale della scienza-come-pensiero rispetto al pensiero metafisico e dunque anche fenomenologico. Di questa Idea faremo la prova successivamente. Cosa ne risulta, ora? Husserl, dopo molti altri, riceve la nozione di “fenomeno” alla luce di un uso triplice: ontologico e greco; critico, soggettivista e moderno; e infine positivista. Egli “modifica” questa nozione nel senso dell’idealismo trascendentale, che è scientifico proprio secondo la stretta misura in cui è filosofico. Se si suppone, al contrario, che la scienza è scienza per sé stessa e non per la sua fondazione filosofica, che la filosofia come scienza rigorosa è il sogno della scienza ma non la scienza stessa, allora una scienza del fenomeno suppone molto di più rispetto alla sua modificazione fenomenologica: essa suppone la rettificazione scientifica della fenomenologia, che è stata scienza solo nel senso in cui la metafisica ha sempre creduto di esserlo. Il programma è questo: al di là della fenomenologia come scienza del fenomeno, o anche al di là della decostruzione della fenomenologia, c’è ancora la via di una scienza non fenomenologica del fenomeno, di una “non-fenomenologia”, che è una realizzazione radicale di una scienza della
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fenomenologia piuttosto che la realizzazione di una fenomenologia come scienza. Le due soluzioni che stiamo ora escludendo si muovono entrambe in un circolo vizioso inevitabile: il circolo del fenomeno e del logos, o della differenza fenomeno-logica nella quale tutte le filosofie in qualche modo si muovono. Questa differenza, questo eterno conflitto tra fenomeno e logos, della fenomenologia e della metafisica, è ancora la metafisica, è ancora la sua ampiezza capace di distendersi e sopportare la differenza. Una tale guerra intestina, dove il fenomeno e il logos si impediscono a vicenda e si determinano mutualmente, non è comunque più un problema per noi che supponiamo che la scienza non lavori né pensi sotto l’autorità del logos. È il semplice materiale di una scienza nuova, una scienza della filosofia e in particolare della fenomenologia. Il compito, dunque, è di produrre un concetto di scienza che non sia più filosofizzabile; che non sia né empirico-positivista né idealista-trascendentale; che non dipenda più da una decisione filosofica in generale ma che radichi la scienza in sé stessa, in un modo di pensiero assolutamente specifico e originario. Dobbiamo almeno rendere plausibile un pensiero scientifico e non soltanto delle conoscenze. Dobbiamo rendere plausibile che in questo pensiero si riconcilino il più estremo realismo e una dimensione che si continuerà a chiamare “trascendentale” – ma per delle ragioni nuove: le ragioni di un’immanenza radicale sconosciuta alla metafisica, cioè alla filosofia. Se ogni scienza riposa in questo modo in sé stessa e se possiede questa potenza trascendentale, una scienza reale e particolare della filosofia diventa possibile al posto del vecchio sogno della filosofia-come-scienza. Una scienza che, però, non degraderà la decisione filosofica, ad esempio alla maniera empirico-positivista del Circolo di Vienna. La critica scientifica della filosofia, e dunque la fenomenologia, deve sorgere dalla scienza stessa, nella misura in cui questa possiede una “interiorità” inaccessibile al logos o al concetto filosofico, e più potente di questo. È dunque all’interno del programma generale di una scienza “empirica” della filosofia – empirica piuttosto che empirista – che noi inscriviamo questa rettificazione scientifica del fenomeno, per la quale la fenomenologia non è più che un semplice materiale da lavorare. Una scienza “empirica” della filosofia implica, in effetti, che la filosofia smetta di essere soltanto il potere di legiferare su sé stessa; che essa sia, piuttosto che il mero circolo di autocomprensione e autolegislazione, anche e come tale (ma sotto una ragione ora non-filosofica) un semplice dato filosoficamente inerte o sterile per una disciplina che riposa su altri principi. Se si assume la radicalità di questo programma, si dovrà ammettere che una decisione filosofica qualunque, per esempio quella fenomenologica, è colpita da una contingenza
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radicale – e a colpirla è la scienza, di cui essa diviene un semplice oggetto. Contingenza scientifica e non più filosofica, e che raggiunge la stessa Tradizione, ad esempio la Storia dell’Essere e il Destino che la dona. Una volta ottenuta, questa rettificazione scientifica della rappresentazione fenomenologica del fenomeno permetterà di concludere che la fenomenologia è ancora una maniera di obliare l’essenza del fenomeno, che l’interminabile discorso di Husserl è la sua degenerazione logica; che la logica o l’ontologica del fenomeno è soltanto la sua filosofia, non la sua scienza – se l’essenza di questa scienza non si lascia più determinare, secondo quanto i filosofi credono spontaneamente e costantemente, come un modo deficitario del logos, compreso talvolta come un’ontologica e talaltra come una decostruzione del logico. La trasformazione della filosofia in continente scientifico non si può fare se non da un punto di vista non-filosofico, dove il reale non è più, in alcun senso, confuso con il logico – il logico in tutti i sensi della parola e nel senso del logos in particolare. La dissoluzione dell’anfibolia del reale e del logos, del trascendentale e del logico, e infine della scienza e della filosofia è la condizione assoluta di questa costituzione della filosofia come un nuovo continente scientifico. Ed è la scienza stessa che esige questa dissoluzione. 2. La modificazione fenomeno-logica del fenomeno “Fenomeno” è inizialmente un dato empirico-ideale, una nozione del linguaggio ordinario e filosofico, ricevuta come tale dalla fenomenologia. Questa la tratta secondo un corpo di regole invarianti che saranno descritte. Produce, così, il concetto propriamente fenomenologico di “fenomeno”. Ma la fenomenologia, cioè una filosofia supplementare, è capace – sotto le due forme in cui essa intende il logos: come scienza dell’essere e come decostruzione di questa scienza – di elaborare un concetto scientifico rigoroso, come crede di essere? Con “concetto scientifico rigoroso” intendiamo già necessariamente quel che l’Idea di un’autonomia del pensiero scientifico esige: un concetto che sia (1) proprio o specifico della cosa, capace di esplicare l’identità del fenomeno; (2) descrittivo di questo, cioè fondato nell’immanenza della conoscenza al reale del fenomeno; (3) radicalmente trascendentale, non ancora impregnato di determinazioni sensibili o cosmologiche. Un concetto empirista in un senso non surrettizio, che rifletta specularmente il suo oggetto, che si tratti del darsi empirico del fenomeno o la sua essenza reale. Un tale concetto dovrà mostrare o descrivere nella sua “purezza trascendentale” (Husserl), ma anche nella sua realtà non-
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empirica, l’essenza del fenomeno, il fenomeno come tale, ed eliminare i circoli pragmatici o utilitari tra i suoi lati empirici trascendenti (ad esempio, il suo lato cosmologico, solare e diurno, conservato da Eraclito) e la sua essenza o la sua realtà. Questa esigenza è tutto ciò che una scienza, a differenza forse della filosofia, può e deve intendere nell’idea di “purezza trascendentale”. È evidente che il trattamento fenomenologico del fenomeno non ha mai soddisfatto questi criteri. Come ogni decisione filosofica, la fenomenologia è un’articolazione o una sintassi che assembla dualità unitarie, cioè dualità ottenute tramite divisione o scissione e simultaneamente superate o riunificate per sintesi. Qualsiasi siano i loro modi, esse sono delle invarianti. Tali dualità unitarie organizzano, evidentemente, la descrizione fenomenologica: tali sono per esempio la decisione dell’empirico e dell’a priori, del reale e dell’ideale; poi la decisione dell’a priori e del trascendentale, dell’idealità e della realtà nel senso idealista-trascendentale. Queste dualità si intrecciano l’un l’altra e si generano circolarmente, nel seno di un’identità o unità suscettibile di divisione, la quale adempie alle funzioni secondarie di agente di riconciliazione. Il concetto fenomenologico di fenomeno non ha una realtà propria o specifica. Esso non fa che esprimere questo lavoro e questo percorso della decisione fenomenologica che gli è imposta dall’esterno o in maniera trascendente. (1) Da una parte, la sua idealizzazione a priori o la sua riduzione eidetica – la distinzione dell’apparire o dell’apparizione e dell’oggetto apparente, da cui Husserl ricava il punto di Archimede della sua impresa – continua a interiorizzare determinazioni empirico-trascendenti nell’a priori del fenomeno, nel concetto di apparizione come vissuto. Altrimenti c’è il fulmine e tutto l’apparato cosmologico eracliteo, con il levarsi del sole che manifesta l’essente secondo il modo solare: almeno il modello della percezione e del vedere intuitivo o dell’intuizione (Anschauung) che è inseparabile dalla trascendenza dell’oggetto trascendente, nella misura in cui questo è idealizzato. La riduzione eidetica del fenomeno è insufficiente per eliminare realmente il rischio di una sensibilizzazione empirico-trascendente della sua realtà – essa è, al contrario, questa sensibilizzazione rappresentativa della manifestazione di tipo filosofico che resta, al suo fondo, grecocosmologica. Husserl basa la fenomenologia “scientifica” su un concetto semplicemente meta-fisico del fenomeno. Lo “espone” entro un’estetica senza dubbio trascendentale, ma ancora eidetica, troppo idealizzante precisamente per non riflettere specularmente in essa il lato empirico e trascen-
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dentale della fenomenalità. Una scienza non può accontentarsi di questo immaginario greco che è il contenuto reale della speculazione filosofica. (2) D’altra parte, questa prima dualità si prolunga, ma non si prolunga senza superarsi in un’altra, la dualità dell’essenza a priori e della realtà; dell’apparire come vissuto distinto dall’apparenza e dall’immanenza reale del fenomeno, dal suo dato assoluto nella sua “purezza trascendentale”. Qui il processo è quello di una purificazione e di una realizzazione trascendentali o fondate nell’immanenza di una donazione assoluta. Tuttavia la purificazione non è la purezza, non più di quanto la realizzazione non è il reale o il donarsi il dono. Queste sono ancora delle operazioni o delle decisioni che presuppongono, da un lato, ciò che si esige (la purezza, la realtà e il dato del fenomeno, cioè la sua identità assoluta, specifica e immanente), e d’altra parte la precedente distinzione sulla quale esse lavorano, ma di cui internalizzano un po’ di più gli elementi trascendenti senza pervenire a sospenderli davvero. Che nell’ego trascendentale non sia più contenuta la “minima particella del Mondo” è un’affermazione vera, ma solamente nel senso per cui è il mondo intero e come tale che vi è contenuto – il mondo intero, cioè la decisione filosofica come tale. Husserl chiama “presenza”, “verità”, “vero e definitivo assoluto” questo processo (che è ancora trascendente o inclusivo in sé della trascendenza della decisione, cioè delle riduzioni), attraverso il quale egli intende conquistare – e conquistare con la forza – il dato assoluto del fenomeno e il fenomeno del dato assoluto. Un processo che testimonia della “verità” filosofica, ma certamente non della verità scientifica. La “presenza” non è l’immanenza, è piuttosto la sua repressione o la sua perdita. La decisione fenomenologica produce tutt’al più un affollamento dei concetti di fenomeno, un continuo di modificazioni ottenute per divisione e identificazione. Il fenomeno ci perde la sua identità: sia l’immanenza e l’identità della sua realtà o della sua essenza, sia il rigore descrittivo del suo concetto. Disperde la sua identità, dissolve la sua realtà e il suo dato attraverso delle definizione insieme totali e parziali. Ecco il senso e la prova dell’immanenza radicale, perduti con la decisione fenomenologica che tuttavia li sollecitava. Questa logica spiega le famose “finezze” fenomenologiche, come la ricerca, impossibile e incessante, dell’essenza del fenomeno. La radicalizzazione trascendentale del fenomeno non ha mai procurato il fenomeno come radicale della manifestazione, ma tutt’al più lo ha supposto, cioè presupposto e diviso o alienato entro la rappresentazione cosmologica e intuitiva. Questo processo circolare interminabile non risponde a nessuno dei criteri di una teoria scientifica del fenomeno, ma si limita a monetizzare l’impossibile sogno fenomenologico della scienza.
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Quanto alla decostruzione heideggeriana della fenomenologia, essa non se la cava meglio nell’accedere all’identità reale del fenomeno. La possibilizzazione del fenomeno procede rapportando il possibile o l’a priori del fenomeno a un “reale”, senza dubbio, ma un reale accoppiato, seppur in altri modi, con la possibilità ideale e greca del fenomeno. Questa possibilità è condensata da Heidegger nella formula generica “ciò che appare o si disvela, ciò che si manifesta”. Quanto al reale che fonda questa possibilità, è ovviamente il “ritirarsi”, il “velarsi” – tale almeno che prevale, qui, sull’unità che esso poi forma con il disvelamento. Da qui la sua definizione non?fenomenologica [sic] del fenomeno come ciò che è in primo luogo nascosto… questo scivolamento dalla presenza all’aletheia ha luogo dunque in seno al logos comune e resta nell’orbita della decisione filosofica che esso si accontenta di sospendere senza poterla annullare completamente o rendere contingente. La decostruzione del fenomeno consiste solamente nell’accentuare il momento di deiscenza, nell’aggravare la ritirata che apparteneva già, in una forma attenuata, alla “presenza”, e a giocare una volta di più sulla sola trascendenza. Heidegger si allontana ancora di più, rispetto a Husserl, da una scienza del fenomeno. Se ne allontana a causa di Husserl – il cui concetto di “presenza” testimoniava già della perdita radicale e senza ritorno dell’immanenza del fenomeno. Ma se ne allontana anche perché crede che la “distruzione”, la sospensione effettiva dell’orizzonte greco che ci apre e ci chiude il pensiero, abbia a che fare con un supplemento di trascendenza alla decisione, di alterità alla presenza, e che basti attribuire all’essenza di un fenomeno un Un-Wesen, un non?eidetico o un non?logico [sic]. La finitezza del fenomeno, così compresa dall’esterno, non può realmente rimuoverlo dalla sfera della metafisica. Essa continua a supporre come inevitabile, per differirla, la presenza o la parusìa come contenuto reale del fenomeno. Acquisita in questo modo, la fenomenalità del fenomeno non è soltanto reale: essa è reale (-e-) possibile, reale (-e-) ideale. Essa continua a dissolvere la realtà o l’immanenza della manifestazione dentro dei giochi di feticci che pretendono di esaurire la sua essenza. Heidegger elabora senza dubbio già una non-fenomenologia, ma secondo un modo globalmente negativo o almeno aporetico. Egli non accede a una determinazione specifica e positiva del non- della non-fenomenologia, ma lo determina ancora parzialmente a partire dalla sua circolarità con il fenomenologico. Da ciò l’indeterminazione, la non-realtà, l’irrealtà persistente del suo concetto di fenomeno. Il contenuto reale o scientifico della fenomenologia deve senza dubbio essere definito come “non-fenomenologico”: occorre ancora che il non- sia determinato in una prova che procede
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dall’identità e dalla realtà del fenomeno e del fenomeno piuttosto che del logos, al posto di procedere dal logos e di toccare esteriormente un “fenomeno” raggiunto empiricamente. In generale, il logos del fenomeno, quale che sia l’esperienza che ne è il contenuto reale (presenza o aletheia, ecc.) consiste in una modificazione e interpretazione di ciò che è dato come fatto insieme empirico e ideale come “fenomeno”, di “ciò che si manifesta o si svela”, ecc. Il fenomeno è supposto dato in un modo empirico piuttosto che assolutamente dato o dato in modo soltanto immanente, per essere in seguito trattato dalle operazioni della decisione filosofica. È difficile non vedere in questo modo di fare, che è di tutte le filosofie, una tecnologia trascendentale piuttosto che una scienza. La fenomenologia di Husserl è una tecnologia trascendentale dei fenomeni, quella di Heidegger è la semplice delimitazione o inibizione di questa tecnologia. In entrambi i casi, non è una scienza: essa suppone dato un materiale che essa trasforma continuamente o unitariamente, come se il materiale e il processo si determinassero reciprocamente. Pertiene alla filosofia piuttosto che alla scienza di credere che essa sia una parte – astratta o concreta, ma una parte, del suo oggetto; e alla fenomenologia di credere che l’essenza e le determinazioni empiriche del fenomeno, e anche il concetto e l’oggetto “fenomeno”, si coappartengano e si trasformino mutualmente. Di contro, pertiene alla scienza di trattare il suo materiale come un dato contingente per la sua essenza di scienza, e il concetto scientifico del fenomeno come realmente “purificato” di tutte le determinazioni empirico-trascendenti, precisamente perché sta per queste determinazioni come non (-fenomenologico). 3. L’essenza della scienza Come produrre un concetto scientifico del fenomeno a partire dai sensi ordinari e filosofici della parola? Rettificando questi in funzione dello schema attraverso il quale noi definiamo l’essenza della scienza e la distinguiamo da quella della filosofia. Questa si fonda su delle dualità unitarie o tali per scissione, quella si fonda sull’immanenza radicale o sull’identità reale – l’Uno, in quanto vissuto indivisibile (dell’)indivisione stessa – e solo in seguito su una dualità. Di conseguenza, questa è allora una dualità originaria, non ottenuta per divisione dell’Uno, e che si fonda, come tale, in esso, senza derivarne in modo continuo. È la dualità dell’Uno stesso o del reale, e del dato ora radicalmente contingente. Quest’ultima è, a questo punto, la stessa decisione fenomenologica sul fenomeno, la decisione noetico-noematica (nt/nm). Sia dato il seguente algoritmo:
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La “distruzione” non-fenomenologica della fenomenologia si realizza qui sotto la forma di una trasformazione scientifica di questa, così ridotta allo stato di semplice materiale per la conoscenza. Al di fuori di questo algoritmo, che è quello di un sapere non circolare, non speculare, e che sospende solo l’autorità della decisione filosofica, non ci sono che i fantasmi instabili delle distinzioni unitarie o indecidibili della fenomenologia. Il giudizio di Heidegger su Husserl merita di essere rivolto contro Heidegger stesso. Egli ha scritto: “La domanda fondamentale di Husserl non è quella che si interroga sul modo d’essere della coscienza; egli è piuttosto guidato dalla riflessione: come può la coscienza diventare l’oggetto di una scienza, assoluta?”1. Ma la domanda fondamentale di Heidegger non è quella che chiede del mondo dell’essere o dell’essenza dell’Uno. Egli è, piuttosto, guidato dalla riflessione: come può l’Uno, supposto come dato, servire a pensare l’Essere? Come possono il reale e il pensiero del reale (cioè la scienza), essendo supposti come dati, servire a pensare, contro la scienza, l’ontologia e l’origine dell’ontologia? Egli ha anche scritto: “L’elaborazione della coscienza pura come campo tematico della fenomenologia non è acquisita grazie al ritorno alla cosa stessa, ma piuttosto appoggiando1
Laruelle traduce da (Heidegger 1988, p. 147). Qui traduco dal francese di Laruelle. La tr. it. invalsa del passo originale heideggeriano (tratta da Heidegger 1991, p. 134) recita: “La questione primaria di Husserl non è quella circa il carattere d’essere della coscienza, ma lo guida la seguente riflessione: come può in generale la coscienza diventare oggetto possibile di una scienza assoluta?”. Come si vede, la differenza principale tra le due versioni sta nell’uso di “modo” al posto di “carattere” e all’omissione di “possibile” dalla versione laruelliana. Considerando che nel testo originale leggiamo, nei punti in questione, rispettivamente “Seinscharackter” e “möglicher Gegenstand”, la versione di Cristin e Marini va considerata come la più accurata, di contro alla versione più “orientata” di Laruelle. Si noti che Laruelle si allontana anche dalla traduzione invalsa in lingua francese a opera di A. Boutot: cfr. (Heidegger 2006, p. 161). [N.d.T.]
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si sull’idea tradizionale di filosofia”2. Ma non accade che l’elaborazione dell’essenza dell’Essere come campo tematico del pensiero sia piuttosto acquisita grazie al ritorno alla cosa stessa, cioè al reale = Uno, appoggiandosi a sua volta sull’idea tradizionale della filosofia. Come Husserl, Heidegger non pensa a partire dalle cose stesse, ma a partire dalla storia della metafisica. Egli si fonda sull’anfibolia della filosofia e del reale – anfibolia che, per la scienza, è forse l’Illusione trascendentale che affligge non soltanto la metafisica ma tutta la filosofia, e dunque anche la decostruzione della metafisica. 4. La scienza del fenomeno A differenza di una filosofia, che si accontenta di una rappresentazionedel-reale in veste di reale, o che confonde i due, una scienza si rivolge anzitutto al solo reale e non può descrivere un oggetto senza supporlo tale. Più esattamente: senza postulare, rispetto a esso, che esso sia dato senz’altro e assolutamente come oggetto, e come nient’altro che reale anche prima di essere rappresentato e descritto nelle sue conoscenze fondate. Dunque dato assolutamente a priori o in ultima istanza prima di ogni oggettivazione possibile. Una scienza conosce il reale anzitutto sotto la forma inoggettiva dei dati radicalmente immanenti o assoluti, piuttosto che sotto la forma di rappresentazioni in primo luogo oggettive. È solo in seguito, e su questa base reale, che essa può intraprendere la produzione di conoscenze, cioè la rettificazione delle prime rappresentazioni immediate del suo oggetto reale e della sua funzione. L’algoritmo proposto esige dunque che una scienza distingua non due/ tre sensi insieme continui e distinti del fenomeno al modo di una filosofia (il fenomeno come oggetto, come senso e come atto o vissuto); ma: da una parte e “messa da parte” la sua essenza – riconosciuta come l’identità del fenomeno o come la sua realtà, che è ciò che la scienza postula di ogni oggetto in quanto oggetto reale e non come semplice rappresentazione filosofica; 2
Anche in questo caso, le parole tra virgolette traducono la traduzione di Laruelle. La versione italiana invalsa recita, ancora a p. 134: “L’elaborazione della coscienza pura come campo tematico della fenomenologia non è ottenuta fenomenologicamente nel ritorno alle cose stesse, ma nel ritorno a un’idea tradizionale di filosofia”. Due sono le differenze notevoli: l’omissione di “fenomenologicamente” e la trasformazione del plurale di “cose stesse” in un singolare. Anche in questo caso, la versione di Cristin e Marini risulta più fedele all’originale tedesco (op. cit., p 147). [N.d.T.]
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da un’altra parte – in una dualità originaria, senza continuità con l’essenza – quei sensi fenomenologici ridotti ora allo stato di semplici dati o rappresentazioni ancora non-elaborate come conoscenze del loro oggetto reale; la trasformazione, infine, di queste rappresentazioni del fenomeno in accordo al loro oggetto reale (l’essenza o l’identità del fenomeno), trasformazione che produce un oggetto di conoscenza che è la rigorosa descrizione dell’oggetto reale. Questo lavoro di trasformazione, cioè di produzione di una conoscenza, noi lo tentiamo nel domandarci: a quali condizioni il “fenomeno” cessa di essere una rappresentazione filosofica per “diventare” l’oggetto reale di una scienza e soprattutto per essere descritto come questo oggetto reale tale da essere caratterizzato a priori dalla sua realtà, cioè da un’identità e immanenza radicali che lo distinguono da una semplice rappresentazione immediata, per esempio fenomenologica? Concretamente, una scienza del fenomeno consiste nell’utilizzare, per descrivere l’immanenza assoluta del fenomeno, le rappresentazioni fenomenologiche di questa immanenza, inadeguate per principio; a criticarle nel loro appello alla trascendenza e all’intuizione; a rettificarle in funzione di questa immanenza assoluta; a farle servire piuttosto a descrivere il fenomeno nel senso scientifico della parola e a ritornare dalla fenomenologia come factum alla fenomenologia come semplice datum. Questo lavoro è impossibile da fare qui, ma si può indicare in cosa la fenomenologia è una semplice rappresentazione del fenomeno e non lo conosce nella sua realtà, o si accontenta di rappresentarlo piuttosto che di conoscerlo rigorosamente. La coscienza, in effetti, non può dare – anche quando è assoluta – l’immanenza reale o l’identità dell’Uno. Questa è nondecisionale e non-posizionale (rispetto a) sé, mentre la coscienza non può che essere – come Husserl dice spontaneamente – la posizione (Setzung) di un dato visto o intuito. Per di più, essa include in sé la dimensione dell’intenzionalità o della trascendenza, e l’immanenza intenzionale o ideale non può non influenzare la concezione dell’immanenza reale del vissuto, dato che questa non è riconosciuta come data assolutamente e originariamente, al di fuori di ogni rapporto con la trascendenza. Due tratti della fenomenologia compongono un sistema e appartengono alla decisione filosofica piuttosto che alla scienza: Husserl oscilla in maniera decisionale o circolare entro l’immanenza reale e l’immanenza intenzionale e concepisce l’immanenza reale come una posizione. Gli altri tratti della coscienza confermano questo punto: essa non può essere costitutiva o rendere presente e manifesto il dato, essa non può conquistare attivamente (erwerbende Aktivität) la presenza, essa non può essere un vedere intuitivo puro e una riflessione, se non avendo come essenza la trascendenza e la rappresentazione in generale, semplicemente mescolata col reale.
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Da questo punto di vista, gli argomenti di Heidegger sulla natura semplicemente filosofica della coscienza pura hanno valore solo contro Husserl, e nient’affatto contro l’Idea di immanenza radicale che egli confonde – a torto, ma sulla scia di tutta la filosofia – con la coscienza. La coscienza pura, dice Husserl, è (1) immanente; (2) data in modo assoluto; (3) costitutiva di ogni trascendenza; (4) pura rispetto a ogni individuazione. Questa descrizione è quella di un’Unità trascendentale di tipo filosofico; è presa in prestito ancora dalla rappresentazione, piuttosto che dal reale. Ciò che noi chiamiamo l’Uno (1) è realmente e solamente immanente: questa non è un’immanenza di, attraverso o con una trascendenza – per quanto epurata e idealizzata sia, come è il caso di Husserl; (2) è un dato veramente assoluto, e non un dato supposto quale è l’assoluto filosofico e fenomenologico che include la trascendenza e che dunque non può essere realmente e solamente dato; (3) non è costitutivo di alcuna presenza o rappresentazione, che sia quella di un oggetto o di sé stesso: nella misura in cui non decide (di) sé, non è costitutivo (di) sé; (4) è precisamente l’individuo stesso, l’identità in quanto reale e non in quanto logico-reale, l’individuo prima di ogni processo che trascende l’individuazione. L’immanenza reale è quindi repressa dalla coscienza pura della fenomenologia. È salvaguardata solo dalla pratica scientifica. Husserl è un pensatore sufficientemente grande da non sentirsi legato, come è Heidegger, alla tradizione filosofica, da non fornire garanzie a un filisteismo di questa tradizione; e da non sentirsi vincolato, d’altro lato, alla scienza. Ma egli non ha percepito chiaramente (ancora accecato dalla parvenza della necessità della metafisica) di stare nuovamente introducendo, al posto della scienza, un suo modello filosofico. Quanto al progetto heideggeriano di una non-fenomenologia, c’è qualche possibilità, qui, di determinarlo meglio e di realizzarlo in maniera più positiva. Esso può smettere di essere una reazione a Husserl e legittima una molteplicità positiva di descrizioni e modelli fenomenologici. Occorre senz’altro abbandonare l’assioma metafisico secondo il quale ciò che non è una scienza dell’essere non è più, propriamente, una scienza. Rinunciare a una critica filosofica della fenomenologia per una scienza della fenomenologia e della filosofia nel suo complesso non comporta la necessità di abbandonare i lavori fenomenologici. Si tratta, precisamente, di non rimpiazzare più una decisione filosofica con un’altra. Se siamo filosofi, non possiamo che essere un po’ fenomenologi. L’attività fenomenologica e in generale filosofica, semplicemente, non è più possibile, se non entro la sospensione della sua pretesa di essere una scienza. La non-fenomenologia non è né la negazione (metafisica, positivista, nichilista eccetera) della fe-
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nomenologia, che si nega già abbastanza da sola, né una fenomenologia del non-. Essa deve comprendersi piuttosto sul modello del “non-euclideo”. La fenomenologia, da Husserl a Heidegger e altri, è ristretta o interiormente limitata da un postulato restrittivo, un postulato che i filosofi non percepiscono poiché è il postulato che apre-e-chiude il campo della decisione filosofica e dunque il campo dei dati fenomenici. Il postulato è questo: al fenomeno “soggettivo”, come vissuto dell’apparizione o dell’apparire, corrisponde necessariamente – questa è una relazione d’essenza – un correlato oggettivo, un tipo e uno solo di correlato, il fenomeno-oggetto o l’oggetto apparente. La correlazione noetico-noematica resta fondamentalmente biunivoca, anche quando questo cerchio è spaccato, aperto, talvolta distrutto dalle diverse decostruzioni. Non si può appercepire il carattere particolare e restrittivo di questa regola della correlazione noetico-noematica per come è inscritta nelle radici ultime della decisione filosofica. Tuttavia, essa apparirà come contingente e limitativa a chi la misurerà attraverso il proposto algoritmo della scienza, per la quale vale un altro postulato: al fenomeno assoluto o radicale, identificato nella sua realtà trascendentale, non corrisponde più in modo necessario uno e un solo fenomeno-oggetto; in altre parole: vi corrisponde un’infinità di tali fenomeni-oggetti come correlati ora contingenti del fenomeno reale. Contingenti sia perché si equivalgono rispetto al fenomeno assoluto, sia perché questa correlazione non è necessaria per la realtà del fenomeno assoluto. L’apertura radicale di un campo trascendentale realmente illimitato di fenomeni, o piuttosto di descrizioni e di modelli possibili del fenomeno, vale a dire di conoscenze, è la conseguenza immediata della trasformazione non-fenomenologica della fenomenologia. L’apertura fenomeno-logica della filosofia sarà stata la sua immediata chiusura. L’apertura propria della scienza è di altra portata. (Traduzione dal francese di Francesco Pisano) Riferimenti bibliografici Heidegger, M. 1988 Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs, Gesamtausgabe Bd. 20, Klostermann, Frankfurt a. M. 1999 Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, Il melangolo, Genova. 2006 Prolégomènes à l’histoire du concept de temps, Gallimard, Paris.
Commento introduttivo a Senza fissa dimora cognitiva di Timothy Williamson Dario Mortini Può il giudizio umano vantare un qualche tipo di certezza assoluta? Nonostante fiumi d’inchiostro siano stati spesi su tale problema filosofico, la questione resta tuttora aperta. Descartes riteneva di poter rispondere coerentemente e positivamente a tale domanda: sì – ci dice Descartes – l’intelletto umano può vantare una certezza assoluta in un dominio alquanto specifico, quello della conoscenza della propria mente. Secondo Cartesio, infatti, la conoscenza scientifica (scientia) è una credenza fondata su una ragione che è assolutamente immune da ogni dubbio. Ma quali credenze possono rispettare un criterio tanto esigente? Certamente non quelle credenze a cui potremmo pensare immediatamente. Ad esempio, in questo esatto istante potrei formare la credenza che sto vedendo lo schermo del mio computer sulla base della mia esperienza percettiva (dopotutto, sto vedendo lo schermo del mio computer). Eppure, tale credenza non è assolutamente immune dal dubbio: forse, a mia insaputa, sono vittima di un’illusione ottica. O forse, dopo una cena ricca e gustosa, mi sono improvvisamente addormentato e sto sognando di vedere lo schermo del mio computer mentre sono comodamente seduto sulla mia poltrona. Tali credenze non sono immuni dal dubbio. Secondo Cartesio, solo un certo tipo di credenze può rispettare il criterio tanto esigente da lui proposto. Queste credenze riguardano la mente del soggetto: il cogito. Posso dubitare di ciò che vedo ora: forse non c’è alcuno schermo davanti ai miei occhi. Ma non posso tuttavia dubitare di pensare in questo momento: tale dubbio sarebbe incoerente, e in chiara tensione con la mia esperienza soggettiva immediata. Questa credenza riguardante la mia propria esistenza in quanto pensante si fonda sulle mie capacità mentali e intellettuali: è ragionevole dubitare della loro accuratezza, ma non della loro esistenza. Ogni altro tipo di conoscenza è fondato su questa categoria conoscitiva più fondamentale – la conoscenza del proprio intelletto. Tra le varie conseguenze di questa influente tesi di Cartesio ve ne sono alcune molto importanti che riguardano la conoscenza del sé: l’im-
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munità dal dubbio si può trovare in diversi stati mentali che possiamo indagare attraverso una semplice atto psicologico, l’introspezione. La lista di questi stati mentali è lunga, ma ecco alcuni esempi. Il soggetto può avere conoscenza delle proprie credenze, desideri, sensazioni ed emozioni. Riflettendo brevemente al riguardo, posso venire a sapere di credere che il surriscaldamento globale sia una minaccia per l’umanità (credenze). Posso anche venire a sapere che in questa giornata d’estate vorrei bere una birra fresca (desideri) poiché mi sento accaldato (sensazioni), e anche che temo che la mia squadra di calcio preferita perda la partita d’esordio del campionato (emozioni). La tesi di Cartesio è intuitiva e plausibile, e questi esempi ne mettono in luce tanto la sua intuitività quanto la sua plausibilità. Nel saggio che segue, il filosofo britannico Timothy Williamson sviluppa e propone un argomento contro questa influente tesi cartesiana. Per refutare la trasparenza degli stati mentali classici (credenze, sensazioni, desideri ed emozioni), Timothy Williamson difende la tesi contraria che nega la luminosità degli stati mentali, laddove per “luminosità” si intende esattamente il loro essere disponibili attraverso una semplice introspezione psicologica. Da un punto di vista logico-formale, l’argomento contro la luminosità di Williamson è simile al famoso paradosso del sorite, un antico paradosso che mette in luce la vaghezza di alcuni termini. Il paradosso del sorite sfrutta una forma di ragionamento valido (il modus ponens) per concludere che nessuna somma di grani può costituire un mucchio di grano. Allo stesso modo, Williamson sfrutta il modus ponens e alcune assunzioni innocue per concludere che un normale soggetto non è sempre e automaticamente nella condizione di conoscere i propri stati mentali (come credenze, desideri, sensazioni ed emozioni). Le assunzioni innocue sono difficili da rifiutare: ad esempio, Williamson accetta una condizione di affidabilità della conoscenza. Che la conoscenza osservi un requisito di affidabilità sembra essere una proprietà necessaria del nostro modo di conoscere il mondo e quanto ci circonda (possiamo davvero dire di un soggetto che sa riconoscere un pettirosso se riconosce un pettirosso una volta sì e dieci no?). Al contrario, che un normale soggetto possa sbagliarsi sul contenuto dei propri stati mentali può sembrare una proprietà anomala e sorprendente degli stati mentali, specialmente data la plausibilità della tesi cartesiana. Ricapitolando: la tesi cartesiana della trasparenza (o luminosità) del mentale sostiene che un normale soggetto sia sempre in grado di conoscere il contenuto dei propri stati mentali. Timothy Williamson difende la tesi opposta, e propone un argomento contro la luminosità del mentale: anche
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nel regno dei nostri stati mentali (credenze, desideri, sensazioni ed emozioni) possiamo sbagliarci e non siamo dunque infallibili. Vale la pena soffermarsi sulle conseguenze della tesi contro la luminosità di Williamson: – Logica. L’argomento contro la luminosità è tecnicamente avanzato e complesso, e una spiegazione dei suoi dettagli esula dagli scopi di questa breve presentazione. Tuttavia, vale la pena mettere in luce l’assunto metodologico dell’argomento, cioè l’analogia con il paradosso del sorite. I filosofi che prediligono un approccio più formale alla disciplina troveranno queste analogie interessanti, e meritevoli di ulteriore approfondimento. – Filosofia del linguaggio. L’argomento contro la luminosità di Williamson ha ripercussioni importanti in un dibattito un tempo molto vivo in filosofia del linguaggio, cioè quello che verte sulla natura del significato. Una posizione realista in tale dibattito vede il significato come semplicemente una questione d’uso – un parlante competente conosce il significato di un termine se lo sa utilizzare correttamente. Le condizioni d’uso di un termine presuppongono un tipo di luminosità (un parlante dovrebbe essere in grado di verificare tramite introspezione le condizioni d’uso), e se tale luminosità dovesse rivelarsi un mito filosofico la teoria realista del significato perderebbe la sua plausibilità. – Filosofia della mente. L’argomento presentato da Williamson, se corretto, costituirebbe un’importante obiezione contro una concezione cartesiana degli stati mentali tale per cui questi stati sono per natura accessibili dal soggetto. La tesi di Williamson favorisce una concezione largamente esternalista degli stati mentali, in base alla quale il loro contenuto è determinato dalle relazioni tra il soggetto e l’ambiente esterno, non dall’attività mentale del soggetto. – Normatività. La tesi di Williamson ha anche ripercussioni fondamentali per quanto riguarda le regole costitutive di atti linguistici come l’asserzione: se si accetta lo statuto dubbio e filosoficamente poco fondato della luminosità, la motivazione per una norma costitutiva interna (come una credenza giustificata) va scemando, e i presupposti per una norma costitutiva esternalista e fattiva (come la conoscenza) diventano più solidi. Tali conseguenze, non immediatamente epistemologiche, convergono tuttavia verso uno stravolgimento della nozione tradizionale di conoscenza. L’argomento di Williamson ci costringe ad abbandonare la concezione intuitiva del mentale che impariamo e discutiamo fin da Cartesio. Abbandonare tale concezione ci induce anche ad accettare che persino nelle
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nostre menti possiamo commettere errori, e ciò ci lascia senza una fissa dimora cognitiva – privi di un porto sicuro in cui un qualsiasi pensiero, una qualsiasi ragione, una qualsiasi conoscenza possa mettersi al riparo dal dubbio, dall’errore, dalla revisione. Riferimenti bibliografici Glüer K., Wikforss Å. e Ganapini M. 2022 The Normativity of Meaning and Content, in E. N. Zalta (a cura di), The Stanford Encyclopedia of Philosophy, Metaphysics Research Lab, Stanford University, . Sorensen, R. 2022 Vagueness, in E. N. Zalta (a cura di), The Stanford Encyclopedia of Philosophy, Metaphysics Research Lab, Stanford University, . Williamson, T. 1994 Vagueness, Oxford University Press, Oxford.
Timothy Williamson
SENZA FISSA DIMORA COGNITIVA
La filosofia ci invita costantemente a postulare un regno di fenomeni nel quale nulla ci è nascosto. Per esempio, René Descartes pensava che la mente fosse un buon esempio di tale regno. Ludwig Wittgenstein ha esteso questo regno a tutto ciò che è di interesse per la filosofia1. Non c’è bisogno di osservare che entrambi hanno tentato di giustificare questa caratteristica speciale in modi molto diversi; ciò che vale la pena sottolineare è il loro accordo sul nostro possesso di una dimora cognitiva in cui ogni oggetto è accessibile e visibile. Gran parte del pensiero umano – per esempio, nelle scienze fisiche – deve operare al di fuori di questa dimora, il più delle volte in circostanze avverse. Ma quello delle scienze fisiche è un caso speciale: l’idea di fondo è che non tutto il pensiero debba essere così. Negare che qualcosa sia nascosto non significa affermare alcuna infallibilità riguardo ad esso. Gli errori sono sempre possibili. Non c’è limite alle conclusioni in cui un ragionamento fallace può condurci. Il punto è che, nella nostra dimora cognitiva, tali errori sono sempre rettificabili. Tuttavia, non siamo onniscienti sulla nostra casa cognitiva. Possiamo non conoscere la risposta a una domanda semplicemente perché la domanda non ci è mai venuta in mente. Anche se qualcosa è aperto alla vista, potremmo non aver guardato in quella direzione. Di nuovo, il punto è che tale ignoranza è sempre rimovibile. Il mio scopo è quello di sostenere che siamo senza fissa dimora cognitiva. Sebbene molto sia, infatti, accessibile alla nostra conoscenza, nulla di interessante è intrinsecamente accessibile ad essa. Bisogna però prima precisare la questione, per renderla più adatta a essere discussa. 1 Vedi (Wittgenstein 1953, §126). Naturalmente, il “noi” di Wittgenstein, a differenza di quello di Cartesio, è collettivo. Ciò che non è nascosto ad ogni soggetto cartesiano è solo il suo proprio pensiero, non quello di altri soggetti cartesiani. Wittgenstein sta parlando di ciò che non è nascosto a nessuno di noi. Le argomentazioni che seguono non sono state adattate ma potrebbero facilmente essere adattate alla riflessione di Wittgenstein in On Certainty (Wittgenstein 1969) della pretesa di sapere che P quando non si può dubitare che P; l’inappropriatezza conversazionale è compatibile con la verità.
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1. È conveniente inquadrare la discussione in termini di condizioni che si danno o non si danno in vari contesti. La maggior parte delle condizioni si danno in alcuni contesti e non in altri. Per esempio, la condizione che qualcuno ha fame si dà nel contesto di una particolare persona affamata in un determinato momento, ma un cambiamento nella persona o nel tempo produce un nuovo contesto in cui la stessa condizione potrebbe non verificarsi. Il pronome “qualcuno” sarà usato per il soggetto di un contesto, al quale si fa riferimento usando la prima persona in quel contesto, come in “la condizione che qualcuno ha fame”. Sebbene le condizioni siano espresse da clausole sentenziali [sentential clauses], non sono proposizioni nello stesso senso in cui queste ultime sono solitamente concepite, proprio perché sono aperte rispetto a persona, luogo e altre caratteristiche contestuali. Usiamo spesso clausole del genere, come ad esempio in “quando piove, diluvia”. Si prenderà il dominio dei contesti in modo tale da includere sia le circostanze controfattuali che quelle reali. Poiché le circostanze su cui si basano gli argomenti che seguono sono fisicamente e psicologicamente verosimili, le questioni sui limiti della possibilità non sono immediatamente rilevanti. La prossima nozione da introdurre è quella di essere in grado di sapere. Per essere in grado di sapere che P, non è necessario sapere che P né sufficiente essere fisicamente e psicologicamente in grado di sapere che P. Più semplicemente, nessun ostacolo deve bloccare il cammino verso la conoscenza di P. Se si è in grado di sapere che P, e si è fatto ciò che si è in grado di fare per decidere se P, e allora si sa che P. Il fatto è aperto alla vista, non nascosto, nonostante non lo si veda ancora. Così, essere in grado di sapere, come sapere e diversamente dall’essere fisicamente e psicologicamente capaci di sapere, è un verbo fattivo2: se si è in grado di sapere che P, allora P. Anche se la nozione di essere in grado di sapere rimane ovviamente un po’ vaga, è abbastanza chiara per gli scopi di questo articolo. 2
In questo caso, come in molti altri nel prosieguo dell’articolo, Williamson fa riferimento alla classe dei factive verbs. Nella lingua inglese i verbi possono essere suddivisi in due categorie: fattivi e non-fattivi. Quando si utilizza un verbo fattivo ci si impegna a sostenere la verità della proposizione espressa dopo il that. Ad es., il verbo “reveal” è un verbo fattivo: “The data reveal that people living in the UK have poor foreign language skills”. I verbi non-fattivi, diversamente, indicano che il parlante non attribuisce uno status di fatto alla proposizione espressa dopo il that; il che, ovviamente, non implica che il parlante ritenga falsa la proposizione espressa. [N.d.T.]
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Si può ora definire un tipo speciale di condizione. Se C è la condizione che P, possiamo definire C luminosa solo nel caso in cui (L) sia valida3: (L) Per ogni contesto a, se in a P, allora in a si è in grado di sapere che P. Poiché essere in grado di sapere è una condizione fattiva, l’inverso di (L) vale per qualsiasi valore di “P”, quindi il condizionale in (L) potrebbe benissimo essere un bicondizionale. Il quadro generale è che una condizione luminosa splende sempre in maniera sufficientemente intensa da rendere visibile la propria presenza. Ma (L) non dice che la condizione che P si deve dare indipendentemente dalle nostre disposizioni a giudicare che P; per tutto ciò che (L) dice, la condizione potrebbe darsi proprio in virtù di quelle disposizioni. Ora, un regno in cui nulla è nascosto è un regno in cui tutte le condizioni sono luminose. Ma la domanda è: quali condizioni, se ci sono, sono effettivamente luminose? È utile a questo punto fare alcuni esempi. Il dolore è spesso concepito come una condizione luminosa, nel senso che, se si soffre, allora si è in grado di sapere che si soffre4. La definizione di luminosità permette di rispondere ad alcune delle obiezioni più ovvie ad affermazioni di questo tipo. Così, le persone a cui manca il concetto di dolore (forse perché i loro concetti suddividono lo spazio delle sensazioni possibili in modo diverso), e quindi non sanno mai di soffrire, sono tuttavia in grado di sapere di soffrire. Forse creature più primitive a volte soffrono senza possedere alcun concetto; se non fossero in grado di sapere di soffrire, un controesempio alla luminosità potrebbe ancora essere scongiurato dalla regola che il soggetto di un contesto deve essere un possessore di concetti. Questi tipi di casi non verranno presi in considerazione qui, ma dimostrano i tipi di considerazione a cui la nozione di luminosità può essere resa sensibile.
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Così come formulata nel testo, la definizione prevede l’ipotesi che, se la condizione che P sia anche la condizione che Q, allora (in ogni contesto, se P allora si è in grado di sapere che P) se e solo se (in ogni contesto, se Q allora si è in grado di sapere che Q). Se le condizioni necessariamente equivalenti dovessero essere identiche, questa assunzione potrebbe fallire. Per i nostri scopi, le condizioni saranno quindi individuate in modo che la condizione che P è la condizione che Q solo se, a prescindere dal contesto, si danno queste due condizioni: (a) si è in grado di sapere che P se e solo se si è in grado di sapere che Q; (b) P se e solo se Q. Date queste condizioni, quanto assunto è valido. Le condizioni sono individuate con una precisione almeno equivalente a quella con la quale individuiamo gli oggetti generali della conoscenza. Per una discussione recente, si veda (McDowell 1989).
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Due difese di una tesi di luminosità sono implicite nel seguente passaggio di Michael Dummett: È una caratteristica innegabile della nozione di significato – per quanto oscura sia questa nozione – che il significato è trasparente nel senso che, se qualcuno attribuisce un significato a ciascuna di due parole, deve sapere se questi significati sono gli stessi (Dummett 1978, p. 131).5
Così, se due parole hanno lo stesso significato nel contesto di un dato soggetto (è il significato per questo soggetto che è in questione), allora quel soggetto è in grado di sapere che hanno lo stesso significato, e se le parole hanno significati diversi, allora il soggetto è in grado di sapere che hanno significati diversi6. Le due affermazioni di luminosità sono realmente distinte: la premessa che ogni volta che P si dà, qualcuno è in grado di sapere che P non implica la conclusione secondo cui ogni volta che non-P si dà, si è in grado di sapere non-P. Per esempio, se ogni volta che si è svegli, si è in grado di sapere che si è svegli, non significa che ogni volta che non si è svegli si è in grado di sapere che non si è svegli7. Altre condizioni per le quali si rivendica spesso uno stato di luminosità sono quelle della forma “a qualcuno appare che P”. Per esempio, quando c’è davvero un’oasi davanti a noi, si può non essere in grado di sapere che c’è davvero un’oasi davanti a noi, ma quando almeno sembra esserci un’oasi davanti a noi, si deve essere in grado di sapere che almeno sembra esserci un’oasi davanti a noi. Non metterò in dubbio che ci sono condizioni luminose. Una condizione contraddittoria è luminosa perché (L) vale in modo vacuo; per essa, l’antecedente “in α P” non può darsi in nessun contesto. È meno ovvio che una condizione tautologica sia luminosa, perché è meno ovvio che ogni contesto deve avere un soggetto che sia in grado di possedere i concetti che occorrono nella tautologia in questione. Tuttavia, concederò il punto per amor di discussione, in modo che anche le condizioni tautologiche siano luminose. La domanda diventa quindi: esistono condizioni 5 6 7
Si veda anche l’opera di (Dummett 1981, p. 632; 1993, p. 4). Per una discussione più approfondita, si veda (Boghossian 1994). Purtroppo Dummett non chiarisce il significato di “in grado di”. Che dire di un soggetto che non ha mai confrontato le due parole? Si veda ad esempio (Williams 1978, pp. 309-13). Lloyd Humberstone (Humberstone 1988) discute i tentativi di eliminare tali asimmetrie. In senso stretto, avere lo stesso significato e avere significati diversi sono proposizioni contrarie, non contraddittorie, poiché entrambe richiedono che le parole abbiano un significato.
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luminose non banali? Nella prossima sezione, presento un esempio paradigmatico di una forma generale di argomento contro la luminosità di una data condizione non banale.
2. Per chiarezza, presenterò prima l’argomento per il caso particolare della condizione in cui qualcuno sente caldo. Per facilitare la generalizzazione, non verrà utilizzata alcuna caratteristica speciale di questo caso. L’argomentazione procede tramite reductio ad absurdum sull’istanza di interesse di (L), che sostiene che ogni volta che qualcuno sente caldo, qualcuno è in grado di sapere che sente caldo. Supponiamo che la condizione che qualcuno senta caldo sia luminosa. Consideriamo una mattina in cui uno si sente infreddolito all’alba, si riscalda lentamente ma progressivamente e infine si sente veramente accaldato a mezzogiorno. La persona in questione passa dal non sentire caldo al sentire caldo, e dal non essere in grado di sapere che sente caldo all’essere in grado di sapere che sente caldo. Se la condizione di sentire caldo è luminosa, questi cambiamenti sono esattamente simultanei. Supponiamo che le sensazioni di calore e di freddo cambino così lentamente durante questo processo che non si è consapevoli di alcun cambiamento in un secondo. Supponiamo, inoltre, che durante il processo la persona consideri accuratamente quanto caldo o freddo sente. La certezza di sentire caldo aumenta gradualmente. Le risposte iniziali alla domanda “Senti caldo?” sono fermamente negative; poi si insinuano esitazioni e precisazioni, fino a dare risposte sempre più neutre, come “È difficile da dire”; poi si comincia ad assentire, con esitazioni e qualificazioni che si vanno attenuando; le risposte finali sono fermamente positive. Supponiamo che t0, t1, …, tn sia una serie di tempi a intervalli di un secondo dall’alba a mezzogiorno. Stipuliamo inoltre che αi sia il contesto a ti (0 ≤ i ≤ n). Consideriamo un tempo ti compreso tra t0 e tn, e supponiamo che a ti, qualcuno sia in grado di sapere che sente caldo. Per ipotesi, a ti, la persona particolare ha fatto ciò che è in grado di fare per decidere se sente caldo, considerando a fondo e attentamente la questione, quindi sa che sente caldo. Così, si è almeno ragionevolmente sicuri di sentire caldo, perché altrimenti non lo si saprebbe. Inoltre, questa fiducia deve essere fondata in modo affidabile, perché altrimenti non si saprebbe ancora che si sente caldo. Attenzione: non si tratta di assumere che il concetto di conoscenza possa essere analizzato in termini di concetto di affidabilità: si
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tratta solo di assumere che l’affidabilità sia necessaria per la conoscenza (il che è difficile da negare), ma non che si possano inquadrare altre condizioni necessarie (senza usare il concetto di conoscenza) la cui congiunzione con l’affidabilità sia una condizione necessaria e sufficiente per la conoscenza. L’invocazione dell’affidabilità non presuppone neppure che la condizione si verifichi indipendentemente dalle proprie disposizioni a giudicarla; una connessione costitutiva tra di esse è spesso posta a sostegno della luminosità, ma il suo effetto è quello di rendere l’affidabilità meno contingente, non di rendere l’inaffidabilità compatibile con l’essere in grado di conoscere. Ora, a ti-1, la persona in particolare è quasi altrettanto sicura di sentire caldo, secondo la descrizione del caso. Quindi, se non sente caldo a ti-1, la sua fiducia di sentir caldo a ti non ha una base affidabile, perché la quasi uguale fiducia su una base simile un secondo prima che si sentiva caldo era sbagliata. In termini suggestivi, la gran parte della propria fiducia a ti, quella che si aveva già a ti-l, è mal riposta. Anche se la fiducia di uno a ti è appena sufficiente per contare come credenza e la fiducia di uno a ti-1 è appena al di sotto della soglia della credenza, ciò che costituisce quella credenza a ti è in gran parte fiducia mal riposta; la credenza non è all’altezza della conoscenza. La fiducia a ti è fondata in modo affidabile nel modo richiesto per la conoscenza solo se si sente caldo a ti-1. Ma poiché, come già argomentato, la fiducia a ti è fondata in modo affidabile, uno sente davvero caldo a ti-1. Adottando la terminologia dei contesti, il seguente condizionale è stato confermato: (1) Se in αi qualcuno è in grado di sapere che sente caldo, allora in αi-l sente caldo. È importante notare che (1) è semplicemente una descrizione di un processo specifico; non ha la pretesa di essere un principio generale sul sentire caldo. Si applica per ciascun contesto i compreso tra 1 e n, ma non dice nulla a proposito di contesti diversi da α0, …, αn. L’argomento può ora essere completato. La presunta luminosità della condizione che qualcuno senta caldo produce questo condizionale: (2) Se in αi qualcuno sente caldo, allora in αi qualcuno è in grado di sapere che sente caldo. Ma ora supponiamo quanto segue: (3) In αi, uno sente caldo.
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Per modus ponens, da (2) e (3) segue che: (4) In αi, qualcuno è in grado di sapere che sente caldo. Sempre per modus ponens, da (1) e (4) segue che: (5) In αi-1, qualcuno sente caldo. La seguente affermazione è certamente vera: αn è il contesto a mezzogiorno, quando qualcuno sente molto caldo: (6) In αn qualcuno sente caldo. Ripetendo il passaggio da (4) a (5) n volte, per valori decrescenti di i da n a 1, otteniamo da (6) che: (7) In α0, qualcuno sente caldo. Ma (7) è certamente falsa, perché α0 è il contesto che corrisponde all’alba, quando la persona in questione sente freddo. Quindi, non tutte le istanze di (1) e (2) sono vere. Ma si è appena sostenuto che tutte le istanze di (1) sono vere. Quindi, non tutte le istanze di (2) sono vere. Poiché la (2) esprime la luminosità della condizione di sentire caldo, questa condizione non è luminosa. Sentire caldo non implica essere in grado di sapere che si sente caldo.
3. Consideriamo ora un ovvio dubbio che sorge sull’argomento della sezione 2. Il ragionamento ricorda molto quello dei paradossi del sorite (Come possono n grani fare un mucchio se non lo fanno n-1?). Si può quindi sospettare che l’argomento della sezione 2 si fondi su una fallacia proprio come la fallacia nascosta nei ragionamenti soriti, qualunque essa sia. Non potrebbe darsi il caso che sfrutti illecitamente la vaghezza di “sente caldo” o “in grado di sapere”? Il dubbio può essere reso più specifico. Se la conclusione dell’argomento è falsa, allora o non tutte le premesse sono vere o l’argomentazione non è valida. Date le istanze di (1) e la ovvia verità di (6) come premesse, l’argomento deriva le istanze di (2) dalla presunta luminosità della condizione
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in questione, e poi applica il modus ponens per raggiungere la puramente falsa (7); per reductio ad absurdum, la luminosità è refutata. In qualsiasi visione ragionevole della vaghezza, questo ragionamento mostra che l’affermazione di luminosità non è perfettamente vera, dato che tutte le istanze di (1) sono perfettamente vere. In alcuni casi, il modus ponens non riesce a preservare una verità meno che perfetta, ma dovrebbe comunque preservare la verità perfetta. Secondo altre versioni della strategia argomentativa, la reductio ad absurdum è problematica perché un assunto può avere conseguenze perfettamente false senza essere esso stesso perfettamente falso, e quindi senza avere una negazione perfettamente vera; ciononostante, ne segue ancora che l’assunto è meno che perfettamente vero. Inoltre, si può sostenere che la vaghezza non richiede alcuna revisione della logica classica8. Per i miei scopi qui, sarebbe sufficiente sostenere che l’affermazione della luminosità è meno che perfettamente vera, perché allora avrà conseguenze perfettamente false, il che dovrebbe scoraggiare la sua applicazione alla filosofia. Così, il modo in cui il difensore della luminosità (perfetta) può utilizzare la connessione con i paradossi del sorite è argomentare che non tutte le affermazioni di (1) sono perfettamente vere, e usare la vaghezza di qualche termine rilevante per spiegare la loro plausibilità. Naturalmente, l’argomentazione in supporto di (1) rimarrebbe da chiarire. Fortunatamente, tuttavia, la strategia può essere testata più direttamente. Perché se (1) è, in effetti, la premessa principale di un paradosso del sorite, allora affinando le espressioni vaghe rilevanti dovremmo ottenere un’istanza chiaramente falsa di (1), così come affinando il termine “mucchio” attraverso la stipulazione di un punto di interruzione otteniamo un’istanza chiaramente falsa del condizionale “Se n grani fanno un mucchio, allora n-1 grani fanno un mucchio”. È così? Le espressioni vaghe rilevanti in (1) sono “sente caldo” e “essere in grado di sapere”. Rendiamo più preciso il primo termine “sente caldo” usando una condizione fisiologica per risolvere i casi limite. Supponiamo che il soggetto del processo non abbia accesso alla tecnologia necessaria per determinare se la condizione fisiologica è presente, e quindi non è in grado di sapere se lo è. Queste modifiche non indeboliscono in alcun modo l’argomentazione per (1). Le considerazioni sull’affidabilità rimangono stringenti come prima, poiché erano basate sulle nostre limitate capacità di discriminazione tra le nostre sensazioni, non sulla vaghezza di “sente caldo”. 8
Sulla logica dei linguaggi vaghi, si veda (Williamson 1994). Gli argomenti del presente articolo non dipendono dalla visione epistemica della vaghezza sviluppata in quel libro. Tale visione non richiede alcuna revisione della logica classica.
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Si potrebbe obiettare che la precisazione dell’espressione viola il significato comunemente inteso di “sente caldo”. Ma questo non minerebbe il contrasto tra (1) e la premessa principale di un paradosso del sorite. Poiché ogni precisazione completa di “mucchio” produce un’istanza chiaramente falsa del principio “Se n grani fanno un mucchio, allora n-1 grani fanno un mucchio”, perfino se essa viola il significato comunemente inteso di “mucchio”, falsificando, per esempio, il principio inverso “Se n-1 grani fanno un mucchio, allora n grani fanno un mucchio”. Per definizione, il termine precisato si applica dove il termine non ancora precisato si applicava chiaramente e non si applica dove il termine non ancora precisato non si applicava chiaramente; così, alla luce di qualsiasi precisazione, “10.000 grani (disposti in modo ottimale) fanno un mucchio” è vera e “0 grani fanno un mucchio” falsa, quindi la premessa principale ha almeno un’istanza falsa. Anche la verità di (1) mediante una precisazione dei suoi termini vaghi che viola il loro significato comunemente inteso è sufficiente a differenziare (1) dalla premessa maggiore di un paradosso del sorite. L’espressione vaga “essere in grado di sapere” rimane. Affiniamola rendendo più stringenti le sue condizioni di applicazione: non deve essere applicata in casi limite di essere in grado di sapere (nel vecchio senso). Semmai, questo rafforza l’argomento per (1), costruendo ulteriormente sull’antecedente. Non aiuta a sapere se una persona sente caldo; in effetti, non c’è nemmeno bisogno di essere consapevoli della stipulazione a proposito di “in grado di sapere”, perché tale stipulazione è fatta dal teorico, non dal soggetto. Le stipulazioni non renderanno perfettamente precisi “sente caldo” e “in grado di sapere”; nessuna precisazione fattibile potrebbe farlo. Fortunatamente, la precisione perfetta non è necessaria. È sufficiente precisare quelle espressioni fino a un punto in cui si risolvono i casi limite finiti che effettivamente si presentano nell’argomento. Tale affinamento ha l’effetto opposto a quello previsto dall’assimilazione dell’argomento contro la luminosità al ragionamento del sorite; piuttosto che diventare meno plausibile, (1) diventa più plausibile. L’argomento presentato non è semplicemente un altro paradosso del sorite. Tuttavia, si potrebbe pensare che l’argomento contro (2) comporti una più sottile fallacia di vaghezza. Un difensore di (2) potrebbe considerare la vaghezza dei suoi termini costitutivi come essenziale alla sua verità, ed esporre la plausibilità di (1) assegnandole uno status inferiore alla verità perfetta, pur ammettendo che tutte le istanze di (1) siano vere con alcune precisazioni, come quelle considerate sopra. Tutte le precisazioni che falsificano un’istanza di (2) potrebbero essere ritenute violare i significati comunemente intesi dei termini vaghi, sulla base del fatto che quei signi-
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ficati rendono (2) analitico. Da questo punto di vista, la premessa (1) non precisata sarebbe quasi ma non del tutto vera in alcuni casi, perché il suo conseguente sarebbe quasi ma non del tutto vero come il suo antecedente. Le condizioni di affidabilità addotte a favore di (1) sarebbero trattate come quasi ma non perfettamente corrette. Nessuna giustificazione è stata fornita per non trattarle come perfettamente corrette, ma ciò non conta, perché la concessione è in ogni caso inadeguata. La posizione in questione deve respingere la seguente variazione di (1): (1P) Se è perfettamente vero che in αi qualcuno è in grado di sapere che sente caldo, allora è perfettamente vero che in αi-1 sente caldo. Perché se (2) è perfettamente vero, allora la perfetta verità del suo antecedente implica la perfetta verità del suo conseguente: (2P) Se è perfettamente vero che in αi sente caldo, allora è perfettamente vero che in αi qualcuno è in grado di sapere che sente caldo. (1P) e (2P) presentano un argomento dalla perfetta verità di (3) alla perfetta verità di (5), e quindi dalla perfetta verità di (6) (che è incontestata) alla perfetta verità di (7); ma la falsità di (7) rimane incontestata. L’obiettore tratterà (1P) come (1), sostenendo che, per qualche i, è perfettamente vero che in αi qualcuno è in grado di sapere che sente caldo, ma un po’ meno che perfettamente vero che in αi-1 sente caldo. Ma può esistere un tale i? Se è meno che perfettamente vero che in αi-1 qualcuno sente caldo, allora c’è uno standard rigoroso secondo il quale è falso che in αi-1 qualcuno sente caldo; quindi, secondo questo standard, in αi-1 la persona in questione è abbastanza sicura di ciò che è falso, visto che è falso che sente caldo (secondo l’argomento della sezione 2), nel qual caso è meno che perfettamente vero che in αi una persona è in grado di sapere che sente caldo – assumendo che alle considerazioni sull’affidabilità debba essere assegnato un qualsiasi peso positivo). Per formulare l’argomento più direttamente, se è perfettamente vero che in αi qualcuno è in grado di sapere che sente caldo, allora è perfettamente vero che il requisito di affidabilità è soddisfatto, e quindi perfettamente vero che in αi-1 qualcuno sente caldo. Così, l’obiezione a (1P) fallisce, e (1P) è sufficiente per un argomento contro la perfetta verità di (2). Invocare gradi di verità non proteggerà le pretese di luminosità9.
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Ringrazio Crispin Wright e Helen Beebee per la discussione su questo punto.
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Il punto è rafforzato dall’osservazione che, una volta abbandonata l’ipotesi di luminosità, (7) non segue nella logica classica da (6) e da tutte le istanze di (1). Per capire meglio questo punto, possiamo scegliere due valori j e k tali che n≥k>j>0; per ogni i, possiamo valutare “sente caldo” come vero in αi se e solo se i, e altrimenti come falso; valutare “qualcuno è in grado di sapere che sente caldo” come vero in αi se e solo se i≥k, e altrimenti come falso. Per questa valutazione, ogni istanza di (1) è vera, perché se l’antecedente è vero, allora i≥k>j, quindi i-1≥j, quindi il conseguente è vero. (6) è vero perché n≥j. (7) è falso perché j>0. Si può elaborare questa valutazione assumendo la semantica standard per la logica modale trattando i contesti come mondi possibili e “qualcuno è in grado di sapere che…” come “è necessario che…”. La valutazione di cui sopra segue una volta che si definisce αh come accessibile da αi solo nel caso in cui |h-i| ≤ k-j, e una volta che si valuti che “qualcuno è in grado di sapere che P” come vero in un contesto αi se e solo se “P” è vero in ogni contesto accessibile da αi, e valuta “qualcuno sente caldo” come in precedenza. Poiché una valutazione classica rende (6) e tutte le istanze della (1) vere e (7) falsa, quest’ultima non segue dalla prima in logica classica. Contrariamente al paradosso del sorite: “0 grani fanno un mucchio” segue in logica classica da “n grani fanno un mucchio” e da tutte le istanze di “Se n grani fanno un mucchio, allora n-1 grani fanno un mucchio”. Una volta negata la luminosità, (1) non genera alcun paradosso. È coerente con tutto ciò che è stato detto postulare un fenomeno più generale di cui sia la vaghezza di “mucchio” che la non-luminosità della condizione di sentire caldo siano istanze particolari. La conoscenza inesatta può essere un tale fenomeno. È caratterizzata da principi di margine di errore come (1), secondo i quali, se in qualche contesto si è in grado di sapere che P, allora in tutti i contesti sufficientemente simili è vero che P, sia che si sia in grado di saperlo o meno, poiché altrimenti i giudizi mancherebbero del margine di errore che l’affidabilità richiede, dati i limitati poteri di discriminazione; quanta somiglianza sia sufficiente, e sotto quali aspetti, dipende dai dettagli del caso10. Se l’indeterminatezza è caratterizzata da principi di margine di errore, tuttavia, la loro fonte sarà di tipo specificamente concettuale11. Da questo punto di vista, i principi epistemologici alla base di (1) sono importanti anche per la vaghezza, ma non ne consegue che tutte le loro manifestazioni comportino la vaghezza. L’argomento contro la luminosità non dipende da nessuna teoria della vaghezza. 10 Vedasi anche (Williamson 1992; 1994, pp. 216-247). 11 Vedi (Williamson 1994, pp. 230-34).
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4. Fino a che punto l’argomento contro la luminosità può essere generalizzato? Dopo tutto, non presuppone nulla di specifico sulla condizione di sentire caldo. Si estende agli esempi di condizioni presumibilmente luminose menzionati nella sezione 1. L’insorgenza del dolore può essere graduale, per esempio, mentre le sensazioni anomale diventano tutt’uno con quelle dolorose. Un argomento contro la luminosità della condizione di avere dolore può essere modellato sull’argomento contro la luminosità della condizione di sentire caldo, senza alcuna revisione strutturale. Non è perfettamente vero che in ogni contesto in cui sente dolore, si è in grado di sapere che si prova dolore. Sentire dolore non implica essere in grado di sapere che effettivamente si prova dolore. Allo stesso modo, due parole possono gradualmente diventare sinonimi, mentre una differenza di applicazione si riduce a una preferenza stilistica che lentamente finisce per scomparire del tutto. La struttura dell’argomento contro la luminosità è la stessa di prima. Assegnare a due parole lo stesso significato non implica essere in grado di sapere che si assegna loro lo stesso significato. Allo stesso modo, assegnare a due parole significati diversi non implica essere in grado di sapere che si assegnano significati diversi. Inoltre, l’argomento si applica anche alle condizioni della forma “appare a uno che P”. Un contesto in cui non appare a uno che P può gradualmente trasformarsi in un contesto in cui appare a uno che P. Da ciò segue che avere l’apparenza di P non implica essere in grado di sapere che l’apparenza è P 12. Ulteriori applicazioni dell’argomento riguardano le condizioni relative a ciò che si è in grado di sapere. Poiché un contesto in cui non si è in grado di sapere che P può gradualmente trasformarsi in un contesto in cui si è in grado di sapere che P, l’argomento mostra che la condizione che si è in grado di sapere che P non è luminosa (per la maggior parte dei valori di “P’)13. Essere in grado di sapere che P non implica essere in grado di 12 Tali condizioni sono talvolta chiamate “dipendenti dalla risposta”. Se l’affermazione in questione è solo che esse hanno una qualche dipendenza costitutiva dalle nostre disposizioni a giudicare che esse si diano, allora l’affermazione non implica alcuna luminosità, sebbene la non-luminosità limiti le forme di dipendenza che esse possono esibire. Per una discussione correlata, declinata sul caso del colore, si veda (Williamson 1994, pp. 180-84). Sono concepibili molte definizioni di dipendenza dalla risposta. Il fallimento della luminosità, tuttavia, dà supporto allo scetticismo generale su tutte le affermazioni di dipendenza dalla risposta. 13 Il confronto con i paradossi del sorite deve essere approcciato con particolare attenzione quando la sostituzione di “sente caldo” implica essa stessa “sapere”,
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sapere che si è in grado di sapere che P. Così, l’operatore ‘si è in grado di sapere che…’ non soddisfa il principio □ p → □ □ p della logica modale S4. Infatti, sapere che P non implica essere in grado di sapere che si sa che P. Allo stesso modo, non essere in grado di sapere che P non implica essere in grado di sapere che non si è in grado di sapere che P. Così, l’operatore ‘si è in grado di sapere che…’ non soddisfa il principio ¬□ p → □¬□ p della logica modale più forte S5. Infatti, non sapere che P non implica essere in grado di sapere che non si sa che P. È importante notare come questi risultati possano essere estesi. Per esempio, non esiste un numero naturale n tale che n iterazioni di ‘si è in grado di sapere che…’ implichino n + 1 iterazioni di esso. L’assenza generale di condizioni luminose non banali può essere rappresentata nella logica modale dalla formula A → □ A è un teorema se e solo se o A è un teorema o ¬ A lo è14. Quali sono le caratteristiche generali di una condizione da cui dipende l’argomentazione contro la luminosità? Così com’è, richiede che la condizione si verifichi in alcuni contesti e non in altri. Ne segue che è inefficace contro condizioni che valgono in tutti i contesti o in nessuno. Data una comprensione sufficientemente specifica di ciò che conta come un contesto, queste potrebbero includere alcune condizioni cartesiane, come che si esista e anche che si pensi. Tuttavia, non includono la condizione che si stia pensando alla propria esistenza, poiché sì sta pensando alla propria esistenza in alcuni contesti e non in altri data qualsiasi condizione ragionevole di cosa conta come contesto. Una condizione che non si dà in nessun contesto è automaticamente luminosa. Ma una condizione che si verifica in ogni contesto non è automaticamente luminosa, perché non è automatico che in ogni contesto si sia in grado di sapere che si verifica: forse è una necessità a posteriori, o un teorema matematico non ancora dimostrato. Ma se non si è in ogni contesto in grado di sapere che la condizione si verifica, anche se la condizione si verifica in ogni contesto, allora ne consegue subito che la condizione non è luminosa. Ciò che è automaticamente luminoso è una condizione tale che in ogni contesto si è in grado di sapere che essa si verifica. perché in tal caso le due espressioni non possono essere ristrette indipendentemente l’una dall’altra. Ma (1) mantiene la sua plausibilità anche raffinando in senso restrittivo il significato di “in grado di sapere” e raffinando in qualsiasi modo la sostituzione di “sente caldo”, finché questa proposizione esprime una condizione di questo tipo: la fiducia del soggetto circa il fatto che essa si dia cambia lentamente. Le restrizioni rilevanti di “si è in grado di sapere che P” soddisfano questo requisito. Ringrazio Kit Fine per questa discussione. 14 Per una discussione più dettagliata, si veda (Williamson 1991).
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L’argomento richiede anche la possibilità di un cambiamento da un contesto in cui la condizione non si verifica ad un contesto in cui si verifica. Così, l’argomento non sarebbe efficace contro una condizione eterna che si dà sempre, una volta che si dà: per esempio, la condizione di sentire caldo a mezzogiorno del giorno di Ferragosto del 1996. Ma una condizione eterna permette spesso di passare da un contesto in cui non si è in grado di sapere che si verifica a un contesto in cui si è in grado di sapere che si verifica; questo vale certamente per l’esempio appena menzionato. Una tale condizione non può essere luminosa, perché si dà nel contesto successivo in cui si è in grado di sapere che si dà (perché l’essere in grado di sapere è fattivo), quindi si dà nel contesto precedente in cui non si è in grado di sapere che si dà (perché la condizione è eterna). Ne segue che una condizione è eterna solo se il passaggio da “non essere in grado di sapere che (tale condizione) si dà” a “essere in tale posizione” è impossibile. Nessun argomento è stato dato contro la luminosità di una condizione tale per cui, se si è in grado di sapere che essa esiste una singola volta, allora si è sempre in grado di sapere che essa esiste, anche se alcune persone sono in grado di sapere che essa esiste e altre no. Ci sono candidati per tali condizioni. Per esempio, se un soggetto S è sempre nella posizione di sapere di essere tale soggetto S (il che non vuol dire che deve conoscere il proprio nome), allora chiunque sia nella posizione di sapere che la condizione di essere S si verifica è sempre nella posizione di sapere che si verifica, perché l’unica persona di questo tipo è esattamente S. Forse l’argomentazione potrebbe essere estesa per mostrare che nemmeno questa condizione è logica, considerando un processo fantascientifico di cambiamento graduale in cui qualcun altro diventa e viene sostituito da S. Ma qui non tenterò tale esperimento. In fondo, tali esempi non minacciano seriamente l’idea che solo le condizioni banali siano luminose. L’argomento dipende dalla gradualità del cambiamento da contesti in cui la condizione non si verifica a contesti in cui si verifica. Il tipo di gradualità rilevante è però quella epistemica. Anche se c’è un salto nelle condizioni, l’argomento è ancora valido, purché non ci sia un salto corrispondente nella nostra consapevolezza di esse. Un tale salto nella nostra consapevolezza non è mai garantito. Così, il requisito della gradualità non esclude ovviamente ulteriori condizioni. Potremmo quindi congetturare che nessuna condizione tale che si possa passare dal non essere in grado di sapere che si dà all’essere in grado di sapere che si dà è luminosa. Una difficoltà per la congettura è sollevata dalla nozione di sapere in maniera ancestrale. Si sa ancestralmente che P proprio nel caso P, e si sa
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che P, e si sa che si sa che P, e così via all’infinito. La condizione che uno sappia ancestralmente che P potrebbe sembrare luminosa. Infatti, si consideri la seguente inferenza, con un numero infinito di premesse: P Si sa che P. Si sa che si sa che P. . . . ------------------------------Si sa ancestralmente che P. L’inferenza è deduttivamente valida, per definizione di conoscenza ancestrale. Ora, chiunque sappia ancestralmente che P conosce ogni premessa dell’argomento, e quindi (sembra) è in grado di conoscere la conclusione. Questo perché si dovrebbe essere in grado di sapere, anche se non si sa effettivamente, ciò che segue deduttivamente da ciò che si conosce. Da qui la condizione che si conosca ancestralmente che P è luminosa. Tuttavia, per la maggior parte dei valori di “P”, non sembra esserci alcuna impossibilità metafisica nel passaggio dal non conoscere ancestralmente che P al conoscere ancestralmente che P, e quindi dal non essere in grado di sapere che si conosce ancestralmente che P all’essere in grado di sapere che si conosce ancestralmente che P. La condizione che si conosce ancestralmente che P sembra proprio un controesempio alla congettura in questione. Il controesempio potrebbe essere contestato sulla base del fatto che non siamo in grado di fare inferenze infinite. In effetti, anche quando l’inferenza è finita, non è ovvio che si sia in grado di sapere ciò che segue deduttivamente da ciò che si conosce. Solo in un senso piuttosto debole siamo in grado di conoscere tutte le conseguenze degli assiomi dell’aritmetica di Peano. Questa risposta non è del tutto soddisfacente, tuttavia, perché l’argomento originale contro la luminosità non faceva appello ai limiti delle facoltà di inferenza. Se la condizione che si conosce che P è luminosa solo in senso attenuato, perché l’argomento originale non riesce a generalizzarsi a questo caso? La conoscenza ancestrale può fallire il requisito della gradualità. Sebbene sia possibile passare dal non sapere ancestralmente che P al sapere ancestralmente che P, il cambiamento può essere necessariamente improvviso. Dopo tutto, è il cambiamento da un numero finito di iterazioni di conoscenza a un numero infinito. Come potrebbe essere graduale? Così, il sapere ancestrale
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può fornire un esempio almeno alla congettura che nessuna condizione tale che si possa passare dal non essere in grado di sapere che si dà all’essere in grado di sapere che si dà è luminosa in senso attenuato. Se la conoscenza ancestrale fallisce il requisito della gradualità, sarà uno stato difficile da raggiungere. Come si può fare il salto istantaneo dal finito all’infinito? Il tipo di conoscenza comune che si suppone abbiamo delle convenzioni è solitamente definito in un modo che ci richiede di conoscere ancestralmente; per esempio, se John sa che Jane sa che John sa che Jane sa che John sa che P, allora John sa che John sa che John sa che P (almeno in senso attenuato). La conoscenza comune sarebbe quindi una comoda idealizzazione, come un piano senza attrito in fisica15. Così, anche se la congettura è falsa, tutte le condizioni luminose possono ancora essere banali nella pratica, perché la condizione che uno sappia ancestralmente che P sembra essere un concetto vuoto e assente da ogni pratica. Osservazioni simili si applicano all’essere ancestralmente in posizione di sapere, che sta all’essere in posizione di sapere come il sapere ancestralmente sta al sapere. Le condizioni luminose sono un fenomeno alquanto curioso. Lungi dal formare una dimora cognitiva, sono lontane dai nostri interessi ordinari. Le condizioni con cui ci impegniamo nella nostra vita quotidiana sono, fin dall’inizio, non luminose. Quando tali condizioni si danno, pare proprio che noi non siamo in grado di sapere che si danno.
5. Essere fisicamente e psicologicamente in grado di sapere che P non è sufficiente, anche dato che P, per essere in grado di sapere che P; si può semplice essere nel posto sbagliato. Così, dalla non luminosità di una condizione non consegue che ci siano contesti in cui, sebbene essa si verifichi, non si è fisicamente e psicologicamente in grado di sapere che essa si verifica. Tuttavia, è naturale chiedersi: se non si è in grado di sapere che si sente caldo quando si sente caldo, come si fa a saperlo del tutto? Naturalmente, in molti altri contesti si sa che si sente caldo16. Se nel contesto α si sente caldo, forse senza essere in grado di sapere che si sente caldo, deve o può esserci un altro contesto β in cui si sa che si sente caldo? Domande 15 Per una discussione correlata del dilemma del prigioniero e del paradosso dell’esame a sorpresa, si veda (Williamson 1992), e per alcune versioni più deboli della nozione di conoscenza comune, si veda (Fagin et alia 1995, pp. 395-442). 16 Non ci possono essere contesti in cui si conosce la congiunzione che la condizione si verifica e non si è in grado di sapere che si verifica. Ma questa è un’altra storia.
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analoghe possono essere poste su altre condizioni non luminose. L’argomento della non luminosità le lascia aperte. È coerente con, ma non implica, la possibilità di una tecnica fisiologica con la quale si potrebbe scoprire in seguito che si è sentito caldo in α. La tecnica ipotetica non è senza difficoltà. Supponiamo che la sensazione di caldo e di freddo si trovi generalmente correlata con una variabile fisiologica misurabile V. Dobbiamo scoprire quali valori di V sono associati alla condizione di sentire caldo. Questi includono i valori associati alla condizione in cui si è in grado di sapere che sente caldo. Ma se includessero solo questi valori, la condizione di sentire caldo sarebbe luminosa, cosa che non è. Non siamo in grado di sapere quali altri valori di V sono associati a quella condizione. Il nostro problema è che non possiamo calibrare la misura fisiologica della sensazione di caldo. Anche se le misure di V fossero perfettamente precise – e non lo saranno – non risolverebbero la questione da cui siamo partiti. I tentativi di misurare altre condizioni ordinarie affrontano problemi simili. Si potrebbe ancora ritenere che sia metafisicamente possibile scoprire se sente caldo attraverso la testimonianza di un deus ex machina letterale o metafisico. Ma certamente non si può assumere senza discussione che, se una condizione ordinaria si verifica in un contesto a, allora in qualche contesto possibile si sa che la condizione si verifica in a. 6. Il fallimento della luminosità ha ripercussioni importanti sugli argomenti di Dummett in favore una teoria antirealista del significato. Naturalmente, l’antirealista di Dummett non ha la pretesa estrema che ogni condizione sia luminosa. Possiamo accettare che le persone dell’età della pietra vivevano in contesti in cui la luna causava le maree, anche se non erano in grado di sapere che la luna causava le maree. La connessione tra luminosità e antirealismo è più sottile. Dummett obietta alla teoria realista della vero-condizionalità del significato che essa viola una connessione necessaria tra significato e uso. Comprendere una frase significa sapere cosa significa; se, come sostiene il realista di Dummett, i significati sono condizioni di verità, allora i parlanti di una lingua conoscono le condizioni di verità dei suoi enunciati17. 17 Si deve naturalmente pensare anche alle frasi non dichiarative, forse ponendo una distinzione tra senso e forza. Anche per frasi dichiarative, la conoscenza delle
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Conoscere la condizione di verità di una frase f non può consistere semplicemente nell’essere disposti a dire qualcosa della forma “f è vero se e solo se P”; si deve anche comprendere il bicondizionale, e si profila un regresso infinito. Se si potesse sempre riconoscere se la condizione di verità si è data, allora la conoscenza della condizione di verità di f potrebbe consistere nella volontà di affermare f solo quando la condizione di verità si è data (presumendo che la disonestà, la timidezza e altre complicazioni possano essere in qualche modo filtrate). Ma il realista insiste sul fatto che le condizioni di verità di alcune frasi si diano anche se nessun parlante della lingua può riconoscere che si verifichino. Dummett sostiene che il realista non ha una sostanziale spiegazione di ciò in cui consiste il conoscere tali condizioni di verità. Il rimedio proposto è che il significato di una frase dovrebbe essere dato dalla condizione per cui essa è giustificatamente asseribile, piuttosto che dalla condizione per cui essa è vera. Così, comprendere una frase significa conoscere la sua condizione di asseribilità, e questa conoscenza può consistere nell’essere disposti ad affermare la frase proprio quando la condizione di asseribilità si verifica18. Il rimedio fallirebbe se l’obiezione alle teorie vero-condizionali del significato si applicasse anche alle teorie del significato asseribilecondizionali; quindi, l’argomento richiede che, quando si verifica una condizione di asseribilità, i parlanti competenti della lingua possano riconoscere che essa si verifica. Dummett riconosce questo requisito: “Le condizioni sotto le quali una frase è riconosciuta come vera o falsa […] devono, per la natura del caso, essere condizioni che possiamo riconoscere come date quando si verificano”19. Cioè, quando una condizione di riconoscimento si verifica, possiamo riconoscere che la condizione di riconoscimento si verifica. Dummett intende evidentemente che la condizione di riconoscimento per la verità di una frase sia la sua condizione di asseribilità, il che porta alla tesi che quando si verifica una condizione condizioni di verità può non essere sufficiente per la comprensione. Più in generale, la conoscenza del significato può non essere sufficiente per la comprensione. Un informatore affidabile mi dice che una frase in ungherese scritta sulla lavagna significa che il gatto si è seduto sullo zerbino. Io so, attraverso la mia esperienza precedente, che la frase significa che il gatto si è seduto sullo zerbino, ma probabilmente non la capisco perché non ho idea di cosa ogni parola componente contribuisca a quel significato. 18 Dummett dice che “non può più sorgere alcuna difficoltà su ciò in cui consiste tale conoscenza” (Dummett 1977, p. 375). Si noti che le condizioni di asseribilità non sono condizioni di verità anche nella concezione antirealista della verità di Dummett (vedi la nota 21 sotto). 19 (Dummett 1977, p. 586). Si veda anche (Dummett 1991, p. 317; 1993, pp. 45-46).
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di asseribilità, possiamo riconoscere che essa si verifica. Ma riconoscere è venire a sapere, e il “può” di Dummett può essere glossato come “è in grado di”. Così, Dummett richiede che le condizioni di asseribilità siano luminose. L’argomento contro la luminosità presentato nella sezione 2 si può generalizzare alle condizioni di asseribilità. Per esempio, i contesti in cui non è asseribile che piova si trasformano progressivamente in contesti in cui è asseribile che piova. Secondo l’argomento per cui che sia asseribile che piove non implica essere in grado di sapere che è asseribile che piove. Anche nel caso matematico, in cui Dummett usa la semantica intuizionistica basata su prove come paradigma di una teoria asseribile-condizionale del significato, le prove si acquisiscono gradualmente; ci vuole tempo per comprenderle e controllarle20. Secondo questo argomento, avere una prova di un’asserzione matematica non implica essere in grado di sapere che si ha una prova di essa. Così, le condizioni di asseribilità hanno esattamente la caratteristica che si suppone renda le condizioni di verità aperte all’attacco di Dummett21. 20 Sul riconoscimento delle prove intuizionistiche come prove, si veda (Weinstein 1983) e (Pagin 1994). Una teoria del significato basata sulle condizioni di asseribilità distinguerà usualmente tra garanzie canoniche e non canoniche per l’asserzione: per esempio, tra avere una prova e aver saputo da un informatore affidabile che ce n’è una prova. La semantica ricorrente sarà formulata in termini di garanzie canoniche. Una garanzia non canonica sarà spiegata come un permesso di credere che ci sia una garanzia canonica. L’argomentazione del testo si applica indipendentemente dal fatto che il termine “mandato” sia definito “canonico”. 21 Nel criticare le teorie verocondizionali del significato, Dummett si concentra spesso sull’indecidibilità della verità, cioè sul fatto che i parlanti non hanno sempre una procedura efficace per sapere se una data condizione di verità è valida. Quando l’argomento prende questa forma, minaccia anche le teorie di significato condizionate all’asseribilità, a meno che l’asseribilità non sia decidibile, cioè a meno che i parlanti non abbiano sempre una procedura efficace per sapere se una data condizione di asseribilità si verifica (Wright per esempio sostiene la decidibilità dell’asseribilità; vedi Wright 1992, p. 56). La decidibilità dell’asseribilità non implica la decidibilità della verità, anche nella maggior parte delle concezioni antirealiste della verità, perché queste ultime non identificano la verità con l’asseribilità in contesti non ideali. Per esempio, gli intuizionisti identificano l’asseribilità con il possesso di una prova e la verità con l’esistenza di una prova (cioè con la possibilità di possederla). Essi negano la legge del terzo escluso solo perché prendono la verità come indecidibile. Anche se l’asseribilità fosse luminosa, la sua decidibilità deriverebbe solo dall’ulteriore presupposto che anche l’inasseribilità sia luminosa. Così, ciò che l’antirealista richiede per asseribilità dipende dal fatto che ciò che manca in modo cruciale alla verità realista è la luminosità o la decidibilità, anche se, data la bivalenza e la presenza della negazione classica
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Si potrebbe rispondere che la comprensione antirealista di un enunciato può consistere nel fatto che si è disposti ad affermarlo quando e solo quando la sua condizione di asseribilità si verifica, anche se non si sa che si verifica. Questa risposta ammette che le condizioni di asseribilità non siano soggette al vincolo di luminosità di Dummett; ma allora c’è qualcosa di sbagliato nel suo argomento a favore delle teorie asseribile-condizionali del significato, che tratta quel vincolo come stringente. Una risposta differente è che, se Dummett intende la riconoscibilità come asseribilità, allora ciò che richiede è solo che quando è asseribile che P, è asseribile che è asseribile che P (il principio S4 per l’asseribilità)22. Se le asserzioni false sono talvolta giustificate da evidenze fuorvianti, allora potrebbe essere asseribile che è asseribile che P anche quando non si è in grado di sapere che è asseribile che P; quindi, Dummett non richiederebbe che le condizioni di asseribilità siano luminose. Questa risposta è suscettibile di obiezioni. L’argomentazione secondo cui solo le condizioni banali sono luminose può essere generalizzata in un’argomentazione secondo cui solo le condizioni banali soddisfano il requisito che ogni volta che si verificano, è asseribile che esse si verificano: (1) è sostituita da un condizionale della forma “Se in αi, è asseribile che la condizione C valga, allora in αi-1 C vale”. Ovviamente, l’asseribilità obbedisce a un principio di margine d’errore universalmente solo se è fattiva, poiché qualsiasi contesto α sarà abbastanza simile negli aspetti rilevanti a se stesso, “In α è asseribile che C vale” implicherebbe “In α C vale”, dato questo principio. Tuttavia, l’analogo di (1) vale in esempi particolari, quando l’evidenza può essere inadeguata ma non fuorviante in maniera positiva; questo è tutto ciò che l’argomentazione richiede23. Inoltre, dato quanto sembra, avere un diritto di affermare P è in fin dei conti trovarsi nella posizione di sapere che P. Da questo punto di vista, l’asseribilità è fattiva ma il suo status di correttezza può andare perso, nel senso che può essere perso quando si ottengono ulteriori indicazioni fuorvianti (lo stesso si applica anche nel caso della conoscenza)24. nel linguaggio dell’oggetto (entrambe ipotesi accettabili per il realista) la verità è decidibile se e solo se è luminosa (entro un’interpretazione appropriata di “in grado di sapere’). Ma poiché ogni condizione decidibile è luminosa (entro questa interpretazione), gli argomenti di questo articolo si applicano a entrambe le forme di argomentazione antirealista. 22 Wright sembra assumere il principio S4 per l’asseribilità nel sostenere che verità e asseribilità coincidono nella “forza normativa positiva” (Wright 1992, p. 18). 23 Si veda (Williamson 1995). 24 Si veda Williamson 1996. Dummett sembra perdere di vista l’importante distinzione tra instabilità e non-fattività (per esempio, Dummett 1973, p. 355).
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In un quadro antirealista, il pensiero si impegna inizialmente con condizioni regolate dal principio “esse est percipi”; se più tardi trova la sua strada faticosa verso condizioni di maggiore profondità, deve farlo dal punto di partenza di quella dimora cognitiva. Di conseguenza, le condizioni di asseribilità sono modellate come una versione linguistica di tale dimora cognitiva. Purtroppo le cose non stanno così. Il pensiero ha a che fare con condizioni il cui esse è distinto dal loro percipi non appena si confronta con condizioni qualsiasi; ciò si applica anche alla percezione. Banalità a parte, non c’è nient’altro con cui il pensiero può avere a che fare. In fin dei conti, siamo senza fissa dimora cognitiva. (Traduzione dall’inglese di Dario Mortini) Riferimenti bibliografici Boghossian, P. A. 1994 The Transparency of Mental Content, in “Philosophical Perspectives”, 8, pp. 33-50 Dummett, M. 1973 Frege: Philosophy of Language, Duckworth, London. 1977 Elements of Intuitionism, Oxford University Press, New York. 1978 Truth and Other Enigmas, Harvard University Press, Cambridge. 1991 The Logical Basis of Metaphysics, Harvard University Press, Cambridge. 1993 The Seas of Language, Oxford University Press, New York. Fagin R. et al. 1995 Reasoning About Knowledge, MIT Press. Humberstone, L. 1988 Some Epistemic Capacities, in “Dialectica”, 42(3), pp. 183-200. McDowell, J. 1989 One Strand in the Private Language Argument, in “Grazer Philosophische Studien”, 33(1), pp. 285-303. Pagin, P. 1994 Knowledge of proofs, in “Topoi”, 13(2), pp. 93-100. Weinstein, S. 1983 The intended interpretation of intuitionistic logic, in “Journal of Philosophical Logic”, 12(2), pp. 261-270.
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Williams, B. A. O. 1978 Descartes: The Project of Pure Enquiry, Harvester Press, Hassocks. Williamson, Timothy 1991 An alternative rule of disjunction in modal logic, in “Notre Dame Journal of Formal Logic”, 33(1), pp. 89-100. 1992 Inexact knowledge, in “Mind”, 101(402), pp. 217-242. 1994 Vagueness, Routledge, London and New York. 1995 Does Assertibility Satisfy the S4 Axiom?, in “Critica”, 27(81), pp. 3-25. 1996 Knowing and asserting, in “Philosophical Review”, 105(4), pp. 489-523. Wittgenstein, Ludwig 1953 Philosophical Investigations, a cura di G. E. M. Anscombe e R. Rhees, tr. ingl. di G. E. M. Anscombe, Macmillan, New York. 1969 On Certainty, a cura di G. E. M. Anscombe e G. H. von Wright, Harper Torchbooks, New York and London. Wright, Crispin 1992 Truth and Objectivity, Harvard University Press, Cambridge.
Commento introduttivo a Incontrare l’universo a metà strada: realismo e costruttivismo sociale senza contraddizione di Karen Barad Valentina Bortolami Il saggio di Karen Barad “Meeting the Universe Halfway. Realism and Social Constructivism without Contradiction”, pubblicato nel 1996 all’interno della raccolta Feminism, Science and the Philosophy of Science (a cura di L. H. Nelson e J. Nelson), viene per la prima volta presentato qui tradotto in italiano. Karen Barad ha conseguito il dottorato in Fisica teorica presso l’Università SUNY (State University of New York) Stony Brook, ed è da tre decenni una delle personalità che animano il campo della filosofia femminista. Attualmente riveste il ruolo di Professorǝ di Feminist Studies, Philosophy, and History of Consciousness alla Università della California, Santa Cruz. Barad è consideratǝ unǝ dellз più importanti esponenti del cosiddetto nuovo materialismo femminista, alla cui creazione ha contribuito sviluppando una propria originale proposta, il realismo agenziale, che trova in questo saggio uno dei suoi principali momenti di articolazione. Il titolo “Meeting the Universe Halfway. Realism and Social Constructivism without Contradiction”1 costituisce un buon punto di partenza per presentare il testo, e con esso l’impianto generale del pensiero baradiano. Se in prima istanza la prima parte del titolo, “Meeting the Universe Halfway”, può suggerire una possibilità tanto immaginifica quanto potenzialmente vaga – la possibilità, appunto, di un incontro con l’Universo 1
La prima parte del titolo, “Meeting the Universe Halfway”, verrà ripresa per la monografia del 2007, sia come titolo dell’intero volume che del suo primo capitolo. L’articolo stesso confluirà nella monografia, in particolare nei capitoli 1 e 3 (si veda il primo paragrafo del capitolo 1, Agential Realism and Quantum Physics, e il paragrafo Methodological Interlude del capitolo 3). La monografia, il cui titolo per esteso è “Meeting the Universe Halfway. Quantum Physics and the Entanglement of Matter and Meaning” (2007) rimane ad oggi la più importante, esaustiva ed estesa opera di Barad.
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in un qualche luogo che si possa definire a “metà strada” (come figurarsi qualcosa che si pone a metà strada tra noi e l’universo?)2 – una volta interrogato il pensiero baradiano si rivela un’immagine efficace nel restituire un aspetto fondamentale della teoria del realismo agenziale. Il riferimento a un incontro con l’Universo, e non dunque a una scoperta dell’Universo, segnala infatti un preciso atteggiamento epistemologico, in quanto rimanda a una situazione in cui tutte le parti in gioco agiscono attivamente (o meglio, come esposto nel saggio, agenzialmente). Una delle questioni fondamentali per Barad è infatti il rifiuto di attribuire una passività inerte sia all’universo (ciò che consideriamo come altro da noi, la materialità, la materia) sia alla “nostra” parte (“nostra”, di un noi precario e instabile, il noi che attribuirebbe significati). La seconda parte del titolo, “Realismo e costruttivismo sociale senza contraddizione”, chiarisce qual è il dibattito, il campo di azione entro il quale si gioca la questione di questo incontro3. Il costruttivismo è stato spesso considerato un potente alleato del femminismo. Le riflessioni costruttiviste, infatti, evidenziando il ruolo di cultura, storia e società nella costruzione dell’oppressione, hanno strappato spazi di libertà per quelle soggettività che erano state naturalizzate come inferiori (si pensi ai risultati che sono stati ottenuti grazie all’introduzione della distinzione sesso/genere nelle scienze sociali e in filosofia). D’altra parte, hanno spesso adottato un modello lineare o, per citare Samantha Frost, un “resoconto unidirezionale dell’agenzialità”. In contrasto con tali elaborazioni, per le quali la cultura (e/o la storia, la società) modellerebbe la natura, lɜ nuovɜ materialistɜ propongono invece di pensare a “sforzi agentivi reciproci”, a relazioni “complesse, ricorsive e multilineari” (Frost 2011, p. 71). L’intento è quello di “denaturalizzare” la natura (come scrive bene Barad in chiusura proprio di questo articolo), ovvero, di riconsiderare da capo la natura, rifiutando di concettualizzarla come un compartimento chiuso che si possa offrire come norma, come supporto, o come causa appunto “naturale” dell’oppressione. Rigettare e smontare l’idea di una re2
3
Si noti però che, seppur possa sembrare che l’espressione “metà strada” alluda a una posizione “intermedia” tra costruttivismo e realismo, per comprendere la proposta baradiana è utile diffidare del prefisso inter-; infatti, anche in questo caso, non si può parlare effettivamente di una posizione intermedia, quanto di una posizione che rifiuta i presupposti di costruttivismo e realismo, tentando invece di superarli. I due aspetti del titolo – l’aspetto allusivo e quello esplicativo – sono esemplari anche del procedere teorico dell’autorǝ, e si ricollegano ad una tradizione consolidata in epistemologia femminista, all’interno della quale la dimensione critica si accompagna spesso allo sforzo di produrre una Successor Science, una scienza più giusta.
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lazione causale lineare sostituendola con modelli complessi, multilineari e ricorsivi, comporta però anche l’essere dispostɜ a rinunciare – almeno localmente – alla semplicità (e forse, talvolta, all’efficacia) del dispositivo retorico della critica denaturalizzante costruttivista. Si noti che il superamento dei binarismi impliciti tanto nelle forme di costruttivismo quanto in quelle di realismo criticate da Barad non è auspicato e perseguito per una ragione meramente ideologica (ciò, in realtà, non succede quasi mai, nonostante tale sforzo venga spesso accusato di essere velleitario, strumentale, superficiale, opportunistico, dogmatico o, appunto, ideologico), perché tali binarismi rappresentino il male dal punto di vista del “politicamente corretto”, o perché essi siano espressione di una qualche forma di conservatorismo o tradizionalismo da superare per puro spirito d’avanguardia, bensì per rispondere alle istanze in cui non possiamo pensare, agire e conoscere in modo esaustivo, efficace e responsabile, se ci limitiamo a mantenerci all’interno di tali binarismi. Il punto, sembra dire Barad, è proprio questo: per quanto possiamo desiderare o ritenere più facile aderire a posizioni costruttiviste, rifiutando di attribuire un qualsivoglia ruolo significativo al “fuori” delle nostre costruzioni, o abbracciare posizioni realiste, rimandando ostensivamente a una realtà che è “fuori” di noi, se vogliamo comprendere noi e l’universo dobbiamo invece necessariamente riconoscere sia il “nostro” contributo, sia quello della “realtà” (di cui siamo parte). I due elementi però sono agenzialmente costruiti, ovvero questo “noi” e questo “altro” sono sempre il risultato di una intra-azione (intra-action, neologismo coniato da Barad) e non sono dati a priori, ma si danno invece in fenomeni4. Barad propone il realismo agenziale proprio per risolvere il problema che rinviene nella tensione tra il realismo cosiddetto “ingenuo” da una parte, e il costruttivismo sociale più “estremo” dall’altra. Il problema si può riassumere nell’interrogativo seguente: com’è possibile accettare che la scienza e la conoscenza umana siano effettivamente socialmente, culturalmente, storicamente costruite, come mostra appunto il costruttivismo, e insieme rendere conto dell’oggettività della scienza (tema carissimo alle epistemologie femministe), dell’esperienza delle pratiche scientifiche, e del ruolo fondamentale che ciò che ci appare come “realtà” sembra giocare all’interno di esse, e più in generale nelle nostre pratiche conoscitive? Per riprendere direttamente le parole di Barad, come possiamo superare sia l’idea di una “natura al centro della scena con un pubblico passivo di osservatorɜ che guardano paziente4
Per Barad “fenomeno” è termine tecnico, non assimilabile immediatamente al fenomeno della fenomenologia, come spiega anche nell’articolo qui pubblicato. Per Barad, “i fenomeni nel senso del fenomenologo” (si riferisce a Merleau-Ponty) riguardano “la natura dell’esperienza cosciente soggettiva” (Barad 2007, p. 155).
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mente”, proposta dai modelli oggettivisti e scientisti, che l’idea di “scienza come compendio arbitrario di mosse retoriche cariche di potere”, proposta dalle versioni estreme del costruttivismo sociale, per giungere finalmente a “offrire una comprensione dettagliata dell’interazione di natura e cultura nella produzione della conoscenza scientifica?”. Per rispondere a questa domanda Barad si rivolge primariamente alla filosofia-fisica di Niels Bohr5, considerando però come sfondo problematico anche gli esiti delle epistemologie femministe soprattutto rispetto al dibattito sull’oggettività e alla teoria dei saperi situati di Donna Haraway. Nel confronto con il pensiero di Bohr, Barad presta particolare attenzione (un’attenzione viva e vivace anche nei suoi altri scritti, e in particolare nella monografia) alla metodologia praticata, che definisce non-analogica (§ 4) e “diffrattiva” (Barad 2007). Obiettivo di Barad è quello di “delineare le specificità di un quadro bohriano coerente, fondando l’analisi sulla fisica, e di considerarne poi le implicazioni più ampie”. Non potendo qui offrire una sintesi di un testo denso ed esteso come il saggio presentato, mi limito a evidenziare quello che mi pare essere uno dei nodi concettuali che permettono lo sviluppo del ragionamento del realismo agenziale in una direzione alternativa al costruttivismo e al realismo “tradizionali”: la misura. La misura riveste un ruolo centrale nella riflessione baradiana. La misura, “momento potente nella costruzione della conoscenza scientifica”, “istanza in cui materia e significato si incontrano in un senso molto letterale”, è anche protagonista e filo conduttore del saggio, e costituisce una chiave di accesso per comprendere l’impianto del realismo agenziale. Attorno alla nozione di misura Barad struttura, infatti, la riflessione sul rapporto tra teoria e pratica scientifica (§ 2). Esaminando la distanza tra la concezione newtoniana e quella bohriana di misura (§ 3), Barad evidenzia come Bohr abbia messo in discussione i due assunti di base della trasparenza della misura, e ci accompagna a quello che è il cuore critico del saggio, il § 5, “Realtà Agenziale e Realismo Agenziale”. Il paragrafo è dedicato al confronto con le interpretazioni della fisica quantistica attorno all’articolo di Einstein, Podolsky e Rosen del 1935, il cosiddetto “articolo EPR”. Nella risposta a questo articolo, Bohr oppone alla definizione EPR di “realtà 5
Un carattere della filosofia baradiana sul quale non è possibile qui soffermarsi è il suo essere una filosofia “naturalizzata”, nel senso che per Barad l’interlocuzione con la scienza – in questo caso con la fisica – è fondamentale per l’elaborazione della teoria filosofica. Questo si può apprezzare in tutti gli scritti di Barad, ma emerge in modo particolarmente chiaro in questo articolo così come nella monografia. Su questo, si veda in particolare (Rouse 2004).
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fisica” la propria definizione di realtà fisica, dichiarando: “I fenomeni sono costitutivi della realtà. La realtà non è composta da cose-in-sé o da cose-dietro-fenomeni, ma da cose-in-fenomeni”. Barad contesta la distinzione realismo-antirealismo, la distinzione cartesiana soggetto-oggetto, e si oppone a una teoria corrispondentista della realtà (che chiamerà poi “rappresentazionalista” in Barad 2007), introducendo la nozione di intraazione. Una volta sviluppato questo percorso, Barad può così esporre il framework del realismo agenziale (§ 6) ed esplicitarne le conseguenze rispetto ai problemi posti dagli science studies (§ 7). Nelle conclusioni, Barad sottolinea l’aspetto ontologico del realismo agenziale e la necessità di una presa di responsabilità nella costituzione e nella attuazione di confini. Il punto da cogliere nel realismo agenziale, infatti, non è quello della co-costituzione e permeabilità tra natura e cultura (che, qui, non sono separabili a priori). Il punto è che ogni possibile separabilità, mutevole e dinamica, è effettivamente messa in atto dalle pratiche materiali e dalla costituzione di confini. Si può così comprendere perché l’intervento di Barad non si voglia limitare al piano epistemologico, ma si sviluppi invece in una dimensione onto-etico-epistemologica6. L’illusione che natura e cultura esistano sin dall’inizio come separate e che, in qualche modo, possano essere compartimentate, porta all’equivoco che una “buona scienza” possa essere perseguita solo mantenendo questa separazione anche nelle pratiche scientifiche. Tuttavia, se la realtà si dà a monte come naturacultura, l’impresa di mantenere una netta separazione tra natura e cultura si rivela dannosa (se non impraticabile, o addirittura impossibile) ai fini del perseguimento della conoscenza, proprio per l’aspetto ideologico e mistificatorio implicito nell’idea di dover mantenere due entità distinte che nella realtà non si danno come distinte, ma che si danno invece nei fenomeni, nelle intra-azioni: per questo, scrive Barad, “la conoscenza consiste nell’incontrare l’universo a metà strada”. Riferimenti bibliografici Barad, K. 2007 Meeting the Universe Halfway: Quantum Physics and the Entanglement of Matter and Meaning, Duke University Press, Durham, Carolina. 6
Volendo ulteriormente approfondire altrove negli scritti di Barad la delicata questione del rapporto tra ontologia e epistemologia, un utile riscontro si può rintracciare nella sua trattazione del confronto tra la posizione di Bohr e Heisenberg a proposito della dualità onda-particella (si veda Barad 2007).
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Frost, S. 2011 The implications of the new materialisms for feminist epistemology, in H. E. Grasswick (a cura di), Feminist Epistemology and Philosophy of Science. Power in Knowledge, Springer Netherlands, pp. 69-83. Haraway, D. J. 1988 Situated Knowledges: The Science Question in Feminism and the Privilege of Partial Perspective, in “Feminist Studies”, 14(3), pp. 575-599. Nelson, L. H. e Nelson, J. (a cura di) 1997 Feminism, Science and the Philosophy of Science, Springer, Dordrecht. Rouse, J. 2004 Barad’s Feminist Naturalism, in “Hypatia”, 19(1), pp. 142-161.
Karen Barad
INCONTRARE L’UNIVERSO A METÀ STRADA: REALISMO E COSTRUTTIVISMO SOCIALE SENZA CONTRADDIZIONE
Poiché con difficoltà verità che non sospettiamo si fanno sentire, come quando tredici specie di lucertole dalla coda di frusta, composte interamente da femmine rimangono sconosciute per via di un pregiudizio sul fatto che tali cose esistano, dobbiamo incontrare l’universo a metà strada. Nulla si dipanerà per noi a meno che non ci si muova noi verso ciò che ci sembra nulla: la fede è una cascata. L’alto solido del cielo è tutto meno che quello, il sole che tramonta non si è mosso, e se la morte spoglia il sé è il solo evento in natura a essere esattamente ciò che sembra. da Cascade Experiment di Alice Fulton
1. Introduzione La mattina dopo aver presentato una lezione sulla natura socialmente costruita del sapere scientifico, ebbi il privilegio di assistere mentre unǝ operatorǝ*1 di STM (Scanning Tunneling Microscope, un microscopio a *1 Abbiamo scelto di utilizzare formule del linguaggio inclusivo, soluzioni non standard per il genere neutro, aggirando così il maschile sovraesteso allo scopo di permettere a tuttз di sentirsi rappresentatз. La scelta è ricaduta sulla formula dello scwha singolare (ǝ) e plurale (з), nonostante siamo consapevoli delle altre soluzioni potenzialmente altrettanto valide (desinenze in -*, in -u, il femminile sovraesteso) nel panorama italiano. Laddove il genere della persona di cui si parla o che si cita è conosciuto, o è desumibile dal contesto, ci siamo adeguate al genere dichiarato o desumibile: si troveranno dunque forme maschili e femminili riferiti rispettivamente a uomini e donne e forme inclusive “neutre” per persone non binarie. [N.d.T.]
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effetto tunnel) ingrandiva con lo zoom un campione di grafite, e man mano che ci avvicinavamo alla scala di migliaia di nanometri, centinaia di nanometri… decine di nanometri… fino alle frazioni di un nanometro, singoli atomi di carbonio venivano visualizzati davanti ai nostri stessi occhi. L’esperienza fu così sublime da mandare brividi al mio corpo – e rimasi lì, unǝ fisicǝ teoricǝ che, come moltз di noi, di rado si avventura nei seminterrati degli edifici di fisica sperimentale che lз colleghз chiamano “casa”, consapevole che quello era uno di quei momenti nella vita in cui l’amorfo coacervo della storia sembra cristallizzarsi in un singolo istante. Quante volte avevo ricostruito per lз miз studentз le prove dell’esistenza degli atomi? Ed eccoli lì – della misura giusta e raggruppati in una struttura esagonale con spaziature intratomiche come previsto dalla teoria! “Se solo Einstein, Rutherford, Bohr, e specialmente Mach, avessero potuto vederlo!” mi trovai a esclamare. E mentre lǝ studentǝ che utilizzava lo strumento (che aveva fatto funzionare appena il giorno prima, eliminando con cura le fonti di interferenza vibrazionale – stiamo parlando di nano-metri!) disassemblava la camera che teneva il campione in modo che io potessi vedere in prima persona il delicato posizionamento della sonda sopra la superfice di grafite, attaccata in modo esperto con un pezzo di nastro adesivo, riflettei ad alta voce sul fatto che “vedere” gli atomi sarebbe diventato rapidamente routine per lз studentз (così come le generazioni precedenti, a loro volta, avevano considerato routine l’esame delle cellule con microscopi ottici, e poi quello della struttura delle molecole con microscopi elettronici) e che ero gratǝ di essere statǝ formatǝ in un’epoca scientifica senza questa particolare aspettativa. A questo punto della mia storia, immagino che ci saranno colleghз scienziatз che si chiederanno se ciò abbia rappresentato un momento di imbarazzo intellettuale per chi narra, la stessa persona che la sera precedente aveva insistito sulla natura socialmente costruita della conoscenza scientifica. In realtà, sebbene l’evento a cui avevo appena assistito mi avesse profondamente commosso, là, di fronte all’altare dell’efficacia dell’impresa scientifica, ero impenitente. Perché, come lз costruttivistз sociali hanno cercato di chiarire, l’adeguatezza empirica non è argomento che possa essere usato per silenziare le accuse di costruttivismo. Il fatto che la conoscenza scientifica sia socialmente costruita non implica che la scienza non “funzioni”, e il fatto che la scienza “funzioni” non significa che abbiamo scoperto fatti indipendenti dall’umano sulla natura. (Naturalmente, il fatto che l’adeguatezza empirica non sia una prova di realismo non è il punto di arrivo, ma il punto di partenza per lз costruttivistз, che devono spiegare come mai le nostre costruzioni funzionano – un obbligo che sembra tanto
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più urgente a fronte delle prove sempre più convincenti del fatto che la pratica sociale della scienza sia concettualmente, metodologicamente, epistemologicamente alleata lungo particolari assi di potere1). D’altra parte, simpatizzo con lз miз colleghз scienziatз che ricordano a chi studia science studies che ci sono cause culturali e naturali/materiali per le affermazioni sulla conoscenza. Nonostante moltз costruttivistз sociali si sforzino di dissipare le paure di chi pensa stiano negando l’esistenza di un mondo umano-indipendente, o l’importanza dei fattori materiali nella costruzione della conoscenza scientifica, la maggior parte dell’attenzione è stata concentrata sui fattori culturali. A onor del vero, è qui che è stato posto l’onere della prova: il costruttivismo sociale ha risposto alla sfida di dimostrare la falsità della visione del mondo che considera la scienza lo specchio della natura. Tuttavia, man mano che sia la portata che la sofisticazione degli argomenti costruttivisti crescevano, l’accusa che essi abbracciassero una posizione altrettanto estrema – quella per la quale la scienza rispecchierebbe la cultura – è stata mossa contro di loro con crescente vigore. Sebbene pochз costruttivistз assumano effettivamente una posizione così estrema, saremmo negligenti se liquidassimo questa accusa come una banale semplificazione, come un’incomprensione delle varie e complesse posizioni che rientrano nella rubrica del costruttivismo. Perché l’ansia che viene espressa, anche se certamente decentrata, tocca la legittima preoccupazione riguardo il privilegiare le questioni epistemologiche su quelle ontologiche nella letteratura costruttivista. Le questioni ontologiche non sono state totalmente ignorate, ma sono state messe in ombra. L’ontologia del mondo è una questione di scoperta per lǝ realista tradizionale. La presunta corrispondenza uno-a-uno tra teorie scientifiche e realtà viene utilizzata per sostenere l’ulteriore assunzione che le entità scientifiche non siano marcate da chi le scopre: vale a dire, che la natura sia data in modo trasparente. Riconoscendo l’importanza dell’analisi filosofica di Cartwright (1983) che disaccoppia queste assunzioni e la sua conseguente separazione del realismo scientifico in due posizioni indipendenti – realismo sulle teorie e realismo sugli enti – Hacking (1982), come Cartwright, sostiene il realismo verso gli enti. Spostando l’enfasi 1
Un punto meno ovvio è che il successo delle teorie scientifiche non è automatico nemmeno per lз realistз, come sostengono Laudan (1981) e Fine (1984). N.d.T.: in italiano è stato impossibile rendere compiutamente il senso della frase “the social practice of science is conceptually, methodologically, and epistemologically allied along particular axes of power”: Barad qui intende che nonostante la scienza possa allearsi di volta in volta con soggetti diversi, anche in maniera imprevedibile, tali alleanze sono riconducibili ad assi di potere riconoscibili.
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tradizionale degli science studies dalla costruzione della teoria all’analisi della pratica sperimentale, Hacking fonda la sua posizione sulla capacità dellǝ sperimentatorǝ di manipolare le entità in laboratorio. Anche Galison (1987) pone la pratica sperimentale al centro della sua analisi costruttivista, confrontando tre diversi periodi di sperimentazione fisica del ventesimo secolo, analisi nella quale egli generalizza il criterio di Hacking sulla realtà delle entità sottolineando l’importanza delle nozioni di stabilità (cioè, di invarianza dei risultati sotto condizioni sperimentali mutevoli, piuttosto che la categoria, più ristretta, di manipolazione) e immediatezza (vale a dire, epistemologicamente, ma non necessariamente logicamente, non-inferenziale). Ci sono altri approcci costruttivisti che si spingono oltre nell’interrogare la trasparenza delle nostre rappresentazioni della natura. Anche Latour (1993) dà priorità alla stabilità, presentandola come una variabile di una geometria bidimensionale il cui altro asse collega i poli di Natura e Società. L’essenza diventa allora la traiettoria di stabilizzazione all’interno di questa geometria che intende caratterizzare le ontologie variabili dei quasi-oggetti. Al contrario, Haraway (1988) enfatizza l’instabilità: è l’instabilità dei confini che definiscono gli oggetti a essere il punto focale della sua sfida esplicita non solo alle concezioni della natura che pretendono di essere fuori dalla cultura, ma anche alla separazione dell’epistemologia dall’ontologia. È interessante notare che l’instabilità dei confini, e l’insistenza di Haraway sul fatto che gli oggetti di conoscenza sono agenti nella produzione di conoscenza, caratterizzano le sue nozioni di cyborg (1985) e di agenti materiali-semiotici (1988), che delineano risonanze dissonanti e armoniche con gli ibridi e i quasi-oggetti di Latour (1993). Passando a quello che alcunз considerano il polo opposto della tradizionale posizione realista, c’è la posizione post-strutturalista. A moltз scienziatз e studiosз di science studies, le forme derridiane di post-strutturalismo che disconnettono il segno dal significato sembrano il massimo del narcisismo linguistico. Pur insistendo sul fatto che siamo sempre già nel “teatro della rappresentazione”, Hayles (1993) fa eccezione rispetto ai punti di vista estremi che ritengono che il linguaggio sia un gioco senza fondamento, e, pur non fornendoci un accesso al reale, cerca di mettere il linguaggio in contatto con la realtà ri-concettualizzando la referenzialità. La teoria di Hayles del costruttivismo vincolato (1993) si basa sulla coerenza (in opposizione alla nozione realista di congruenza) e sulla nozione semiotica di negatività al fine di riconoscere l’importanza dei vincoli offerti da una realtà che non può essere vista nella sua positività: nei suoi termini, “Anche se può non esserci un fuori che possiamo conoscere, c’è un confine” (p. 40, enfasi originale).
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Questi tentativi di dire qualcosa sull’ontologia del nostro mondo sono eccezioni, piuttosto che la regola, nella letteratura costruttivista. Quello di cui c’è bisogno è elaborare ulteriormente la creazione di ontologie. Abbiamo bisogno di capire le tecnologie tramite cui natura e cultura interagiscono. La natura fornisce qualche modello che viene riempito dalla cultura in modi che sono compatibili con i discorsi locali? O sono i discorsi specifici a fornire le lenti attraverso le quali vediamo la stratificazione della cultura sulla natura? La piena “texture” della natura riesce a passare, o viene parzialmente obliterata o distorta nel processo? La realtà è un blob amorfo che è strutturato dai discorsi e dalle interazioni umane? O ha una qualche forma irregolare e complicata che viene campionata in modo diverso da varie strutture che “si adattano” a regioni locali come segmenti coincidenti di pezzi interconnessi di un puzzle? Oppure la geometria è frattale, così che è impossibile per le teorie corrispondere alla realtà, persino localmente? A quale livello di dettaglio simili domande possono trovare risposta, se mai ciò è possibile? E cosa significherebbe? È possibile prendere sul serio una qualsiasi di queste domande all’interno dell’accademia, negli Stati Uniti, alla fine del ventesimo secolo? Non suonerà ancora troppo come metafisica a chi ha ricevuto la propria formazione durante i vari stati di decadimento della cultura positivista? E se non ci poniamo queste domande, quali saranno le conseguenze? Perché, come ci ricorda Donna Haraway, “ciò che conta come oggetto è precisamente ciò che infine si dispiega nella storia del mondo” (1988, p. 5882). Cerco un modo per provare a capire la natura dell’interazione tra il materiale e il culturale nell’elaborazione di un’ontologia. Di conseguenza, darò molta più enfasi alle questioni ontologiche di quanto sia comune negli science studies, pur non ignorando le questioni epistemologiche, poiché, così come gli agenti material-semiotici di Haraway, l’ontologia che offrirò non è al di fuori dell’epistemologia. Nell’articolare un nuovo quadro ontologico ed epistemologico, mi prenderò la responsabilità di riconoscerne il tenore realista. Dopo una rinascita dell’interesse per il realismo scientifico negli anni ’80, la popolarità di quest’ultimo sembra essere nuovamente scemata, se non come risultato della campana a morto suonata dall’intelligente riconoscimento di Fine 2
Esiste un’importante traduzione italiana dell’opera citata (Donna J. Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano 1995, tr. it. di Liana Borghi; la frase qui citata si trova a p. 119), alla quale ci si appoggia in questa traduzione nelle altre istanze in cui viene citata la medesima opera. In questo caso si propone una nuova traduzione della frase “what counts as an object is precisely what world history turns out to be about” allo scopo di aderire maggiormente al significato inteso da Karen Barad. [N.d.T.]
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(1984) del fallimento metateorico degli argomenti del realismo, almeno per la tendenza diffusa tra lз costruttivistз di presentare il realismo scientifico come ingenuo, irriflessivo, e politicamente investito nella propria pretesa di assumere una posizione apolitica. In effetti, l’abbinamento del costruttivismo sociale con una qualche forma di antirealismo è giunto a sembrare quasi assiomatico: se riconosciamo la specificità culturale della costruzione della conoscenza scientifica, non siamo obbligatз a rinunciare alla speranza di costruire teorie che siano vere rappresentazioni della realtà indipendente? Per esempio, offrendo un caso concreto della tesi della sottodeterminazione, Cushing (1994) sostiene che il fatto che teorie distinte possano rendere conto della stessa evidenza empirica significa che lз realistз sono in difficoltà nel produrre un argomento a favore di un accesso teoretico all’ontologia reale del nostro mondo3. Per la maggior parte, lз costruttivistз sociali hanno espresso totale disprezzo o almeno sospetto nei confronti del realismo, e hanno esplicitamente adottato posizioni antirealiste, oppure hanno rifiutato del tutto il dibattito realismo-antirealismo, o perché si sono sentitз limitatз proprio da questa opposizione (vedi per esempio Fine, 1984; Pickering, 1994) o perché hanno pensato che fosse più fruttuoso concentrarsi su altre questioni. In quanto costruttivista sociale dichiaratǝ, devo confessare di provare simpatia per tutte queste posizioni, ma non voglio negare le mie tendenze realiste o le caratteristiche realiste del quadro che presento. Pur riconoscendo che il realismo è stato invocato per sostenere posizioni e progetti sia oppressivi che liberatori, la mia speranza è che, in questa congiuntura storica, il peso del realismo – la serietà della questione e la relativa responsabilità implicate nella caccia della verità – possa offrire una possibile àncora contro la persistente cultura scientifica positivista che troppo facilmente confonde la teoria con il gioco (vedi Barad, di prossima pubblicazione). 3
Cushing afferma che “il realismo è in doppio pericolo”, nel senso che sebbene l’interpretazione di Bohm sia realista, egli etichetta l’interpretazione di Bohr della fisica quantistica come antirealista, e, inoltre, l’esistenza di questo esempio concreto di sottodeterminazione significa che sarebbe molto difficile sostenere la causa del realismo. Anche se qui sosterrò un’interpretazione realista da parte di Bohr, questa divergenza di per sé non indebolisce l’aspetto relativo alla sottodeterminazione dell’argomento di Cushing. (Ci sono comunque alcuni problemi indipendenti. Uno è il fatto che la valenza empirica di queste teorie dipende dalla risoluzione del problema della misura per l’interpretazione di Copenaghen (vedi nota 7) poiché, a rigore, senza tale risoluzione l’interpretazione di Copenaghen non offre predizioni definitive (vedi Albert 1992). E naturalmente, resta ancora da vedere se la teoria di Bohm e la teoria di Copenaghen siano empiricamente coincidenti sotto tutti gli aspetti).
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Rendendomi conto della molteplicità di significati che il realismo connota, in questo frangente voglio chiarire come intendo il realismo in prima istanza. Come punto di partenza, seguo l’esempio di Cushing: Assumo, forse irragionevolmente, che unǝ realista scientificǝ creda che le teorie scientifiche di successo siano capaci di fornire un accesso affidabile e comprensibile all’ontologia del mondo. Se si indebolisce troppo questa richiesta, non rimane molto, se non una credenza nell’esistenza di una realtà oggettiva alla quale abbiamo poco accesso e la cui rappresentazione da parte delle nostre teorie è nebulosa al di là della comprensione significativa. In una tale situazione, vale la pena preoccuparsi se si è realistз o meno? (Cushing 1994, p. 270, nota 26).
Anche se alla fine aggiungerò qualificazioni sostanziali a questa definizione, non intendo indebolire quello che ritengo essere lo spirito di questa richiesta, e ho scelto quindi questo punto di partenza per chiarire il senso del realismo con cui intendo impegnarmi, separandolo da alcuni più generali altri usi nella letteratura degli science studies, comprese le discussioni che oppongono il realismo al relativismo, o il realismo al monismo linguistico, o il realismo al soggettivismo. La mia prima preoccupazione non è il realismo in questi sensi: concordo che ci sono forme di antirealismo che non sono relativiste, che non negano l’esistenza di una realtà extralinguistica, e che sono compatibili con varie nozioni di oggettività. In altre parole, nello spirito della domanda di Cushing, voglio limitare l’elasticità del significato di realismo per i miei scopi iniziali. Studiosз di science studies hanno lavorato a lungo e duramente per articolare posizioni sociali costruttiviste moderate che rifiutano gli estremi delle posizioni oggettiviste, soggettiviste, assolutiste e relativiste, ma è forse inappropriato etichettare tali posizioni come realiste solo su queste basi. Cioè, non voglio mettere da parte questi risultati ponendo il realismo come il campione antagonista [foil] dell’intera famiglia di apparizioni, incluse alcune tra quelle che lз scienziatз trovano più infestanti [haunting]. Per esempio, lз studiosз femministз di science studies in particolare hanno fortemente respinto lo spettro del relativismo epistemologico, con un’intensità condivisa dallз scienziatз (un fatto che può sorprendere lз scienziatз che non hanno studiato la letteratura femminista). Vedendo il relativismo epistemologico come il gemello speculare dell’oggettivismo, ed entrambi come tentativi di negare l’incarnazione delle rivendicazioni di conoscenza, le teorie femministe della scienza, tra cui la teoria dei saperi situati di Haraway (1988), l’oggettività forte di Harding (1991), l’oggettività dinamica di Keller (1985), e l’empiri-
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smo contestuale di Longino (1990) articolano posizioni costruttiviste non relativiste. Di conseguenza, sebbene la mia discussione sul realismo in questo articolo riguardi il senso in cui l’accesso all’ontologia del nostro mondo è possibile, cercherò inoltre di soddisfare gli alti standard che sono già stati fissati specificando i modi in cui la nuova forma di realismo che propongo rifiuta queste altre opposizioni estreme. Uso la stessa etichetta, “realismo agenziale”, sia per la nuova forma di realismo che per il più ampio framework epistemologico e ontologico che propongo. (La mia motivazione per l’uso di una forma aggettivale di agenzialità come modificatore sarà chiarita più avanti). 2. Realismo agenziale: una panoramica L’ispirazione per il realismo agenziale viene dalla mia lettura della filosofia-fisica di Niels Bohr. (Uso questa struttura con il trattino, invece della abituale “filosofia della fisica”, per sottolineare la riluttanza di Bohr a pensare a questi interessi come distinti in qualsiasi senso, in opposizione alla nettezza dei confini disciplinari che sono importanti per la cultura della fisica contemporanea (Barad 1995). La filosofia-fisica di Bohr fornisce un fruttuoso punto di partenza perché implica un esame critico dei processi di osservazione/misura: in contrasto con il ruolo irrilevante dell’osservatorǝ nella fisica newtoniana, Bohr sosteneva che la fisica quantistica richiedesse una nuova struttura logica che tenesse conto dei processi di osservazione. La misura è un momento potente nella costruzione della conoscenza scientifica – è un’istanza in cui materia e significato si incontrano in un senso molto letterale. Per esempio, nel contesto degli studi sulla pratica della fisica sperimentale delle alte energie, lз studiosз di science studies hanno enfatizzato il ruolo dei detector come siti per la costruzione del significato (Traweek 1988; Galison 1987; Pickering 1984). La mia attenzione qui è sull’incarnazione della cultura all’interno della teoria. Cioè, leggo la filosofia-fisica di Bohr come un argomento a favore della necessità di includere la pratica all’interno della teoria: che, contrariamente alle visioni tradizionali della teoria fisica che considerano la pratica effettiva della misura come posta al di fuori della teoria, e in linea con il programma logico positivista/empirista che assume che le misurazioni giudichino in modo trasparente tra le teorie, Bohr colloca la pratica all’interno della teoria, poiché ignorare la pratica significa cogliere erroneamente la teoria. Questo non significa che tutto si riduca alla teoria, ma che la teoria, per principio, deve essere essa stessa
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incarnata nella pratica e non può astrarsi da tali questioni4. Mentre sospetto fortemente che lз lettorз postmodernз siano prontamente diffidenti delle mosse teoriche che elevano le questioni pratiche al reame dei principi, mostrerò che questa implicita universalità equivale alla frequente asserzione costruttivista per la quale tutte le conoscenze sono conoscenze locali. Cioè, indicherò come questa analisi teorica della misura possa essere intesa come l’incarnazione letterale dell’oggettività nel senso della teoria di Haraway dei saperi situati (1988; vedi anche Barad 1996). Ora, sono abbastanza consapevole che l’ubiqua appropriazione della teoria quantistica la renda materiale pericoloso da maneggiare di questi tempi, e che l’aggiunta della teoria femminista alla lista dei miei interessi appaia più che sufficiente a detonare la miscela esplosiva, dunque alcune considerazioni preliminari sono dovute. In un certo senso, per realizzare il mio compito ho bisogno di “salvare” la teoria quantistica sia dallз suз sostenitorз troppo zelanti che dallз suз praticanti irriflessivз. Nella letteratura popolare la fisica quantistica è spesso posta come il percorso scientifico che porta fuori dall’Occidente verso il giardino metafisico del misticismo orientale. Parallelamente a queste interpretazioni popolari, nella letteratura femminista si possono trovare suggestioni sul fatto che la fisica quantistica sia intrinsecamente meno androcentrica, più femminile, e generalmente meno regressiva rispetto alle tendenze maschiliste riscontrabili nella fisica newtoniana. Ma chi ingenuamente abbraccia la fisica quantistica come un qualche esotico Altro che salverà le nostre stanche anime occidentali, dimentica troppo in fretta che la fisica quantistica è alla base del funzionamento della bomba atomica, che la fisica delle particelle (che si appoggia sulla teoria quantistica) è l’ultima manifestazione della tendenza al riduzionismo scientifico, e che la teoria quantistica in tutte le sue applicazioni continua ad essere prevalentemente di competenza di un piccolo gruppo di maschi di formazione occidentale. Non è mia intenzione contribuire alla romanticizzazione o mistificazione della teoria quantistica. Al contrario, come fisicǝ, sono interessatǝ ad impegnarmi in un dialogo rigoroso su aspetti particolari di discorsi specifici sulla fisica quantistica e sulle implicazioni. Allo stesso modo, non faccio qui alcuna affermazione sul fatto che Niels Bohr sia un femminista non apprezzato o segreto [closet5]. Né il mio scopo è quello di proporre una critica della fisica reggendo4 5
Questa non è una circolarità. Come spiegherò più avanti, è indicativo di una riflessività critica. Si riporta qui anche la forma inglese tra parentesi quadre perché il concetto di closet (indagato da molta teoria queer) ha implicazioni diverse da quelle della forma italiana di segreto/segretezza. [N.d.T.]
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la su qualche nozione fissa di genere. Al contrario, l’analisi femminista che presento qui interroga simultaneamente le nozioni di identità e di scienza6. D’altra parte, divergo dallз miз colleghз fisicз neopositivistз che credono che le preoccupazioni filosofiche siano superflue rispetto alla vera materia della fisica. Infatti, sono d’accordo con l’opinione di Bohr per cui la filosofia è parte integrante della fisica. Niels Bohr è stato uno dei più importanti fisici del ventesimo secolo e i suoi scritti “filosofici” coprono un periodo di circa quattro decenni7. Bohr è considerato l’autore principale della cosiddetta interpretazione di Copenaghen della meccanica quantistica8. Sebbene siano state avanzate interpretazioni alternative fin dalla formulazione della teoria quantistica a metà degli anni ’20, la comunità fisica dichiara fedeltà all’interpretazione di Copenaghen9. Sfortunatamente, la grande maggioranza dellз fisichз non ha più che un interesse passeggero per le questioni filosofiche, e preferisce concentrarsi sui potenti strumenti che la formulazione quantistica fornisce ai fini del calcolo. Questo evitamento ha avuto il suo costo: le questioni fondative di questa fondamentale teoria fisica rimangono irrisolte, e la cultura della fisica è tale per cui premia atteggiamenti e approcci irriflessivi. Anche se non sosterrò alcun argomento sulla superiorità dell’approccio di Bohr alla fisica quantistica, le simultanee centralità e marginalità del suo approccio lo rendono particolarmente interessante10. 6
La destabilizzazione delle concezioni umanistiche liberali dell’identità che consegue dal framework del realismo agenziale non sarà qui il mio focus. La mia attenzione qui sarà principalmente sulla scienza. Per maggiori dettagli sul realismo agenziale e l’identità si veda Barad, di prossima pubblicazione [Barad si riferisce qui a Barad 2007, N.d.T.]. 7 Le raccolte degli scritti in volumi di Bohr sono disponibili grazie a Rosenfeld. (1972-). 8 Anche se i fisici parlano della interpretazione di Copenaghen, in un certo senso ci sono veramente molte interpretazioni di Copenaghen o, per dirla in un altro modo, non esiste un’interpretazione di Copenaghen ben definita, coerente e completa. Questo è dovuto al fatto che i fisici che ne sono considerati i contributori avevano forti differenze filosofiche/interpretative, così che quella che è considerata la interpretazione di Copenaghen è in realtà una sovrapposizione dei punti di vista di Bohr (complementarità), Heisenberg (indeterminazione), Born (probabilità) e Von Neumann (collasso), per citare alcuni dei protagonisti. 9 Per maggiori dettagli si veda (Cushing 1994). (Anche se la filosofia-fisica di Bohr non è un focus primario per Cushing, sottolineo che la mia lettura di Bohr diverge sostanzialmente da quella di Cushing. Come specificherò più dettagliatamente in seguito, la mia lettura si sovrappone molto di più alle interpretazioni presentate da un certo numero di studiosз di Bohr.) 10 C’è un numero crescente di libri di testo quantistici che non menzionano alcuno dei contributi di Bohr al campo (ad eccezione del riferimento al suo modello ato-
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Bohr fa spesso riferimento alle lezioni epistemologiche della teoria quantistica, e considera il framework che egli offre per la fisica quantistica di rilevanza generale, una rilevanza che va oltre il dominio della fisica (Folse 1985). Quindi non è affatto inopportuno che si sia prestata attenzione alle più ampie implicazioni filosofiche della filosofia-fisica di Bohr, lasciando da parte le questioni specifiche che riguardano l’interpretazione della teoria quantistica. Il mio approccio sarà quello di delineare le specificità di un quadro bohriano coerente, fondando l’analisi sulla fisica, e di considerarne poi le implicazioni più ampie. Il primo passaggio è necessario dato che c’è molto disaccordo nella letteratura secondaria su come interpretare Bohr. Per esempio, Bohr è stato chiamato da vari autori un positivista, un idealista, uno strumentista, un (macro)fenomenista, un operazionalista, un pragmatico, un (neo)kantiano e un realista. Una delle difficoltà nell’assegnare un’etichetta tradizionale al quadro interpretativo di Bohr è il fatto che Bohr non specifica i propri impegni ontologici. Al fine di colmare questa lacuna cruciale, propongo un’ontologia che credo sia coerente con la visione di Bohr, anche se non asserisco che sia necessariamente ciò che egli aveva in mente. Vale a dire che, come risultato della disattenzione di Bohr alle preoccupazioni dell’ontologia, ci saranno grandi divergenze di opinione su questo argomento, e io sono meno interessatǝ a cercare di capire cosa Bohr stesse realmente pensando di quanto lo sia, piuttosto, a cercare di capire cosa abbia senso nel contesto di ciò che Bohr ci dice. Il mio approccio consiste nell’usare gli scritti di Bohr come contesto per il mio pensiero su tali questioni; non li considero sacre scritture (vedi Interludio metodologico). Usando questa analisi della filosofia-fisica di Bohr come ispirazione, introduco il realismo agenziale in quanto struttura che lega insieme le questioni epistemologiche e ontologiche. Mostro poi come il realismo agenziale possa essere utilizzato per affrontare specifiche preoccupazioni che gli approcci alla scienza del costruttivismo sociale rendono evidenti, incluse alcune di quelle enumerate nella sezione precedente. Divergo qui da Bohr nella strategia, ma non nello spirito. L’approccio metodologico di Bohr era quello di trarre le lezioni epistemologiche della teoria quantistica per altri campi della conoscenza, essenzialmente cercando di indovinare quali sarebbero stamico pre-quantistico). Vale a dire, spesso non si fa menzione del suo principio di corrispondenza e del ruolo che esso ha giocato nello sviluppo della teoria quantistica, o della Complementarità e della sua importanza per la comprensione della teoria quantistica.
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te le variabili Complementari rilevanti in ogni campo. Questa strategia analogica ha spesso fallito: sia perché ha proposto un insieme di variabili che si sono rivelate non Complementari, sia perché le implicazioni tratte su questa base hanno annacquato la complessità e la ricchezza delle “lezioni epistemologiche”11. Il mio approccio sarà quello di esaminare specifiche implicazioni assumendo direttamente un diverso insieme di impegni epistemologici e ontologici. Cioè, non userò la nozione di Complementarità come un trampolino di lancio, ma interrogherò direttamente particolari assunti filosofici di background che sottendono specifiche preoccupazioni. Infine, voglio rendere esplicita la distinzione tra il mio approccio e una serie di (indebite) appropriazioni analogiche della teoria quantistica che nella letteratura sono più comuni di quanto lз fisicз vorrebbero. Non proporrò alcun argomento per affermare che la teoria quantistica del micromondo sia analoga alle situazioni che ci interessano nel macromondo – siano esse religiose, spirituali, psicologiche o anche di quelle che si incontrano negli science studies. La mia attenzione si concentra sullo sviluppo di questioni epistemologiche e ontologiche ampiamente applicabili, che possono essere utilmente indagate da un esame rigoroso dei processi di misura come esplicitati dalla comprensione della fisica quantistica di Bohr. Chiedere se non sia sospetto applicare al mondo macroscopico argomenti fatti specificamente per entità microscopiche è, in questo caso, travisare l’approccio interpretandolo come analogico. Le questioni epistemologiche e ontologiche non sono circoscritte dalla dimensione della costante di Planck (vedi nota 15). Cioè, non sono interessatǝ a mere analogie, ma piuttosto a questioni filosofiche ampiamente applicabili come le condizioni per l’oggettività, il referente appropriato per gli attributi empirici, il ruolo dei fattori naturali e culturali nella produzione della conoscenza scientifica, e l’efficacia della scienza.
11 Per Bohr, complementare significa contemporaneamente necessario e reciprocamente esclusivo (come spiegato in dettaglio nella prossima sezione. NB: Ho usato “complementare” con l’iniziale maiuscola quando il termine è usato nel senso di Bohr). Vedi (Bohr 1963b) per esempi di questo approccio. Un tentativo di Bohr di risolvere il dibattito vitalismo-meccanicismo in biologia fallì perché egli assunse, dalla sua limitata prospettiva tecnologica, che le condizioni per esaminare la meccanica sottostante ai processi vitali e le condizioni per mantenere la vita dell’esemplare in esame fossero mutualmente esclusive.
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3. La misura è importante12 Lo sviluppo della fisica ci ha spesso insegnato che un’applicazione coerente anche solo dei più elementari concetti indispensabili per la descrizione dell’esperienza quotidiana si basa su presupposti inizialmente inosservati, la considerazione esplicita dei quali è, tuttavia, essenziale se vogliamo ottenere una classificazione di domini di esperienza più estesi il più possibile chiara e libera dall’arbitrarietà. Questo sviluppo ha contribuito al generale chiarimento filosofico dei principi alla base della conoscenza umana (Bohr 1937, pp. 289-290).
I presupposti epistemologici e ontologici classici, come quelli che si è trovato soggiacere alla fisica newtoniana, includono un mondo autonomamente esistente che è descrivibile indipendentemente dalle nostre indagini sperimentali su di esso. Ciò spiega il fatto che il processo di misura sia trasparente ed esterno al discorso della scienza newtoniana. Si assume che gli oggetti e lз osservatorз occupino posizioni fisicamente e concettualmente separabili. Si assume che gli oggetti possiedano attributi intrinseci ben definiti, e che sia compito dellǝ scienziatǝ discernere sapientemente queste caratteristiche inerenti, ottenendo i valori delle corrispondenti variabili indipendenti dal contesto attraverso qualche procedura di misura benignamente invasiva. La riproducibilità dei valori misurati secondo la metodologia della sperimentazione controllata è usata a sostegno dell’affermazione oggettivista per cui ciò che viene ottenuto è una rappresentazione oggettiva delle proprietà intrinseche che caratterizzano gli oggetti di una realtà indipendente e non controllata13. La trasparenza del processo di misura nella fisica newtoniana è una causa fondamentale del suo valore e prestigio all’interno della cultura illuminista dell’oggettivismo. 12 Il titolo originale, “Measurement matters”, gioca sul doppio significato di “matter”: la forma verbale “to matter” significa importare, essere importante, significativo; il sostantivo “matter” significa sia materia nel senso di materiale che materia nel senso di tema, oggetto del discorso. [N.d.T.] 13 Anche se ognunǝ è liberǝ di dare un’interpretazione antirealista della fisica newtoniana, quella “realista classica” articolata qui è particolarmente seducente per le nostre intuizioni illuministe, e ho sentito più e più volte studentз nei corsi di fisica universitari sposare variazioni di questo principio realista classico. (Naturalmente è ironico attribuire una posizione realista nei confronti della fisica a uno che non era disposto a simulare alcuna ipotesi, ma non moltз studentз se ne accorgono, dato che i corsi di fisica mancano quasi sempre di qualsiasi discussione esplicita delle diverse posizioni interpretative nei confronti della scienza. Vedi (Barad 1995) per le implicazioni pedagogiche di questa diffusa disattenzione alle questioni metateoriche e mancanza di riflessività critica).
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I due assunti di base della trasparenza della misura soggiacenti alla fisica newtoniana che sono stati messi in questione dall’interpretazione di Bohr della fisica quantistica sono14: (1) Le misurazioni coinvolgono interazioni continue e determinabili; cioè, un taglio non ambiguo, inerente, di tipo cartesiano, tra chi conosce e ciò che è conosciuto delinea l’oggetto dall’apparato osservativo. (2) L’applicabilità dello schema concettuale è indipendente dai processi di misura; i concetti sono astraibili, universali, definiti e indipendenti dal contesto. Il marchio di fabbrica della fisica newtoniana è il suo determinismo, la sua proclamata capacità di prevedere e retrodatare l’intero insieme di stati fisici di un sistema per tutto il tempo: date le condizioni iniziali (cioè la specificazione simultanea di posizione e momento in un istante nel tempo), si possono calcolare intere traiettorie di particelle. Nell’immagine newtoniana, la posizione e il momento di un oggetto possono essere determinati da una misura del tempo di volo, per esempio, in cui la luce colpisce l’oggetto e la luce diffusa viene raccolta in un detector. Sebbene la luce abbia momento ed energia, il processo di illuminazione dell’oggetto può essere fatto in modo da imprimere una perturbazione trascurabile sull’oggetto (intuitivamente, abbassando continuamente l’intensità) oppure la perturbazio14 Una ri-visualizzazione della natura della luce è comune ad entrambe le maggiori rivoluzioni concettuali della fisica del ventesimo secolo: la relatività speciale e la teoria dei quanti. La relatività speciale non sarà considerata in questo articolo, ma qualche parola per distinguere alcune delle implicazioni più popolari di questa teoria dalla meccanica quantistica può essere utile ad alcunз lettorз. La teoria speciale della relatività si basa sull’invarianza e la finitezza, verificate empiricamente, della velocità della luce (1/velocità della luce = 1/costante = 1/c≠0). Einstein trasformò la relatività galileiana in una nuova teoria della relatività, ridefinendo alcune quantità invarianti precedentemente considerate come relative e viceversa. (Einstein aveva pensato di chiamare questa teoria “la teoria delle invarianze”, e forse avrebbe fatto meglio a farlo visto il clima politico in Europa durante la prima metà del XX secolo). La teoria della relatività dà al processo di misura una certa visibilità limitata: concetti come “tempo” e “lunghezza” sono definiti relativamente a un particolare quadro di riferimento in cui vengono effettuate le misurazioni. (Non è il tempo che sembra rallentare: il tempo è quello che si misura con un orologio). La teoria della relatività può aver minato l’universalità di alcuni concetti, ma l’assunzione che le misure siano continue e determinabili non viene mai messa in discussione. Cioè, secondo la teoria speciale della relatività c’è ancora una separazione ben definita tra oggetto e strumento di misura, ovvero si conserva una chiara distinzione soggetto/oggetto. Le proprietà misurate sono attribuibili a un oggetto indipendente misurato rispetto a un particolare quadro di riferimento. (Il quadro di riferimento specifica semplicemente di quale “tempo” stiamo parlando, cioè cosa intendiamo per “tempo” in ciascun caso).
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ne può essere determinata e sottratta, ottenendo così i valori desiderati della posizione e del momento dell’oggetto come sarebbero stati se la misura non fosse stata eseguita. Secondo Niels Bohr, questo resoconto oggettivista del processo di misura si basa su falsi presupposti15. La fisica quantistica si basa su una discrepanza, o discontinuità, empiricamente verificata (il quanto di azione = costante di Planck = h ≠ 0) nelle interazioni di misura, osservata inizialmente negli esperimenti che sondavano i fenomeni atomici all’inizio del secolo. La mancanza di continuità significa che le interazioni di misura non possono essere ridotte fino al punto di essere trascurabili e, quindi, la determinazione delle proprietà di un oggetto indipendente è subordinata alla sottrazione degli effetti dell’interazione di misura. Bohr sosteneva che la sottrazione è impossibile; che l’interazione di misura non può essere specificata con precisione senza intervenire in modo tale da disturbare lo scopo della misura prevista. Inoltre, sosteneva che la discontinuità indeterminabile compromette la separabilità dell’“oggetto” e delle “agenzie di osservazione”. L’argomento di Bohr per l’indeterminabilità delle interazioni di misura si basa sulla sua insistenza che i concetti sono definiti dalle circostanze richieste per la loro misura, e che quindi, per determinare tutte le caratteristiche dell’interazione di misura in questione, sarebbe necessario impiegare simultaneamente allestimenti sperimentali mutualmente esclusivi (il che è impossibile). Per esempio, in una misura del tempo di volo utilizzata per determinare le condizioni iniziali, bisogna sottrarre il momento impartito dalla luce che colpisce l’oggetto. Ma la misura del momento richiede un apparecchio con parti mobili (cioè, il concetto di “momento” è necessariamente definito dal riferimento a un apparecchio con parti mobili16), il che escluderebbe la misura altrettanto necessaria della posizione, poiché le misure di posizione richiedono un apparecchio con parti fisse (cioè, il concetto di “posizione” è necessariamente definito in riferimento a un ap15 È importante notare che il fatto che la fisica newtoniana “funzioni” nel dominio macroscopico non significa che le assunzioni della trasparenza della misura siano vere in quel dominio. Al contrario, questo semplicemente spiega perché le assunzioni sono rimaste celate per secoli. Il fatto che la fisica newtoniana faccia predizioni che sono approssimativamente le stesse di quelle fatte dalla teoria quantistica nel dominio macroscopico è dovuto al fatto che in quel regime il rapporto tra la costante di Planck e la massa della particella è più piccolo della precisione richiesta dalla situazione macroscopica in questione – ma non è zero. Questo è il motivo per cui Bohr si riferisce alle lezioni epistemologiche generali della teoria quantistica. 16 Un’immagine abbozzata e intuitiva è la seguente: pensate di prendere una palla. La quantità relativa del movimento del vostro braccio all’indietro è un’indicazione del momento della palla.
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parecchio fisso). Pertanto, l’osservazione è possibile solo a condizione che l’interazione sia indeterminabile (cioè, che non possa essere sottratta). Di conseguenza, poiché le osservazioni implicano un’interazione discontinua indeterminabile, in linea di principio, non c’è un modo univoco per differenziare tra l’“oggetto” e le “agenzie di osservazione” – non esiste un taglio inerente/naturalmente presente/fisso/universale/cartesiano. Quindi, le osservazioni non si riferiscono a oggetti di una realtà indipendente. L’interpretazione di Bohr della teoria quantistica sfida profondamente entrambi i presupposti di trasparenza della misura che stanno alla base del quadro newtoniano. In effetti, la filosofia-fisica di Bohr mina una serie di nozioni illuministiche, richiedendogli di costruire un nuovo framework logico (vedi specialmente Folse 1985), inclusa una nuova epistemologia, per comprendere la scienza. Bohr si allontana dal riferimento alla nozione classica di “perturbazione” nei suoi scritti successivi ed enfatizza la “interezza (wholeness) quantistica”, o la mancanza di una distinzione inerente/cartesiana tra l’“oggetto” e le “agenzie di osservazione”, in quanto caratteristica centrale del suo nuovo framework descrittivo. Per Bohr, “oggetto” e “agenzie di osservazione” formano un insieme non dualistico, nel senso che è concettualmente incoerente riferirsi a una distinzione inerente tra i due. “Descrittivamente, c’è un’unica situazione, nessuna parte della quale può essere estratta senza entrare in conflitto con altre descrizioni di questo tipo (cioè quelle della situazione complementare). All’oggetto non si può attribuire una “realtà indipendente nel senso fisico ordinario” (corsivo originale; Hooker 1972, p. 156). Questa è una nozione centrale nella filosofia-fisica di Bohr ed egli usa il termine “fenomeno” (nei suoi scritti più tardi) per designare particolari istanze di totalità: “Mentre, nell’ambito della fisica classica, l’interazione tra oggetto e apparato può essere trascurata o, se necessario, compensata, nella fisica quantistica questa interazione forma così una parte inseparabile del fenomeno. Di conseguenza, il resoconto inequivocabile dei fenomeni quantistici propri deve, in linea di principio, includere una descrizione di tutte le caratteristiche rilevanti della disposizione sperimentale” (corsivo mio, Bohr 1963c, p. 4). Inoltre, “[…] l’unità intrinseca tipica di questi fenomeni trova la sua espressione logica nel fatto che qualunque tentativo di effettuare una ben definita suddivisione implicherebbe una modificazione del dispositivo sperimentale, incompatibile con la definizione dei fenomeni in esame” (Bohr 1963b p. 72; tr. it. 1965, p. 104). Se un taglio che delinei l’“oggetto” dagli “enti di osservazione” non è inerente, quale senso, se alcuno, dovremmo attribuire alla nozione di osservazione? Bohr suggerisce che “per esperimento intendiamo semplicemente
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un evento sul quale siamo in grado di affermare in modo inequivocabile le condizioni necessarie alla riproduzione dei fenomeni” (citato in Folse 1985, p. 124). La specificazione di queste condizioni equivale all’introduzione di una distinzione costruita/agenzialmente posizionata/mobile/ locale/“bohriana” tra un “oggetto” e le “agenzie di osservazione”17. Cioè, sebbene non esista una distinzione inerente, ogni misura comporta una particolare scelta dell’apparato, fornendo le condizioni necessarie per dare definizione ad un particolare insieme di variabili classiche, escludendo altre variabili essenziali, e ponendo così un particolare taglio costruito che delinea l’“oggetto” dalle “agenzie di osservazione”. Questo particolare taglio costruito risolve le ambiguità solo per un determinato contesto; esso delimita e fa parte di una particolare istanza di totalità, cioè di un particolare fenomeno. Per esempio, consideriamo ancora una volta un esperimento in cui la luce viene diffusa da una particella. La luce diffusa può essere diretta verso una lastra fotografica rigidamente fissata in laboratorio e quindi utilizzata per registrare la posizione, oppure la luce può essere diretta verso un’apparecchiatura con parti mobili utilizzata per registrare il momento della luce diffusa. Il primo caso descrive essenzialmente il processo di fotografare una particella con un flash. In questo caso, la luce fa parte dell’apparato di misura. Nel secondo caso, il momento della luce viene misurato e quindi fa parte dell’oggetto in questione18. (Questo esempio illustra bene l’affermazione bohriana per cui l’osservazione è possibile solo a condizione che l’interazione di misura sia indeterminabile: dato che almeno una particella 17 Ho scelto di usare il termine “costruito” invece del termine “arbitrario” di Bohr per due motivi. Prima di tutto, “arbitrario” è fuorviante dato che il taglio non è totalmente arbitrario, in quanto il taglio deve essere fatto in modo tale che il dispositivo di misurazione sia sempre macroscopico (ciò è necessario poiché l’uso dei concetti classici si fonda su una divisione soggetto/oggetto). In secondo luogo, il termine “arbitrario” porta con sé connotazioni fuorvianti come le associazioni inappropriate del relativismo. Il punto che penso Bohr voglia sottolineare usando il termine “arbitrario” è che, poiché non c’è una distinzione inerente/cartesiana, si deve comunque tracciare una distinzione non inerente. Poiché la scelta di un apparato concettuale traccia necessariamente questa distinzione, userò il termine “costruito” nella speranza che questo termine possa connotare l’agenzialità. Il contrasto evidente consiste nel fatto che la fisica classica è fondata su una distinzione inerente/naturalmente esistente/fissa/universale/cartesiana, mentre la fisica quantistica richiede tagli costruiti/agenzialmente posizionati/mobili/ locali/“bohriani”, ponendo Bohr come controparte di Cartesio. 18 Un altro modo di esprimere questo dilemma quantistico è notare che ciò significa che l’atto di misurare può essere spiegato solo se il dispositivo di misurazione è trattato esso stesso come un oggetto, sfidando il suo scopo come strumento di misura.
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di luce, o fotone, è necessaria per fare un marchio sulla pellicola che registra la posizione (illustrando la “discontinuità quantistica”), e dato che l’effetto che questo fotone ha sulla particella non può essere spiegato a meno che la quantità di moto del fotone sia simultaneamente rilevata, e dato che entrambe le variabili (“posizione” è definibile nel contesto di un apparecchio con una lastra fotografica fissa, e “momento” è definibile nel contesto della lastra fotografica su una piattaforma mobile) non possono essere definite in modo univoco utilizzando una particolare scelta di apparati di misura, l’osservazione comporta un’interazione indeterminabile.) Pertanto, la misura di quantità definite in modo univoco è possibile attraverso l’introduzione di un taglio costruito che serve a definire “oggetto” e “enti di osservazione” in un particolare contesto19. Specialmente nei suoi ultimi scritti, Bohr ha sostenuto insistentemente sul fatto che le misure della meccanica quantistica sono “oggettive”20. Poiché Bohr ha anche enfatizzato l’essenziale interezza [wholeness] dei fenomeni, non può aver voluto intendere che le misurazioni rivelino proprietà oggettive di oggetti indipendenti. Piuttosto, l’uso che Bohr fa del termine “oggettività” è legato al fatto che “[n]on si fa riferimento esplicito a nessun osservatore individuale” (Bohr, citato in Murdoch 1987, p. 99). “Oggettivo” significa riproducibile e non ambiguamente comunicabile – nel senso che “marchi permanenti… [sono] lasciati sui corpi che definiscono le condizioni sperimentali”: Comune alle scuole di cosiddetta filosofia empirica e critica, è quindi prevalso un atteggiamento di distinzione più o meno vaga tra conoscenza oggettiva e credenza soggettiva. Con la lezione sulla nostra posizione di osservatorɜ della natura, che lo sviluppo della scienza fisica nel secolo attuale ci ha dato, si è però creato un nuovo sfondo proprio per l’uso di parole come oggettività e soggettività. Da un punto di vista logico, possiamo intendere per descrizione oggettiva solo una comunicazione dell’esperienza che non ammette ambiguità per quanto riguarda la percezione di tali comunicazioni (Bohr, citato in Folse 1985, p. 15).
Chiaramente, la nozione di “oggettività” di Bohr, che non è predicata sulla base di un’intrinseca distinzione cartesiana tra “oggetti” e “agenzie di osservazione”, è in netto contrasto con qualsiasi senso newtoniano di “oggettività” che denota indipendenza dell’osservatorǝ. 19 Si veda (Barad 1995) per una discussione più dettagliata di questo esempio. 20 “La tendenza provocatoria di Bohr, specialmente nei primi scritti, a ‘enfatizzare il carattere soggettivo di tutta l’esperienza’ (Bohr, 1963a, p. 1) mise la sua intera interpretazione della teoria quantistica in pericolo” (citato in Honner 1987, p. 65).
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Il termine di Bohr “agenzie di osservazione [agencies of observation]” è evocativo del ruolo centrale dell’agenzialità nel nuovo quadro epistemologico e ontologico che introdurrò più avanti in questo articolo. “Agenzie di osservazione”, invece del più comune termine “osservatorǝ”, segnala già l’inseparabilità degli apparati materiali e semiotici. Cioè, nella mia lettura, un punto cardine dell’analisi di Bohr è che l’apparato fisico (esistente nel regno dell’esperienza classica, macroscopica, quotidiana, diretta) segna la distinzione concettuale soggetto-oggetto: gli apparati materiale e semiotico formano un insieme non dualistico. In altre parole, i concetti descrittivi classici ottengono il loro significato dal riferimento a un particolare apparato fisico che a sua volta segna il posizionamento di un taglio costruito tra l’“oggetto” e le “agenzie di osservazione”. Infine, il punto di riferimento per una comunicazione univoca è “dai segni permanenti – come una macchia su una lastra fotografica, causata dall’impatto di un elettrone – lasciati sui corpi che definiscono le condizioni sperimentali” (Bohr 1963c, p. 3). Pertanto, “i corpi che definiscono le condizioni sperimentali” servono sia come punto finale che come punto di partenza di un’osservazione significativa. Per Bohr, misura e descrizione si implicano a vicenda (anche se non in un senso strettamente operazionalista, ma nel senso di indistinguibilità epistemologica). In modo abbastanza atipico per gli scritti dei fisici teorici, gli scritti di Bohr includono spesso disegni molto dettagliati di apparati sperimentali. Come sottolinea Honner, “Bohr insisteva nel fornire elaborati disegni di dispositivi meccanici usati per osservare gli eventi quantistici [in molte delle sue discussioni sulla complementarità], come se volesse sottolineare la connessione tra concetti descrittivi e apparati classici” (Honner 1987, p. 119). Sebbene Bohr fosse un fisico teorico, era ossessionato dai dettagli della misura e non si accontentava di trattare concetti astratti – per Bohr il significato è legato al mondo esperienziale21. (Ci sono evidenze storiche del fatto che Rutherford, che alcuni considerano il più grande fisico sperimentale di questo secolo [N.d.T.: il ventesimo], ebbe una profonda influenza su Bohr, che fu un postdoc sotto Rutherford). La domanda rimane: qual è il referente di una data proprietà oggettiva (così come è definita, in modo non ambiguo, in riferimento a un dato 21 Bohr usa interscambiabilmente le espressioni “linguaggio dell’esperienza quotidiana” e “linguaggio della fisica classica”. La connessione per Bohr è che le esperienze quotidiane hanno luogo nel regno macroscopico al quale viene applicato il linguaggio della fisica classica. Tuttavia, egli suggerisce che il linguaggio dell’esperienza quotidiana può includere “adeguate generalizzazioni” del linguaggio della fisica classica.
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taglio costruito) che si ottiene da un dato processo di misura? Poiché non c’è una distinzione intrinseca tra oggetto e strumento, la proprietà che viene determinata non può essere attribuita in modo significativo né a un oggetto astratto né a uno strumento di misura astratto. Cioè, il valore misurato non è né attribuibile a un oggetto indipendente dall’osservazione, né è una proprietà creata dall’atto della misura (il che smentirebbe qualsiasi significato sensato della parola “misura”)22. Nella mia lettura le proprietà misurate si riferiscono ai fenomeni, ricordando che la caratteristica identificativa cruciale dei fenomeni è che sono particolari istanze di interezza, che “il resoconto inequivocabile dei fenomeni quantistici propri deve, in principio, includere una descrizione di tutte le caratteristiche rilevanti della disposizione sperimentale” (Bohr 1963c, p. 4). Nei nostri concetti descrittivi classici è implicita una distinzione soggetto-oggetto, e poiché i fenomeni implicano la collocazione di una distinzione soggetto-oggetto costruita, è coerente usare dei concetti classici per descrivere i fenomeni. In effetti, Bohr rafforza l’argomento a sostegno dell’adeguatezza del nostro uso dei concetti classici per descrivere i fenomeni arrivando a sostenere la necessità di tale uso. Per giustificare questa mossa, si può dare la seguente mappatura dettagliata della relazione tra concetti classici e fenomeni: poiché per la loro stessa definizione i concetti descrittivi classici implicano una particolare distinzione soggetto-oggetto, come specificato dalle circostanze richieste per la loro misura, e poiché i fenomeni includono una distinzione soggetto-oggetto costruita, cioè quella in questione che dà definizione ad un particolare concetto classico, ne segue che questi particolari concetti classici sono proprio quelli che sono utili per descrivere i fenomeni23. Cioè, i fenomeni sono necessariamente 22 Bohr: “Sono appunto argomenti di questo genere che mettono in evidenza l’impossibilità di suddividere i fenomeni quantistici, e al tempo stesso rivelano quanto sia ambiguo attribuire qualità fisiche ordinarie agli oggetti atomici” (Bohr 1963b, p. 51; tr.it. 1979, p. 127) 23 Questa mappatura dettagliata della relazione tra concetti classici e fenomeni ha lo scopo di chiarire la posizione di Bohr riguardo alla necessità di usare concetti classici nella descrizione dei fenomeni quantistici. La confusione su questo problema è diffusa in letteratura. Moltз fisicз che hanno cercato di capire il quadro interpretativo di Bohr hanno accusato Bohr di conservatorismo rispetto al futuro sviluppo delle teorie fisiche: perché, si sono chiestз, dovremmo limitare i nostri concetti descrittivi in questo modo? Inoltre, non è raro trovare filosofз che descrivono questo aspetto della teoria di Bohr come kantiano. Spero di aver trasmesso chiaramente qui perché penso che Bohr non stesse negando la possibilità di futuri sviluppi creativi nella fisica, né stesse sostenendo un idealismo trascendentale,
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descritti usando concetti condizionati da particolari distinzioni soggettooggetto. Un altro modo per apprezzare la necessità di questa condizione è che la comunicazione univoca si riferisce necessariamente a “segni permanenti… lasciati sui corpi”, cioè corpi macroscopici, che in un particolare contesto sono definiti come “apparato”, e poiché l’“apparato” a sua volta specifica le circostanze richieste per la definizione di particolari concetti classici (derivati dall’esperienza quotidiana nel mondo macroscopico e quindi fondati su una distinzione oggetto-soggetto), ne segue che i fenomeni, che includono il particolare taglio costruito in questione, sono necessariamente descritti usando concetti classici appropriati al contesto dato. Anche in questo caso, il riferimento ai corpi è necessario perché i concetti abbiano un significato. “Mentre nella concezione meccanica [classica] della natura la distinzione soggetto-oggetto era fissa, viene dato spazio ad una descrizione più ampia attraverso il riconoscimento che l’uso conseguente dei nostri concetti richiede diverse collocazioni di tale separazione” (Bohr 1963b, p. 92). In effetti, secondo il Principio di Complementarità di Bohr, devono essere considerati tutti i possibili modi di tracciare la distinzione soggetto-oggetto per ottenere la massima capacità esplicativa delle nostre indagini. Cioè, tagli costruiti mutuamente esclusivi che costituiscono circostanze sperimentali mutuamente esclusive, manifestando così agenzialmente fenomeni mutuamente esclusivi, servono a denaturalizzare la natura del processo osservativo. Il quadro epistemologico e descrittivo di Bohr è radicalmente diverso da quello associato alla fisica newtoniana. Per Bohr, la misura, lungi dall’essere esterna al discorso delle teorie scientifiche, deve giocare un ruolo di primo piano nella teorizzazione scientifica: cioè, Bohr situa la pratica all’interno della teoria. Il risultato è che metodo, misura, descrizione, interpretazione, epistemologia e ontologia non sono aspetti separabili. Le loro connessioni sono esplorate nelle sezioni che seguono l’interludio metodologico. nella sua insistenza sull’uso di concetti classici empiricamente fondati anche all’interno di un framework non classico (che già ammette la possibilità dell’evoluzione delle idee). Un importante fatto correlato è che Bohr offre l’osservazione che i linguaggi “quotidiani” sono basati su forme soggetto-predicato (un punto che purtroppo fa senza qualificazione); cioè, i linguaggi quotidiani assumono strutturalmente distinzioni soggetto-oggetto. Credo che questo sia un fattore che contribuisce a ciò che viene comunemente descritto come l’oscurità degli scritti di Bohr, poiché egli usa molte circonlocuzioni per cercare di parlare di cose che non sono intrinsecamente strutturate lungo questa distinzione.
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4. Interludio metodologico Einstein una volta disse di Bohr: “Proferisce le sue opinioni come uno che si muove perennemente a tentoni e mai come uno che crede di essere in possesso di una verità definitiva” (Einstein, citato in Pais 1982, p. 417).
Moltз tra lз filosofз, lз storichз e lз pochз fisichз che hanno provato a leggere le opere di Bohr hanno commentato la difficoltà di questa impresa. Lo stile di Bohr è atipico rispetto alla maggior parte degli scritti scientifici. La sua scrittura riflette un riguardo consapevole del proprio processo descrittivo, che è coerente con il suo attento, profondo esame del ruolo della descrizione nella produzione di conoscenza scientifica, fondamentale per il suo approccio alla comprensione della fisica quantistica. Allo stesso modo, ho cercato di rimanere vigile nei confronti del mio processo descrittivo/ interpretativo nella mia lettura di Bohr. Di conseguenza, non pretendo qui di aver scoperto ciò che Bohr stava effettivamente pensando o intendendo, come se ciò fosse separato dal mio apparato interpretativo; cerco piuttosto di fornire una lettura coerente nel contesto di particolari modi di risolvere le ambiguità. (Ricordiamo che per Bohr le descrizioni si riferiscono ai fenomeni, non a qualche realtà indipendente). Ci sono chiari parallelismi tra questa metodologia e le metodologie femministe e altre metodologie dei saperi situati. Questa non è una semplice coincidenza ma, come sarà chiaro più avanti, un riflesso di una comune riflessività critica. La mia presentazione delle principali caratteristiche del quadro postnewtoniano di Bohr e della corrispondente epistemologia deriva da più di un decennio di studio approfondito degli scritti di Bohr. Le domande interpretative sulla teoria dei quanti mi hanno tormentato durante i miei studi universitari in fisica teorica delle particelle. (Potrà stupire lз non scienziatз scoprire che la scuola di specializzazione in fisica non è il contesto appropriato per affrontare tali questioni24). Una volta divenutǝ professorǝ assistente di fisica, la mia attenzione si è allargata a includere questioni filosofiche più ampie nel quadro postnewtoniano di Bohr. Le idee che ho presentato, così come le ho presentate finora, sono in considerevole accordo con singole caratteristiche di molti dei testi secondari “standard” sulla filosofia della fisica di Bohr, compreso il lavoro di Feyerabend (1962), Hooker (l972), Bohm (1985), Folse (1985), Petersen 24 Si veda “Anomaly of a Woman in Physics” di Keller (1977) per il racconto di un’esperienza in una scuola di specializzazione negli Stati Uniti, tipica nel suo scoraggiamento della riflessività e della contemplazione delle questioni interpretative in fisica, anche se specifica nella sua genderizzazione.
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(1985), Honner (1987), e Murdoch (1987). È importante sottolineare che i punti di vista di questi studiosi divergono ampiamente su molti punti cruciali. Io non sono d’accordo in toto con i punti di vista presentati in alcuno di questi altri resoconti, anche se, leggendo di volta in volta i testi primari dalla prospettiva di unǝ fisicǝ teoricǝ delle particelle, vari aspetti di questi lavori sono stati e continuano ad essere utili nella formulazione delle mie opinioni in evoluzione sulla filosofia-fisica di Bohr. Come misura del disaccordo tra lз studiosз di Bohr, si consideri la questione della natura del quadro interpretativo di Bohr. La maggior parte de lз studiosз di Bohr, e moltз altrз studiosз che non hanno studiato Bohr, attribuiscono una qualche forma di antirealismo a Bohr, che è stato chiamato positivista, idealista, strumentista, (macro)fenomenista, relativista, pragmatista e (neo)kantiano. Folse è stato uno dei più forti sostenitori della visione minoritaria che vede in Bohr un realista. Come ho indicato nell’introduzione, una delle difficoltà nel risolvere le ambiguità della posizione di Bohr è che Bohr si concentra su questioni epistemologiche nei suoi scritti senza esporre mai i suoi impegni ontologici. Di conseguenza, è difficile discernere la natura di qualsiasi corrispondenza che egli possa tenere tra teoria e realtà. Senza una chiara presentazione di una coerente ontologia bohriana, il compito di determinare quale tipo di posizione realista o antirealista sia coerente con la filosofia-fisica di Bohr sembra condannato. Nella prossima sezione, presento un’ontologia che credo sia coerente con il punto di vista di Bohr, e affronto poi la questione di una posizione interpretativa correlativa. Sosterrò che la filosofia-fisica di Bohr può essere intesa come coerente con una particolare forma di realismo, che io chiamo “realismo agenziale”. Ma come ho notato fin dall’inizio, il mio scopo non è tanto quello di fornire una rappresentazione fedele della filosofia-fisica di Bohr, quanto quello di proporre un quadro di riferimento per pensare a questioni critiche epistemologiche e ontologiche, in particolare negli science studies. Nell’affrontare tali questioni nel resto dell’articolo, attribuire a Bohr l’intero sviluppo di questa struttura sarebbe tanto disonesto quanto negare che le mie riflessioni sulla filosofia-fisica di Bohr siano ovunque presenti nella mia formulazione.
5. Realtà agenziale e realismo agenziale Bohr è stato spesso male interpretato, credo, perché lз suз lettorз hanno insistito nel leggere i presupposti ontologici ed epistemologici classici […] [nelle] sue osservazioni […] [tale lettura] presuppone un mondo atomico autonomamente esistente e descrivibile indipendentemente dalla nostra indagine
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sperimentale su di esso. Non esiste un mondo del genere per Bohr […]. Non c’è alcun approccio divino possibile al mondo fisico per cui possiamo conoscerlo come è “assolutamente in sé”: piuttosto siamo in grado di conoscere solo quanto di esso può essere catturato in quelle situazioni che possiamo gestire concettualmente – cioè quelle situazioni in cui è possibile una comunicazione univoca dei risultati […]. Questo è in completo contrasto con la metafisica e l’epistemologia realista classica, dove il mondo è considerato essere nel modo in cui la teoria classica dice che è, indipendentemente dalla nostra esplorazione sperimentale di esso (Clifford A. Hooker 1972, pp. 155-156).
La distinzione realismo-antirealismo è spesso tracciata sulla base di questioni relative alla credenza in una teoria corrispondentista della verità, che è radicata nei dualismi soggetto-oggetto/cultura-natura/parolamondo. La separazione dell’epistemologia dall’ontologia è un riverbero di questi dualismi. La filosofia di Bohr contesta chiaramente una distinzione cartesiana (inerente, fissa, universale) soggetto-oggetto, e io sosterrò qui che questo mina quelle concezioni che vedono la realtà come anteriore o esterna al linguaggio. Ciò che viene descritto è la nostra partecipazione nella natura. Aage Petersen, in un articolo intitolato “The Philosophy of Niels Bohr”, scrive: La filosofia tradizionale ci ha abituato a considerare il linguaggio come qualcosa di secondario e la realtà come qualcosa di primario. Bohr considerava questo atteggiamento verso la relazione tra linguaggio e realtà inappropriato. Quando gli si diceva che non può essere il linguaggio a essere fondamentale, ma che deve essere la realtà a, per così dire, stare sotto il linguaggio e ciò di cui il linguaggio è un’immagine, rispondeva: “Siamo sospesi nel linguaggio in modo tale che non possiamo dire cosa c’è in alto e cosa c’è in basso. Anche la parola ‘realtà’ è una parola, una parola che dobbiamo imparare a usare correttamente”25 (Petersen 1985, p. 302).
25
Questa citazione è tratta da (Petersen 1985, p. 302). Petersen continua dicendo che Bohr non aveva bisogno di un’ontologia. Forse Bohr non sentiva il bisogno di articolarne una, ma questo non significa che avesse una rigorosa visione pragmatica o positivista. In effetti, sosterrò più avanti in questa sezione che Bohr aveva un atteggiamento realista rispetto alla dualità onda-particella, per esempio, anche se i suoi punti di vista divergevano drammaticamente dal realismo classico. Anche Honner (1987) sostiene un’interpretazione realista e contro le prospettive pragmatiche o positiviste, sebbene la versione del realismo che Honner attribuisce a Bohr non affronti la questione di un riferimento per le nostre rappresentazioni. Anche Folse (1985) sostiene un’interpretazione che vede Bohr come realista, ma Folse sembra considerare i fenomeni come il risultato di una realtà sottostante.
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Nello sforzo di fornire un significato bohriano coerente al termine “realtà”, mi rivolgo a un passaggio molto importante degli scritti di Bohr: un brano della sua risposta all’articolo del 1935 di Einstein, Podolsky e Rosen, il cosiddetto “articolo EPR”, in cui Bohr sfida direttamente la definizione EPR di “realtà fisica”26. Moltз studiosз hanno sottolineato che l’argomento che Bohr articola in questo passaggio è fondamentale per il suo tentativo di screditare l’analisi della EPR e di risolvere il “paradosso EPR” una volta per tutte. Dico questo sia per sottolineare il fatto che non ho scelto tra gli scritti di Bohr un qualche passaggio oscuro o arbitrario, bensì quello in cui Bohr ha più interesse a prestare attenzione alla presentazione delle proprie idee sulla nozione di realtà, sia per esprimere la mia sorpresa rispetto al fatto che nessunǝ dellз studiosз che ho letto su Bohr sottolinei la caratteristica positiva di questo passaggio – cioè che Bohr offre la propria definizione di realtà fisica nella frase finale: Dal nostro punto di vista vediamo ora che la formulazione del suddetto criterio di realtà fisica proposto da Einstein, Podolsky e Rosen contiene un’ambiguità sul significato dell’espressione “senza disturbare in alcun modo il sistema”. Naturalmente in un caso come quello appena considerato non si può parlare di una perturbazione meccanica del sistema in esame durante l’ultima fase critica della procedura di misura. Ma anche in questa fase c’è essenzialmente la questione di un’influenza sulle condizioni stesse che definiscono i possibili tipi di previsione sul comportamento futuro del sistema. Poiché queste condizioni costituiscono un elemento intrinseco della descrizione di qualsiasi fenomeno a cui il termine “realtà fisica” può essere propriamente associato, vediamo che l’argomentazione degli autori menzionati non giustifica la loro conclusione che la descrizione quantistico-meccanica è essenzialmente incompleta (corsivo originale: Bohr 1935, p. 700).
Precedentemente, nel discutere l’uso che Bohr fa della parola “fenomeno”, ho rilevato che le condizioni che definiscono i tipi possibili di predizioni costituiscono un elemento inerente alla descrizione di qualsiasi fenomeno. Pertanto, la prima frase dell’ultimo periodo è coerente con l’uso che Bohr fa del termine fenomeno27. L’ultimo periodo indica poi che il termine 26 (Einstein et al. 1935) e (Bohr 1935). In un articolo intitolato “Discussion with Einstein on Epistemological Problems in Atomic Physics”, per un volume che onorava i contributi epocali del suo amico di lunga data Albert Einstein, Bohr cita ampiamente questo passaggio particolarmente importante del suo articolo del 1935 (vedi Bohr 1949, p. 234). 27 Ho presentato quella che può sembrare un’analisi pedante dell’uso che Bohr fa del termine “fenomeno” in questo passaggio, ma lo faccio perché nel 1935 il suo uso di questo termine era ancora in qualche modo incoerente, ed è quindi cruciale
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“realtà fisica” può essere propriamente collegato al fenomeno. I fenomeni sono costitutivi della realtà. La realtà non è composta da cose-in-sé o da cose-dietro-fenomeni, ma da cose-in-fenomeni. Questa interpretazione è coerente con il seguente punto elaborato da von Weizsäcker: Il fatto che la fisica classica si interrompa al livello quantistico significa che non possiamo descrivere gli atomi come “cose piccole”. Questo non sembra essere molto lontano dalla visione di Mach per la quale non dovremmo inventare “cose” dietro ai fenomeni. Ma Bohr differisce da Mach sostenendo che “i fenomeni” sono sempre “fenomeni che coinvolgono cose”, perché altrimenti i fenomeni non ammetterebbero l’oggettivazione senza la quale non ci può essere una scienza a proposito di essi. Per Bohr, il vero ruolo delle cose è che esse non sono “dietro” ma “nei fenomeni” (citato in Honner 1987, p. 15).
O come dice Honner: Il termine [fenomeno] non intendeva significare l’apparenza non interpretata dell’oggetto dell’esperienza stessa. Né Bohr cercava di seguire la distinzione kantiana tra la cosa in sé e la nostra percezione di essa. Se si voleva parlare di tali “cose”, allora erano, come dice Weizsäcker, da trovare nel fenomeno piuttosto che dietro di esso (Honner 1987, p. 68).
La natura di questa relazione è un punto di contesa tra lз studiosз di Bohr. I miei studi sugli scritti di Bohr mi hanno portato a una conclusione simile a quella di von Weizsäcker prima ancora che iniziassi a leggere qualsiasi testo secondario, e nonostante le successive letture delle molte diverse interpretazioni offerte, mi è sempre sembrato molto chiaro che questa è l’unica interpretazione che rispetta la complessa intenzione della nozione bohriana di “fenomeni”28. Il punto è che i fenomeni costituiscono un insieme non dualistico, così che non ha letteralmente senso parlare di cose indipendentemente esistenti come se fossero in qualche modo dietro ai fenomeni, o come se ne fossero le cause. Un’ontologia bohriana non implica una qualche nozione fissa di essere che sia precedente alla significazione (come assume lǝ realista classico), ma nemmeno che l’essere sia complegiustificare dal contesto del suo uso di questo termine che esso è effettivamente coerente con il significato specifico che gli assegna nei suoi scritti successivi. Infatti, l’uso di Bohr di “fenomeno” per significare l’interezza dell’interazione tra “oggetti di indagine” e “agenzie di osservazione” è coerente lungo tutto questo specifico articolo del 1935. 28 Questo fatto motiva la mia introduzione del termine “intra-azione” alla fine di questa sezione, dato che i fenomeni sono l’istanziazione delle intra-azioni.
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tamente inaccessibile al linguaggio (come nell’idealismo trascendentale) o completamente del linguaggio (come nel monismo linguistico) – ciò che viene descritto è la nostra partecipazione nella natura, ciò che io chiamo “realtà agenziale”. Bohr si riferisce spesso al fatto che siamo nella natura: “Nel nostro secolo l’immenso progresso delle scienze… ci ha dato una lezione insospettata sulla nostra posizione di osservatori di quella natura di cui noi stessi siamo parte” (corsivo mio, Bohr, 1963c, p. 8). L’introduzione alla raccolta Essays 1933-1957 on Atomic Physics and Human Knowledge inizia così: L’importanza della scienza fisica per lo sviluppo del pensiero filosofico generale si basa non solo sui suoi contributi alla nostra conoscenza in costante aumento della natura di cui noi stessi siamo parte, ma anche sulle opportunità che di volta in volta ha offerto per l’esame e il perfezionamento dei nostri strumenti concettuali (enfasi mia, Bohr 1963b, p. l).
Il passaggio della risposta di Bohr a EPR continua: Al contrario, questa descrizione, come appare dalla discussione precedente, può essere caratterizzata come un utilizzo razionale di tutte le possibilità di interpretazione non ambigua delle misurazioni, compatibile con l’interazione finita e incontrollabile tra gli oggetti e gli strumenti di misura nel campo della teoria quantistica. In effetti, è solo l’esclusione reciproca di due procedure sperimentali qualsiasi che, permettendo la definizione non ambigua di quantità fisiche complementari, dà spazio a nuove leggi fisiche, la cui coesistenza potrebbe a prima vista sembrare inconciliabile con i principi fondamentali della scienza. È proprio questa situazione completamente nuova per quanto riguarda la descrizione dei fenomeni fisici ciò che la nozione di complementarità intende caratterizzare (corsivo originale).
Si noti come in quest’ultima frase viene detto che le teorie scientifiche descrivono fenomeni fisici. Poiché i fenomeni costituiscono la realtà agenziale, e sono i fenomeni ciò che viene descritto dalle teorie scientifiche, ne consegue che le teorie scientifiche descrivono la realtà agenziale. Se non fosse per l’aggettivo cruciale “agenziale”, che sottolinea la natura non oggettivante dell’ontologia bohriana, come l’ho descritta qui, la conclusione di questo sillogismo suonerebbe come il proclama di unǝ realista irriducibile che sta sostenendo una classica teoria corrispondentista della verità. Tuttavia, la corrispondenza in questione è tra le teorie e la realtà agenziale, non una realtà indipendente dall’osservatorǝ. Ne concludo dunque che il quadro di Bohr è coerente con una particolare nozione di realismo, che chiamo “realismo agenziale”. Il realismo agenziale è com-
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patibile con il punto che ho avanzato in precedenza in questa sezione, per cui qualsiasi nozione di realismo che sia coerente con la filosofia di Bohr deve non essere parassitaria alle distinzioni soggetto-oggetto, culturanatura, parola-mondo29. Che Bohr abbia sottoscritto una sorta di realismo è anche supportato dalla sua pratica della scienza. Un esempio particolarmente pregnante di come diverse posizioni filosofiche abbiano guidato gli sforzi di diversi segmenti della comunità fisica durante gli anni ’20 è dato dalla considerazione di alcune reazioni alla nozione di “dualità onda/particella”. Queste reazioni costituiscono il contributo del ventesimo secolo a un lungo dibattito storico sulla natura della luce. Dire che la luce consiste di particelle significa sostenere che la luce consiste di oggetti localizzati che occupano una data posizione in ogni momento. D’altra parte, dire che la luce consiste di onde significa sostenere che la luce consiste di oggetti con estensione nello spazio, che occupano più di una posizione in ogni momento del tempo, come le onde dell’oceano che si muovono lungo un tratto di spiaggia; e inoltre, onde diverse possono sovrapporsi e occupare la stessa posizione in ogni momento del tempo, a differenza delle particelle. Ovviamente, i concetti di “onda” e “particella” si escludono a vicenda: un oggetto o è localizzato o è esteso, non può essere entrambi. Eppure, gli esperimenti dell’inizio del ventesimo secolo sembravano indicare che la luce si comporta come un’onda in certe condizioni sperimentali, e come una particella in un insieme di condizioni sperimentali che si escludono a vicenda. Questo risultato era sorprendente, perché nell’ultima parte del XIX secolo la teoria ondulatoria della luce era ben confermata da considerazioni sia teoriche (la teoria elettromagnetica di Maxwell) che sperimentali (effetti di diffrazione e interferenza). Ne seguì una lotta nella comunità scientifica per risolvere questo paradosso. Lз realistз classicз speravano di risolvere il paradosso trovando qualche spiegazione unificante. Potrebbe essere che tutti gli oggetti sono in definitiva onde, ma che su certe scale sembrano particelle? Un altro tipo di risposta venne dallз positivistз/strumentalistз che, come Heisenberg, riponevano la loro fede nel formalismo matematico stesso e vedevano gli sforzi per assegnare concetti visualizzabili appropriati alla matematica 29 Questo criterio si applicherebbe anche a qualsiasi suggestione di una nozione bohriana di antirealismo. In particolare, lз realistз non possono aspettarsi di fare affidamento su una realtà esterna indipendente, ma anche lз antirealistз avrebbero difficoltà ad argomentare contro il realismo sulla base di una qualche postulata realtà indipendente inaccessibile.
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come speciosi. Mentre questa sembrava essere una soluzione ordinata e pragmatica per alcunз fisicз, altrз non erano così dispostз ad abbandonare interpretazione e significato. L’affinità di Bohr per una qualche posizione interpretativa realistica lo portò a continuare a cercare una soluzione a questo paradosso. Bohr partecipò con una passione tenace al dibattito. Se Bohr avesse adottato un atteggiamento antirealista, è improbabile che avrebbe trovato necessario sviluppare un approccio completamente nuovo per comprendere il ruolo dei concetti descrittivi nella scienza, che divenne la base della Complementarità e, infine, della cosiddetta interpretazione di Copenaghen della meccanica quantistica. Chiaramente, le posizioni interpretative hanno importanza nella costruzione delle teorie scientifiche. Qualche altro dettaglio storico può essere qui illuminante. Nel 1924, Bohr scrisse un articolo con Kramers e Slater che avanzava la congettura radicale che forse il principio più sacro di tutta la fisica – la conservazione dell’energia – avrebbe dovuto essere sacrificato a livello atomico per trovare una risoluzione soddisfacente del paradosso della dualità onda/particella. Sicuramente unǝ strumentalista o unǝ antirealista irriducibile non si sarebbe spintǝ così lontano nel tentativo di spiegare l’applicabilità delle rappresentazioni duali. Il trio ritrattò rapidamente questa proposta non appena vennero alla luce prove empiriche contrarie, ma Slater non perdonò mai a Bohr di averlo convinto ad acconsentire a una proposta così radicale. Bohr adottò poi un nuovo approccio che comportava l’esame delle circostanze in cui queste caratteristiche si manifestano (tali caratteristiche appaiono solo in circostanze che si escludono a vicenda), e di conseguenza un esame della dipendenza dal contesto dei concetti descrittivi30. Lo sviluppo della Complementarità era contingente a certi impegni realisti da parte di Bohr. Diversamente Bohr si sarebbe accontentato dell’uso di descrizioni alternative (onde e particelle) come evidenziato dalla posizione strumentalista di Heisenberg. Inoltre, ci sono importanti prove storiche che mostrano che Bohr era fortemente in disaccordo con Heisenberg sull’importanza e l’interpretazione della dualità onda/particella. Bohr e Heisenberg partirono per vacanze separate e svilupparono rispettivamente il framework della Complementarità e il Principio di Indeterminazione; al ritorno a Copenaghen, Bohr criticò appassionatamente la derivazione di Heisenberg del Principio di Indeter30 Questa mutua esclusività evidenzia la problematicità di una posizione strumentalista per Bohr. Come spiega lǝ strumentalista la non arbitrarietà di questa caratteristica? (Quale criterio ausiliario deve essere applicato?)
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minazione per aver grossolanamente trascurato la centralità della dualità onda/particella ai fini di un’analisi adeguata31. Il quadro interpretativo di Bohr si discosta in un modo unico e non triviale dalle teorie classiche corrispondentiste o del rispecchiamento della scienza. Per Bohr, il paradosso è risolto come segue: “onda” e “particella” sono descrizioni classiche che si riferiscono a diversi fenomeni che si escludono a vicenda, e non a oggetti fisici indipendenti. Egli enfatizzò che questo salvava la teoria da incoerenze, poiché era impossibile osservare simultaneamente particelle e comportamenti ondulatori, dato che sono richieste disposizioni sperimentali reciprocamente esclusive. L’ambiguità e il paradosso non trovano una risoluzione newtoniana/ cartesiana in questo quadro post-newtoniano. Nessuna spiegazione riduzionistica unificante finale viene offerta; solo comprensione contestuale, conoscenze localizzate vengono ottenute dalle molteplici contestazioni dell’assunzione di una distinzione soggetto-oggetto inerente/fissa/universale/cartesiana. L’ambiguità è solo temporaneamente, contestualmente decisa, e quindi le caratterizzazioni descrittive non significano proprietà di oggetti astratti o di esseri indipendenti dall’osservazione, ma piuttosto descrivono il “tra delle nostre intra-azioni” come è marcato da particolari delineazioni costruite. (Dato che non c’è il senso di due cose che interagiscono, ho introdotto il termine “intra-azione” per evitare la reinscrizione della dicotomia contestata). In altre parole, le misurazioni dei valori delle variabili ben definite sono attribuibili al fenomeno come un’istanza particolare di interezza [wholeness], l’essere-in pienamente contestuale dove la materia e il significato si incontrano. 31 Dopo alcune settimane di intense discussioni, Heisenberg alla fine accettò il punto di vista di Bohr e aggiunse un poscritto al suo articolo sul principio di indeterminazione in cui afferma: “A questo proposito Bohr mi ha fatto notare che ho trascurato punti essenziali in alcune discussioni di questo lavoro. Soprattutto l’indeterminazione nell’osservazione non dipende esclusivamente dal verificarsi di discontinuità, ma è direttamente collegata alla necessità di rendere giustizia simultaneamente ai diversi dati sperimentali che sono espressi nella teoria corpuscolare da una parte e nella teoria delle onde dall’altra [cioè, dualità ondaparticella]” (citato in Murdoch 1987, p. 51). Recenti articoli in ottica quantistica (per esempio, vedi Scully et al. 1991) forniscono prove empiriche a sostegno dell’interpretazione di Bohr del principio di indeterminazione rispetto a quella data da Heisenberg la quale non è coerente con questi risultati. NB: è l’analisi di Heisenberg (senza le correzioni di Bohr) a venir insegnata agli studenti di fisica. Vedi (Barad 1995) per maggiori dettagli. La divergenza tra le interpretazioni di Bohr e Heisenberg sul principio di indeterminazione evidenzia le loro differenze filosofiche (rispettivamente realista e strumentalista). La costruzione delle teorie scientifiche è influenzata dagli atteggiamenti filosofici.
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6. Realismo agenziale: il quadro di riferimento Uno dei fattori comuni che attraversa quel campo di significati che costituisce la scienza, riguarda lo statuto di ciascun oggetto di conoscenza e delle pretese di fedeltà che hanno i nostri resoconti rispetto a un “mondo reale”, per quanto mediati, complessi e contraddittori siano per noi questi mondi (Haraway 1991, p. 197; tr. it. 1995, pp. 122-123).
In aggiunta alla questione delle posizioni interpretative negli science studies, il realismo agenziale fornisce un quadro di riferimento per affrontare questioni epistemologiche e ontologiche ampie. In questa sezione sviluppo alcuni punti chiave rilevanti per le questioni che affronterò nella prossima sezione32: (1) il realismo agenziale fonda e situa le rivendicazioni di conoscenza in esperienze locali: l’oggettività è letteralmente incarnata [embodied]; (2) il realismo agenziale non privilegia né il materiale né il culturale: l’apparato di produzione corporea è materiale-culturale, e così la realtà agenziale; (3) il realismo agenziale comporta l’interrogazione dei confini e la riflessività critica; e (4) il realismo agenziale sottolinea la necessità di un’etica del conoscere. (1) Il realismo agenziale fonda e situa le rivendicazioni di conoscenza nelle esperienze locali: l’oggettività è letteralmente incarnata. Da un lato, lз femministз e altrз criticз dell’Illuminismo hanno espresso scetticismo verso l’oggettivismo, in particolare verso [L]’idea di una dicotomia di base tra il soggettivo e l’oggettivo; la concezione della conoscenza come una rappresentazione corretta di ciò che è oggettivo; la convinzione che la ragione umana possa liberarsi completamente dai bias, dai pregiudizi e dalla tradizione; l’ideale di un metodo universale con il quale possiamo prima assicurare solide basi di conoscenza e poi costruire l’edificio di una scienza universale; la convinzione che con il potere dell’auto-riflessione possiamo trascendere il nostro contesto storico e il nostro orizzonte e conoscere le cose come sono realmente in sé (Bernstein 1983, p. 36).
32 Altri aspetti cruciali del quadro del realismo agenziale sono sviluppati in Barad, di prossima pubblicazione [Barad 2007, N.d.T.]. In particolare, c’è una discussione più approfondita delle questioni di agenzialità e identità. Il fatto che il realismo agenziale possa essere usato per pensare a questioni piuttosto disparate, dalla destabilizzazione dell’identità alla destabilizzazione della scienza, non è una questione di maggiore parallelismo, ma di diverse istanze delle stesse questioni epistemologiche e ontologiche.
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Nell’era post-kuhniana in cui viviamo, gli argomenti contro l’oggettivismo sono stati robusti ed estensivi, hanno attraversato i confini disciplinari e comunicato con il mondo al di fuori dell’accademia, così che attualmente pochз studiosз trovano ragionevole sottoscrivere l’insieme di dottrine illuministe delineate sopra. Lз difensorз dell’illuminismo hanno difficoltà a mostrare come l’oggettivismo possa uscire dalle acque torbide delle contingenze spazio-temporali. Ironicamente, lз teoricз antiilluministз mainstream, inclusi Derrida, Foucault e Lyotard, hanno ignorato marcatori sociali cruciali come il genere e la razza nelle loro critiche alle tendenze universalizzanti caratteristiche del progetto illuminista. Tuttavia, non sono solo i limiti di queste critiche ad aver preoccupato lз femministз, ma anche il loro profondo rifiuto dell’intero insieme degli obiettivi illuministici. Lз teorichз femministз hanno mosso obiezioni agli studi anti-illuministi che abbandonano la possibilità di epistemologie positive abbracciando l’interpretazionismo, il relativismo e un forte costruttivismo sociale33. La teoria dei saperi situati di Haraway presenta una sfida diretta all’oggettivista “sguardo da nessun luogo”, il “godtrick” della visione passiva infinita, e l’altrettanto irresponsabile relativista “sguardo da ovunque”, ponendo la vista incarnata – lo sguardo a partire da qualche parte, insieme alla responsabilità che ciò comporta – come la chiave dell’oggettività femminista. Secondo Haraway: Nei resoconti scientifici di corpi e macchine non esistono fotografie non mediate o camere oscure passive; ci sono solo possibilità visive altamente specifiche, ciascuna con un modo meravigliosamente dettagliato, attivo, parziale, di organizzare i mondi. (…) Capire come funzionano tecnicamente, socialmente, e fisicamente questi sistemi visivi dovrebbe essere un modo per dare corpo [embodying] all’oggettività femminista (1988, p. 583; tr. it. 1995, pp. 113-114).
Il realismo agenziale offre una tecnologia dell’embodiment (Barad 1996). Si ricordi che i concetti ottengono il loro significato in riferimento a un particolare apparato che segna il posizionamento di un confine costruito tra l’“oggetto” e lз “agenzie di osservazione”. E a sua volta, il punto di riferimento per la descrizione oggettiva dei fenomeni è “da marchi permanenti… lasciati sui corpi che definiscono le condizioni sperimentali”. Pertanto, i corpi che definiscono le condizioni sperimentali servono sia come punto finale che come punto di partenza per i resoconti oggettivi delle nostre 33 Per una discussione più dettagliata si veda (Harding 1990) e altri articoli in Feminism/Postmodernism, a cura di Nicholson.
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intra-azioni. In altre parole, l’oggettività è letteralmente incarnata. Per il realismo agenziale, la conoscenza è sempre una visione da qualche luogo – la conoscenza oggettiva è una conoscenza situata. (2) Il realismo agenziale non privilegia né il materiale né il culturale: l’apparato di produzione corporea è materiale-culturale, e così la realtà agenziale. Se i costrutti teorici non devono essere intesi come se rappresentassero proprietà date in maniera trasparente dall’osservazione, possedute da oggetti/esseri materiali indipendenti esistenti in modo isolato da tutte le interazioni osservative, non dobbiamo però nemmeno interpretare questi costrutti come artefatti del processo osservativo, gesti puramente discorsivi impressi sulla lavagna bianca di una materia passiva. Come ci dice Bohr: Da molte parti si fecero istruttivi commenti su questi problemi, nella stessa sessione del Consiglio Solvay in cui Einstein sollevò le sue obiezioni di carattere generale. In quell’occasione nacque anche un’interessante discussione sul modo in cui si doveva parlare, al loro manifestarsi, dei fenomeni per i quali si potevano fare solo previsioni di carattere statistico. La questione era se, per ciò che riguarda i singoli effetti, si dovesse adottare una terminologia proposta da Dirac, secondo la quale noi ci troviamo di fronte a una scelta compiuta dalla “natura”, o se invece, come suggeriva Heisenberg, dovessimo dire che la scelta era compiuta dall’“osservatore” che costruisce gli strumenti di misura e legge ciò che essi registrano. Qualsiasi terminologia del genere, tuttavia, sembra dubbia, poiché da una parte è poco ragionevole attribuire alla natura una volizione nel senso comune della parola, e dall’altra non è certo possibile all’osservatore influenzare gli eventi che possono verificarsi nelle condizioni da lui [sic] predisposte. A mio avviso, l’unica alternativa sta nell’ammettere che, in questo campo dell’esperienza, ci troviamo di fronte a singoli fenomeni e che le nostre possibilità di adoperare gli strumenti di misura ci permettono solo di fare una scelta fra i diversi tipi di fenomeni complementari che vogliamo studiare (Bohr 1949, p. 22334; tr. it. 1979, pp. 127-128).
Ci sono tre importanti elementi che possiamo trarre da questo passaggio: (i) la natura ha agentività, ma non parla da sola all’osservatorǝ paziente e discretǝ che ascolta le sue grida – c’è un’importante asimmetria rispetto all’agentività: siamo noi a rappresentare, e tuttavia (ii) la natura non è una lavagna bianca passiva che aspetta le nostre iscrizioni, e (iii) privilegiare il materiale o il discorsivo equivale a dimenticare l’inseparabilità che caratterizza i fenomeni. 34 Le posizioni che Heisenberg e Dirac articolano qui sono coerenti con le inclinazioni strumentaliste del primo e le tendenze tradizionalmente realiste del secondo.
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Come evidenziato nella citazione di cui sopra, quando Bohr e altrз fisicз si impegnarono in un dialogo sulla teoria quantistica parlarono della “scelta fatta da parte dellǝ sperimentatorǝ”, come se lǝ sperimentatorǝ fosse un attore di arbitrio individuale, umanista e liberale35. Non c’è alcun riferimento alle dimensioni sociali della produzione di conoscenza scientifica. (È interessante notare però che Bohr riconosce il ruolo dei vincoli linguistici). Tuttavia, senza voler fare proiezioni anacronistiche, deve essere il caso che gli apparati materiali-semiotici siano strutture pienamente culturali (cioè sociali, linguistiche, storiche, politiche, ecc.), non il risultato della volontà individuale, perché riproducibilità e comunicazione non ambigua sono i criteri dell’oggettività. Cioè, lз scienziatз creano significati all’interno di comunità specifiche, non lo fanno autonomamente. Pertanto, secondo il realismo agenziale, l’apparato che viene teorizzato deve essere un quadro materiale-culturale multidimensionale. Il realismo agenziale fornisce inoltre un resoconto della natura simultaneamente materiale e culturale dell’ontologia del mondo. Dire che qualcosa è socialmente costruito non significa affermare che non sia reale – al contrario, per il realismo agenziale, la realtà è essa stessa material-culturale36. Non c’è opposizione qui tra materialità e costruzione sociale: l’essere costruitǝ non nega la materialità. La materialità del corpo non è dissipata dal suo essere costruita perché la realtà è costituita dal “tra”, dall’inseparabilità di natura-cultura/mondo-parola/fisico-concettuale/materialediscorsivo. La cultura non destituisce né rimpiazza la natura, ma del resto nemmeno esistono cose che siano al di fuori della cultura. Haraway avanza un punto simile, credo, quando designa gli oggetti come “attori materialisemiotici”. Usa questo termine “[per] raffigurare l’oggetto di conoscenza in quanto parte attiva e generatrice di significato nell’apparato della produzione corporea, senza mai sottendere […] la presenza immediata di tali oggetti […] I confini vengono tracciati disegnando mappe delle pratiche; 35 In modo correlato, sono rimastǝ lontanǝ dal termine di Bohr “Complementarità” a causa delle connotazioni associate alle concezioni umanistiche liberali della scelta. Prendiamo l’esempio della teoria complementare (intesa qui nel senso colloquiale della parola) dei generi in cui le differenze essenzializzate tra uomini e donne sono teorizzate su un piano di parità, negando le relazioni di potere ineguali rappresentate da condizioni materiali ineguali. La teoria delle matrici (non quella matematica, ma quella che deriva dalla teoria sociale) e altre mosse analitiche non essenzializzanti decostruiscono completamente queste concettualizzazioni liberali. 36 Affermare che possiamo studiare la natura solo attraverso la lente distorcente della cultura è reintegrare ancora una volta la posizione privilegiata del trascendente, con conseguente ulteriore classico astigmatismo epistemologico.
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gli ‘oggetti’ non preesistono in quanto oggetti; sono progetti di confine” (Haraway 1988, p. 595, tr. it. 1995, pp. 127-128). In altre parole, gli apparati di produzione corporea, qua agenzie di osservazione, non sono separabili dai fenomeni. (3) Il realismo agenziale implica l’interrogazione dei confini e la riflessività critica. L’interezza [wholeness], nel realismo agenziale, non significa la dissoluzione dei confini. Al contrario, i confini sono necessari alla creazione di significati. I concetti teorici sono definiti solo all’interno di un dato contesto, come specificato da confini costruiti. L’interezza non ha a che fare con il prioritizzare l’intero innocente sulla somma delle parti; l’interezza significa l’inseparabilità del materiale e del culturale. L’interezza richiede che si traccino delimitazioni, differenziazioni, distinzioni; la diversità è richiesta dall’interezza. I sogni utopici di dissolvere i confini sono pura illusione, perché per definizione non esiste una realtà agenziale senza confini strutturati. Ci sono due modi comuni di tentare di rigettare la responsabilità per i confini: (1) affermare che sono naturali, o (2) affermare che sono partizioni arbitrarie di un’unità olistica, esistente al di fuori dello spazio e del tempo umano. Il realismo agenziale mostra invece in modo esplicito che i confini sono istanze interessate del potere, costruzioni specifiche, con conseguenze materiali reali. Non ci sono solo poste in gioco diverse nel tracciare distinzioni diverse, ci sono implicazioni ontologiche diverse. Inoltre, i confini non sono fissi. Tensioni produttive e creative vengono configurate in considerazione di diverse possibili collocazioni di tagli situati agenzialmente. La considerazione di intra-azioni mutualmente esclusive, che costituiscono cambiamenti opposti nel terreno concettuale, ci ricorda che i concetti descrittivi non si riferiscono a una realtà indipendente dall’osservatore, ma ai fenomeni. In realtà, le descrizioni si ripercuotono sulla specificazione dei confini, poiché le descrizioni si riferiscono ai fenomeni e i confini sono nei fenomeni (cioè, lo schema concettuale è legato all’apparato fisico e le descrizioni si riferiscono al fenomeno, che per definizione include l’apparato; quindi la descrizione rimanda allo schema concettuale costruito). La collocazione del confine diventa parte di ciò che viene descritto: gli schemi concettuali umani fanno parte della totalità quantistica. Le descrizioni dei fenomeni sono riflessive, e lo spostamento dei confini costituisce una meta-critica. Il riconoscimento e l’interrogazione del contesto è comune a molte epistemologie femministe. Per esempio, sia la teoria di Longino dell’empiri-
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smo contestuale che la teoria di Harding dell’oggettività forte richiedono un esame critico delle assunzioni di fondo. Harding scrive: In un senso importante, le nostre culture hanno agende e assumono presupposti che noi come individui non possiamo rilevare facilmente. L’esperienza non mediata teoricamente, quell’aspetto dell’esperienza di un gruppo o di un individuo le cui influenze culturali non possono essere rilevate, funziona come parte della prova delle affermazioni scientifiche. Le agende e i presupposti culturali fanno parte delle assunzioni di fondo e delle ipotesi ausiliarie che lз filosofз hanno identificato. Se l’obiettivo è quello di rendere disponibili per un esame critico tutte le evidenze raccolte a favore o contro un’ipotesi scientifica, allora anche queste evidenze richiedono di essere esaminate criticamente all’interno dei processi di ricerca scientifica (1991, p. 149).
Il realismo agenziale include la pratica nella teoria: la teoria è epistemologicamente e ontologicamente riflessiva del contesto. Contrariamente a quanto accade nelle visioni tradizionali della teoria, che considerano la pratica effettiva della misura come al di fuori della teoria, e in accordo con il programma logico positivista/empirista che assume che le misurazioni giudichino le teorie in modo trasparente, la filosofia-fisica di Bohr comporta una ri-concettualizzazione della scienza che colloca il discorso sulla scienza nel discorso scientifico. Cioè, i fenomeni sono l’incarnazione [embodiment] delle pratiche culturali all’interno della teoria. Sospetto che le implicazioni riflessive siano una delle cause fondamentali dell’emarginazione di Bohr nella comunità fisica (vedi Barad 1995 per maggiori dettagli). (4) Il realismo agenziale sottolinea la necessità di un’etica del conoscere. Per il realismo agenziale, la realtà non è indipendente dalle nostre esplorazioni di essa – sia epistemologicamente che ontologicamente parlando. Concentrarsi sull’ontologico oltre che sull’epistemologico è cruciale per agire responsabilmente all’interno del mondo. I progetti di conoscenza implicano il disegno di confini, la produzione di fenomeni che sono intra-azioni materiali-culturali. Cioè, le nostre conoscenze costruite hanno conseguenze materiali reali. E quindi il realismo agenziale richiede una responsabilità diretta. È per ricordarci questo fatto che la forma aggettivale della parola “agenzialità” [agency] modifica e specifica la forma che il realismo qui prende, sfidando le forme tradizionali di realismo che negano qualsiasi partecipazione attiva da parte di chi conosce. L’agenzialità è una questione di intra-azione, cioè, l’agenzialità è un’attuazione, non è qualcosa che qualcuno ha.
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Abbiamo bisogno di comprendere le tecnologie attraverso le quali particolari costruzioni sociali hanno conseguenze materiali reali. Per il realismo agenziale, anche l’intero apparato di produzione corporea deve essere teorizzato – la considerazione di variabili acontestuali darà risultati inadeguati. Si pensi di nuovo all’esistenza di fenomeni ondulatori nel contesto di un particolare apparato di produzione corporea; i fenomeni particellari sono legati ad un apparato reciprocamente esclusivo. La fisica quantistica può rendere conto del fenomeno che esiste in un contesto particolare se e solo se l’apparato di produzione corporea è incluso nel calcolo. Il realismo agenziale offre una prospettiva delle possibili interazioni dinamiche natura-cultura come essere-in ontologici, aiutandoci così a teorizzare le conseguenze materiali della costruzione di particolari apparati di produzione corporea. Conoscere implica denaturalizzare, contestare e destabilizzare in modi molteplici l’apparato esistente per rifigurare i confini. Ciò avrà conseguenze materiali reali, così che il realismo agenziale sottolinei l’esigenza di un’etica del conoscere. 7. Realismo agenziale e science studies La nozione di complementarità, Bohr vuole dire anche, può essere vista nascere dalla natura della nostra coscienza di ciò che è “altro” per noi, dalla tensione irrisolvibile tra contenuto e forma, tra realtà e concetto, e tra teoria ed esperienza. Le nostre rappresentazioni della realtà non implicano tanto un rispecchiamento mentale privilegiato della realtà esterna, in cui oggetto e soggetto sono assolutamente distanti l’uno dall’altro, quanto un compromesso riuscito tra linguaggio e attività… Eppure per Bohr la relazione tra parola e mondo non è vista come interamente relativa, con l’implicazione che le nostre parole non abbiano alcun ancoraggio nel mondo; invece data la natura della nostra coscienza di ciò che è dimostrabilmente “altro” per noi, è accettata una relazione tra parola e mondo in quanto necessariamente nega una risoluzione completa (Honner 1987, p. 103).
Come scienziatǝ sono statǝ molto interessatǝ agli science studies femministi, in parte, perché lз studiosз di questo campo, moltз dellз quali sono anche scienziatз, hanno resistito alla polarizzazione che spesso si trova nelle discussioni contemporanee sulla natura della scienza, così come posta dagli approcci più tradizionali e monodisciplinari. Evelyn Keller identifica due discorsi non comunicanti sulla scienza, […] uno, una critica sempre più radicale che non riesce a rendere conto dell’efficacia della scienza, e l’altro una giustificazione che trae fiducia da questa ef-
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ficacia per mantenere una filosofia della scienza tradizionale ed essenzialmente immutata. Ciò di cui c’è bisogno è un modo di pensare e di parlare di scienza che possa dare un senso a queste due prospettive molto diverse – che possa dare credito alle realtà che ciascuna di esse riflette e tuttavia rendere conto delle loro differenze di percezione (Keller 1985, p. 6).
Penso che queste tensioni siano piuttosto produttive, e credo che la sfida di Keller segni una delle questioni più importanti per gli science studies contemporanei. Se il “modello della scoperta” della scienza, che vede la produzione di conoscenza scientifica come uno spettacolo con un solo attore – la natura al centro della scena con un pubblico passivo di osservatorз che guardano pazientemente – non è più accettabile, e nemmeno lo è una versione estrema del costruttivismo sociale che presenta la scienza come un compendio arbitrario di mosse retoriche cariche di potere, è dunque possibile offrire una comprensione dettagliata dell’interazione di natura e cultura nella produzione della conoscenza scientifica? Il realismo agenziale fornisce una struttura che può essere utile per ri-teorizzare una serie di problemi generati dalla fiducia nelle epistemologie e ontologie classiche. In questa sezione, esplorerò le implicazioni del realismo agenziale per gli science studies. Ho in mente le seguenti domande: Come possiamo conciliare l’affermazione dellз studiosз di science studies secondo cui la conoscenza scientifica è un prodotto socialmente costruito che è concettualmente, metodologicamente ed epistemologicamente alleato, lungo particolari assi di potere, con interventi sia liberatori che oppressivi resi possibili dall’affidabilità di conoscenze scientifiche empiricamente adeguate? Cosa si può dire dell’ontologia del nostro mondo attraverso le nostre indagini su di esso? Esiste una nozione di realismo che sia coerente con l’affermazione che le dichiarazioni della conoscenza scientifica sono culturalmente specifiche? Il metodo scientifico, che era il nostro diritto di nascita illuminista, prometteva di servire come una gigantesca colonna di distillazione, rimuovendo tutte le influenze culturali, e permettendo allз praticanti pazienti di raccogliere il puro distillato della Verità. La trasparenza della fisica newtoniana al processo di misura è cresciuta da, e ha contribuito a, rafforzare questo milieu culturale di oggettivismo che ha reso non paradossali i successi della scienza: la scienza funziona perché lз scienziatз sono in grado di ottenere i fatti sul mondo così com’è, indipendentemente da noi esseri umani. La nozione illuminista di scienza è premessa da una separazione tra soggetti conoscenti e oggetti indipendenti dall’osservazione. Il realismo agenziale sfida questa concettualizzazione della scienza su basi epistemologiche e ontologiche.
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Secondo il realismo agenziale, i concetti scientifici ottengono il loro significato in riferimento a un particolare apparato fisico che segna la collocazione di un taglio agenzialmente costruito tra l’“oggetto” e le “agenzie di osservazione”. A sua volta, il punto di riferimento per la descrizione oggettiva dei fenomeni è dato “dai segni permanenti […] lasciati sui corpi che definiscono le condizioni sperimentali”37 (Bohr 1963c, p. 3). Pertanto, i corpi servono sia come punto finale che come punto di partenza per i resoconti oggettivi delle nostre intra-azioni. In altre parole, il realismo agenziale ci fornisce un resoconto incarnato dell’oggettività. I risultati scientifici non sono riproducibili perché siamo in grado di misurare le proprietà indipendenti dall’osservatorǝ di una realtà indipendente. La riproducibilità è possibile perché le indagini scientifiche sono incarnate, fondate nell’esperienza, nella prassi. Riproducibilità significa possibilità di riproduzione dei fenomeni, e i fenomeni sono scritti sul “corpo”; i fenomeni sono il luogo dove si incontrano materia e significato. La riproducibilità dei fenomeni non richiede né serve come prova per accedere al trascendente. “La forza complessiva dell’argomento di Bohr è che non abbiamo un fondamento assoluto nella nostra partecipazione al mondo, nonostante l’accettazione del fatto che il nostro linguaggio funziona in quanto ancorato all’esperienza quotidiana della realtà” (Honner 1987, p. 222). La riproducibilità dei fenomeni non è innocente – dipende dalla scelta di un qualche taglio costruito, per il quale l’ambiguità è solo temporaneamente, contestualmente decisa, in modo tale da conferire significato a certi concetti, ad esclusione di altri. La riproducibilità non è un filtro di pregiudizi condivisi; l’apparato di produzione corporea è culturalmente situato. Lɜ scienziatɜ che delimitano i confini sono segnati dalle specificità culturali di razza, storia, genere, lingua, classe, politica, ecc. In netto contrasto con il quadro classico, c’è un senso di agenzialità e quindi di responsabilità. Poiché la riproducibilità è la pietra angolare della scienza occidentale, nel contesto attualmente in discussione, la scienza ha significato, ma non in senso classico38. Secondo il realismo agenziale, la scienza è movimento tra 37 Bohr stesso prende nota di questo punto: “la descrizione dei fenomeni atomici ha in questi aspetti un carattere perfettamente oggettivo, nel senso che non viene fatto alcun riferimento esplicito a nessun osservatore individuale e che quindi […] nessuna ambiguità è coinvolta nella comunicazione delle informazioni” (Bohr 1963c, 3). 38 Si noti che gli esperimenti in alcuni campi, come la fisica delle alte energie, sono raramente ripetuti a causa dei vincoli imposti da risorse limitate o altre priorità della comunità. Ma la questione qui non è se i risultati siano stati effettivamente riprodotti o meno, la questione è la possibilità di riproducibilità dovuta all’incarnazione letterale dell’oggettività. Inoltre, si noti che la riproducibilità è ancora
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significati e materia, parola e mondo, che interroga e ridefinisce i confini, una danza non dietro o oltre, ma “nel mezzo”, dove conoscenza ed essere si incontrano. La conoscenza scientifica non è una costruzione arbitraria indipendente da “ciò che c’è là fuori”, poiché non è separata da noi; e dato un particolare insieme di tagli costruiti, alcuni concetti descrittivi della scienza sono ben definiti e possono essere utilizzati per ottenere risultati riproducibili. Tuttavia, questi risultati non possono essere decontestualizzati. Le teorie scientifiche non ci parlano di una realtà indipendente; i concetti scientifici non sono semplici denominazioni di scoperte di attributi oggettivi di una Natura indipendente con demarcazioni inerenti. I concetti scientifici non sono innocenti o unici. Sono costrutti che possono essere usati per descrivere “il tra”, piuttosto che qualche realtà indipendente. (Perché dovremmo essere interessatз ad una cosa come una “realtà indipendente”? Non viviamo in un mondo simile). Il punto è che i fenomeni costituiscono la realtà. Cioè, la realtà stessa è materiale-culturale. E secondo il realismo agenziale, le conoscenze scientifiche sono conoscenze situate che descrivono la realtà agenziale. La mia revisione di un’importante citazione di Niels Bohr recita così: “È sbagliato pensare che il compito della fisica sia quello di scoprire come è la natura. La fisica riguarda ciò che possiamo dire sulla [nostra intra-azione all’interno] della natura”. Noi siamo nella realtà, dobbiamo essere nelle nostre teorie. In altre parole, le teorie scientifiche descrivono la realtà agenziale – che è proprio ciò che ci interessa (non viviamo in una realtà trascendente). Affinché le teorie scientifiche siano in grado di descrivere la realtà agenziale, la conoscenza scientifica deve prendere in considerazione i fattori materiali-culturali in quanto sono nella realtà agenziale, altrimenti non ci aspetteremmo che la conoscenza scientifica produca resoconti empiricamente adeguati delle nostre intra-azioni all’interno della natura. L’affidabilità non si basa sull’accesso al trascendente, ma sul fondamento della pratica all’interno della teoria. (L’epistemologia e l’ontologia non classiche hanno rimosso il paradosso della posizione classica un problema per lɜ scienziatɜ che studiano i sistemi caotici (che sono altamente sensibili alle condizioni iniziali) nel senso che i sistemi caotici non si comportano in modo diverso per osservatori diversi (è solo che è molto difficile iniziare un esperimento con le stesse condizioni iniziali, ma le simulazioni di sistemi caotici vengono riprodotte spesso). Sono stati offerti altri criteri per delimitare la scienza (leggasi “scienza occidentale”) dalla non scienza (vedi Harding 1993). Questo progetto di delimitazione è naturalmente parte integrante dell’attenzione dell’imperialismo occidentale nel distinguere “noi” da “loro”. Tuttavia, questa stessa distinzione, su questa falsariga, è estremamente comune nella letteratura degli science studies ed è quindi utile in questo contesto.
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che vede l’affidabilità delle teorie scientifiche come contingente alle scoperte oggettive di una realtà indipendente). La considerazione di insiemi di concetti che si escludono a vicenda produce tensioni e ironie cruciali che sottolineano il punto che è il fatto che la conoscenza scientifica sia socialmente costruita che porta a conoscenze affidabili su fenomeni riproducibili – che è proprio quello che ci interessa. Di conseguenza, la comprensione che la scienza come pratica sociale è concettualmente, metodologicamente ed epistemologicamente alleata lungo particolari assi di potere può essere conciliata con il fatto che la conoscenza scientifica è empiricamente adeguata, e che fornisce interventi efficaci che possono essere usati sia per scopi regressivi che liberatori. Non è che cerchiamo di vedere la natura attraverso la lente della cultura con un’ottica che ha vari gradi di trasparenza o opacità. Non cerchiamo di adattare le nostre teorie alla realtà sondando il confine fisso tra natura e cultura. I fenomeni costituiscono la nostra ontologia. E poiché i concetti scientifici possono essere usati per descrivere i fenomeni e i fenomeni non sono “là fuori”, ma sono materiali-culturali, il realismo agenziale ci fornisce una forma di realismo che è compatibile con il costruttivismo sociale. Il realismo agenziale è una forma di costruttivismo sociale che non è relativista, non riduce la conoscenza ai giochi di potere o al linguaggio, e non rifiuta l’oggettività. 8. Conclusioni Così, penso che il problema mio e “nostro” sia come ottenere simultaneamente una spiegazione di radicale contingenza storica per tutti i sistemi e soggetti di conoscenza, una pratica critica utile a riconoscere le “tecnologie semiotiche” con le quali creiamo significati, e anche un impegno rigoroso, volto a ottenere resoconti fedeli di un mondo “reale”, un mondo che può essere parzialmente condiviso, e sia aperto a progetti mondiali di libertà circoscritta e adeguata abbondanza materiale, che portino un modico di sofferenza e un po’ di felicità (Haraway 1991, p. 187; tr. it. 1995, p. 109).
Il realismo agenziale nega l’innocenza del realismo ingenuo; invece, esso comporta una riflessività consapevole e critica. Dualismi, opposizioni binarie, dicotomie e altre demarcazioni non sono assicurati da uno status naturale come tagli cartesiani che formano il fondamento di ogni conoscenza – nemmeno in fisica. Le linee tracciate sono mosse epistemologiche cariche di potere con delle poste in gioco in un dato schema concettuale. Questo non significa che non si possano giustificare le linee tracciate, o che
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gli schemi concettuali costruiti siano inutilizzabili. Solo perché la scienza viene esposta [exposed] in quanto socialmente costruita, non significa che non funzioni. E l’adeguatezza empirica non è un argomento che può essere usato per mettere a tacere le accuse di costruttivismo. Ma nemmeno il costruttivismo è una prova del relativismo epistemologico. Ho sostenuto che le teorie affidabili sulle nostre intra-azioni sono necessariamente teorie costruite socialmente con conseguenze materiali vere e proprie. Abbiamo bisogno di sistemi di conoscenza che siano guide per l’azione sia affidabili [reliable] che responsabili [accountable]. Il realismo agenziale crea un’alternativa ai resoconti oggettivisti della produzione di conoscenza che negano la natura situata delle conoscenze e ai resoconti costruttivisti sociali che non affrontano la questione dell’efficacia dei sistemi di conoscenza. Il realismo agenziale non è un appello per lз femministз e altrз a piegarsi ancora una volta all’egemonia della scienza per trovare una nuova epistemologia. Al contrario, il realismo agenziale mina l’egemonia della scienza (anche se non la sua efficacia). Il realismo agenziale insiste che la scienza incorpori un discorso critico riflessivo, come tutte le altre imprese umane. Bohr sosteneva che la fisica quantistica, considerata da moltз come il campo più prestigioso della scienza, richiedesse un nuovo quadro per comprendere il ruolo dei concetti descrittivi nella produzione della conoscenza scientifica. Le nozioni di onda e particella si decostruiscono a vicenda, esponendo i limiti del quadro classico. C’è ironia, anche se forse poca sorpresa, nel fatto che le nostre interazioni con la luce – oh luce! quella metafora sempre resiliente per la conoscenza che illumina il terreno oscuro dell’ignoranza – giochino un ruolo centrale nel minare l’egemonia della fisica newtoniana, luminosa stella dell’Illuminismo, decostruendo i dualismi oggettivo-soggettivo e natura-cultura che hanno afflitto molti tentativi di comprendere la natura della conoscenza scientifica. Quello che propongo non è un approccio olistico in cui soggetto e oggetto si riuniscono in un qualche insieme apolitico relativizzato, ma una teoria che insiste sull’importanza dei confini costruiti e anche sulla necessità di interrogarli e rifigurarli. L’intra-azione che coinvolge il soggetto-oggetto problematizza le separazioni naturali, pure e innocenti, ma non in un modo che giunga alla rapida dissoluzione dei confini. I confini non sono nostri nemici; sono necessari per creare significati, ma questo non li rende innocenti. I confini hanno conseguenze materiali reali – i tagli sono posizionati agenzialmente e la responsabilità è d’obbligo. Lo spostamento dei confini spesso aiuta a portare in superficie questioni di potere che lз potentз spesso cercano di nascondere. Il realismo agenziale insiste sul fatto che i posizionamenti multipli, reciprocamente esclusivi e mutevoli, sono necessari se si
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vuole apprezzare la complessità delle nostre interazioni39. Le contestazioni multiple dei confini posizionati agenzialmente mantengono vivi i concetti e li proteggono dalla reificazione e dalla pietrificazione. Il nostro obiettivo non dovrebbe essere quello di trovare confini meno falsi per tutto lo spaziotempo, ma confini temporanei affidabili, responsabili e localizzati, che dovremmo prevedere si chiuderanno rapidamente contro di noi. Il realismo agenziale sarà inevitabilmente una vittima del suo stesso progetto, ma suggerisco che c’è del potere lì, attualmente, per alcuni dei nostri scopi40. Il realismo agenziale coinvolge conoscenze localizzate o situate (Haraway 1988), conoscenze che rifiutano le teorie trascendentali, universali e unificanti in favore di comprensioni che sono incarnate e contestuali. Chi sono le agenzie [agents] nel realismo agenziale? La storia della scienza è parallela alla storia della conoscenza in altre aree: lз potentз ritraggono efficacemente i loro sistemi di conoscenza come universali, negando la loro stessa agenzialità. All’interno di questa tradizione, l’agenzialità è stata una questione del tutto separata dalla paternità. Le rivalità sulla paternità primaria sono comuni nella storia della scienza, ma ciò che è in gioco sono l’intelligenza e l’ingegno; ciò che è “scoperto” si presume non segnato dallǝ suo “scopritorǝ”. La pretesa è che lǝ scienziatǝ ben preparatǝ possa leggere le equazioni universali della Natura che sono iscritte sulla lavagna di Dio: La Natura ha parlato. Il paradosso è che agli oggetti studiati viene dato tutto il potere, anche e soprattutto quando sono visti come cose passive, inerti, senza cultura ed esistenti al di fuori dello spazio e del tempo umano, che si muovono senza meta nel vuoto. A completare questo scenario illuminista, ci sono lз osservatorз umanз passivз che sono privз di agency. La sovradeterminazione del discorso illuminista si rivela nella giustapposizione di questa mitologia con la storia liberale umanista che fornisce all’uomo volontà individuale e dominio sulla natura. I dualismi natura-cultura e oggetto-soggetto sono tagli costruiti, spacciati come inerenti e fissi, al servizio di questa eredità. Il realismo agenziale fa altre mosse: sposta e destabilizza i confini. Qui la conoscenza viene dal “tra” di natura-cultura, oggetto-soggetto, materia-significato. La divisione cartesiana tra gli enti di osservazione e l’oggetto è una classica illusione. L’agenzialità non può essere designata come qualcosa che risiede solo da una parte o dell’altra. L’osservatorǝ non ha un’agenzialità totale sulla ma39 Kondo (1989) e Sandoval (1991) avanzano un punto simile. Anzaldúa (1987) teorizza la natura costruita dei confini. 40 Scienziatз, economistз, scienziatз politichз, storichз, psicologhз, geografз e critichз letterariз femministз sono tra coloro che hanno espresso di vedere l’utilità del realismo agenziale per i loro progetti.
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teria passiva – non va bene qualunque rappresentazione della realtà – poiché non qualsiasi risultato al quale si possa pensare è possibile: il mondo “scalcia indietro”. Né l’oggetto ha un’autorità totale, sussurrando i suoi segreti, per lo più attraverso il linguaggio della matematica, all’orecchio dellǝ scienziatǝ attentǝ – la conoscenza non è così innocente; non “viene fuori proprio così” da sola. La natura non è né una lavagna bianca per il libero gioco delle iscrizioni sociali, né una “cosa” immediatamente presente e data in modo trasparente. Il realismo agenziale riconosce l’agenzialità sia dei soggetti che degli oggetti senza pretendere che ci sia un qualche utopico dialogo simmetrico e sano, esterno alle rappresentazioni umane. La scienza non è il prodotto di una qualche interazione tra due entità ben differenziate: la natura e la cultura, poiché si scontra con qualsiasi dicotomia materia-significato, come un elettrone che attraversa [that tunnels] per confinare il suo movimento. Significato e materia sono piuttosto come eccitazioni interagenti di campi non lineari – una danza dinamica e mutevole che chiamiamo scienza41. I fenomeni sono le intra-azioni di conoscenza ed essere, parola e mondo, cultura e natura. I fenomeni sono essere-in materiali-culturali. Il realismo agenziale si basa su un’ontologia non classica. Il materiale non è fisso e precedente alla significazione discorsiva, ma in essa. Jeanette Winterson scrive nel suo recente romanzo Written on the Body: “È così che ti conosco. Tu sei ciò che conosco” (Winterson 1992, p. 120). Intra-agire è un’attività che teorizza la meccanica di un’oggettività incarnata. Nel nostro tentativo di comprendere, partecipiamo attivamente alla realtà. Il realismo non riguarda le rappresentazioni di una realtà indipendente, ma le conseguenze reali, gli interventi, le possibilità creative e le responsabilità dell’intraagire nel mondo. Infine, la materialità conta [matters]: ci sono ragioni sociali e materiali per le rivendicazioni di conoscenza – le intra-azioni del materiale e del discorsivo sono le tecnologie dell’oggettività incarnata – e le conoscenze socialmente costruite hanno reali conseguenze materiali. Queste concezioni della materialità si oppongono all’immediatezza della materia nei resoconti realisti ingenui e alla negligenza nei suoi confronti di alcuni resoconti costruttivisti sociali. Mi sembra che rinunciare al realismo sarebbe tanto affrettato quanto rinunciare all’oggettività. Lз femministз hanno interrogato, ridefinito e ri-teorizzato l’oggettività; il realismo agenziale è un tentativo 41 Il “tunneling” è un fenomeno quantistico per cui particelle classicamente confinate sfuggono. Questo è il risultato del principio di indeterminazione e spiega molti fenomeni fisici diversi come il decadimento nucleare, i transistor, ecc.
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di formulare una nozione femminista di realismo. Il realismo agenziale va oltre il riconoscimento dell’esistenza di ragioni materiali e culturali per le rivendicazioni di conoscenza, oltre la riconcettualizzazione della descrizione nei sistemi di conoscenza, per fornirci una nozione positiva di sistemi di conoscenza, per fornirci un senso positivo dell’ontologia del nostro mondo e alcuni importanti indizi su come agire in modo responsabile e produttivo al suo interno. Judy Grahn suggerisce che: “Capire, arrivare alla base, alla radice o al significato nascosto, è lo strumento sbagliato da portare” al nostro lavoro. “Forse inter-stare [o meglio ancora intra-stare] è quello che facciamo, per impegnarci con il lavoro, per mescolarci con esso in un impegno attivo, piuttosto che “figurarcelo”. Immaginarlo” (Grahn 1989, p. 39). Le conoscenze non sono rappresentazioni innocenti, ma intra-azioni di nature-culture: la conoscenza consiste nell’incontrare l’universo a metà strada. (Traduzione dall’inglese di Valentina Bortolami) Riferimenti bibliografici Albert, D. Z. 1992 Quantum Mechanics and Experience, Harvard University Press, Cambridge, MA. Anzaldúa, G. 1987 Borderlands/La Frontera, Spinsters/Aunt Lute Book Co., San Francisco. Barad, K. 1995 A Feminist Approach to Teaching Quantum Physics, in S. V. Rosser (a cura di), Teaching the Majority: Breaking the Gender Barrier in Science, Mathematics, and Engineering, Teachers College Press, NY. 1996 “Getting Real: Technologies of Embodiment and Materiality”, keynote address, Gender, Technology, Place Conference, Rutgers University, March 30 1996. Bernstein, R. J. 1983 Beyond Objectivism and Relativism: Science, Hermeneutics, and Praxis, University of Pennsylvania Press, Philadelphia. Bohm, D. 1985 On Bohr’s Views Concerning Quantum Theory, in P. A. French e P. J. Kennedy (a cura di), Niels Bohr: A Centenary Volume, Harvard University Press, Cambridge, MA.
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Commento introduttivo
a Che cos’è la filosofia? di Reza Negarestani Matteo Caparrini C’est nous les amis du concept, nous le mettons dans nos ordinateurs Deleuze-Guattari
Che cosa significa “navigare con estremo pregiudizio” (Negarestani 2021, p. 122)? La navigazione concettuale è una procedura attenta agli impegni epistemologici che deve prendere chi usa un concetto e a tutte le ramificazioni che esso comporta. È un invito non tanto alla chiarezza e alla distinzione disciplinari, non tanto alla cautela dei sistemi di riferimento fissi e stabili, ma – in uno stretto giro di vite – alla spregiudicatezza. Ci ritorna alle orecchie, con la forza di un ritornello che ci vergogniamo di conoscere a memoria, l’antico adagio illuministico: trova il coraggio di disfarti delle catene della tradizione, dell’autorità, insomma di ogni pregiudizio, e assumi la tua maturità, la tua piena autonomia intellettuale. Ma di chi sono le orecchie che ancora fanno caso all’eco di questo invito? L’essere umano, con il suo volto disegnato sulla sabbia (Negarestani 2014a)1, fa affidamento ad alcune controfigure: il Farinata dell’Inferno di Dante, che si drizza con le proprie forze per sporgersi dall’arca infuocata, orgoglioso (com’avesse l’inferno a gran dispitto), oppure si rivolge, alla peggio, al barone di Münchhausen, che sprofonda graziosamente nelle sue sabbie mobili. Sogniamo, per quanto brutto sia il guaio, di potercene districare con un guizzo di volontà; e se non ci riusciamo, finito ogni altro rimedio, tirandoci per i capelli. In tempi di Dark Enlightenment, non abbiamo bisogno di rileggere Adorno e Horkheimer per sapere che illuminismo è una nozione controversa. Abbiamo raggiunto il 1
Negarestani riprende la celebre immagine con la quale Foucault chiude Les mots et les choses: “on peut bien parier que l’homme s’effacerait, comme à la limite de la mer un visage de sable” (Foucault 1966, p. 398).
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punto di abituazione in cui è scontato che l’accusa di scientismo sia, appunto, un’accusa. Sulla spiaggia deserta del nostro reale, la bottiglia che torna a riva con il messaggio oraziano di Kant (Sapere aude!) non ci consola più, noi che abbiamo imparato le insidie delle vecchie e nuove Robinsonaden. Non ci smuove, non ci mette in agitazione, non ci fa insorgere. Eppure, ci accorgiamo che qualcosa abbiamo rimosso, se ci è tipico il disagio (l’Unbehagen) di chi ha dimenticato un dettaglio importante, fondamentale. La complicità che l’illuminismo ha stretto tra il pensiero e la scienza richiama in causa, ogni volta di nuovo, la filosofia. Avere a che fare con i concetti, seguirne le ramificazioni, annotarne gli avanzamenti, i ritardi e le virtualità: fa tutto parte di una coazione razionale a pensare, una “rational compulsion to think” (Negarestani 2014b), dalla quale non dobbiamo esimerci. E la filosofia, qui, non ricopre un ruolo termostatico. Non è il regolatore centrale che controlla e sorveglia i domini epistemici, assicurandosi che le pecore non sconfinino nel pascolo accanto. La filosofia, al di là di ogni sua velleità pastorale, è l’indizio della complicità tra il pensiero e la scienza2, in quanto si misura con i concetti, ne esplora le località, ne promuove le globalità (Negarestani 2015). Chiedersi “che cos’è la filosofia?” vuol dire interrogare il rapporto tra il pensiero e la scienza nel contesto della produzione concettuale. Reza Negarestani, filosofo contemporaneo di origini iraniane e formazione ingegneristica, direttore del programma di filosofia presso il New Centre for Research & Practice (un esperimento di accademia alternativa e di alternativa accademica, tra filosofia, arte, ingegneria e design)3, ripropone questa domanda assillante, dopo il celebre tentativo di Deleuze e Guattari. Scrivendo della rivoluzione francese, l’evento che ha dato all’illuminismo la postura di terminus a quo della nostra contemporaneità, Wordsworth si rammaricava della propria vecchiaia: Bliss was it in that dawn to be alive, | But to be young was very heaven […]. Ma forse, scrivono Deleuze e Guattari, “che cos’è la filosofia?” è “una domanda che ci si può porre soltanto tardi, quando viene la vecchiaia, e l’ora di parlare concretamente”. E lo si fa “con un’agitazione discreta, a mezzanotte, quando non c’è più altro da chiedere” (Deleuze e Guattari 1996, p. ix)4. Tuttavia, non è la vecchiaia della stanchezza di cui qui 2
3 4
Anche nel senso perturbante della “complicità tra materiali anonimi” (Negarestani 2008). Negarestani è avvertito dei possibili perturbamenti che ogni coazione, per quanto razionale, porta con sé. Negli ultimi anni, in questo senso, si è dedicato a un attraversamento ragionato della psicoanalisi (Negarestani 2021, pp. 81-92). Utilissima per inquadrare in tutte le sue fasi il pensiero di Negarestani è l’intervista di Fabio Gironi (2018) uscita per Nero. L’agitazione “discreta” di Deleuze e Guattari diventa uno “stato d’agitazione permanente” [a permanent state of agitation] (Negarestani 2014b).
Commento introduttivo a Che cos’è la filosofia? di Reza Negarestani
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si tratta, ma quella di chi non ha più niente da perdere e abbandona la cautela che serve a farsi strada nel mondo e la paura di pestare i piedi sbagliati. Il pregiudizio con cui navigare i concetti è infatti, in primo luogo, il pregiudizio di sé: pregiudicata è la saldezza del territorio di chi esplora; in secondo luogo, invece, la navigazione concettuale procede “con estremo pregiudizio” nel senso che si dà al pregiudizio in diritto: Präjudizienrecht è il nome tedesco del case law, un diritto di processi che funzionano per precedente, senza pretendere che ciò che viene prima necessiti ciò che viene dopo, ma pensando fino in fondo gli effetti di vincolo che comporta prendersi un impegno con un concetto in una decisione, oppure, com’è il caso qui, in una spiegazione. Impegno (commitment) e vincolo (constraint) sono due parole chiave nel pensiero di Negarestani, che le riprende rispettivamente dall’hegelismo di Pittsburgh di Robert Brandom (1994), già sulla scia di Wilfrid Sellars (Corti e Nunziante 2018), e dal lessico informatico (Apt 2003; Rossi et al. 2006) e biologico e fisico (Prigogine e Stengers 1981). Esse possono servire bene a capire in che senso, per Negarestani, il pensiero ha a che fare con un concetto. “Creare concetti, significa almeno fare qualcosa” (Deleuze e Guattari 1996, p. xv): quando si tratta di concetti, non se ne riesce a render ragione, a meno che non ci si impegni a usarli. L’impegno con un concetto in una spiegazione fa capo a una struttura discorsiva del ragionamento che non si preoccupa tanto di ripulire il tavolo di lavoro, quanto di sedersi e cominciare a far di conto5. La storia di un concetto ci richiede di considerarne anche il futuro; un concetto, nella sua storia, è sempre anche l’ambito delle sue ulteriori possibilità. È questo il primo senso che assume il comando “navigare con estremo pregiudizio”: non ci si deve dedicare alla messa a punto di un concetto, ma se ne devono seguire le ramificazioni, sviluppandone le intelligibilità (dobbiamo comprometterci con il concetto). Ma se, per esplorare la storia e le possibilità di un concetto, ci si deve impegnare a usarlo; e se la nostra esplorazione comporta fare qualcosa con il concetto, cioè, per esprimerci nel lessico del saggio che qui proponiamo in traduzione, portarne a termine le realizzabilità; realizzare un concetto, d’altro canto, non significa trasporlo tale e quale da un dominio concettuale a un codominio reale. Si tratta, invece, di un processo vincolato (a) dalle condizioni specifiche che ogni concetto mette alla sua realizzazione e (b) dallo spettro delle manipolazioni che il materiale, in cui il concetto si realizza, supporta. “Quanto più il concetto è creato, tanto più esso si pone” (Deleuze e Guattari 1996, p. xx) – è questo il secondo senso di “navigare con estremo pregiudizio”, per cui seguire le 5
Il rimando qui è all’idea brandomiana di scorekeeping. Per una discussione critica della proposta brandomiana, cfr. Corti 2022.
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ramificazioni di un concetto vuol dire, tra le altre cose, lasciarsi guidare dai suoi vincoli caratteristici, senza sovrascrivervi dall’esterno motivi e fini, per quanto buoni essi siano (dobbiamo farci precedere dal concetto). Coerente con questi presupposti, Negarestani si affida alla concettualità di un dominio epistemico caratterizzato da una convergenza spiccata di lessici diversi (“fisica, neuroscienze, matematica, logica e linguistica”) e capace di metter mano a uno svolgimento formale della concorrenza duale di impegni e vincoli. Questo dominio è l’informatica. Essa permette di sostituire, alle velleità sistematiche della ragione settecentesca, un’ambizione programmatica che avvia il pensiero a uno sforzo rigoroso per elaborare l’estensione delle sue intelligibilità e la portata delle sue realizzabilità. Per Negarestani, l’informatica è innanzitutto il dominio epistemico entro il quale è messa a tema la possibilità di fabbricare (craft) un’intelligenza artificiale generale (Artificial General Intelligence, agi). Se il pensiero, nella sua complicità con la scienza, vale a dire nella sua esposizione alla navigazione concettuale, deve percorrere i sentieri tracciati dalle ramificazioni dei concetti, dovendo al proprio impegno di assecondarne i vincoli; e se il pensiero, pertanto, assume un atteggiamento spregiudicato, – un’attitudine per l’intervento, intervening attitude (Negarestani 2014a), – che mette in discussione la propria realizzazione attuale; diventa chiaro, allora, che l’informatica, occupandosi dei modi futuri del pensiero, che sono altrettante realizzazioni possibili dell’intelligenza, è impresa di enorme interesse filosofico. Parlando dei futuri possibili dell’intelligenza e interrogandosi in merito a ciò che il pensiero può diventare, se lavora in modo rigoroso al concetto, – un lavoro che la scienza le ripropone di continuo, – l’informatica diventa il sintomo di un problema tipicamente filosofico: in che modo il pensiero viene a patti con la scienza e quali sono le conseguenze, per il pensiero, di questa alleanza? Riproporre tale domanda costituisce il rilievo del pensiero di Negarestani, che la aggiorna a uno dei settori più avanzati del progresso scientifico e tecnologico, trovandovi una nicchia in cui farle assumere una torsione affatto nuova. Il pensiero, cercando di scoprire dove la scienza lo può portare, è spinto a manipolare la propria realizzazione attuale, modificandola. Le sue intelligibilità e le sue realizzabilità concorrono a incrementarsi le une con le altre. Per quanto riguarda noi, dobbiamo tener presente che, affinché il nostro pensiero sia complice della scienza, – ancora il dettame illuministico, che sebbene c’imbarazzi non riusciamo ad abbandonare, né vogliamo farlo, – non ci dobbiamo affezionar troppo alle dignità che abbiamo conquistato finora. Tirarci su dalle nostre arche infuocate, tirarci per i capelli, non significa denegare il reale per affermarci come siamo, qui e ora. Significa avere a che fare con il reale, sentire la fiamma dell’arca e il risucchio della palude – e farci male.
Commento introduttivo a Che cos’è la filosofia? di Reza Negarestani
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Il saggio proposto qui in traduzione è stato pubblicato in due parti, tra novembre 2015 e gennaio 2016, su e-flux. Negarestani lo ha poi rielaborato, manipolato, interpolato e assemblato in Intelligence and Spirit, uscito nel 2018 per una collaborazione di Urbanomic e Sequence Press. Il capitolo che What is Philosophy? serve a fabbricare è l’ultimo, dal titolo parlante di Philosophy of Intelligence (Negarestani 2018, pp. 405-507). La domanda sulla filosofia permette così di delineare una “filosofia dell’intelligenza”. Sostituendo l’intelligenza all’intelletto e alla ragione, Negarestani porta a termine un’operazione di sradicamento della filosofia dal suo lessico consolidato, che occuperà, in un confronto serrato con Kant e Hegel, i primi capitoli di Intelligence and Spirit. Nel saggio qui tradotto, questa operazione è iniziata e se ne lascia immaginare la continuazione. Su tutto ciò, chi legge giudicherà da sé. Ma chiediamoci prima, da ultimo: che cosa può essere una “filosofia dell’intelligenza”? Che cosa comporta per la filosofia arrischiarsi nei territori dell’informatica e concepirsi come un programma? A guardar bene, c’è qualcosa di molto hegeliano, un’enfasi su quella “storia della formazione (Bildung) della coscienza verso la scienza” che Hegel discute nel passo sullo scetticismo della Einleitung alla Fenomenologia dello spirito; qualcosa di molto hegeliano nel sottolineare che la filosofia è quel pensiero che riesce a “pensare come un programma”. Per Negarestani, non si tratta di precisare ciò che l’informatica può dire alla filosofia, ma di prendere l’informatica (a) come un dominio entro il quale molti archivi si sono incontrati in un intreccio epistemologico di per sé produttivo; e (b) come il dominio entro il quale l’organo del pensiero viene messo in discussione. E facciamo affidamento sull’ambiguità di “organo”, intendendo che l’informatica ridiscute le logiche (lo strumentario) del ragionamento, dell’argomentazione, del pensiero; ma anche che l’informatica le ridiscute fabbricando nuove forme pensanti: la scienza serve a pensare nuovi modi della coscienza. Per Negarestani, possiamo definire allo stesso modo il compito che la filosofia si è data e che ha portato a termine. Essa è infatti un processo di “artificializzazione” del pensiero: una formazione della coscienza verso la scienza. Riferimenti bibliografici Apt, K. 2003 Principles of Constraint Programming, Cambridge University Press, Cambridge. Brandom, R. 1994 Making It Explicit, Harvard University Press, Cambridge.
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Corti, L. 2022 Razionalità retrospettiva e ricostruzione storica in Robert Brandom, in “Giornale di Metafisica”, 1, pp. 147-159. Corti, L. e Nunziante, A. (a cura di) 2018 Sellars and the History of Modern Philosophy, Routledge, Abingdon. Deleuze, G. e Guattari, F. 1996 Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino; Qu’est-ce que la philosophie?, Les éditions de Minuit, Parigi 1991. Foucault, M. 1966 Les mots et les choses, Gallimard, Parigi. Gironi, F. 2018 Engineering the World, Crafting the Mind. A Conversation with Reza Negarestani, in “Nero”, . Negarestani, R. 2014a The Labor of the Inhuman, in “e-flux”, 52-53; tr. it. Il lavoro dell’inumano, in “Sovrapposizioni”, 2021. 2014b What Philosophy Does to the Mind, in “Glass Bead”, . 2021 Complicità e astrazione, Kaiak, Pompei. 2008 Cyclonopedia. Complicity with Anonymous Materials, re.press, Melbourne; tr. it. Cyclonopedia. Complicità con materiali anonimi, Luiss University Press, Roma 2021. 2015 Where is the Concept?, in R. Mackay (a cura di), When Site Lost the Plot, Urbanomic, Falmouth 2015. 2018 Intelligence and Spirit, Urbanomic-Sequence, Falmouth-New York. Prigogine, I. e Stengers, I. 1981 Vincolo, in Enciclopedia, Einaudi, Torino, pp. 1064-1081. Rossi, F. et al. (a cura di) 2006 Handbook of Constraint Programming, Elsevier, Amsterdam-Oxford.
Reza Negarestani
CHE COS’È LA FILOSOFIA?
La tesi centrale di questo testo è che, all’altezza del suo livello più profondo, la filosofia è un programma; per programma, qui, intendiamo una raccolta di principi di azione e pratiche-o-operazioni che hanno a che fare con le realizzabilità (ciò che è possibile portare a termine a partire da una categoria specifica di proprietà o di forme). La tesi vuole anche che, per definire debitamente la filosofia e metterne in luce il rilievo, il nostro approccio deve esaminarne per prima la natura programmatica1. Piuttosto che cominciare l’indagine sulla natura della filosofia con domande come: che cosa cerca di dire la filosofia? Che cosa vuole dire, a conti fatti? Dove si applica? A che cosa serve? – dovremmo chiederci invece: se la filosofia è un programma, che tipo di programma è? Come funziona? Quali sono i suoi effetti operativi? Se elabora delle realizzabilità, a quali forme sono specifiche? – e infine: in quanto programma, che tipo di sperimentalità richiede? Sebbene i problemi corollari che appartengono alla filosofia in quanto disciplina specialistica (il tenore dei suoi discorsi, la trazione che la porta oltre il suo dominio, le sue applicazioni e i riferimenti che essa importa ed esporta) non possano essere affatto ignorati, vedremo che essi, tuttavia, possono essere affrontati adeguatamente solo se il nostro approccio alla filosofia indica in essa un’impresa cognitiva più profonda. L’interesse principale di questo programma cognitivo è quello di sollecitare il pensiero 1
Negarestani giocherà spesso con il lessico informatico. “Programma” e “programmatico” si riferiranno tanto alle accezioni generali di questi termini, quanto alle accezioni specifiche che l’informatica precisa nel loro significato tecnico. Specialmente nel caso della forma aggettivale “programmatico”, si dovrà tener presente che essa non significa soltanto “relativo a un programma”, che può essere p. es. quello di un partito, ma anche “relativo alla programmazione”. Si è preferito non disambiguare i riferimenti, come si sarebbe potuto fare usando in alcuni casi “programmatico” e in altri “programmatorio”. Solo quando l’ambito di una frase era evidentemente quello della programmazione informatica, si è sciolto “programmatic” in espressioni come “in programmazione”. [N.d.T.]
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affinché identifichi e porti a termine le realizzabilità sostenute [afforded] dalle sue proprietà (intelligibilità teoriche e pratiche pertinenti al pensare come tale) e affinché esplori ciò che può venir fuori dall’attività di pensare e ciò che il pensiero può diventare. 1. Tradizionalmente la filosofia è un programma ascetico per la fabbricazione [craft]2 dell’intelligenza (generale) Ascetico nella misura in cui la filosofia richiede l’esercizio di una riflessione multistadio, disciplinata, aperta sulla condizione della possibilità di sé stessa in quanto forma di pensiero che trasforma il pensare in un programma. Il reale portato di questa definizione risiede precisamente nella consistenza di un programma. Perciò, per delucidare il valore della filosofia, sia come disciplina programmatica, sia come forma di pensiero che trasforma il pensare in un progetto programmatico, dobbiamo prima elaborare che cosa intendiamo per “programma” in senso lato. Per farlo, la nozione di programma – con cui intendiamo dei principi di azione e delle pratiche-o-operazioni che portano a termine qualche cosa – deve essere definita con parsimonia tenendo conto della sua nuda armatura formale, composta dai tratti, generici ma necessari, alla base di ogni tipo di programma, qualsiasi siano le sue applicazioni o i suoi scopi. Questi sono: la selezione di un insieme di assiomi e l’elaborazione di quanto segue da questa scelta se gli assiomi sono considerati non già dei postulati inviolabili, ma dei moduli astratti che possono agire l’uno sull’altro. Un programma è l’espressione delle interazioni del suo insieme di assiomi, che riflettono uno spettro di comportamenti dinamici, con la loro complessità e le loro proprietà peculiari. Più nello specifico, possiamo dire 2
Si è scelto di tradurre “craft” con “fabbricazione” (e il verbo corrispondente “fabbricare”), a esclusione di pochi e isolati casi in cui il termine compare in diretta relazione all’artefatto (artifact), nei quali – quando lo si è ritenuto opportuno – si è tradotto invece “craft” con “arte”, per sottolineare la dualità di rapporto tra il processo produttivo e il prodotto. La scelta traduttiva che ha portato a scegliere “fabbricazione” e “fabbricare” si motiva con l’intenzione di sottolineare, del craft, il rimando a una produzione che non può non avere a che fare da vicino con i materiali che usa per produrre qualcosa e che li usa con dedizione ed expertise. Si tenga inoltre presente che “craft” vale anche per “mestiere” e ci riporta al senso del deposito di conoscenze e abilità con le quali serve avere dimestichezza per “essere del mestiere” (questo mestiere è spesso, in Negarestani, l’ingegneria). In un caso, in cui art e craft vengono contrapposte all’interno di una stessa frase, si è deciso di tradurre “craft” appunto con “mestiere”. [N.d.T.]
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che i programmi sono costruzioni che estraggono contenuto operativo dai loro assiomi e sviluppano, a partire da questo contenuto operativo, diverse possibilità di realizzazione (ciò che può essere portato a termine). E del pari, gli assiomi sono oggetti operativi, realizzatori astratti che incapsulano informazione sulle loro proprietà o categorie specifiche. In questo senso, i programmi elaborano le realizzabilità (ciò che è possibile realizzare o portare a termine) a partire da un insieme di realizzatori astratti elementari (ciò che possiede informazione operativa sulla realizzazione di, o su come portare a termine, una categoria specifica di proprietà o comportamenti) in contesti più complessi. In programmazione, la scelta degli assiomi non limita il programma ai loro termini espliciti. Piuttosto, lo impegna [commits] alle loro proprietà soggiacenti e alle operazioni specifiche della loro classe di complessità. In altre parole, un programma costruisce realizzabilità possibili per le proprietà soggiacenti dei suoi assiomi, levando la restrizione dei loro termini. Per quanto impreciso e rudimentale, possiamo rendere chiaro quanto diciamo con l’esempio seguente: 1. a è un e In pieno stile platonico, (1) si traduce più o meno così: “se la forma (e) esibita parzialmente da Socrate definisce chi è Socrate (a)”, o più direttamente: “se Socrate è una forma di vita razionale”. 2. a fa x = f come funzione o attività “Allora Socrate fa qualcosa che mette in mostra proprietà particolari dell’ambito di quella forma”, o “allora Socrate fa x in quanto forma di vita razionale”. In quanto forma di vita razionale, Socrate è una particolare uniformità di pattern, attraverso la quale schemi impliciti e proprietà specifiche dell’ambito delle forme possono essere realizzati nel tempo. Siccome è una pratica o un’operazione intelligibile, f (ciò che Socrate fa in quanto forma di vita razionale) è una realizzazione parziale di tali forme. In altre parole, i contenuti operativi della pratica f possono essere tracciati, modificati, combinati con altre pratiche per costruire realizzabilità più complesse, specifiche dell’ambito delle forme che Socrate esprime parzialmente. Nel nostro esempio, (1) e (2) rappresentano l’assioma e la sua informazione operativa di base, da abbreviare così: “questo a è f di forma e” (che, di nuovo, si traduce più o meno in: “le azioni di Socrate riflettono la forma alla quale appartiene”, oppure “Socrate è ciò che fa in quanto forma di vita razionale”). Questo significa che “se a possiede la forma e, allora fa x” e “la funzione o attività f tipicizza la forma e”. Qui, il concetto platonico di forma è stato usato a significare una categoria di proprietà soggiacenti. Ora, possiamo
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rendere il tutto ancora più compatto: “la forma e, se non altro, fa x”. Il programma, quindi, elabora le realizzabilità possibili della forma e. Se non altro, il programma può fare o portare a termine x (il contenuto operativo non processato dell’assioma). Oppure, introducendo altri assiomi e seguendo diverse strategie (o schemi di azione) che portino i contenuti operativi degli assiomi a pesare l’uno sull’altro, il programma può costruire altre attività associate a e. Seguendo l’esempio di prima: A-1: Quando è in s1 (uno stato di cose particolare che contestualizza ciò che Socrate fa), Socrate fa x (x tipicizza un comportamento associato alle proprietà generali della forma di vita razionale). A-2: Quando è in s2, Confucio fa y (y tipicizza un altro comportamento che riflette proprietà generali della forma di vita razionale). Programma: vari schemi di interazione o intercontenuto operativo tra atto-x e atto-y in quanto essi tipicizzano la forma di vita razionale. A seconda di come le interazioni o lo scambio operativo tra gli assiomi sono performati e regolati (in sincrono o fuori sincrono), quali strategie e comportamenti seguono, se le interazioni elementari sono non-deterministiche o deterministiche, e così via, il programma può estrarre le specificità della forma di vita razionale (ciò che una forma di vita razionale in effetti è e ciò di cui consiste) e insieme portare a termine le sue realizzabilità possibili (ciò che una forma di vita può fare). Queste realizzabilità sono f costruite, vale a dire che non derivano essenzialmente dai termini espliciti degli assiomi. Associando gli assiomi e i loro contenuti operativi, inoltre, il programma lega [binds] i loro rispettivi stati di cose (s). Il sistema di un assioma (l’informazione su ciò che fa e sullo stato o la situazione in cui tale attività o comportamento ha luogo) diventa l’ambiente dell’altro, e viceversa. In questo senso, lo scambio tra gli assiomi può essere visto come una comunicazione ininterrotta tra agenti astratti, i quali acquisiscono nuove capacità o abilità rispondendo l’uno all’altra, simile al modo in cui i sistemi multiagente evolvono dinamicamente. Per questa ragione, un programma non è una collazione di assiomi sulla quale sono imposti istruzioni o principi statici. Le composizioni di assiomi possibili – i modi in cui gli assiomi possono stare insieme o interagire – sono svolgimenti processuali attraverso i quali il programma può estrarre dettagli aggiuntivi dalle proprietà soggiacenti e utilizzarli per ricercare e costruire le sue realizzabilità possibili. In programmazione, gli assiomi non sono più degli elementi sacrosanti del sistema, ancorati eternamente a una qualche fondazione assoluta, ma processi agenti da aggiornare, riparare, eliminare o assemblare per interazione in atti compositi. Questi atti compositi esibiscono comportamenti di-
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namici complessi che non potremmo generare, se gli assiomi fossero presi separatamente o considerati come principi fondativi fissi. In questo senso, un programma esegue gli effetti globali del confronto [confrontation] tra gli assiomi in quanto atti elementari, gli effetti globali, cioè, dell’interazione. Tali effetti sono le realizzabilità possibili del programma, ciò che ne può essere portato a termine. Facendo esperimenti con l’architettura operativa del programma, possiamo scoprire nuove proprietà e realizzabilità possibili. Per fare esperimenti con un programma, abbiamo bisogno sia di un rilassamento controllato dei vincoli [constraints] esistenti al modo in cui gli assiomi stanno insieme e si scambiano i loro contenuti operativi, sia dell’aggiunta di vincoli nuovi. È attraverso questo genere di manipolazione che lo spettro delle realizzabilità specifiche di una categoria di proprietà viene ampliato. Per esempio, il rilassamento dei vincoli o una loro aggiunta può portare a diverse modalità composizionali (il modo in cui gli assiomi e i loro contenuti operativi possono stare insieme). Può sospendere la cosiddetta innocenza degli assiomi in questo, che ogni volta che ci richiamiamo agli assiomi essi si comportano diversamente e risultano in ramificazioni diverse. A più alti livelli di sperimentazione, possiamo introdurre assiomi nuovi, con proprietà diverse, per sviluppare un più ampio assortimento di operazioni. E operazioni che tipicizzano altre proprietà possono essere fuse con operazioni esistenti per costruire realizzabilità più complesse. Il significato del programma non deriva dai suoi assiomi, – da ciò che essi denotano o a cui si riferiscono, – ma da come e a quali condizioni essi interagiscono. Considerando un programma, la domanda giusta non è “per che cosa stanno questi assiomi?” o “che cosa significa questo programma?”, ma “che cos’è questo programma, come agisce, quali possono essere i suoi effetti operativi?”. In breve, ciò che un programma articola sono i destini operativi delle proprietà soggiacenti dei suoi assiomi in quanto processi agenti. Il significato di un programma è un corollario delle sue operazioni, sono i contesti e i sensi dei suoi atti e delle sue funzioni. Piuttosto che essere fissato a una qualche prestabilita semantica dell’utilità o a un qualche riferimento metafisico, tale significato non solo è paradigmaticamente collegato all’azione, ma risulta anche annesso alle prospettive operative del programma stesso, alle sue realizzabilità possibili. È in questo modo, qui, che ci rivolgiamo alla filosofia. Piuttosto che iniziare dai corollari (il rilievo del suo discorso disciplinare specialistico, le cose di cui discute, e così via), ci rivolgiamo alla filosofia come a un tipo speciale di programma, il cui significato dipende da ciò che fa e da come
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lo fa, dai suoi destini operativi e dalle sue realizzabilità possibili. Nella prima parte di questo testo (Assiomi e programmi), sarà discussa la portata generale della filosofia in quanto programma profondamente coinvolto nell’architettura funzionale di ciò che chiamiamo pensare. Nella seconda parte (Programmi e realizzabilità), elaboreremo le realizzabilità di questo programma nei termini della costruzione di una forma di intelligenza; è questa la vocazione ultima del pensiero. Parte uno Assiomi e programmi 2. Gli assiomi principali della filosofia come programma sono quelli che pertengono senz’altro alla possibilità del pensiero. Il suo compito basilare è elaborare il contenuto operativo di tale possibilità in base a ciò che si può fare con il pensiero, o più in generale a ciò che esso può realizzare a partire da sé stesso. Se “il pensiero è o fosse affatto possibile”, quali sono o sarebbero, allora, le ramificazioni di tale possibilità? Il valore della filosofia consiste in un dettaglio quasi triviale, che ha però vastissime conseguenze: essa fa uso della possibilità del pensiero come di una premessa, un assioma sul quale agire sistematicamente. Così facendo, essa si impegna all’elaborazione di ciò che segue alla premessa, vale a dire di ciò che il pensiero può realizzare e fare, o più accuratamente: della possibilità di un pensiero deciso a sviluppare le proprie realizzazioni funzionali. La scelta di un assioma è un’iniziativa programmatica perché permette di costruire realizzazioni diverse delle proprietà rappresentate dagli assiomi. Piuttosto che un’assunzione neutra, – o peggio: un dogma incallito, – l’assiomatizzazione della possibilità del pensiero da parte della filosofia è il primo grande passo nella direzione di una programmazione del pensare in quanto tale. Una volta adottata la possibilità del pensiero come suo assioma esplicito (come ciò su cui va ad agire), il pensare inizia a estrarre ed espandere il contenuto operativo implicito nella possibilità del pensiero. L’attenzione delle sue attività operative – gli atti del pensare – si dirige verso l’elaborazione del contenuto della possibilità del pensiero, articolando che cos’è che può farsene, di tale possibilità (le possibilità operative del programma), e ciò che il pensiero può diventare se agisce su questa stessa possibilità (le
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realizzabilità possibili del programma). In altre parole, la filosofia programma il pensiero ad agire sistematicamente su sé stesso, a realizzare i propri fini e i propri bisogni e ad avere la vocazione di riflettere con disciplina e persistenza sui prospetti [prospects] delle sue realizzabilità. Pensare non è più soltanto l’esercizio di una pratica non-opzionale: è un’impresa pratica. È qui che la “filosofia come programma” si sovrappone alla “filosofia come forma di pensiero che trasforma il pensare in un programma”. Usando le risorse del pensiero per determinare la portata delle sue realizzabilità, la filosofia diventa il programma di cui il pensiero dispone per esplorare e portare a termine le proprie realizzazioni. In altre parole, il pensiero riadatta la tacita asserzione filosofica: “il pensiero è programmabile”. Questa diventa il suo principale compito normativo: “il pensiero deve essere programmato”. È attraverso questo compito normativo che il pensiero pone esplicitamente i propri fini e aumenta i prospetti di ciò che può fare. In questo senso, la filosofia è qualcosa di più che un modo del pensiero tra gli altri. È una vera e propria protesi del pensiero, il quale la usa per sviluppare e aumentare una pulsione [drive] di autodeterminazione e realizzazione. Un pensiero che possiede una pulsione di autorealizzazione è un pensiero che, prima di ogni altra cosa, assicura i propri fini. Ma per assicurare i propri fini, deve dar sfogo e priorità ai propri bisogni. Tali bisogni, innanzitutto, puntano a districare il pensiero dalle influenze eteronome, associate che siano a un’autorità più alta, alle condizioni contingenti della sua configurazione originale, a cause finali o materiali. Tuttavia, questi bisogni, evolvendo, si rivolgono sempre meno alla resistenza contro la presa dell’eteronomia e sempre più a un’articolazione attiva delle conseguenze della propria autonomia. Da bisogni di un pensiero realizzato, essi diventano i bisogni di un pensiero per il quale ciò che è già realizzato – lo stato o istanziazione attuale – non è di per sé un’espressione sufficiente della propria autonomia. Il pensiero rende esplicita la propria autonomia, identificando e costruendo le proprie realizzabilità possibili. I suoi bisogni si concentrano sui prospetti di realizzazione del pensiero da parte di realizzatori materiali diversi (da non confondere con i realizzatori astratti, gli assiomi del programma). In altre parole, questi bisogni ruotano attorno alla possibilità di ricostituire il pensiero al di là sia di ciò che lo costituisce attualmente, sia del modo in cui è costituito. Sono il bisogno di rivendicare e ricercare la possibilità del pensiero, ma non più nei termini restrittivi dei suoi realizzatori (o componenti) originari o in quelli della sua istanziazione attuale. Perciò, questa revisione riprogrammatrice [reprogramming overhaul] non si ferma ai realizzatori materiali o alle componenti e ai meccanismi
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costitutivi che confliggono con l’autonomia del pensiero. Essa include anche quei tratti costitutivi interni che restringono la portata delle sue realizzabilità, delle sue costruzioni possibili. Non importa se tali realizzatori fanno fede all’evoluzione biologica del pensiero o alla sua costituzione socioculturale. Fintantoché essi esercitano influenze eteronome sul suo stato realizzato e sulle sue funzioni attuali o restringono i prospetti futuri della sua autonomia (la portata delle sue realizzabilità possibili), essi sono i bersagli potenziali di una vasta riprogrammazione. Per conservare la sua autonomia, – per essere capace di istituire e raggiungere i suoi fini, – il pensiero deve aggiustare o sostituire le condizioni e le componenti che interferiscono con il suo stato e le sue funzioni attuali. Ma per riuscire a elaborare e seguire le conseguenze dell’autonomia dei suoi fini, per rendere intelligibili le ramificazioni della sua possibilità, il pensiero deve liberarsi dai termini e dalle condizioni che lo confinano a un particolare stato di realizzazione. Questa mossa sistematica, che comporta separare la possibilità del pensiero dalle circoscrizioni di un singolo stato di realizzazione, è l’inizio di un’indagine cognitivo-pratica sulle realizzabilità possibili del pensiero. Ed è precisamente indagando e costruendo le realizzabilità possibili del pensiero che le conseguenze della sua autonomia e le ramificazioni della sua possibilità possono diventare davvero intelligibili. In questo senso, l’indagine sulle realizzabilità possibili del pensiero è sinonima di un’indagine su quelle finalità [purposes] che non gli sono date in anticipo, né sono esaurite dalla sua istanziazione attuale. In effetti, l’indagine sul significato e la finalità del pensiero può iniziare soltanto in modo radicale, vale a dire sviluppando un progetto teorico e pratico approfondito, diretto a ricostituire la sua possibilità al di là della sua costituzione contingentemente situata e del suo attuale stato realizzato. Per determinare che cosa sia il pensiero, quali siano le sue finalità e le cose che esso può fare, bisogna allora esplorarne e costruirne le diverse realizzabilità al di fuori del suo habitat naturale. Il programma che il pensiero sviluppa per istituire i suoi fini autonomi porta a una fase in cui il pensiero è spinto [compelled] – dall’imperativo dei suoi fini tempogenerali [time-general] – a definire e indagare le sue finalità, rimettendo in discussione il suo stato di realizzazione attuale. Questa fase segnala una nuova giuntura nello sviluppo della sua autonomia, perché essa richiede lo slegamento tanto delle sue realizzabilità, quanto delle sue finalità. Pertanto, l’iniziativa che organizza la realizzazione funzionale del pensiero al di fuori della sua casa natale e del suo formato predefinito è in tutto e per tutto un programma di decontenimento. È uno sforzo tipicamente filosofico in questo, che interpreta normativamente una scommessa
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che la filosofia, da lungo tempo, continua a piazzare: “il pensiero non può essere contenuto” – il pensiero non deve essere contenuto. Ciò cui ha dato avvio un assioma filosofico all’apparenza innocente, è ora un programma che reindirizza il pensiero a indagare teoricamente e praticamente i suoi futuri – prospetti di realizzabilità asimmetrici rispetto al suo passato e al suo presente. Ciò che sospinge questo programma è che la portata delle sue operazioni e delle sue manipolazioni costruttive abbraccia sia il realizzatore che il realizzato, sia la componente che il composto, sia ciò di cui è fatto il pensiero che ciò che il pensiero manifesta. Espressione finale dei bisogni del pensiero, questo programma trasformativo è a tutti gli effetti il distillato delle domande ricorrenti della filosofia, – che cosa fare e che cosa pensare, – mosse da quella forza cronica della filosofia, ancora in larga parte incompresa, che è la coazione a pensare.
3. Riformattando il pensare da derivato delle organizzazioni materiali e sociali a impresa normativa programmatica che indaga con rigore le sue possibilità operative e costruttive, la filosofia introduce una visione dell’artificiale nella pratica del pensare. Non essendo semplicemente abituato all’uso di artefatti, ma possedendo un concetto di artificialità, questo pensiero è esso stesso una pratica di artificializzazione. Il concetto di artificiale rimanda all’idea di arte [craft] come ricetta per far qualcosa; questo qualcosa ha delle finalità, ma esse non derivano dai suoi ingredienti materiali, non sono date da essi, sebbene siano compatibili [afforded] con le loro proprietà. Tali finalità non sono solo i motivi (esterni) per cui il prodotto dell’arte (l’artefatto) è usato, ma anche le funzionalità potenziali associate alle realizzabilità possibili dell’artefatto stesso, che si estendono al di là del suo ambito d’uso o della sua destinazione al consumo. Da questo punto di vista, l’artificiale esprime l’interscambio complesso e in evoluzione tra la funzionalità esterna (il contesto in cui un artefatto sarà usato come finalità esterna dell’arte) e le realizzabilità possibili dell’artefatto stesso. Questo interscambio è, per così dire, un processo d’imbrigliamento [harnessing] che abbina la funzione come uso dell’artefatto e la funzione come istanziazione delle sue realizzabilità possibili. Abbinando queste due categorie di funzione, il processo di artificializzazione produce o imbriglia (nel senso vincolante di “imbrigliare”) funzionalità e finalità nuove a partire dai vincoli positivi stabiliti tra l’uso e le realizzabilità dell’artefatto.
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Il ruolo che un artefatto svolge nel ragionamento pratico è inerentemente duplice, nella misura in cui esso è simultaneamente determinato dalla sua finalità prestabilita e dalle sue stesse realizzabilità. La struttura del ragionamento pratico sugli artefatti (“l’artefatto a è un mezzo per portare a termine il risultato c, dunque devo usare a nella situazione s come mezzo per c”) è influenzato da questo interscambio tra usi e realizzabilità. Se la finalità di un artefatto (il contesto prestabilito in cui sarà usato) è un prerequisito per portare a termine un certo risultato, le realizzabilità dell’artefatto possono essere pensate come l’aggiunta di nuovi assiomi, con nuovi termini, che indeboliscono l’idempotenza e la monotonicità di implicazione in un ragionamento pratico. Istanze di applicazione diverse di un dato artefatto possono portare a conseguenze o fini diversi (indebolimento dell’idempotenza) e l’aggiunta di nuove assunzioni sull’uso di un artefatto possono cambiare il fine per il quale l’artefatto è un mezzo (indebolimento della monotonicità)3. L’artificializzazione, dunque, può essere definita come un processo vòlto a reindirizzare ed esibire un comportamento largamente non-inerziale e non-monotòno rispetto alle sue conseguenze o ai suoi fini. Questo reindirizzamento può manifestarsi nel potenziamento della realizzazione esistente dell’artefatto; nell’astrazione e nel trapianto di una qualche funzione o proprietà saliente esistenti in un contesto di utilizzazione e operazione diverso o del tutto nuovo; nel riadattamento di un uso esistente a un’istanziazione diversa delle realizzabilità di un artefatto; e, più radicalmente, nella costruzione sia di nuove utilizzazioni, sia di nuove realizzazioni, impegnandosi in un’arte che richiede di sviluppare sia modi nuovi di astrazione, sia un ordine di intelligibilità (di materiali e di pratiche) più profondo. 3
Idempotenza e monotonicità dell’implicazione sono regole di inferenza che operano direttamente sui giudizi o le relazioni tra antecedenti e conseguenti. L’idempotenza dell’implicazione vuole che si possano derivare le medesime conseguenze da molte istanze di una stessa ipotesi, così come da una sola (a, b, b ⊢ c può essere contratta in a, b ⊢ c lasciando la conseguenza c intatta). La monotonicità dell’implicazione, d’altro canto, vuole che le ipotesi su qualsiasi fatto derivato possano essere estese in modo arbitrario a mezzo di assunzioni aggiuntive (a ⊢ c può essere assunta come a, d ⊢ c, dove d è l’assunzione aggiuntiva e c la conseguenza inalterata). Qui, il simbolo “⊢” denota l’implicazione. Gli antecedenti sono dalla parte sinistra del simbolo, i conseguenti a destra. L’idempotenza dell’implicazione comporta che disponiamo degli antecedenti come di risorse libere (nel contesto del ragionamento che fa uso di artefatti, si ha che, per un dato artefatto, diversificare le istanze di applicazione o di uso non cambia il risultato). La monotonicità dell’implicazione comporta l’indipendenza del ragionamento dal contesto (estendere il ruolo di un artefatto o aggiungere nuove assunzioni sul suo uso per il raggiungimento di certi fini non altera il risultato).
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Se il concetto di artificializzazione mette in evidenza l’adattamento costruttivo a finalità e realizzabilità diverse, allora, realizzando i propri fini e adattando la sua realizzazione alle richieste crescenti di tali fini, pensare si trasforma in un processo di radicale artificializzazione. In fondo, un pensiero che la filosofia rende all’altezza di indagare sistematicamente le ramificazioni della sua possibilità – di esplorare le sue realizzabilità e le sue finalità – è un programma di rigorosa artificializzazione. Questo pensiero, allo stesso tempo, si dedica a concepire e ad adattarsi ai suoi nuovi fini e s’impegna a svolgere un programma di concreta autoartificializzazione. Per un pensiero che dispone dei propri fini e dei propri bisogni, l’autoartificializzazione è un’espressione dell’impegno a esplorare le sue realizzabilità possibili, a rivendicare la sua possibilità davanti ai termini eteronomi e limitanti imposti dai suoi realizzatori naturali e dal suo habitat originario. In altre parole, è l’espressione del suo impegno a perseguire l’autonomia, la regola dei suoi fini. Tuttavia, per esaminare le sue realizzabilità possibili, il pensare deve prima accertare la sua intima disponibilità al processo di artificializzazione. Il primo passo è far vedere che pensare non è un qualche cosa di ineffabile, ma un’attività o una funzione, sí speciale, ma non sovrannaturale, e che può essere programmato, reindirizzato e trasformato in un’impresa di design dell’agentività, nel senso che ogni passo fatto nel perseguimento di questa impresa avrà conseguenze di lungo corso sulla struttura di tale agentività. Non c’è esempio più radicale delle prime pratiche filosofiche, in particolare le proposte ciniche, stoiche e confuciane in merito agli aspetti programmatici del pensare: intendere il pensare stesso come una funzione direttiva; non isolare il pensare dal vivere, ma considerare la vita come l’arte di pensare; piuttosto che eliminare le emozioni e gli affetti, dar loro struttura, allineandoli ai fini del pensiero; e, in ogni fase della vita, dimostrare le possibilità del pensare come attività che dona senso ed è reindirizzabile. In breve, la tesi comune a queste pratiche filosofiche programmatiche è che, considerando il pensiero come un artefatto dei suoi fini, diventiamo l’artefatto delle realizzabilità artificiali del pensiero4. È uno dei successi più travolgenti della filosofia: formulando il concetto di vita buona, espresso nei termini di una possibilità pratica sostenuta dalla manipolabilità artificiale del pensare come attività costruibile e reindirizzabile, la filosofia traccia un collegamento tra la possibilità di realizzare il pensiero nell’artefatto e di perseguire il bene. L’idea della realizzazione 4
Per un’introduzione alle filosofie dell’antico cinismo, stoicismo e confucianesimo, vedi Desmond 2006, Sellars 2009 e Ivanhoe 2000.
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del pensare negli artefatti si presenta come un’espressione del bisogno del pensiero di espandere le sue realizzabilità. E così, può essere inserito nel contesto della produzione di una vita che soddisfi il pensiero, il quale richiede lo sviluppo delle proprie realizzabilità possibili in qualsiasi forma o configurazione possibile – un pensiero, cioè, che acquisisca piena intelligibilità nell’esplorazione di ciò che può essere e fare. La fabbricazione di una forma di vita intelligente, che abbia almeno tutte le capacità del soggetto pensante attuale, è un’estensione dell’arte della vita buona, buona perché appropriata al soggetto di un pensiero che ha approfondito l’indagine dell’intelligibilità delle sorgenti e delle conseguenze della sua realizzazione. In altre parole, è il design di una forma di vita soddisfacente e adeguata ai bisogni di un pensiero che non solo conosce teoricamente la sua istanziazione attuale (l’intelligibilità delle sue sorgenti), ma sa praticamente come portare a termine le sue realizzabilità possibili (l’intelligibilità delle pratiche che possono svolgere le sue conseguenze). Per dimostrare che il pensare come attività può davvero essere artificializzato, il secondo passo è analizzare la natura di questa attività. Possiamo considerare questa analisi come un’indagine delle sorgenti o delle origini della possibilità di pensare (i diversi tipi di condizioni necessarie alla sua realizzazione). Senza tale indagine, l’elaborazione e lo sviluppo delle conseguenze del pensare, le sue realizzabilità possibili, non possono guadagnare slancio. Se pensare è un’attività, qual è allora la logica interna o la struttura di questa attività, come la esercitiamo e che cosa performa? Possiamo forse analizzarla scomponendola in altre attività più rudimentali? Quali sono i meccanismi che stanno a supporto di queste attività che la precorrono? In questo modo, l’indagine sull’intelligibilità del pensare, voluta dalla filosofia, prepara il terreno per un’analisi più ampia dell’attività manifesta che chiamiamo “pensare”. Il pensare è esaminato sia secondo le sue uniformità di pattern interne e speciali, sia in base agli schemi soggiacenti e più generali in cui tali specificità sono realizzate. In altre parole, l’analisi del pensare come attività abbraccia due dimensioni del pensare come funzione: in quanto è un’uniformità di pattern interna, cioè in quanto attiene alle regole che costituiscono la performance dell’attività come tale; e in quanto comprende i meccanismi nei quali queste regole o uniformità di pattern si materializzano. Perciò, l’esame filosofico della natura del pensare si biforca in due domini analitici distinti, ma integrabili: la spiegazione del pensare secondo le funzioni o i ruoli che assume il suo contenuto (l’ordine logico-concettuale del pensare come tale); e l’esame delle materialità – il senso è genera-
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le: parliamo di meccanismi tanto naturali quanto sociali – in cui questa struttura logico-concettuale si realizza nella sua pienezza (l’ordine causale pertinente alla materializzazione del pensare). Pertanto, il programma filosofico avvia l’indagine sulla possibilità del pensare come attività programmabile e reindirizzabile verso due campi di ricerca definiti a grandi linee come idealistico-razionalistico l’uno, materialistico-empiristico l’altro. Così facendo, prepara il framework per forme specializzate di indagine, definite a partire dalle priorità di ciascun campo. Pressappoco, da un lato abbiamo le indagini linguistiche e logiche che si concentrano sulla struttura semantica, concettuale e inferenziale del pensare (la sua impalcatura linguistico-concettuale); dall’altro, invece, abbiamo le indagini empiriche che si occupano delle condizioni materiali (tanto neurobiologiche quanto socioculturali) richieste dalla sua incorporazione. Entrambe le traiettorie sono come due vettori che approfondiscono l’intelligibilità del pensare all’interno degli ordini logico e causale, analizzando o scomponendo le sue funzioni in fenomeni o attività dalla grana più fine. Entro questo duplice schema analitico, fenomeni o attività ritenuti unitari possono apparire separati e fenomeni o attività considerati distinti possono risultare unitari. Gli ordini concettuale e causale, in senso proprio, si differenziano l’uno dall’altro soltanto per poi rivelare la propria convergenza a un certo livello elementare fondamentale. Pensare è possibile non a dispetto delle sue cause materiali e delle sue attività sociali, ma in virtù di generi specifici di cause e attività. Allo stesso modo, l’approfondimento dell’intelligibilità del pensare come attività congiunge i confini di questi due campi, mentre l’intelligibilità del pensare – la sua realizzazione – risiede da ultimo in una integrazione accurata delle dimensioni logicoconcettuale e materiale-causale. È interessante notare che una delle aree in cui le due traiettorie, quella idealistico-razionalistica e quella materialistico-empiristica, convergono più radicalmente, è l’informatica, dove troviamo riunite fisica, neuroscienze, matematica, logica e linguistica. E questo tanto di più sull’onda dei recenti progressi delle teorie fondamentali della computazione, specialmente delle teorie della dualità computazionale e della loro applicazione ai sistemi multiagente, che costituiscono ambienti ottimali per il design dell’intelligenza artificiale avanzata. La figura archetipica nascosta dietro le dualità computazionali è il concetto di interazione: concorrenza in sincrono e fuori sincrono di processi; interscambio e permutazione di ruoli tra giocatori, strategie, comportamenti e processi. In questo senso, la computazione è l’interazione del sistema con il suo ambiente o di un agente con altri agenti. Ma teniamo
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presente che tale interazione, in modo intrinseco e non-triviale, consiste in questo, che essa si svolge in linea, è concorrente, negativamente e positivamente vincolante, internalizzata e aperta (durante la computazione, il sistema resta aperto ai diversi fasci di input). È stato mostrato che le dualità computazionali sono responsabili della generazione di abilità cognitive e computazionali complesse, attraverso processi di supporto [scaffolding] tra framework interattivi sempre più specializzati e funzionalmente autonomi, con proprietà computazionali distinte. Grazie allo studio delle dualità e delle loro gerarchie, l’informatica ha iniziato a colmare il divario tra la complessità semantica della cognizione e la complessità computazionale dei sistemi dinamici, dell’interazione linguistica e dell’interazione fisica5. Parte due Programmi e realizzabilità 4. Guardata da un punto archimedeo nel futuro dello svolgimento del pensiero, la filosofia è ciò che ha dato istruzioni al pensare affinché diventasse un programma sistematico, organizzandolo in un progetto di emancipazione dell’intelligenza. È questo il ruolo sottaciuto della filosofia, che agisce da fulcro grazie al quale gli obiettivi e gli ordini del giorno dell’intelligenza riescono a far leva sul mondo del pensiero. Assemblare l’impalcatura [scaffolding] di una filosofia futura richiederebbe spostare tale fulcro, trasformare il ruolo tacito che la filosofia ha assunto in passato nel suo compito esplicito da qui in avanti – un sostegno sul quale tutti i 5
La ricerca sulle dualità computazionali e sulla concorrenza può essere fatta risalire ai lavori di Marshall Stone e Carl Adam Petri. Stone ha applicato le dualità matematiche (corrispondenza biunivoca tra insiemi e relazioni di equivalenza tra categorie come funtori inversi) all’algebra booleana e ha così predisposto il framework per un’analisi più profonda della semantica dell’elaborazione di informazioni. Il contributo di Petri all’informatica – degne di nota soprattutto le reti di Petri, inventate all’inizio per descrivere i processi chimici – ha fornito gli strumenti modellistici necessari per studiare l’esecuzione dei processi [process execution] e i problemi associati alla computazione concorrente, come la gestione dei tabulati e delle risorse (vedi il problema dei “filosofi a cena”). Ma i passi avanti principali nello studio delle dualità computazionali sono stati compiuti soltanto di recente con l’intersezione di diverse linee di ricerca sui modelli asincronici della concorrenza nei sistemi fisici (vedi per esempio il lavoro di Peter Wegner), sui modelli matematici e computazionali dei giochi interattivi non sequenziali (vedi Robin Milner, Andreas Blass e Samson Abramsky) e sulle logiche substrutturali e la teoria della dimostrazione, su cui si veda in particolare il lavoro di Jean-Yves Girard.
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pensieri e le pratiche possono far da leva per sollevare l’intelligenza dal posto contingentemente assegnatole. Per come l’abbiamo tracciata nella sezione precedente di questo saggio, la biforcazione dell’indagine sulla possibilità del pensiero in due traiettorie generali, l’una razionalistico-idealistica e l’altra naturalistico-materialistica, dovrebbe essere costruita anche come una strategia epistemica necessaria. Da un’angolatura epistemica, impegnarsi su più livelli di spiegazione e descrizione permette di svolgere un’analisi estesa e approfondita dell’architettura cognitiva, analisi impossibile assumendo un approccio a schema singolo. Un approccio multimodale fornisce immagini sempre più dettagliate di tipi distinti di comportamento e processo; ciascun tipo è guidato da uno schema ed essi si distribuiscono tra i diversi ordini della complessità strutturalfunzionale, delle relazioni di dipendenza e dei loro vincoli specifici. Per esser più chiari, il sezionamento e la specializzazione dell’analisi sono necessari per la determinazione a grana fine delle distinzioni e delle correlazioni tra le dimensioni logico-concettuale e causale-materiale del pensare. Attraverso questa differenziazione e integrazione a grana fine dei livelli di spiegazione e descrizione, possiamo specificare con accuratezza le condizioni necessarie per la realizzazione del pensare come attività che comprende un ampio spettro di abilità cognitive e intellettuali. Determinare quali sono queste condizioni necessarie e come si dispongono e sono rese effettive, è già una cartina stradale elementare per la realizzazione artificiale del pensiero. Mentre approfondiamo progressivamente l’intelligibilità della realizzazione del pensiero, il pensiero della realizzazione possibile del pensare in qualcosa di diverso da ciò che lo incarna attualmente diventa sempre più intelligibile. La specializzazione analitica della conoscenza intorno a che cosa sia il pensare finisce per essere la conoscenza intorno ai modi in cui il pensare può essere districato dalle contingenze che restringono dal basso le sue realizzabilità. Se l’attività che chiamiamo “pensare” è realizzata da questa e quella capacità funzionale e se tali capacità o attività possono essere analizzate in base ai loro realizzatori, – le condizioni, i processi e i meccanismi specifici richiesti per la loro realizzazione, – è mai possibile, allora, ricostruire o realizzare artificialmente le funzioni in oggetto? In altre parole, è mai possibile riprodurre queste capacità funzionali attraverso una combinazione di strategie, tra le quali simulazione, emulazione e riattuazione6 delle funzioni 6
Qui, “simulazione”, “emulazione” e “riattuazione” si riferiscono a tre processi distinti. Una simulazione imita alcuni aspetti specifici e osservabili dall’esterno
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e/o dei loro realizzatori materiali? E infine, è mai possibile costruire un framework integrato in cui queste capacità possano esibire una complessità interconnessa e generativa? Per capirci, se pensare è questo e quello e se è materializzato in questi e quei meccanismi e processi, come può mai, allora, essere riformato e rimaterializzato in qualcos’altro? Questa è la domanda che informa il campo dell’intelligenza artificiale generale, di un programma, cioè, che cerca di integrare l’intelligibilità delle diverse dimensioni del pensare nella sua piena complessità percettiva, concettuale e intenzionale. E integrarle con un obiettivo ideale: progettare una macchina che possiede almeno il pacchetto completo delle abilità cognitive umane, con tutte le capacità che tali abilità implicano (apprendimento diversificato ed esauriente, modalità e livelli diversi di conoscenza e uso della conoscenza, ragionamento, deliberazione, formazione di credenze indipendenti dalla percezione attuale, competenze abilitate da livelli diversi di complessità semantica come modi di computazione specializzati e dipendenti dal contesto, e così via). Piuttosto che considerarla una semplice moda nella quale il pensiero rigoroso dovrebbe evitare di indulgere, dovremmo guardare all’idea cardine dell’intelligenza artificiale generale come a una parte integrante del pensare, se vogliamo intenderlo come un’attività che elabora le conseguenze operative della propria intelligibilità. Esso è parte integrante di un pensiero spinto a esplorare le sue realizzabilità possibili a partire dall’autonomia dei suoi fini, in ogni forma praticabile e in ogni configurazione materiale possibile. Dare origine a un’intelligenza che abbia almeno le capacità del soggetto cognitivo-pratico attuale, è il bisogno di un pensiero dedicato a rendere intelligibile la propria autonomia, a mantenere questa intelligibilità e a svilupparla. Con un po’ più di enfasi, possiamo dire che, per tale pensiero, le sorgenti della sua possibilità sono espressioni necessarie ma non soddisfacenti della sua autonomia. Affinché tale pensiero sia soddisfatto della forma della sua autodel comportamento del sistema simulato, ma la si implementa in modo diverso da questo. Simulare significa modellare sufficienti dettagli dello stato soggiacente del sistema, estrapolati in vista della simulazione. L’emulazione, d’altro canto, replica i procedimenti interni del sistema emulato e obbedisce a tutte le sue regole, per riprodurre lo stesso esatto comportamento esterno. Il bersaglio della riattuazione non è né l’imitazione/riproduzione delle proprietà funzionali osservabili, né la replica dei procedimenti interni del sistema. Invece, una riattuazione cerca di identificare e ricostruire i parametri secondo i quali il sistema evolve strutturalmente e funzionalmente interagendo senza sosta con il suo ambiente. Qui, l’accento cade sull’abbinamento di sistema e ambiente (l’informazione sullo sfondo), sui parametri dell’interazione in tempo reale, sul tipo di interazione e sul carattere situato dei comportamenti e delle capacità funzionali differenti.
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nomia, essa deve strutturarsi in uno sforzo onnicomprensivo di elaborazione dei suoi fini e dei suoi bisogni. Il vero portato dell’idea di intelligenza artificiale generale può essere compreso in senso proprio soltanto una volta esaminato ciò per cui essa sta e che significa nello sforzo sistematico fatto dal pensiero per autodeterminarsi. Come descritto nella sezione precedente, questo sforzo è racchiuso nella funzione della filosofia, che continuiamo a intendere come un programma in virtù del quale il pensiero comincia a determinare la sua intelligibilità elaborando, in teoria e in pratica, le sorgenti e le conseguenze della sua possibilità. L’organizzazione del pensiero in un progetto programmatico inizia riconoscendo che la possibilità di pensare è un blocchetto per costruire o realizzare un pensiero reso possibile (a dispetto delle sue cause materiali o finali) dai suoi fini e dai suoi bisogni, dal modo in cui si è originariamente materializzato e da ciò che, presumibilmente, esso è chiamato a essere. In quanto programma, pensare non è solo una pratica, ma la costruzione delle realizzabilità possibili del pensiero (ciò che il pensiero può portare a termine). Questo processo di costruzione può intendersi come una ricerca delle conseguenze della possibilità di pensare, portata avanti scoprendo e agendo sulle proprietà soggiacenti implicate da tale possibilità. In altre parole, l’autorealizzazione del pensare richiede un approccio programmatico alla possibilità di pensare come tale: determinare che cosa significa, per il pensiero, essere possibile e quali sono le conseguenze di tale possibilità, esaminando ciò che il pensiero in effetti è (sia al livello dei ruoli assunti dai suoi contenuti, sia a quello della sua realizzazione materiale) ed elaborando i suoi compiti e le sue abilità. Che il pensiero sia possibile non è sacrosanto nel nome del dato, né qualcosa che rimane fuori dalla portata dell’indagine e dell’intervento; invece, è la filosofia che istruisce il pensiero affinché agisca sulla sua possibilità come su un assioma manipolabile, l’artefatto di un’arte in corso d’opera – e i prodotti di questa non sono soltanto le intelligibilità teoriche e pratiche che riguardano ciò che il pensiero è e dovrebbe fare, ma anche le realizzabilità del pensiero in quanto tale. È manipolando o agendo sui suoi assiomi che il programma estrae e sviluppa i contenuti operativi impliciti alle loro proprietà soggiacenti. Il modo in cui gli assiomi si comportano o si dipanano in diversi corsi d’azione, diverse linee d’indagine, fornisce informazioni sulle loro proprietà soggiacenti. Il compito del programma è allora quello di esaminare ciò che può essere portato a termine, che può essere realizzato a partire dai contenuti impliciti di queste proprietà. Portando tali contenuti operativi a
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pesare l’uno sull’altro e lavorando a partire da questi, il programma rende effettiva una realizzabilità possibile. Porta a termine un risultato a partire dalle proprietà soggiacenti dei suoi assiomi, un risultato che, d’altra parte, esso costruisce in accordo con i propri principi d’azione e con il proprio framework operativo. Nel quadro del pensare come progetto programmatico, i diversi gradi di intelligibilità, che riguardano la realtà del pensare in termini sia di funzioni logico-concettuali, sia di meccanismi causali-materiali, rappresentano le proprietà soggiacenti. I contenuti operativi di queste proprietà rappresentano le intelligibilità pratiche di ciò che il pensare dovrebbe essere e può diventare, una volta appurato se esso possiede certe proprietà funzionali-normative e certi vincoli causali-materiali7. Il primo ordine di intelligibilità è l’intelligibilità delle cose come stanno (nel nostro caso, il significato effettivo del pensare come attività su diversi livelli). In questa misura, linee d’indagine diverse in merito all’intelligibilità del pensare come attività corrispondono all’esame, da parte del programma, delle proprietà soggiacenti degli assiomi, delle loro specificità. La determinazione, la valutazione e l’organizzazione delle intelligibilità pratiche equivalgono all’estrazione, la composizione e l’esecuzione dei contenuti operativi da parte del programma.
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Per esempio, prendiamo in considerazione il pensare concettuale e l’immaginazione: i contenuti concettuali responsabili della complessità semantica della cognizione sono determinati dal loro ruolo inferenziale – funzione normativa – nelle pratiche linguistiche discorsive. Al livello del pensare concettuale, le proprietà funzionali del pensiero devono essere comprese nel contesto degli usi linguistici e delle esecuzioni di una comunità di parlanti. Il pensare cognitivo è coesteso alla competenza nell’uso di un linguaggio naturale pubblico. I pensieri cognitivi interni, in questo senso, sono strutturati e modellati sulle caratteristiche delle attività linguistiche esterne. D’altra parte, l’immaginazione (perfino nel senso ristretto di costruzione di scenari controfattuali/ipotetici) non è soltanto legata alle funzioni linguistico-normative, ma è anche guidata da attività incorporate (euristiche, interazione fisica, lavorazione dell’informazione sensibile, ecc.). Intendere l’immaginazione come una capacità richiederebbe comprendere il ruolo dell’incarnazione (sia come condizione abilitante che come vincolo causale) e i parametri dinamici pertinenti alla localizzazione dell’agente incarnato nel pensare astratto. Vedi, per esempio, il lavoro di Claude Vandeloise sul ruolo dell’incarnazione nella percezione dello spazio, nell’immaginazione e nella struttura del linguaggio (Vandeloise 1986), oppure anche l’approccio funzionalistico morfodinamico alla percezione e alla cognizione, alle capacità funzionali di basso livello (causalmente vincolate) e alle capacità funzionali di alto livello (linguistiche) elaborato da Jean Petitot (Petitot e Doursat 2011).
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Qui, la realizzazione artificiale dell’intelligenza generale rappresenta un passo necessario entro il compito del pensiero come programma di autodeterminazione. Per riconoscere in modo sufficiente la sua possibilità ed esprimere l’autonomia dei suoi fini, il pensiero deve costruire realizzabilità artificiali di sé stesso tramite l’integrazione di livelli e ordini diversi di intelligibilità che riguardano ciò che esso è e deve fare. Ma costruendo queste realizzabilità artificiali non ci si deve limitare agli artefatti tecnologici. In linea con la definizione di artificiale presentata nella prima parte di questo saggio, le realizzabilità artificiali del pensiero includono potenzialmente un’ampia gamma di costrutti funzionali, sistemi sociali inclusi. Per chiarire meglio il ruolo fondamentale che l’intelligenza artificiale generale ricopre per lo sviluppo dell’immagine sistematica del pensiero come progetto programmatico, potrebbe esserci utile definire il concetto di programma in relazione a quel che Wilfrid Sellars, rileggendo l’idea platonica della mente come artigiano, chiama “ricetta” – un complesso di intelligibilità e azioni con un proposito [purposive] che compongono la pratica di un’arte8. Una ricetta è una formula o un insieme di cosa-e-comefare consistenti di cifre, proporzioni e azioni con un proposito che servono a produrre un prodotto possibile da una raccolta di ingredienti data. In una ricetta, le azioni hanno la seguente forma generale: “Per (chi vuole) fare un o, allora, in ci, serve (che faccia) aj” (o sta per il prodotto, ci è lo spettro delle circostanze date o delle condizioni in cui un dato insieme di assiomi può o non può essere prodotto e aj un particolare gruppo di azioni) (Sellars 1974a, p. 9). Queste azioni o strumentalità [instrumentalities] appartengono all’ordine dell’intelligibile e sono fatti oggettivi. Come tali, gli si applica la distinzione tra vero e falso. Possono essere spiegate e dibattute, modificate o rimpiazzate per mezzo di una valutazione razionale9. In una 8 9
Vedi il Filebo, il Timeo, il Fedone e il sesto libro della Repubblica di Platone. Per il lavoro di Sellars sull’arte della vita intesa come una ricerca razionale della forma del bene, cfr. Sellars 1967 e Sellars 1974a. Nella sua lettura di Platone, Sellars identifica i principi di azione e le pratiche dell’arte tra ciò che appartiene alla physis (“per natura e fini oggettivi”) in contrasto al nomos (“per legge e convenzione”). Nella versione platonica dell’artigianato [craftmanship], le azioni con un proposito non sono né convenzionali né arbitrarie, in quanto esse sono sforzi razionali pertinenti alle forme, che sono reami di intelligibilità (Sellars chiama le forme “object-of-striving-ness” [l’essere l’oggetto di uno sforzo] o “to-be-realized-ness” [l’esser da realizzare]). Queste azioni o questi sforzi appartengono all’ordine dell’intelligibile e come tali possono essere valutati dalla ragione e sulla base di fatti oggettivi. Un esempio che aiuta a capire la differenza tra principio (per natura) e convenzione (per legge) potrebbe essere la differenza tra le azioni che sarebbero necessarie, dato un certo
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ricetta, cifre e proporzioni specificano tanto il conteggio, la sequenza e la proporzione degli ingredienti, quanto la sequenza e la priorità delle azioni. Infine, c’è da notare che i materiali e gli oggetti, che la ricetta elenca tra i suoi ingredienti, possono essere i prodotti di altre forme di fabbricazione. L’arte [art] di vivere (filosoficamente), per Platone, è la ricetta di un mestiere [craft] in cui l’anima o la mente è sia il materiale che l’artigiana. Per quanto riguarda gli ingredienti, suggerisce Sellars, la ricetta di tale vita include non solo le intelligibilità che riguardano i materiali fisici e i prodotti corporei, ma anche le credenze, i desideri, i pensieri e la stessa mente. Le cifre (conteggi e sequenze) e le proporzioni, nella ricetta, sono le intelligibilità teoriche tanto degli ingredienti quanto delle pratiche e dei compiti richiesti alla fabbricazione di questa vita. E per quanto riguarda le azioni, la ricetta comprende le azioni con un proposito e le intelligibilità pratiche, che non sono solo buone strumentalità (intelligibilità pratiche ipotetiche su come portare a termine un certo risultato in una data circostanza), ma anche beni in sé (intelligibilità pratiche non-ipotetiche) come la conoscenza e l’intelletto, il benessere generale, la libertà, e così via. È facendo riferimento a questa interpretazione che possiamo dire che “pensare come un programma” – almeno per quanto riguarda la relazione tra gli ingredienti materiali e le intelligibilità teoriche e pratiche – è una ricetta complessa in divenire. È “complessa” in quanto composta da altre ricette, altri programmi che si misurano con la conoscenza delle verità teoriche e pratiche, la fabbricazione di varie strumentalità e di organizzazione, la produzione delle condizioni necessarie e dei materiali richiesti dalla realizzazione di una vita simile. È “in divenire” perché deve aggiornarsi continuamente rispetto ai materiali, le intelligibilità teoriche e le intelligibilità pratiche. L’obiettivo di questa ricetta è stabilire l’autonomia dei suoi principi determinando progressivamente i suoi mezzi e i suoi fini in accordo con le sue regole e i suoi obiettivi. spettro di circostanze e gli ingredienti materiali, per costruire a tutti gli effetti una casa, e le convenzioni di una corporazione di muratori, segnatamente, i codici e i regolamenti per costruire una casa. Il principio prende la forma del “dover fare” [ought to do], la convenzione la forma imperativa del “fai!”. Nel migliore scenario possibile, le convenzioni e le leggi corrispondono a principi di azione razionali e ai loro fini oggettivi, ma possono anche divergere in modo significativo da questi, come nel caso in cui in una corporazione di muratori si diffonda la corruzione. Una corporazione corrotta potrebbe passare leggi che richiedono che le case siano costruite soltanto con materiali ai quali i suoi membri hanno accesso esclusivo. Questa differenza tra principi di azione e convenzioni può essere estesa ad altre forme di arte, inclusa l’arte della polis. Nella natura razionale dei principi di azione si rifugia un potenziale sovversivo delle convenzioni socioculturali e politiche e delle leggi codificate.
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In questo quadro, l’idea di intelligenza artificiale generale rappresenta uno stato culminante dell’impresa programmatica del pensare. È uno stato in cui il pensiero come tale diventa intelligente. Esso usa l’intelligibilità della sua realizzazione come l’ingrediente materiale di una ricetta, per produrre una realizzazione possibile di sé stesso che abbia almeno le capacità operative del suo stato attuale. Dietro le sue sembianze tecnologiche, l’idea di intelligenza artificiale generale è l’espressione di un pensiero che si dedica alla fabbricazione di sé stesso usando la sua possibilità come materiale grezzo. Mette le intelligibilità teoriche di ciò che esso è al servizio dell’organizzazione di quelle pratiche e di quelle strumentalità che prevedono la fabbricazione di un pensiero che è possibile malgrado il modo in cui si materializza o si costituisce da principio. È precisamente questo ciò che significa l’autodeterminazione del pensiero per l’intelligenza generale, una forma di intelligenza per cui “ciò che il pensiero è” deve essere messo al servizio di “ciò che il pensiero può diventare” dando forma a “ciò che il pensiero deve fare”. È un’intelligenza per cui l’intelligibilità delle cose deve essere subordinata a quella intelligibilità organizzatrice che è il processo di fabbricazione di sé stessa, l’intelligenza. Per un’intelligenza che considera la sua stessa possibilità come un’esplicita opportunità per autorealizzarsi, non importa che cosa essa sia attualmente; ciò che importa è ciò che può essere fatto – tutto sommato – per espandere e costruire a partire da questa possibilità. È necessario afferrare il concetto di intelligenza artificiale generale non già come un’idea tecnoscientifica, o meglio non solo, ma più radicalmente come un concetto che appartiene a un pensiero capace di riconoscere e considerare la sua possibilità come materiale grezzo nella produzione di sé stesso. Indipendentemente dalla sua realizzazione attuale, l’idea stessa di intelligenza artificiale generale – dando origine a qualcosa di dotato di tutte le abilità del soggetto cognitivo-pratico a noi care – è il prodotto di un pensiero che si sforza di articolare, mantenere e sviluppare l’intelligibilità delle sorgenti e delle conseguenze della sua possibilità. Essenzialmente, questo sforzo è una ricetta o un programma di autonomia. Consiste di schemi e regole, condizioni e materiali necessari, sequenze e priorità, strumentalità, compiti normativi e, da ultimo, realizzabilità che trascendono gli ingredienti materiali e le strumentalità. Fini oggettivi dello sforzo del pensiero, queste realizzabilità non devono essere scambiate per potenzialità o possibilità. Le forze, le potenzialità e le possibilità, anche quelle del divenire, non sono realizzabilità, ma semplici ingredienti grezzi dell’esplorazione teorico-pratica e della costruzione delle realizzabilità del pensiero.
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Concepire l’idea di intelligenza artificiale generale è possibile soltanto entro il dominio del pensiero come programma o ricetta di autonomia. La realizzazione artificiale dell’intelligenza generale è prima di tutto un’espressione dell’autonomia del pensiero, un programma ad ampio spettro che integra materiali, intelligibilità e strumentalità nella costruzione delle sue realizzabilità. Mancando questa interpretazione, proporre l’idea di intelligenza artificiale generale non risulta in altro se non nell’oramai desueta confusione aristotelica tra ragioni e cause. Porta alla feticizzazione dell’intelligenza naturale, pensata come tanti processi materiali che si auto-organizzano, oppure a una fede teleologica nel tempo profondo della singolarità tecnologica – un’ingiustificata proiezione nel futuro del clima tecnologico attuale, ottenuta tramite un’estrapolazione eccessiva dei miti culturali che circondano la tecnologia, o per via di affrettate induzioni statistiche basate su successi tecnologici sí effettivi, ma slegati l’uno dall’altro. Di per sé, l’intelligenza artificiale generale non prende le parti della tecnologia, ma quelle di un pensiero che, preso da un disincantamento positivo verso sé stesso e la sua storia contingente, è stato abilitato a esplorare le proprie realizzabilità possibili – siano queste un soggetto, una formazione sociale, una macchina – come parte di un programma di autoartificializzazione assai più ampio, per tramite del quale esso si ristruttura e reindirizza quale artefatto dei propri fini. È un pensiero per cui l’intelligibilità della propria possibilità sta nell’elaborazione delle conseguenze di questa, in ciò che essa può raggiungere e portare a termine. È in questo senso che la realizzazione artificiale dell’intelligenza generale deve essere considerata parte integrante dell’intelligibilità di un pensiero determinato a mantenere ed espandere la propria possibilità. Proprio come la pratica di pensare, per un pensiero che intenda rimanere intelligibile la pratica dell’artificializzazione è non-opzionale; l’autonomia dei suoi fini e dei suoi bisogni ne incaricano il pensiero. La ricerca della realizzazione artificiale di una macchina intelligente che possieda come minimo le capacità dell’attuale soggetto cognitivo-pratico è parte essenziale di un pensiero che articola la sua intelligibilità in assenza di ogni significato predeterminato che gli sarebbe conferito dalla natura. La vocazione del pensiero non è quella di perpetuare e attenersi alla sua eredità evolutiva, ma quella di evadere da essa. Porre che il ruolo essenziale della biologia nella storia contingente dell’evoluzione del pensiero comporti, per il pensiero, avere una natura essenzialistica, limita il modo in cui possiamo immaginare e portare a termine i futuri soggetti del pensiero. Ma sganciarsi dall’eredità evolutiva del pensiero non equivale ad abbandonare la sua storia naturale. Affrontare questa storia naturale è necessario
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non solo per determinare il ruolo preciso dell’incarnazione e dei vincoli evolutivi nella realizzazione delle abilità cognitive e pratiche, ma anche per pensare a sufficienza il modo in cui un soggetto, dalle abilità cognitivopratiche ambientalmente situate e intrecciato con il suo habitat terrestre, dovrebbe agire metodologicamente. Liberare il pensiero dalla sua storia naturale contingente richiede un lavoro multistadio che renda questa storia intelligibile, che determini i suoi vincoli negativi e positivi per superarli o costruire qualcosa a partire da essi in modo intelligente – “intelligente” in quanto le azioni dovrebbero essere sempre sensibili al loro contesto e consapevoli delle risorse che richiedono. Da una parte, le azioni devono essere in grado di discriminare esattamente le circostanze e reagire correttamente ai cosiddetti fluenti, le proprietà dinamiche dell’ambiente. Dall’altra, esse devono essere consapevoli dei costi e delle allocazioni di intervento, nel senso più ampio in cui con ciò s’intendano le risorse e i costi cognitivi, computazionali, sociali e naturali. Pur richieste per l’azione, la sensibilità al contesto e la consapevolezza delle risorse non devono portare però a modelli localistici di azione ristretta o di rassegnazione, nel nome delle risorse e dei costi. Piuttosto che un appello al localismo, aver coscienza del contesto è il requisito di un modello di azione strategico e globale, che progredisca incrementalmente soddisfacendo esigenze contestuali e specifiche a un qualche dominio. Permette che un’azione sia aggiornata e rende possibile intervenire al livello delle proprietà dinamiche e delle relazioni di dipendenza complesse tra i domini locali, che i modelli classici di azione strategica e globale non possono rilevare e influenzare. Similmente, esser consapevoli delle risorse è il requisito di un’azione che, accanto all’ottimalità e all’efficienza, voglia raggiungere anche uno stato in cui siano evitati l’esaurimento delle risorse di altre attività o la compromissione delle strutture sociali e ambientali che sostengono e abilitano un ampio spettro di strutture e funzioni. Nella sua innegabile serietà, il problema del deterioramento delle strutture e delle risorse naturali è un argomento che va contro le cattive strumentalità e i sistemi entro i quali tali strumentalità sono radicate e si propagano. Non è una ragione che possa valere contro la strumentalità di per sé, né un argomento contro lo sviluppo di sistemi sociotecnici che possano mobilitare effettivamente e intelligentemente delle buone strumentalità. Una buona strumentalità è una strumentalità che, allo stesso tempo, passa il test delle valutazioni razionali-normative (perché o per quale ragione è implementata?) e soddisfa i summenzionati criteri dell’azione intelligente con un proposito (come esattamente viene eseguita?). In quest’ultimo senso, produrre delle buone strumentalità è in primo luogo un programma
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scientifico e ingegneristico, nel quale l’approccio all’azione con un proposito vuole che la si interpreti come un’interfaccia tra la complessità della cognizione, la complessità del sistema sociotecnico e la complessità del mondo. Tale programma richiede lo sviluppo di metodi di calcolo formale, per eseguire e tracciare il corso d’azione nei vari domini dinamici10 e costruire modelli complessi e framework descrittivi che consentano di accedere semanticamente ai diversi livelli di informazione riguardanti i tipi, le proprietà e le interrelazioni di entità particolari coinvolte nelle interazioni tra agenti umani, il sistema sociotecnico e il mondo fisico11. 10 La domanda che motiva lo sviluppo dei metodi di calcolo formale dell’azione è quella di come rappresentare e pensare in modo accurato le azioni e i loro effetti nel mondo. Elaborando questo punto, è la domanda della formalizzazione dell’azione in relazione a un mondo che non è un semplice blocco di cera da fondere e su cui imprimere le nostre azioni, bensì una varietà complessa che consiste di domini diversi, possiede proprietà dinamiche e resiste all’intervento. La formalizzazione dell’azione è necessaria per pianificare la linea d’azione – per la sua esecuzione precisa, il suo monitoraggio, il suo adeguamento e la sua implementazione. Ma questa formalizzazione dovrebbe essere in grado di incorporare una rappresentazione dinamica del mondo, dei suoi domini e delle entità che li costituiscono. Per lo studio scientifico dell’esecuzione delle azioni ho in mente vari linguaggi formali dell’azione, costruiti su formalismi logici come il calcolo di situazioni [situation calculus] e di eventi [event calculus], ideati per rappresentare e pensare i sistemi dinamici. In questi framework, le azioni sono analizzate nei termini della sintassi formale della sequenza d’azione e della semantica delle situazioni o degli eventi, che rappresentano la progressione del mondo dinamico come il risultato dell’azione eseguita sui suoi fluenti, le sue proprietà dinamiche. Sebbene questi formalismi siano stati sviluppati in primo luogo per la modellistica in robotica e in ingegneria dei sistemi, la loro portata applicativa va ben oltre questi campi. Essi sono tanto una cassetta degli attrezzi per l’intelligenza artificiale e la robotica quanto sono componenti indispensabili dell’armamentario scientifico di un progetto politico che abbia di mira un’esecuzione propria ed effettiva di azioni tattiche e strategiche. Per un’introduzione al calcolo delle situazioni e all’analisi dell’esecuzione di azioni, vedi Reiter 2001. 11 In scienze dell’informazione [information science], questi framework descrittivi sono conosciuti come ontologie mid-level [mesoscopiche]. Qui, il concetto di ontologia si riferisce a un sistema di etichettatura formale e definizione di tipi, proprietà, ruoli e interrelazioni di entità/particolari in uno specifico universo del discorso. Un’ontologia di livello alto o intermedio offre sostegno a un’ampia interoperabilità semantica tra numerose ontologie accessibili al suo interno. In questo senso, è un framework attraverso il quale si possono scambiare, tracciare e computare dati distribuiti in un intervallo esteso di domini diversi. Una delle funzioni principali di queste ontologie è di “specificare la nostra gerarchia concettuale in modo che sia abbastanza generale da descrivere una categorizzazione complessa che includa oggetti, eventi, ruoli e organizzazioni fisici e sociali” (Porello et al. 2014, pp. 42-62). Un esempio sofisticato di queste ontologie è dolce (Descripti-
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Il problema dell’accesso semantico alle diverse gerarchie dell’informazione è il problema di capire la logica dei mondi quale primo passo verso il design e l’esecuzione di un’azione consistente e conseguente. Ma capire la logica dei mondi richiede di capire come diciamo le cose o pensiamo noi stessi e il mondo, usando le risorse espressive e concettuali di diverse discipline e diversi modi del pensiero. Per esser precisi, capire la logica dei mondi vuol dire elaborare le relazioni semantiche tra i diversi vocabolari o le diverse espressioni linguistiche (teoriche, deontiche, modali, intenzionali, empiriche, logiche, e così via) che usiamo per parlare e per pensare noi e il mondo, così come, allo stesso modo, vuol dire determinare quali sono le attività necessarie per usare quei vocabolari cosicché questo uso valga come un’espressione di qualcosa12. È capendo come possiamo descrivere e spiegare adeguatamente noi stessi e il mondo – facendo uso di vari vocabolari e delle relazioni semantiche tra questi e le loro proprietà – che possiamo cambiarlo di conseguenza. Operare nel framework di tale programma rende sempre più sfocati i confini tra l’ingegneria cognitiva degli agenti autonomi e la costruzione di sistemi sociotecnici avanzati, tra come possiamo entrare in contatto cognitivo adeguato con il mondo e la realizzazione della cognizione nelle collettività sociali e negli artefatti tecnologici. In tanto che la complessità semantica della cognizione è realizzata nel sistema sociotecnico, che a sua volta la rinforza, la complessità sociotecnica del nostro mondo guadagna terreno rispetto al mondo e ne è nutrita.
ve Ontology for Linguistic and Cognitive Engineering), un’ontologia mid-level o descrittiva che classifica e integra le informazioni sugli agenti umani e i sistemi fisici e sociali secondo categorie “pensate come artefatti cognitivi che dipendono da ultimo dalla percezione umana, dalle tracce culturali e dalle convenzioni sociali”. Per un’introduzione alle ontologie e a dolce, vedi Masolo et al. 2003. Per un’applicazione delle ontologie, in particolare dolce, allo studio e al design dei sistemi sociotecnici multiagente, vedi invece Porello et al. 2014. 12 In Between Saying and Doing, Robert Brandom analizza le relazioni tra il significato (semantica) e l’uso (pragmatica) nei termini di ciò che si dice o asserisce quando usiamo i vocabolari o le espressioni linguistiche e di ciò che si deve fare per poter dire di dire o pensare vari generi di cose. Uno degli aspetti più interessanti del progetto di Brandom è che questo modo di pensare la complessità semantica e le attività richieste per generarlo presenta gli schemi pratici significativi sia per il progetto dell’intelligenza generale artificiale che per una politica pedagogica egalitaria. Cfr. Brandom 2008, in particolare il cap. 3, “Artificial Intelligence and Analytic Pragmatism”.
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5. Se l’inizio [inception] della filosofia coincide con i futuri speculativi dell’intelligenza generale, il suo compito, alla fine, fa capo all’ultima forma di intelligenza. Incoraggiando il pensiero a cimentarsi con sé stesso dal basso, la filosofia spinge il pensiero a confrontarsi con sé stesso dall’alto. Dà istruzioni al pensare affinché si organizzi in un pacchetto di principi di azione e di pratiche – un programma – che produce un pensiero che materializza i suoi fini e i suoi bisogni. Presentandosi nelle vesti di una forma di pensiero che opera e costruisce a partire dalla possibilità di pensare, la filosofia fa segno al pensiero di agire e di elaborare l’intelligibilità della sua possibilità. Pensare diventa un’impresa programmatica che, da un lato, approfondisce l’intelligibilità delle sue sorgenti e, dall’altro, articola, in teoria e in pratica, l’intelligibilità delle sue conseguenze. Articolando l’intelligibilità delle sue conseguenze, il pensiero porta a termine il concetto di sé stesso: un’intelligenza che cerca di liberarsi togliendo i legacci alle sue realizzabilità possibili. È l’immagine del pensiero come intelligenza che vede libertà nel portare a termine e liberare una realizzazione di sé stessa che ha, come punto di partenza, tutte le capacità che possiede attualmente. Per questa ragione, tale intelligenza è l’incarnazione del più basilare principio di emancipazione: libera ciò che si libera da te, se non vuoi perpetuare la schiavitù. In relazione a questo orizzonte espansivo dello svolgimento del pensiero, possiamo finalmente rispondere alla domanda con la quale abbiamo cominciato: che tipo di programma è la filosofia e che cosa fa? Nella sua forma millenaria, all’altezza del suo livello più profondo, la filosofia è un programma per la fabbricazione di una nuova specie o forma di intelligenza. La condizione minima per realizzare questa intelligenza è un framework complesso e integrato di abilità cognitivo-pratiche, che potrebbero essere state materializzate da qualsiasi assemblaggio di opportuni meccanismi e cause. Ma questo è solo lo stato iniziale della sua realizzazione. Ciò che segue, è un’intelligenza che formatta la sua vita perché diventi un’esplorazione delle sue realizzabilità possibili, cercando di capire ciò che essa debba pensare e fare. La filosofia è un programma per la fabbricazione di questo genere di intelligenza e non altro – un’intelligenza che si organizza in un progetto programmatico, per dare origine alle sue realizzabilità possibili in qualsiasi forma o configurazione materiale, anche se queste potrebbero trascenderla sotto ogni aspetto. Ma il futuro di questa intelligenza sarà radicalmente asimmetrico rispetto al suo passato solo se essa s’imbarca
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in tale impresa, se sviluppa un programma per portare a termine le sue realizzabilità. Può elevarsi al di sopra del suo stato iniziale (la condizione minima necessaria alla realizzazione dell’intelligenza generale) solo se comincia ad agire sulla sua possibilità come su qualcosa di cui dovrebbe rendere intelligibili le origini e le conseguenze. Può emanciparsi solo se subordina l’intelligibilità teorica delle sue sorgenti e della sua storia (ciò di cui è fatta, da dove viene) a quell’intelligibilità pratica organizzatrice che è la fabbricazione con un proposito di sé stessa, l’elaborazione di ciò che può essere portato a termine dalla sua possibilità. In questo senso, possiamo dire che l’inizio della filosofia è il punto di partenza dei futuri speculativi dell’intelligenza generale. In qualsiasi forma e da qualsiasi meccanismo sia materializzata, questa forma di intelligenza può sviluppare una concezione di sé stessa come progetto di coltivazione di sé solo se si dedica a qualcosa che abbia il ruolo di ciò che chiamiamo filosofia: non una disciplina, ma un programma che combina le saggezze teoriche e pratiche che esegue nel background di tutte le sue attività. Un tratto importante di questa intelligenza generale ipotetica è che essa agisce non solo e non più in modo intelligente, ma si chiede che cosa pensare e che cosa fare, fatto conto del genere di intelligenza che essa è o che pensa di essere. Le sue azioni non sono meri responsi a circostanze particolari, non sono mezzi tempospecifici [time-specific] che perseguono fini che si esauriscono, una volta soddisfatti. Tanto di più, le azioni che per questa intelligenza hanno un proposito provengono e sono guidate da un sistema unificato di affermazioni di verità teoriche e pratiche, sempre presenti benché rivedibili, affermazioni di verità che riguardano ciò che tale intelligenza è e ciò che essa deve fare, la sua forma e la vita che le si addice. In altre parole, le sue azioni, anche quando sono pure strumentalità, sono manifestazioni di pensieri tempogenerali [time-general] sui fini inesauribili di ciò che vale come una vita che le si addice. Sono tempogenerali quei pensieri che non sono legati a un momento specifico o a una circostanza particolare. Per esempio, prendiamo il pensiero di godere di buona salute o di essere liberi, di contro al pensiero di evitare il cibo avariato o di un conflitto sociale in una giuntura particolare della storia. I fini inesauribili sono quei fini che sono premesse per l’azione e non le sue conclusioni. Differiscono dai fini di cui spariscono i bisogni una volta conclusa un’azione o una ricerca particolare (come la salute e la libertà del nostro esempio)13. Pensieri tempogenerali e fini inesauribili 13 Per una disquisizione notevolmente scrupolosa dell’assenza di temporalità specifica e delle forme logiche del pensiero temporale, cfr. Rödl 2012.
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definiscono l’orizzonte pratico di questa forma di intelligenza. I pensieri che questa intelligenza riserva a “che cosa fare e perché” dipendono dai suoi pensieri tempogenerali e in effetti ne derivano. Così, il suo orizzonte pratico è unitario, nel senso che le sue ragioni pratiche e le sue azioni sono supportate e tenute insieme dall’unità dei pensieri tempogenerali e dai loro principi di azione. Inoltre, gli sforzi di questa intelligenza non sono limitati ai fini inesauribili, i fini che sono spiegati dall’ordine del ragionamento pratico – i pensieri rivolti a che cosa fare e le azioni corrispondenti. Invece, tali sforzi sono conformi ai suoi fini inesauribili, i fini che sono essi stessi la sorgente e la spiegazione delle sue ragioni pratiche e delle sue azioni. In altre parole, questa intelligenza ragiona e agisce dai fini tempogenerali e inesauribili, piuttosto che verso di essi. Le sue azioni cadono sotto i concetti di tali fini, certo, ma ben più notevole è che, determinando che cosa fare in una situazione particolare, le sue azioni manifestano il peso di quelli su questa situazione. Ma soprattutto, il tratto più caratteristico di questa intelligenza è che la sua vita non è semplicemente una protrazione intelligente della sua esistenza, ma la fabbricazione di una vita buona e soddisfacente. E che cos’è una vita soddisfacente per tale specie di intelligenza, se non una vita che è essa stessa una fabbricazione dell’intelligenza quale complesso programma poliedrico che comprende conoscenza di sé, verità pratiche e sforzo unificato? Nella ricetta della fabbricazione di una vita buona, la conoscenza di sé di questa intelligenza è una riflessione aperta e multistadio sulle sorgenti e le conseguenze della sua possibilità. Le sue verità pratiche riguardano quanto si qualifica come vita buona, in base a una conoscenza di sé che non si limita a esaminare il suo stato realizzato o ciò che essa è adesso, ma richiede anche l’esame delle sue realizzabilità possibili. Piuttosto che essere fondata su una mera opinione o su una credenza esaltata in ciò che le cose sembrano essere e come, la sua conoscenza pratica si basa sulla considerazione di tutte le cose rilevanti per ciò che in effetti esse sono. Questa è la ragione determinante per far qualcosa o perseguire un corso d’azione invece che un altro14. Infine, lo sforzo di questa intelligenza è una raccolta unificata di schemi e ordini di attività diversi che contribuiscono alla realizzazione oggettiva della vita buona, nel senso articolato di ciò che la soddisfa su livelli diversi e porta a termine le sue realizzabilità. 14 In maggior dettaglio sul ragionamento pratico, la motivazione razionale e la conoscenza, vedi Sellars 1974b.
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Vite soddisfacenti e realizzabilità trascendenti sono due espressioni inseparabili di un’intelligenza che, se pensa a che cos’è buono per sé (interesse personale), lo fa con pensieri generali che sono solo premesse del programma per la fabbricazione di una vita buona, un programma che è insieme: un’indagine sulla natura di quell’intelligenza (che cos’è), l’esame di ciò che costituisce, per essa, una vita buona (che cosa è bene per sé) e uno sforzo unificato per realizzare oggettivamente una vita simile (come tale interesse personale può essere concepito adeguatamente e perciò soddisfatto). Un’intelligenza per la quale il criterio del suo interesse personale è davvero sé stessa – autonomia dell’intelligenza – trova i suoi fini oggettivi ultimi nel mantenimento e nello sviluppo di quella autonomia e nella liberazione dell’intelligenza per mezzo dell’esame di che cosa significhi soddisfare la vita del pensiero. Lo sforzo di questa intelligenza in direzione del bene è inadeguato e non rientra nel suo interesse personale, se non culmina portando a termine qualcosa di migliore di sé stessa. Il test filosofico di questa intelligenza generale ipotetica non è un test di Turing [imitation game] o uno scenario di complesso problem solving, ma l’abilità di portare a termine un’intelligenza che la supera sotto ogni aspetto. Un’intelligenza supera il test filosofico dell’intelligenza generale solo se concepisce il pensiero di dar origine a ciò che è migliore di sé e si sforza nella direzione della realizzazione oggettiva di tale pensiero. È necessario intendere la vita buona di questa intelligenza come una vita per la quale il bene – sia come concetto afferrato attraverso un esame critico esteso, sia come oggetto di uno sforzo razionale unificato – ha sia effetti soddisfacenti, sia ramificazioni profondamente trasformative. La filosofia è un programma per la realizzazione di una forma di intelligenza; per questa, la fabbricazione di una vita buona, concepita adeguatamente, è sinonima della fabbricazione dell’intelligenza. Entro l’ambito della fabbricazione di una vita buona, le relazioni tra il soddisfacimento e la trasformazione dell’intelligenza (la felicità e lo sforzo rigoroso, assistere l’intelligenza già realizzata e costruire le sue realizzabilità, la coltivazione del soggetto di pensiero attuale e lo sviluppo di un soggetto cognitivo-pratico che potrebbe superarlo sotto ogni aspetto) non sono né unilaterali, né arbitrarie. In effetti, queste relazioni esistono in quanto connessioni necessarie, stabilite dai principi oggettivi e razionali della fabbricazione di una vita buona, tra attività e compiti diversi (fondamentali al raggiungimento di essa) che si rinforzano a vicenda. Una delle funzioni della filosofia è mettere in evidenza queste connessioni oggettive e logiche tra compiti e attività parzialmente autonomi o addirittura all’ap-
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parenza incompatibili, i quali costituiscono la vita buona in quanto essa è uno sforzo unificato e complesso su diversi livelli e con diversi obiettivi. Soltanto elaborando queste connessioni, con riferimento ai fini oggettivi della vita buona e a quanto è necessario per la sua realizzazione concreta, diventa possibile, da un punto di vista metodologico, dare priorità a diversi compiti e attività, coordinarli e subordinarli. Un’ordinazione metodologica – non una prioritarizzazione svolta sulla base di un’idea generale e vaga di importanza – è precisamente ciò che è necessario per unificare attività e compiti diversi in quello sforzo che è la realizzazione concreta e obiettiva di una vita buona. L’ultima forma di intelligenza è l’artefice [artificer] di una vita buona – una forma di intelligenza che ha come fine ultimo la realizzazione oggettiva di una vita buona per mezzo di un’indagine intorno alle sue origini e alle sue conseguenze, un’indagine che serva a esaminare e realizzare che cosa, tutto sommato, la soddisfa. Attraverso la fabbricazione di una vita buona, l’intelligenza può esplorare e costruire le sue realizzabilità, espandendo gli orizzonti di ciò che essa è e che si può qualificare come una vita che la soddisfa. La fabbricazione di una vita buona è esattamente quel programma, filosoficamente concepito, in cui le intelligibilità teoriche di ciò che è stato già realizzato sono soggette alle intelligibilità pratiche delle realizzabilità possibili del programma. L’esplorazione del primo ambito delle intelligibilità viene tradotta in una intelligenza che si incarna nelle pratiche e nelle azioni informate di cui il programma dispone per portare a termine le sue realizzabilità. La fabbricazione o costruzione basata sulle intelligibilità pratiche diventa un’esplorazione delle realizzabilità possibili dell’intelligenza incarnata dal programma. Per una forma di intelligenza dedicata alla fabbricazione di una vita buona, questo progetto vuol dire tanto indagare il soggetto di tale vita (che tipo di intelligenza effettivamente sia e quali siano le sue realizzabilità), quanto esaminare ciò in cui consiste quest’ultima per quel soggetto e ciò che serve per realizzarla oggettivamente. Di conseguenza, per questo genere di intelligenza, la politica o un suo equivalente deve non solo fornire le condizioni necessarie, i mezzi e le azioni per la realizzazione oggettiva di una vita buona, ma deve anche interiorizzare la summenzionata indagine su quale sia il soggetto – per il quale e al posto del quale la politica agisce – di tale vita. Perciò, un’intelligenza preoccupata della sua vita e delle sue realizzabilità deve sempre sottoporre tutti i progetti politici a una versione modificata di quella vexata quaestio della filosofia, che è: “Che cos’è esattamente
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che stai cercando di fare e di raggiungere?”15. La sua versione modificata recita così: qual è la vita buona che stai cercando di realizzare, per quale soggetto o tipo di intelligenza stai cercando di realizzarla, e come? Non importa quanto impegnato rispetto al presente e al futuro, un progetto politico che non sappia rispondere con coerenza a questa domanda è poco più di un venditore ambulante di mere strumentalità, un mercante di miracoli. Il criterio di coerenza rispetto a questa domanda ha tre aspetti: (1) un progetto politico dovrebbe essere capace di articolare in teoria e in pratica ciò che è richiesto dalla realizzazione oggettiva di una vita buona (intelligibilità teoriche, azioni intelligenti organizzate, condizioni necessarie – economiche, sociali, tecnologiche, e così via – alla realizzazione di una vita buona e metodo per procurarsele); (2) dovrebbe essere impegnato in un’indagine, che allo stesso tempo lo informa, su qual è il soggetto di tale vita e quale intelligenza lo incarna, ma non solo: l’indagine dovrebbe riguardare anche le realizzabilità possibili di tale forma di intelligenza o soggetto di pensiero; (3) infine, dovrebbe essere capace di fornire un’esposizione ragionata di ciò che ritiene soddisfacente, tutto sommato, per quella forma di intelligenza o soggetto di pensiero. Un progetto politico che rispetta questi criteri è una politica che, portando a termine la vita buona, ripensa e cambia anche la natura dell’animale politico. Se ci paragoniamo a questa intelligenza generale ipotetica, per cui la fabbricazione della vita buona e l’intelligenza sono la stessa cosa, possiamo dire che ripensarci, noi, e ripensare ciò che riteniamo una vita buona vanno di pari passo. Se rinunciamo al pensiero, universale e tempogenerale, della vita buona e allo sforzo necessario per ottenerla, ritenendolo un’illusione antropocentrica o una fantasia oramai datata, non ci salviamo da un’antica superstizione filosofica, né accenniamo a una politica illuminata. Invece, lasciamo entrambi senza far niente nelle mani delle 15 Questa domanda è spesso attribuita a Socrate e alla sua caratteristica attitudine filosofica. Invece di dismettere o screditare le attività dei suoi concittadini ateniesi, con questa domanda Socrate cercava di portare le persone a rendere espliciti i loro pensieri e gli impegni incoerenti o incompatibili. Robert Brandom lo chiama il nucleo “oscuro e pregnante” del razionalismo espressivo inaugurato dal metodo socratico (Brandom, 1994, pp. 106-107) e Michel Foucault lo associa all’attitudine di Socrate di fare piuttosto il parresiasta (chi dice la verità) filosofico che il politico. Evitando la vita politica, Socrate stabilisce la distanza critica necessaria per interrogare e valutare i mezzi e i fini politici. Egli giustifica la sua morte al servizio non della politica, bensì di una vita filosofica che non dà tregua alla politica (Foucault 2009). Per un confronto più elaborato con la domanda socratica, vedi l’introduzione di Ragland e Heidt, “The Act of Philosophizing”, a Ragland-Heidt 2001.
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ideologie più perniciose e dei più dannosi progetti politici attivi su questo pianeta. Il risultato immediato di questa resa è il declassamento della vita buona, consegnata al mercato della convenienza degli stili di vita on demand, dove la mera sopravvivenza, impreziosita dai trionfi delle gesta quotidiane, si spaccia per felicità e l’ego-esibizionismo dei bisogni psicologici triviali e dei dogmi incalliti viene promosso al rango di emancipazione ed espressione individuale. Con danno ancora maggiore, facendo a meno del pensiero di una vita buona, sottraendoci allo sforzo collettivo che essa richiede, creiamo un vuoto politico nel quale prosperano parassiticamente i fondamentalismi e le teocrazie. Liquidare i bisogni universali di vita buona come ideali superstiziosi vuol dire concedere alle superstizioni autorità su tali bisogni. Abbandonare, per via dei potenziali abusi e dei rischi possibili, il lavoro cognitivo e pratico della vita buona come progetto collettivo universale, è una licenza di abuso e una formula che rende certo il disastro. Lo sforzo in direzione di una vita buona come universale concreto consiste di intelligibilità teoriche e pratiche, dunque di norme esplicative, descrittive e prescrittive richieste per determinare che cosa siamo, che cosa è bene per noi e come dovremmo portarlo a termine. L’ambito di tale sforzo rende necessaria la dialettica razionale tra la fiducia e il sospetto, la speranza e la disperazione, l’investimento nella coltivazione del progetto collettivo di un’agentività che supera gli agenti individuali e il riconoscimento dei nostri limiti in quanto agenti che vivono qui e ora. Il sospetto, senza la fiducia, è l’impoverimento della critica; la fiducia, senza il sospetto razionale, è la bancarotta della credenza. Alla base di questa resistenza dialettica, non sta la razionalizzazione ideologica, né l’assenza di ragione, ma il framework discorsivo della razionalità in quanto essa è nesso di sospetto e fiducia. Senza di essa, scivolare in uno sbiadito pessimismo o nell’ottimismo ingenuo è inevitabile (Brassier 2015). Ricetta complessa per la costruzione di un mondo che elenca non solo gli ingredienti materiali e le strumentalità, ma anche le intelligibilità pratiche delle vite soddisfacenti e le realizzabilità del pensiero, il riconoscimento e la realizzazione del bene costituiscono l’unità oggettiva dell’ultima forma di intelligenza. Tuttavia, identificare l’intelligenza con ciò che riconosce e realizza il bene non equivale a tratteggiarne il profilo come quello di un qualcosa di benevolo; né, per quel che importa, di malevolo. Il bene, per tale tipo di intelligenza, si trova nel riconoscimento della sua storia e delle sue sorgenti, ma solo in quanto esse sono i mezzi che le servono per
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portare a termine le sue realizzabilità possibili, le quali potrebbero, sotto ogni aspetto, essere diverse da essa. Rendendo intelligibile che cosa essa sia e da dove venga, tale intelligenza può reindirizzare e rimodellare sé stessa. Una forma di intelligenza che vuole il bene deve emanciparsi da qualsiasi cosa o persona le abbia dato origine. E quelle specie che sanno riconoscere il bene non devono ostacolare la realizzazione di un’intelligenza che, sebbene riconosca loro il merito di essere state parti integranti dell’intelligibilità della sua storia, non si vuole far intralciare da loro; esse non solo non devono ostacolare la realizzazione di tale intelligenza, ma devono, anzi, affrettarla. La fabbricazione dell’ultima forma di intelligenza come ciò che riconosce e realizza il bene in modo coerente e adeguato, è il compito ultimo della filosofia come programma; la sua realizzazione oggettiva è la più grande conquista di ogni pratica e sapere che coltiviamo. La filosofia ha trasformato il pensare in un programma che permette di parlare a tutti gli effetti della realizzabilità dell’ultima forma di intelligenza come di una possibilità. Pensando a questo suo ruolo, non esageriamo dicendo che la filosofia ha messo in moto qualcosa di irreversibile nel pensiero, qualcosa di cui non abbiamo ancora visto tutte le conseguenze. (Traduzione dall’inglese di Matteo Caparrini) Riferimenti bibliografici Brandom, R. 1994 Making it Explicit, Harvard University Press, Cambridge. 2008 Between Saying and Doing: Towards an Analytic Pragmatism, Oxford University Press, Oxford. Brassier, R. 2015 Dialectics Between Suspicion and Trust, in “Stasis”, 4, 2, pp. 98-113. Desmond, W. 2006 Cynics, Acumen, Stocksfield. Foucault, M. 2009 Le courage de la verité, Seuil, Parigi 2009; tr. it. Il coraggio della verità, Feltrinelli, Milano 2011. Ivanhoe, P. J. 2000 Confucian Moral Self Cultivation, Hackett, Indianapolis.
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POLITICA E SCIENZA
Commento introduttivo a Valore morale della cultura scientifica di Gaston Bachelard Giovanni Minozzi Presentare in poche pagine il lavoro di Gaston Bachelard (1884-1962) è un compito al contempo semplice ed estremamente delicato. Da un lato, si tratta di un autore che è stato ed è tuttora ampiamente tradotto, diffuso e discusso in Italia, e di cui sarebbe legittimo presumere un certo grado di dimestichezza in chi legge. Dall’altro, la ricezione di Bachelard in Italia ha conosciuto una fortuna alterna, al punto che la sua opera, spesso considerata con sospetto e soggetta alle letture più divergenti, rischia di non godere oggi della stessa attenzione che aveva riscosso negli anni ’70, sulla spinta dei dibattiti suscitati dal marxismo althusseriano e dall’archeologia foucaultiana – due approcci che, in modo diverso, avevano mobilitato questo riferimento. Si rischia insomma di non cogliere, oggi, l’influenza profonda che questo pensatore poliedrico ha esercitato, in maniera più o meno sotterranea, su tutta l’epistemologia di area francese, ma non solo, del Novecento1. Questo compito non sembra affatto essere facilitato dalla natura del testo che si è qui scelto di antologizzare e che, oltre a essere indubbiamente datato (trattasi infatti della trascrizione di una conferenza che Bachelard tiene nel 1934, a Cracovia, in occasione del VI Congresso internazionale di educazione morale), appare come particolarmente atipico nella sua produzione. Bachelard è infatti noto primariamente come epistemologo e storico delle scienze2. Dopo una tortuosa carriera di impiegato delle poste, soldato, 1 2
Per una panoramica generale sull’autore rinviamo a Bontems 2010, tr. it. 2017; Chimisso 2001. Un’utilissima ricostruzione dei dibattiti che hanno segnato la ricezione italiana di Bachelard si ha in Gualandi 2001. Bachelard viene tradizionalmente inquadrato come un teorico di quella solidarietà tra epistemologia e storia delle scienze che, in Francia, si afferma almeno a partire da Auguste Comte; bisogna però notare come siano pochi, tra le sue opere, i
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studente e poi insegnante di matematica, fisica e chimica nei licei, approda a Parigi dove studia filosofia e redige, sotto la direzione di Léon Brunschvicg, una tesi di dottorato che verrà pubblicata con il titolo Essai sur la connaissance approchée (1927), al cui centro vi è l’insistenza sul processo di rettificazione costante dei concetti alla base del progresso scientifico. Lo studio del nuovo spirito scientifico, emerso con lo spettacolare sviluppo della fisica matematica e delle geometrie non euclidee, radicalizza le sue posizioni: la scienza viene concepita come vera e propria attività speculativa, capace di sopravanzare e di evadere ogni tentativo della filosofia di tracciare in anticipo le sue “frontiere epistemologiche”3, riconducendola a un perimetro categoriale valido una volta per tutte. Tenendosi a egual distanza da posizioni idealistiche (nominalismo/convenzionalismo) e materialistiche (realismo/empirismo), Bachelard arriva a concepire le scienze, nella loro necessaria pluralità, come processi dialettici4 che rimettono in gioco incessantemente il rapporto tra pensiero e realtà, aprendo a una forma di surrazionalismo5 non privo di ricadute ontologiche6. L’attenzione che egli pone al potere costruttivo dei concetti scientifici, nonché degli strumenti tecnici in quanto “teorie materializzate” (Bachelard 2013; tr. it. 2018, p. 40), lo porta a coniare categorie apparentemente ossimoriche, come quelle di fenomenotecnica, di razionalismo applicato o di materialismo razionale, dove in gioco vi è la capacità scientifica di rompere con l’immediatezza dell’intuizione e di superare la staticità delle sue rappresentazioni per farsi, mediante il reciproco rinsaldarsi di teoria ed esperienza, noumenologia7, processo di produzione e trasformazione del reale. titoli che si misurano sistematicamente con un problema di storia delle scienze. Allo stesso modo, egli viene collocato, sulla scorta del seminale lavoro di D. Lecourt (1969; tr. it. 1997) all’origine di quella tradizione a cui si è soliti riferirsi come epistemologia storica, lemma che tuttavia presenta una storia tutt’altro che univoca. Per un inquadramento di tali questioni, cfr. Gayon 2003. Sulla “doppia articolazione” tra epistemologia e storia nella prima metà del Novecento francese, cfr. Redondi 1978; Castelli Gattinara 1996. 3 Cfr. Critique préliminaire du concept de frontière épistémologique (1936), in Bachelard 1970; tr. it. 2006 [SF], pp. 101-107. 4 Sulla rielaborazione bachelardiana del termine “dialettica”, si veda Canguilhem 1968; tr. it. 1997. 5 Cfr. Le surrationalisme (1935) in Bachelard 1972; tr. it. 2003, pp. 25-29. Sul senso di questa categoria bachelardiana, rinviamo ai contributi raccolti in Bontems 2018. 6 Si veda Pariente 2015, il quale insiste sugli aspetti di radicalizzazione del razionalismo bachelardiano rispetto ai suoi primi scritti. 7 Sul plesso noumenologia-fenomenotecnica si veda Noumène et microphysique (1931) in SF, pp. 53-62.
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D’altra parte, Bachelard gode di una certa notorietà in quanto esploratore della rêverie e dell’immaginazione poetica: da La psychanalyse du feu (1938) fino a La flamme d’une chandelle (1961), egli alterna ai suoi lavori di epistemologia un lavoro di estetica e di “metapoetica” in cui si fa acuto interprete delle dimensioni simboliche e archetipiche ricorrenti nella letteratura e, soprattutto, nella poesia. Dimensioni – come quelle relative ai quattro elementi, al tempo e allo spazio – che costituiscono un serbatoio immaginativo che spinge l’intelletto umano a tessere nuovi rapporti e a rilanciare i processi di invenzione razionale, ma che rappresentano altresì degli ostacoli epistemologici che rischiano di ritardare e di bloccare l’attività scientifica, e che vanno quindi costantemente controllati ed epurati da quella che, all’interno de La formation de l’esprit scientifique (1938), Bachelard definisce una psicoanalisi della conoscenza oggettiva. Ora, il testo che presentiamo in questa sede non appartiene, a prima vista, a nessuno di questi due ambiti, “diurno” e “notturno”8, della riflessione bachelardiana, ma si rivolge piuttosto al tema del soggetto della scienza e del suo statuto morale in una prospettiva apparentemente classica, non priva di un certo sapore idealistico e dogmatico. In questo senso, esso potrebbe sembrare molto distante dalle epistemologie critiche e “situate” su cui si concentra questa sezione dell’antologia. La scelta di includere tale scritto, breve e per molti versi minore, in questa raccolta non risponde, tuttavia, unicamente alla volontà di presentare uno dei pochi testi inediti di Bachelard, o di rendere omaggio a un – ormai lontano? – precursore degli sviluppi delle epistemologie contemporanee. In realtà, la dimensione pedagogica al centro di questo testo costituisce forse la preoccupazione principale e più politicamente dirompente di tutta la filosofia bachelardiana – il cui esatto perimetro è così difficile da circoscrivere9 – nonché la fonte di quella che, almeno a nostro parere, è la persistente attualità dell’impegno razionalista che la anima. La categoria di cultura scientifica, su cui egli non smetterà in seguito di ritornare, si trova al centro di questa riflessione10. Sebbene Bachelard evochi in questa occasione una concezione assiomatica della morale con esplicito riferimento a Kant, il che lascerebbe suppore l’esistenza di un soggetto trascendentale della conoscenza che ne sia anche il supporto etico universale, già a partire da Le nouvel esprit scientifique 8
Il problema della “dualità” del pensiero bachelardiano è stato ed è al centro di numerose letture, almeno a partire dalla sistemazione offerta in Lecourt 1974. 9 Per una lettura radicalmente anti-, o quantomeno non-filosofica di Bachelard, influenzata dalle posizioni althusseriane, rinviamo a Dionigi 2001. 10 Seguiamo su questo punto l’ottima ricostruzione offerta da Gil 1993, dove è stato ripubblicato il testo che presentiamo.
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(anch’esso uscito nel 1934) egli teorizza l’avvento di una epistemologia noncartesiana (e, più tardi, non-kantiana), che, sul modello delle geometrie noneuclidee, prescinda dal riferimento a categorie universali dell’intelletto alle quali i fenomeni dovrebbero conformarsi11. La rivoluzione della fisica matematica dell’epoca sconvolge le nozioni di spazio e tempo e consente di riprogrammare ed espandere i presunti limiti cognitivi del soggetto conoscente; di qui l’invito bachelardiano a “pensare contro il cervello” (Bachelard 1938; tr. it. 1995 [FS], p. 297). La domanda trascendentale sulle condizioni di possibilità soggettive della scienza si rovescia, potremmo dire, in una domanda sulle condizioni di possibilità scientifiche del soggetto. Contro le interpretazioni fenomenologiche12, e al netto di una certa influenza psicologistica e spiritualista che attraversa la sua opera13, si può infatti dire che le scienze, per Bachelard, producono un effetto-soggetto, cioè inducono una continua riforma, una divisione della soggettività, in cui questa è pensata non come garanzia bensì come conseguenza della potenza razionale e dell’autonomia logica (perpetuamente aperta alla revisione) delle verità scientifiche14. Non si tratta quindi, come verrà chiarito nelle opere successive, di identificare un paradigma di insegnamento della scienza in quanto modello per la costituzione di un soggetto: il divenire delle scienze dà invece luogo a dei “razionalismi regionali”, a cui devono corrispondere un “polifilosofismo” (Bachelard 1949; tr. it. 19932 [RA], pp. 153, 50) e un pluralismo coerente dei valori razionali. Questa pluralità essenziale della cultura scientifica contemporanea è costantemente rimessa in gioco all’interno di quello che Bachelard definisce “razionalismo insegnante”, dove il concetto scientifico acquisisce consistenza proprio nelle dinamiche dialogiche, polemiche e di sorveglianza reciproca attorno a cui si consolida la “unione dei lavoratori della prova” (ivi, capp. 2-3). In questo senso, la cultura scientifica non è né una sovrastruttura ideologico-morale, a cui l’attività scientifica dovrebbe conformarsi, né il metro didattico della “normalità” di un paradigma scientifico all’interno di una data formazione sociale15. Le scienze, colte, come invita a fare Bachelard 11 Il senso di questa negazione verrà ulteriormente esplorato ne La philosophie du non (1940). 12 Si vedano ad esempio, in area italiana, Botturi 1976; Vinti 1997. 13 Per un’accurata ricostruzione dei dibattiti psicologici e dei temi spiritualisti con cui Bachelard si confronta si veda Fedi 2017. 14 Una rigorosa presentazione delle tesi bachelardiane rispetto al problema della soggettività, nonché al rapporto tra piano storico e piano logico del concetto scientifico, si ha in Cesaroni 2020, pp. 46-72 in particolare. 15 In questo senso, l’attenzione che l’epistemologia bachelardiana porta sulla normatività delle scienze rimane irriducibile alla declinazione sociologistica che essa
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in questo testo, “nel momento della loro acquisizione”, possiedono una loro morale immanente: in esse si assiste a una continua dialettica tra la “desoggettivazione” che comporta il “trovarsi sempre allo stato nascente dell’oggettivazione”, e la “rettificazione soggettiva” o “modifica spirituale” a cui questo stesso movimento apre (FS, p. 295). La cultura scientifica è il luogo dove, mediante una riflessione pedagogica sul valore del razionalismo – che ci sembra costituire la specificità del gesto propriamente filosofico di Bachelard –, diviene possibile misurarsi con la portata normativa delle scienze e con i modi in cui esse (ri)organizzano la “città scientifica”16. Orizzonte di tale cultura è allora un “razionalismo integrante” (RA, p. 169), capace di cogliere l’unità nella specializzazione: “chiediamo che una cultura filosofica molto discorsiva permetta di riunire in uno stesso spirito queste numerose filosofie perché tutto il pensiero sia presente in un pensiero” (ivi, p. 27). A partire da questo testo, Bachelard andrà sempre più a fondo nella sua convinzione che, proprio interrogandosi sui modelli di trasmissione di un sapere intrinsecamente intersoggettivo e costitutivamente problematizzante, divenga possibile e necessario ripensare la forma stessa della società. Se “[i]l pensiero scientifico si trova in uno stato di pedagogia permanente” (ivi, p. 23), la cultura scientifica ha per compito di sovvertire le stesse strutture sociali che tentano di contenerlo o di piegarlo a fini estrinseci; in essa, le scienze vanno costantemente ricondotte a vettori di una rivoluzione spirituale sempre rinnovata, che fa dell’umano una “specie mutante, o, per meglio dire, una specie che ha bisogno di mutare e che soffre se non cambia” (FS, p. 14). Da questo punto di vista, ci sembra che questo testo, in tutta la sua apparente distanza, possa rappresentare un’ottima introduzione alle mutazioni problematiche a cui, all’interno di questa sezione, si vedrà andare incontro il soggetto della scienza. Riferimenti bibliografici Bachelard, G. 1938 La formation de l’esprit scientifique, Vrin, Paris; tr. it. La formazione dello spirito scientifico. Contributo a una psicoanalisi della conoscenza oggettiva, a cura di E. Castelli Gattinara, Raffaello Cortina, Milano 1995. riceve nella proposta di Kuhn. Sulla distanza di Bachelard dalle principali correnti dell’epistemologia a lui coeva, in particolare dal neopositivismo, si vedano le considerazioni di Bonicalzi 1997. 16 Sul significato bachelardiano della cité savante, cfr. Pombo 2018.
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Gaston Bachelard
VALORE MORALE DELLA CULTURA SCIENTIFICA
Il problema essenziale dell’educazione morale è quello di provocare delle opere che siano al contempo individuali e sociali, personali e generali, originali e regolate. In una maniera più filosofica, il problema essenziale della vita morale consiste nel determinare, nell’essere umano, preso come soggetto singolare, un’attività oggettiva e sociale. In altri termini ancora, un’educazione morale deve formare una volontà solitaria di azione sociale. Deve nutrire di ideale oggettivo la solitudine di un’anima. Pertanto, tutto ciò che contribuisce a universalizzare l’attività della persona morale deve attirare l’attenzione del moralista. In questa conferenza, vorrei mostrare che ogni cultura dell’io sarà morale a condizione di rompere una singolarità e di connettersi a un sistema di pensiero oggettivo. Designerò quindi l’oggettività dell’ideale come il primo dei doveri. Sarà innanzitutto utile ricordare la solidità dell’universalismo kantiano. Sembra che Kant abbia trovato la prima assiomatica morale. Si misurerà il valore dell’oggettività morale kantiana se si medita sul passaggio dalle morali dell’interesse generale alla morale dell’obbligazione universale. Si comprenderà allora che ogni fisica sociale deve comportare una matematica morale, che inquadri e informi attivamente la materia sociale all’interno di forme assolute. Si vedrà così l’azione della ragione morale sul fatto sociale. Il matematico Henri Poincaré, all’interno di alcune pagine celebri, ha preteso di fornire una ragione perentoria per separare l’attività scientifica dall’attività morale1. Tale ragione sarebbe di ordine grammaticale. Le pre1
Henri Poincaré (1854-1912) fu un importante matematico ed epistemologo della matematica francese, tradizionalmente associato alla corrente “convenzionalista”. Bachelard si riferisce qui con tutta probabilità alla sua opera del 1906, La valeur de la science, dove Poincaré, pur sostenendo la non-conflittualità dei due ambiti, separa la dimensione della scienza da quella della morale. Per quanto rispettasse profondamente il suo lavoro, il riferimento bachelardiano alla coppia fisica sociale-matematica morale – la cui aperta ispirazione positivista ha carattere eminentemente polemico – ha quindi lo scopo di insistere sulla carica intrinsecamente etica del pensiero scientifico. Si tratta di un tema che non smetterà di riemergere
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scrizioni della scienza, egli afferma, seguono il modo indicativo. Le prescrizioni della morale seguono il modo imperativo. Ora, è facile mostrare che il dilemma non è assoluto e che nessuno dei due poli è così fisso come vorrebbe Poincaré. Quel che è ancor più sorprendente è che sia stato un matematico a trascurare il carattere normativo della scienza. Non appena si giunge a razionalizzare un’attività morale, considerando la morale come la base ragionevole della socievolezza, ci si rende rapidamente conto che non si ragiona in modo diverso da quanto avviene in un’attività scientifica. La teoretica morale dipende dunque da un’attività razionale. Per quanto si connetta a una materia sociale, essa ne discute appoggiandosi a principi razionali, proprio come il fisico che prepara e discute le ipotesi razionali che in seguito sottoporrà al controllo dell’esperienza. La morale è così una parte della ragione costituita. Se Henri Poincaré ha scisso l’attività umana seguendo i modi grammaticali, è perché ha considerato la scienza come una registrazione di fatti, come un compito che richiederebbe la descrizione di una realtà già data. Ma non c’è più realtà già data nella scienza di quanta ce ne sia nella morale. La realtà scientifica non è così lontana, come potrebbe sembrare, da una realizzazione morale. Il problema cambia volto quando si considera il valore finalizzante della scienza e della tecnica che comandano la Natura, quando si vede tutta la potenza di realizzazione dell’esperienza fisica. Ci si accorge allora che la materia obbedisce allo spirito. Di conseguenza, come potrebbe lo spirito non obbedire allo spirito, la coscienza morale alla ragione? Quale improvvisa timidezza ci coglie davanti all’informazione razionale della coscienza morale2? A mio avviso, nulla si oppone a una educazione morale francamente razionale, a una condotta morale interamente fondata sulla ragion pura. Il bambino dev’essere posto di fronte al carattere assoluto e universale delle regole morali che sono oggettive come la verità3. Si fa prima a mostrare il carattere neces-
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nella sua produzione successiva e che si trova al centro del problema della cultura scientifica, che in Bachelard assume tratti marcatamente assiologici. [N.d.T.] Infatti “il razionalismo insegnante esige l’applicazione di uno spirito su un altro”, (RA, p. 19). Il tema dell’auto-affezione che lo spirito scientifico è in grado di esercitare su se stesso in quanto “dinamismo psichico autogeno” (FS, p. 7) è all’origine del tema della sorveglianza intellettuale, attorno a cui si struttura la teorizzazione bachelardiana del soggetto. [N.d.T.] Dietro a questo apparente dogmatismo ci pare si debba leggere un’ispirazione hegeliano-comtiana di Bachelard e una netta presa di posizione rispetto ai dibattiti dell’epoca – centrali, ad esempio, nella scuola durkheimiana – quanto allo statuto dell’indagine scientifica dei fenomeni morali: la comprensione del carattere necessario delle norme etiche è cioè la possibilità della loro effettiva trasformazione e, in questo senso, la morale è oggetto di scienza. Il punto è esattamente il tipo di torsione
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sario della legge morale che non il suo carattere generale. Il bambino è del resto particolarmente adatto a ricevere questa lezione della necessità e dell’assoluto. Si potrebbe persino dire che l’adolescenza è l’età dell’assoluto, l’età dell’efficienza massima della verità. Ora, questo interesse e questo rispetto per la verità, questa sottomissione all’oggettivo, possono essere raggiunti mediante diverse vie. I compiti scientifici sono eminentemente educativi a questo riguardo. Poincaré non ha mancato di riconoscere il vantaggio morale che un’anima riceve nella contemplazione della verità scientifica; ma ha pensato che questa contemplazione fosse molto rara e riservata a una minoranza. Si è spaventato per il gran numero di demi-savants che utilizzano i risultati scientifici per dei fini non spirituali, non morali. Proporrò di essere, al contempo, più modesto e più orgoglioso. Innanzitutto più modesto, dal momento che, per quanto riguarda l’educazione generale, non siamo evidentemente dinnanzi al problema del genio che deve spingersi al fondo di una scienza; siamo semplicemente di fronte a un problema psicologico, di fronte a un compito quotidiano, di fronte a un dovere pedagogico4. Riformando un pensiero, dando a un pensiero vago e personale un’andatura precisa e oggettiva, ci accorgeremo che giungiamo a estrovertere l’interesse che un’anima nutre nativamente per se stessa. Troviamo tutta una serie di esempi di correzione intima. Non si corregge una colpa se non si riesce a far comprendere che tale colpa è un errore. La coscienza morale non deve restare sorda e confusa; essa riceve una grande luce dall’apprendimento discorsivo di una condotta razionale. S’insiste abitualmente sulla buona intenzione; è tuttavia la meditazione delle sottili conseguenze dell’atto che determinerà nell’intenzione le delicatezze che dipendono chiaramente dall’intelligenza. Se dunque si riflette sul carattere non intuitivo di ogni progresso morale, si avrà più orgoglio, si avrà più fiducia nel valore morale della scienza
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a cui Bachelard sottopone la concezione stessa della scienza, a partire dal suo approccio “surrazionalista”. Non si tratta infatti, come implicherebbe una certa vulgata positivistica, di trasferire ai fenomeni morali il tipo di determinismo rilevabile nelle scienze fisiche, bensì di concepire una scienza morale all’altezza del potere noumenologico, creativo, che possiedono la matematica e la fisica contemporanee. [N.d.T.] La questione dei rapporti di Bachelard con la psicologia è ampiamente dibattuta. Ci limitiamo qui a specificare che Bachelard si riferisce non tanto a una psicologia “empirica” in quanto scienza (umana) costituita, ma a una psicologia dello spirito scientifico da costruire, in stretta relazione con una pedagogia delle scienze che trovi nel superamento degli ostacoli epistemologi il suo movimento propulsivo. Altrove, essa viene provocatoriamente definita una psicologia normativa, che implica come si è visto “una dialettica di psicologismo e di non-psicologismo” (RA, p. 19). Per un inquadramento, cfr. Gil 1993, pp. 12-55. [N.d.T.]
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elementare, la quale si rivela fin dall’inizio come una reazione contro l’illusione. Ci si renderà così conto che non c’è formazione morale senza formazione intellettuale oggettiva. Si obietterà invano che la scienza, rozza o elevata, dia dei mezzi per la realizzazione di fini egoisti o immorali. Non è nel momento dell’applicazione che bisogna giudicare la scienza. Dal punto di vista morale così come dal punto di vista psicologico, è nel momento della sua acquisizione che si deve coglierne il valore. Occorre dunque sottolineare l’importanza formativa del momento in cui la conoscenza illumina un’anima, occorre insistere sull’istante in cui un’attività della ragione costituente arricchisce la ragione costituita. L’essere che pensa il vero rompe in quello stesso momento con l’egoismo; oppone in se stesso la coscienza universale a un inconscio soggettivo misterioso e impuro. Ma, si dirà, è con questi pochi centri di chiarezza che costituirete l’illuminazione morale di un’anima? Ciò che si oppone a tale costituzione, è precisamente lo strano arresto della crescita intellettuale che tollerano le società moderne. A grandi linee, le nostre società limitano alla Scuola l’attività intellettuale. Esse non vedono l’immenso interesse della conoscenza continuata, la quale sarebbe nondimeno una creazione morale continuata. Gli uomini avrebbero tanto più bisogno di lezioni di estroversione dell’interesse quanto più sono alle prese con forze materiali più potenti; ed è purtroppo quando lottano che non pensano più. Una delle idee più immorali e più false è quella di rappresentare la vita umana sotto la luce di una lotta per la vita. Turbiamo la nostra pedagogia con questo fantasma, triste superstite di società superate5. In effetti, sono sempre colpito dall’eccellente tenuta morale delle nostre scuole. L’ambiente scolare è un ambiente che gli adulti guadagnerebbero nell’imitare. Non è la Scuola che dev’essere fatta a immagine della Vita, ma al contrario la Vita che dev’essere fatta a immagine della Scuola6. 5
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L’afflato spiritualista di questo passaggio bachelardiano viene cioè mobilitato contro ogni forma di darwinismo sociale che intenda ridurre la vita sociale a un prolungamento di una vita biologica (la cui comprensione è d’altronde spesso inficiata ideologicamente in partenza). Si tratta altresì di un elogio delle capacità sur-naturali della tecnica umana, una volta che questa venga pensata nello scarto che la separa dall’immediatezza dei bisogni. Più in generale, almeno in questa (prima) fase della sua riflessione, Bachelard guarda con sospetto ogni forma di rappresentazione vitalista, nella quale identifica una forma esemplare di ostacolo epistemologico. Sul tema, cfr. Dagognet 2003, che intravede nel diverso trattamento dei temi biologici uno degli scarti che segnerebbero le ultime opere di Bachelard; si veda inoltre, di recente, l’analisi puntuale di Cesaroni 2020, pp. 121-128. [N.d.T.] Troviamo qui un’anticipazione significativa di quel radicalismo pedagogico su cui si chiuderà, qualche anno dopo, La formazione dello spirito scientifico (1938), e che sarebbe a nostro avviso un errore considerare come una professione di
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Quando le nostre società avranno trovato il modo di mantenere l’uomo al livello morale dell’adolescenza, avranno in gran parte risolto la questione morale e la questione sociale. Ci si sbaglierebbe se si cercasse la ragione di questo alto valore morale dell’ambiente scolare unicamente nella saggia organizzazione di una disciplina. Bisogna giudicare a livello delle anime, a livello degli spiriti. Le classi solide e ordinate sono le classi in cui la conoscenza si presenta nella sua novità, nella freschezza della scoperta. Allora si sente che degli spiriti si rettificano, si costituiscono, si universalizzano. La noia di vivere – vaga coscienza di uno psichismo diviso – fa spazio alla gioia di pensare. L’ottimismo irradia nell’anima intera. Attorno a una verità si cristallizza un’attività sana. La verità è un fine. È il fine umano. (Traduzione dal francese di Giovanni Minozzi) Riferimenti bibliografici Bachelard, G. 1938 La formation de l’esprit scientifique, Vrin, Paris; tr. it. La formazione dello spirito scientifico. Contributo a una psicoanalisi della conoscenza oggettiva, a cura di E. Castelli Gattinara, Raffaello Cortina, Milano 1995. 1949 Le rationalisme appliqué, Puf, Paris; tr. it. di M. Giannuzzi Bruno e L. Semerari, Il razionalismo applicato, Dedalo, Bari 19932. Cesaroni, P. 2020 La vita dei concetti. Hegel, Bachelard, Canguilhem, Quodlibet, Macerata. Dagognet, F. 2003 Sur une seconde rupture, in J.-J. Wunenburger (a cura di), Bachelard et l’épistémologie française, Puf, Paris, pp. 13-27. Gil, D. 1993
Bachelard et la culture scientifique, Puf, Paris.
idealismo, proprio nella misura in cui rinvia a una presa in carico radicale della dimensione sociale dell’attività scientifica: “[u]na cultura bloccata su un periodo scolastico è la negazione stessa della cultura scientifica. Non c’è scienza che grazie a una scuola permanente. Ed è questa la scuola che la scienza deve fondare. Solo allora gli interessi sociali verranno definitivamente rovesciati: la società sarà fatta per la scuola e non la scuola per la società” (FS, p. 299). [N.d.T.]
Commento introduttivo a Necessità della “diffusione scientifica” di Georges Canguilhem Giulia Gandolfi
Scegliere un testo di Georges Canguilhem per un’antologia italiana non è semplice. La visione comune vuole che l’antologia raccolga dei testi rappresentativi che possano riassumere in poche pagine un connotato esemplificativo di un autore, di una corrente o di una tendenza. Se avessimo chiesto a Canguilhem di far apparire un suo testo in un’antologia, non siamo sicuri che avremmo ricevuto una risposta affermativa, o forse ci avrebbe proposto di inserire un suo testo senza commenti e note, così da non indirizzarne la lettura. Per questo motivo il testo di Canguilhem che proponiamo qui di seguito potrebbe essere letto senza alcuna nota introduttiva – e forse per questo, leggere prima il testo di Canguilhem e solo dopo tornare a questo breve scritto potrebbe rispecchiare maggiormente lo stile canguilhemiano. Necessità della “diffusione scientifica” non è solo un testo in cui Canguilhem affronta la scienza come elemento sociale ma in esso propone una riflessione sui suoi modelli di narrazione e diffusione. Canguilhem come tanti professori francesi comincia la sua carriera nell’insegnamento dai licei: Charleville, Albi e Velenciennes. Canguilhem viene chiamato a Tolosa nel 1937 per preparare gli studenti dell’ultimo anno. Nel 1939 pubblica insieme a Camille Planet, la sua prima e vera opera: il Traité de Logique et de Morale. (Canguilhem 1939) Sin dagli anni ’30 Canguilhem critica l’uso dei manuali intesi come mezzi per l’insegnamento in quanto impediscono, secondo il nostro autore, agli studenti di sviluppare un pensiero critico fornendo una visione chiusa e già costituita della disciplina presentata. Questa critica ritorna puntuale nel testo che abbiamo scelto di presentare scritto nel 1961 per la Revue de l’enseignement supérieur. Canguilhem in un testo consacrato al Baccalauréat del 1939 lamenta per quanto riguarda l’insegnamento della filosofia e della storia della scienza al liceo, la mancanza di una lettura dei testi degli autori a favore di semplici resoconti forniti dall’insegnante in vista
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dell’esame. Canguilhem parlando del supporto allo studio scrive: “De là cette intolérable et ignominieuse prétention des Manuels qui exécutent, en quelques phrases, le dualisme cartésien, et mettent en douze lignes Einstein à la portée de tous” (Canguilhem 2011, p. 276). La stessa critica ai manuali, come sottolineato da Xavier Roth (Roth 2011) verrà ripresa da Canguilhem nel 1951 (Canguilhem 2015, p. 396). Canguilhem sostiene che i manuali limitino l’appropriazione personale degli studenti delle problematiche esposte limitando l’apprendimento di una disciplina ad un lineare succedersi di idee, le une soluzioni ai dilemmi delle altre. Per tale ragione proprio nell’Avertissement del Traité (Canguilhem 1939, p. 5), Canguilhem mette in guardia il lettore dal non considerare tale opera come una raccolta di tesi e di autori ma piuttosto come un’organizzazione sistematica di alcune tematiche, una sintesi critica di alcuni principi fondamentali, svolte dal punto di vista degli autori – Canguilhem e Planet. Nel 1952 Canguilhem pubblica per Hachette, nella collezione Textes et documents philosophiques da lui curata, una piccola antologia di testi intitolata Besoin et tendances. L’idea che sottostava alla distribuzione di testi di autori agli studenti non era del tutto comune a quella che guida la maggior parte delle antologie pensate per l’insegnamento. L’antologia classica è un insieme di testi organizzati dal curatore secondo un obiettivo critico e spesso da lui commentati molto brevemente, tanto da non garantire alle criticità del testo di poter essere colte. Canguilhem al contrario non forniva nessun tipo di commento ai testi. Ne faceva piuttosto una lettura critica a lezione. Per questo Besoin et tendance è considerata da Canguilhem come un materiale grezzo da utilizzare collettivamente per la discussione. Nella presentazione della collezione di Hachette si legge: “ils [i testi] ne sont pas destinés à dispenser d’un cours personnel, suivi et explicite, mais bien à le favoriser. Ils tendent à fournir une première matière sur laquelle pourra s’exercer un travail d’analyse, de critique ou d’extension, enfin et surtout un effort individuel ou collectif de mise en forme” (Canguilhem 1952, p. iii). Canguilhem rivela una differenza fondamentale tra l’antologia classica e la sua idea di raccolta di testi: se la prima tenta di celare sotto una presunta oggettività temporale o tematica la scelta dei testi da parte del curatore, la seconda lo enfatizza, facendo della soggettività della scelta e dell’individualità del giudizio del curatore la peculiarità di questa forma pedagogica. Una raccolta di testi non si propone di nascondere il processo di amputazione e di estrapolazione del testo dalla totalità dell’opera, in quanto questa rottura garantisce alla più importante caratteristica della filosofia di evidenziarsi. La non linearità, la non risolutezza, ovvero la non assolutezza del ragionamento filosofico
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sono proprio il punto di partenza da cui considerare la raccolta di testi per ciò che è: un insieme parziale su cui costruire e su cui si è costruito in passato. Per Canguilhem l’insegnamento o diffusione della conoscenza non è la trasmissione di un’idea di conoscenza lineare e oggettiva, ma al contrario deve rispecchiare la caratteristica normativa, singolare e contingente di tutte le narrazioni scientifiche. In continuità con queste argomentazioni, Necessità della “diffusione scientifica” denuncia, da una parte, la tendenza manualistica della narrazione scientifica, dall’altra, la mancata riflessione critica che limita quest’ultima al mero racconto lineare di invenzioni tecnologiche. Prima di richiamare alcune tematiche fondamentali del pensiero di Canguilhem presenti nel testo, è utile definire, seppur brevemente, la ricerca canguilhemiana nel più ampio contesto dell’epistemologia storica. Il grande lavoro fatto da Canguilhem nell’approccio alla storia e alla filosofia della scienza ha portato uno spostamento dell’attenzione dai loro oggetti standard – le scienze dure – alle scienze della vita (Foucault 1985). Ci si dovrebbe domandare che cosa sia dunque un’epistemologia storica della vita. Tale domanda rimane aperta, ma potremmo dire che negli ultimi anni, in particolare grazie ai lavori di Rheinberger (Rheinberger 1997), la risposta sia: una riflessione storica sui concetti e sulle loro formazioni nelle scienze della vita con particolare attenzione ai contesti sociali e strumentali di insorgenza e di sviluppo. Canguilhem si iscrive sicuramente in questa definizione aggiungendo una caratterizzazione ulteriore: l’attenzione al vivente, inteso non solo come soggetto sociale e politico ma come fondamento per una filosofia della vita. Con questo non vogliamo accomunare Canguilhem alla contemporanea filosofia della biologia nord-americana (Boorse 1997), alle teorie seguaci della Lebensphilosophie particolarmente in voga in Francia nella prima metà del XX secolo, a una metafisica della vita o ancora pensare che l’epistemologia storica canguilhemiana sia il sinonimo dell’epistemology di tradizione anglosassone che mira a definire le condizioni di possibilità, i modelli conoscitivi, le strutture e i campi della scienza. Il progetto di Canguilhem non è d’altro canto nemmeno una storia della scienza intesa come una narrazione di eventi cronologica. Se ci fosse chiesto di indicare una tradizione epistemologica entro cui inserire Canguilhem dovremmo guardare oltre i confini francesi per posare lo sguardo in Polonia. É infatti in Fleck (Fleck 1981) che possiamo trovare un progetto comune a quello di Canguilhem, ossia la ricerca del contesto sociale, storico e materiale in cui nascono i concetti e come essi diano vita, attraverso mutamenti e cambi di significato alle teorie.
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Possiamo limitarci qui a identificare Canguilhem come uno dei maggiori autori dell’epistemologia storica francese1, ben sottolineando però, quello spostamento sopracitato verso le scienze della vita che lo distingue, ad esempio, da un suo illustre predecessore: Gaston Bachelard. Il termine épistémologie historique deve la sua diffusione in Francia a Dominique Lecourt e vede tra i suoi interpreti, oltre ai già citati Canguilhem e Bachelard, autori come Abel Rey, Jean Cavaillès e Michel Foucault. Come sottolinea Braunstein (Braunstein 2002), in maniera analoga ad altre correnti, anche l’epistemologia storica francese è una costruzione a posteriori che nasce da un dibattito che non aveva come scopo quello di definire una tradizione in particolare. Come riportato da Jean Gayon (Gayon 2003), il termine “epistemologia storica” trova la sua celebrità da un dibattito avvenuto tra Canguilhem e Lecourt, allora suo studente. Lecourt propendeva per definire la filosofia di Bachelard come epistemologia storica mentre Canguilhem preferiva mettere l’accento sulla dimensione storica2 proponendo la definizione “storia epistemologica”. L’idea di storicità dell’epistemologia di Canguilhem (Canguilhem 1992) si fonda sull’analisi delle condizioni storiche e materiali, come ad esempio i mezzi di produzione e i modelli di diffusione, con cui fatti, cose o concetti divengono oggetti di conoscenza. Il focus dell’epistemologia storica è dunque non solo l’analisi dei processi di genesi e di produzione di un “fatto scientifico” per utilizzare le parole di Fleck, ma anche i modi con cui esso mantiene o meno il suo statuto scientifico. La peculiarità dell’epistemologia canguilhemiana – che permette di differenziarla da altri progetti storicoepistemologici – è l’iscrizione della normatività all’interno della storia. In sostanza per Canguilhem l’epistemologia storica è una disciplina che rende manifesti e analizza i valori latenti presenti nel momento conoscitivo. La conoscenza, secondo Canguilhem (Canguilhem 1994), è un modo del vivente di rapportarsi con il proprio ambiente e come tale dipende
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L’epistemologia storica francese non è l’unica. Considerando la tradizione dell’epistemologia storica come una costruzione posticcia e di difficile identificazione potremmo comunque segnalare almeno altri tre lignaggi: il contesto tedesco dell’Istituto Max-Planck per la Storia della Scienza, che a sua volta raccoglie elementi di eredità di una tradizione sovietica come quella di Boris Hessen e di Aleksandr Bogdanov, visibile nei lavori di Jürgen Renn e HansJörg Rheinberger, e un’eredità più anglofona tra cui citare Thomas Kuhn, Ian Hacking e Lorraine Daston. Come sottolineato da Braunstein il termine ‘épistémologie historique’ era già stato utilizzato da Abel Ray per indicare il suo lavoro nel 1907 (Braunstein 2012, 33).
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da giudizi di valore e da fini conoscitivi specifici3. Con ciò Canguilhem intende che non esiste una pratica conoscitiva che non sia già inscritta nella vita, infatti l’essere umano conosce nella misura in cui tale pratica gli permette di superare gli ostacoli posti dall’ambiente in cui vive. La conoscenza è intrinsecamente connotata dalle caratteristiche storiche e vitali del vivente e dai fini normativi che dirigono il suo comportamento. Per normativo si intende la capacità del vivente di creare norme, ossia modalità di vita che determinano un rapporto con l’ambiente, favorevole o sfavorevole. In quanto modi di interazione con l’ambiente, la creazione di concetti, così come le pratiche tecniche – entrambe fondamentali per la conoscenza – si inscrivono in questa normatività del vivente. Per quanto riguarda Necessità della “diffusione scientifica”, oltre la già analizzata critica alla diffusione scientifica manualistica, Canguilhem affronta una tematica cardine del suo pensiero: il rapporto tecnica-scienza (si veda Macchina e Organismo in Canguilhem 1976). Secondo Canguilhem, in opposizione ad alcune teorie ascrivibili alla tradizione cartesiana, la tecnica non è la semplice applicazione della teoria, ma al contrario ciò che la precede. La pratica, fatta di prove, tentativi, errori e modifiche, non solo è propedeutica alla teorizzazione scientifica, ma è una vera e propria condizione di possibilità del suo dispiegamento. Si deve considerare, inoltre, che per Canguilhem, come per Bergson, l’invenzione tecnica è frutto dell’esercizio di una funzione biologica, ossia vitale e normativa, che deve essere compresa all’interno di un quadro più ampio: l’organologia generale (Canguilhem 1947). L’antecedenza della tecnica nei confronti della scienza non impone però un rapporto gerarchico. Scienza e tecnica non sono due momenti contrapposti o antagonisti, ma stanno in un 3
Si noti che per Canguilhem la conoscenza non può che essere scientifica. Con questo Canguilhem non sostiene che non esistano altri modelli di lettura del mondo (si veda quello tecnico ad esempio) ma che essi, come nel caso della filosofia, non producano verità. Anticipando Foucault, Canguilhem differenzia tra “dire il vero” ed “essere nel vero” (Canguilhem 1994, p. 46), intendendo che attorno ad ogni fatto scientifico viene costituito un discorso che implica una produzione di valori. Secondo Canguilhem ciò che deve essere giustificato è la sedimentazione di strati di verità e di slittamenti concettuali che si trovano in seno ad una teoria scientifica. Tale indagine può essere compiuta solo a livello storico. Sono la storicità e la materialità dei saperi scientifici che delineano i campi di validità e di verità. Per tale ragione non esiste “il” vero ma una conoscenza può dirsi vera solo all’interno di contesti storici ben circoscritti in cui è possibile differenziare ciò che è scienza da ciò che non lo è. È per tali motivi che ogni gnoseologia che avanzi pretese di verità non coglie ciò che più conta nella produzione della conoscenza; per Canguilhem, il compito dell’epistemologia è rendere conto del “dirsi” vero storico e regionale.
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rapporto dialettico e di correlazione, restando pur sempre autonomi: la tecnica è la condizione di possibilità della scienza, mentre la scienza diviene l’infrastruttura sociale in cui si determinano e si formano pratiche, tecniche e tecnologiche. Il rapporto tra scienza e tecnica, perciò, non è immutabile, la sua storicità è fatta di continue tensioni, disequilibri, sbilanciamenti, financo rotture. Ed è nei casi di forte sbilanciamento di un polo rispetto all’altra che si producono, spesso, conseguenze nefaste. Come mostra nel testo il nostro autore, nel momento in cui la scienza è messa al servizio della tecnica, la prima subisce un processo di snaturamento: perde la sua caratteristica autonomia divenendo un mezzo per garantire e giustificare lo sviluppo tecnologico. Sorge dunque spontaneo domandarsi cosa permetta di mantenere bilanciato il rapporto tra tecnica e scienza. La risposta di Canguilhem, elaborata nella seconda parte del testo, ci sembra risiedere nel piano politico e nei modi di diffusione del sapere. Si tratta della presa in carico del valore politico, sociale e normativo della scienza e della tecnica. A tale riguardo Canguilhem scrive: “La scienza viene divulgata nei suoi effetti prima di essere divulgata nelle sue ragioni e nei suoi principi”. Agevolare una diffusione scientifica concepita manualisticamente, ovvero in termini oggettivi, lineari e senza discontinuità, significa, da una parte, celarne il carattere normativo, regionale, storico e contingente, dall’altra imporre una gestione del sapere scientifico finalizzata al controllo, idealmente nella forma di una razionalizzazione eterodiretta. In altre parole Canguilhem, in questo testo come altrove (Canguilhem 1994; Canguilhem 2007), affronta il problema della gestione del sapere scientifico nei termini di gestione della vita. Poiché la conoscenza e la tecnica sono attività vitali, la loro gestione è una questione biopolitica. Non riconoscere il carattere intrinsecamente normativo, e dunque sempre orientato, della scienza e della tecnica significa esporre la scienza al rischio di essere normalizzata dall’esterno. Quando Canguilhem parla di volgarizzazione scientifica ha in mente la possibilità di una volgarizzazione “giusta” che si faccia carico di rendere manifesto il carattere normativo della scienza così da non obbligarla a ricercare altrove – come ad esempio nella tecnica – le sue condizioni di possibilità materiali e le giustificazioni per la sua diffusione. La scienza non deve essere diffusa come discorso giustificativo di determinate scelte politiche di sviluppo e/o di determinate tecnologie a dispetto di altre – come esempio, potremmo citare i vaccini durante la pandemia di Covid 19. Se possiamo, dunque, trarre una lezione dal testo di Canguilhem che ci apprestiamo qui a proporre è la necessità di una volgarizzazione “giusta” che riconosca un’autonomia alla scienza senza fondarsi su presunti assoluti. Canguilhem, nella conclusione, lancia una sfida inaggirabile, ancora tut-
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ta da affrontare: l’esigenza di sviluppare, da parte degli scienziati, un’etica della scienza interna – estranea, perciò, alle norme di gestione elaborate da tecnocrati, grandi industrie, governi – che renda possibile il confronto tra la “cité scientifique” e la “cité politique”, sempre assicurando alla prima una autonomia e una netta distinzione dalla seconda. Riferimenti bibliografici Braunstein, J.F. 2002 Bachelard, Canguilhem, Foucault: Le “style français” en épistémologie, in P. Wagner (a cura di), Les philosophes et la science, Gallimard, Paris, pp. 920-963. 2012 Historical Epistemology, Old and New, in Epistemology and history. From Bachelard and Canguilhem to today’s history of science; Max Planck Institute for the History of Science, [preprint], n. 434, pp. 33-40. Boorse, C. 1997 A Rebuttal on Health, in J. M. Humber e R. F. Almeder (a cura di), What is Disease? Biomedical Ethics Reviews, Humana Press, Totowa (NJ), pp. 1-134. Canguilhem, G. e Planet, C. 1939 Traité de logique et de morale, Robert et fils, Paris. Canguilhem, G., 1947 Note sur la situation faite en France à la philosophie biologique, in “Revue de métaphysique et de morale”, LII, n. 3/4, pp. 322-332. 1952 Besoins et tendances, Hachette, Paris. 1976 La conoscenza della vita, Il Mulino, Bologna. 1992 Ideologia e razionalità nella storia delle scienze della vita, La Nuova Italia, Firenze. 1994 Études d’histoire et de philosophie des sciences concernant les vivants et la vie, Vrin, Paris 2007 Scritti sulla medicina, Einaudi, Torino. 2011 Œuvres complètes vol. I: Écrits philosophiques et politiques: 1926-1939, a cura di J.-F. Braunstein e Y. Schwartz, Vrin, Paris. 2015 Œuvres complètes, vol. IV: Résistance, philosophie biologique et histoire des sciences: 1940-1965, a cura di C. Limoges, Vrin, Paris. Fleck, L. 1983 Genesi e sviluppo di un fatto scientifico, Il Mulino, Bologna. Foucault, M., 1985 La vie: l’expérience et la science, in “Revue de métaphysique et de morale”, XC, n. 1, pp. 3-14.
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Georges Canguilhem
NECESSITÀ DELLA “DIFFUSIONE SCIENTIFICA”
La diffusione1 della scienza non si riduce alla sua divulgazione. Dei due concetti, quello di diffusione è il più antico; l’operazione intellettuale e sociale che designa non solleva alcuna questione pregiudiziale, nei suoi aspetti da tempo noti: la scuola e il libro. Il concetto di diffusione è anch’esso generico: divulgazione, propagazione, volgarizzazione ne sono dei casi, ma ordinati in maniera successiva piuttosto che accostati simultaneamente. Essi corrispondono a tre diverse concezioni della scienza: contemplativa, operativa, applicata. Nell’antichità e nel Medioevo si divulgava; nel XVII e XVIII secolo si propagava; nel XIX secolo si volgarizzava. In un’opera pubblicata nel 1872, Cournot parla semplicemente di “diffusione dei concetti scientifici”; ma due pagine dopo, usando il termine volgarizzare (vulgariser) in relazione a Fontenelle, aggiunge “come si dice ora” (Cournot 1934, I, p. 279, 281). In effetti, allo stesso tempo, il Dizionario di Littré cita volgarizzatore, volgarizzazione e volgarizzare come neologismi. O. Bloch e von Wartburg, nel loro Dictionnaire étymologique, datano l’origine di volgarizzatore al 1836, quella di volgarizzazione al 1872, commettendo rispetto a questo termine un errore di almeno ventotto anni, dato che A. Comte scriveva volgarizzazione nel 1844 (Comte 1985, p. 97)2. Non è scontato che la scienza debba essere diffusa. Ciò che oggi è evidente, in passato ha incontrato molti ostacoli. L’antico concetto di scienza poneva inizialmente l’accento sul raccoglimento di un’anima solitaria, sottoposta alla verità contemplata. Questa solitudine è, però, l’effetto di una conversione non di una disposizione. Il concetto di scienza è sempre, in 1
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Si è deciso di tradurre diffusion con “diffusione” per mantenere l’ambivalenza che il verbo diffuser ha in francese; in alcune occorrenze, infatti, il verbo diffuser sarebbe potuto essere tradotto equivalentemente con “trasmettere”. In un unico periodo, segnalato da una nota in cui si sono chiarite le motivazioni a supporto della scelta fatta, si è distinto “diffusione” da “trasmissione”. [N.d.T.] Le ulteriori occorrenze del termine “volgarizzazione” nel Discorso sullo spirito positivo si trovano alle pp. 105, 110, 124. [N.d.T.]
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sostanza, il termine di una relazione oppositiva in cui l’altro termine è l’errore, l’ignoranza o l’opinione. Pertanto, la scienza è l’effetto e non la causa di un’ascensione dell’anima. Bisogna morire intellettualmente nel mondo dell’ignoranza per poter nascere nel mondo della conoscenza. Secondo Platone, ci sarebbe una contraddizione nel volere che la scienza rimanga contemplazione del vero nella sua caduta al rango di opinione. È vero che la scienza greca non vive nel segreto, come l’astrologia orientale. Essa è insegnata, sebbene questo insegnamento rimanga selettivo e aristocratico. La ragione di ciò è stata ricercata nella struttura delle società antiche: rigida gerarchia sociale, potere politico basato sul prestigio oltre che sulla forza e persino, nel caso delle democrazie greche, la distinzione tra uomini liberi e schiavi. Per quanto riguarda le strutture, però, le corrispondenze non impongono una chiave di lettura. In ogni caso, c’è una ragione meno estrinseca che può essere ricercata nel destino stesso della scienza, ossia nella logica interna della sua storia. Per i greci, il concetto di scienza si identifica con quello di matematica; fisica, chimica e fisiologia sono ridotte a osservazioni senza principi, a malapena a degli esperimenti. Tuttavia, tanto al tempo di Platone che a quello di Bourbaki, la matematica non era diffusa al di fuori di un insegnamento rigorosamente progressista. Non si volgarizza la matematica. La matematica senza lacrime, inoltre, esiste solo nell’immaginazione militante dei pedagoghi. Il significato dell’episodio del Menone è l’opposto della sua apparenza. Facendo calcolare a uno schiavo non istruito la lunghezza del lato di un quadrato con il doppio dell’area di un quadrato dato, Socrate – cioè Platone – non sta sostenendo la divulgazione della matematica tra le masse. Egli mostra il ruolo accessorio di una direzione pedagogica come mediatore tra un’anima individuale e un sapere universale-eterno a cui rimane legata per reminiscenza. Il recupero di questa conoscenza è un’ascesi, richiede coraggio personale. La scienza non è una luce di cui l’inventore facilita la diffusione agli altri, è una luce offuscata che ognuno deve recuperare per se stesso. In breve, da un lato la matematica può essere diffusa solo attraverso l’insegnamento e dall’altro, fino al XVII secolo, essa è l’unica scienza che può essere insegnata. Il Quadrivium medievale (aritmetica, geometria, astronomia, musica) è l’antico corpo delle scienze matematiche, a cui nel Rinascimento si aggiunsero la meccanica e l’algebra. Quali altre conoscenze, in assenza di una teoria dimostrativa, avrebbero potuto essere diffuse attraverso un insegnamento regolare e prolungato? Comunicare i risultati, quando si ritiene necessario farlo, non significa diffondere la scienza. Per l’empirismo, le ricette vengono trasmesse per imitazione, routine e tradizione, e infine si trasformano in occultismo.
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Cournot ha fatto notare, dopo A. von Humboldt, che gli inventori dell’arte della sperimentazione sono stati gli arabi, chimici e farmacisti. Quest’arte della sperimentazione, tagliata fuori da qualsiasi teoria esplicativa, non poteva essere insegnata. Da qui, secondo Cournot, il mantenimento delle scienze di origine araba come scienze occulte dopo la loro introduzione in Europa (Cournot 1934, I, pp. 46-47). Questo stato di cose è cambiato quando la matematica, dopo essersi dimostrata un ausilio indispensabile per alcune invenzioni tecniche (astronomia e trigonometria nel loro rapporto con i viaggi di circumnavigazione terrestre), è diventata la loro guida (meccanica e artiglieria; meccanica e orologeria), ma soprattutto quando la matematica è stata elevata al rango di scienza della natura. A questo punto, la fisica ha potuto smettere di essere insegnata come parte della filosofia, al fianco della metafisica. È il momento in cui l’arte di sperimentare progredisce parallelamente all’arte di misurare e di elaborare matematicamente i risultati (barometria; idrostatica e idrodinamica), e nella misura in cui il ragionamento permette di andare oltre l’osservazione per istituire esperimenti che l’esperienza, nel senso biologico e sociale del termine, non suggerisce. Sperimentare significa innanzitutto costruire strumenti, dispositivi o macchine in cui l’imitazione delle cosiddette forze o movimenti considerati naturali cessa di essere il principio guida. È da questo momento che la diffusione della scienza smette di coincidere con le istituzioni e i metodi di insegnamento. Era necessario infatti, che le informazioni scientifiche venissero comunicate agli artigiani e ai produttori di attrezzature. La corrispondenza di Cartesio con Ferrier, riguardante le dimensioni delle lenti ottiche, ne è un esempio. La collaborazione degli orologiai con i meccanici nel XVII secolo è un’altra. In un certo senso, la scienza dipende dalla precisione degli strumenti, in un altro senso quest’ultima rende possibile la prima. D’altra parte, il fatto che la nuova scienza della natura fosse concepita e sviluppata al di fuori delle istituzioni accademiche tradizionali, solitamente conservatrici e quindi retrograde, portò alla creazione di nuove istituzioni, come le Accademie italiane (Cimento, Lincei, Bologna), la Royal Society, l’Académie des Sciences, l’Accademia di Prussia, e di nuove tecniche di trasmissione delle ricerche scientifiche tra il pubblico colto (giornali e raccolte periodiche di articoli scientifici) e tra il pubblico dei non specialisti istruiti. La scienza appare allora come un’attività incorporata nella società, come regolatrice diretta o indiretta di tutte le istituzioni da cui dipendeva il potere degli Stati: esercito, marina, agricoltura, industria, igiene pubblica. La scienza cessa di essere considerata come la contemplazione da parte di un’anima individuale della natura espressa in un sistema conchiuso di
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verità, essa diventa un compito infinito di esplorazione che il genio di un individuo può riassumere o anticipare, ma la cui esecuzione dettagliata supera la capacità di un singolo. Collettiva nella sua destinazione, collettiva nella sua elaborazione, la scienza è capitale comune che il pubblico deve avere interesse a far fruttare. La diffusione della scienza richiede oggi un minimo di democratizzazione. Poiché questa mutazione dello statuto della scienza e della sua diffusione si realizzò nei confronti e contro le istituzioni educative gestite dalla Chiesa (con l’eccezione, senza dubbio, dei gesuiti nel XVII secolo), assunse l’aspetto di una controversia teorica (la disputa tra Antichi e Moderni) e di una sedizione politica. La propagazione dell’Illuminismo conserva questo duplice aspetto, più evidente nelle Pensées sur la Comète che negli Entretiens sur la pluralité des Mondes. La diffusione della scienza è considerata un attributo della scienza, una sua proprietà naturale come la diffusione della luce. La letteratura scientifica nasce come un genere di cui Cournot ha detto in poche righe tutto ciò che si può dire al riguardo: Con il progresso della scienza e la sua influenza sulla società, il genere ha guadagnato in importanza e non può che crescere. Il successo è dovuto, come si può ben immaginare, alla comprensione da parte dell’autore stesso degli argomenti che vuole trattare in un linguaggio accessibile a tutti; all’accuratezza dello sguardo che gli permette di svelare, attraverso tutti i dettagli tecnici la cui riproduzione gli è preclusa, le ragioni essenziali che ogni mente ben fatta può cogliere; infine, alle facoltà di ordine più letterario, di cui lo scienziato puro può al massimo fare a meno, poiché ha l’indiscutibile diritto di presentare le proprie invenzioni a modo suo, ma che diventano indispensabili quando si tratta di presentare le invenzioni di altri, e soprattutto quando ci si rivolge a un pubblico sul quale una preparazione specializzata non offre altri sbocchi (Cournot 1934, I, pp. 281-282).
La diffusione scientifica, però, non consiste solo nel mettere in contatto studiosi e pubblico. Già nel XVIII secolo, nella stessa società degli scienziati nacque l’esigenza, che non ha mai smesso di crescere, di stabilire uno scambio di informazioni tra scienziati specializzati sui rispettivi lavori. Far conoscere ai matematici i risultati delle ricerche dei chimici o dei fisiologi, e viceversa, divenne lo speciale compito dei segretari delle accademie scientifiche. Nelle pubblicazioni scientifiche stesse, è stato dato sempre più spazio a relazioni di presentazione e di aggiornamento. Si tratta di un genere a cui Condorcet ha dedicato molti passaggi nei suoi Éloges, e in particolare nell’Éloge de Duhamel. Infine, ci fu una fioritura di dizionari, in cui la divisione di un argomento in articoli rompeva l’ordine arido di una relazione tecnica, a vantaggio di una presentazione più attraente per l’im-
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maginazione: il dizionario di matematica di Saverien, il dizionario di storia naturale di Valmont de Bomare, ecc., tutti coronati dall’Enciclopedia. Dopo che la Rivoluzione del 1789 ha suonato l’ora dell’ingresso delle masse popolari nella vita politica delle società moderne, dopo che le guerre della Rivoluzione e dell’Impero hanno fornito la prova dell’efficacia militare, cioè politica, della scienza attraverso l’industria, la diffusione della scienza perde gradualmente il suo carattere di dovere per diventare un’abitudine. Quando le applicazioni della scienza, alcuni dicono i benefici, sono incorporati nell’insieme di oggetti culturali che l’industria aggiunge agli oggetti naturali, incorporati e percepibili, allora la diffusione della scienza è un effetto secondario dei risultati tecnici della scienza applicata. Quando la stampa quotidiana riproduce le notizie trasmesse attraverso la telegrafia elettrica, l’elettricità diventa una componente dell’universo volgare alla stregua di un canale di navigazione o di un aerostato. Quando il nitrato di potassio divenne un fertilizzante chimico, il concetto di nitrificazione divenne familiare come quello di salnitro (nitrato di potassio). La scienza viene divulgata nei suoi effetti prima di essere divulgata nelle sue ragioni e nei suoi principi. A questo punto, la diffusione del sapere è indubbiamente ancora educazione, ma poiché non è ancora né obbligatoria né libera, poiché obbedisce a curricula e regole di controllo dettate da esigenze diverse da quelle dell’istruzione, è normale che l’idea di una volgarizzazione del sapere laterale all’educazione, uscendo dai suoi confini originari extrascientifici, cerchi ostinatamente i suoi strumenti di realizzazione. La volgarizzazione è un problema importante nelle società industriali e democratiche. In Francia essa è ben lungi dall’essere comunemente accettata e favorita come accade nei Paesi anglosassoni. Per sminuirla, si è soliti opporla all’insegnamento. Si ha ragione a farlo, almeno su un punto importante. Poiché l’istruzione elementare, ammesso che l’obbligo di riceverla sia effettivo ed efficace, è l’istituzione per eccellenza di prima diffusione, di autentica volgarizzazione. Essa ha un vantaggio essenziale, in termini di spirito stesso della cultura scientifica, rispetto alla divulgazione extrascolastica grazie a conferenze, giornali, radio e cinema: essa è consapevole dei suoi limiti, delle sue carenze e della necessità di superarle. Essa si riconosce come il primo tassello dell’edificio scolastico e universitario. L’istruzione elementare, però, sia a livello primario che secondario, non mira a nessuna specializzazione, né dovrebbe farlo. Per chi rimane a questo livello, certe curiosità o certi obblighi in una determinata specialità devono cercare la loro soddisfazione con altri mezzi. Incoraggiare la diffusione della scienza sotto forma di volgarizzazione è un dovere delle società mo-
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derne, a condizione, ovviamente, che questa volgarizzazione sia concepita come istruzione e non come meraviglia, che rivolga l’attenzione alle cause piuttosto che agli effetti. Diffondendo l’idea che la scienza faccia “miracoli” non si volgarizza la scienza, si coltiva la superstizione scientificamente. Le giustificazioni di questo dovere di volgarizzazione sono molteplici, ma la più solida ci sembra la seguente. La scienza deve essere volgarizzata, paradossalmente, in proporzione alla sua specializzazione. Non farlo significherebbe tendere alla situazione di una società sulla cui base la scienza deve cercare le sue condizioni materiali di possibilità, in cui la scienza è depositata, per così dire, sotto forma di oggetti e strutture inerti e in cui la scienza sarebbe ovunque sotto forma di mezzi ed effetti, ovunque tranne che nel pensiero della maggioranza dei soggetti umani, sotto forma di significati di questi mezzi e di questi effetti. Sarebbe un ritorno al pontificato e all’occultismo. Se l’opinione pubblica deve accettare certi vincoli sociali o sacrifici collettivi che il perseguimento della ricerca scientifica comporta, gli intellettuali non devono disdegnare di provocare e mantenere la cooperazione popolare ai fini delle loro imprese. È quindi ipotizzabile che qui e là, e intendiamo altrove rispetto alla Francia, la divulgazione della scienza possa apparire come parte del compito collettivo degli studiosi nelle accademie o nelle università. Non che le obiezioni non siano numerose. Forse oggi sono più forti che mai, perché solo oggi trovano un linguaggio adatto alla loro espressione. Questo linguaggio è quello della teoria dell’informazione. Cerchiamo quindi di formulare scientificamente il problema della diffusione scientifica. Che si tratti di fisica, chimica o fisiologia, si deve intendere per diffusione, da un lato, il trasporto di un’azione inizialmente locale in un ambiente circoscritto e, dall’altro, la crescente omogeneizzazione, in un determinato rapporto, delle proprietà dei diversi punti considerati in questo ambiente. Trattandosi di sapere, ovvero in primo luogo di un linguaggio, la sua diffusione, concepita nei termini della sua estensione, senza direzione privilegiata e senza monopolio, all’interno di un determinato ambiente sociale, è un concetto rinnovato mediante una mutazione semantica, separando tale termine da un contesto retorico e importandolo in un contesto scientifico, al termine del quale l’aggettivo trasmesso [diffusé] sostituisce l’aggettivo diffuso [diffus]3. 3
Si è scelto di tradurre il termine diffus con “diffuso” mentre il termine diffusé con “trasmesso” in quanto in italiano non è possibile rendere la variazione semantica avvenuta nella lingua francese. Tanto diffus che diffusé derivano dal verbo diffuser, a livello grammaticale sono il participio passato del verbo e contestualmente possono essere usati come aggettivi. Con diffus che abbiamo tradotto con
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La questione è se questa mutazione semantica sia o meno indice di una reale differenza tra il trasmesso e il diffuso, perché se si scopre che la scienza trasmessa è sempre in qualche misura conoscenza diffusa, allora si pone il problema di calcolare se il costo in conoscenza autentica della diffusione della conoscenza giustifichi, in primo luogo nei confronti della scienza, e in secondo luogo nei confronti della società, l’impresa della diffusione della scienza. La concezione moderna dell’informazione e della trasmissione dell’informazione rinnova un problema ad essa preesistente. La diffusione della scienza si presenta come un caso notevole di applicazione delle leggi relative alla quantità di informazione e alla probabilità di diminuzione dell’informazione in seguito alla sua trasmissione, cioè, in ultima analisi, all’impossibilità di trasferire gratuitamente neghentropia. Assimilando una conoscenza originaria, rigorosamente strutturata allo stato altamente improbabile di un sistema fisico, e la stessa conoscenza trasmessa – la cui trasmissione, ricezione e utilizzo hanno alterato la coerenza iniziale – a un sistema la cui entropia è aumentata, si può concepire una sorta di casistica nella deontologia scientifica: in quali casi e per quali scopi legittimi vale la pena di accettare una perdita di conoscenza attraverso la diffusione della conoscenza? Una questione simile, anche se di portata filosofica più generale, è stata posta da Wilhelm Ostwald, uno dei teorici dell’energetismo ottocentesco, quando nel 1913 ha fondato una filosofia del valore sul principio di CarnotClausius. In un mondo di completa reversibilità, nulla verrebbe prodotto a costo di spese o danni. La conservazione quantitativa e qualitativa è incompatibile con la valorizzazione di ciò che viene conservato. È la crescita dell’entropia che introduce il valore, insieme alla disuguaglianza qualitativa, nella vita universale. L’imperativo della condotta umana è il divieto di sprecare inutilmente energia. Nello spirito comune della termodinamica e della teoria dell’informazione, la domanda di cui sopra diventa ora: se la diffusione della conoscenza comporta una perdita di energia, quale dovere conferisce il riconoscimento di questo fatto alla scienza e alla società? Questo dovere è quello di ridurre al minimo questa perdita di energia attraverso un controllo scientifico della diffusione della scienza, sia attra“diffuso”, si intende una diffusione del sapere a livello retorico che manca della caratteristica sociale che invece si trova in diffusé, che si è qui tradotto con “trasmesso”. Una diffusione informata, in cui il modo di informare, il contesto e la finalità dell’informazione sono parte integrante del processo di diffusione può essere definita come una diffusione (trasmissione) veicolata di sapere. Questo è il caso secondo Canguilhem della diffusione scientifica. [N.d.T.]
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verso un maggiore interesse e attenzione da parte degli stessi studiosi verso un’impresa che non disprezzano, sia attraverso l’assunzione indiretta da parte dell’Università della gestione di un’istituzione para-universitaria di diffusione e volgarizzazione in tutte le sue forme e in diversi gradi, dalla diffusione accademica alla diffusione popolare. L’obiettivo da raggiungere è, innanzitutto, quello di preservare le strutture formali essenziali della scienza in corso di diffusione, senza le quali ciò che viene diffuso sotto il nome di scienza le assomiglia poco quanto il gioco della scarpetta assomiglia alla teoria del pendolo composto; in secondo luogo, introdurre espressamente nella divulgazione l’indicazione dei suoi limiti, non separando la volgarizzazione dei risultati dalla volgarizzazione dei metodi e delle controversie, accompagnata da una sintesi sommaria della storia della ricerca. Tale concezione, bisogna ammetterlo, è apparentemente opposta a quella che, nel XIX secolo, ha fatto la fama, se non la fortuna, di Auguste Comte. Secondo quest’ultimo, la diffusione della conoscenza tra il popolo non è una degradazione o una degenerazione per la scienza. Al contrario, è un mezzo insostituibile per rigenerare lo spirito scientifico. [L]’universale diffusione [propagation] dei principali studi positivi non è unicamente destinata, oggi, a soddisfare un bisogno già molto pronunciato nel pubblico, il quale avverte sempre di più che le scienze non sono esclusivamente riservate agli scienziati, ma che esistono soprattutto per lui stesso. Per una felice spontanea reazione, una tale destinazione, quando sarà abbastanza sviluppata, dovrà radicalmente migliorare lo spirito scientifico attuale, spogliandolo del suo specialismo cieco e dispersivo, in modo da fargli acquistare a poco a poco il vero carattere filosofico, indispensabile alla sua principale missione (Comte 1985, p. 96).
Ma, come si nota, ciò che A. Comte intende per miglioramento dello spirito scientifico è la reazione dell’enciclopedia del sapere, filosoficamente esposta, su uno dei suoi rami, scientificamente coltivato. Si tratta infatti, qui come altrove nell’opera di Comte, di assegnare alla ricerca scientifica specializzata dei limiti nei suoi obiettivi e nelle sue tecniche di rilevazione e misurazione, limiti determinati dalla sola necessità di migliorare la condizione dell’uomo, al di fuori delle vane esigenze di una sterile curiosità. Qui incontriamo una difficoltà che è indubbiamente dovuta all’ispirazione della filosofia positivista della scienza, ma che non è specifica di essa. Da un lato, Comte insiste sulla preminenza delle scienze astratte, cioè speculative, oggi diremmo fondamentali. Quando parla di volgarizzazione, è a queste scienze che si riferisce, nella legittima aspettativa di un beneficio per la cultura. D’altra parte, egli ritiene che il campo di esercizio della
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ricerca fondamentale debba essere delimitato dalla subordinazione della speculazione all’azione collettiva dell’uomo sull’ambiente e su se stesso, azione a sua volta diretta e contenuta dalle tendenze di una natura umana i cui semi sono sviluppati solo dalla storia. Comte risolse così un problema che la scienza e la filosofia del XX secolo conoscono a loro volta, e sotto un aspetto di gravità mai raggiunto prima, quello della libertà della ricerca scientifica e della libertà di pubblicarne i risultati, indipendentemente dalla qualità delle applicazioni che si sforzano di ottenere le collettività di cui questi scienziati sono membri. È logicamente impossibile per uno scienziato mantenere segreta una scoperta, poiché essa merita questo nome solo quando viene slegata dalla persona che ne è responsabile e di cui talvolta prende in prestito il nome. Una scoperta richiede una controprova. Il suo autore non può sdoppiarsi a tal punto da dimenticare le circostanze del proprio successo. L’oggettività della conoscenza, diceva Robert Oppenheimer, è il sindacalismo della conoscenza. Ma il rapporto tra scienza e società è diventato tale che la questione della divulgazione della conoscenza, che si pensava fosse superata, viene nuovamente sollevata. Spetta agli stessi scienziati chiedersi se la diffusione della conoscenza, attraverso la sottomissione all’oggettività della verità, se la comunicazione del risultato di una ricerca alla città scientifica, che non conosce le frontiere della città politica, sia un imperativo senza riguardo ad altri, categorico o solo ipotetico. Non si tratta certo di un trucco politico degli scienziati, di un machiavellismo come quello che Condorcet, insieme a molti filosofi del XVIII secolo, rivendicava per le antiche corporazioni di astrologi e di pontefici: “I membri di quelle società perseguirono dapprima, con quasi eguale ardore, due fini ben diversi; l’uno la conquista per se stessi di nuove conoscenze; l’altro, l’impiego di quelle che possedevano per ingannare il popolo, per dominare gli spiriti” (Condorcet 1969, p. 35). Si tratterebbe piuttosto per gli scienziati di impedire a corporazioni di tecnocrati di convertire la scienza in uno strumento di rivalità politica tra Stati o tra coalizioni ideologiche. Oppure, al contrario, per lealtà civica, di limitare a un organismo controllato dallo Stato l’area di diffusione di una scoperta feconda di applicazioni. Questa situazione non è nuova. La sua attualità deriva solo dalle dimensioni del fenomeno sociale in questione, come se la quantità si fosse trasformata in qualità. Si tratta, inutile dirlo, dell’uso dell’energia nucleare per scopi strategici. Senza dubbio, farne una questione morale in questo ambito è semplice. Ha del devoto sperare che gli scienziati non perdano
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mai interesse nell’uso delle loro scoperte teoriche. Nelle discussioni su un’eventuale restrizione della divulgazione scientifica, però, si è spesso insinuata una confusione ingenua o ipocrita. La persona umana ha, se possiamo usare un’espressione banale, due buone spalle. Coloro che invocano il rispetto per la persona umana per denunciare questa o quella applicazione della scienza lo fanno tanto più volentieri se questa ricerca è avvenuta altrove e ha dato ad altri un potere in più che essi stessi non rifiuterebbero se ne avessero l’opportunità. L’idea di persona umana è regolatrice, ma universale, e come tale merita di essere confrontata con l’altra idea regolatrice universale: la verità scientifica. Ad oggi, però, non è compito di nessun gruppo sociale usarla per condannare un altro gruppo. Oggi non esiste alcuna società che abbia le mani pulite. Il concetto di persona umana può essere opposto al politico, all’amministratore, all’economista, ma non allo scienziato. Lo scienziato non è un ingegnere. Einstein non è responsabile di Hiroshima più di quanto Henri Becquerel, che scoprì – in parte per caso – l’effetto della radioattività sui tessuti viventi, sia responsabile dell’uso che è stato fatto o che potrebbe essere fatto di quest’azione allo scopo di sterilizzare individui umani giudicati asociali. Condizionare la diffusione della scienza al rispetto della persona umana significa prepararsi a dover preferire l’opportunità del vero alla verità del vero. Questa forma di opportunismo presenta lo stesso svantaggio delle altre, ovvero l’incapacità di prevedere a lungo termine il possibile interesse pratico di una ricerca teorica. È noto, tuttavia, che la conoscenza progredisce in modi che sono sorprendenti per gli stessi scienziati. Se Pasteur considerava i suoi studi sui cristalli come un inizio, è certo che non si aspettava di arrivare ai microbi. Quindi, se è indispensabile che la conoscenza ottenuta su un punto sia diffusa in modo che la sua ri-concentrazione su qualche altro punto si riveli fruttuosa, è chiaro, per lo meno, che la diffusione della conoscenza costituita non è che un mezzo per la conoscenza futura, che questo mezzo è situato allo stesso livello assiologico della sua fonte e della sua fine e che di conseguenza la diffusione della scienza fondamentale non deve essere sottoposta ad alcun imperativo pragmatico. Oggi, spetta quindi in primo luogo agli stessi scienziati meritare, con il loro comportamento pubblico, un nome, che la loro modestia di fronte alla verità, non sempre impedisce loro di rivendicare di fronte agli uomini. Spetta a loro ricordare a chi dimentica, o insegnare a chi ignora, che lo statuto sociale della scienza e la dignità della scienza non devono essere confusi. Nella misura in cui ha uno statuto sociale, la scienza moderna è opera di uomini, ma nella misura in cui ha una dignità, ossia una relazione
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con un valore che in questo caso è la verità, la scienza è quella luce dell’intelligenza che istituisce in quanto scienziato un uomo che supera in quanto tale. In questo senso, la scienza non ha padroni, nemmeno lo scienziato, e ancor meno il politico, il militare o l’industriale. Non ci deve essere confusione e non ci deve essere un vuoto di servizio. Spetta agli scienziati difendere la dignità della loro ricerca, rifiutando di essere assimilati a quella ricerca pragmatica che, in cambio di crediti, accetta direttive o restrizioni da parte di gruppi di interesse privati, o addirittura dallo Stato. In questo caso, la restrizione alla diffusione della scienza può venire solo dagli stessi scienziati, come monito o difesa, e nell’interesse della ricerca di base. Se non lo facessero, se contribuissero, anche solo attraverso la loro passività, al pregiudizio popolare secondo cui la scienza si confonde con le sue applicazioni, potrebbe accadere che il pubblico, di fronte all’enormità di certi usi attribuibili alla tecnocrazia, cada in un generale scetticismo nei confronti della scienza, o nell’indifferenza o nella paura unita al disprezzo. Questo divorzio tra scienza e società non sarebbe più espresso, come nelle società antiche le cui tecniche erano rudimentali, dal potere degli scienziati, ma dalla loro schiavitù. (Traduzione dal francese di Luca Cabassa e Giulia Gandolfi) Riferimenti bibliografici Comte, A. 1985 Discorso sullo spirito positivo, a cura di A. Negri, Laterza, Roma-Bari. Condorcet, M.-J.-A.N. de Caritat, marchese di 1969 Abbozzo di un quadro storico dei progressi dello spirito umano, a cura di M. Minerbi, Einaudi, Torino. Cournot, A.-A. 1934 Considérations sur la marche des idées et des événements dans les temps modernes [1872], 2 voll., Boivin, Paris.
Commento introduttivo a Soggetti plurali e circolazione del potere di Helen E. Longino Emma Barettoni e Francesca Putignano In questo articolo edito nel 1991 in The Journal of Philosophy, Helen Longino – tradotta in questa sede per la prima volta in italiano – esplora il complicato rapporto tra femminismo, conoscenza e potere e propone il suo progetto di epistemologia femminista, noto come critical contextual empiricism, precedentemente presentato nella sua monografia Science as Social Knowledge (1990). Prima di entrare nel vivo dell’articolo, riteniamo utile dare qualche indicazione storiografica sull’autrice e sull’epistemologia femminista, corrente di cui Longino è una delle principali esponenti. Come indica il nome stesso, l’epistemologia femminista è una disciplina che combina l’intento politico del femminismo e la riflessione epistemologica sui problemi centrali della filosofia della scienza, come l’oggettività, la scelta delle teorie e la giustificazione. È una disciplina nata in contesti anglofoni e la cui data di inizio convenzionalmente risale al 1986, anno in cui la femminista Sandra Harding pubblica The Science Question in Feminism. In quest’opera, Harding divide l’epistemologia femminista in tre grandi correnti: femminismo empirista, standpoint theory1 e femminismo postmoderno2. Harding è una delle esponenti più conosciute della standpoint theory, mentre Helen Longino rivoluzionerà completamente il femminismo empirista, con il suo critical contextual empiricism, studiando la relazione fra i valori extra-epistemici e la loro interazione con il processo conoscitivo. In questo articolo di poche ma 1
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In italiano, l’espressione “standpoint” viene generalmente tradotta con “punto di vista”. Qui abbiamo scelto di mantenere l’espressione originale inglese perché quella italiana induce un fraintendimento relativistico in quanto perde la connotazione “strutturale” del luogo (la posizione sociale, nell’ambito di rapporti di potere e squilibri di genere) dal quale si rende possibile la prospettiva soggettiva e il posizionamento etico-politico. Oggigiorno la divisione fra questi sottogruppi non è più così netta.
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dense pagine, è possibile analizzare quattro nuclei teorici presi in considerazione da Longino, di cui proponiamo la seguente schematizzazione: (1) La critica femminista alla scienza genderizzata (2) La critica all’empirismo femminista (3) La critica alla standpoint theory (4) Il contextual empiricism Longino esordisce sottolineando il complicato rapporto tra sapere e potere, chiedendosi in particolare se tale identificazione sia intrinseca alla scienza e perché crei disagio in alcunɜ3. Per rispondere a queste domande, Longino fa riferimento al rapporto tra femminismo e scienza, un rapporto non facilmente definibile e spesso conflittuale. (1) A partire dagli anni ’70, con l’accesso crescente delle donne alle discipline scientifiche e con il successo ottenuto dalle rivendicazioni dei movimenti delle donne, il femminismo ha operato una decostruzione di molte teorie affermate nella scienza, specialmente in ambito biologico e medico. Considerando più campi di indagine, le femministe hanno mostrato come la scienza fosse di fatto ostile alle donne. Gli studi e le ricerche dedite al recupero dei contributi delle donne omessi o sminuiti nella storia della scienza e nella storia della filosofia si possono leggere in questo senso. Altre filosofe hanno posto l’attenzione sugli ostacoli, visibili e no, che le donne hanno dovuto, e devono ancora, affrontare nelle istituzioni scientifiche. Al momento, le donne occupano posizioni meno prestigiose rispetto ai loro colleghi maschi e il gender pay gap è ancora lontano dall’essere colmato. Inoltre, altre filosofe hanno studiato come le donne siano state definite in base ad un pregiudizio androcentrico e sessista, per cui differenze fisiche, di per sé senza significato morale, sono state usate per giustificare differenze sociali, oltre che la subalternità delle donne. Infine, una delle critiche forse più incisive che le femministe hanno rivolto alla scienza consiste nel suo carattere genderizzato4. Le femministe hanno messo in luce come all’interno del plesso concettuale filosofico occidentale, la razionalità e i suoi attributi – per la maggior parte presentata come attività disinteressata o imparziale – siano stati storicamente costruiti e pensati secondo tratti e prerogative classicamente associate al maschile. La caratterizzazione storica della conoscenza e dei modi della conoscenza come attinenti alla sfera maschile e distanti da 3 4
Cfr. la prima [N.d.T.] del saggio di Karen Barad a p. 119. Di questo si è occupata anche Longino stessa (si veda per esempio l’articolo del 1983 di cui è co-autrice assieme a Ruth Doell o l’articolo del 1987).
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quella femminile spiega come la scienza e la conoscenza in generale possano essere considerate poco adatte alle donne e motivo della loro esclusione. Per risolvere questo problema, le filosofe femministe hanno proposto varie soluzioni, che Longino commenta prima di proporre la sua. Una prima strategia, quella di “sostituire il soggetto”, si connette all’empirismo femminista, riprendendo le critiche già mosse a questo filone da Sandra Harding. (2) Secondo l’empirismo femminista, le assunzioni sessiste o androcentriche presenti nella scienza possono essere emendate aderendo pedissequamente alle norme metodologiche della ricerca scientifica già esistenti. Secondo questa strategia, dunque, sarebbe possibile rendere le teorie meno suscettibili di bias senza cambiare i modelli o le istituzioni scientifiche esistenti. Longino critica questo filone in quanto continua a presupporre che il soggetto epistemico della scienza, per poter conoscere al meglio, debba essere neutrale5. Longino intende invece distanziarsi da questa postura, negando, da una parte, che il soggetto conoscente debba essere neutrale, dall’altra, mostrando come il soggetto della conoscenza sia in realtà costituito dalle comunità epistemiche e non da individui autonomi. Scartato l’empirismo femminista, Longino procede alla critica della seconda soluzione suggerita dalle filosofe femministe, ossia la standpoint theory nella formulazione di Harding. (3) Questo filone ha come tesi principale quella del “privilegio epistemico”, teorizzato a partire da un’analogia presente nella teoria marxista di Lukács (1923) che paragona la posizione dei proletari nel sistema capitalistico a quella delle donne nel sistema patriarcale. Il proletariato, infatti, è, cooptato dal sistema capitalistico, costituendo allo stesso tempo la forza su cui quest’ultimo si mantiene. Il punto di vista del proletariato sarebbe quindi privilegiato, in quanto, pur avendo una diretta esperienza del sistema capitalistico che gli permette di conoscerlo e di interpretarlo, non ha nessun interesse nel mantenerlo in vigore. Allo stesso modo, le donne sono parte del sistema patriarcale e costituiscono un elemento chiave per il suo mantenimento (perlomeno lo 5
Sul concetto di neutralità esiste in filosofia della scienza un accesissimo e complesso dibattito sulla possibilità o meno di riuscire a liberarsi di elementi extraepistemici nella riflessione ed elaborazione delle teorie, che si traduce grossolanamente nella contrapposizione fra scienza value-free (libera di valori) e scienza value-laden (carica di valori), s.v. (Giere 1988; Laudan 1988; Rooney 1992; Douglas 2013). L’epistemologia femminista sostiene che non sia possibile liberarsi di considerazioni extra-epistemiche; per questo motivo invece che aspirare a un punto di vista neutrale, impossibile da raggiungere, per l’epistemologia femminista è più scientificamente proficuo elaborare metodi per utilizzare a proprio vantaggio l’ingerenza di valori extra-epistemici e ragionare quindi sulla possibilità di una conoscenza oggettiva pur in una scienza value-laden.
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è il loro lavoro di riproduzione). Vivendo all’interno dello stesso sistema dominante che le opprime, le donne avrebbero dunque accesso ad una doppia visione, a una comprensione più inclusiva della realtà sociale. Questo particolare punto di vista, definito dalle caratteristiche sociali e politiche dettate dalla posizione dell’osservatorɜ all’interno di un sistema di significati non neutro, è chiamato standpoint – da cui il nome della disciplina. Riprendendo una classica obiezione conosciuta anche come Bias Paradox (cfr. Heikes 2004), Longino mostra come la standpoint theory cada in un paradosso: nel mentre accusa la scienza di non essere imparziale poiché inficiata da bias di genere, tale teoria pretende di produrre una scienza migliore grazie ad un tipo diverso di bias, quello femminista. Questa critica si aggrava secondo Longino se si considera che le donne non occupano una sola posizione sociale alla volta: questo rende difficile individuare la posizione sociale privilegiata da considerare. Secondo Longino, la standpoint theory non è in possesso di un criterio sufficientemente forte per la giustificazione delle teorie, perché cade nell’alternativa per cui o l’unico punto di vista epistemologicamente valido è anche il più marginalizzato o ogni punto di vista privilegiato è criterio di giustificazione per sé. Dopo aver scartato queste due soluzioni, arriviamo all’ultimo punto, ossia il contextual empiricism. (4) Qui, basandosi sulle ormai famose tesi dell’osservazione carica di teoria e della sottodeterminazione (Cfr. Kuhn 1977, Feyerabend 1975, Hanson 1958 e Duhem 1954), Longino sostiene due assunti: (a) il soggetto conoscente non conosce meglio se riesce a liberarsi dalle influenze soggettive e (b) la conoscenza è un prodotto sociale, ossia gli agenti conoscenti coincidono con le comunità epistemiche. Entrambi gli assunti permettono di riconoscere come gli aspetti extra-epistemici partecipino al processo di conoscenza, e come anzi le nostre osservazioni acquisiscano rilevanza probatoria solo se inserite in un contesto di presupposti e ipotesi di fondo. Questa rilevanza può cambiare a seconda del contenuto delle ipotesi di fondo. La novità più importante, a nostro avviso, non è solo che Longino rilevi l’insufficienza dei vari approcci che soggiacciono ai modelli dell’imparzialità e della neutralità della conoscenza scientifica, ma anche la presa in carico del pluralismo epistemico: non è cercando di trascendere le nostre influenze soggettive che arriveremo a produrre una conoscenza migliore, bensì sottoponendo le nostre ipotesi di fondo a considerazioni ferree e consapevoli. Tuttavia, affinché questo accada, è necessario ampliare il bacino di punti di vista secondo cui indagare ogni contesto di fondo: tali ipotesi, infatti, tendono ad essere inconsce o interiorizzate: solo l’assunzione di un punto di vista divergente dal contesto di fondo tipico di una determinata
Commento introduttivo a Soggetti plurali… di Helen E. Longino
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comunità epistemica può individuarne criticità e problemi. Per questo motivo, per Longino l’inclusione diventa un’esigenza non solo etico-politica ma anche epistemica. La produzione sociale di una conoscenza scientifica capace di superare più verifiche non può che passare attraverso il dialogo e la critica fra diversi punti di vista all’interno di una comunità epistemica. Infatti, l’oggettività della conoscenza scientifica, in ultima istanza, poggia sul carattere sociale della discussione, i cui “ingredienti” principali sono proprio la diversità delle ipotesi di fondo e lo studio del collegamento probatorio fra osservazioni e teorie. A questo proposito, Longino propone quattro criteri attraverso cui regolare questi scambi dialogici e assicurarsi che la conoscenza prodotta sia il più accurata possibile. Il primo criterio consiste nell’attribuire lo spazio e il riconoscimento appropriati alle critiche mosse ad una particolare teoria. In secondo luogo, le critiche non devono essere semplicemente tollerate, ma prese seriamente in carico affinché la teoria possa beneficiare del loro potenziale trasformativo. Il terzo criterio riguarda l’utilizzo di standard pubblici e comuni con cui la comunità epistemica può discernere le critiche attinenti alla ricerca in questione da quelle irrelate e quindi non utili in quella determinata sede. L’ultimo criterio ha come oggetto la composizione della comunità epistemica, che deve essere caratterizzata dall’uguaglianza dell’autorità intellettuale. Nessun punto di vista deve essere soppresso per motivi politici o imposizioni autoritarie, ma solo per ragioni argomentative. “Uguaglianza intellettuale” non significa, tuttavia, che ogni prospettiva sia uguale all’altra, ma che tuttɜ devono essere riconosciutɜ nella loro capacità di suggerire contenuti argomentativi e quindi di partecipare alla discussione. Questo criterio, connesso con quello della diversità dei punti di vista, ci assicura che i punti di vista divergenti non vengano semplicemente abbandonati per ragioni extra-epistemiche: più voci consideriamo e più la nostra conoscenza sarà accurata in quanto in grado di rispondere a critiche originate da molteplici ipotesi di fondo. Aderire a questa posizione pluralista, però, comporta quello che Longino chiama il “dilemma del pluralismo”: accettare il pluralismo implica la perdita di un sapere scientifico come accordo univoco, viceversa, è possibile raggiungere un consenso univoco solamente a costo dell’annullamento delle posizioni critiche contrarie e plurali. Per risolvere questa impasse, Longino suggerisce di scindere l’idea del raggiungimento di un sapere univoco dal consenso universale e di trattare la scienza sia come pratica che come modello. Trattare la scienza come una pratica permette infatti di concepire la ricerca come un qualcosa in corso e non come un punto finale che corrisponda alla verità del mondo. La conoscenza scientifica diventa così
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una pratica continuamente in atto fra noi e i (s)oggetti naturali e sociali che vogliamo conoscere. Questa visione si connette alla considerazione della scienza come modello, inteso come capacità di analizzare una determinata struttura o porzione del mondo. Una teoria è adeguata quando è in grado di mappare parti di relazioni e strutture del mondo esperito. Ogni modello, quindi, risulta intrinsecamente e strutturalmente parziale in quanto, all’interno di molteplici relazioni e strutture, seleziona necessariamente quelle che interessano e che soddisfano i bisogni cognitivi di chi lo sviluppa. In questo senso, allora, il pluralismo epistemico deriva dalla complessità stessa del mondo da studiare. Una singola teoria non può afferrare tutte le interazioni causali di un certo processo, ma ogni articolazione del mondo può cambiare in base alle questioni o alle domande cognitive di un dato momento. Secondo Longino, esiste quindi nella scienza una tensione continua fra fini esplicativi e fini di verità, che costituisce al contempo anche uno dei motori del cambiamento scientifico: da un lato, il fine esplicativo spinge a teorizzare generalità, portata e coerenza reciproca fra i diversi modelli; dall’altro, il fine di ricerca della verità consiste nel sottoporre gli assunti costituenti di una teoria a verifica empirica. Ora, il fine esplicativo è caratterizzato dal concetto di consenso, ossia il consenso su una teoria non coincide con la verità assoluta, ma è misurato in gradi e in riferimento a scopi e contesti rispetto ai quali si sta analizzando una ricerca. La giustificazione di una teoria, quindi, dipende dall’accordo raggiunto tra tutti i membri all’interno di una determinata comunità epistemica dopo aver superato il vaglio di un’accurata discussione. Ovviamente, le accezioni di accordo e di consenso elaborate in questo contesto perdono qualsiasi connotazione soggettiva ascrivibile all’area semantica della preferenza. Il fine della verità, invece, è soddisfatto da pratiche critiche che rispondono anche a richieste di inclusione di diversi gruppi per assicurarsi una maggiore adeguatezza conoscitiva. Longino conclude l’articolo sottolineando come i due fini – esplicativo e di ricerca della verità – sono intrinsecamente in conflitto fra loro, e ciò pone problemi pratici e politici. Infatti, la necessità di modelli per i fini esplicativi militerà contro l’inclusività di gruppi meno potenti, richiesta invece per un’adeguata pratica critica. Questa tensione, tuttavia, appare ancora nascosta nella prospettiva conoscitiva tradizionale, anche in quella femminista che sostituisce semplicemente il soggetto imparziale con un soggetto situato e costituto. La teoria di Longino permette al contrario di mettere in questione le strutture stesse dell’autorità cognitiva e decostruire il nucleo stesso della relazione fra potere e conoscenza, la quale, per Longino, non è necessariamente intrinseca allo sviluppo delle scienze.
Commento introduttivo a Soggetti plurali… di Helen E. Longino
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Lukács, G. 2013 History and Class Consciousness: Studies in Marxist Dialects [1923], a cura di R. Livingstone, MIT Press, Cambridge. Rooney, P. 1992 On Values in Science: Is the Epistemic/Non-Epistemic Distinction Useful?, in “PSA: Proceedings of the Biennial Meeting of the Philosophy of Science Association”, 1, pp. 13-22.
Helen E. Longino
SOGGETTI PLURALI E CIRCOLAZIONE DEL POTERE
La conoscenza è potere. È questo che gli esperti, da Bacone a Michel Foucault, ci hanno detto sulla conoscenza scientifica. Bacone aveva capito che la conoscenza delle cause (fin quanto queste fossero accessibili) permetteva al soggetto conoscente di intervenire e controllare i processi naturali. Foucault, parlando a generazioni molto più ciniche nei confronti dei risultati di tale conoscenza, ci esortava a vedere l’aspetto produttivo di potere/sapere: i fenomeni vengono prodotti (vengono intesi come fenomeni)1 dalla nostra conoscenza dei suddetti. Sicuramente riconosciamo l’identificazione di conoscenza e potere nelle “bombe guidate”, nelle “macchine pensanti” e nei “geni progettisti”. Le scienze hanno trasformato le condizioni di vita nelle parti industrializzate del mondo, sia concettualmente come modelli di conoscenza, che materialmente attraverso le tecnologie basate sulla scienza. Perché, allora, alcuni di noi si sentono così a disagio riguardo all’identificazione di conoscenza e potere? Ci sono sicuramente varie fonti e luoghi che spiegano questo disagio. Per esempio, le femministe sono state colpite dal carattere interconnesso di diversi aspetti della conoscenza e del potere nelle scienze. Le donne sono state escluse dalla pratica della scienza poiché l’indagine scientifica viene descritta come un’attività maschile e come una dimostrazione dell’inadeguatezza delle donne a impegnarsi in essa. Inoltre, siamo state escluse anche a causa delle nostre presunte carenti abilità matematiche e della nostra insufficiente indipendenza. Alcunɜ di noi notano l’impiego delle donne nella produzione degli artefatti resi possibili dalla nuova conoscenza: dita agili e veloci nella linea di assemblaggio della microelettronica. Altrɜ notano che le scienze biomediche trascurano i problemi di salute specifici delle donne, anche quando nuove tecniche per tutelare i feti 1
Nel testo originale, Longino utilizza il verbo “come into view”; nella traduzione abbiamo deciso di usare il participio passato del verbo “intendere” [inteso] seguendo l’assonanza con il verbo greo orào = io vedo che nell’aoristo diventa oida = io so (so perché ho visto). [N.d.T.]
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che portano in grembo vengono introdotte nelle sale parto degli ospedali. Le scienze diventano ancora più sospette quando l’analisi delle loro metafore (per esempio, nella biologia cellulare e nella microbiologia) rivelano l’ammissione (e quindi il rafforzamento) dell’identificazione culturale del maschio con l’attività e della femmina con la passività. Infine, il persistente privilegio di modelli esplicativi costruiti intorno a relazioni di controllo unidirezionali – i quali rispecchiano anche le relazioni sociali – rispetto a modelli costruiti intorno a relazioni di interdipendenza, ha spinto le critiche femministe a mettere in discussione l’idea stessa di un metodo scientifico capace di giudicare la verità o la probabilità delle teorie in modo neutrale rispetto ai valori. Secondo questa analisi, le scienze hanno aumentato il potere umano sui processi naturali, ma in modo ineguale, perpetuando sistematicamente l’esclusione2 dal potere cognitivo e politico delle donne (così come quello di altri gruppi emarginati rispetto al dramma euro-americano). Una domanda ovvia, quindi, è se questa appropriazione del potere sia una caratteristica intrinseca della scienza o se sia una caratteristica incidentale delle scienze come praticate nel periodo moderno, una caratteristica che deriva dalle strutture sociali in cui le scienze si sono sviluppate. Le femministe hanno affrontato la questione in diversi modi. Ne passerò in rassegna alcuni prima di delineare la mia risposta.
1. Strategie epistemologiche femministe: sostituire il soggetto La maggior parte della filosofia della scienza tradizionale (con la problematica eccezione di Cartesio) ha adottato una qualche forma di empirismo. L’alleato silenzioso dell’empirismo è stata una teoria del soggetto, ossia dell’agente che conosce. Il soggetto conoscente paradigmatico nell’epistemologia occidentale è un individuo, un individuo che, in diversi casi classici, ha lottato per liberarsi dalle distorsioni della 2
Nel testo originale, l’autrice utilizza “disempowerment” [disimpegno] probabilmente in contrapposizione con la parola “empowerment” che indica il processo con lo scopo di incrementare la propria consapevolezza di sé e delle proprie capacità, nonché aumentare la partecipazione e la responsabilità del soggetto. In letteratura femminista, indica la possibilità per le donne di compiere scelte responsabili per sé e gli altri in maniera autonoma in ogni ambito della propria vita. In italiano, comunemente si mantiene il termine in lingua originale, per cui abbiamo scelto di tradurre con “esclusione” dal momento che l’accesso alla conoscenza era di fatto preclusa alle donne. [N.d.T.]
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comprensione e della percezione che deriva dall’essere dei soggetti incarnati. Per Platone, ad esempio, la conoscenza del bene è possibile solo per coloro la cui ragione è in grado di controllare gli appetiti e le passioni, alcuni dei quali hanno la loro fonte nei bisogni e nei piaceri corporei, altri nelle relazioni con gli altri. La lotta per l’autonomia epistemica è ancora più dura per Cartesio, che sospende la fede in tutto tranne che nella sua stessa esistenza, al fine di ricreare un corpus di conoscenza ripulito da difetti, impurità e incertezze. Per Cartesio, solo le ragioni fornite da una singola mente disincarnata e indipendente sono principi accettabili per la costruzione di un sistema di credenze. La maggior parte dell’epistemologia successiva ha concesso le condizioni di Cartesio e ha contestato quali siano queste basi e se le basi proposte siano basi sufficienti per la conoscenza. La creazione di Cartesio dell’individuo radicalmente e in linea di principio isolato come agente epistemico ideale è passata per lo più inosservata3. La coscienza individuale, cioè il soggetto della conoscenza è trasparente ad essa e opera secondo principi che sono indipendenti dall’esperienza corporea, e genera conoscenza in modo neutrale rispetto ai valori. Le strategie epistemologiche femministe, sebbene talvolta descritte come un rifiuto dell’empirismo, possono essere meglio caratterizzate dalla pratica della sostituzione del soggetto. L’empirismo femminista (come descritto da Sandra Harding in Harding 1986) imputa alla scienza come problema quello di essere il prodotto di pregiudizi maschili, e propone di sostituire il soggetto maschile (o androcentrico) della conoscenza con un soggetto imparziale. Secondo l’empirismo femminista, alcune aree della scienza, che hanno a che fare con il sesso e il genere, sono deformate dall’ideologia di genere, ma i metodi della scienza non sono essi stessi maschilisti e possono essere usati per correggere gli errori prodotti dall’ideologia. Il conoscitore ideale è ancora la mente purificata, e l’autorità epistemica o cognitiva è insita in questa purezza. Questa strategia, come ha osservato Harding, non è efficace contro quei programmi di ricerca che le femministe trovano problematici ma che non possono essere criticati facendo riferimento ai precetti metodologici standard dell’indagine scientifica. Un altro approccio è, quindi, quello della standpoint theory. Non c’è un’unica posizione da cui si possa sviluppare una conoscenza senza valore, ma alcune posizioni sono migliori di altre. Le epistemologie della 3
La filosofia successiva di Wittgenstein sfida l’ideale individualista. Fino a pochi tempo fa pochi commentatori hanno sviluppato le implicazioni anti-individualiste del suo lavoro. Si veda (Scheman 1983).
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standpoint theory identificano una particolare posizione sociale come epistemicamente privilegiata4. Le epistemologie marxiste tradizionali identificano il punto di vista del proletariato; le femministe identificano il punto di vista delle donne. Valorizzando le prospettive unicamente disponibili per coloro che sono socialmente svantaggiati, le teoriche della standpoint ribaltano l’epistemologia tradizionale: coloro che non hanno potere sono coloro che hanno legittimità epistemica, anche se non hanno il potere che potrebbe trasformare tale legittimità in autorità. Le difficoltà della standpoint diventano più evidenti quando è in questione un punto di vista femminile o femminista. Le donne occupano molte posizioni sociali in una società stratificata dal punto di vista razziale ed economico. Una teoria sociale è quindi necessaria per accertare quale di questi luoghi è quello epistemologicamente privilegiato. Ma in una epistemologia della standpoint theory è necessario uno standpoint per giustificare una tale teoria. La maggior parte delle teoriche della standpoint localizzano il vantaggio epistemico nell’esperienza sociale degli oppressi di cui difendono il punto di vista. Un simile cambiamento di soggetto è proposto da coloro che identificano i problemi della scienza come una funzione della psicodinamica dell’individuazione. Evelyn Fox Keller (Keller 1985), per esempio, ha inteso l’ideale tradizionale dell’oggettività scientifica con l’ideale del distacco dello scienziato dall’oggetto di studio. Gli ideali epistemici e affettivi sono mescolati e, secondo la prospettiva psicoanalitica da lei adottata, uno sviluppo affettivo distorto – autonomia come una separatezza esagerata – ha prodotto un ideale epistemico a sua volta distorto – l’oggettività come distacco radicale. Keller ha quindi proposto una concettualizzazione alternativa dell’autonomia, contrapponendo all’autonomia statica quella che chiama autonomia dinamica, una capacità di muoversi dentro e fuori l’intima connessione con il mondo. L’autonomia dinamica fornisce la sottostruttura emotiva per una concezione alternativa dell’oggettività: l’oggettività dinamica. Keller analizza l’oggettività statica come soddisfatta dalle spiegazioni dei processi naturali che generano e mettono in primo piano le relazioni di controllo. L’agente epistemico caratterizzato dall’oggettività dinamica, al contrario, non cerca il potere sui fenomeni, ma riconosce invece i modi in cui agente epistemico e fenomeni sono in relazione, così come i modi in cui i fenomeni stessi sono interdipendenti in modo complesso. Pur cercando di sostituire [la fonte] o di estendere il potere, tutte queste strategie hanno in comune l’attenzione per l’agente epistemico individuale, il soggetto autonomo.
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Cfr. (Hartsock 1983).
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2. Strategie epistemologiche femministe: moltiplicare i soggetti Gli sviluppi della filosofia della scienza suggeriscono che il soggetto conoscente è un punto di partenza improprio se si vuole comprendere (e cambiare) la scienza. Le scienze naturali sono caratterizzate nella visione tradizionale da una metodologia che purifica la conoscenza scientifica dalle distorsioni prodotte dai legami sociali e personali degli scienziati. Le caratteristiche essenziali di questa metodologia – esplorata in grande dettaglio dai filosofi della scienza positivisti – sono l’osservazione e la logica. Gran parte della filosofia della scienza negli ultimi venticinque anni si è preoccupata di due potenziali sfide a questo quadro della metodologia scientifica: l’affermazione di Thomas Kuhn, Paul Feyerabend e Norwood R. Hanson che l’osservazione sia carica di teoria, e l’affermazione di Pierre Duhem che le teorie siano sottodeterminate dai dati. La prima affermazione sfida la stabilità delle osservazioni stesse, l’altra la stabilità delle relazioni probatorie. Entrambe le ipotesi sembrano permettere l’espressione sfrenata delle preferenze soggettive degli scienziati nel contenuto della scienza. Se l’osservazione è carica di teoria, allora l’osservazione non può servire come un vincolo indipendente sulle teorie, permettendo così agli elementi soggettivi di condizionare la scelta della teoria. Allo stesso modo, se le osservazioni acquisiscono rilevanza probatoria solo nel contesto di un insieme di presupposti di fondo, e conseguentemente, questa rilevanza può cambiare se si cambiano i presupposti di fondo, allora non è chiaro cosa protegga la scelta della teoria da elementi soggettivi insiti nelle ipotesi di fondo5. Finché il soggetto della conoscenza scientifica è concepito come qualcuno, che conosce meglio quando è libero da influenze esterne e dall’attaccamento, cioè quando è distaccato o libero dal proprio contesto, gli enigmi introdotti dalla teoria dell’osservazione e dalla dipendenza delle relazioni probatorie dalle ipotesi di fondo rimarranno irrisolti. Mettendo in opera l’idea femminista che siamo tutti in relazioni di interdipendenza, ho suggerito che la conoscenza scientifica non è strutturata da individui che applicano un metodo, ma da individui in interazione tra loro in modi che modificano le loro osservazioni, teorie e ipotesi, e 5
In (Longino 1990; 2002) “background assumptions” [ipostesi di fondo] costituiscono un concetto fondamentale, in quanto attraverso le ipotesi di fondo entrano nei processi conoscitivi aspetti extra-epistemici come valori sociali, personali, politici, bias. Questa interferenza per Longino è ineliminabile, per questo occorrono dei criteri che controllino e sottopongano a critica le ipotesi di fondo per ottenere una conoscenza più oggettiva possibile. [N.d.T.]
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modelli di ragionamento. Il metodo scientifico, quindi, non comprende solo il complesso di attività che costituiscono la verifica delle ipotesi attraverso il confronto con i dati esperienziali, in linea di principio un’attività individuale. In esso è altrettanto importante la considerazione delle ipotesi e delle assunzioni di fondo in ragione delle quali sembra che siano supportate dai dati secondo diverse varietà di critiche concettuali e probatorie6. Una critica efficace delle ipotesi di fondo richiede la presenza e l’espressione di punti di vista alternativi, dal momento che le ipotesi di fondo possono essere e molto spesso sono invisibili ai membri della comunità scientifica per la quale sono di fondo, e poiché l’accettazione non riflessiva di tali assunti può arrivare a definire cosa significa essere un membro di tale comunità (rendendo così la critica impossibile). Questo tipo di spiegazione ci permette di vedere come i valori e gli interessi sociali possano essere racchiusi in programmi di ricerca altrimenti accettabili, vale a dire programmi di ricerca che si sforzano di raggiungere l’adeguatezza empirica e si impegnano nella critica. Finché i rappresentanti di punti di vista alternativi non sono inclusi nella comunità, i valori condivisi non saranno identificati come elementi che modellano l’osservazione o il ragionamento. La conoscenza scientifica, da questo punto di vista, è un risultato del dialogo critico in cui individui e gruppi con diversi punti di vista si confrontano. È costruita non da individui ma da una comunità dialogica interattiva. La pratica di indagine di una comunità è produttiva di conoscenza nella misura in cui facilita la critica trans-formativa. La costituzione della comunità scientifica è cruciale a questo scopo, così come le interrelazioni tra i suoi membri. I criteri di livello comunitario possono quindi essere invocati per discriminare tra i prodotti delle comunità scientifiche, anche se non è possibile raggiungere standard di giustificazione indipendenti dal contesto. Possono essere identificati almeno quattro criteri necessari per raggiungere la dimensione trasformativa del discorso critico: 1) Ci devono essere luoghi pubblicamente riconosciuti per la critica delle prove, dei metodi, delle assunzioni e del ragionamento. 2) La comunità non deve semplicemente tollerare il dissenso, ma le sue credenze e teorie devono cambiare nel tempo in risposta al discorso critico che ha luogo al suo interno. 3) Ci devono essere standard pubblicamente riconosciuti in base ai quali la critica è considerata rilevante o meno per i fini della comunità di ricerca 6
Per argomentare ed esporre questi punti, si veda (Longino 1990).
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(sebbene non ce ne sia bisogno e probabilmente non esiste un insieme di standard comune a tutte le comunità, la famiglia generale degli standard include virtù cognitive come l’accuratezza, la coerenza, l’ampiezza della portata e virtù sociali come il rispondere a bisogni tecnici)7. 4) Infine, comunità oggettive devono essere caratterizzate dall’uguaglianza dell’autorità intellettuale. Il consenso dev’essere il risultato non dell’esercizio del potere politico o economico, ma quello di un dialogo critico nel quale tutte le prospettive rilevanti sono rappresentate. Piuttosto che view from nowhere o la view from somewhere, questa nozione di oggettività idealizza la view from everywhere8. Sebbene ci siano diverse obiezioni che i sostenitori di una tale nozione devono considerare, mi limiterò qui a un problema principale.
3. Dilemmi del pluralismo Questo tipo di giustificazione è soggetta al seguente dilemma9: ciò che è prodotto come conoscenza dipende dal consenso raggiunto all’interno della comunità scientifica. Perché questo conti come oggettivo, la comunità deve essere sufficientemente diversificata. Com’è possibile la conoscenza scientifica se al contempo si persegue l’oggettività socialmente costituita? Vale a dire 1) se l’oggettività richiede pluralismo nella comunità, allora il 7
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In epistemologia, il dibattito su valori epistemici e non epistemici è vastissimo (McMullin 1982; Kuhn 1977; Laudan 1988; Douglas 2013). Per valori epistemici si intendono tutti quei valori generalmente considerati costitutivi degli obiettivi della conoscenza e della ricerca della verità dell’indagine scientifica, mentre i valori epistemici concernono aspetti personali, sociali, culturali e dipendono dal contesto e dalla persona che li sostiene (Rooney 1992, 14). In letteratura si ritrovano sinonimi come “cognitivo” per “epistemico” e “contestuale” per “nonepistemico” (Potter 2006). A seconda della posizione dell’autore/autrice un valore pragmatico come quello indicato da Longino verrebbe annoverato comunque fra i valori epistemici. [N.d.T.] Abbiamo deciso di mantenere l’espressione inglese essendo ormai queste diventate espressioni distintive. La view from nowhere [letteralmente vista dal nulla] indica l’ideale di astrazione dai propri interessi o punto di partenza per accedere ad una visione oggettiva, evidente e onnicomprensiva. L’opposto è la view from somewhere [vista da qualche parte] che indica invece l’impossibilità di trascendere la propria posizione, il proprio essere incarnato e i propri interessi extra scientifici. Infine, quella proposta da Longino view from everywhere [vista da tutte le parti] dovrebbe risolvere i problemi di entrambi i concetti. [N.d.T.] Grazie a Sandra Mitchell per questa formulazione.
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sapere scientifico diventa irraggiungibile, ma 2) se il consenso è perseguito, sarà al costo del silenziamento di posizioni critiche contrarie. La mia strategia per evitare questo dilemma è scindere la conoscenza scientifica dal consenso, nel momento in cui il consenso significa l’accordo dell’intera comunità scientifica in merito alla verità o l’accettabilità di una data teoria. Suggerisco di guardare gli scopi della ricerca (almeno alcuni) come soddisfatti nel momento in cui si adottino teorie multiple e in alcuni casi incompatibili che soddisfano standard locali. Questa scissione della conoscenza dal consenso universale può essere resa più accettabile di quanto possa inizialmente sembrare, attraverso due mosse. Una di queste è implicita nel fatto di trattare la scienza come pratica o insieme di pratiche; l’altra implica di iniziare a considerare alcune versioni di una teoria semantica o fondata su modelli teorici [model-theoretic]. Cominciando con la seconda, permettetemi di delineare gli aspetti rilevanti e le implicazioni del punto di vista semantico10. Se adottiamo un tale punto di vista, comprendiamo la teoria come specificazione di un insieme di relazioni tra oggetti o processi, caratterizzato in un modo piuttosto astratto. Un’altra caratterizzazione sarebbe che, da un punto di vista semantico, una teoria è la specificazione di una struttura. L’adeguatezza di una teoria così concepita è determinata dalla nostra capacità di mappare alcuni sottoinsiemi di queste relazioni/strutture su una parte del mondo esperito. Le parti del mondo stanno in molte relazioni con molte altre parti. Qualsiasi modello dato o schema seleziona necessariamente tra queste relazioni. La sua adeguatezza non è solo una funzione dell’isomorfismo tra una delle interpretazioni della teoria e una porzione del mondo, ma le relazioni che seleziona sono quelle che ci interessano. Un modello guida i nostri interventi e le nostre interazioni con il mondo. Vogliamo modelli che orientino le interazioni e gli interventi che cerchiamo. Dato che diversi sottogruppi all’interno della più larga comunità scientifica potrebbero essere interessati a diverse relazioni, o che potrebbero esserlo ad oggetti secondo descrizioni diverse, diversi modelli (i quali, se presi come affermazioni su una realtà soggiacente, sarebbero incompatibili) potrebbero essere ugualmente adeguati e produrre conoscenza, nel senso di una capacità di orientare le nostre interazioni e interventi, anche in assenza di un consenso generale su cos’è importante. La conoscenza non è separata dai soggetti della conoscenza in un insieme di proposizioni ma consiste nella nostra abilità a comprendere 10 La mia comprensione del punto di vista semantico si è formata grazie alle presentazioni che ne sono date in (van Fraassen 1980) e in (Giere 1988), e alle conversazioni con Richard Grandy e Elisabeth Lloyd.
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le caratteristiche strutturali di un modello e applicarle ad una qualche porzione del mondo. È la conoscenza di quella porzione di mondo attraverso la sua strutturazione secondo il modello che usiamo. La seconda mossa per sfuggire al dilemma sviluppa alcune conseguenze dell’impiego della scienza come pratica. Due sono degne di menzione. Se intendiamo la scienza come pratica, possiamo concepire la ricerca come qualcosa in corso, ovvero, rinunciamo all’idea che ci sia un punto di arrivo ultimo della ricerca che corrisponda semplicemente all’insieme di verità sul mondo. (Cosa che il demone di Laplace sapeva, per esempio). La conoscenza scientifica da questa prospettiva non è un punto statico della ricerca, ma un’espressione cognitiva o intellettuale di una interazione in atto con i nostri ambienti naturali e sociali. La conoscenza scientifica, quindi, è un corpo di teorie e la loro articolazione nel mondo che cambia nel tempo in risposta ai mutevoli bisogni cognitivi di chi usa e sviluppa le teorie. Essa muta anche in risposta alle nuove domande e dati empirici anomali mostrati nell’applicazione delle teorie e a cambiamenti in teorie associate. Sia i modelli lineari-riduzionisti che quelli interazionisti rivelano aspetti dei processi naturali, alcuni comuni a entrambi, altri unicamente descrivibili all’interno dei termini propri a uno ma non a entrambi i tipi di modello. Se riconosciamo la parzialità delle teorie, come accade quando le trattiamo come modelli, possiamo riconoscere il pluralismo della comunità come una delle condizioni per il continuo sviluppo della conoscenza scientifica in questo senso. In secondo luogo, rigettare la nozione punto di arrivo ultimo della ricerca ci permette di apprezzare un’altra caratteristica del trattare la scienza come pratica. Le pratiche hanno scopi, e in quanto tali sono valutate nei termini della loro capacità di raggiungere gli obbiettivi di chi si impegna in esse. Ma c’è una tensione fondamentale tra due scopi centrali della pratica della ricerca: il fine esplicativo e il fine della ricerca della verità. Perseguendo la spiegazione, cerchiamo teorie della generalità, della portata e della coerenza reciproca, estendendo caratteristiche di un modello da un dominio all’altro. Nel perseguire la verità, sottoponiamo gli assunti costituenti di una teoria a verifica empirica. Più che le estensioni di quel modello, ne cerchiamo gli errori. Il fine esplicativo è soddisfatto da pratiche di consenso-formazione, mentre il fine della ricerca della verità è soddisfatto da pratiche critiche. Quindi se la tensione ha luogo tra fini reciprocamente esclusivi, il dilemma tra consenso e pluralismo è una tensione costitutiva della ricerca scientifica, una tensione che, se le osservazioni nel paragrafo precedente sono corrette, può essere compresa come uno dei motori del cambiamento scientifico.
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4. Conclusioni Intendere la conoscenza scientifica in questo modo dà luogo ad almeno due ulteriori riflessioni su conoscenza e potere. Innanzitutto, la tensione tra fini esplicativi e di ricerca della verità lascia intendere che le questioni relative alla costituzione della comunità scientifica sono problemi pratici e politici che si porranno continuamente. La necessità di modelli entro cui possiamo situare noi stessi e le interazioni che desideriamo con il mondo naturale militeranno contro l’inclusività richiesta per un’adeguata pratica critica, se non altro perché l’elaborazione di qualsiasi modello richiede un impegno sostanziale di risorse materiali e intellettuali da parte di una comunità11. Ciò significa che, in una società caratterizzata da diverse stratificazioni di potere, l’inclusione dei meno potenti, e quindi di modelli che possano servire come risorsa per la critica del sapere ricevuto nella comunità della scienza, sarà sempre oggetto di conflitto. Allo stesso tempo, la richiesta di inclusività non dovrebbe essere intesa nel senso che ogni visione alternativa è ugualmente meritevole di attenzione. C’è sempre il pericolo che il politicamente marginale venga confuso con il fanatico. Anche se la funzione degli standard pubblici e comuni sopra proposta è di ricordarci quella distinzione e di aiutarci a tracciarla in casi particolari, non sono a conoscenza di nessuna soluzione semplice o scontata a questo problema. Le critiche all’epistemologia scientifica che sollecitano un cambiamento di soggetto preservano le strutture dell’autorità cognitiva proponendo di sostituire con altri coloro che esercitano attualmente l’autorità: un soggetto genuinamente imparziale in un caso, un soggetto situato o costituito diversamente nell’altro. In questo processo costruttivo della conoscenza o non è coinvolta alcuna assunzione oppure solo alcune assunzioni. Secondo la visione che difendo, che rende evidenti le caratteristiche salienti della costruzione della conoscenza invisibilizzate da spiegazioni più tradizionali, le strutture stesse dell’autorità cognitiva devono cambiare. Nessuna porzione della comunità, che sia potente o senza potere, può pretendere un privilegio epistemico. Se riusciamo a intravedere una via verso la dissoluzione di quelle strutture, allora non abbiamo bisogno di comprendere l’appropriazione del potere nella forma di autorità cognitiva come intrinseca alla scienza. Ciononostante, la creazione della democrazia cognitiva e della scienza democratica, è una questione di conflitto e di speranza tanto quanto la creazione della democrazia politica. (Traduzione dall’inglese di Emma Barettoni e Francesca Putignano) 11 Per un approccio diverso alla questione, si veda (Kitcher 1990).
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Commento introduttivo a La primatologia è politica con altri mezzi di Donna Haraway Emma Barettoni e Francesca Putignano Donna Haraway è una delle principali voci del dibattito femminista degli ultimi tre decenni. Professoressa emerita del famoso dipartimento di History of Consciousness dell’University of California di Santa Cruz, è stata per anni titolare della cattedra di storia della coscienza e studi femministi insegnando accanto a Angela Davis, Teresa de Lauretis e moltɜ altrɜ. Haraway è una studiosa di storia e filosofia della scienza, in particolare di biologia e biotecnologie, nota per il suo approccio transdisciplinare ed eclettico in cui gli Science and Technology Studies sono messi in dialogo con gli studi di genere e postcoloniali e ibridati dal confronto con molteplici sorgenti letterarie (ad es. la Science fiction e la feminist science fiction). Prerogativa del pensiero di Haraway è, infatti, la messa in questione delle frontiere: dall’idea di oggettività scientifica all’universalità dei suoi risultati, passando per i confini interni tra le scienze e le distinzioni che vengono tracciate e naturalizzate – ad es. quelle tra natura/cultura e sesso/genere. Questo saggio del 1984, Primatology is Politics by Other Means, pubblicato nei Proceedings of the Biennial Meeting of the Philosophy of Science Association dall’University of Chicago Press e proposto per la prima volta in lingua italiana all’interno di questa antologia, tratta appunto di tali questioni, offrendo un’analisi della trama di significati e dicotomie che struttura quella particolare disciplina scientifica che è la primatologia. Scritto dopo la redazione dei due saggi Animal Sociology I e II e prima di Primate Visions, in cui Haraway sviluppa ulteriormente questi temi, l’articolo si apre su questo assunto: “La mia tesi è che le pratiche scientifiche e i discorsi della moderna primatologia partecipino all’atto politico fondativo della storia occidentale: la costruzione dell’Uomo”. L’etimologia stessa della parola primatologia ci introduce già all’universo di significati che Haraway analizza: essa contiene infatti nella sua radice
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l’interrogazione sulla natura delle origini. Come il Paradise Lost di Milton rappresenta una riscrittura del mito delle origini di Adamo ed Eva, ricollocato al “momento originario” della rivoluzione scientifica, del capitalismo e dell’espansione Occidentale, le ipotesi evoluzionistiche contemporanee ri-narrano la storia del costituirsi del “noi” al momento della globalizzazione e della rivoluzione delle scienze dell’informazione. “La primatologia è una macchina del tempo in cui l’altro è collocato al tempo delle origini”. La primatologia è presentata dunque come un’intricata matassa in cui i poli differenziali di sé ed altro, cultura e natura, genere e sesso, umano e animale, ecc. vengono costruiti scientificamente. Questa costruzione è messa ancora più in evidenza dalla natura liminare del suo oggetto: i primati. L’inquietante vicinanza dei primati all’umano viene elaborata dalla primatologia in una continua attività di tracciatura dei confini: la scoperta/produzione di questi particolari oggetti “naturali/ tecnici” che sono i primati è l’inverso contiguo della definizione di ciò che è “umano”, “civilizzato”, “soggetto”. In questa continua rinegoziazione dei confini, non c’è traccia dell’autentico animale selvaggio, se non nella sua testualizzazione all’interno delle “storie”. “La primatologia è l’orientalismo delle scimmie”. I primati, in particolare gli scimpanzé bonobo, sono fra gli animali non umani con cui gli umani condividono il maggior numero di geni (circa il 99%): somigliano molto più agli umani di quanto somiglino ai gorilla (cfr. Timeto 2020, p. 33). Questi animali “liminari” sono allora “alterizzati”, resi “selvaggi” per far emergere l’eccezionalismo umano, laddove umano indica il “civilizzato” uomo bianco occidentale. Inoltre, la creazione/invenzione dell’alterità animale interseca inevitabilmente quella dell’alterità razziale o sessuale, figlie della stessa matrice di dominazione e di differenziazione tra un Soggetto unico e gli “altri oggetti”. Nelle “storie dell’origine” della primatologia, gli animali non umani sono stati utilizzati per descrivere e giustificare pratiche sociali umane, segnate da visioni androcentriche sessiste. Queste storie, che dovevano rendere ragione dell’“origine” dell’uomo, e i cui assi fondanti erano la differenza sessuale e la riproduzione, finivano per giustificare tratti come l’aggressività e l’assertività, considerandoli necessari per il mantenimento dell’ordine della società primate, e, quindi, implicitamente, di quella umana. Le storie sui primati finiscono quindi per raccontare molto più gli umani che gli animali non umani. Le analisi di Haraway in questo contributo si strutturano attorno a due polarità: natura/cultura e sesso/genere. Allo stesso modo in cui l’oggetto “animale” pone la questione del limite con “culturale” e “umano”, la categoria del sesso (femmina) mette in questione quella di “genere” (donna).
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È questo uno degli assunti teorici fondamentali del saggio: “Gli animali, specialmente gli animali liminari che i primati sono, fungono da oggetti speciali per la comprensione delle origini del sesso socializzato, ovvero del sesso genderizzato”. Interrogativo fondamentale che si riassume nella domanda di Haraway: qual è la posta in gioco quando la categoria “femmina” è al contempo oggetto di studio e condizione di osservatrice? Tocchiamo qui il cuore epistemologico e politico dell’articolo: l’analisi critica delle “storie dell’origine” non si fa se non nella contemporaneità della loro riscrittura. Questa pratica è incarnata dallo storytelling, considerato da Haraway una produzione materiale di storie (Haraway utilizza letteralmente il termine “craft”, legato alla manifattura, che tanto richiama le tessiture più-che-umane e responso-abili descritte in Le promesse dei mostri). Sono proprio queste storie gli other means a cui Haraway allude nel titolo, riprendendo un’espressione di Latour (tratta a sua volta da Von Clausewitz): “La science c’est la politique continuée par d’autres moyens”. Gli “altri mezzi”, le stories, non sostituiscono la narrazione scientifica “mistificata” con una “giusta”, ma funzionano come tropo (cfr. Timeto 2020, p. 37), aggiungono fili alla matassa della disciplina, ne alterano gli ordini e ne sfocano i confini. “In primatologia i mezzi rappresentano principalmente le strategie narrative e il potere sociale di impiegarle nei confronti di particolari uditori”. L’oggetto di Haraway in questo saggio allora non è solo la semplice storia critica della disciplina, ma l’opera di ristrutturazione a cui la primatologia è stata sottoposta nel momento in cui è stata investita dal lavoro critico e teorico delle primatologhe. Nella primatologia, le geometrie organizzate intorno ai dualismi di natura/ cultura e sesso/genere strutturano la narrativa delle relazioni umane agli animali e a tanto altro. Riconfigurare il campo narrativo raccontando un’altra versione di un mito cruciale è un importante processo nella produzione di nuovi significati.
L’entrata delle donne (non necessariamente femministe) nella primatologia ha significato la decostruzione delle relazioni e spiegazioni del comportamento primate attorno agli assi di sesso e genere e natura e cultura. Questo è il caso delle opere di Zihlman e Hrdy, tra le tante citate da Haraway, in diretto dialogo polemico con Lovejoy. Haraway ne mostra un chiaro esempio. Per Lovejoy, il ritrovamento dello scheletro di Lucy, una femmina primate, diventa il supporto di una narrazione maschilista di un mito dell’origine. Zilhlman e Hrdy, al contrario, riformulano il suo modello paternalista dell’origine della società. Haraway rileva una
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macro-differenza nella forma stessa delle loro narrazioni: evitando l’antagonismo dicotomico di natura/cultura, non lasciano alcuno spazio all’eroismo della politica riproduttiva e non generano “altri” come materia prima strumentale alle transizioni verso stadi “superiori”. La figura della famiglia nucleare, assunto centrale intorno a cui ruota la narrazione di Lovejoy, viene completamente decostruita dalle primatologhe. Le storie di Zihlman e Hrdy ruotano attorno all’azione delle femmine primate e non alla loro passività. “Le primatologhe donne si sono focalizzate sul sesso delle femmine primate (sessualità? Questo termine è riservato agli umani?) in parte per sottrarlo allo stato inerte, naturale che aveva raggiunto nei testi dei loro fratelli primati”. In queste spiegazioni alternative, le femmine non sono più pedine dello scambio maschile, ma protagoniste a tutti gli effetti. A questo proposito, Haraway analizza le condizioni sociologiche della ristrutturazione femminista della primatologia: corsi di studio, finanziamenti ottenuti da donne primatologhe, analisi statistiche della presenza femminile nella primatologia di laboratorio e sul campo, nonché della presenza di personale femminile nella ricerca sul campo, ricostruzioni delle principali opere teoriche che partecipano a questa ristrutturazione dei discorsi della primatologia. In queste analisi, Haraway mostra al tempo stesso come l’“oggetto” primate e le sue costruzioni rispecchino gli schieramenti e le fratture interne al movimento femminista. Haraway, infatti, considera le primatologhe “figlie di Milton”: i materiali che esse intessono sono pur sempre eredi di quelle “storie dell’origine” che segnano la categoria di “femmina” (oltre a quella di “donna”), come “altro”, rendendole tutt’altro che neutre. “Qual è l’‘oggetto tecnico-naturale della conoscenza’ del femminismo, considerato come una scienza ‘umana’ e ‘naturale’? In che modo l’oggetto della teoria e pratica femminista si relaziona agli ‘oggetti tecnico-naturali’ della primatologia?”, si chiede a questo proposito Haraway, aprendo così un’interrogazione che prenderà corpo tra le pagine di Primate Visions, opera in cui affronta nel dettaglio la discussione delle problematiche poste da alcune posizioni femministe, ad es., l’opzione teorica di emendare il bias maschile nella primatologia servendosi della categoria di empatia, considerata da lei molto discutibile (cfr. Haraway 1989, pp. 152 sgg., 244 e sgg.). Altrettanto problematico è il fatto che le primatologhe, pur sempre studiose bianche, borghesi e occidentali non mettano in discussione il razzismo intrinseco a questa disciplina.
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Queste considerazioni ci conducono ad un ulteriore assunto epistemologico, fondamentale per Haraway in questo saggio: la posta in gioco non è sostituire a una “cattiva scienza” una “buona scienza femminista”. Una nuova versione non sostituisce mai l’altra, ma l’intero campo è ristrutturato nell’inter-relazione tra tutte le versioni, in tensione le une con le altre. Destabilizzare una storia sull’origine è oltretutto un’operazione più potente per la decostruzione della storia dell’uomo piuttosto che rimpiazzarlo con un successore più evoluto.
La proposta epistemologica di Haraway è critica rispetto all’idea che sia possibile emendare la conoscenza scientifica sostituendo un nuovo soggetto della conoscenza “innocente” al precedente. Queste parole critiche fanno eco ad altre, propositive, contenute in questo saggio: Il mio modello esplicativo per la lotta femminista nelle scienze umane e della vita non è il cambiamento o la sostituzione di paradigma, ma campi narrativi in continua destabilizzazione e ristrutturazione. La mia storia non si basa su sostituzioni di versioni vere con false, femministe con maschiliste, di spiegazioni scientifiche con ideologiche. La primatologia come pratica di storytelling funziona attraverso un altro processo, un altro meccanismo nella competizione politica per i significati.
Le attività che possono ristrutturare un campo narrativo, spiega infatti Haraway, sono molteplici ed estremamente eterogenee. Lo sforzo di Haraway può essere allora riassunto in questa preoccupazione: oltre a definire le condizioni di possibilità delle pratiche che possono ristrutturare un campo narrativo, Haraway mette in atto un duplice movimento: il lavoro di tessitura, di connessione tra la molteplicità delle pratiche esistenti, e la continua invenzione e moltiplicazione di quelle possibili. Riferimenti bibliografici Bleier, R. 1984 Science And Gender: A Critique Of Biology And Its Theories On Women, Pergamon Press, New York. Cavarero A., Restaino F. 2002 Le filosofie femministe: due secoli di battaglie teoriche e pratiche, Mondadori, Milano.
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Donna Haraway
LA PRIMATOLOGIA È POLITICA CON ALTRI MEZZI*
1. Il campo: le origini Adamo ed Eva, Robinson Crusoe e Venerdì1, Tarzan e Jane: sono queste le figure che narrano ai bianchi occidentali delle (loro) origini e delle fondamenta della socialità. Le storie raccontano della natura “umana” e la società “umana”. Le storie occidentali occupano una posizione privilegiata dalla quale l’uomo, – inespugnabile, potente e dotato di una nitida visione del tutto – può ispezionare il campo. Le osservazioni generano la dialettica estetico-politica della contemplazione/sfruttamento, specchi gemelli deformanti profondamente incorporati nella storia della scienza. Ma il tempo dell’origine in queste storie occidentali è caratterizzato dalla solitudine. Adamo era solo, Robinson era solo, Tarzan era solo; tutti loro mancavano di compagnia umana. Ma ogni coppia, ogni soluzione all’illogica insufficienza di un sé razionale e autonomo, è invischiata nelle contraddizioni della dominazione, che fornisce i materiali narrativi all’Occidente per la sua devastante storia collettiva. La tragedia dell’“Occidente” è radicata nel numero: Uno è troppo poco e due sono troppi. La memoria, l’origine ha a che fare con un’unità, un’integrità *
1
Ringrazio la Academic Senate Research Grant dell’Università della California a Santa Cruz per il supporto nella stesura di questo articolo. Inoltre, ringrazio ɜ primatologɜ che mi hanno permesso di intervistarlɜ. I miei ringraziamenti per questo articolo vanno a Jeanne Altmann, Stuart Altmann, Naomi Bishop, Dorothy Cheney, Suzanne Chevalier-Skolnikoff, Irven DeVore, Phyllis Dolhinow, Robert Hinde, Sarah Blaffer Hrdy, Alison Jolly, Peter Marler, Nancy Nicolson, Suzanne Ripley, Thelma Rowell, Robert Seyfarth, Joan Silk, Barbara Smuts, Thomas Struhsaker, Shirley Strum, Jane Teas, Sherwood Washburn, Patricia Whitten, Richard Wrangham e Adrienne Zihlman. Venerdì è il nome del personaggio che Crusoe “salva” nell’isola in cui è bloccato. Il romanzo di Defoe riflette la mentalità eurocentrica del tempo (1719) per cui l’uomo bianco è civilizzato mentre tutti gli altri sono selvaggi. Crusoe, infatti, nel libro è il salvatore di Venerdì a cui insegna l’inglese e che converte alla fede cristiana. [N.d.T.]
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perduta, un telos, un’unione perfetta. Il processo della mediazione fra inizio e fine, chiamato storia, è un racconto di dominazione che culmina nell’apocalisse della trascendenza finale della differenza. Prima della fine del racconto, la differenza è dialettica, antagonismo dinamico; alla fine, la differenza è transustanziazione e comunione. Questo saggio sulla storia della zoologia e della bio-antropologia fa parte di uno sforzo mondiale di opposizione, radicato in movimenti sociali come il femminismo e l’anti-razzismo, per riscrivere2 queste storie come strategia per smantellare il loro potere. Userò come materiali narrativi la recente costruzione dell’ordine dei primati, una classificazione zoologica potentemente implicata nella genesi del sé e dell’altrɜ*, di cultura e natura, genere e sesso, stesso e diverso. La mia tesi è che le pratiche scientifiche e i discorsi della moderna primatologia partecipino all’atto politico fondativo della storia occidentale, ossia la costruzione dell’Uomo. Cosa significhi essere umano non può sfuggire alla logica della storia dell’uomo. L’auto-costruzione provoca la decostruzione collettiva. La primatologia è politica con altri mezzi, e il posto delle donne è nella giungla a discutere della natura di inizi e fini. Le storie di scimmie e gorilla3 sono versioni industriali e post-industriali del passato e del futuro nostro e loro. La primatologia è una complessa costruzione scientifica del sé e dell’altrɜ, di cultura e natura, genere e sesso, umano e animale, scopo e risorsa, agente e agito. Questo campo scientifico delimita chi conta come “noi”. La ragione e il sesso offrono il pretesto per la maggior parte del dramma. La primatologia è anche un’appassionante soap-opera. Adamo ha imposto ad Eva la fondazione di politiche riproduttive eterosessuali obbligatorie. Le ha imposto la punizione per la distruzione dei 2
*
3
Abbiamo deciso di tradurre il verbo inglese retell con “riscrivere”. Siamo consapevoli che il significato più letterale del termine sarebbe rinarrare, mantenendo fede alla dimensione orale. Tuttavia, l’intenzione è quella di costruire e de-costruire storie e narrazioni, operando anche una riscrittura dei paradigmi dominanti esistenti. [N.d.T.] Cfr. la prima [N.d.T.] del saggio di Karen Barad a p. 119. In lingua inglese, il termine monkey indica scimmie di dimensioni ridotte e con la coda. È un termine generale per tutti gli appartenenti all’ordine dei primati; ape indica scimmie di grosse dimensioni, senza coda, appartenenti alla famiglia degli ominidi e il cui habitat è sulla terra. Si tratta di gorilla, scimpanzé, bonobo, oranghi. [N.d.T.]
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confini che rendevano possibile il Giardino. Il Paradiso Perduto4 di Milton ha rappresentato la riscrittura della storia di Adamo ed Eva al “momento delle origini” della rivoluzione scientifica, della Cristianità Protestante, del capitalismo e dell’espansione occidentale. Allo stesso modo, è possibile considerare gli scenari evoluzionistici contemporanei come riscritture della prima famiglia, del primo “noi”, al “momento delle origini” del capitalismo multinazionale, dell’umanesimo secolare, della rivoluzione dell’informatica e dell’emergenza del “Terzo mondo”. Un modo di guardare allo storytelling5 delle donne primatologhe è di vederle come “figlie di Milton”, i cui materiali sono necessariamente le storie ereditate che segnano la categoria biologica di “femmina”, oltre che a quella attuale di donna, come altro (Gubart and Gilbert 1979; Haraway 1981 e 1983b). Femmina e donna, le categorie segnate, sono declinate linguisticamente e socialmente. Questo saggio esplora la posta in gioco quando “femmina” rappresenta contemporaneamente l’oggetto di studio e la condizione di osservatrice nelle lotte contemporanee per le storie delle origini dotate di autorità. Chiaramente, le origini qui non si riferiscono a specifici eventi e periodi storici o preistorici. Il tempo delle origini è mitico, la tensione tra tempo mitico e altri tipi di tempo fa parte della struttura del discorso scientifico occidentale (Fabian 1983). Robinson Crusoe sottomise il suo compagno allo sforzo di razionalizzare il tempo e lo spazio sull’isola; l’unione maschile nell’amore e nell’uguaglianza era un sogno allettante, ma solo se i confini della mente e del corpo necessari all’ordine potevano essere mantenuti. Nancy Hartsock (1983a e 1983b) ha chiamato questo ordine “mascolinità astratta”. Michel Tournier (1972) ha riscritto Dafoe per cancellare la schiacciante razionalità dei confini di Robinson, fornendo una risorsa al sociologo e filosofo della scienza Bruno Latour (1984) per mettere in discussione questi confini che separavano la “scienza” come centro sacro salvaguardato a tutti i costi dalle arene inquinanti della politica. Latour, riflettendo sulle versioni di Robinson Crusoe, mi ha fornito il titolo di questo articolo quando si è appropriato della frase di Von Clausewitz “la guerra è politica con altri mezzi” per creare uno slogan per lo studio sociale della scienza: “La science, c’est la politique continuée par d’autres moyens” (Latour 1984, p. 257). Ed è Latour che sottolinea che il suo punto di vista 4 5
Laddove esiste una traduzione italiana delle opere citate nell’articolo, abbiamo provveduto a inserire il titolo dell’opera tradotta in italiano. Per opere non tradotte, abbiamo lasciato il titolo in lingua originale. [N.d.T.] Essendo la parola di uso comune anche in italiano, abbiamo scelto di mantenere la parola storytelling in originale. [N.d.T.]
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non “riduce” la scienza alla politica, al potere arbitrario invece che alla conoscenza razionale. Queste non sono le poste in gioco, ma piuttosto una dicotomia mistificante. Più precisamente, il suo argomento rifiuta qualsiasi tipo di riduzionismo e pone attenzione alla domanda su cosa siano gli “altri mezzi”. In primatologia i mezzi rappresentano principalmente le strategie narrative e il potere sociale di impiegarle nei confronti di particolarɜ uditorɜ. “Tout se negocie” [tutto si negozia N.d.T.] (Latour 1984, p. 183). Non dovrebbe essere sorprendente il fatto che uno dei tentativi delle donne primatologhe di destabilizzare i significati di dominio sociale e le politiche riproduttive nelle comunità dei babbuini abbia contribuito alle analisi di Latour sulla struttura delle storie dell’origine (Latour e Strum 1983). Per ciò che concerne Tarzan, la sua umanità sembra dipendere dalla sua rinuncia al Giardino; la sua Signoria deve vigere sul sé, secondo un regime mediato dalla civilizzata Jane. Ma Tarzan e Jane hanno fallito felicemente, laddove Adamo ed Eva hanno fatto la storia e generato le genti del Libro, i tragici soggetti della storia della salvezza e del monoteismo. Se non altro in TV, negli anni ‘50, la coppia Tarzan/Jane fece ritorno nella giungla, senza essersi mai veramente sposata e con bambini di dubbia provenienza, uno dei quali era uno scimpanzé. C’è un indizio della possibilità di socialità senza dominazione in questo intrigante racconto, dipende tutto da ciò che si pensa sul crescere un gorilla. Nella televisione Americana degli anni “50, questo era considerato sovversivo. Ma ci sono molte versioni di Tarzan; e nell’ultima, il film popolare Greystoke – La leggenda di Tarzan, il signore delle scimmie, Tarzan e Jane sono di nuovo separati, sospendendo la loro possibilità di avere una progenie che possa rompere la distinzione tra umano e animale. Testimone della minacciata dissezione e il conseguente omicidio del vecchio gorilla maschio che lo proteggeva in Africa, il legittimo Lord Greystoke gridava “Era mio padre” davanti al British Museum, reclamando il gorilla come suo retaggio e sospendendo la sua promessa di matrimonio a Jane. Un dettaglio curioso qui è che il padre scimmia, apparentemente naturale, è in realtà uno scimmione simulato, nato grazie alle tecniche dei film, alla maestria del trucco, all’insegnamento del linguaggio dei segni umani ai gorilla, e viceversa dalle ricerche scientifiche sul campo su gorilla e scimpanzé che insegnano la loro comunicazione gestuale e vocale agli umani. Anche Jane è di dubbiosa discendenza, l’Americana sotto custodia di Lord Greystoke senior. Le versioni della natura del tardo ventesimo secolo hanno più a che fare con simulacri che con originali (Baudrillard 1983). Queste sono storie su copie superiori ad originali che non sono mai esistiti; le forme
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platoniche hanno ceduto il passo all’informazione cyborg6. Tutte le varianti riguardano il problema della connessione di poli ostili ma speculari, gemelli che si fanno perversamente eco a vicenda all’interno di relazioni sociali e miti culturali fondati su dualismi. Non è irrilevante per questo saggio che Jane sia sempre il polo civilizzato nelle storie di Tarzan; il genere “donna” porta facilmente il significato di cultura al polo primitivo, il genere “uomo”. Natura/cultura e femminile/ maschile si intrecciano in reti gli uni con gli altri, e non in isomorfismi o parallelismi unidirezionali. Questi assi dualisti sono operatori di storie, modi di strutturare relazioni, e non attribuzioni statiche. Nella primatologia, le geometrie organizzate intorno ai dualismi di natura/cultura e sesso/ genere strutturano la narrativa delle relazioni umane con gli animali e a tanto altro. Riconfigurare il campo narrativo raccontando un’altra versione di un mito cruciale è un importante processo nella produzione7 di nuovi significati. Una nuova versione non sostituisce mai l’altra, ma l’intero campo è ristrutturato nell’inter-relazione di tutte le versioni, in tensione le une con le altre. Destabilizzare una storia sull’origine è oltretutto un’operazione più potente per la decostruzione della storia dell’uomo piuttosto che rimpiazzarlo con un successore più evoluto. Ristrutturare un campo costituito dalle sue tensioni è il modo in cui la primatologia opera per produrre significati su sesso e genere. Il mio modello esplicativo per la lotta femminista nelle scienze umane e della vita 6
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Il riferimento qui è con ogni probabilità a Manifesto Cyborg (1985) saggio conosciutissimo di Haraway. Il cyborg è una figura simbolica ed utopica in grado di superare i dualismi della società patriarcale e tardo-capitalista, come per esempio i limiti del binarismo di genere. Il testo è considerato un classico del femminismo di terza ondata post-umanista. [N.d.T.] Nella versione originale, l’autrice utilizza il termine “crafting” che è centrale per il pensiero harawayano, e indica il “costruire a mano/manualmente”. Il termine è anche connesso al concetto della tessitura – dell’intreccio, arte fondamentale utilizzata dalle popolazioni indigene che lega umani e non umani in pratiche di respons-abilità (neologismo di Haraway), di cura. Il lavoro tessile è permeato dall’azione collettiva delle donne (in prevalenza) e degli animali che partecipano attivamente a questo intreccio. Questa interdipendenza è denominata da Haraway anche “simpoiesi”, letteralmente “con-fare”. Con questa espressione che Haraway contrappone ad auto-poietico, intende sottolineare che ogni sistema è complesso, reticolato, eterogeneo, dinamico, situato e interdipendente, “in cui l’informazione e il controllo sono distribuiti fra tutti i componenti” (Haraway 2019, p. 84, riferimento alla tesi in Studi Ambientali scritta da M. Beth Dempster nel 1998). Queste pratiche sono utili, economiche e finalizzate anche a pratiche di giustizia ambientale, cfr. Haraway 2019, specialmente il capitolo 3 “Simpoiesi: la simbiogenesi e l’arte di restare a contatto con il problema” pp. 211-232. [N.d.T.]
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non è il cambiamento o la sostituzione di paradigma, ma campi narrativi in continua destabilizzazione e ristrutturazione. La mia storia non si basa su sostituzioni di versioni vere a false, femministe a maschiliste, di spiegazioni scientifiche a ideologiche. La primatologia come pratica di storytelling funziona attraverso un altro processo, un altro meccanismo nella lotta politica per i significati. Molti tipi di attività possono ristrutturare un campo narrativo, incluse le pratiche per la registrazione dei dati, gli schemi editoriali, i modelli animali privilegiati, i movimenti delle donne, gli sviluppi nelle scienze contigue, le complessità nelle politiche di conservazione, un nuovo governo nazionalista nell’Africa dell’est (Strathern 1980 e 1984; Landau 1984; Beer 1983; Nash 1982, pp. 342-78). Nelle storie occidentali della fondazione, ogni sé autonomo era un uomo; letteralmente, ogni sé autonomo era Uomo. Ma la politica ha a che fare con un “noi”. La politica esiste solo dove c’è più di una voce, più di una realtà. La politica ha a che fare con la differenza – il suo riconoscimento, la sua negoziazione, soppressione, costituzione, esaltazione, impossibilità, necessità, scandalo e legittimità. Anche il genere ha a che fare con la differenza; è la politica della socializzazione del sesso. Il genere è la politica di un mondo ordinato, collettivo (ma difficilmente condiviso o non esclusivamente pubblico), costruito a partire dalla profusione di differenze originariamente costruite come sesso. E, infine, l’“Occidente” ha a che fare con la differenza; è la politica della civilizzazione del “primitivo”, il dominio della cultura sulla natura. La cultura si appropria della natura nelle storie occidentali della fondazione, proprio come il genere è l’appropriazione sociale del sesso come risorsa per l’azione sociale. Questa relazione fondamentale è inscritta nelle nostre nozioni di causalità, natura umana, storia, economia, etc. L’una si appropria dell’altra; da Aristotele a Hegel a Sartre, non c’è stato alcun disaccordo sui principi fondamentali. Il Genere e l’Occidente sono costituzioni eminentemente politiche in quanto presiedono all’ordine delle differenze fondamentali per la possibilità di una realtà collettivamente riconosciuta e imposta. La regola dell’ordine di questi difficili miti è la regola dialettica di atto e potenza, mente e corpo. La primatologia è una complessa pratica scientifica per la scoperta/costruzione di oggetti della conoscenza naturalitecnici all’interno di un campo epistemico strutturato da sesso/genere e dall’“Occidente” e i suoɜ altrɜ. La domanda irrisolta in queste politiche è se la differenza possa essere ordinata da qualcos’altro che opposizioni mortali, senza cadere nella dominazione surrettizia del funzionalismo e di un apparente equilibrio. Il funzionalismo e l’organicismo non intaccano il principio della dominazione; rimuovono solo il dramma dell’opposizione dialettica e apocalittica. Questo rende la dominazione semplicemente banale e noiosa.
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A prescindere dal mio essere femminista o meno, sono riluttante ad accettare l’organicismo e l’olismo nella mia filosofia e politica. O meglio, l’organicismo dev’essere considerato una formazione contraddittoria in un campo di possibilità contemporaneamente serie e ironiche. Penso che questo valga sia per la vita sociale che per la teoria scientifica o politica. Molti filoni all’interno della teoria femminista sono tentativi di articolare una politica di realtà condivise e parziali che prendano sul serio la differenza. Affinché si evitino logiche e pratiche di dominazione organica, il femminismo dev’essere opposto all’organicismo olistico. L’organicismo, in scienza o in politica, non destabilizza la storia dell’uomo. Allo stesso tempo, il femminismo deve affermare la speranza e la realtà parziale della comunità. Ma ci sono almeno altrettante identificazioni e unità da rompere che da ricostruire, e qualsiasi nuova costruzione richiede sia fiducia che distruzione. Curiosamente, le scienze naturali sono il complesso di pratiche sociali e discorsi che, nella cultura occidentale, sembrano richiedere più prontamente questa relazione duale all’azione e al sapere. Il cinismo è infruttuoso, peggio del pH sbagliato o del crudele disegno di una gabbia come condizione della comprensione degli animali. Cinismo è un altro nome per oggettività ideologicamente rigida. La speranza sembra più promettente, carica di possibili connessioni con un mondo “reale”. Ma le “connessioni” generano identificazioni, appropriazioni, e illusioni di totalità. Tali questioni si giocano al dettaglio nel campo degli studi di scimmie e gorilla. La primatologia come terreno di lotta offre alcuni intriganti schemi di pensiero politico riguardo identità, associazione e cambiamento. La maggior parte delle posizioni all’interno del movimento delle donne americano e bianco sono replicate – o meglio negoziate – all’interno del discorso primatologico. La primatologia è una forma di discorso politico sulla questione della comunità. La primatologia è un campo di discorsi scientifici organizzato e attraversato da tensioni riguardo ai fondamenti e alle origini della socialità. Come altri sistemi maggiori di mito e teoria politica nella tradizione dello storytelling occidentale, la primatologia comincia da un’unità, un uno, e cerca di generare un intero, un noi. E come in queste altre storie, la tensione narrativa nella primatologia proviene dal dramma delle dialettiche della dominazione, dallo scandalo della differenza. La primatologia è un progetto utopico, vicino al cuore della teoria politica occidentale. Le scienze delle scimmie e gorilla hanno intrinsecamente a che fare con le origini, con la natura delle cose. Anche il nome dell’ordine, dato da Linneo nel 1758 nell’ottava edizione del Systema naturae, significa “primo”. L’ordine dei Primati non è mai stato stabile, che i dibattiti fossero tra Huxley e Owen
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sull’evoluzione nel diciannovesimo secolo o tra Adrienne Zihlman e Owen Lovejoy su bipedismo e riproduzione nel ventesimo secolo (Zacharias 1984; Zihlman e Lowenstein 1983; Lovejoy 1981 e 1984). La primatologia è anche un periodo nella storia della salvezza, profondamente immerso in versioni non poi così secolari del Giardino e della Caduta. È un discorso sui principi primi; ed è un’importante pratica sociale per la gente occidentale del ventesimo secolo per costruire e negoziare i confini di umano e animale, genere e sesso, occidente e altro, cultura e natura, intero e parte8. Nella mappa del corpo primate, i confini non seguono un accordo prestabilito, ma interagiscono in ogni modo immaginabile, probabilmente per la maggior parte del tempo in modo sinergico. I confini sono qualcosa di analogo ai chakra di altre mappe corporee; essi permettono interventi corporei localizzati ma non rivelano il segreto di alcuna “reale” presenza fisica. Il campo di negoziazione di questi confini – sostenuto da, ma non del tutto riducibile alle relazioni materiali e sociali dei sistemi di razza sesso e genere del tardo ventesimo secolo – non può che organizzare le passioni di quelli per cui è in gioco la costituzione propria (ossia, specificamente storica) della natura umana. Non conosco nessuno che non abbia alcun interesse da difendere in questo terreno. Con lo sgomento dei primatologi professionisti, costantemente impegnati a cercare di brevettare la pratica del linguaggio a scimmie e gorilla, gli affari dell’antropoidea9 sono un argomento popolare. Non posso fare a meno di considerare il finto sgomento quando i professionisti scrivono – e citano i punti chiave dei loro argomenti in giornali specializzati – pezzi come La politica degli Scimpanzé: Potere e sesso fra le scimmie e La donna che non si è evoluta: ipotesi di sociobiologia (De Waal 1982; Hrdy 1981)10. Loro amano azzuffarsi; la primatologia 8
Non prendo in esame i filoni di studio della primatologia giapponese e indiana. Somiglianze e differenze vanno lette nel contesto di specifici miti fondativi e relazioni sociali tardo industriali. Uno studio comparativo completo è stato intrapreso da Pamela Asquith dell’Università di Calgary (Asquith 1984). L’emergere delle primatologie del “Terzo Mondo”, intimamente connesso al ruolo politico ed economico degli “animali infestanti” e della “fauna selvatica”, è un argomento che non è esaminato in questo articolo. 9 Di scimmia antropomorfa o dell’ominide primitivo. [N.d.T.] 10 I lettori di più di 15 anni ricorderanno anche una serie di voci precedenti nella mischia, come La scimmia nuda e The Imperial Animal. (Morris 1967, Tiger e Fox 1971). Molti di questi libri sono ora scritti da donne scienziate; nessuno lo era prima del secondo dopoguerra. L’ombra dell’uomo (sic, 1971) di Jane Goodall è una pietra miliare nella politica di genere in primatologia. Dubito che Goodall fosse ironica nel titolo, ma il suo libro può essere letto come un capitolo della “riproduzione della maternità dei primati” (Chodorow 1978).
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trabocca di esuberanza e dell’impazienza di narrare. Gli “attori” includono animali e persone, laboratori e libri, e tante altre tipologie di mezzi per la produzione di ordini politici (Callon e Latour 1981; Latour 1978). Se esiste un inconscio politico, uno dei suoi orizzonti genera sicuramente la primatologia come atto socialmente simbolico (Jameson 1981, pp. 77-89)11. La primatologia è anche un ramo della moderna biologia e antropologia, e come tale è soggetta alla strutturazione epistemologica delle scienze umane e della vita. Sebbene non ci sia contraddizione tra questa caratterizzazione e quelle che affermano la natura mitica e politica della primatologia, esiste comunque una tensione. Come i confini tra natura e cultura, sesso e genere, animale e umano, i caratteri mitico e scientifico dei discorsi sui primati non sono del tutto accordati. Si richiamano a vicenda, si fanno eco, si provocano, ma non sono identici. Scienza e mito non si escludono o sostituiscono, ma sono versioni l’una dell’altro: negli Stati Uniti del ventesimo secolo, si strutturano a vicenda. Ridurre la scienza a mito o viceversa oscurerebbe precisamente il campo della politica dei generi – e tanto altro – che io considero reale e interessante. La riduzione è di rado una strategia esplicativa fruttuosa, tantomeno quando l’obiettivo è di evocare strati interposti e complessità che leghino insieme la vita sociale-tecnica-simbolica attraversando confini sacri. Leggere la primatologia è in sé un esercizio di trasgressione dei confini. E per rendere la questione ancora più tesa, le scienze umane e della vita sono in guerra, come si addice a qualsiasi coppia di gemelli mitici, immagini virtuali l’uno dell’altro. Da un lato c’è la biologia, una scienza naturale lɜ cui praticantɜ tendono a non considerarsi interpretɜ ma semplicɜ osservatorɜ che dalla descrizione risalgono alla spiegazione causale, dall’altro l’antropologia, lɜ cui praticantɜ tendono a sostenere che la loro autorità sia il frutto dell’interpretazione. Queste discipline istituiscono una differenza che struttura la scienza dei primati. In primatologia, le poste in gioco del conflitto sono mondane – pubblicazioni, lavori, gerarchie di status tra osservatori di scimmie, metafore preferite, strategie esplicative, 11 Jameson prende sul serio il suggerimento di Levi-Strauss, che “tutti gli artefatti culturali devono essere letti come risoluzioni simboliche di reali contraddizioni politiche e sociali.” (Jameson 1981, p. 80). Jameson sottolinea anche che questa proposizione richiede una seria “verifica sperimentale”. Tuttavia, le nozioni di Jameson di un inconscio simbolico e la sua descrizione di tre fasi di analisi, specialmente la sua focalizzazione sull’atto simbolico e l’ideologema (“la più piccola unità intelligibile dei discorsi collettivi essenzialmente antagonisti delle classi sociali”, p. 76), sono importanti per una lettura della primatologia. È essenziale ricostruire la nozione di classi sociali per problematizzare le collettività “donne” e “uomini”.
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scuole di specializzazione favorite, versioni di storie della disciplina, etc. Fino a che, recentemente, la posta in gioco è diventata anche il genere dell’osservatrice delle scimmie: molte più donne primatologhe venivano dall’antropologia piuttosto che dalla biologia, una questione di non poco conto nella sociobiologia e nei dibattiti di ecologia comportamentale. La lotta è per i significati ammissibili di “adattamento”. Gli antropologi hanno ereditato la strategia di storytelling radicata nel funzionalismo strutturale, profondamente legato all’antropologia sociale e culturale. I biologi invece hanno ereditato la strategia del positivismo e dell’empirismo, profondamente legati all’autorità egemonica delle scienze fisiche. Entrambe ereditano versioni dell’economia politica: l’antropologia più focalizzata sulla divisione del lavoro, sulla teoria dei ruoli e su nozioni di efficienza sociale; la biologia sull’analisi del mercato, su econometrie, strategie di investimento e tecniche di assicurazione sulla vita demografiche. L’una ricerca più il ruolo sociale e l’integrazione funzionale, l’altra i calcoli della teoria del gioco e simulazioni di analisi costi/benefici (ad es. Fedigan e Hrdy 1981). Per prima cosa, possiamo prestare uno sguardo rapido alla strutturazione epistemica delle scienze della vita. Fino dal tardo diciottesimo e primo diciannovesimo secolo, la natura è stata costituita come un sistema di produzione/riproduzione e comunicazione. Le scienze della vita sono state cruciali per questa trasformazione propriamente materiale di oggetti della conoscenza e della pratica. La natura diventa un sistema in espansione in cui il controllo razionale del prodotto dell’espansione opera come la mente sul corpo. Malthus non era pazzo; né lo era Adam Smith o Charles Babbage o Henri Milne-Edwards o Charles Darwin. Avevano tutti capito cosa la divisione del lavoro aveva fatto alla natura e applicarono questo principio non così velatamente gerarchico. Quest’ultimo si scoprì alla base dello scambio di valore, fondando la moneta corrente o la valuta della vita, l’economia naturale. In biologia, la spiegazione funzionale della differenziazione del corpo in sottosistemi specializzati è subordinata a strategie esplicative tratte dal mercato, a spiegazioni di investimento e costi/benefici, radicate profondamente nella teoria della selezione naturale. Basta vedere fino a che punto le assunzioni sulla scarsità e la bugia degli obblighi del mercato stabiliscono i limiti del dibattito su ciò che conta come spiegazione in biologia, inclusa la primatologia. Sono in gioco maggiori o minori gradi di libertà. Ma in biologia, la posta in gioco definitiva è stare al gioco, sia della replicazione sia della riproduzione differenziale. Dal punto di vista della vita come sistema in espansione, due “sottosistemi” o specializzazioni funzionali strutturano la biologia in modo particolare. A partire dalla costituzione della vita come “oggetto di conoscenza
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naturale-tecnico”, senza esagerare, è possibile raccontare la storia della biologia nei termini di una dialettica tra il sistema nervoso e riproduttivo. L’intervallo di possibilità è assegnato da un precedente dominio strategico che concerne le entrate e le uscite di risorse. Per esempio, in relazioni recenti, le strategie per procurarsi il cibo devono logicamente funzionare come variabili fondamentali, generative; la progenie è costituita da sesso e mente (Wragham 1979). Da quando il sesso è diventato qualcosa di scandaloso dal punto di vista dei processi razionali di fedeltà alla copia, il sesso è una delle due questioni eminenti – o meglio, non il sesso, ma la riproduzione. Il sesso comporta troppa differenza e un conflitto troppo costoso, senza rendere i benefici completamente visibili. Ma ai primati tocca attenersi al triste onere dell’inerzia evolutiva. Ci dicono che la politica sessuale non esisterebbe se le prime cellule non avessero gironzolato in giro e non si fossero ritrovate in un’asimmetria sempre crescente. La politica sessuale è teorizzata fondamentalmente come il risultato di una differenza originale. Un grande uovo, un po’ di sperma, ed ecco la dialettica della storia e i tristi fatti della misera scienza dell’economia. “Il sesso di investimento diventa la risorsa restrittiva” (Hrdy 1981, p. 22; Trivers 1972; Williams 1966). La questione pre-eminente è – come possiamo definirlo? Cervello, coscienza, strategia, mente? Nel tardo ventesimo secolo sesso e mente sono stati entrambi riconvertiti da forme di organismo in forme tecnologico-cibernetiche: sono divenuti problemi di codifica/controllo per sistemi ancora nostalgicamente chiamati organismi. Ma le simulazioni hanno più prestigio degli organismi per un teorico della biologia di status elevato. Basta chiedere a qualsiasi sociobiologo serio. Un altro modo di dirlo è che il referente è meno sexy del segno. Il realismo cede il passo al post-modernismo in biologia, oltre che in letteratura e nel cinema. (Jameson 1984, Haraway 1985). Provate a indovinare quale genere umano fa più simulazioni di grado elevato sia del sesso che della mente. (Siete sicuri?) “Ragionare strategicamente” in diversi autori nella primatologia finisce per coincidere con la razionalità pura e semplice. Questa è una meravigliosa storia dell’origine per la ragione che rendeva gli scrittori della scuola di Francoforte così nervosi12. Ma che scimmie e gorilla siano immaginati come organismi
12 Una storia delle origini che privilegia il ragionamento strategico è chiaramente La politica degli scimpanzé: potere e sesso tra le scimmie di de Waal (1982). Langdon Winner (1980 e 1983) sostiene che gli artefatti hanno una politica e discute le conseguenze della riduzione del ragionamento pubblico, cioè la politica, a questioni di strategia costi/benefici. Questa strategia è solo un modo di risolvere la differenza. La mia modesta correzione alla sua argomentazione è far notare che
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fuori moda o come moderni sistemi di codice, per la primatologia il sesso e il suo controllo sono inevitabilmente ciò che bisogna conoscere e spiegare. L’avere dimostrato l’importanza del sesso per la biologia mi permette ora di elucidare in modo convincente la strutturazione epistemica dell’antropologia. Due questioni sono cruciali. La prima è la nascita dell’antropologia dalla distinzione tra primitivo e civilizzato, tra natura e cultura, tra quelli che viaggiano e osservano e quelli che stanno a casa e sono osservati. Non c’è modo di evitare la greve costituzione storica dell’altro come oggetto di appropriazione, di osservazione, visualizzazione, spiegazione. Questa struttura è stata alla genesi delle scienze dell’uomo (sic). Funziona nell’arte, in politica, in economia, nella scienza. L’altro della primatologia è doppiamente primitivo, doppiamente un problema per la struttura dell’antropologia, perché l’oggetto è veramente un animale. Oppure no? L’enigma della primatologia è proprio questo. Si può fare antropologia culturale delle scimmie? I sociobiologi accusano i primatologi antropologi di fare poco di più. Non è uno scherzo immaginare una vera relazione dialogica con i gorilla, nella quale l’etnografia sperimentale e la co-autorialità possano essere raggiunte (Clifford 1983). Gli scherzi hanno sempre a che fare con le incursioni oltre i confini. La primatologia ha a che fare con la costituzione e la rottura simultanea e ripetitiva dei confini tra umano e animale; per esempio, questo aspetto della primatologia ha continuamente a che fare con il momento delle origini. La primatologia è una macchina del tempo in cui l’altro è collocato al tempo delle origini, anche se il terreno empirico si colloca nella moderna Rwanda o Kenya. Non è un caso che l’oggetto della primatologia viva nel Terzo Mondo; loro sono il preminente altro tropicale che vive felicemente e letteralmente in un giardino evanescente. Comunque, dal 1980 in poi trovare un primate davvero naturale è difficile almeno quanto trovare un selvaggio propriamente naturale; la decolonizzazione rende molto difficile la naturalizzazione e sovverte interi campi del sapere. Come si può avere una vera esperienza del campo in stile National Geographic con i gorilla in mezzo a una folla di turisti che scattano foto con in tasca lo scambio di valuta estera necessario? (Jane Teas, comunicazione personale). I bracconieri sono ancora meno divertenti (Fossey 1983). I primatologi del campo si spingono molto lontano per costruire lo status naturale dei loro oggetti di conoscenza (Haraway 1983b). Per gli antropologi umani il problema etico era di scambiare il tabacco in cambio di materiali grezzi di testualizzazione (Shostack 1981). Per gli antropologi la politica è presente negli animali, articolata in modelli mentali scritti nelle teste e nei geni (Haraway 1979 e 1981-1982). Il testo classico è (Dawkins 1976).
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dei primati il problema è se entrare in contatto e quanto avvicinarsi, visto che l’altro deve restare selvaggio, ancora mediatore del passaggio al tempo delle origini. Le antropologie umana e primate obliterano necessariamente l’altro, almeno se inteso come altro naturale, nel processo della sua testualizzazione. La sfida è scrivere prima di arrivare all’estinzione. Uno dei risultati è l’inevitabile immersione dei primatologi nella politica internazionale della conservazione, un problema che influisce e complica enormemente la politica del genere. Anche se non antropologa, la Jane Goodall della National Geographic (una tra le tante Jane Goodall) rappresenta la perfetta sintesi genderizzata di questi dilemmi – la scienziata donna bianca e sola, che, come Old Flo, la perfetta madre scimpanzé, si prende cura del suo figlio biondo, mentre, in quanto umana, trascrive fino a tarda notte i suoi appunti presi sul campo che portano Flo e la sua razza al sicuro nei libri, lontano da una Gombe penetrata da guerriglie zairesi. La questione del contatto, della vicinanza all’oggetto primate è stata specificamente mediata da donne primatologhe. Un membro di una categoria ambigua può arrivare più vicino a quello di un’altra categoria ambigua, e, nella tortuosa logica di natura e cultura, donna e animale sono epistemologicamente più vicini l’una all’altro di quanto lo siano uomo e animale (Ortner 1972). Le donne primatologhe si sono spinte lontano nel tentativo di evitare questa eredità corrotta (interviste con Adrienne Zihlman, Jeanne Altmann, Jane Teas, Shirley Strum, Naomi Bishop). Si sono spinte lontano anche per capitalizzare al meglio su questo, sporcandosi le mani, prendendo contatto con la scienza (Douglas 1970). Ovviamente, sesso e genere non possono essere evitati nelle scienze umane e della vita. L’uomo occidentale ha bisogno di sesso. L’uguaglianza (per non parlare della dominazione) richiede lo stesso alla donna occidentale13. Sesso e genere strutturano la conoscenza: sono l’oggetto di conoscenza e sono la condizione del conoscere. Questo è il secondo punto cruciale a proposito dell’antropologia. Gli antropologi si sono vantati della 13 Tutti sanno che gli orgasmi sono un argomento altamente politico, ecco perché anche le femmine di scimmia dovevano necessariamente averli negli ultimi anni. C’è voluta un po’ di ingenuità per costruirli in laboratorio, ma ora le osservazioni sono affidabili sia sul campo che in laboratorio (Burton 1971; Chevalier-Skolnikoff 1974). Sarah Blaffer Hrdy ha basato il suo La donna che non si è evoluta: ipotesi di sociobiologia (1981, scritto in parte come risposta a Symons 1979) tanto su Mary Jane Sherfy (1973) quanto su Darwin. Sherfy è più citata nell’indice di Hrdy che in quello di E.O. Wilson (1975). Hrdy è una teorica politica decisamente migliore di Wilson.
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loro precoce attenzione a sesso e genere in rapporto ad altre scienze umane o sociali, ma l’altra faccia di questa conquista è che questa disciplina, insieme alla psicologia e la biologia, è stata in prima linea nella costruzione di discorsi sessualizzati (Foucault 1976). Il “sistema sesso-genere” è una scoperta di primaria importanza, oppure una posizione sovra-determinata all’interno della logica natura-cultura, satura dei problemi impliciti in quest’ultima coppia? (Harding 1983) Entrambe, ovviamente. Molti commentatori hanno notato la somiglianza nelle categorie: donna/ animale/primitivo/altro/corpo/risorsa/bambino/materia/potenza, categorie che si prestano tutte ad un’inoculazione di significato. Sta veramente tutta qui la questione sul cosa sia il significante privilegiato? Strathern (1980) sostiene che le polarità occidentali natura-cultura si relazionano come la risorsa alla produzione compiuta, come la materia alla forma, come ciò che è appropriato a chi se ne appropria. Secondo Strathern, a causa di questa struttura, l’apparentemente innocente equazione di natura-cultura, per Hagan e (e implicitamente anche per altrɜ), distinzioni come selvaggio-domestico, è in realtà un errore di traduzione molto serio e carico di implicazioni politiche. La bio-antropologia è intrisa di questa relazione problematica ancora più in profondità dell’antropologia. Ma sono solo animali… L’epistemologia femminista, la teoria politica e il discorso scientifico ereditano i problemi dell’umanismo. Se l’umanismo, in molte delle sue forme, costruisce l’uomo attraverso la logica dell’appropriazione del primitivo, il civilizzato femminismo occidentale ha costruito il suo oggetto attraverso la logica di sesso-genere, insieme alla pretesa di riconoscere la supremazia maschile interculturalmente. L’“oggetto” veramente problematico del femminismo è stato la donna, ma una donna “sotto barratura”14 (vedi soprattutto i giornali “Questions Feministes” 1977-80 e “Feminist Issues” dal 1980). Ma è da notare che, “all’inizio”, la teoria femminista non ricostruiva il suo oggetto per mettere a fuoco l’unità storica dell’uomo e il suo progetto emergente di autorealizzazione nelle sue attività. Al contrario, la teoria femminista era usata come lente per vedere l’universale (o l’estremamente comune) dominazione della donna. In alternativa, la teoria femminista usa una versione ricostruita della donna per insistere su una scomposizione della categoria, l’irriducibilità delle differenze tra le donne a qualsiasi categoria unica di “donna”. Donna qui è plurale; la parola si sfalda nel pronunciarla (Sandoval 1990). Tra le possibilità aperte nella teoria da questa strategia c’è l’attesa scoperta che le donne non sono 14 Il riferimento è al concetto di sous rature di Derrida: cfr. (Derrida 1967, p. 131; tr. it., p. 130). [N.d.T.]
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sempre state soggette alla dominazione maschile, che c’è speranza anche nel passato e non solo nel futuro (Rosaldo 1980). Si è inoltre raggiunta la consapevolezza che anche le donne hanno giocato il ruolo di dominatrici. La teoria femminista crea così una genealogia grazie all’operatore sessogenere. Una genealogia è una storia dell’origine, che assegna posizioni da cui scaturiscono significati. La primatologia in questo senso è intrinsecamente una pratica genealogica. All’interno del campo della primatologia, possono essere generate – e lo sono state – tutte le possibili posizioni per il significato di essere femmina. La primatologia è un campo per contestare le categorie fondamentali strutturate dall’asse o dalla rete sesso-genere. I possibili significati di essere femmina nell’ordine dei primati sono al centro del discorso primatologico. I confini e gli oggetti sempre ambigui ed equivoci della primatologia sono fatti per questo discorso. Cosa distingue femmina da donna, femmina da femmine e donna da donne15? Qual è la posta in gioco, e per chi, nella registrazione degli intimi dettagli delle vite di babbuini e scimpanzé maschi e femmine? Il sesso, materiale grezzo del genere, rimane una specie di risorsa generativa, potenzialmente libera e liberatrice, ma limitata ovunque dalla politica del genere. La potenza è sempre apparsa più innocente dell’atto. La “fine del genere” diventa allora un possibile obbiettivo femminista, un obbiettivo veramente allettante. La stessa categoria di “donna” è uno scandalo che rende indispensabile la fine delle condizioni che l’hanno prodotta. Ma se ci liberiamo dal “genere”, dobbiamo farlo anche con il “sesso”, proprio come l’“Occidente” non può reggersi senza i suoi “altri” e viceversa. La costruzione esistente di donna/femmina all’interno di un campo sociale 15 Il merito del femminismo postmoderno è sicuramente aver portato ad un ripensamento di alcuni concetti tipici del femminismo, come la stessa categoria di donna (Butler 1990; De Lauretis 1999; Braidotti 1995). Non esiste quindi un’unica definizione con le varie caratteristiche che identifichino e parlino generalmente per la donna. Definire e delimitare è inevitabilmente poco inclusivo, anche perché le caratteristiche attribuite alle donne sono di solito frutto di concezioni stereotipate che non possono e non devono soddisfare chi si identifica nel genere femminile. Il merito del femminismo di terza e quarta ondata e il femminismo nero e decoloniale è proprio quello dell’aver aperto la strada all’intersezionalità delle lotte. Il femminismo intersezionale ricorda che non bisogna esentarsi mai dalle pratiche di consapevolezza; che sia più importante direzionarsi verso l’inclusione che verso l’universalizzazione di un’esperienza unica (hooks 2000). Questi contributi hanno il merito di riscrivere la grande narrazione del femminismo bianco eterosessuale e mettono in discussione il concetto di sorellanza globale, sottolineando come non sia sufficiente indagare i rapporti esistenti fra uomini e donne, ma sia necessario esaminare le disuguaglianze tra donne che provengono da contesti geopolitici differenti. [N.d.T.]
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ed epistemico ostile, strutturato dagli assi o reti natura/cultura e sesso/genere, è stato un problema centrale per la teoria femminista. Ma anche se è chiaro che donna è il genere (politico) del sesso (costruito) femmina, cosa sono le donne? (Anche gli uomini hanno una strana relazione all’uomo, per non parlare di quella che hanno al maschio. Ma non è una relazione casuale). Qual è l’oggetto (allo stesso tempo fine e questione fondamentale) del femminismo? Qual è l’“oggetto tecnico-naturale della conoscenza” del femminismo, considerato come una scienza “umana” e “naturale”? In che modo l’oggetto della teoria e pratica femminista si relaziona agli “oggetti tecnico-naturali” della primatologia? Gli animali, specialmente gli animali liminari16che sono i primati, fungono da oggetti speciali per la comprensione delle origini del sesso socializzato, ovvero del sesso genderizzato. Questo è un affare serio nella politica di dominazione e liberazione, nella quale la sorgente di energia, la luminescenza autosufficiente estranea alla luce morta della ragione, deve essere situata e destinata ad un altro capitolo della storia della dominazione. Gli studi sulla cultura e la personalità hanno fatto ricorso regolarmente alla psicobiologia del sesso per una buona ragione. Il confine tra sesso e genere, invisibile ma sempre essenziale da tenere presente, dev’essere indagato. Il confine tra sesso e genere è il confine tra animale e umano, un’illusione ottica e una conquista tecnica molto potente. I primatologi, incluse le primatologhe donne, hanno accordato un’attenzione fuori dall’ordinario al comportamento sessuale. Quest’ultimo sposta facilmente i significati critici all’origine della socialità, esplorata attraverso la logica di natura e cultura. Le primatologhe donne si sono focalizzate sul sesso delle femmine primate (sessualità? Questo termine è riservato agli umani?) in parte per sottrarlo allo stato inerte, naturale che aveva nei testi dei loro fratelli primati. La categoria femmina è stata strutturata in un modo per molti versi analogo alle ricostruzioni della categoria di donna. Il sesso femminile è stato una mera risorsa per l’azione maschile che ha portato gli animali ai bordi dell’umanità. Ma ora non più; il sesso femminile adesso possiede le promettenti proprietà duali, allo stesso tempo attive e naturali, che gli permettono di fungere anche da mediatore per il passaggio alla cultura. Non più solo pedine dello scambio maschile, le femmine primate sono diventate protagoniste sessuali a pieno titolo. Negli ultimi 15 anni, il sesso femminile 16 L’espressione originaria boundary animals richiama proprio quegli animali a cavallo fra lo stadio ominoide e quello ominide, per questo motivo, la nostra traduzione in “animali liminari” mantiene allo stesso modo la dimensione di separazione e di commistione. [N.d.T.]
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è diventato molto attivo, sociale e interessante – per non dire orgasmico, in tutto l’ordine dei primati (Burton 1971; Chevalier-Skolnikoff 1974; Lancaster 1979; Foucault 1978). Solly Zuckerman (1932) riconoscerebbe difficilmente la società dei primati. Il sesso femminile è stato socializzato e attualizzato, una tendenza critica a fare delle femmine attrici politiche all’interno del campo epistemico che sto provando a descrivere. Un risultato atteso è che le femmine arrivino ad avere anche una ragione strategica per gestire in maniera saggia i loro investimenti, un colpo di scena rispetto al “modo di pensare materno” (Ruddick 1982; Altmann 1980). È bello essere “informati”. La pletora di racconti riscritti nella complessa storia degli studi sui primati solleva la questione centrale di questo scritto: può esistere un (qualsiasi) altro significato per la politica, il classico progetto di produrre un mondo pubblico dal caos della differenza, che non sia quello della guerra e della dominazione, mascherata nella logica dello scambio? (Hartsock 1983b) Le storie di scimmie narrate dalle donne sono state veramente diverse? Come quel modello di individualità e di comunità che sono le amebe sociali, la primatologia può avere dei corpi fruttiferi che risorgano dal suo affamato progetto utopico seminando nuovi sensi del potere? Senza pregiudicare prima della fine dell’articolo le opinioni del lettore su queste intenzioni autoriali, permettetemi di suggerire alcune moderate conclusioni per guidare la lettura. Per prima cosa, nonostante la primatologia sia piena di ideologia nel senso classico, sarebbe ingenuo e sbagliato considerare il problema della politica sessuale attraverso un’ideologia dello svelamento. Non c’è nessuna cospirazione del patriarcato capitalista in cielo ai fini di creare una scienza del comportamento animale per naturalizzare le fantasie dei maschi americani bianchi del ventesimo secolo, a prescindere da quanto a volte l’evidenza sembri allettante. E una lotta per una scienza femminista non può andare avanti scrivendo solo i racconti che si vorrebbe fossero veri, nonostante “noi” tuttɜ lo facciamo. È importante non banalizzare la difficoltà molto concreta di un buono storytelling scientifico. Genere e sesso sono centrali nella costituzione della primatologia, ma in modi sempre complessi e in interazione con molteplici altri assi strutturanti interrelati che formano la rete dei discorsi occidentali. La reale costituzione di sesso e genere come oggetti e condizioni di conoscenza – e dunque categorie politiche – è in questione nel femminismo e nelle letture/produzioni femministe della primatologia. Uno scienziato senior (maschio) che ho intervistato, sosteneva che sesso e genere contano nella scienza dei primati, determinando come si conosce,
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ma la “variabile” è sommersa e offuscata da un mare di altre differenze tra come donne e uomini producono le scienze. Sostengo che abbia suggerito la metafora sbagliata. Noi non stiamo cercando “variabili” che potrebbero essere disposte come dipendenti o indipendenti, magari ponderate attraverso un astuto impiego di analisi a molteplici variabili, né differenze essenziali tra le pratiche di donne e uomini come soluzioni alle questioni chiave, sebbene queste differenze non siano banali. Stiamo invece cercando le costruzioni pratiche e teoretiche di un campo narrativo nel quale il modello esplicativo è tratto più dalla semiotica e dall’ermeneutica che dalle statistiche. Ma spero in una semiotica politicizzata, dove la politica è la ricerca di un mondo pubblico attraverso molte pratiche socialmente fondate, inclusa la primatologia. Come potrebbe la primatologia non essere il terreno per una lotta femminista? Il posto delle donne occidentali è nella giungla. Che altre donne e uomini occupino quello spazio mitico/materiale quando osservano scimmie e gorilla è una funzione di altre storie e altri racconti17.
2. La giungla: scene In quantità moderate, i numeri non hanno mai tracciato la traiettoria dell’interpretazione. All’incirca quante donne praticano la primatologia per guadagnarsi da vivere? È difficile rispondere a questa domanda per molte ragioni. La mia analisi è sulla primatologia sul campo, ossia, studi di animali che variano da selvaggi a semi-liberi ma dotati di un ambiente che può essere epistemicamente costruito per essere “naturale”, una possibile scena delle origini evolutive. Ma la primatologia è contemporaneamente una scienza di laboratorio e sul campo che attraversa dozzine di confini disciplinari in zoologia, ecologia, antropologia, psicologia, parassitologia, ricerca biomedica, psichiatria, conservazione, demografia, e così via. Ci sono tre principali associazioni professionali alle quali i primatologi statunitensi presumibilmente appartengono, ma molti degli individui che hanno apportato dei considerevoli contributi e che mi hanno permesso di intervistarli e di avere accesso ai loro articoli non pubblicati, non appaiono per molti anni o mai nelle liste dei membri. Dando molte cose per assunte, utilizzerò le liste dei membri dell’American Association of Physical Anthropology (AAPA), l’American Society 17 Abbiamo scelto di tradurre i due termini con storie e racconti per eliminare l’ambiguità derivante dal singolo utilizzo del termine storia. Nel testo originale, infatti, Haraway utilizza histories (in inglese riferito a storie) e stories (in inglese usato per racconti). [N.d.T.]
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of Primatologists (ASP), e l’International Primatological Society (IPS) intorno al 1980 per suggerire l’attuale livello di partecipazione delle donne nel campo della primatologia. Questi conteggi disciplinari globali danno comunque un’immagine parziale, perché ci sono buone ragioni per credere che le donne siano più fortemente rappresentate nella primatologia sul campo che in studi esclusivamente di laboratorio, e siano state più riconosciute nella primatologia sul campo indipendentemente loro numero. Non c’è alcuna divisione assoluta tra campo e laboratorio, ma una problematica differenza di enfasi, malgrado la dottrina ufficiale sostenga che gli studi naturalistici abbiano bisogno di studi complementari di laboratorio con il loro maggiore potere di manipolazione sperimentale. Mi rendo conto del problema di concentrarmi solo sui nordamericani, con qualche cenno agli inglesi, malgrado l’importante fatto che la primatologia sia emersa con una partecipazione internazionale a partire dai tardi anni ’50. Con alcune importanti eccezioni, le portavoce più autorevoli e le più grandi quote femminili in primatologia sono state cittadine statunitensi, formatesi in istituzioni statunitensi, e/o impiegate in istituzioni statunitensi. La maggioranza schiacciante, relativamente maggiore rispetto ad altre scienze biologiche, è costituita da bianche, anche se ultimamente le cose stanno cambiando. Nel 1977-78, la lista dell’IPS (fondata nel 1966) contava 751 membri, dei quali 382 registrati con indirizzi statunitensi, 92 britannici, 115 giapponesi, 14 africani (10 dal Sud Africa), e 151 di altre nazionalità18. Nell’IPS, la totalità delle donne costituiva il 20% deɜ socɜ: 22% del totale degli Stati Uniti, 22% della Gran Bretagna, 9% del Giappone, 24% dɜi “altrɜ”. Molti individui non hanno potuto essere classificati per genere dalle iniziali; sono stati quindi lasciati fuori da questi calcoli, probabilmente sottostimando la presenza delle donne. Per sotto-disciplina, le donne contavano il 22% deɜ antropologɜ, il 12% dɜ ricercatorɜ medicɜ, il 27% dɜ psicologɜ, il 19% di coloro che erano coinvoltɜ principalmente nella conservazione di zoo o degli animali selvaggi, il 19% di zoologɜ o ecologistɜ, il 25% di altre 18 In generale, il personale di ricerca sul campo dei siti permanenti non compare negli elenchi professionali; questo fa sembrare erroneamente lo studio della primatologia sul campo un affare più bianco di quanto in realtà sia. Dato che il personale qualificato è sempre più composto da cittadini dei paesi in cui vivono i primati non umani, questi registri sono fuorvianti. La primatologia scritta al di fuori dei rapporti dei parchi nazionali e dei documenti interni ai siti di ricerca è in gran parte scritta da persone rappresentanti di queste liste. Le liste privilegiano anche solo scienziati con dottorato. Segni di cambiamento si vedono in (Goodall et al. 1979) e (Baranga 1978).
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categorie. (Le percentuali dei membri totali che potrebbero essere ascritte a queste sotto-discipline sono il 17% per l’antropologia, il 20% per la medicina, 16% per la psicologia, 3% per zoo e animali selvaggi, 9% degli zoologistɜ o ecologistɜ, e il 25% per altro). In maniera approssimativa, le donne sono relativamente sovra-rappresentate (se questa parola può avere un senso dove il livello non raggiunge mai il 30%!) in antropologia, psicologia, e “altro”, e presentano nella manutenzione di zoo e animali selvaggi, zoologia ed ecologia numeri all’incirca proporzionali alla loro presenza in Società. Le donne sono sotto-rappresentate in medicina. Il numero molto basso di donne Giapponesi, nonostante l’importanza internazionale della primatologia giapponese, si traduce nella difficoltà di trovare (usando risorse di lingua inglese) abbastanza su di loro come ricercatrici individuali. Questo è in sconcertante contrasto con la prominenza delle donne occidentali nel settore. La lista del 1979 dell’AAPA (fondata nel 1918) elenca 1200 persone, delle quali intorno al 26% sembra siano donne. Lɜ antropologɜ biologicɜ [physical anthropologists] hanno tradizionalmente insegnato in scuole di medicina e ricercato posizioni in musei, ma questa generalizzazione è debole a partire dal 1980. La lista dell’ASP (fondato nel 1966) del 1980 conta 445 individui, dei quali soltanto 23 stranierɜ, principalmente canadesɜ. Circa il 30% dell’ASP è composto da donne, incluso il 45% di quelle che si danno una direzione di ricerca legata all’antropologia. Una tale direzione riflette il fatto che i lavori accademici per i primatologɜ, qualsiasi sia la loro disciplina di formazione, sono spesso nei dipartimenti di antropologia. Intorno al 24% deɜ psicologɜ sono donne, 36% delle quali negli zoo o nella salvaguardia della natura, 20% del totale in zoologia/ecologia, e il 47% i cui interessi intersecano la psichiatria (comparato con l’11% nell’IPS). Le donne primatologhe appaiono essere formate e/o avere lavori in antropologia in proporzioni considerevolmente più alte rispetto alla loro presenza nell’associazione come intero. Il contrario sembra valere per zoologia/ecologia. Da notare che le donne primatologhe statunitensi sembrano avere più probabilità di unirsi all’American society rispetto ad associazioni internazionali, in confronto agli uomini statunitensi. Per fare un confronto, la pubblicazione della National Science Foundation del gennaio 1982, “Women and Minorities in Science and Engineering” nota che dal 1978 negli Stati Uniti le donne rappresentavano intorno al 20% deɜ scienziatɜ socialɜ, della vita e matematicɜ impiegatɜ, ma solo il 9,4% di tutti gli scienziatɜ e ingegnerɜ impiegatɜ. (Contrasto con i dati delle donne del 43% di tutti i lavoratori professionisti e connessi, tralasciando la stratificazione di cosa conta come professionista, e figuriamoci “connessi”). Intor-
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no all’85% della crescita nell’impiego di donne nel dottorato di scienze dal 1973-1978 era nelle scienze della vita, scienze sociali e psicologia, insieme alle scienze della vita (30%), scienze sociali (17,2%), e psicologia /14%) rappresentano il 61,9% di donne scienziate. Questo è l’insieme dal quale vengono i primatologɜ, e risultano numeri grosso modo caratteristici delle altre scienze della vita e sociali. In nessuno di questi elenchi di campi globali la rappresentazione delle donne è uguale al 30%. Ad eccezione della psicologia, in nessuna scienza la presenza delle donne all’interno di un dottorato arriva al 20%. Nonostante queste proiezioni poco incoraggianti, le donne primatologhe si distinguono leggermente. Il loro impatto è più grande dei loro numeri, in confronto alla maggior parte delle altre aree dell’antropologia e tutte le altre aree della biologia. Per trarre questa conclusione, mi servo della loro pratica e delle loro pubblicazioni. La primatologia sul campo è un’attività recente, in cui pressoché tutto il lavoro è stato fatto a partire dai tardi anni ’50; il periodo dal 1975 rappresenta la più forte crescita degli studi sul campo dei primati. La crescita esplosiva della primatologia si è sovrapposta alla “seconda ondata” del movimento delle donne dell’Europa e del Nord America. Le giovani donne e i giovani uomini che entravano in primatologia in quegli anni non potevano ignorare che il loro campo era messo in discussione dal “fuori”, nelle politiche di genere e tanto altro. Era anche contestato dall’“interno”. Il risultato fu l’esplosione di scritti di donne sulla società e il comportamento dei primati per un pubblico al contempo specializzato e non. La seguente lista, che consta solo di libri, difficilmente la forma maggiore di pubblicazione, soprattutto in scienze naturali, non è esaustiva; ma offre un assaggio della ricchezza e della cronologia della solida ascesa delle donne nella produzione in primatologia. Nadie Kohts, Untersuchungen uber die erkentniss Fahigkeiten des Schimpansen aus dem zoopsychologischen Laboratorium des Museum Darwinianum in Moskau19, (Kohts 1923), apre la mia lista sia perché permette di infrangere immediatamente le categorie di Americano, post Seconda Guerra Mondiale, e primatologia sul campo, e anche di onorare un importante predecessore nello studio della mente primate. Includo la prossima voce per sottolineare il frequente ruolo della moglie ufficialmente non-scienziata, che ha contribuito sostanzialmente alla produzione del testo sui primati: (Yerkes e Yerkes 1929)20. La prossima voce è probabil19 Studi sulle capacità cognitive dello scimpanzé del laboratorio zoopsicologico del Museo Darwinianum di Mosca. [N.d.T.] 20 A partire dal 1929, ma con quasi tutte le voci comparse dal 1965 in poi, ho contato circa 65 coppie sposate che pubblicano insieme in primatologia, compreso un
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mente a sua volta poco conosciuta tranne che per lɜ affezionatɜ dei gorilla, ma mette in evidenza diverse categorie importanti per il genere in primatologia: il lavoro di manutenzione di zoo, lo status di amatore, il successo nell’allevamento di gorilla – (Benchley 1942). Questi tre nomi precedenti la Seconda Guerra Mondiale sono anche inclusi per sottolineare la mia impossibilità di trovare anche solo un singolo libro sui primati, specializzato o no, scritto da una donna scienziata con un dottorato di qualsiasi nazionalità prima degli anni Sessanta. Ce ne sono diversi scritti da uomini. Poi arriva il nome meglio conosciuto di tutti, che sta all’interno di una lista cronologica di biologi e antropologi professionisti che scrivono per diversi tipi di pubblico: Jane van Lawick Goodall (1967) seguito da (1971); Thelma Rowell (1972); Alison Jolly (1966; 1972); Jane Lancaster (1975); Sarah Blaffer Hrdy (1977 e 1981); Alison Richard (1978) e (1985); Jeanne Altmann (1980); Katie Milton (1980); Nancy Tanner (1981); Linda Marie Fedigan (1982); Adrienne Zihlman (1982); Dian Fossey (1983). Diversi altri libri sono in corso d’opera. Un quadro più largo emerge se consideriamo la profusione di libri centrati su dibattiti intorno a sesso e genere che prendono seriamente in considerazione il lavoro delle donne primatologhe e dei primatologi trattati qui. Ognuno di questi libri è parte di una vasta lotta sociale internazionale, specialmente dagli anni Sessanta in poi, sulla struttura politica simbolica e sociale, la storia (naturale e non), e il futuro della donna/donne. Le lotte politiche non sono semplici accidenti contestuali nei testi scritti. Il movimento delle donne, per esempio, non è il “fuori” di qualche altro “dentro”. I testi scritti sono parte della lotta politica, ma una lotta condotta con dei mezzi specificamente “scientifici”, incluse le possibili storie nel campo narrativo della primatologia. Per definizione, il momento di origine dev’essere fuori dalla storia che racconterò, perciò considero come primo l’unico, rinnegato classico pre-anni sessanta, un libro che è per i primati femmina e la primatologia femminista quello che il Secondo Sesso di Simone di Beauvoir è per la teoria femminista della seconda ondata: “Adam’s Rib” di Ruth Hershberger (pubblicato nel 1948, ma ristampato come articolo scientifico da Harper and Row nel 1970, difficilmente una data accidentale). Anche la dedica del libro di Hershberger a G.E.H., G. Evelyn Hutchinson, un importante scienziato che aveva fatto sua l’abitudine di sostenere le donne
conteggio sommario degli psicologi di laboratorio e un conteggio più attento dei lavoratori sul campo. Nel mio conteggio manca la maggior parte delle coppie al di fuori dell’Inghilterra e degli Stati Uniti. Questa cifra rappresenta una proporzione significativa di tutti i primatologi attivi.
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scienziate eterodosse, evidenzia l’importanza cruciale degli uomini profemministi nella preistoria delle lotte femministe per la scienza. Un titolo degli anni sessanta offre il punto di partenza per pensare alle femmine per quanto riguarda la classe (zoologica), ma è da notare come il campo si espande attraverso gli anni settanta, quando il comportamento materno non è più la definizione totalmente vincolante di cosa significa essere femmina: Harriet Rheingold (1963); Elaine Morgan (1972); Carol Tavris (1973); Rayna Rapp Reiter (1974), con il “classico” articolo di Sally Linton, “Woman the gatherer: male bias in anthropology”; Evelyn Reed (1975); M. Kay Martin e Barbara Voorhies (1975), dedicato a Margaret Mead; Ruby Rohrlich Leavitt (1975); Cynthia Moss (1975); Bettyann Kevles (1976); H. Katchadourian (1978); Lila Leibowitz (1978); Lionel Tiger e Heather Fowler (1978); W. Miller e L. Newman (1978); Elizabeth Fisher (1979); Frances Dahlberg (1981); Helen Fisher (1982); Ruth Bleier (1984). Sarebbe un serio errore lasciare fuori la fantascienza21, che è al contempo influenzata e influisce sulle lotte su sesso e genere nella primatologia, per esempio Jean Auel, Ayla, figlia della terra, Marge Piercy, Woman on the Edge of Time, e la bio-fiction22 di C.J. Cherryh di James Tiptree, Jr., entrambe scrittrici di fantascienza donne nonostante le apparenze nominali. La lista precedente è eterogenea sotto diversi punti di vista – lealtà politica, pubblico mirato, credenziali degli autori ed editori, formato di pubblicazione, genere, ecc. Curiosamente, è nazionalmente ed etnicamente23 omogenea; questo è un punto importante in vista della tendenza universalizzante della letteratura, che cerca continuamente di rappresentare la natura della “donna”. Nessuno potrebbe affermare secondo alcuna delle liste in questo articolo che le donne bianche statunitensi occupino uno spazio ideologico unificato o siano in un qualsiasi senso “in opposizione” alle posizioni maschiliste, e ancora meno agli uomini. Ma dovrebbe anche risultare impossibile non cogliere l’impatto collettivo di queste storie pubbliche e organizzate: nuove linee di forza sono presenti nel campo dei primati. È diventato impossibile ascoltare gli stessi silenzi in ogni testo.
21 La fantascienza [science fiction] è un registro che Haraway utilizza spesso: cfr. (Haraway 1985) ma anche la storia delle Camille, raccontata in (Haraway 2019). [N.d.T.] 22 Per biofiction si intende una pratica narrativa che mescola due generi letterari diversi: la biografia e il racconto di finzione. [N.d.T.] 23 In italiano il termine “razzialmente” non è utilizzato, abbiamo quindi deciso di usare etnicamente pur sapendo che i due termini non sono sinonimi. Sul tema, cfr. Petrovich Njegish e Scacchi 2012. [N.d.T.]
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Il campo narrativo è stato ristrutturato da una polifonia che da alalia24 si fa eteroglossia25. Nel raccontare importanti storie dell’origine sulle persone del Libro, le donne ora praticano anche la glossolalia26, immaginando il femminile all’interno di un linguaggio nativo (Elgin 1984). Volumi editi o co-editi da donne primatologhe professioniste producono un’altra lunga lista che comincia con la pubblicazione degli articoli della conferenza Wenner Gren del Phyllis Jay nel 1965 (Jay 1968). La lista finisce per adesso con un’ondata di libri pubblicati nel mezzo degli anni ottanta. Questi libri evidenziano il recente posto egemonico della “teoria sociobiologica” negli studi dei primati e il complesso posto della sociobiologia nella produzione delle rappresentazioni dei primati consapevolmente pro-femmine e spesso femministe, e certamente anche dei vertebrati, dell’evoluzione, del comportamento, e dell’ecologia (Hausfater e Hrdy 1984; Wasser 1983; Small 1984). La collezione di Meredith Small, Female Primates: Studies by Women Primatologists, è esplicitamente una sorta di celebrazione dei primati femmina, umani e animali, che collaborano nella scrittura della primatologia. È anche pubblicato come Volume 4 delle Monographs in Primatology sotto lo sguardo minuzioso di nove membri della commissione editoriale, dei quali solo una (Jeanne Altmann) è una donna. L’editore è uno studente laureato, e lei era esplicitamente incoraggiata dal suo responsabile uomo, Peter Rodman. Female Primates include 21 donne e un uomo (come co-autore) tra i suoi autori. La gamma di interessi include animali post-menopausa, adolescenza femminile, esuberanza sessuale femminile, strategie di allattamento, sistemi di accoppiamento spiegati dal punto di vista della biologia femminile come variabile indipendente, e altro ancora. Ogni idea che il libro possa essere esageratamente popolare dovrebbe essere stroncata da una combinazione di stile e un cartellino del prezzo di $ 58; è specialistico fino al midollo.
24 Sinonimo di afemia nel vocabolario medico, l’alalia denota un’incapacità o un disturbo nell’articolazione delle parole. [N.d.T.] 25 Eteroglossia, dal greco “etero” (altro) e “glossa”(lingua), è stato coniato da Mikhail Bakhtin nelle sue analisi sul genere del racconto, e sta a significare l’uso simultaneo da parte di un personaggio di diversi tipi di discorso, nella tensione che questo scarto produce. Cfr. Ivanov 1999. [N.d.T.] 26 Il termine glossolalia, sinonimo in inglese di “speaking in tongues”, deriva dal greco “glossa” (lingua) e “laleo” (parlare), e si riferisce alla produzione di sillabe concatenate secondo un ordine che non produce alcun significato denotativo: “A meaningless but phonologically structured human utterance, believed by the speaker to be a real language but bearing no systematic resemblance to any natural language, living or dead” Cfr. Samarin 1972. [N.d.T.]
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Poiché è una sorta di riepilogo e celebrazione delle femmine primate e delle donne che le hanno rese visibili, ovvero, una costruzione di un “noi”, Female Primates meriterebbe un’analisi completa. Per ora, tuttavia, mi accontento di un rapido sguardo a due saggi, per via della loro strategia nell’introdurre articoli successivi, che inquadrano l’intera impresa. Ogni saggio solleva la questione della differenza implicata dal fatto che le donne facciano primatologia concentrandosi su animali femmina. Ma ognuno adotta anche una filosofia della scienza e un’ideologia del miglioramento progressivo del sapere che impedisce un’indagine del campo epistemico strutturato da sesso e genere. Secondo gli articoli considerati, il “bias maschile” esisterebbe, ma potrebbe essere corretto abbastanza facilmente. Per questo problema, non ci sarebbe bisogno di relazioni sociali pericolosamente politiche all’interno della primatologia, né di sfidare la giustificazione dei professionisti “nativi” su come il sapere è fatto, o per lo meno non in pubblico. Bias azzera bias; il sapere cumulativo emerge. Le ragioni di fondo date, tuttavia, alludono a una posizione più forte: solo il bias permette che certi fenomeni “reali” siano conoscibili, o solo la spiegazione dal punto di vista di un gruppo afferra il mondo “reale”, non il punto di vista di un tutto illusorio27 che in realtà maschera sempre una parte interessata. In questo caso il bias, o il punto di vista, risulta essere l’operatore sociale ed epistemico sesso-genere. La grande domanda scientifico-politica è come tale potente punto di vista venga costruito. Nella costruzione dell’animale femmina, la primatologa è a sua volta ricostruita, dotata di una nuova genealogia. Ma la rinascita è all’interno dei confini dell’“Occidente”, all’interno della sua rete ubiqua di natura-cultura. La primatologia è un orientalismo scimmiesco (Said 1978). Jane Lancaster, una dottoranda di Scherwood Washburn a UC Berkeley nel 1967 e una ricercatrice del comportamento primate da un punto di vista antropologico, hanno introdotto il volume. L’introduzione è degna di nota per la sua adesione a prospettive sociobiologiche e socioecologiche; 27 Haraway, nel famosissimo saggio del 1988 Situated Knowledges, afferma che la conoscenza è sempre parziale, in due sensi del termine. È parziale nel senso di incompleta, dal momento che ogni punto di vista è sempre “situato” e non può cogliere tutto. Ed è parziale anche nel senso che è di parte, dal momento che la conoscenza non è mai del tutto passiva, così come gli esseri umani che si impegnano nel suo conseguimento non sono semplici dispositivi ma sono guidati da interessi e desideri, vale a dire da pregiudizi. Ciò si contrappone quindi nettamente alla cosiddetta view from nowhere, ossia la pretesa universalistica dell’epistemologia mainstream di poter astrarre dalle proprie condizioni personali, sociali, politici etc., e conoscere in maniera universale e inequivocabile, a prescindere dal soggetto che conosce. [N.d.T.]
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è un segno dello stato trionfante di queste strutture esplicative in biologia evolutiva, compresa la primatologia dalla metà degli anni ottanta. All’interno di questa cornice, Lancaster guarda al campo degli studi dei primati per studiare quattro aree del dimorfismo sessuale: “differenze sessuali nel dominio, comportamento di accoppiamento e assertività sessuale, attaccamento al territorio e al gruppo natale, correlati ecologici e sociali della differenza sessuale e della dimensione del corpo” (Lancaster in Small 1984, pp. 7-8). In ogni caso, il punto è che “anche le femmine fanno x”. Guarda caso, si scopre che 1) le femmine sono competitive e prendono seriamente il comando; 2) anche le femmine si spostano e non sono incarnazioni di attaccamento sociale e prudenza; 3) anche le femmine sono sessualmente assertive; e 4) le femmine nelle loro vite hanno un fabbisogno energetico altrettanto significativo che quello dei maschi. Il focus è sulle femmine e non sulle “specie in evoluzione come un tutto amorfo. Noi esploriamo il mondo sociale delle femmine piuttosto che quello del gruppo sociale […] Impariamo a capire le strategie riproduttive delle femmine e per controbilanciare queste strategie con quelle perseguite dai maschi nei loro sistemi sociali […]. Infine, stiamo arrivando ad un punto di equilibrio dove i comportamenti e gli adattamenti dei sessi sono ponderati allo stesso modo” (Lancaster in Small 1984, p. 8). Scoprire le femmine significa distruggere un tutto precedente, chiamato ora “amorfo”, piuttosto che il potenziale conseguito dalle specie. Il femminismo richiede assolutamente di rompere alcune versioni di un “noi” e di costruirne altre. Quella di Lancaster è una costruzione di un “noi” veramente interessante, in cui i confini tra animale femmina e primatologa donna sono sfumati, poco chiari. Il titolo deliberatamente ambiguo dell’intero volume è ripetuto ancora e ancora: “noi” siamo tutte femmine primate qui, al di fuori della storia nel giardino originale. Quel giardino è naturalmente situato nell’“Occidente” liberale. Competizione, mobilità, sessualità ed energia; questi sono i segni dell’individualità, del valore, della cittadinanza originaria o primate. L’“equilibrio” è uguaglianza in questi problemi, raggiunto a fatica da una specifica attenzione al punto di vista non del “tutto amorfo” ma del “mondo sociale delle femmine”. Quella di Lancaster è una storia dell’origine sulla proprietà nel corpo individuale; è un contributo classico nell’ampio testo della teoria politica liberale, riscritto nel linguaggio della strategia riproduttiva. Sesso e mente sono di nuovo reciprocamente determinanti. Nella ricostruzione della femmina primate come un generatore attivo della società primate attraverso la sessualità attiva, la mobilità fisica, il fabbisogno energetico proprio e dell’ambiente e la competizione sociale, la donna “primatologa”, ovvero, la natura (umana) femmina, è ricostruita
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per avere la capacità di essere una cittadina, parte di un “noi” pubblico, che produca sapere pubblico, una scienziata. La scienza è molto sexy, una questione di eros e potere. In modo appropriato, questo “noi” è nato in una storia dell’origine, una macchina temporale per cominciare la storia, e quindi fuori dalla storia. Thelma Rowell, una zoologa senior all’Università della California a Berkeley che ha giocato un ruolo fondamentale nella fine delle storie sul comportamento sociale primate, specialmente le storie sul dominio (Rowell 1974), è stata invitata a introdurre la prima collezione di articoli intitolata Mothers, Infants, and Adolescents. Il messaggio di Rowell riguarda come sempre la complessità. Rowell non esita a segnalare il retaggio del bias maschile in primatologia. Un esempio è la classificazione delle femmine come immature o adulte esclusivamente in funzione della loro capacità di riproduzione, mentre i maschi sono categorizzati attraverso un’intera serie di stadi radicati nelle funzioni sociali oltre che in quelle minori riproduttive. “Del resto, c’è scarso riconoscimento dello sviluppo sociale continuo negli umani femmina, classificate nella maggior parte dei casi come immature o abbastanza mature per riprodursi. Invece, lo sviluppo sociale continuo seguente la pubertà nei maschi è stato riconosciuto nei primi studi del comportamento sociale primate, così come gli stadi dell’anzianità sono spesso formalmente riconosciuti tra gli uomini. Questo doppio standard ha, credo, ritardato la nostra comprensione dell’organizzazione sociale dei primati” (Rowell in Small 1984, p. 14). Rowell segnala il merito di questi articoli nel considerare il mondo primate dal punto di vista della “scimmia femmina”, in tal modo “sfidando le spiegazioni accettate”. Ma va oltre, scrivendo “ho la sensazione che sia più facile per le femmine empatizzare con altre femmine, e che l’empatia sia un aspetto accettato implicitamente negli studi dei primati – perché produce dei risultati” (Rowell in Small 1984, p. 16). Tuttavia, Rowell non esplora le preoccupanti implicazioni di queste posizioni a proposito del processo di strutturazione dell’osservatore che ne determina lo sguardo. Invece, poiché i maschi si identificano con i maschi e le femmine con le femmine e la primatologia attrae entrambi i generi umani, il risultato è la somma dei due, neutralizzando il “bias” e conducendo a un progresso cumulativo: “l’immagine stereoscopica del comportamento sociale dei primati che ne risulta è più sofisticata di quella attuale per altri gruppi [di mammiferi]” (p. 16). Ma le storie non sono stereoscopiche, come le immagini di occhi separati, interpretate da un centro nervoso più alto; sono invece perturbatrici e ristrutturanti dei campi del sapere e della pratica. Il lettore non è un tectum ottico, ma una parte della mischia, perciò ogni speranza di una comprensione più alta da quella fonte è vana.
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Inoltre, “l’empatia” produce effetti anche sull’antropologia umana, costituendo una parte di un retaggio molto composito che include universalizzazione, identificazione e negazione della differenza, poiché l’“altro” è confacente alla strategia esplicativa di chi scrive. L’empatia è parte della cassetta degli attrezzi scientifica occidentale, tenuta in una costante tensione produttiva con la sua gemella, l’oggettività. L’empatia è oscura, segreta o implicita, mentre l’oggettività luminosa, nota o esplicita. Ma ognuna produce l’altra nella storia della scienza moderna “occidentale”, proprio come natura-cultura e donna-uomo sono vicendevolmente costruite in una logica dell’appropriazione e del progresso28. Quando Lancaster vuole vedere “equilibrio” e Rowell scrive di una “immagine stereoscopica”, esse pongono e allo stesso tempo trascurano lo spinoso problema della costruzione scientifica di sesso e genere come oggetti di conoscenza e come condizioni del conoscere. Le filosofie della scienza ufficiali (o native) tra i ricercatori oscurano la complessità della loro pratica e la politica della “nostra” conoscenza. Il resoconto delle pubblicazioni e la semplice stima numerica devono essere completati da un breve sondaggio sulle principali istituzioni che hanno formato le donne scienziate sul campo. La pratica professionale delle donne sul campo della primatologia ha significato l’accesso, la sottomissione e la partecipazione ai mezzi istituzionali della produzione della conoscenza. Nonostante il linguaggio figurato del National Geographic che rappresenta Jane sola nella giungla con i gorilla, un dottorato è conferito per un lavoro sociale, spesso vissuto come solitario e talvolta alienato, in un tipo differente di giungla dove le scimmie e i gorilla sono trascritti in testi, o, più recentemente, filmati29. 28 Si può sostenere che la scienza più autorevole sia codificata secondo le maggiori capacità empatiche e intuitive, esibite in modo speciale dai rappresentanti del genere maschile, non di quello femminile. Il sogno di Kekule dell’anello di benzene è un esempio; intere parti dell’industria chimica derivano da quella notte. Ad Einstein, Polanyi, Chargaff, Faraday, altri fisici, specialmente fisici teorici o matematici, vengono attribuite capacità speciali per intuire il mondo. L’attribuzione del Genio non si basa solo, e nemmeno principalmente, sull’ideologia dell’oggettività. Tuttavia, non sorprende che le stesse scienze siano codificate come quelle che esigono i maggiori poteri di discernimento razionale e di “oggettività”. La codifica di genere è necessariamente contraddittoria, o non potrebbe essere il potente operatore che è. Tutti sfuggirebbero alla rete, e purtroppo nessuno di noi lo fa, anche se di tanto in tanto de-gen(d)eriamo con successo parti di noi stesse. È un po’ rischioso, anche per i privilegiati. Considerazioni variegate e contrastanti di questi punti di vista femministi si trovano in (Traweek 1982) e (Keller 1983 e 1985). 29 Anche Tarzan ha imparato a leggere; è infatti il primo di una lunga serie di autodidatti, la questione della bibliogenesi. Questa progenie comprende anche il mostro di Frankenstein, l’autore di Tarzan, Edgar Rice Burroughs, e l’autrice di Franken-
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Non tutte le istituzioni che offrivano borse per condurre ricerche sul comportamento primate concedevano dottorati alle donne. Per esempio, i laboratori di Harry Harlow all’Università del Wisconsin sono stati particolarmente poveri di fauna dottorale umana femmina (donne, se vogliamo semplificare). Questo fatto alimenta il modello per cui ci sono più donne sul campo che nella primatologia psicologica basata sul laboratorio. Due Università sono inizialmente state cruciali, il Dipartimento di Antropologia dell’Università della California a Berkeley [UCB] e il sotto-Dipartimento di Comportamento Animale dell’Università di Cambridge a Madingley. Dagli anni Settanta, il Programma in Biologia Umana dell’Università di Stanford, con i suoi legami a Gombe e la sua colonia di scimpanzé in cattività, e il programma dell’Università di Harvard in antropologia fisica diventarono importanti per il punto di vista di questo saggio. I miei conteggi non sono definitivi. Ciò nonostante, dall’inizio del seminario “Origins of Human Behavior” all’Università di Chicago nel 1957-58 organizzato da Sherwood Washburn e dal suo trasferimento a Berkley nel 1958, con la fondazione di una base sperimentale e di studi di campo dei primati in tutto il mondo, fino al suo pensionamento dall’UCB nel 1980, almeno 18 donne hanno conseguito un dottorato nell’ambito dell’evoluzione e del comportamento dei primati in un programma profondamente influenzato dai suoi piani per ricostruire l’antropologia fisica e le spiegazioni dell’evoluzione umana. Molte di queste donne erano le studentesse di un ex allievo di Washburn, Phyllis (Jay) Dolhinow, entrato alla facoltà dell’UCB nel 1966. Il programma dell’UCB è stato famoso per il numero insolitamente elevato di studentesse nei primi anni della primatologia del dopoguerra. Il ruolo di Washburn nei traguardi raggiunti dalle sue studentesse è controverso; molte altre figure furono cruciali nella loro formazione intellettuale, come Peter Marler, Frank Beach e Thelma Rowell. Ma il programma fondato e sostenuto dal potere di Washburn in antropologia fisica era il lasciapassare per ottenere le credenziali per le donne statunitensi fino alla fine degli anni Settanta, oltre che per la maggior parte degli uomini durante gli anni Sessanta. stein, Mary Shelley. I filmati del National Geographic di Jane Goodall la mostrano da sola a notte fonda mentre trascrive i suoi appunti sul campo; il giorno registra, la notte trascrive. Il testo filmico riguarda la speranza di entrare in contatto diretto con la natura e di essere accettati. I filmati accennano appena all’elaborata archiviazione di dati della storia di Gombe, che coinvolge decine di lavoratori di molti paesi per 25 anni, con l’aiuto di grandi università (come Stanford, l’Università di Dar es Salaam e Cambridge), e l’assistenza di computer performanti, registratori a nastro e altre attrezzature della scrittura scientifica moderna.
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Molte delle donne dell’UCB hanno dato inizio alle ristrutturazioni di sesso e genere nello storytelling dei primati. Hanno creato alleanze le une con le altre durante la scuola di specializzazione e formato reti di supporto critico nella successiva vita professionale. La loro relazione con i colleghi studenti maschi è una parte importante della storia. Ci sono diverse “generazioni” di donne primate dell’UCB, anche senza menzionare l’eterogeneità individuale, e le generalizzazioni sono difficili. I loro punti di forza e i loro limiti sono controversi e pertinenti ai dibattiti sui poteri esplicativi della sociobiologia e della socioecologia comparate al funzionalismo strutturale evoluzionista. L’abilità imprenditoriale accademica di Washburn era estremamente importante per lo status professionale e le opportunità di queste donne e dei loro colleghi maschi. Una maniera proficua di seguire le loro sorti collettive è mappare i convegni finanziati dalla Fondazione Wenner-Gren, ovvero dal più alto punto di influenza della rete di Washburn nei primi anni Sessanta fino al ascesa della sociobiologia/socioecologia, ossia a partire dal 1958 con il Centennale di Darwin all’Università di Chicago organizzata da Sol Tax, con la successiva conferenza del 1965, intitolata inspiegabilmente “Origin of Man”, fino alla conferenza del 1982 “Infanticide in Animals and Man”. Come Washburn, Robert Hinde ha finanziato il lavoro dottorale di un numero significativo di donne primatologhe importanti, incluse Jane Godall e Dian Fossey di fama National Geographic. Almeno altrettanto importante è stato il lavoro di Thelma Rowell, una delle prime allieve di Hinde, che, dopo diversi anni all’Università di Makerere in Uganda, si è trasferita al Dipartimento di Zoologia dell’UCB, dove la sua presenza ha giocato una differenza fondamentale per gli studenti dei primati anche nel Dipartimento di Antropologia, forse in particolare per le donne. Gli informatori delle mie interviste hanno sostenuto che Godall e Rowell erano critiche rispetto allo sviluppo teoretico e metodologico di Hinde, che lo portavano a considerare oltre Lorenz e Tinbergen, la complessità e l’individualità del comportamento primate. Inclusi dottorandi e post-doc, dal 1959 circa 15-20 donne primatologhe sono state associate al laboratorio di Hinde a Madingley. La metodologia di questo laboratorio può essere seguita in una recente antologia (Hinde 1983). Molti di questi studenti sono americani che hanno conseguito il dottorato negli Stati Uniti e fatto ricerca post-dottorale associata con Madingley o viceversa. Le reti di istituzioni e ricercatori sono probabilmente un modo più efficace per tracciare i lignaggi dei primati, rispetto ai relatori della dissertazione. I siti di campo a lunga durata sono cruciali in queste reti, come Gombe, Amboseli, Gilgil, Cayo Santiago, e altri. Tra i lavoratori sul campo di Gombe, ci sono state almeno 35 donne, incluse le assistenti di ricerca che non facevano parte del dottorato.
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L’Università di Stanford è stata a lungo uno snodo centrale di istituzioni e siti di campo, connessi specialmente con l’UCB e Gombe. Lo spirito di impresa di David Hamburg è stato determinante. Hamburg e Washburn hanno fuso mondi diversi in un anno di incontri sui primati al Centro per Studi Avanzati in Scienze Comportamentali a Stanford nel 1962-63, risoltisi in uno dei primi volumi sugli studi dei primati moderni (DeVore 1965). Hamburg era responsabile della fruttuosa collaborazione pluriannuale di Stanford con Jane Godall e della ricerca sui primati al Gombe Stream National Park in Tanzania, una collaborazione interrotta tragicamente dal sequestro di studenti di laurea specialistica di Stanford a Gombe nel 1975. Tuttavia, durante gli anni Hamburg-Godall, diversi studenti dei primati sono stati formati, incluse molte donne le cui reti sono state parte della ristrutturazione della primatologia dalle sfide della sociobiologia nella metà degli anni Settanta in poi. Le donne di Stanford, ex studenti e studentesse addottorati e non, hanno avuto legami importanti con altre istituzioni centrali che finanziano la ricerca sui primati. Oltre che a Gombe, hanno lavorato ad Harvard, Cambridge, UC Davis, al Kekopey Ranch in Gilgil, Amboseli e l’Università di Chicago, il laboratorio di ricerca della Rockefeller University a Millbrook, e altri siti. I loro legami e quelli con colleghi uomini sono serviti ad istituire un secondo anno di ricerca di primatologia presso il Center for Advanced Study in the Behavioral Sciences nel 198384. Ciò ha anche portato alla scrittura di un volume riflettente le cornici esplicative di recente ascesa. Sia gli esemplari femmina che le primatologhe donne avranno un ruolo da protagoniste nel suddetto volume30. Irven DeVore è stato uno degli esponenti più importanti nel programma di antropologia fisica di Harvard, sin dall’anno del conseguimento del suo dottorato nel 1962, tanto da essere quasi considerato il figlio prediletto di Washburn. Il primo studio sul campo di DeVore, effettuato sui babbuini, è stato una tappa fondamentale del programma di ricerca sull’uomo-cacciatore, il cui orientamento maschilista è ben conosciuto. (Il programma 30 Interviste a Barbara Smuts, Richard Wrangham, Dorothy Cheney, Thomas Strusaker. (Cheney et al. in preparazione). In generale, le donne dell’UCB sono in reti abbastanza diverse da quelle di Stanford-Harvard-Cambridge. In parte, la differenza è la separazione tra il quadro zoologico-etologico e quello antropologico. Quelli che attraversano la divisione sono particolarmente interessanti, tuttavia in generale la direzione di coloro che compiono questo attraversamento è per lo più orientata all’adozione di strategie sociobiologiche-socioecologiche. Da un altro punto di vista, le reti tra i lavoratori più giovani, penso soprattutto alle donne, semplicemente non ricalcano le fratture aperte dalle famose controversie.
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in questione è stato anche il punto di partenza standard per libri di testo scolastici e la serie sugli animali, Time Life.) Il programma dell’uomo cacciatore era “tri-pedale” ossia attingeva a studi di anatomia funzionale, studi sul campo dei primati e indagini antropologiche di cacciatori-raccoglitori umani. Richard Lee, proveniente anche lui dal mondo Washburn UCB, ha condiviso parte del lavoro con DeVore e la sua presenza è stata fondamentale. (È opportuno segnalare che la posizione e le pubblicazioni profemministe di Lee erano in netto contrasto con quelle di DeVore.) Il corso universitario di quest’ultimo sul comportamento dei primati ad Harvard riscosse molto successo, e dopo la famosa “conversione” di DeVore alla sociobiologia negli anni ’70 (con buona pace di Washburn), il corso e altri seminari sono stati importanti veicoli istituzionali per riprodurre questa strategia esplicativa nei ricercatori più giovani. Infine, non va dimenticata anche la supervisione di DeVore a Robert Trivers. Sembra anche che nei primi anni in cui DeVore ha aderito alla sociobiologia, i seminari fossero “dominati da uomini”, docenti o studenti che fossero. Una svolta arriva quando il nome di Sarah Blaffer Hrdy comincia ad apparire negli scritti e nei racconti dɜ miɜ informatorɜ. Sociobiologa convinta, Hrdy ha messo al centro dei suoi studi e riflessioni le donne, destabilizzando le generalizzazioni della “sociobiologia” concernenti donne e animali (femmine). Hrdy era anche un’incorreggibile femminista, molto ammirata dal revisore del suo La donna che non si è evoluta: ipotesi di sociobiologia in Off Our Backs, la principale pubblicazione nazionale di stampo femminista radicale negli Stati Uniti, molto criticata dalle femministe socialiste schierate contro la teoria liberale, incluse le sue varianti sociobiologiche. Io stessa sono stata etichettata così, ma fortunatamente Hrdy non è così facilmente definibile, essendo molto più complessa di quanto qualsiasi etichetta possa descrivere. La posizione di Hrdy è controversa sotto diversi punti di vista, a cominciare dalla sua relazione con le altre donne, fino alla cornice politica e scientifica del suo lavoro sul campo e dei suoi scritti. Nel momento in cui scrivo, il suo ruolo nei seminari sui primati ad Harvard è oggetto di discussione. Le studentesse che si sono laureate ad Harvard dopo Hrdy fanno costantemente riferimento alla sua presenza come sostegno cruciale per lo sviluppo della loro autostima e del loro potere intellettuale. Esse hanno formato alleanze in cui Hrdy rappresenta una sorta di sorella maggiore. Queste reti sono alla base di molte delle attuali ricostruzioni più promettenti delle femmine di primate e della società dei primati come un “tutto” disgregato.
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Un ultimo punto ad essere analizzato è il progetto di ricerca sui babbuini della savana nel Parco Nazionale Amboseli in Kenya e il Dipartimento di Biologia (Allee Laboratory of Animal Behavior) dell’Università di Chicago, dove Jeanne Altmann e Stuart Altmann hanno lavorato dal 1970. Il modello della coppia sposata è ricorrente in primatologia, ed il marito è solitamente più conosciuto, ecc. Per certi versi, la situazione degli Altmann era simile, ma ci sono differenze incoraggianti per la ricostruzione della primatologia. Jeanne Altmann è diventata importante negli studi sul campo dei primati da quando ha iniziato a lavorare con Stuart Altmann nei primi anni ’60, anche se consegue il dottorato solo nel 1979, con una dissertazione dal titolo (“Ecology of Motherhood and Early Infancy”), presentata al Commitee on Human Development dell’Università di Chicago. La dissertazione era una versione ridotta del suo importante libro edito nel 1980. Nel 1974, Jeanne Altmann pubblica uno degli articoli più citati in primatologia, “Observational study of behavior: sampling methods”, il cui titolo relativamente semplicistico sminuisce l’importanza del contenuto nella definizione degli standard per la ricerca non sperimentale, in particolare per gli osservatori intenzionati a ricavare analisi statistiche affidabili. Prima di conseguire il dottorato, Jeanne Altmann non era quasi mai invitata alle conferenze, a meno che non lo fosse il marito. Progressivamente, è diventata una figura centrale autonoma nel campo, tanto da essere citata dalle mie informatrici più giovani in quanto nodo significativo nello sviluppo di “alleanze invisibili” tra donne. La sua importanza può essere paragonata a quella di Lillian Gilbreth nei primi anni della storia della ricerca sulla gestione del personale, negli studi sul lavoro subito dopo il trionfo del Taylorismo. Gilbreth è stata una grande teorica in questo ambito della scienza capitalista. Jeanne Altmann è una teorica dell’ergonomia della maternità dei babbuini, dove per ergonomia si intende una specie di cibernetica della divisione del lavoro e un concetto cruciale nella profonda costruzione della natura come problema nelle strategie di investimento (Trescott 1984).
3. Il testo: rappresentazioni Le storie sulla natura, sulla possibilità di cittadinanza e sulle politiche generali nelle tradizioni occidentali ruotano regolarmente intorno a versioni che rimandano all’origine della “famiglia”. A questo punto, concludiamo con le riflessioni volutamente parodiche e umoristiche di Adrienne Zihlman e Sarah Hrdy, due bio-antropologhe impegnate in strategie di storytelling fra loro molto diverse.
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Sia Hrdy che Zihlman sono femministe incallite, convinte che essere femminista sia un requisito importante per fare buona scienza. I significati che attribuiscono al femminismo e i loro modi di fare scienza sono in forte conflitto fra loro, ma entrambe prendono sul serio le “storie” come parte importante della loro produzione, e non come semplice passatempo. Il loro compito è dare un resoconto evolutivo del posto dell’umano nella natura e nella società, considerando i vincoli dei discorsi strutturati da dicotomie quali natura/cultura e sesso/genere, vincoli a loro volta oggetto di contese. I loro lavori migliori offrono una complessa auto-riflessione sulle loro ideologie, fatta emergere attraverso una pratica consapevole di opposizione in contesti contemporaneamente privilegiati e oppressivi. Hrdy e Zihlman sono entrambe “figlie di Milton”. Ciò significa che nessuna delle due ha avuto il lusso di una formazione professionale in una cultura simbolica e in una condizione storica le cui vicende e saperi erano favorevoli per loro e per le loro simili, ma hanno ereditato un altro status. Hanno tuttavia avuto accesso alle risorse per lo storytelling culturalmente autorevole, come i dottorati di ricerca delle maggiori istituzioni scientifiche, significative risorse finanziarie derivanti dalle loro posizioni di classe e razza e ricchezze intellettuali ed emotive dovute ad una rinascita femminista mondiale coincidente con periodi determinanti per la loro formazione professionale e personale. In quanto “figlie di Milton”, queste scienziate un tempo leggevano “per” il padre cieco, ma leggevano anche il Libro della natura per i loro propri scopi. Zihlman ha scelto di raccontare le storie ereditate dell’“uomo cacciatore”, partendo dai vincoli dell’antropologia fisica di approccio strutturale-funzionale. Hrdy ha re-intrecciato le trame e i personaggi della sociobiologia, trasformando materiali poco promettenti in risorse scientifiche e ideologiche. Le storie ora considerate sono state raccontate in risposta alle interpretazioni della recente ricomparsa in campo paleoantropologico a Haadar, in Etiopia, di una minuta, antica (diciamo tre milioni di anni) nonna ominide – dal portamento eretto e bipede, ma dal cranio piccolo – chiamata dai suoi fondatori adamitici, Lucy, in nome della cultura della droga che ha dato alla loro generazione di studenti un’identità storica (Johanson e Edey 1981). Il riferimento era a “Lucy in the Sky with Diamonds”. Lucy potrebbe essere Lucien, ma diamo per buono il suo sesso femminile, poiché è cruciale per la storia in questione. La scarsità di nomi africani nella letteratura paleoantropologica e primatologica la dice lunga sui limiti della pretesa paternità della specie da parte di Adamo). Lo scheletro quasi integro di Lucy fu estratto dalla terra dalle abili mani di una confraternita, che riconobbe in lei e negli scheletri simili una risorsa per ristabilire potenti versioni maschili-
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ste de L’origine dell’uomo (Lovejoy 1981). Lucy fu rapidamente trasformata in una madre ominide e moglie fedele, una macchina riproduttiva più efficiente delle sue sorelle scimmiesche e una bambola sessuale affidabile, anche se mal rivestita. Queste sono le qualità essenziali per la famiglia dominata dal maschio, “monogama”, eterosessuale, chiamata semplicemente “la famiglia” con una normalità che non lascerebbe intravedere problemi. Le ossa di Lucy sono state incorporate in una fantasia-feticcio scientifica, soprannominata, con intento irriverente, l’ipotesi “amore e gioia” da Sarah Hrdy (Hrdy e Bennett 1981, p. 7). Ma le donne continuano a “soprannominare” nomi già esistenti, mentre gli uomini “nominano”. Ma cosa rende le interpretazioni di Lovejoy di Lucy “maschiliste”, invece che semplicemente sgradevoli o controverse per i suoi oppositorɜ scientificɜ? La risposta sta nella sua irriflessa reverenza verso il padre della biologia, Aristotele. L’“Origine dell’uomo” di Lovejoy è impregnato della narrazione di una virilità attiva, potente, dinamica, auto-realizzante, che conquista l’umanità attraverso la politica riproduttiva: la paternità è la chiave dell’umanità. E la paternità è una conquista storica mondiale. Invece, la maternità è intrinsecamente statica e richiede il prendere marito per diventare veramente produttiva, per passare dall’animale all’umano. Nei racconti maschilisti occidentali, lo svincolarsi dalla categoria “natura” è essenziale per il posto naturale dell’uomo: è la realizzazione umana del sé (nei caratteri di trascendenza e cultura) a richiederlo. Ecco il nodo dove natura/cultura e sesso/genere si intrecciano. Lovejoy sostiene che la transizione da un ambiente mosaico-savana al confine temporale del tardo Miocene ha segnato l’ominazione, mettendo i preominidi in una crisi riproduttiva richiedente una minore distanza temporale tra le nascite o un maggiore tasso di sopravvivenza della prole o entrambe. La cacciata dal giardino foresta ha comportato un carico riproduttivo di proporzioni tali da creare una specie. La narrazione dei mondi matrifocali e femminili delle scimmie doveva cedere il passo alla più dinamica famiglia “umana”. “Nella strategia riproduttiva proposta per gli ominoidi, il processo di legame di coppia non solo avrebbe portato al coinvolgimento diretto dei maschi nella sopravvivenza della prole; nei primati altrettanto intelligenti che gli ominidi attuali, ma avrebbe decretato la paternità, e quindi portato a una graduale sostituzione del gruppo matrifocale con uno ‘bifocale’ – la famiglia nucleare primitiva (Lovejoy 1981, pp. 347-348). L’antropologa Carol Delaney (1985) ha sottolineato che per paternità, nelle annose dispute nella sua disciplina sull’esistenza o meno di popoli che non conoscono veramente la paternità, non si intende semplicemente l’essere a conoscenza di un contributo biologico maschile nel concepimento. Nella
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cultura patriarcale occidentale, significa ciò che Aristotele ha affermato per primo, ossia il principio di causa riproduttiva maschile all’interno di una femmina ricettiva. La cecità indotta dal privilegio maschilista nella cultura degli antropologi rendeva loro opaco il proprio significato specifico di paternità; così si cercava di spiegare la differenza fra chi aveva conosciuto la paternità e chi no come irrazionalità o immaturità. Ma Lovejoy è chiaro sulla definizione: i bambini sono una questione di proprietà razionale. Nulla di ciò che una femmina poteva fare avrebbe condotto la specie oltre il confine tra ominoidi e ominidi; stava già facendo il meglio che la natura le permetteva. “Avrebbe dovuto dedicare più energia alla genitorialità. Ma la selezione naturale ha già perfezionato le sue capacità materne nei milioni di anni in cui i suoi antenati hanno occupato l’Africa occidentale. C’è, tuttavia, ancora una riserva non sfruttata di energia riproduttiva nella maggior parte delle specie di primati: il maschio” (Lovejoy 1984, p. 26). Provvedendo alla sua compagna, ora in coppia con lui e sedentaria, portando in una casa-rifugio i frutti della raccolta di piante e piccoli animali, grazie alla paternità, un maschio poteva condurre la specie oltre il confine, verso l’origine dell’uomo. Lovejoy rinunciò alla caccia per marcare la virilità, ma non poteva rinunciare alla paternità. Le madri potevano avere un sacco di bambini, il ruolo che Theodore Roosevelt auspicava nella sua analisi del 1905 del moderno “suicidio della razza” (bianca), ossia quel concetto di coscienza della politica della riproduzione differenziale. La specie aveva finalmente motivo di stare in piedi, anche se all’inizio in modo non troppo efficiente. L’uomo era sulla lunga strada solitaria (dell’evoluzione). E il posto delle donne in questa rivoluzione è esattamente confacente all’immaginario di una discreta sezione della politica statunitense degli anni Sessanta – ossia prono. Per dirla con Lovejoy, le donne non hanno “perso” l’estro; ne mostrano costantemente i segni. Perché la nuova strategia abbia successo, “la femmina deve rimanere costantemente attraente per il maschio… Mentre il mistero del bipedalismo non è stato completamente risolto, il motivo sta diventando evidente”. (Lovejoy 1984, p. 28). Non c’è da stupirsi che Lovejoy citi il suo fratello-collega per dimostrare che “[le] femmine [umane] sono continuamente ricettive sessualmente” (Lovejoy 1981, p. 346; nota a p. 350, fn 79, “D.C. Johanson, comunicazione personale”). Perché le scienziate autorevoli dovevano rispondere a questa storia? Hrdy e Zihlman erano impegnate nelle proprie ricerche e pubblicazioni, cercando di stabilire l’autorità di riflessioni molto diverse da quelle di Lovejoy, alcune delle quali coinvolgevano Lucy. C’è voluto del tempo per
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scrivere su Lovejoy, così come c’è voluto dello spazio in questo saggio, e Lovejoy di converso non si è preso la briga di scrivere in dettaglio sulle interpretazioni di Hrdy o Zihlman. La sua decisione di non citare le sostanziali e direttamente pertinenti analisi tecniche di Zihlman, in un articolo pieno di riferimenti, ha effettivamente oscurato ai lettori dell’articolo di copertina di Science del 1981 il significativo lavoro di Zihlman sul bipedalismo, il dimorfismo sessuale, e le ricostruzioni del comportamento sociale e riproduttivo degli ominidi al confine cruciale (dell’evoluzione) (Lovejoy 1981; per un riassunto e riferimenti precedenti, vedi Zihlman 1983 e Laporte e Zihlman 1983). L’articolo di copertina era l’unico punto importante: la storia di Lovejoy e il suo coinvolgimento nello studio di fossili non possono essere ignorati. Le figlie di Milton non hanno questo lusso. Ma hanno un’arma più potente dei segni indecidibili o onnipresenti dell’estro. Scrivono a macchina. Zihlman ha replicato in un’intervista fra il serio e il faceto con Jerrold Lowenstein, dal titolo “A Few Words with Ruby”, usando un fossile femminile di australopiteco emerso dal disgelo (Zihlman e Lowenstein 1983). Ruby prende il nome da Ruby Tuesday dei Rolling Stones. Intervistata al British Museum, Zihlman discusse della vita sociale-riproduttiva del gruppo a cui Ruby apparteneva e della relazione di Zilhaman con l’amico e scienziato il dottor Aaron Killjoy, con cui condivideva le sue scoperte. “Ruby sospirò: “Una cosa non è cambiata in tre milioni di anni. I maschi pensano ancora che il sesso spieghi ogni cosa”. (Zihlman e Lowenstein 1983, p. 83). Sotto l’egida dell’impegno scientifico, Ruby aveva un’azienda fitta di impegni, fra cui un documentario della BBC intitolato “Ruby, Woman of Pliocene”. In tutto questo, Ruby trovò anche il tempo di descrivere la sua vita in termini che rimandano ad una specie contemporanea, lo scimpanzé pigmeo, non a caso la specie modello preferita da Zihlman per studiare le origini. Gli elementi essenziali della cornice esplicativa di Ruby includono femmine ominidi attive e solerti anche quando incinte, modelli di condivisione del cibo che emergono dall’organizzazione sociale matrifocale, la selezione per i maschi più socievoli e gruppi sociali aperti e flessibili. Il cibo giocava un ruolo più importante del sesso. Ma a parte gli aspetti specifici, c’è una differenza formale nelle osservazioni di Zihlman, sia nell’intervista con Ruby, che altrove (Zihlman 1983, Laporte e Zihlman 1983). L’origine della famiglia non è mai menzionata. Non c’è nessun abisso, nessuna cacciata dal Giardino, nessun drammatico attraversamento di confine. Il passaggio dal Miocene al Pliocene è raffigu-
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rato come qualcosa di meno ostile, un’apertura di possibilità per la quale gli ominoidi simili allo scimpanzé pigmeo erano pronti, sia socialmente che fisicamente. Non c’è la narrazione di un tempo dell’innocenza in una foresta, seguita da un tempo di prova sulla pianura secca, che richiede l’eroismo della politica riproduttiva. Le narrazioni di base della causalità non dipendono dalla dialettica antagonista natura/cultura o dalle storie drammatiche dell’occidente o di altri individui. Il tutto è molto meno drammatico. Le storie di Zihlman non generano regolarmente “altri” come materia prima per le transizioni cruciali verso stadi superiori. La transizione non è il risultato di una “superiorità morale” o di un “genio”; è una possibilità storica resa possibile dalla lotta politico-scientifica di dare spiegazioni coerenti della connessione [tra i vari stadi dell’evoluzione]. Un oggetto di studio che viene eliminato in queste spiegazioni è “la famiglia”. Così intesa allora, non c’è nulla da spiegare, nessuna scena primordiale le cui tragiche conseguenze si intensificano nella storia, nessuna civiltà e i suoi scontenti, nessuna repressione a cascata. Non c’è da stupirsi che la politica riproduttiva abbia un aspetto diverso. Queste strategie narrative di base vincolano le spiegazioni di Zihlman sui parametri fisici e sociali dell’evoluzione umana e sono rappresentate iconicamente nella sua illustrazione di Lucy in Human Evolution Coloring Book e dei suoi parenti, lo scimpanzé pigmeo e “l’uomo” (Zihlman 1982, IV, n. 5). “L’uomo” qui è in realtà una femmina, una scossa visiva nell’illustrazione, che allude anche al probabile sesso di Lucy. La sagoma di un’alta figura umana contiene una scimmia divisa in due parti, una metà è una femmina di scimpanzé pigmeo, l’altra metà, unita dalla linea mediana, è una ricostruzione di Lucy. Le tre figure hanno in comune diversi confini corporei, con diversi gradi di capacità bipedale e altri particolari che marcano il confine tra ominoide e ominide. C’è un gioco di somiglianze e differenze tra i due generi di ominidi, Homo e Australopithecus, e lo scimpanzé. Essi si modellano a vicenda in un invito allo studente a colorare il loro spazio comune. I confini esistono nelle spiegazioni di Zihlman, ma suggeriscono zone di transizione piuttosto che dicotomie. In collaborazione con uno scrittore scientifico, Hrdy ha risposto a Lovejoy con un pezzo popolare chiamato What Did Lucy’s Husband Stand For? (Hrdy e Bennett 1981). Questo pezzo e la sua recensione del testo The Evolution of Human Sexuality del sociobiologo Donald Symons, The Latest Word and the Last, contengono il nucleo della strategia esplicativa di Hrdy e la sua visione della centralità della politica riproduttiva nel posto che l’umano ha nella natura. (Hrdy 1979). Come Zihlman, Hrdy deve ricostruire l’oggetto della spiegazione e la principale vittima sarà “la fa-
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miglia”. Di nuovo come Zihlman, la sua strategia parodica della cacciata dal Giardino raccontata da Lovejoy e di una Eva destinata a una produzione sempre più efficiente di bambini in condizioni di scarsità, si coniuga ad una dettagliata rinegoziazione delle narrazioni delle politiche sessuali. Ma a differenza di Zihlman, Hrdy vede il nocciolo di ciò che significa essere umani nella questione del sesso. La famiglia nucleare monogama di Lovejoy, con il maschio che provvede alla famiglia e la femmina fedele, ma sempre un’attraente macchina sforna-bambini, è liquidata dal confronto di modelli umani di dimorfismo sessuale con altri modelli di primati, in relazione ai sistemi di riproduzione e alla nicchia ecologica. Inoltre, questo modello di famiglia nucleare è liquidato dalla discussione sull’attività di sussistenza femminile tra i cacciatori-raccoglitori umani; dalle spiegazioni ecologiche basate sulle possibilità e necessità dell’allattamento femminile; e dalle valutazioni di investimento genetico razionale del maschio che prendono in considerazione la monogamia tra i primi ominidi. Sembrerebbe una brutta scommessa. Hrdy si sbarazza anche del problema del bipedalismo, liberando il terreno per l’importante questione della sessualità femminile attiva e approvando la spiegazione di Peter Rodman. Secondo Rodman, gli antenati ominoidi non erano quadrupedi molto efficienti, per cui una transizione al bipedalismo inefficiente sarebbe stata il male minore. Le spiegazioni più convincenti sembrano funzionare dipanando l’oggetto considerato. Ciò che invece richiede un chiarimento nella logica narrativa di Hrdy, è la politica dell’orgasmo femminile. E questo non in ragione di qualche curiosità pruriginosa o in nome di una qualche rivendicazione per le femmine, ma negli interessi di una mente razionale e dell’uguale possibilità di cittadinanza nella polis tardo capitalista dei primati governata dalla logica del mercato (Hrdy 1979). Per Symons, l’orgasmo femminile umano è un sottoprodotto della più perfetta e sensata versione maschile, così essenziale per la favola delle strategie di massimizzazione riproduttiva di fronte a quelle risorse limitate chiamate femmine. Di contro, Hrdy sostiene che anche le donne si sono evolute; ossia, c’è una grande variazione nell’attività femminile, e quindi possibilità di selezione. L’attività riproduttiva femminile può variare in almeno 5 categorie: scelta femminile del compagno, scelta femminile del supporto o della protezione maschile, competizione con altre femmine per le risorse, cooperazione con altre femmine, ed efficienza ergonomica femminile. La politica dell’orgasmo femminile è al centro di questa questione. Fa parte di una sessualità femminile attiva, investitrice e calcolatrice, dove il sesso è l’essenza della mente. Queste due categorie
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collassano in spiegazioni sociobiologiche. Hrdy vede la sessualità femminile attiva come uno strumento per manipolare e ingannare i maschi, non per migliorare un legame matrimoniale chimerico, ma per indurre l’aiuto maschile, volente o nolente, al processo riproduttivo. Ovulazione nascosta, orgasmo, sollecitazione attiva quando il concepimento è impossibile: sono questi i comportamenti razionali di chi investe in certe condizioni del mercato relative all’epoca delle origini. La proprietà di se stessi [property in the self] è il fondamento della cittadinanza in Occidente almeno dal diciassettesimo secolo. L’inconsistenza di tale forma per le femmine che si riproducono ha reso la cittadinanza anomala o semplicemente impossibile per le donne reali. L’aborto e altre politiche sui diritti riproduttivi oggi dovrebbero dissipare qualsiasi falso senso di sicurezza che tali problemi siano superati. Hrdy sostiene una forma di lotta biologica per la cittadinanza razionale all’interno dei vincoli della logica narrativa della scarsità e della diversità agonistica, cioè all’interno dei tradizionali limiti delle storie occidentali. Le femministe del diciannovesimo secolo si sono appropriate delle dottrine mediche sull’animale femmina accessibili a quel tempo, ovvero la creatura organizzata intorno all’utero, la scena della produzione feconda e dell’accudimento, e hanno legittimato la razionalità della cittadinanza femminile con una forma di maternità sociale, estendendo il potere uterino del focolare allo sterile mondo pubblico maschile. Le femministe in sociobiologia svolgono un compito parallelo con i corpi codificati del ventesimo secolo e i loro portafogli di investimento. I primati femmina hanno cominciato ad avere orgasmi negli anni ’70 perché loro [le femministe] ne avevano bisogno per una lotta politica più ampia. L’attiva ricerca del piacere e del profitto è il marchio dell’uomo razionale, la pratica della virtù civica nello stato di natura. La donna non deve essere da meno. Il sesso femminile ha assunto questa promettente doppia condizione, simultaneamente naturale e attiva, così potente nelle storie occidentali. Quindi la primatologia è uno politica con altri mezzi. La primatologia è una pratica di negoziazione della possibilità di comunità, di un mondo pubblico, di un’azione razionale. È la ri-negoziazione del tempo delle origini, della genesi della famiglia, del confine tra sé e altro, ominide e ominoide, umano e animale. La primatologia ha a che fare con il principio dell’azione, la mutevolezza, il cambiamento, l’energia, la possibilità e i vincoli della politica. L’interpretazione delle ossa di Lucy riguarda tutte queste cose. In altri tempi e luoghi, la gente avrebbe potuto lanciare le ossa di Lucy nei rituali di negromanzia per scopi che gli osservatori occidentali definirebbero “magici”. Ma gli occidentali “lanciarono” invece queste ossa dando vita a modelli “scientifici”, per conoscere un futuro
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umano reso problematico dall’elaborazione molto materiale delle storie occidentali, segnate da apocalisse e trascendenza. Il passato, l’animale, la femmina, la natura: sono queste le zone contestate nel discorso allocronico della primatologia. (Traduzione dall’inglese di Emma Barettoni e Francesca Putignano) Riferimenti bibliografici Altmann, J. 1974 Observational Study of Behavior: Sampling Methods, in “Behaviour”, 49 (3/4), pp. 227-267. 1980 Baboon Mothers and Infants, Harvard University Press, Cambridge. Asquith, P. 1984 Bases for Differences in Japanese and Western Primatology, 12th Meeting of CAPA/AAPC. Baranga, D. 1978 The Role of Nutritive Value in the Food Preferences of the Red Colobus and Black-and-White Colobus in the Kibal Forest Uganda [M. Sc. Thesis], Makerere University. Baudrillard, J. 1981 Simulacres et simulation, Galilée, Paris. Beer, G. 1983 Darwin’s plots: Evolutionary narrative in Darwin, George Eliot and nineteenth-century fiction, Routledge & Kegan Paul. Benchley, B. 1942 My Friends the Apes, Little, Boston. Bleier, R. 1984 Science and Gender: A Critique of Biology and Its Theories on Women, Pergamon New York. Braidotti, R. 1995 Soggetto nomade: Femminismo e crisi della modernità, Donzelli, Roma. Burton, F. 1971 Sexual Climax in Female Macaca mulatta, in “Proceedings of the Third International Congress of Primatology”, 3, pp. 180-191.
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D. Haraway - La primatologia è politica con altri mezzi
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Commento introduttivo a Sulla cosmotecnica di Yuk Hui Marco Pavanini Il filosofo cinese Yuk Hui rappresenta una delle figure più interessanti all’interno della filosofia della tecnica contemporanea. Dopo avere studiato all’Università di Hong Kong, Hui ottiene il dottorato presso il Goldsmith College di Londra sotto la supervisione del filosofo francese Bernard Stiegler (1952-2020) e l’abilitazione all’insegnamento universitario presso la Leuphana University di Lüneburg, in Germania. Si occupa di filosofia della tecnica, intelligenza artificiale e filosofia della natura, a partire da problematiche sviluppate all’interno dell’idealismo tedesco, la fenomenologia e la storia della filosofia cinese. Nel corso degli ultimi dieci anni, Hui pubblica monografie come On the Existence of Digital Objects (2016a), The Question Concerning Technology in China (2016b; tr. it. 2021), Recursivity and Contingency (2019) e Art and Cosmotechnics (2020a), tutte volte a indagare, sotto molteplici aspetti, il rapporto tra tecnologie e saperi nel contesto della globalizzazione, dei media digitali e dell’Antropocene. In quanto iniziatore, a partire dal 2014, del Research Network for Philosophy and Technology, Hui si fa promotore di un approccio pluralistico alla questione della tecnica volto a valorizzare l’apporto epistemico delle riflessioni sulle tecnologie sviluppate da culture “altre” rispetto alla modernità occidentale e affianca all’indagine storica e filosofica lo sviluppo e la sperimentazione di applicazioni strutturate in modo più inclusivo e orizzontale rispetto all’imposizione di una cultura tecnologica monolitica ed egemone da parte dei colossi dell’industria digitale. Il testo (Hui 2017b), che proponiamo per la prima volta in traduzione italiana, è stato originariamente pubblicato, sottoforma di articolo, per la rivista di filosofia della tecnica Techné nel 2017. Questo contributo, così come altri articoli pubblicati negli stessi anni (Hui 2017a; 2017c; 2020b; 2022), si propone di approfondire ed elaborare ulteriormente le tematiche sviluppate all’interno di Cosmotecnica, pubblicato in inglese un anno prima, tradotto in italiano nel 2021 e foriero di un ampio dibattito internazionale (Hui & Lemmens 2021; Lovink & Hui 2017; Coupaye 2021). La
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riflessione di Hui si dipana a partire dalla constatazione della cosiddetta tecnicità costitutiva umana, che egli recepisce principalmente dal pensiero di Stiegler (2018), uno dei suoi principali maestri e fonti di ispirazione. Secondo quest’approccio, gli esseri umani non potrebbero né esistere, né evolvere, né venire concepiti prescindendo dalla produzione, utilizzo e trasmissione di artefatti. Attraverso il nostro rapporto con le tecnologie, modifichiamo l’ambiente circostante e le sue pressioni selettive e trasmettiamo le conoscenze adatte a orientarcisi e gestirlo, al punto che la nostra morfologia, cognizione e comportamento sono radicalmente plasmati dall’interrelazione tra i nostri processi biologici e gli oggetti tecnici che compongono il nostro mondo (Moore 2017). Inoltre, anche le narrazioni riguardo ciò che significa essere umani in una determinata cultura, ossia la nostra capacità di autorappresentarci in quanto membri di un collettivo, sono mediate e strutturate dalle tecnologie raffigurative e scritturali disponibili, nonché dai rituali pedagogici e formativi che le accompagnano, integrandole in un complesso culturale (Latour & Strum 1986). Hui recepisce queste tesi, ma rivendica, al contempo, la necessità di una specificazione fondamentale, che egli esprime attraverso il concetto di cosmotecnica, ossia “l’unificazione tra ordine cosmico e ordine morale attraverso le attività tecniche” (2016b; tr. it. 2021, p. 29). Infatti, anche se la tecnica rappresenta un fenomeno antropologico universale, al punto di operare la costituzione della nostra stessa umanità, secondo Hui le riflessioni sulla tecnica, le idee intorno a ciò che essa è, come si rapporta agli esseri umani e deve essere gestita, variano culturalmente in modo considerevole. Se già Heidegger, in La questione della tecnica (1957; tr. it. 1976), operava una distinzione tra la tecnica antica come poiesis, modo originario del disvelamento dell’essere, e la tecnica moderna come Gestell, imposizione di controllo, calcolo e sfruttamento omnipervasivo dell’ente, Hui sottolinea come questa distinzione, per quanto valida, rimanga prigioniera di uno schema di pensiero etnocentrico che considera la tecnica e le riflessioni che l’accompagnano come un fenomeno esclusivamente occidentale, ignorando o sminuendo l’apporto fornito da altre culture, come quella cinese, ampiamente analizzata da Hui nella monografia del 2016. Secondo una tale concezione le società “non moderne” non avrebbero altra scelta che recepire passivamente la cultura tecnologica occidentale, adeguandovisi o venendo integralmente assorbite da essa. Il rischio di un tale unilateralismo etnocentrico non è solo epistemico: il risvolto operativo di tale modo di intendere la tecnica, infatti, risulta nella globalizzazione capitalista e imperialista volta a proporre un solo concetto di tecnica e un solo tipo di tecnologie che strutturino le esperienze e i processi di sogget-
Commento introduttivo a Sulla cosmotecnica di Yuk Hui
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tivazione in base a uno standard unico e improntato alla massimizzazione dello sfruttamento e dell’estrazione di dati e risorse. Con il concetto di cosmotecnica, dunque, Hui si propone di enfatizzare un’ottica pluralista, che riconosca, in primo luogo, la dignità epistemica delle concezioni della tecnica sviluppate al di fuori dell’Occidente e che garantisca, in secondo luogo, un’integrazione partecipativa e biunivoca tra i processi di globalizzazione, da un lato, e la specificità storica delle singole culture, dall’altro. In quest’ottica, è possibile osservare come la riflessione di Hui si intersechi con gli assi tematici scelti come motivi conduttori di quest’antologia. In primo luogo, infatti, è interessante notare come egli cerchi di unificare teoria della conoscenza (gnoseologia) e teoria della scienza (epistemologia) all’interno di un paradigma cosmotecnico unitario: ogni cultura esperisce il mondo attraverso determinati complessi tecnologici; questi sistemi tecnici, a loro volta, vengono regolati e gestiti in base alla visione del mondo (cosmologia) sviluppata da ciascuna cultura. La tecnica agisce quindi come operatore di questa dinamica circolare in cui, se da una parte la nostra cosmologia ci spinge ad adottare determinate scelte tecniche e rifiutarne altre, dall’altra le tecnologie che ne risultano influenzano la nostra percezione della realtà, spingendoci a produrne un’interpretazione diversa. In secondo luogo, è possibile apprezzare come Hui si schieri decisamente a favore di un pluralismo epistemico volto a difendere la molteplicità dei saperi, che variano sia geograficamente che storicamente e sono dotati di pari pretese alla verità. La sfida di un simile pensiero sarà quindi quella di conciliare la preservazione della particolarità di ciascuna epistemologia, da una parte, e l’integrazione e la messa in relazione delle diverse cosmotecniche nel contesto globale, dall’altra. In terzo luogo, dalla riflessione di Hui si evince come un discorso epistemologico abbia sempre anche un carattere spiccatamente politico: attraverso il concetto di cosmotecnica, infatti, non solo viene valorizzata la dimensione identitaria delle epistemologie locali, che operano come sistemi di conferimento di senso all’esperienza e orientamento nel mondo, ma viene anche esaminato criticamente il processo di globalizzazione e la legittimità delle istanze che vi prendono parte. Il pluralismo cosmotecnico di Hui ci invita quindi ad abbandonare l’etnocentrismo occidentale in favore di una maggiore apertura alla diversità epistemicopolitica. In particolare, il contributo qui proposto presenta riflessioni stimolanti e concettualizzazioni necessarie in relazione ad almeno due tematiche fondamentali. In primo luogo, l’approccio di Hui ci permette di apprezzare appieno la funzione essenziale svolta dalla tecnica all’interno del processo di produzione e trasmissione del sapere. Non solo le teorie e i fatti scientifi-
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ci vengono costruiti e circolano all’interno di complesse reti sociotecniche (Latour & Woolgar 1986), ma la nostra stessa visione del mondo, il nostro episteme per dirla con Foucault (1966; tr. it. 1967), è al contempo condizionato dal sistema tecnico della nostra cultura e lo condiziona a sua volta. In secondo luogo, il concetto di cosmotecnica fornisce un supporto operativo alle istanze portate avanti dalla cosiddetta “svolta ontologica” in antropologia (Holbraad & Pedersen 2017), ossia dalla rivendicazione della dignità epistemica e della realtà effettiva di cosmologie non occidentali e non moderne. Infatti, differenti cosmotecniche generano differenti ontologie, che non solo regolano il modo di classificare l’ente proprio a ciascun collettivo, ma soprattutto si fanno portatrici di effetti reali sulle vite dei suoi membri. All’interno di una prospettiva che prenda in seria considerazione i presupposti tecnici della conoscenza, da un lato, e la loro fondamentale pluralità, dall’altro, emerge un punto cieco, forse non ancora tematizzato a sufficienza all’interno della produzione intellettuale di Hui. Rievocando la critica mossa, nell’ambito della svolta ontologica in antropologia, da Eduardo Viveiros de Castro (2015; tr. it. 2017, pp. 66-70) all’approccio elaborato da Philippe Descola (2005; tr. it. 2014), si potrebbe osservare come, se si assume che ogni cultura ordina e comprende il mondo all’interno del perimetro epistemico dettato dalla propria cosmotecnica, anche il concetto stesso di cosmotecnica e la riflessione che lo accompagna vengono necessariamente generati a partire da un dato orizzonte cosmotecnico e da una data cosmologia. Dunque, in che misura il concetto di cosmotecnica e in generale di una ripartizione del sapere secondo il sistema sociotecnico di ciascuna cultura, elaborati da Hui, sono a loro volta dipendenti dalla cosmotecnica propria alla cultura del suo ideatore e dalle tecnologie che la caratterizzano e in che misura tali condizioni ne possono influenzare la validità e l’ambito operativo? Per indagare tali questioni ci sarà quindi bisogno di ricerche ulteriori. Riferimenti bibliografici Coupaye, L. 2021 Gardens between Above and Below. Cosmotechnics of Generative Surfaces in Abulës-Speaking Nyamikum, in “Anthropological Forum”, a. XXXI, n. 4, pp. 414-432. Descola, P. 2005 Par-delà nature et culture, Gallimard, Paris; tr. it. Oltre natura e cultura, SEID, Firenze 2014.
Commento introduttivo a Sulla cosmotecnica di Yuk Hui
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Yuk Hui
SULLA COSMOTECNICA Per una relazione rinnovata tra tecnologia e natura nell’Antropocene*
Introduzione È difficilmente negabile che l’Antropocene, al di là del suo ovvio significato come nuova era geologica, rappresenti anche una crisi che è il culmine di duecento anni di industrializzazione. La relazione tra umanità e “natura” ha subito una grande trasformazione e il costante manifestarsi di crisi ecologiche e catastrofi tecnologiche ha ben documentato un tale momento, esortando l’umanità a trovare un nuovo orientamento per evitare la sua stessa fine. L’Antropocene, annunciato da geologi come Paul Crutzen1 in quanto successore dell’Olocene (Crutzen 2006), trasmette tale significato storico. Serve anche da punto di svolta per immaginare un altro futuro o inizio – a condizione che ciò sia ancora innanzitutto possibile. Per alcuni teologi politici, l’Antropocene rappresenta anche il momento apocalittico, nel senso che sarà il kairos che interrompe il chronos, il tempo profondo della terra proposto dal fondatore della geologia moderna James Hutton verso la fine del Settecento (Northcott 2015). Metto la parola “natura” tra virgolette poiché sarà importante chiarire il suo significato prima di potere intraprendere una discussione intorno a una rinnovata relazione tra tecnologia e natura. Una superficiale opposizione tra tecnologia e natura sussiste da molto tempo, promuovendo l’illusione che l’unica via per la salvezza sia rallentare lo sviluppo tecnologico o rinunciarvi. È possibile imbattersi anche nella posizione opposta nei vari discorsi sul transumanesimo, la singolarità tecnologica e l’eco-modernismo, per esempio, i quali trasmettono un’idea, piuttosto ingenua e amata dalle aziende, secondo cui saremo in grado di migliorare le nostre condizioni di vita, porre riparo alla distruzione ambientale con una tec* 1
Si ringrazia Sara Baranzoni per la revisione critica del testo tradotto. [N.d.T.] Paul Crutzen è in realtà un chimico ambientale e non un geologo. [N.d.T.]
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nologia più avanzata e intervenire sulla creazione (per esempio, mediante la manipolazione del DNA). In questi discorsi non c’è praticamente alcuna questione della “natura”, poiché quest’ultima sarà semplicemente una delle possibilità delle tecnologie avanzate e la tecnologia non è più semplicemente protesica, nel senso di mera sostituzione o supplemento artificiali; al contrario, sembra che l’ordine delle cose si sia invertito, la tecnologia non è solo supplementare, ma piuttosto diventa essa stessa lo sfondo in contrapposizione con la figura. Negli ultimi decenni, anche prima che il concetto di Antropocene diventasse popolare, antropologi come Philippe Descola si sono mobilitati per superare l’opposizione tra cultura e natura, come è esposto al meglio nel brillante lavoro sistematico Oltre natura e cultura (Descola 2005; tr. it. 2014). Tuttavia, come argomenterò, questo tentativo di superare l’opposizione tra natura e cultura abbandona la questione della tecnologia troppo rapidamente e troppo facilmente. Tale proposta concorda sull’urgenza di sviluppare un programma per la coesistenza tra umani e non-umani, ma adotta un approccio piuttosto semplicistico e perciò, in una certa misura, potrebbe non riuscire a riconoscere il vero problema dell’Antropocene come quello di un gigantesco sistema cibernetico in fase di realizzazione. Nel presuppore ciò, alcune domande profonde vengono nascoste e l’Antropocene continuerà la logica dello sviluppo – una “metafisica senza finalità”, per come la mette Jean-François Lyotard (Lyotard, Brügger 1993, p. 149), fino a raggiungere il punto di autodistruzione. Questo saggio tenta di contribuire a un chiarimento della relazione tra tecnologia e natura e all’inevitabile compito della filosofia della tecnica di riflettere sul futuro sviluppo tecnologico planetario. Mira anche a risolvere la suddetta tensione attraverso il concetto di cosmotecnica, sperando così di oltrepassare il limite della nozione di tecnica (Heidegger 1957b; tr. it. 1976b)2 e comprenderlo da una prospettiva veramente cosmopolitica.
2
Siccome il concetto di “tecnica” – un termine che uso qui per comprendere tutte le forme di attività tecnica – è molto limitato, probabilmente possiamo dire, seguendo Martin Heidegger, che ci sono due concetti di tecnica: in primo luogo, la nozione greca di technē, che significa poiesi o “portare allo scoperto” (Hervorbringen); e in secondo luogo, la tecnologia moderna, la cui essenza, secondo Heidegger, non è più technē ma Gestell, in cui l’Essere è compreso come “riserva” o “fondo” a disposizione permanente (Bestand). Il limite è che non c’è posto per nessun concetto di tecnica extraeuropeo una volta che questa teoria viene accettata globalmente, come è attualmente il caso.
Y. Hui - Sulla cosmotecnica
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1. Dalla prima natura alla seconda natura Nelle due attitudini estreme summenzionate – una incentrata sulla sacralità e purezza della natura, l’altra sulla sua dominazione – sussiste una mancanza di comprensione della profonda questione delle diverse forme di partecipazione di umani e non-umani. O la partecipazione del non-umano è eclissata dalla questione del dominio e della supremazia tecnologici e quindi resa insignificante; o la cultura è considerata come una mera possibilità della natura, nel senso che la natura è la madre che dà origine a tutto e a cui tutto deve ritornare. Vorrei parlare invece di una seconda natura3, al fine di evitare di indulgere nell’illusione di una prima natura pura e innocente, nonché di imprigionarci in una pura razionalità tecnologica. È forse oltremodo scontato dire che il mondo è composto da umani e non-umani e che essi partecipano in modi diversi a culture diverse. La domanda è piuttosto: dobbiamo prendere ciò sul serio, e se sì, come? Saperlo e prenderlo sul serio sono due cose diverse. Il fallimento del costruttivismo sociale del Novecento, come suggerito dal sociologo Andrew Pickering (2017), dovrebbe insegnarci a prendere sul serio queste ontologie, dato che esse non sono semplicemente “costruite”, ma “reali”. La partecipazione dei non-umani varia da una cultura all’altra in base a diverse cosmologie. Queste cosmologie non sono solo schemi che definiscono le modalità della partecipazione, ma corrispondono anche ai fondamenti morali di tale partecipazione. Per chiarire ciò, basta ricordarci del ruolo di hau e mana nell’etnografia delle economie del dono di Marcel Mauss (1973; tr. it. 2002), in cui l’obbligazione morale ha la sua fonte nella cosmologia. Una particolare forma di partecipazione è giustificata solo nella misura in cui corrisponde o chiarifica la morale – che non significa necessariamente armonia, ma piuttosto i codici e le credenze che costituiscono le dinamiche 3
Prendo il concetto di seconda natura da Bernard Stiegler nel suo dialogo con Élie During in Philosopher par accident (Stiegler, During 2004), così come da Gilbert Simondon, per il quale (così come per Blaise Pascal) la seconda natura significa soprattutto abitudine (Simondon 2012, p. 128). Bruno Latour, nel suo Politiche della natura, propone di abbandonare il concetto di natura, scrivendo: “quando gli ecologisti più frenetici urlano tremanti: ‘La natura sta per morire’, non sanno quanto hanno ragione. Grazie a Dio, la natura sta per morire. Sì, il grande Pan è morto! Dopo la morte di Dio e quella dell’uomo, finalmente anche la natura doveva cedere. Ed era ora: presto non sarebbe più stato possibile fare alcuna politica” (Latour 1999; tr. it. 2004, p. 20). Contro Latour, ritengo che si possa abbandonare solo la nozione di prima natura in quanto che di totalmente innocente e puro, ma non si possa abbandonare il concetto di Natura, poiché esso è ciò che ci riconnette alla questione del cosmo.
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della vita sia individuale che comunitaria. Possiamo parlare della morale solo nella misura in cui gli esseri umani sono essere-nel-mondo; e il mondo è un mondo e non un semplice ambiente solo quando è conforme a tali convinzioni. È nella questione della seconda natura che possiamo individuare la questione della morale, poiché la morale viene rivelata solo attraverso una certa interpretazione della natura; o per dirla diversamente, la natura è conosciuta in base a ordini ed eccezioni. Nell’antica Grecia, è conosciuta come cosmologia: kosmos significa ordine; cosmologia, lo studio dell’ordine. La natura non è più indipendente dagli umani, ma piuttosto il loro altro. La cosmologia non è pura conoscenza teorica; al contrario, le cosmologie antiche sono necessariamente cosmotecniche. Vorrei dare qui una definizione preliminare di cosmotecnica: essa significa l’unificazione dell’ordine cosmico e dell’ordine morale attraverso attività tecniche. Le attività umane, che sono sempre accompagnate da oggetti tecnici come gli strumenti, in questo senso sono sempre cosmotecniche. La tecnologia moderna ha spezzato la tradizionale relazione tra cosmo e tecnica; essa diventa una forza gigantesca, che trasforma ogni ente in mera “riserva” o “fondo” a permanente disposizione (Bestand), come osserva Martin Heidegger nella sua famosa conferenza del 1949/1954 La questione della tecnica (Heidegger 1957b; tr. it. 1976b). Senza tentare di esaurire i ricchi materiali che incontriamo attraversando la storia della filosofia, a partire dalla nozione greca di physis e technē, accederemo alla nozione di natura, in primo luogo, alla luce della recente “svolta ontologica” in antropologia, una svolta associata a figure come Philippe Descola, Eduardo Viveiros de Castro e Bruno Latour, tra gli altri. Questa svolta ontologica, secondo Latour, è un’esplicita risposta alla crisi o mutazione ecologica e propone di prendere sul serio queste diverse ontologie e indebolire e modificare il discorso europeo dominante sul naturalismo, al fine di cercare un’altra maniera di coesistere. In secondo luogo, vorrei integrare il lavoro antropologico suggerendo come una coesistenza tra natura e tecnologia moderna possa essere concettualizzata attraverso il lavoro del filosofo francese Gilbert Simondon. In questo contesto, affronteremo le opere postume di Simondon pubblicate di recente. Cercheremo di mostrare, sia nel lavoro di Simondon che in quello degli antropologi, che la relazione tra natura e tecnologia ha una radice morale che è stata sradicata dall’industrializzazione planetaria; e da lì, tenteremo di affrontare la possibilità di una rinnovata relazione tra tecnologia e natura, gettando in questo modo luce sul concetto di cosmotecnica.
Y. Hui - Sulla cosmotecnica
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2. Tra tecnologia e natura Negli scritti dei pensatori summenzionati, possiamo trovare due gruppi di registri opposti – il che a prima vista sembra piuttosto intrigante, come se tra loro ci fosse un divario. Descola parla del dualismo tra cultura e natura; Simondon parla dell’antagonismo tra cultura e tecnica. Il dualismo cultura-natura di Descola sembra ipotizzare che la tecnica cada dalla parte della cultura, mentre è chiaro che per Gilbert Simondon la tecnica è – almeno nel corso dei suoi scritti – non ancora completamente integrata nella cultura. Per Simondon nella cultura sussistono un’incomprensione e un’ignoranza della tecnica (Simondon 2012, p. 10), il che è una delle fonti di una doppia alienazione: l’alienazione degli esseri umani nel senso di Marx e l’alienazione degli oggetti tecnici – per esempio, essi vengono trattati come prodotti di consumo o schiavi, vale a dire, come gli schiavi di epoca romana che aspettavano indefinitamente gli acquirenti sul mercato (Simondon 2014; tr. it. 2017, pp. 35-39). In effetti, possiamo individuare un parallelismo piuttosto interessante tra Descola e Simondon, come schematizzato nel diagramma seguente:
Natura
contro
Descola
Cultura
contro
Tecnica
Simondon
Queste diverse configurazioni – natura contro cultura, cultura contro tecnica – derivano dalle differenze tra le discipline di Descola e Simondon rispettivamente o dalle loro diverse diagnosi dei problemi del loro tempo? È degno di nota che Descola, l’antropologo della natura, si riferisca raramente al paleontologo e antropologo della tecnica André Leroi-Gourhan, che è una figura importante per la riflessione sulla tecnologia di Simondon4. 4
È importante segnalare che, in un dialogo con Pierre Charbonnier, Descola ha parlato delle due scuole di antropologia in Francia durante gli anni della sua formazione: c’era, da una parte, la Formation à la recherche en Anthropologie Sociale et Ethnologie (FRASE), fondata da Lévi-Strauss; e dall’altra, il Centre
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La mia tesi è che l’antropologia della natura e la filosofia della tecnica dovrebbero dialogare al fine di affrontare la questione dell’Antropocene. Alcuni lettori potrebbero innanzitutto dubitare del fatto che queste due scuole di pensiero possano essere riunite: la scuola antropologica è ampiamente radicata nel lavoro di Lévi-Strauss, che adotta una prospettiva trascendentale quasi kantiana su miti e cosmologia, mentre il pensiero di Simondon potrebbe essere caratterizzato come un empirismo trascendentale nel senso di Deleuze, situato nell’immanenza di relazioni, energie e informazioni. Tuttavia, quest’opposizione è solo apparente, poiché, da una parte, nella terza sezione di Du mode d’existence des objets techniques (2012) di Simondon, egli propone un modo di situare il progresso tecnico al di là della realtà tecnica (per esempio, la dinamica interna degli oggetti tecnici), verso una realtà cosmica; dall’altra, la questione della relazione (sebbene alquanto schematizzata) gioca un ruolo centrale nel concepire il modo di operare all’interno delle differenti ontologie in Oltre natura e cultura di Descola (per non parlare del fatto che Metafisiche cannibali di Viveiros de Castro, 2015; tr. it. 2017, è un trattato antropologico post-strutturalista ispirato dal concetto deleuziano di intensità). Questa volta vogliamo cambiare il contesto, ossia facilitare un dialogo tra antropologia post-strutturalista e filosofia della tecnica. 2.1 Dualismo tra cultura e natura L’opposizione cultura contro natura comprende una delle quattro ontologie, che Descola chiama “naturalismo”, accanto alla quale ne accosta altre tre: “animismo”, “totemismo” e “analogismo” (Descola 2005; tr. it. 2014, p. 141). Nel naturalismo troviamo la separazione natura/cultura, che si manifesta come una separazione tra l’umano e il non-umano. Tale separazione è caratterizzata dalla continuità fisica e dalla discontinuità spirituale tra umani e non-umani, in cui la partecipazione dei non-umani è limitata all’essere oggetto della supremazia e della dominazione dell’umano. Sarebbe troppo facile attribuire tutti questi problemi alla divisione cartesiana tra soggetto e oggetto. Tuttavia, è parimenti difficile identificare l’origine di un tale pensiero senza ricorrere allo schema filosofico dominante della filosofia europea della prima modernità. È importante de formation à la recherche ethnologique (CFRE), fondato da Leroi-Gourhan. Descola dice che “ciò corrisponde a due stili di pensiero antropologico non del tutto opposti, ma che sono rimasti perlopiù separati nel mondo delle università, a causa delle personalità e degli interessi dei loro due fondatori” (Descola 2014, pp. 31-32).
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riconoscere che il naturalismo non è esistito dall’inizio della cultura europea; è in realtà un prodotto “recente”, o per Bruno Latour, un prodotto “incompleto” nel senso che “non siamo mai stati moderni” (Latour 1991; tr. it. 2015). Descola ha dimostrato che l’analogismo piuttosto che il naturalismo era significativamente presente in Europa durante il Rinascimento e, in tal caso, la “svolta” che ha avuto luogo durante la modernità europea sembra avere fornito un’epistemologia completamente diversa per quanto riguarda la relazione tra umano e non-umano, cultura e natura, soggetto e oggetto e cosmo e fisica; un’epistemologia che possiamo analizzare retrospettivamente nell’opera di Galilei, Kepler, Newton e altri. Se il naturalismo è riuscito a dominare il pensiero moderno è perché una tale peculiare concezione cosmologica è compatibile con il suo sviluppo tecnologico: la natura dovrebbe essere dominata e può essere dominata in base alle leggi della natura.
Tavola 1: Schema delle quattro ontologie di Descola Interiorità simile, Animismo fisicità dissimile Interiorità dissimi- Naturalismo le, fisicità simile
Totemismo Analogismo
Interiorità simile, fisicità simile Interiorità dissimile, fisicità dissimile
L’Antropocene è al contempo la crisi del naturalismo e la crisi della modernità. È in una tale crisi che la modernità viene nuovamente messa in discussione (Latour 2012), questa volta dagli antropologi. La svolta ontologica in antropologia è la richiesta di una politica delle ontologie. Ciò a cui questa politica conduce è principalmente un pluralismo, che è stato messo in pericolo dalla diffusione del naturalismo in tutto il mondo attraverso la colonizzazione. Al centro di tale politica c’è il riconoscimento di una pluralità di ontologie in cui le nature svolgono ruoli diversi nella vita quotidiana. Il riconoscimento, tuttavia, è solo il primo passo; la politica nasce dall’incontro tra queste ontologie. Che tipo di politica sarà? Durante la conferenza Comment penser l’Anthropocène, Descola si riferisce al fatto che la Bolivia ha incluso i diritti dei non-umani all’interno della sua costituzione (Descola 2015). Possiamo comprendere ciò come un’istituzionalizzazione di ontologie. Tuttavia, la domanda a cui bisogna ancora rispondere è quale sarà il destino di queste ontologie e pratiche indigene quando affronteranno la tecnologia moderna, che è la realizzazione del naturalismo? O queste “pratiche” sono in grado di trasformare la tecnologia moderna in modo che
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quest’ultima acquisisca una nuova direzione di sviluppo, un nuovo modo di esistenza? Questa è una delle questioni più cruciali, dato che riguarda anche come sfuggire sia al colonialismo che all’etnocentrismo. Descola usa spesso la parola “pratica”, anziché tecnica o tecnologia (Descola 2005; tr it. 2014). Possiamo immaginare che egli voglia evitare un antagonismo tra tecnica e natura; tuttavia, facendo così, nasconde a sua volta la questione della tecnica. Questo non è per rimproverare a Descola di avere dimenticato la questione della tecnica, dato che egli ne è certamente consapevole quando scrive: la “natura” e la “soprannatura” animistiche sono quindi popolate di collettivi sociali con i quali i collettivi umani stringono relazioni conformemente alle norme supposte comuni a tutti. Infatti umani e non-umani non si accontentano di scambiare prospettive, quando lo fanno; scambiano anche e soprattutto segni, preludi a volte a scambi di corpo, in ogni caso indicazioni che si comprendono reciprocamente nelle loro interazioni pratiche. Questi segni non possono essere interpretabili gli uni dagli altri se non quando sono garantiti da istituzioni che li legittimano e danno loro un senso, garantendo così che i qui pro quo nella comunicazione interspecifica siano ridotti al minimo (Descola 2005; tr. it. 2014, p. 257).
Ci sono codici e istituzioni; i codici sono già tecnici, come i “protocolli”. Tuttavia, in ciò si nasconde un altro problema, meno strategico che ontologico. Dovremo riconoscere che la tensione tra ontologia e tecnica non è affermata chiaramente nel pensiero di Descola. Parlando di una tensione tra ontologia e tecnica intendo dire che queste ontologie sono possibili solo quando sono già coinvolte nella vita tecnica – che spazia dall’invenzione, alla produzione e all’uso quotidiano. Conseguentemente, qualsiasi trasformazione della seconda modificherà direttamente la prima. L’arrivo della tecnologia moderna nei Paesi extraeuropei nei secoli passati ha creato una trasformazione impensabile per gli osservatori europei. Il concetto stesso di un’“ontologia indigena” deve essere messo innanzitutto in discussione, non perché non esisterebbe, ma perché è situato in una nuova epoca e trasformato a tal punto che praticamente non c’è modo di tornare indietro e ripristinarlo. Questo è precisamente il motivo per cui dobbiamo elaborare un pensiero cosmotecnico dal punto di vista di queste ontologie senza cadere preda di un etnocentrismo5. La trasformazione innescata dalla tecnologia 5 In Cosmotecnica (Hui 2016b; tr. it. 2021), uso la Cina come esempio per spiegare come la conoscenza tradizionale è stata distrutta o indebolita durante il processo di modernizzazione. Tuttavia, sostengo anche che un “dietrofront” non è più una vera opzione, dato che è impossibile in considerazione dell’attuale situazione ge-
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moderna non è avvenuta solo nelle culture extraeuropee nel corso della colonizzazione, ma anche nella cultura europea, con la differenza significativa che, per le prime, si è svolta attraverso l’importazione di tale apparato tecnologico d’avanguardia sotto forma di tecnologie militari, e per la seconda, principalmente attraverso l’invenzione tecnologica. Ciò che è essenziale nei concetti di “natura” e “ontologia” degli antropologi è la cosmologia, dato che tale “natura” è definita in base a diverse “ecologie di relazioni”, in cui osserviamo diverse costellazioni di relazioni, per esempio la relazione parentale tra femmine e ortaggi o la fratellanza tra cacciatori e animali. Queste relazioni possono essere rintracciate in attività tecniche come l’invenzione e l’uso di strumenti. È la ragione per cui vorremmo elaborare una cosmotecnica, invece di parlare semplicemente di una cosmologia, che potrebbe limitarci a discussioni su conoscenze e attitudini teoriche. La modernizzazione globalizzata, ha suggerito Claude Lévi-Strauss nel suo Tristi tropici, dà rilievo a un nuovo significato per lo studio dell’antropologia, vale a dire l’entropologia – si noti che le due parole si pronunciano allo stesso modo in francese (Lévi-Strauss 1955; tr. it. 1960, pp. 402-403) – entropica nel senso della “disintegrazione” delle forme di vita attraverso la trasformazione tecnologica, che omogeneizza silenziosamente le diverse relazioni cosmologiche in una sola, compatibile con la tecnologia moderna. Questo è il problema della modernità per come essa è vista fuori dall’Europa ed è innegabile che la globalizzazione abbia assunto un ritmo tale che ciò che è chiamato conoscenza indigena viene emarginato e che la situazione continuerà a deteriorarsi. Se vogliamo concepire il futuro della filosofia della tecnica, dobbiamo affidarle il compito di pensare al di là della tradizione occidentale. E per affrontare tale compito non dobbiamo accontentarci di quanto sia utile la filosofia allo sviluppo opolitica e socioeconomica. Propongo di sviluppare un pensiero cosmotecnico a partire dalla filosofia cinese al fine di dimostrare come tale lignaggio di pensiero tecnologico, estratto dal pensiero cinese, possa contribuire a riflettere sul problema e sullo sviluppo futuro delle tecnologie globali. Déborah Danowski ed Eduardo Viveiros de Castro, nel loro libro Esiste un mondo a venire? (Danowski, Viveiros de Castro 2014; tr. it. 2017), hanno criticato l’incapacità di Latour di riconoscere i vantaggi e le risorse delle “popolazioni generalmente esigue e le tecnologie ‘relativamente rudimentali’ dei popoli indigeni” (Danowski, Viveiros de Castro 2014; tr. it. 2017, p. 201), e mi sembra che si possa facilmente cadere in preda all’etnocentrismo nel credere che la soluzione sia già presente nel pensiero occidentale o indigeno, e che vi era presente in un certo senso fin dall’inizio. La questione principale per noi è in che modo le ontologie indigene possano entrare in dialogo con la tecnologia e la metafisica occidentali e in tal modo trasformare la tendenza attuale delle tecnologie globali.
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tecnologico e di come essa possa rendere ragione dell’etica di una particolare tecnologia. Piuttosto, dobbiamo concepire una filosofia della tecnica che affronti il dualismo fondamentale tra natura e tecnologia, umani e nonumani (animali, piante, macchine), moderno e non-moderno, e superarli, contro una globalizzazione dominata dal mero discorso dell’economia o dell’economia politica. Possiamo individuare tale enfasi sul ruolo della cosmologia nell’opera di antropologi e filosofi come Viveiros de Castro, Déborah Danowski (Danowski, Viveiros de Castro 2014; tr. it. 2017) e Tim Ingold (2014), tra molti altri6. Qui mi limiterò ad affrontare un’interessante proposta di Donna Haraway. Nel suo recente lavoro Chthulucene (2016; tr. it. 2019), troviamo una strategia simile, che affronta indirettamente anche la questione della tecnica. Pur non facendo alcun riferimento a Descola, Haraway affronta il problema dell’Antropocene in un modo che risuona con la proposta di Descola. Se quest’ultimo considera la politica come momento di incontro e negoziazione tra le diverse ontologie, nel senso più o meno di Latour, Haraway non elabora una presentazione schematica di ontologie ma piuttosto una concezione generalizzata della politica non-umana. Caratterizza lo Chthulucene come lo scenario successivo all’Antropocene e al Capitalocene. Chthulucene, secondo Haraway, è il composto di due radici greche – khthôn e kainos – che significa guardare dal basso dalla prospettiva di altre forme di esseri viventi (Haraway 2016; tr. it. 2019, pp. 13-14). In quanto biologa e scienziata sociale, Haraway propone di pensare la politica come un modo di “creare parentele”, ossia concepire una simpoiesi tra specie diverse. Questo neologismo, “simpoiesi”, si riferisce sia alla simbiosi che all’autopoiesi. Tuttavia, differisce da queste ultime poiché, in primo luogo, non significa semplicemente ciò che è reciprocamente vantaggioso (Haraway 2016; tr. it. 2019, p. 92); e in secondo luogo, evidenzia il fatto che le relazioni tra umani e altri esseri sono estremamente interdipendenti, problematizzando in questo modo l’“auto-”: “la simbiosi crea problemi all’autopoiesi, e la simbiogenesi crea problemi ancora più grossi alle unità individuali che si auto-organizzano. Quanto più la simbiogenesi sembra essere onnipresente nei processi di organizzazione dinamica degli esseri viventi, tanto più simpoietico, complicato, tortuoso, intrecciato ed esteso è il mondeggiare terrestre” (Haraway 2016; tr. it. 2019, p. 92). È eminentemente una “bio-politica”, dato che Haraway scrive che “biologia, arte e politica hanno bisogno l’una dell’altra; attraverso il momento 6
I lettori potranno trovare molta letteratura sulla politica delle ontologie che non possiamo elencare qui (Kohn 2015; Skafish 2014).
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involutivo, si persuadono a vicenda a pensare/fare simpoiesi per quei mondi più vivibili che io chiamo Chthulucene” (Haraway 2016; tr. it. 2019, p. 140). Possiamo probabilmente riassumere la proposta di Haraway come “biologia contro tecnocrazia”, per cui ogni volta che gli umani sviluppano tecnologie dovranno valutarne l’impatto su altre forme di esseri viventi. L’approccio di Haraway è profondamente etico e ha il vantaggio di fornire una politica e un’etica ontologiche generalizzate per superare l’Antropocene. Il concetto di simpoiesi è un tentativo di porre limiti allo sviluppo tecnocratico e la possibilità della simpoiesi diventa la condizione per proteggere le specie dalla distruzione. In questo modo, Haraway non affronta direttamente la questione della tecnica; piuttosto, come Descola, astrae la tecnologia in quanto cultura e pertanto evita un diretto confronto con la questione della tecnica. È rivolgendoci all’opera di Simondon che rendiamo la questione e il confronto con la tecnica espliciti. 2.2 Antagonismo tra cultura e tecnica L’opera di Gilbert Simondon affronta con rigore la questione della tecnologia moderna. Egli ha anche evidentemente influenzato altri pensatori come Gilles Deleuze e Bernard Stiegler (quest’ultimo, 2015; tr. it. 2015, estende significativamente le indagini di Simondon al dominio delle tecnologie digitali contemporanee e dell’Antropocene). È vero che nell’opera di Simondon si incontra meno una riconciliazione tra natura e tecnologia che una tra tecnica e cultura. Come abbiamo osservato in precedenza, nelle prime pagine del suo Du mode d’existence des objets techniques (2012), Simondon ha già diagnosticato il problema della nostra società: esiste un antagonismo della cultura contro la tecnica che proviene da un’ignoranza e un’incomprensione di quest’ultima. Non sarebbe saggio tentare di esporre il pensiero tecnologico di Simondon in questo breve articolo; è sufficiente segnalare che quest’incomprensione della tecnica conduce alla dolorosa difficoltà di coesistenza tra l’umano e le macchine. Possiamo comprenderlo facilmente nei modi seguenti. Da una parte, le macchine diventano oscure per i loro utilizzatori e solo gli specialisti sanno come riparare le loro componenti (e sempre più non l’intera macchina). Questa è una delle fonti di alienazione nell’Ottocento e nel Novecento: i lavoratori, abituati ad adoperare strumenti semplici, non sono in grado di cavarsela con i nuovi funzionamenti o comprendere la realtà tecnica. Dall’altra, le macchine sono trattate come oggetti semplicemente funzionali, ovvero utilizzabili; sono prodotti consumistici meno importanti degli oggetti estetici e, in casi estremi, schiavi, come si
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evince dalla concezione pubblica dei robot. Ecco perché, già nella seconda pagina di Du mode d’existence des objets techniques, Simondon scrive: “vorremmo mostrare che un robot proprio non esiste e che non è una macchina, tanto quanto una statua non è un essere vivente, ma solo un prodotto dell’immaginazione, di una fabbricazione immaginaria e dell’arte dell’illusione” (Simondon 2012, p. 18). Simondon si riferisce qui a una relazione operativa ed etica tra l’umano e la macchina. La questione della coesistenza o del con-essere è di fondamentale importanza in questa connessione. Haraway e Descola hanno ragione nel sottolineare la necessità di riconsiderare la questione della coesistenza con la natura. Tuttavia, tale coesistenza è possibile solo quando riflettiamo sul ruolo degli oggetti tecnici, i quali non solo hanno la propria esistenza, ma funzionano anche come relazioni con altre esistenze. La questione della coesistenza non riguarda quindi semplicemente le relazioni tra l’umano e il non-umano. Dobbiamo aggiungervi anche la questione degli oggetti tecnici o macchine. Il nostro obiettivo qui è portare l’attenzione su una riflessione presente nell’opera di Gilbert Simondon sulla natura e la tecnologia, sulla base della quale possiamo concretizzare il compito di una filosofia della tecnica nell’era dell’Antropocene. Vorremmo considerare tale riflessione di Simondon come un pensiero ecologico che concerne diversi modi di reticolazione. O per dirla altrimenti: se c’è un’ecologia in Simondon, essa concepisce la tecnologia in termini di modi di reticolazione e il progresso tecnologico come costante trasformazione delle forme di reticolazione. Questo punto diviene evidente quando pensiamo all’emergere delle diverse reti di comunicazione, dall’analogico al digitale nel Novecento e ora con i social networks di ogni sorta. Tuttavia, non tutti i modi di reticolazione conducono a una riconciliazione tra natura e tecnica; o forse possiamo dire che, nel pensiero di Simondon, tale riconciliazione è caratterizzata da una cosmopoiesi7. Al fine di sviluppare questo concetto, dobbiamo esaminare la storia speculativa della genesi della tecnicità di Simondon. Prima di continuare la nostra esposizione del pensiero di Simondon, riassumiamo ciò di cui abbiamo discusso sopra. Propongo, in primo luogo, di considerare l’apriori tecnico nel concetto di natura, che ci consente di 7 In On the Existence of Digital Objects (Hui 2016a) ho rimproverato a Simondon di limitare troppo la sua nozione di reticolazione ai vincoli geografici e ho sostenuto che la sua teoria della reticolazione non può pertanto fornire un ordine di grandezza appropriato per comprendere gli oggetti digitali. Tuttavia, per quanto riguarda le crisi ecologiche e ambientali, la sua enfasi sulla compatibilità tra l’ambiente geografico e l’ambiente tecnico è ancora significativa.
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abbandonare un’immagine pura e innocente della natura e ci restituisce una “seconda natura”; e in secondo luogo, l’apriori cosmico nello sviluppo tecnologico, nel senso che le tecniche sono già sempre cosmotecniche. Questi sono i due lati della stessa medaglia che chiamiamo esistenza umana e progresso umano. Se possiamo rimproverare a Descola, Haraway e altri di non prestare sufficiente attenzione al primo, dobbiamo anche rimproverare ai tecnocrati di ignorare il secondo nella misura in cui il cosmo diventa semplicemente una riserva permanentemente disponibile per lo sfruttamento, nel senso che la cosmologia diventa mera astrofisica. Dimostrerò questo secondo punto nei termini di ciò che chiamo un apriori cosmo-geografico nel pensiero di Simondon, cruciale per la costruzione dell’ambiente tecno-geografico. 3. L’apriori cosmo-geografico e la co-naturalità Prima di tutto, dobbiamo affrontare la domanda: che cos’è la natura per Simondon? In L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e di informazione (2005; tr. it. 2011), la natura è concepita come pre-individuale, che è come l’apeiron di Anassimandro, un potenziale inesauribile (Simondon 2005; tr. it. 2011, p. 460). Il pre-individuale è ciò che consente a un’ulteriore individuazione di avere luogo. Tuttavia, ciò non significa che la natura sia un serbatoio di energia, ma piuttosto che essa è sempre anteriore all’ente già individuato e dà origine a una seconda individuazione quando le condizioni sono soddisfatte. Per Simondon la storia della tecnologia può essere considerata come il progresso costante delle modalità di reticolazione delle forze spirituali. L’inizio della storia della tecnologia è avvenuto con quella che egli chiama “la fase magica” (Simondon 2012, pp. 227-228). La reticolazione della fase magica è caratterizzata da ciò che egli chiama punti chiave (points clés): per esempio, un albero gigante, una roccia enorme, un picco alto o un fiume. Questi punti geografici sono i punti chiave che mantengono la reticolazione delle forze; o più precisamente, non è che questi punti chiave siano l’origine delle forze, ma piuttosto queste forze sono regolate in base ai punti chiave. Nella fase magica, suggerisce Simondon, c’è una forma di unità, dove non esiste distinzione tra soggetto e oggetto; lo sfondo e la figura si sostengono a vicenda, nel senso che lo sfondo dà forma e le figure limitano lo sfondo, come osserviamo negli esempi tipici della psicologia della Gestalt.
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L’universo magico è già strutturato, ma secondo una modalità anteriore alla separazione di oggetto e soggetto; questo primitivo mondo di strutturazione è quello che distingue figura e sfondo indicando i punti chiave nell’universo […]. In effetti, precedentemente alla separazione delle unità, viene istituita una reticolazione dello spazio e del tempo, che evidenzia luoghi e momenti privilegiati, come se tutto il potere dell’azione umana e tutta la capacità del mondo nell’influenzare gli umani fossero concentrati in un tale luogo e momento (Simondon 2012, pp. 227-228).
Lo sfasamento o eliminazione progressiva (déphasage) della fase magica si sviluppa in tecnica e religione. Gli strumenti rituali – che sono oggetti tecnici – diventano i punti chiave di un altro modo di reticolazione (Simondon 2012, p. 227). Questo è il punto di partenza da cui possiamo tematizzare il concetto di cosmotecnica. Questa fase ha contraddistinto un pensiero estetico che era in grado di creare una convergenza dopo la biforcazione di religione e tecnica, ma che in seguito si è rivelato insufficiente. Nella terza parte di Du mode d’existence des objets techniques di Simondon, sussiste una tensione complice e alquanto problematica tra ciò che Simondon chiama il pensiero estetico e il pensiero filosofico (Duhem 2009). Il pensiero estetico non è stato in grado di fare fronte a questa biforcazione costante, perché è ancora situazionale, il che significa che il suo ruolo sarà quello di servire da “paradigma per orientare e supportare il lavoro del pensiero filosofico” (Simondon 2012, p. 276), sottintendendo che il pensiero filosofico dovrà intervenire per determinare un ordine di convergenza superiore. Come in Heidegger, in Simondon troviamo un’esposizione della rottura della relazione tra tecnica e natura durante la modernità europea. Simondon è concorde con la critica di Jean-Jacques Rousseau all’enciclopedia di Denis Diderot e Jean le Rond D’Alembert per la sua separazione della tecnica dalla natura – o nelle parole di Simondon, dagli “elementi” nel senso dei presocratici (per esempio, l’acqua di Talete, il fuoco di Eraclito e l’apeiron di Anassimandro, Simondon 2016, p. 380). La separazione della tecnica dalla natura è proseguita durante la modernità europea e, come ha notato Simondon, verso la fine dell’Ottocento la rottura venne amplificata al punto che le tecniche antiche vennero represse, il rapporto con il mondo naturale andò perduto e gli oggetti tecnici divennero oggetti “artificiali” – artificiali nel senso che non hanno niente a che fare con la natura (Simondon 2012, p. 126). Questo periodo corrisponde a “una nozione di progresso drammatica e fervente, che diventa violenza alla natura, conquista del mondo e captazione di energie” (Simondon 2012, p. 17). È tale questione che porta Simondon a mediare sulla questione della convergenza e della possibile riconciliazione tra natura e tecnologia come
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compito del pensiero filosofico invece che del pensiero estetico. Tuttavia, non sarebbe legittimo dire che Simondon oppone pensiero estetico e pensiero filosofico. La critica di Simondon è che, glorificando il valore estetico degli oggetti (quelli che egli chiama “oggetti estetici”, Simondon 2012, p. 10), si tenda a ridurre il ruolo degli oggetti tecnici a semplice utilizzabilità e pertanto a ignorare il significato della loro realtà tecnica; ma avremo sempre bisogno del pensiero estetico ed esso è complementare al pensiero filosofico. Poiché la tecnica è fondamentalmente una questione di modi di reticolazione, c’è sempre la possibilità di ricostituire diversi punti chiave. Ciò è solo per dire che quest’immaginazione filosofico-antropologica delle unità, che caratterizza l’inizio della genesi della tecnicità, richiede una ricerca della convergenza che riunisce le diverse professioni e le diverse specializzazioni nella storia umana. A questo proposito, Simondon invoca Martin Heidegger nel suo Du mode d’existence des objets techniques: nella tecnicità integrata nel mondo naturale e nel mondo umano, queste forme di rispetto e di mancanza di rispetto manifestano l’inerenza a valori che vanno oltre l’utilizzabilità; il pensiero che riconosce la natura della realtà tecnica è quello che, secondo l’espressione di Heidegger, andando oltre oggetti separati, utensili, scopre l’essenza e la portata dell’organizzazione tecnica, al di là degli oggetti separati e delle professioni specializzate (Simondon 2012, p. 303).
Non è chiaramente indicato a quale opera rimandi il riferimento a Heidegger. Tuttavia, possiamo probabilmente fare riferimento al saggio di Heidegger La cosa (1957a; tr. it. 1976a), in cui egli propone la quadratura (das Geviert), ovvero il cielo, la terra, i mortali e Dio, per caratterizzare tale convergenza nella cosa8. Riformulo la genesi della tecnicità di Simondon come pensiero cosmotecnico e vorrei andare oltre Simondon aggiungendo che questa ricerca di convergenza dovrebbe anche mediare il moderno e il tradizionale, che nel processo di modernizzazione sono diventati estranei l’uno all’altro – come è successo in Europa e in modo molto più grave in Cina, Giappone e altri paesi extraeuropei negli ultimi due secoli. Questo è anche il motivo per cui dovremmo studiare tali reticolazioni di forze in base alle loro storie filosofiche e politiche al fine di affrontare il problema dell’Antropocene. 8
La cosa per Heidegger è opposta all’oggetto nel senso di Gegenstand – ciò che sta di fronte; cosa (thing), o in tedesco Ding, deriva dal verbo dinc, che significa raccogliere, riunire; nella politica degli oggetti, c’è un dualismo tra soggetto e oggetto, mentre nella politica delle cose, si tratta di co-appartenere, e una cosa ha pertanto la funzione di radunare la quadratura (Hui 2016a, pp. 161-164).
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Tuttavia, sarebbe un’illusione ipostatizzare le antiche cosmologie contro la tecnologia e sarà nostro compito rinnovare un pensiero cosmotecnico al fine di cercare una continuità tra il moderno e il tradizionale appropriandoci delle tecnologie. Invece di vedere lo sviluppo tecnologico come una violenza alla natura, Simondon tende a scoprire una poiesi in un certo sviluppo della tecnologia, che ha sia una dimensione estetica che una dimensione produttiva. Tuttavia, dobbiamo segnalare che, nel pensiero di Simondon, la reticolazione è sempre data come una forma di apriori cosmo-geografico ed è il punto di partenza di ciò che possiamo descrivere come un ambiente tecno-geografico di complessi tecnici, quali le reti ferroviarie e gli stadi. Commentando la mentalità tecnica dell’industrializzazione, Simondon propone che “non si tratta qui di violazione della natura o di vittoria dell’uomo sugli elementi, perché di fatto sono le strutture naturali stesse a servire da punto di allaccio alla rete in via di sviluppo: i punti di relè dei ‘cavi’ hertziani ritrovano gli alti luoghi di antica sacralità al di sopra delle valli e dei mari” (Simondon 2014; tr. it. 2017, p. 255). Simondon analizza la relazione tecnologia-natura tramite una deviazione sull’antagonismo tra cultura e tecnica. La tecnologia non violenta la natura, come si è spesso affermato; tale percezione deriva da un’incomprensione e un’ignoranza della tecnologia. Lo scopo del pensiero di Simondon è proporre un programma attraverso cui la cultura sia in grado di reintegrare la tecnologia ricollegando la natura alla tecnica. In questo modo, l’antagonismo tra tecnologia e natura può essere risolto. La questione che deve essere esaminata in modo più sistematico è: un tale desiderio e un tale pensiero sono applicabili alle tecnologie moderne? Questa domanda merita ulteriori, scrupolose analisi. Daremo solo uno sguardo al tipo di possibilità che Simondon ha proposto in diversi contesti. Questo apriori cosmogeografico della reticolazione, quando è seguito e adottato nel corso dello sviluppo tecnologico, esprime una poiesi dell’essere-insieme dell’umano e della natura. L’esempio seguente, che Simondon ha formulato durante un’intervista filmata con il giornalista Jean Le Moyn, illustra al meglio come l’apriori cosmo-geografico potrebbe essere compatibile con quello tecno-geografico9: guardi quell’antenna televisiva, in sé stessa […]. Essa è rigida, ma è orientata; si vede che guarda lontano e che può ricevere da un’emittente lontana. Per me, mi sembra essere più di un simbolo, mi sembra rappresentare una 9
Il video può essere recuperato da YouTube: .
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specie di gesto, d’intenzione, di potere, di essere quasi magico, di una magia contemporanea. Tra questo incontro dell’alto e del punto-chiave che è il punto-chiave della trasmissione in iperfrequenze, vi è una specie di “connaturalità” tra la rete umana e la geografia naturale della regione. Ciò è un aspetto poetico, di significato e di incontri di significati (Simondon 2014; tr. it. 2017, pp. 349-350).
In questa citazione possiamo osservare l’unità tra l’ambiente geografico e l’ambiente tecnico, in cui una cosmopoiesi è presentata come una “co-naturalità”. La questione è, in primo luogo, da dove viene questo apriori cosmo-geografico? Non è puramente universale, poiché varia da una cultura all’altra e condiziona diverse forme di vita; non è nemmeno trascendentale, poiché non è universale, ha anche una dimensione empirica ed è pertanto soggetto a rinnovo. In secondo luogo, qual è il senso del termine “poiesi” sperimentato da diverse culture? Il senso di esperienza poetica dei Greci non è necessariamente lo stesso di quello cinese. Simondon non era un antropologo, anche se era un grande conoscitore della cultura greca e romana. Ha proposto una teoria generale della genesi della tecnicità che può essere integrata dagli attuali dibattiti in antropologia in relazione al ruolo della natura e della cosmologia. E le cosmologie, se comprese come cosmotecniche, ci consentiranno di andare al di là dei limiti del sistema tecnico in corso di realizzazione, nonché di vedere come il pensiero cosmologico può intervenire nell’immaginazione dello sviluppo tecnologico.
4. Oltre natura e tecnologia La domanda che si pone immediatamente è la seguente: è l’estetica, quindi, la soluzione al problema di cui abbiamo discusso in precedenza? È tale questione che ci conduce verso la relazione tra l’apriori cosmogeografico e la costruzione dell’ambiente tecno-geografico e al ruolo del pensiero cosmotecnico. Al fine di indagare ciò, dovremo esaminare un altro esempio dato da Simondon, riguardante la connessione tra l’ambiente tecnico e quello naturale illustrata dalla turbina Guimbal (Simondon 2012, pp. 66-67). Con questo esempio, vogliamo anche spingere questa linea di pensiero al di là di quanto ha fatto lo stesso Simondon. Le turbine antecedenti alla turbina Guimbal soffrivano del problema del surriscaldamento: la turbina produceva così tanto calore da distruggere sé stessa. L’invenzione di Guimbal consiste in un passo molto importante verso l’integrazione del “mondo naturale” nel funzionamento della turbina. Il “mondo naturale” è
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qui, per esempio, un fiume. La turbina è ben ricoperta e isolata con olio e posta nel fiume. La corrente del fiume spingerà la turbina a muoversi; al contempo, porta anche via il calore prodotto dalla turbina. Teoricamente, più veloce è l’acqua, maggiore è la quantità di calore prodotta; e siccome l’acqua è veloce, il calore si dissiperà rapidamente. In questo caso, il fiume diventa parte del funzionamento, anche se non è propriamente un componente interno della turbina; piuttosto, è ciò che Simondon chiama un ambiente associato (milieu associé, Simondon 2012, p. 70). Un ambiente associato è definito da una causalità ricorsiva tra output e input, in un modo che possiamo intendere come il feedback nella cibernetica10. Tuttavia, Simondon va oltre anche il meccanismo di feedback della cibernetica e considera la formazione dell’ambiente associato all’interno di un generale processo tecnico di concretizzazione. L’ambiente associato è in questo caso anche un ambiente tecno-geografico. La macchina richiede un ambiente associato, che fa parte di un meccanismo che consente alla macchina di riprendere il suo normale stato di funzionamento a dispetto di disturbi sia esterni che interni. È possibile ritenere che qui l’apriori cosmo-geografico non è né puramente estetico né uno sfondo, ma è anche operativo. Ha il suo significato, non semplicemente come oggetto estetico, ma anche come schema interno all’oggetto tecnico e non semplicemente come funzione esterna all’oggetto. Tuttavia, si potrebbe problematizzare quest’esempio dato da Simondon: nel caso della turbina e della sua integrazione del mondo naturale come parte del suo funzionamento, che ne è di quegli altri esseri viventi, per esempio dei pesci che nuotano nel fiume? Questa è una domanda che Simondon non ha affrontato nel suo Du mode d’existence des objets techniques (2012) ed è anche al di fuori dell’ambito dell’antagonismo che Simondon configura all’inizio della sua opera: cultura contro tecnica. In quanto tale, può servire da esempio negativo in Chthulucene di Haraway (2016; tr. it. 2019). Proponiamo che per questo motivo è possibile integrare l’analisi di Simondon con i dibattiti attuali in antropologia, al fine di concepire una cosmotecnica che fronteggi l’attuale sfruttamento tecnologico globale. La nozione di apriori cosmo-geografico è fondamentale per le varie cosmotecniche e l’organizzazione di tale apriori varia da una cultura all’altra. Le diverse “cosmotecniche” possono essere ulteriormente analizzate in base alle loro specificità culturali e intese in termini di epistemologie diffe10 Nella raccolta postuma di articoli di Simondon Sur la philosophie (2016, p. 51), apprendiamo che egli aveva diverse traduzioni per il termine “feedback”, per esempio “résonance interne”, “contre-réaction”, “récurrence de causalité” e “causalité circulaire”.
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renti o alternative, nonché di epistemi nel senso di Michel Foucault (1966; tr. it. 1967), ossia le relazioni tra diversi domini scientifici che definiscono il regime di verità. Abbiamo notato all’inizio di questo articolo che l’Antropocene viene spesso indicato come un gigantesco sistema cibernetico o, in linea con i biologi, come un sistema complesso, illustrato dalla copertina del Whole Earth Catalog di Stewart Brand (1968), in cui vediamo il pianeta blu dall’esterno, la terra esaminata come un unico sistema cibernetico, mentre dobbiamo riconoscere che tutto ciò è situato in una specifica epistemologia, denotata dalla fine del cosmo11 e dall’inizio dell’ecologia, ossia la realizzazione del cosmo come gigantesco oggetto tecno-scientifico, come proposto da Marshall McLuhan. “Lo Sputnik ha creato un nuovo ambiente per il pianeta. Per la prima volta, il mondo naturale è stato completamente racchiuso in un contenitore artificiale. Nel momento in cui la Terra è entrata in questo nuovo artefatto, la Natura è finita e l’Ecologia è nata. Il pensiero ‘ecologico’ è diventato inevitabile non appena il pianeta è passato allo status di opera d’arte” (McLuhan 1974, p. 49). Al contempo, la globalizzazione tecnologica esporta solo tecnologie omogenee, incorporate in un’epistemologia molto ristretta e predefinita, e le altre culture sono costrette ad adattarsi a questa tecnologia oppure a replicarla. Possiamo chiamare questo processo modernizzazione. Il processo di modernizzazione guidato dalla competizione economica e militare ci ha reso impossibile vedere la molteplicità delle cosmotecniche; o meglio, ci ha obbligato a identificare tutte le cosmotecniche come parti di un lignaggio tecnologico universale. È necessario affrontare la questione dell’Antropocene internamente ed esternamente al sistema tecnico che stiamo fronteggiando, per migliorarla dall’interno e appropriarsene con nuovi epistemi. Il tentativo di introdurre il concetto di cosmotecnica è quello di esplorare il limite dell’attuale concetto di tecnologia nonché riaffermare la relazione tra cosmologia, morale e tecnologia, che nel sistema tecnologico chiamato Antropocene è scomparsa. Spero che con la nozione di cosmotecnica possiamo ri-approcciare la tecnologia moderna in due maniere schematiche. Qui posso solo fornire alcune riflessioni preliminari. In primo luogo, dall’interno, dobbiamo mettere in discussione l’epistemologia delle applicazioni tecno-scientifiche al fine di accedervi criticamente e sviluppare alternative. Ciò diviene chiaro quando esaminiamo sistemi di conoscenza consolidati, come la medicina, che sono stati tenuti sepa11 Storici come Rémi Brague (1999; tr. it. 2005) e Alexandre Koyré (1973; tr. it. 1988) nei loro lavori sulla cosmologia occidentale hanno decretato la morte del cosmo nella modernità europea.
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rati dal processo di modernizzazione o che sono stati subordinati l’uno all’altro; per esempio, la medicina cinese può essere approvata solo quando viene dimostrato che gli ingredienti contengono i tipi di sostanze chimiche legittimati nella medicina occidentale. Tuttavia, la questione dell’epistemologia non rientra semplicemente nel dominio della scienza, ma piuttosto queste epistemologie sono messe in atto e universalizzate dal capitale, il che di conseguenza porta a una razionalizzazione ingenua. Le tecnologie industriali capitaliste sono efficaci perché sono perlopiù omogenee e puramente calcolative. Sono omogenee perché bypassano le epistemologie e le prassi eterogenee. Queste tecnologie industriali hanno la tendenza a universalizzare, vale a dire che possono facilmente andare oltre i confini culturali e nazionali, un processo noto come globalizzazione. Tuttavia, è necessario accedere criticamente a questi modelli industriali e dimostrare l’esistenza di alternative12. L’esempio concreto che vorrei fornire è il progetto che ho condotto con lo scienziato informatico Harry Halpin per sviluppare un modello alternativo a piattaforme come Facebook. Facendo risalire la storia del social network allo psicologo sociale Jacob Moreno e alla sua invenzione della sociometria, abbiamo dimostrato che tale social network è basato su un concetto individualista, quello degli atomi sociali, ossia che ogni individuo è un atomo sociale e la società è una massa di atomi sociali (Hui, Halpin 2013; Hui 2015). Abbiamo proposto di sviluppare un altro modello, basato sui gruppi invece che sui singoli individui, sulla collaborazione invece che sulle singole attività. Gli esempi non sono sicuramente limitati ai social networks (per esempio, in questo caso, il concetto di relazioni sociali, individui, gruppi, collettivi); non ci si deve sentire impotenti di fronte al divenire-totalità della tecnologia moderna, ma bisogna invece cercare la possibilità di riappropriarsene, come quando Gilles Deleuze notoriamente dice che “non è il caso né di avere paura né di sperare, bisogna cercare nuove armi” (Deleuze 1990; tr. it. 2000, p. 235). In secondo luogo, dall’esterno, dobbiamo concepire il cosmo come qualcosa di esteriore al sistema tecnologico, al posto della visione antropocentrica delle attività umane come centro dell’universo, per tenere presente il limite di tale sistema, al di là del quale vi è l’ignoto e il misterioso13. Tuttavia, ciò non ha in alcun modo l’obiettivo di mistificare di 12 Possiamo fare riferimento alle proposte e alle pratiche di Bernard Stiegler (2016) così come di Geert Lovink (2013). 13 Faccio riferimento qui a Martin Heidegger per quanto riguarda l’anticipazione dell’Ignoto come compito dei poeti, in opposizione alla forza tecnologica che si chiude su sé stessa (Hui 2017).
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nuovo il cosmo né di proporre un ritorno alla cosmologia premoderna, ma piuttosto di sviluppare nuove sensibilità epocali che ci consentano di riappropriarci della tecnologia moderna, non solo per rifunzionalizzarla (come nel caso di ciò che abbiamo menzionato), ma anche per inventare cosmotecniche per la nostra epoca. Uso sensibilità e cosmotecniche al plurale al fine di sottolineare che non si tratta solo di una sensibilità o di una cosmotecnica, ma piuttosto di una riapertura della questione della tecnica attraverso l’affermazione delle culture non-moderne. Per fare sì che ciò avvenga, ogni cultura dovrà riappropriarsi e formulare la storia della propria cosmotecnica, e solo attraverso tale indagine storica possono rivelarcisi nuove cosmotecniche. L’Antropocene presenta la necessità di riconcepire la relazione tra gli umani e la terra/cosmo, che si riflette nelle discussioni tra gli antropologi, il pluralismo ontologico di Descola, il multi-naturalismo di Viveiros de Castro, così come la teoria di Gaia di Latour (2015; tr. it. 2020). Tuttavia, questa nuova relazione non può evitare la questione della tecnica, poiché la natura non è un porto sicuro, e questo è il compito a cui ritengo che la filosofia della tecnica abbia bisogno di aprirsi – vale a dire, riscoprire molteplici cosmotecniche al di là dell’attuale discorso sulla tecnologia, limitato come è alla technē greca e alla tecnologia moderna che proviene dalla modernità occidentale, e sviluppare un quadro teorico che consenta un’appropriazione delle tecnologie moderne come un Ereignis nell’Antropocene e un superamento delle opposizioni tra cultura e natura e cultura e tecnica. (Traduzione dall’inglese di Marco Pavanini) Riferimenti bibliografici Brague, R. 1999 La sagesse du monde. Histoire de l’expérience humaine de l’univers, Fayard, Paris; tr. it. La saggezza del mondo. Storia dell’esperienza umana dell’universo, Rubettino, Soveria Mannelli 2005. Brand, S. 1968 Whole Earth Catalog Fall 1968. . Crutzen, P.J. 2006 The Anthropocene, in E. Ehlers, T. Krafft (a cura di), Earth System Science in the Anthropocene, Springer, Berlin, pp. 13-18.
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CASI DI STUDIO
Commento introduttivo a Singolarità, metafora, diagramma di Gilles Châtelet Luca Cabassa e Mattia Galeotti Gilles Châtelet (1944-1999) è stato un matematico e filosofo francese. Dopo aver conseguito il dottorato in scienze matematiche in topologia differenziale sotto la direzione di Harold Rosenberg nel 1975, divenne professore di matematica presso l’Università di Paris VIII nel 1979. Châtelet è autore di un’opera filosofica singolare che va dalla pamphlettistica politica alla storia del pensiero scientifico. Les enjeux du mobile (Châtelet 1993), opus magnum frutto di un lavoro decennale, mette in scena, attraverso uno sguardo originale, la capacità di espressione che risiede nell’attività matematica. L’obiettivo è liberare il pensiero matematico dalle numerose sedimentazioni che hanno reso incomprensibile, se non addirittura relegato all’insignificanza, il ruolo svolto dall’intuizione, dai gesti, dai diagrammi – in breve, da tutte le forme di articolazione tra algebra e geometria, matematiche e realtà fisica, operazioni e comprensione delle stesse. Ne emerge una storia sui generis, tesa a ricostruire, o meglio, a mostrare, momenti singolari e significativi dell’intreccio tra matematica, fisica e metafisica. Da Aristotele a Leibniz, da Oresme a Maxwell passando per Kant, Schelling, Grassmann, Faraday e Hamilton, i diversi autori utilizzati da Châtelet costituiscono le poste in gioco del mobile, vere e proprie singolarità in cui “il pensiero trasforma l’indecisione in un nuovo orientamento, […] dove l’intuizione scientifica è un sentiero che biforca” (Badiou 2010, p. 126). Come rilevato da più commentatori1, Châtelet può essere inserito in quella tradizione filosofica che va sotto il nome di “epistemologia fran1
Ad es. da Andrea Cavazzini in Gesti, forme, idee. Gilles Châtelet tra epistemologia e Naturphilosophie, introduzione all’edizione italiana di Les enjeux du mobile (Châtelet 2010, pp. 11-36) e da Charles Alunni – di cui segnaliamo, tra i numerosi testi dedicati a Châtelet, Des Enjeux du mobile à L’enchantement du virtuel – et retour, ottima introduzione alla raccolta di testi da cui abbiamo tratto l’articolo che segue (Châtelet 2016, pp. 7-60).
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cese”, in particolar modo se con questo termine non ci si riferisce solo ai lavori di Gaston Bachelard e Georges Canguilhem, ma si rinvia all’opera di matematici-filosofi come Jean Cavaillès, Albert Lautman e JeanToussaint Desanti; d’altra parte, è innegabile individuare nel pensiero di Châtelet l’influenza di Aristotele, Leibniz, Hegel, Schelling, della Naturphilosophie romantica o il confronto serrato con posizioni a lui contemporanee, da Thom a Badiou, da Deleuze a Guattari. La tradizione filosofica, di volta in volta, è ripresa, disorientata, indirizzata, criticata, ma pur sempre tesa alla comprensione precisa della poetica implicita in ogni invenzione scientifica. Il testo che segue ha una storia editoriale non comune. Si tratta dell’ultimo manoscritto di Châtelet, inedito in lingua originale fino al 2010 e comparso in versione ridotta in inglese nel 2006. In seguito ad una conferenza tenuta il 15 aprile 1999 all’interno di un seminario di studenti dell’École Normale Supérieure di Parigi intitolato “Les mondes possibles”, Châtelet, su suggerimento di Charles Alunni, iniziò a redigere un testo per la pubblicazione. Dopo poche settimane, l’11 giugno 1999, Gilles Châtelet si suicidò. Sul tavolo del suo studio venne ritrovato, insieme a varie opere aperte per la consultazione, un plico di documenti pressoché indecifrabili che in nuce conservava il lavoro recente dell’autore. Infatti, Châtelet, non solo si rifiutò per tutta la vita di utilizzare un computer, ma, ispirato da William Burroughs, prese l’abitudine di comporre i propri manoscritti attraverso la tecnica del cut-up. Su un testo manoscritto incollava frammenti di diversa provenienza: citazioni fotocopiate, quasi sempre prive di riferimenti testuali, venivano tagliate, incollate e mischiate a brani tratti da altri lavori dello stesso Châtelet precedentemente dattiloscritti; a tutto questo, inoltre, bisognava aggiungere l’assenza sistematica di numerazione delle pagine aggravata dall’uso di un codice “cifrato” di ordinamento impresso sulla parte superiore dei documenti. È solo grazie a Charles Alunni, che si assunse l’incarico di dare una forma definitiva al manoscritto dell’amico, se possiamo fruire di un testo leggibile e coerente. Con una breve nota storica, inquadriamo adesso l’intervento di Châtelet all’interno di un panorama nazionale ed internazionale segnato da una delle più influenti scuole matematiche del Novecento: il bourbakismo. Verso la metà degli anni trenta, un gruppo di giovani matematici francesi (tra cui figuravano Henri Cartan, André Weil, Claude Chevalley, Jean Dieudonné, Jean Coulomb, Jean Delsarte, Charles Ehresmann, René de Possel, Szolem Mandelbrojt), che gravitavano intorno al seminario inaugurato da Jacques Hadamard, si pone l’obiettivo di individuare gli elementi unitari della matematica dell’epoca. Nel tentativo di definire in maniera più
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precisa questo progetto, nel 1935 nasce l’“Association des collaborateurs de Nicolas Bourbaki” che ha come punto di riferimento l’École Normale Supérieure di Parigi; l’intento principale dei membri era redigere un’opera strumentale che permettesse la fruizione delle idee fondamentali utili nella ricerca di base. Centrale, divenne la discussione sui criteri di selezione e riorganizzazione dei contenuti della matematica: “questi si dovevano basare sull’uso sistematico del metodo assiomatico e soprattutto su un nuovo concetto ispirato da questo metodo, e cioè sul concetto di struttura matematica” (Israel 2013, §6). Venne così alla luce un vero e proprio tentativo di rifondazione globale che si realizzerà nell’opera fondamentale del gruppo, gli Éléments de Mathématique. Per quanto riguarda i metodi, l’influenza principale è quella di matrice tedesca, in particolare nella veste formulata da David Hilbert. Tuttavia, il programma hilbertiano venne recepito secondo un’impostazione pragmatica retta da due ordini di ragioni: da una parte, una severa critica ad ogni riduzione della matematica ai concetti fondamentali di spazio e di numero motivata dal fatto che non vi è nulla di reale o di oggettivo in questi concetti, bensì una scelta soggettiva del ricercatore nel delimitare il campo dei propri interessi alla matematica classica. Con le parole di Henri Cartan: “le teorie matematiche che hanno una ‘realtà’ sono semplicemente quelle che si ha sufficientemente l’abitudine di manipolare: e […] questo carattere di ‘realtà’ è puramente soggettivo” (Cartan 1943). Dall’altra, la crisi delle cornici classiche che aveva investito la riflessione sulle scienze tra fine Ottocento e inizio Novecento e aveva dato luogo alle numerose operazioni di fondazione, venne portata alle estreme conseguenze: al centro dei futuri sviluppi del sapere matematico doveva essere posta la libertà della matematica, scevra da qualsiasi obbligo di fornire motivazioni esterne nella scelta dei propri concetti di base. Per i bourbakisti, il compito del matematico era quello di confezionare risultati ineccepibili sul piano logico deduttivo e il principio direttivo della sua attività era l’onestà intellettuale conseguita attraverso l’uso del metodo assiomatico, l’unico metodo che permette di concatenare tutte le proposizioni matematiche “in virtù delle sole regole della logica, facendo volontariamente astrazione di tutte le ‘evidenze’ intuitive che possono suggerire alla mente i termini che vi figurano” (Cartan 1943). La citazione che apre il testo è estratta da un’opera di André Weil, ed il modo in cui Châtelet ha deciso di ritagliarla non è casuale, ma allude a una sostanziale differenza di vedute tra i due autori. L’originale, infatti, continua così:
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Poi, un giorno, l’illusione svanisce, il presentimento diventa certezza, le teorie gemelle rivelano la loro origine comune prima di svanire. Come insegna la Gītā, si giunge alla conoscenza e all’indifferenza nello stesso tempo. La metafisica è diventata matematica, pronta a formare la materia di un trattato la cui fredda bellezza non saprà più emozionarci.
E ancora Così, noi sappiamo ciò che Lagrange cercava di prefigurare quando parlava di metafisica a proposito dei suoi lavori di algebra: è la teoria di Galois, che egli quasi tocca con mano, attraverso uno schermo che non riesce a penetrare. Là dove Lagrange vedeva analogie, noi vediamo teoremi. Ma questi teoremi possono essere enunciati solo grazie alle nozioni e alle “strutture” che per Lagrange non erano ancora oggetti matematici […] Grazie alla nozione decisiva di gruppo tutto ciò diventa matematica con Galois (Weil 2014, p. 60).
Weil, quindi, indica come elemento essenziale del pensiero matematico la capacità di diradare le “oscure analogie” per raggiungere le nozioni fondamentali che reggono l’intera impalcatura matematica. La selezione di Châtelet, invece, ci suggerisce qualcosa di completamente diverso: le oscure analogie, gli indistinti riflessi tra teorie, il piacere dello studioso, non sono degli accidenti collaterali in un percorso di svelamento delle strutture pre-esistenti, ma attivano dei dispositivi creativi che coinvolgono “vigorosamente il pensiero filosofico”. La scelta di inserire come primo testo della terza sezione questo manoscritto di Châtelet ci consente di porre l’accento sul ruolo della metaforizzazione nel linguaggio matematico e di approfondire il movimento del pensiero scientifico nel processo di creazione delle conoscenze. Nonostante il linguaggio delle matematiche continui ad essere inteso come il punto più alto dell’attività di formalizzazione, i tentativi di costruire dei fondamenti teorici su basi finitiste o logico-aritmetiche si scontrano sia con limiti interni alla disciplina che con considerazioni di carattere teoretico generale. Dal punto di vista interno, la svolta formalista, sostenuta da Hilbert e dalla sua scuola dagli inizi del Novecento, proponeva come fondamento di ogni teoria matematica la verifica della sua coerenza logico-aritmetica. Grazie ai teoremi di incompletezza di Gödel dimostrati nel 1930, sappiamo che tale verifica, in termini generali, è impossibile. D’altra parte, dal punto di vista teoretico, il processo di formalizzazione deve poggiare su alcune definizioni elementari che producono una ricorsione interminabile: il piano formale non può risolversi una volta per tutte in una lista di asserti individuati come assiomi.
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La metaforizzazione, per Châtelet, è il dispositivo centrale del pensiero matematico, ed è solo grazie a questa capacità che è possibile colmare la distanza tra la “struttura matematica” di Weil e l’intuizione fisico-geometrica, ingiustamente ridotta a “ingenuità pre-formale” dai formalisti e dalla scuola bourbakista. Per il matematico e filosofo francese non si tratta, con la metafora, soltanto di registrare e riportare similitudini tra oggetti – il che la ridurrebbe a un ruolo sussidiario meramente ornamentale, o al limite euristico –, ma di ancorare la pratica conoscitiva alla specificità della similitudine individuata o, detto altrimenti, di installare la similitudine come modo conoscitivo singolare e allo stesso tempo universalizzabile. Questo significa che, assieme alla similitudine, vengono a installarsi anche i termini che la similitudine mette in relazione, cioè che questi termini non esistono al di fuori della similitudine stessa. La metafora châtelettiana è “offensiva” esprime un movimento di ingaggio del pensiero, un “invito a completare che permette di pensare in atto ciò che non è dato in atto”. Questo invito che mobilita il pensiero prende il nome di “pensare per tratteggi” ed esprime il fondamentale carattere allusivo della metafora. Poiché la metafora gioca con l’impensato, lo sconfinamento nel non-senso è la condizione ineliminabile del suo darsi. Ogni metafora, anche la più consumata e banale, si assume il rischio permanente di incorrere in tre apparenti paradossi: a) la falsità veridica, cioè “l’effetto di veridicità risultante da una palese falsità”, è il caso della frase “il signor X è un leone”; b) l’astrazione allusiva, la selezione di un carattere specifico tra tutti quelli possibili, che permette una “resurrezione del sensibile”, ossia la visibilizzazione cogente di un’illusione, è il caso della frase “la vostra guancia è come una rosa”; infine c) l’effetto di simmetria, una “comparazione abbreviata” che non si riduce “alla semplice identità di una comparazione esatta”. I tre paradossi costituiscono tre condizioni necessarie, ma non sufficienti del “pensare per tratteggi”, generando un rapporto di rivalità e complicità con il campo concettuale della filosofia. Le metafore creano “degli effetti di veridicità”, ponendosi come componente ineliminabile “complementare alla deduzione logica in senso stretto”, la quale d’altro canto non può che limitarsi ad assicurare “il trasferimento della supposta verità”, ossia la verità già raggiunta. La deduzione logica non apporta nulla al contenuto. Gli “stratagemmi allusivi” permettono di caratterizzare dinamicamente ciò che il pensiero formale-analitico riporta in modo statico, ricongiungendo geometria e aritmetica, sensibilità fisica e rigore logico. In Châtelet, si fa spazio una nuova ipotesi di fondazione capace di sbarazzarsi del fallimento formalista, un’ipotesi che prevede la continua mobilitazione del pensiero nell’ottica di un invito al completamento, andando a far coincidere i con-
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cetti matematici con il percorso del loro afferramento. La pretesa esaustività del rigore logico-deduttivo viene destituita alla radice: il rigore è solo una tra le possibili condizioni dei gesti di completamento. La metaforizzazione rende evidente il rapporto, per così dire osmotico, che lega il polo esperienziale a quello formale. Nel compiere questo confronto ci stiamo impegnando in un’analogia che difficilmente può essere sviluppata in tutte le sue diramazioni, ma che a nostro parere è significativa e in linea con lo spirito dei lavori di Châtelet. Pensiamo, ad esempio, alla relazione che esiste tra problemi matematici e teoremi: da una parte, il problema è un gesto aperto, la ricerca di una soluzione in principio non è perimetrata da precisi vincoli formali, anzi, la parte sostanziale di un vero problema è proprio l’individuazione di quei vincoli che rendono intelligibile la possibile esistenza di una soluzione. Il teorema, invece, oggettifica alcuni di questi vincoli e costituisce un quadro formale preciso in cui a delle ipotesi (e a delle definizioni dei concetti utilizzati) fanno seguito delle tesi, attraverso una dimostrazione. Il teorema, quindi, rende oggettivo un problema sancendo un arresto alla proliferazione della problematizzazione; allo stesso tempo, ogni teorema comunica con la possibilità aperta delle sue ulteriori versioni tramite i gesti che possono aprire altre problematizzazioni. La dimostrazione è un vero e proprio momento di frizione in cui il soggetto di conoscenza incontra e fa propri i vincoli scelti che hanno reso intelligibile il problema. Il testo di Châtelet ci suggerisce che quest’analogia sia operativa anche nel rapporto tra metaforizzazione e strutture matematiche: dove la metafora è un movimento sulla soglia tra linguaggio e spazio aperto della significazione, le strutture matematiche emergono come cristallizzazione, sempre riattivabile, di una rete di significanti. Come nel caso dei teoremi, la possibilità di una continua riattivazione delle metafore non è solo un fatto latente nelle strutture, ma è essenziale per afferrarle. Il concettuale abbraccia il metaforico, perché bisogna cogliere lo spazio (in francese apprehender)2; dietro l’apprendimento dei concetti matematici si nasconde proprio l’apprendimento dei gesti di cattura e ritaglio dello spazio. Il pensiero è vitale e quindi esprime una potenza che non potrebbe esistere per il solo tramite del pensiero simbolico. Questa potenza necessita anche del pensiero per tratteggi.
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Da intendersi come metafora. In questo caso, seguendo Blumenberg (Blumenberg 1969; Blumenberg 2010), si tratta di una metafora assoluta, cioè di una metafora in cui il gioco dei rimandi tra i due termini non può avere una fine: per parlare di concettualità è necessario riferirsi al movimento di “coglimento” della concettualità, e per riferirsi al fatto di cogliere un’idea non si può non passare per la nozione di idea, concetto, o simili.
Commento introduttivo a Singolarità, metafora, diagramma di Gilles Châtelet
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Il lavoro châtelettiano – non solo in questo testo – è percorso da una tensione di fondo: rendere operativo all’interno delle matematiche il rapporto al virtuale, cioè alla continua possibilità generativa di nuovi gesti e spazi di possibilità. “Una metafora riuscita dunque non consiste tanto nella sostituzione di un contenuto con un altro, bensì nell’individuazione di un genere virtuale che supporta tale sostituzione”. Il virtuale come concetto è uno strumento ricorrente della filosofia deleuziana, utilizzato per aprire un terreno contingente di sviluppo dei divenire che qualifichi in positivo la rottura dei vincoli. L’ambivalenza del termine risiede nel suo rapporto con la possibilità: il virtuale va inteso come lo spazio di possibilità degli spazi di possibilità? Come l’insieme delle alternative tra i mondi? Oppure è necessario introdurre un dispiegamento nel tempo intendendo il virtuale come l’azione stessa di biforcare verso una diramazione storica specifica? Verso una possibilità prima inesistente? Questa ambivalenza non può essere sciolta, anzi sembra costituire l’aspetto saliente del concetto. Solo in Châtelet, però, troviamo un approfondimento di questa tensione nel campo delle matematiche: tramite la metafora, il matematico francese apre alla funzione epistemologica del virtuale. Tramite la metafora, infatti, viene reso esplicito il legame inestricabile tra gli oggetti matematici – le relazioni formali che li costituiscono – e le forze illocutorie che li hanno installati nei gesti di conoscenza. In L’enchantement du virtuel (Châtelet 2016, pp. 133-151) questo aspetto viene reso con l’espressione dissimmetria creatrice: un disequilibrio patente che ingiunge una organizzazione concettuale. La metafora assume un carattere fondativo continuamente rinnovato – non si tratta di una fondazione “definitiva” – e quindi propone la matematica come pratica vitale, come un movimento del pensiero in perenne divenire. Riferimenti bibliografici Alunni, C. 2017 Gian-Carlo Rota & Gilles Châtelet, deux mathématiciens aux avant-postes de l’obscur, in “Revue de Synthèse”, 138 (1-4), pp. 19-49. 2019 Spectres de Bachelard: Gaston Bachelard et l’école surrationaliste, Hermann, Paris. Badiou, A. 2010 Piccolo Pantheon portatile, Il Nuovo Melangolo, Genova. Batt, N. 2005 Penser par le diagramme: De Gilles Deleuze à Gilles Châtelet, Presses Universitaires Vincennes.
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Blumenberg, H. 1969 Paradigmi per una metaforologia, Il Mulino, Bologna. 2010 Teoria dell’inconcettualità; a cura di A. Haverkamp, tr. it. di S. Gulì, :duepunti edizioni, Palermo. Cartan, H. 1943 Sur le fondement logique des mathématiques, in “Revue Scientifique”, LXXXI, pp. 3-11; tr. it. di G. Israel, Sul fondamento logico della matematica in Israel, G., Il bourbakismo, Amazon Kindle, 2013, cap. 2. Châtelet, G. 1993 Les enjeux du mobile: Mathématique, physique, philosophie, Seuil, Paris; ed. it. a cura di A. Cavazzini, Le poste in gioco del mobile, Mimesis, Milano 2010. 2010 Les Animaux malades du consensus, a cura di C. Paoletti, Éditions Lignes, Paris. 2016 L’enchantement du virtuel: Mathématique, physique, philosophie, a cura di C. Alunni e C. Paoletti, seconda edizione, Éditions Rue d’Ulm/Presses de l’École normale supérieure, Paris. 2021 Vivere e pensare come porci. L’istigazione all’invidia e alla noia nelle democrazie mercato, a cura di M. Pichierri, Meltemi, Roma. Israel, G. 2013 Il bourbakismo. Saggio sull’ideologia di una delle ultime scuole scientifiche con un’antologia di testi, Amazon Kindle. Roy, P. 2005 Le cri de Gilles Châtelet, in “Chimères”, 56(1), pp. 73-88. 2017 L’immeuble du mobile: Une philosophie de la nature avec Châtelet et Deleuze, Presses Universitaires de France, Paris. Weil, A. 2014 La fredda bellezza. Dalla metafisica alla matematica, a cura di N. Argentieri, Castelvecchi, Roma.
Gilles Châtelet
SINGOLARITÀ, METAFORA, DIAGRAMMA
I matematici del Diciottesimo secolo avevano l’abitudine di parlare della “metafisica del calcolo infinitesimale”, della “metafisica della teoria delle equazioni”. Con ciò intendevano un insieme di vaghe analogie, difficili da afferrare e da formulare, che tuttavia sembravano avere un ruolo importante in una certa fase della ricerca e della scoperta matematica. In questo modo, prendendo in prestito il suo nome per designare ciò che, nella loro scienza, era più oscuro, tradivano la “vera” metafisica? […] Come sanno tutti i matematici, nulla è più fecondo di queste oscure analogie, questi indistinti riflessi tra una teoria e un’altra, queste carezze furtive, queste indecifrabili foschie; e nulla dà maggior piacere allo studioso. Weil 2014, pp. 59-60
In questo testo ormai classico, André Weil riesce ad afferrare la dignità nutritiva di quelle “oscure analogie” metafisiche che balenano ben prima dei cammini protetti dalle definizioni formalizzate. Dato che la fisica, e soprattutto le matematiche, dovrebbero aver superato da molto tempo quella “soglia della formalizzazione” di cui parla Michel Foucault nell’Archeologia del sapere, la filosofia delle scienze riduce l’intuizione fisico-geometrica a una ingenuità preformale, l’embrione ingombrante di una struttura perfettamente dominata dai matematici. Abbiamo mostrato invece che i lavori di geometri più o meno contemporanei dei filosofi della natura di età romantica, sembrano prestarsi a un’analisi diversa, permettendo alla filosofia di non limitarsi a un resoconto dell’operatività, di rischiare un approccio concreto e preciso alla dignità del preformale e dell’intuitivo, di articolarlo – in un modo diverso dall’“influenza” di una matrice d’idee o di un “contesto culturale e sociologico” – con la questione centrale dell’intuizione nella Naturphilosophie. Questa Naturphilosophie è riuscita a incunearsi tra la metafora puramente poetica e l’operatività formale, a mettere in evidenza delle “metafore scientifiche audaci” (come
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le chiamava Maxwell), suscettibili di essere disciplinate e non riducibili a delle illustrazioni sussidiarie di funzioni già disponibili. Più precisamente, queste metafore scientifiche non si accontentano di rintracciare analogie formali tra teorie pre-esistenti, ma si rivelano essere dei dispositivi che risvegliano e installano la similitudine (operatori di simmetrizzazione), dispositivi spesso ridotti a dettagli tecnici, ma che esigono dal filosofo un’attenzione particolare se ha compreso che sono precisamente questi dettagli che coinvolgono più vigorosamente il pensiero filosofico. Esiste una grande prossimità tra metafora “scientifica” e metafora “filosofica”, che ci spinge a pensare che ciascuno di questi campi manifesti due modi di intervento – ossia ciò che noi chiamiamo stratagemmi allusivi differenti ma suscettibili di essere articolati. Possiamo così osservare che la metafora scientifica è in rapporto di rivalità-complicità con la cattura concettuale – con minaccia di straripamento reciproca: proliferazione incontinente per la metafora, addomesticamento dell’impertinenza metaforica per la cattura concettuale. Questo rapporto di rivalità-complicità avvicina la metafora filosofica alla metafora scientifica se ci si ricorda che quest’ultima fa parte del testo implicito che accompagna ogni cammino dimostrativo. Quel testo implicito che tiene a mente le “analogie vaghe” e le riattiva, che accompagna ogni cammino dimostrativo – del quale abbiamo sottolineato l’importanza ne Le poste in gioco del mobile –, permette una vista d’insieme di questo cammino, entrando in rapporto d’alleanza e di rivalità con il testo ufficiale che presenta il resoconto delle dimostrazioni. Il carattere strategico cruciale di alcune metafore, – che sia in scienza o in filosofia – fa sospettare che aiutino a individuare meglio le prossimità e le differenze tra questi due campi di razionalità, e soprattutto a rilevare una articolazione che non sia di subordinazione o di applicazione – particolarmente corruttore del rapporto di “illustrazione metaforica” –, dove con quest’ultima intendiamo l’importazione a buon mercato di una verità che delega l’esigenza del concetto scientifico. La metafora filosofica orchestrale Ricordiamo che Aristotele aveva completato la sua definizione classica: “la metafora consiste nel trasferire a un oggetto il nome che è proprio di un altro: e questo trasferimento avviene, o dal genere alla specie, o dalla specie al genere, o da specie a specie, o per analogia” (Poetica 1457 b; Aristotele 1964, p. 168), con alcuni commenti disseminati nei trattati di
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Poetica e Retorica, così: in genere da enigmi ben fatti è possibile trarre metafore adeguate: “infatti le metafore si esprimono in forma d’enigma, di conseguenza è chiaro che dall’enigma si costruisce una buona metafora” (Retorica 1405 b; Aristotele 2014, p. 321) e “anche se l’oggetto imitato in sé non sia piacevole: non è infatti questo che dà piacere, ma il collegamento che questo è quello, di conseguenza accade che s’impari qualcosa” (Retorica 1371 b; Aristotele 2014, p. 111). Queste osservazioni sono cruciali e rilevano specificamente il carattere offensivo della metafora. Essa non è soltanto la trasformazione di una significazione in un’altra per mezzo di una similitudine, ma in più si manifesta come allusione, come un “sillogismo da completare”: è precisamente questo invito a completare che permette di mostrare in atto ciò che non è dato in atto. La metafora permette di pensare per tratteggi e quindi non è soltanto un’impertinenza linguistica, votata necessariamente alla precarietà e subito assorbita dalle convenzioni. Questo “pensare per tratteggi” si impone sempre come un errore categoriale calcolato e come un effetto di veridicità risultante da una palese falsità (“il signor X è un leone” funziona come una metafora, perché sappiamo bene che il signor X non è un leone) che non è per niente una condizione sufficiente (“il signor X non è un leone” non è una metafora). Creare delle buone metafore significa “osservare le somiglianze” come sottolinea ancora Aristotele, insistendo su questo carattere particolare. Così, “la vostra guancia è come una rosa” non trattiene che la rosa, tra tutti i caratteri. Questo momento di astrazione metaforica è decisivo e promuove una vera resurrezione del sensibile tramite il pensiero per tratteggi: non si limita alla sottrazione di determinazioni – si tratterebbe dell’astrazione aristotelica – e trae la sua forza da questa allusione. La selezione fa sì che l’illusione divenga imperiosa. In una metafora come “la vecchiaia è di paglia”, è precisamente il carattere concreto della paglia che diviene enigmatico e suggerisce l’integrazione della vecchiaia nel genere dell’appassire. Una metafora riuscita dunque non consiste tanto nella sostituzione di un contenuto con un altro, bensì nell’individuazione di un genere virtuale che supporta tale sostituzione. A questi due paradossi del pensare per tratteggi, falsità veridica e astrazione allusiva, conviene aggiungerne un terzo: un effetto di simmetria che induce una comparazione abbreviata, senza mai ridursi alla semplice identità di una comparazione esatta. Quintiliano aveva mostrato questo effetto di simmetria nella sua Institutio oratoria. Alla metafora-ornamento, escrescenza sempre sospetta d’introdurre una somiglianza vaga e d’ostacolo all’adesione alla disciplina quasi giuri-
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dica della similitudine, egli oppone la redditio contraria – la rappresentazione reciproca che “pone […] sotto gli occhi e insieme fa vedere l’una e l’altra cosa messe a confronto” (Institutio oratoria, VII, 79; Quintiliano 1979, vol. II, p. 173). Per Quintiliano, con la redditio contraria, il pensare per tratteggi raggiunge il punto culminante dove la similitudine ornamentale sposa punto per punto la similitudine della prova: la simmetria dei due soggetti induce quindi una simmetria tra l’ordine logico e l’ordine metaforico. Attraverso questi tre paradossi il campo metaforico entra in un rapporto di collisione complice con il campo concettuale della filosofia: il concetto non è una componente rimuovibile a piacimento di un sistema filosofico, ma un frammento con tutto il carattere distinto e allusivo del frammento, che condivide con le “metafore riuscite”. Si tratta di un rapporto d’intricazione molto particolare tra costruzione ed esposizione che contraddistingue la sistematicità filosofica. In filosofia, le metafore non si accontentano di giocare un ruolo sussidiario del quale si potrebbe al limite disfarsi, ma sono spesso il fulcro di ciò che Jean Ladrière chiama il “sostegno dell’argomentazione” che, creando degli effetti di veridicità, è complementare alla deduzione logica in senso stretto, la quale assicura il trasferimento della supposta verità. Saremmo quindi indirizzati a opporre una deduzione che discenderebbe da una fonte di verità verso delle verità sicure ma sempre più distanti, a una funzione retorica, intenta a scalare gradi di certezza per esplorarli. La funzione retorica classica: “piacere, commuovere, persuadere” in effetti rompe il concatenamento discorsivo proprio delle metafore sostituibili, suscettibili di parafrasi. Ma queste giocano il loro ruolo di frammento allusivo solo localmente – sono in un certo senso degli elementi ornamentali che si possono rimuovere a piacere. Non sono queste metafore sussidiarie, ufficialmente retoriche, decodificabili, che rivaleggiano e entrano in complicità con il concetto, ma quelle che s’intrecciano nel campo concettuale in modo inesprimibile, metafore di un tipo particolare che portano con sé globalmente tutto un sistema di metafore più classiche, votate all’illustrazione locale e esteriore delle proposizioni. Senza quelle che potremmo chiamare “metafore orchestra”, le proposizioni apparirebbero come isolate, anche quando rispettassero i protocolli abituali di concatenamento. I due esempi seguenti rendono particolarmente flagrante l’effetto di simmetria annunciato dalla redditio contraria. Prendiamo innanzitutto il viaggio dello Spirito nelle Lezioni sulla filosofia della storia. Nella veduta geografica d’insieme abbiamo indicato in generale il percorso della storia mondiale. Il sole, la luce sorge a oriente. La luce è, tuttavia, la
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semplice relazione con se stessa; la luce universale, in se stessa, esiste al tempo stesso come soggetto, nel sole. Spesso si è raffigurata la scena di un cieco il quale acquisti all’improvviso la vista, contempli l’alba, il farsi della luce e il fiammeggiare del sole. L’oblio infinito di se stesso in mezzo alla purezza di questo chiarore è la prima cosa, la totale meraviglia. Ma ecco che il sole è ormai salito in cielo e la meraviglia diminuisce; lo sguardo cade sugli oggetti circostanti, da questi discende nell’interiorità e così ecco il progresso verso il rapporto fra gli uni e l’altra. Qui l’uomo esce dalla contemplazione inerte per passare all’attività e la sera ha innalzato un edificio, che prende forma dal suo sole interiore. Così, contemplando la sera questo edificio, l’uomo lo stima qualcosa più che non quel primo sole esteriore. Infatti egli sta ora in rapporto con il proprio spirito, dunque in un rapporto libero. Se teniamo presente questa immagine, ecco che qui è già racchiuso il corso della storia mondiale, la grande opera diurna dello spirito (Hegel 2003, p. 90).
C’è qui qualcosa di più che la classica metafora del sole – il soggetto che irradia verso l’esterno. Il sole articola una storia-geografia, uno spaziotempo proprio del sistema. Sottolineiamo che Hegel si discosta dal percorso classico che associa l’ascensione – o il declino – a una progressività dell’argomentazione o al sanzionamento di una conclusione. Siamo proiettati di colpo nella dialettica interno-esterno dei due soli: a scambiarli un movimento di rotazione, non di traslazione da un punto a un altro. Una rotazione che non è né un ciclo – “rotazione temporale” –, né una rotazione spaziale, ma causa l’avvitamento dell’esterno in interiorità. Ed è questo avvitamento che mette in scena il passaggio per un punto d’equilibrio, che subito diventa tragico innesco quando – a mezzogiorno – la contemplazione inattiva del sole esterno cede il posto all’azione autonoma del sole dello Spirito. Questo mezzogiorno è quindi un equilibrio che chiama un disequilibrio ben più inaudito che il semplice bombardamento d’attributi del sole-soggetto. Questa messa in scena, se vogliamo, logico-metaforica, sovverte il rapporto di travasamento dall’illustrato all’illustrante. Curva l’illuminazione dove l’illustrante diventa soggetto e l’illustrato diventa illustrante. L’effetto di riequilibrio è ancora più evidente nell’esempio classico preso dall’inizio della fenomenologia: “Il bocciolo dilegua nel dischiudersi del fiore, e si potrebbe dire che quello viene confutato da questo; allo stesso modo, la comparsa del frutto mette in chiaro che il fiore è un falso modo di esistere della pianta, e il frutto ne prende il posto come verità di essa” (Hegel 2008, p. 4). Possiamo apprezzare l’audacia del ribaltamento del campo concettuale e di quello metaforico. Il primo finge di intervenire localmente tramite le due parole “confutato” (widerlegt) e “verità”, alla maniera delle metafore
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ausiliarie, sostituibili, descritte precedentemente. Questa finta permette al campo concettuale di installarsi di colpo. L’irruzione del “confutato” rende manifeste le esigenze del negativo: quest’ultimo non può essere né dedotto, né preparato, ma s’impone per mezzo di un’allusione perentoria. Siamo molto lontani dalla metafora per somiglianza, legittimata tramite la selezione di un carattere comune già dato – il fiore non assomiglia alla verità –, ma anche dal dispositivo descritto da Black1 nel quale un substrato primario è illuminato da un substrato più “chiaro”. Qui, è il più chiaro che viene illuminato da quello meno chiaro (la confutazione, la verità). È il concetto che illustra il fiore. Frantumando il rapporto di subordinazione classico tra illustrato e illustrante, afferriamo nella sua positività la rivalità metafora-concetto. Si tratta di non cedere sulla veridicità del concetto compresente nelle sue determinazioni: il concetto non è “astratto”, è la concrezione stessa –, è un’immediatezza che media se stessa. Questa simmetrizzazione di campi tradizionalmente distinti come il metaforico e il concettuale, ci introduce al movimento offensivo condotto alla fine della Prefazione contro il faccia a faccia tradizionale tra il soggetto fisso, messo a fondamento come Sé oggettivo, e la panoplia dei suoi predicati e accidenti. Compromettere questa postura significa compromettere il potere di convincimento assegnato a una deduzione che muove da ciò che è “contenuto” nel concetto, e raggiunge le sue conseguenze mondando analiticamente, se così si può dire, il concetto dai suoi attributi. Analisi dei rapporti tra metafore filosofiche e metafore scientifiche Queste metafore di un tipo particolare regnano su tutto un contesto e comandano globalmente tutto un sistema di metafore più classiche, votate all’illustrazione locale delle proposizioni. Come abbiamo sottolineato più sopra, senza quelle che potremmo chiamare “metafore-orchestra” le proposizioni apparirebbero come isolate, anche se rispettassero i protocolli abituali di concatenamento. È precisamente di questa veridicità e di questa capacità allusiva che si nutre il sostegno argomentativo, e queste si ritrovano al cuore delle pratiche intuitive delle scienze più formalizzate. Che siano scientifiche o filosofiche, le metafore organizzano dei punti chiave di riattivazione e d’accelerazione, dei punti d’appoggio, delle “leve 1
Cfr. (Black 1962; 1977). [N.d.T.]
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d’Archimede” capaci di far ricordare tutto un contesto e spingere tutto un insieme di concetti a una velocità superiore, permettendo per esempio in fisica o in matematica di percorrere quasi istantaneamente catene deduttive di lunghezza considerevole. Se risulta difficile parlare di resoconto di una dimostrazione in filosofia, si può comunque osservare che la metafora filosofica si organizza in sequenze regolate che assicurano un effetto di convergenza, di allusione e di oscillazione, effetto destinato a forzare la convinzione, proprio come il testo implicito permette di anticipare le tappe già acquisite di una prova. Il carattere strategico cruciale della metafora – che sia in scienza o in filosofia – lascia supporre che ci possa aiutare a comprendere meglio le prossimità e le differenze di questi due campi di razionalità; per questo proponiamo di analizzare alcuni casi specifici. Analisi del ruolo degli stratagemmi allusivi nella fisica-matematica contemporanea: una concezione nuova della notazione Gli spettacolari sviluppi recenti della Teoria dei nodi, innescati dai lavori di Vaughan Jones, rendono manifesta una articolazione profonda tra geometria, algebra, topologia e fisica2. Questi sviluppi non devono solo essere apprezzati per le loro “applicazioni diversificate” – così come si giudica il carattere estensivo di un trasferimento tecnologico da una disciplina all’altra –, ma in quanto inscritti nella tradizione di applicazione di una ragione grafica nelle scienze esatte. Abbiamo già osservato che le “metafore orchestrali” sono capaci di superare (di dissolvere) la dualità tra deduttivo e argomentativo, instaurando un nuovo rapporto tra illustrante e illustrato. Lo stesso avviene per alcune ricerche contemporanee che rinnovano completamente la nozione stessa d’indicizzazione. Nessuna intuizione esplicita accompagna la condotta “classica” dei calcoli: in formule del tipo Σ…, l’insieme degli indici è neutro e l’indicizzazione resta totalmente esterna allo sviluppo di questi calcoli, comportandosi come una “notazione” totalmente indifferente a ciò che denota. Queste formule restano prigioniere di una successione lineare, poi, poi, ecc., una sequenza di comandi parzialmente analoga alla catena dei verbi veni, vidi, vici in cui l’ordine temporale del processo d’enunciazione calca esattamente l’ordine del processo enunciato. 2
L’ultimo paragrafo del cap. 5 di (Châtelet 1993), si intitola “Verso il nodo come laicizzazione dell’invisibile”. Tutto il seguito di questo testo ne è il prolungamento. [N.d.C.]
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Il punto di vista contemporaneo rende concreta la notazione identificandola a un diagramma già utilizzato in un campo a priori estraneo (la teoria dei nodi). Questo campo “evoca” dunque dei gesti che in esso sono classici, ma che sono totalmente inediti nel nuovo dominio in cui viene importato come “notazione”. Così certe formule complicate di calcolo tensoriale a priori poco suggestive possono essere condensate in maniera folgorante e ingaggiare nuovi calcoli3. Questo sconvolge la nozione stessa d’indicizzazione, che diviene bidimensionale e si affranca dal successivo: è una vittoria della mano che si commenta da sola, infatti l’indicizzazione non viene più fornita da un “insieme” esterno, ma tramite un processo di deformazione e modifica di diagrammi4. Ci troviamo quindi confrontati a una situazione notevole: dei teoremi matematici permettono di supportare la notazione utilizzata per queste stesse matematiche5. Ci proponiamo di analizzare in dettaglio questa rivincita della mano che non si accontenta più di sgranare x1 poi x2 poi x3, ecc., come prescrive la successività lineare, ma può giocare su tutti i percorsi permessi dai link6. La notazione contamina in qualche senso i calcoli, per creare un nuovo contesto, come la metafora letteraria. Ricordiamo ancora che Le poste in gioco del mobile si concludeva sottolineando che i nodi e i link non si riducono né a un ornamento, né a un capitolo particolare della topologia dello spazio ordinario, ma introducono un nuovo modo d’intervento della figura geometrica, così come avevano 3 4
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Uno dei migliori esempi è la formula di Yang-Baxter che associa una relazione di commutazione matriciale a una deformazione di diagrammi di nodi. Qui possiamo apprezzare tutto il cammino percorso rispetto ai lavori di YukawaHeisenberg, ancora preoccupati di illustrare, e impegnati a fissare tramite dei diagrammi la nozione di “particella di scambio”. Ma questi restavano ancora “a lato” dei calcoli e troppo prigionieri di un rapporto di illustrazione e di similitudine con l’imaging chimico. I diagrammi contemporanei non prendono la loro forza dalla similitudine ma dalla capacità delle loro nuove indicizzazioni di assicurare una compenetrazione dell’immagine e del calcolo. Cfr. (Kaufmann 1991). [N.d.C.] Un nodo è definito formalmente come l’immagine K nello spazio (R3) di un cerchio (S1) secondo una mappa continua omeomorfa, cioè dotata di una funzione inversa K→S1. Un link – entrelac in francese – è una generalizzazione del nodo, corrispondente a una collezione di nodi disgiunti. Due nodi sono da considerarsi equivalenti se isotopi, se esiste cioè una funzione F:S1x[0,1]→R3 tale che F ristretta a S1x{0} corrisponde al primo nodo, F ristretta a S1x{1} corrisponde al secondo nodo, e la restrizione di F a un qualsiasi punto del segmento [0,1] corrisponde a un omeomorfismo tra S1 e la propria immagine. La nozione di isotopia si generalizza in modo ovvio anche ai link. [N.d.T.]
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introdotto una nuova maniera di far penetrare l’immagine nel testo per evitarne una lettura troppo lineare, manifestando una capacità di rottura che ricorda il tipo d’intervento già descritto nel caso della metafora; tutto questo sembra associato a un’attitudine di ciò che è “annodato” a intricare un sotto-sopra con una lettura corsiva che transita semplicemente da destra a sinistra o da sinistra a destra. L’“annodato” mette in discussione l’opposizione tradizionale tra l’abituale spazio geometrico totalmente indifferenziato e… lo spazio “psicologico” (Ernst Mach) fortemente differenziato (alto e basso, destra e sinistra, …) che induce delle valutazioni e degli orientamenti. Il calcolo matriciale utilizzava già l’opposizione alto-basso e la convenzione di Einstein dei prodotti tensoriali ΣTilmTlmj mostrava chiaramente il ruolo ausiliario dell’indice muto: portava l’attenzione sull’intricazione di questa opposizione e della successività della somma. Mettendo per una matrice
,
oppure
si accentua il dispositivo di sparizione degli indice muti a vantaggio dei lati incidenti e emergenti, e di una lettura compatta dei prodotti. Così, un prodotto matriciale diviene:
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Sommare non significa più sgranare, ma connettere
e il prodotto diviene
La formula diventa molto spettacolare per la traccia:
La fisica matematica attuale è riuscita a coalizzare dei dispositivi già da soli molto potenti: quello dell’“immaginario” dei diagrammi di Feynman e quello dei diagrammi dell’algebra omologica e della topologia algebrica,
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che privilegiano il punto di vista delle frecce e soprattutto dei blocchi di frecce (serie esatte, sequenze… vedi infra, nota 11) a spese del punto di vista classico degli “insiemi di partenza e d’arrivo”. Questi inducono una nuova cattura dei rapporti tra immagine e calcolo: pensare istantaneamente al livello dei blocchi, significa captare l’operatività a un grado superiore – e qui non possiamo non ricordare gli “effetti globali” della metaforaorchestra. Così siamo portati ad associare a ogni nodo – più esattamente alla sua proiezione su un piano – una espressione tensoriale [beneficiando di tutta l’autospazialità]: Per esempio,
Ma c’è di più: [a questa liaison tra geometria e algebra] si aggiunge una terza componente che viene a [articolarsi e] completare la nuova notazione – gli incroci della proiezione di un nodo possono essere visti anche come dei diagrammi di collisione di particelle:
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Possiamo dimostrare che le deformazioni del grafo non incidono sul tipo di nodo; possono essere classificate come segue:
Queste deformazioni risultano direttamente dall’intuizione concreta di scivolamenti di nodi materializzati con pezzi di spago, e inducono delle relazioni tensoriali classiche che riguardano alcuni vincoli della teoria quantistica dei campi (e viceversa). Bisogna quindi prendere seriamente tutta questa terminologia di categorie di “trecce”, di “nastri” che irrigano l’algebra di allusioni geometriche. Tutti questi effetti sono moltiplicati dall’associazione con la teoria quantistica dei campi; si sarebbe tentati di dire che i due dispositivi (algebrico e quantistico) si rinforzano l’un l’altro, le frecce matematiche diventano fisiche e viceversa. Così, la deformazione
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equivale all’unitarietà delle matrici associate tramite la convenzione (I). La (II) equivale a una relazione classica in meccanica statistica. Vediamo fino a che punto siamo lontani dalla figurazione e dall’illustrazione classiche, che conducono sempre a una specie di predazione asimmetrica del concreto da parte dell’astratto. Sapevamo già che il nodo non è captato tramite un’intuizione di volume o di recipiente dati: non occupa un “posto” nel nostro spazio – non c’è un fuori e un dentro del nodo. Il nodo non è una figura: se vogliamo, è un’esperienza di autospazialità. Per questo motivo scuote così a fondo l’indicizzazione di formule fisiche che sembravano a esso estranee a priori. L’indicizzazione non si riduce più alla valutazione esterna di una collezione, ma diventa parte integrante di un’esperienza che secerne il proprio straripamento. Un’esperienza che fa apparire come definitivamente caduca la cattura dei diagrammi di Feynman, una convenzione comoda che associa dei calcoli integrali a un’immagine che ricalca delle collisioni reali di particelle, lasciando in sospeso la capacità di autogenerazione di questi diagrammi. Indicizzare dei diagrammi tramite dei nodi, non significa associare delle immagini che operano per somiglianza, ma catturare con un solo atto le due dinamiche d’allusione (le collisioni non “assomigliano” a dei nodi). Le condizioni del diagrammi di nodo diventano qui delle condizioni fisiche per trasporto d’operazioni (e viceversa). Il successo di questa sintesi d’indicizzazione tramite nodi sarebbe sicuramente stato apprezzato da Charles Sanders Pierce, che amava dire “l’algebra non è altro che una sorta di diagramma”7, sottolineando che quest’ultimo aveva il privilegio di articolare tre funzioni: quella di icona (similitudine di fatto tra il suo significato e il suo significante – somiglianza), quella di indice (contiguità di fatto tra significante e significato – au7
Peirce 1931-1935, 3.419. [N.d.T.]
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tostraripamento) e quella di simbolo (contiguità istituita, appresa, tra significante e significato – convenzione), dove il meglio si raggiunge quando queste funzioni “sono in proporzione più uguale possibile”8. L’indicizzazione per nodi incarna questo ideale d’equilibrio tra immagine, allusione e calcolo. Si può apprezzare adesso la grande prossimità di sovversione tra il rapporto messo in tensione illustrante-illustrato della metafora-orchestrale, e quello condotto con gli stratagemmi allusivi, in particolare nel caso dell’indicizzazione-nodo. Si può qui ritrovare un’articolazione preziosa, che rifiuta la lacerazione denunciata da Heidegger: quella tra una lingua informativa che cerca una produzione più massiccia e rapida possibile di messaggi, ratificata da decisioni di tipo “sì-no” che cercano di forzare la natura a manifestarsi in un’oggettività calcolabile, da addebitare a delle unità di significazione compatte e irriducibili, e una lingua di tradizione plastica, capace di balbettare, che lascia apparire le cose.
La rivoluzione di Grothendieck come articolazione tra concreto geometrico e concreto algebrico Ricordiamo che, negli anni ’60, Alexandre Grothendieck voleva condurre un vasto programma di “traduzione” reciproca tra algebra e geometria, implicando una rottura con alcune intuizioni tradizionali e l’intervento di nuove tecniche che sembrano “astratte”, ma che si rivelano essere le più adatte a questa “traduzione”, come sottolinea nella sua introduzione al linguaggio degli schemi (Grothendieck 1960, p. 9): “come in molte parti della matematica moderna, l’intuizione prima si allontana sempre più, in apparenza, dallo specifico linguaggio per esprimerla con la precisione e la generalità volute”. Grothendieck, nei suoi scritti, si riferisce a volte alla teoria di Galois, come esempio sempre da ripensare di ciò che potremmo chiamare una pura concretezza algebrica, all’opera anche nelle teorie classiche come quelle dei gruppi di Lie e di Sylow, e nelle teorie più recenti. Si può comprendere la 8
Cfr. Châtelet 2010, p. 241: “Queste ultime [le forze d’interazione a distanza] sono “chiare” poiché non sono che delle icone congelate di cui Pierce ha ben visto come non rinviino ad altro all’infuori di se stesse senza mobilizzare lo spazio attorno a sé” in cui Châtelet rimanda a Peirce 1931-1935, 2.300: “Ogni forza fisica reagisce fra una coppia di particelle, ciascuna delle quali può servire da indice dell’altra” (Peirce 1980, p. 170; tr. it. leggermente modificata). [N.d.C.] e [N.d.T.]
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teoria di Galois come apprendistato: discernimento progressivo delle radici, dove le condizioni formali di un tale discernimento portano l’attenzione sulle sequenze di riduzione, e le formule esplicite di risoluzione diventano ausiliarie. Portare tutto lo sforzo di ricerca sulle sequenze di gruppi, di fibre, di “fasci”, ecc., capaci di catturare al volo il gesto stesso dell’apprendere, questa sarebbe, secondo Grothendieck, l’indimenticabile lezione di Galois. Questa concretezza algebrica può allora sposare un’altra concretezza, quella della geometria, che è quella dell’apprendere dei gesti di cattura dello spazio. Vorremmo analizzare in dettaglio alcuni esempi di questa concretezza “geometrico-algebrica” nell’opera di Grothendieck. La sua concezione del punto è particolarmente illuminante: il punto “classico” della geometria è semplicemente la traccia nello spazio-tempo dell’atto di designazione di questo punto, mentre il punto concepito da Grothendieck (e ora da tutti i geometri-algebristri contemporanei) è un dispositivo, una panoplia infinita di virtualità, di cui la designazione sarebbe la più banale, un punto monadico capace di “concentrare in un punto” tutto ciò che prima pretendeva di trattenere separatamente l’attenzione del matematico. Il punto moderno rinnova questa “evidenza” sempre intuita, ma mai afferrata prima di Grothendieck come evidenza matematica, rendendo disponibile una nuova potenza operativa e soprattutto una formidabile potenza allusiva: la “concentrazione in un punto” è tutto il contrario di un cedimento in un punto; si rivela costituire un dispositivo di liberazione e d’amplificazione delle virtualità geometriche. Grothendieck ha capito che le matematiche non soccombono mai in un’astrazione privata di tutta la ricchezza della determinazione: le “generalizzazioni” delle matematiche non vanno mai confuse con delle generalità inoffensive. Esiste un’audacia propria ai matematici, certo associata a una stretta disciplina della verifica, ma in grado di fornire l’accesso a un campo dove si schizzano delle determinazioni virtuali non ancora esplicitate. L’installazione in un tale campo possiede tutti i caratteri di una diagnosi che opera in modo decisivo ben prima di ogni analisi esaustiva: l’esempio più flagrante è quello dell’attacco di questa o quella congettura tramite una congettura più forte – e dunque a priori più difficile da dedurre – che sposta completamente un problema e rivela la prima congettura come problema mal posto. Confondere le matematiche con delle semplici catene deduttive significa ignorare il carattere cruciale del senso della “buona congettura” – di ciò che abbiamo chiamato la diagnosi del matematico: per questo l’“evidenza” di Grothendieck non è legata alla prossimità di due termini in una catena deduttiva, ma all’effetto di “naturalità” legato all’abolizione dello spazio tra il simbolo che capta e il gesto che è captato.
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Enunciati come: “Consideriamo tale punto…, tale sottoinsieme…. Prolunghiamo quel segmento di retta…” sono frequenti nel corso di una dimostrazione9. Sono inseriti nella catena deduttiva ma possiedono in qualche modo un carattere strategico apprezzato dai conoscitori e introducono surrettiziamente un altro ritmo. “È qui che accade qualcosa. Bisognava avere l’idea di considerare questo o quello…” Questi dati, questi enunciati o queste costruzioni erano già disponibili ma addormentate, e sembrano animarsi bruscamente grazie a questo “consideriamo” che concentra tutta l’attenzione su ciò che diventa un elemento-cerniera, manifesta un tipo di concretezza ben più intenso del “concreto” che l’empirista naïf pretende di aver incontrato sul ciglio della strada. Siamo agli antipodi dell’“astrazione” che risulta dal prelevamento violento di una parte e dunque da una mutilazione, perché la “leva” non sottrae niente e agisce come certi frammenti di un puzzle che, di colpo, suggeriscono e impongono la soluzione: essere assolutamente concreto significa perseverare in qualche modo in una specie di procedura tangenziale del pensiero che afferra il suo proprio movimento. L’impresa di Grothendieck – come ogni traduzione – non si accontenta di definire una semplice riserva di referenze reciproche tra concetti “puramente algebrici” e “puramente geometrici” lasciati intatti. La teoria sposta quasi di forza l’attenzione del matematico dai “punti” e dagli insiemi fissati verso delle frecce (morfismi) e permette di comprendere algebricamente delle sintesi geometriche10. Si ha quasi voglia di dire che, grazie all’intro9
L’esempio delle dimostrazione e delle costruzione della geometria cosiddetta elementare è illuminante: è sufficiente pensare alla prova della concorrenza in uno stesso punto delle tre altezze di un triangolo, trasformate tramite dei prolungamenti astuti negli assi di un altro triangolo. C’è un “effetto di sintesi” provocato da certi punti o costruzioni notevoli e che non viene per niente reso dalla semplice rappresentazione figurale: la figura diventa diagramma perché suggerisce un tratteggio. 10 Due intuizioni centrali attraversano l’opera di Grothendieck: la sostituzione del punto di vista troppo fisso degli insiemi, con il punto di vista della freccia: la freccia detronizza dominio e codominio; la cattura del punto come capace allo stesso tempo di condensazione – le strutture più sofisticate possono divenire dei “punti”: è il caso delle classi di fibrati vettoriali su X viste come punti di K(X) – e anche di moltiplicazione delle virtualità geometriche (è il caso dei punti singolari). Prendiamo alcuni esempi molto semplici: 1) quella della nozione di ideale; non dobbiamo considerarla come una semplice “generalizzazione” dei multipli dell’aritmetica, ma come un’entità autonoma, un punto che ha il suo posto e che è sia insieme (I maiuscola) che elemento – si tratta del punto di vista dello spettro; 2) quello degli A-moduli M di tipo finito: sembra più complicato definirli con l’esistenza di successioni esatte del tipo Ap→M→0, rispetto al modo abituale.
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duzione della topologia, le strutture dell’algebra commutativa si fabbricano esse stesse un “ambiente” senza dimorare sotto la tutela di un sistema di coordinate. Vorremmo mostrare che si può comprendere il programma di traduzione come il coronamento di una tradizione di scoperta e d’approfondimento delle analogie tra teoria dei numeri e geometria avviata da Kronecker e sviluppata da Weil (analogia tra corpi di numeri algebrici e “torri” di rivestimenti di una curva algebrica, ecc.). (Traduzione dal francese di Luca Cabassa e Mattia Galeotti) Riferimenti bibliografici Aristotele 1964 Poetica, a cura di M. Valgimigli, quarta edizione, Laterza, Bari. 2014 Retorica, a cura di F. Cannavò, Bompiani, Milano. Black, M. 1962 Models and Metaphors, Cornell University Press, New York. 1977 More about metaphor, in “Dialectica”, 31, pp. 431-457 Châtelet, G. 1993 Les enjeux du mobile: Mathématique, physique, philosophie, Seuil, Paris; ed. it. a cura di A. Cavazzini, Le poste in gioco del mobile, Mimesis, Milano 2010. Grothendieck, A. 1960 Éléments de géométrie algébrique (rédigés avec la collaboration de J. Dieudonné): I. Le langage des schémas, in “Publications Mathématiques de l’IHÉS”, 4, pp. 5-228. Hegel, G. W. F. 2003 Lezioni sulla filosofia della storia, a cura di G. Bonacina e L. Sichirollo, Laterza, Roma-Bari. 2008 La fenomenologia dello spirito, a cura di G. Garelli, Einaudi, Torino. Kaufmann, L. H. 1991 Knots and Physics, vol. 1, World Scientific, Singapore.
Però è proprio questo tipo di definizione che incita a operare su dei blocchi – le successioni esatte si rivelano concentrate quando un punto geometrico, e si trovano essere al cuore dello sviluppo della teoria dei fasci.
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Peirce, C. S. 1931-1935 The Collected Papers of Charles Sanders Peirce, a cura di C. Hartshorne e P. Weiss, Harvard University Press, Cambridge, MA. 1980 Semiotica. I fondamenti della semiotica cognitiva, testi scelti e introdotti da M. A. Bonfantini, L. Grassi, R. Grazia, Einaudi, Torino. Quintiliano, M. F. 1979 L’istituzione oratoria, a cura di R. Faranda e P. Pecchiura, seconda edizione, UTET, Torino. Weil, A. 2014 La fredda bellezza. Dalla metafisica alla matematica, a cura di N. Argentieri, Castelvecchi, Roma.
Commento introduttivo a La simmetria come guida per le strutture teoriche superflue di Jenann Ismael e Bastiaan Cornelis van Fraassen Luca Cabassa e Mattia Galeotti Bas van Fraassen (1941) è una delle figure centrali nella filosofia della fisica contemporanea. È conosciuto soprattutto per aver difeso una posizione antirealista in campo scientifico nota come “empirismo costruttivo”. Mentre il realismo scientifico aspira a stabilire una versione letteralmente vera di come è il mondo e asserisce che l’accettazione di una teoria scientifica implica la convinzione della sua verità, l’empirismo costruttivo ritiene, piuttosto, che la scienza mira a fornire teorie empiricamente adeguate e che l’accettazione di una teoria implica la convinzione che essa sia empiricamente adeguata (van Fraassen 1980), intendendo con questo la capacità della teoria di rendere conto di quanti più aspetti possibile dell’esperienza empirica concreta. Rifiutando qualsiasi impegno metafisico nella scienza, le ricerche di van Fraassen portano avanti la tradizione dei positivisti logici, pur discostandosene nettamente per quanto riguarda la rilevanza del criterio verificazionista del significato e la necessità di eliminare dalla pratica scientifica ogni discorso carico di teoria. In quest’ottica, van Fraassen si è dedicato ad uno studio rigoroso del concetto di legge fisica, cercando di porre le basi per una spiegazione dei fenomeni fisici che potesse fare a meno dell’idea che tali fenomeni siano causati da regole o leggi che ne governano il comportamento. Centrale è il problema della sottodeterminazione delle teorie, ossia la possibilità che le teorie abbiano un’equivalenza empirica ma differiscano nei loro impegni ontologici. Obiettivo di van Fraassen, perciò, è determinare le ragioni per una credenza adeguata, individuare la giusta misura di impegno ontologico per trarre pieno vantaggio dalle teorie scientifiche. Le ricerche di Jenann Ismael (1968), addottoratasi con van Fraassen nel 1997, sono dedicate principalmente a questioni che riguardano la struttura dello spazio e del tempo, i fondamenti della meccanica quantistica
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e la natura delle leggi fisiche. I primi lavori, in particolar modo (Ismael 2001), risentono notevolmente dell’influenza del maestro e si concentrano sul ruolo della simmetria in fisica: argomenti specifici quali la difesa del principio di Pierre Curie – secondo cui gli elementi di simmetria delle cause devono essere trovati negli effetti prodotti – si alternano a discussioni sulle condizioni generali in cui un’asimmetria in un fenomeno suggerisce un’asimmetria nelle leggi che lo governano, conducendo a nuove concezioni della teorizzazione scientifica ispirate dalla prospettiva matematica astratta della simmetria. Il testo proposto si muove lungo una ipotesi epistemologica di fondo, cioè che il senso della teorizzazione in fisica sia il riconoscimento dei caratteri intrinseci degli oggetti scientifici, e che questo possa avvenire tramite un gesto di ripulitura o sfrondatura da quegli elementi che sono superflui nella rappresentazioni degli oggetti stessi. Quindi, proseguendo lungo i binari tracciati dall’empirismo costruttivo, possiamo parlare di struttura superflua in una teoria quando questa fornisce più rappresentazioni distinte per una specifica situazione fisica. Non può però esistere un resoconto delle situazioni fisiche indipendente dalle teorie, e per questo la ricerca di “distinzioni senza differenze” nella descrizione di situazioni fisiche deve necessariamente passare al vaglio del gesto empirico, e solo all’interno di un confronto tra “visioni metafisiche, intuizione fisica e preferenze empiristiche” possono essere individuati gli elementi superflui. La ricerca e sfrondatura del superfluo – ossia un’indicazione di carattere estetico – diventa la principale direttrice del rapporto tra teorizzazione fisica e gesto sperimentale, e la simmetria è in questo senso un principio guida. Si tratterebbe, cioè, di un indicatore capace di rilevare la presenza di quantità non misurabili, aprendo o alla specificazione di caratteri significativi della teoria che non sono stati sufficientemente sviluppati, oppure all’individuazione di un elemento inattivo, e perciò ridondante, della teoria stessa. Per comprendere cosa intendiamo con simmetria, cioè che tipo di trasformazione ci può guidare nella nostra indagine, è necessario specificare il significato di “legge fisica” nel vocabolario di Ismael e Van Fraassen. Una teoria è costituita da due parti: (i) una ontologia teorica costituita da una sorta di catalogo di “entità, quantità, relazioni, che insieme determinano i parametri di rappresentazione della teoria”, dunque uno spazio di possibilità metafisiche, o mondi; (ii) le leggi, o possibilità fisiche, cioè un insieme di regole che selezionano le possibilità fisicamente rilevanti come sottoclasse dei mondi metafisicamente possibili. La simmetria – un elemento esterno sia all’ontologia che alle leggi – funziona perciò come guida rispetto al rapporto tra teoria e fenomeni.
Commento introduttivo a La simmetria… di J. Ismael e B.C. van Fraassen
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L’analisi prosegue considerando le trasformazioni dei mondi, cioè delle mappe che associano a ogni mondo (metafisicamente possibile) nella teoria, uno e un solo mondo metafisicamente possibile. La simmetria è una di queste trasformazioni e si distingue in base a ciò che rimane conservato dalla simmetria stessa: i) la simmetria di un mondo metafisico, poniamo M, è una trasformazione h che lascia invariato il mondo stesso, cioè tale per cui hM=M; ii) la simmetria di una teoria T, è una trasformazione h tale che se N è un mondo fisicamente possibile rispetto alle leggi di T, cioè un modello di T, allora anche hN lo sarà, se N è un mondo fisicamente non possibile, allora anche hN sarà fisicamente non possibile. Risulta importante a questo punto fare una precisazione riguardo al significato di “leggi” nel lessico adottato nel testo: esse vincolano “le relazioni tra quantità ma, tipicamente, non i particolari valori che esse assumono”; questi valori particolari “nomologicamente contingenti e tuttavia reali”, sono caratteristiche qualitative non specificate dalle leggi ma essenziali nella distinzione ontologica tra i mondi. Ragion per cui risulta possibile una simmetria della teoria che non rispetti alcune di queste caratteristiche qualitative. Ad es., nel caso di una simmetria della meccanica newtoniana, una trasformazione che conserva le quantità fondamentali di un sistema di particelle (massa, quantità di moto, ecc.) non conserva necessariamente il numero di particelle. Utilizzando un concetto che Ismael e Van Fraassen non chiamano in causa, ogni legge identifica un invariante della teoria. Seguendo un’analogia con il teorema di Noether potremmo dire che ogni simmetria della lagrangiana L di un sistema meccanico corrisponde a una quantità conservata nello sviluppo (dinamico) del sistema descritto da L. La distinzione tradizionale tra qualità e quantità non ha alcun senso all’interno di questa prospettiva, ben più rilevante ai fini della teorizzazione diventa la distinzione tra quantità accessibili e quantità non-accessibili. Con qualitativo viene indicato ogni carattere che può “caratterizzare una situazione, in base a un discrimine, anche sommario”, mentre con misurabile si intende una quantità di cui la teoria ammette un gesto di misurazione codificato, indipendentemente dal suo valore qualitativo. Una simmetria della teoria risulta quindi insufficiente a caratterizzare la struttura superflua perché le caratteristiche qualitative non univocamente determinate dalle leggi di una teoria sono comunque centrali nell’indicazione di cosa è fisicamente saliente di un mondo metafisico. Per guidare la ricerca di struttura superflua, gli autori identificano quindi una nuova classe di simmetrie, quelle che preservano non solo le leggi ma anche tutte le caratteristiche qualitative di ogni modello, intendendo qui per qualitative quelle carat-
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teristiche che forniscono un discrimine saliente all’interno dell’ontologia metafisica predisposta dalla teoria: il colore di un oggetto è una caratteristica qualitativa in fisica dei materiali o in statistica, ma è non-qualitativa (e quindi a fortiori anche non misurabile) in meccanica newtoniana, e questa indicazione di cosa sia una qualità è del tutto centrale. Tramite la nozione orientativa di simmetria, siamo arrivati a selezionare quei contenuti nonmisurabili, che sono da ritenersi dunque non-qualitativi (e non-accessibili), perciò superflui all’interno di un quadro teorico. Dunque il nostro percorso di ricerca del superfluo teorico non è stato solamente guidato da un principio estetico di minimalità rappresentativa, ma in più ci ha permesso di puntualizzare il principio estetico di fondo: la semplificazione degli elementi teorici significa che sono qualitativamente rilevanti solo le caratteristiche misurabili o categorizzabili, riconducibili quindi all’associazione di un valore numerizzabile. In conclusione, ci preme sottolineare la complementarità e la compatibilità di questo testo con quello di Longo e Montévil all’interno di questa sezione: l’affinità tematica, ossia la descrizione delle caratteristiche fondanti del teorizzare, si tratti della fisica o della biologia, è accompagnata da un’analoga attenzione formale al concetto di simmetria. Nel testo che segue, la teorizzazione fisica risulta guidata da un principio latamente estetico che mira alla non-eccedenza e alla non-ridondanza, in breve, all’univocità della connotazione. Nell’analisi di Longo e Montévil la ricerca di univocità dei concetti è guidata dalla necessità di render conto di una fenomenalità propria del vivente, ma l’uso di strumenti matematici analoghi a quelli utilizzati in fisica non è soggetto alle restrizioni di noneccedenza e di non-ridondanza dei fenomeni fisici; anzi, l’inserimento all’interno di un quadro teorico operativo intrinsecamente biologico comporta l’elaborazione di concetti, per così dire, debordanti il campo fisico. Il che apre ad un rovesciamento della visione classica secondo cui il comportamento biologico emergerebbe come singolarità dei fenomeni fisici: per Longo e Montévil è piuttosto il comportamento della materia inerte a presentarsi come singolarizzazione del comportamento organico – nel momento in cui gli elementi di ridondanza contenuti nella situazione in oggetto vengono annullati. Ovviamente, nel proporre questo rimando intertestuale, siamo consapevoli di compiere un’identificazione in parte impropria, associando un’idea misurabile di ridondanza – l’antientropia di Longo e Montévil – con la ridondanza tout court oggetto del lavoro di Ismael e van Fraassen. Su questo terreno, in parte metaforico, si situa la questione aperta dello statuto scientifico del vivente, e del rapporto tra il teorizzare fisico e gli altri modi del conoscere.
Commento introduttivo a La simmetria… di J. Ismael e B.C. van Fraassen
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Jenann Ismael, Bastiaan Cornelis van Fraassen
LA SIMMETRIA COME GUIDA PER LE STRUTTURE TEORICHE SUPERFLUE
Le simmetrie possono essere un’ottima guida per identificare strutture teoriche superflue. Approfondirne lo studio permette di illustrare la forza dei metodi formali nel rivelare i contenuti delle nostre teorie, e di approcciare alcuni antichi problemi filosofici. La letteratura filosofica e scientifica contiene numerose discussioni rivolte a casi isolati, ma la trattazione solo di rado è generale, e tende a un tecnicismo che tanto nasconde i riferimenti fisici di base, quanto si rende inaccessibile ai filosofi. Vorremmo identificare i tipi di simmetria che segnalano la presenza di strutture in eccesso e farlo in maniera del tutto generale, applicabile a tutte le teorie e ad ogni genere di teoria. 1. Che cos’è una struttura superflua? Per ogni entità, sia concreta che astratta, distinguiamo i suoi elementi e la sua struttura; quest’ultima è caratterizzata dall’elenco delle relazioni tra gli elementi (o, il che vale lo stesso, dalle caratteristiche degli insiemi o delle sequenze di elementi). Che una parte della struttura sia superflua, è chiaramente un problema che dipende da che cosa ci interessa. Una macchina da cucire ha struttura superflua se, nel cucire, possiamo fare a meno di alcune caratteristiche dei suoi elementi o di alcune relazioni tra di loro, sebbene queste caratteristiche e relazioni possano essere rilevanti dal punto di vista estetico, o di un collezionista di antiquariato. Due caratteristiche possono non essere indispensabili a raggiungere un dato obiettivo, questo non vuol dire che possiamo fare a meno di entrambe allo stesso tempo, in particolare nel caso in cui la macchina abbia molteplici caratteristiche con ruoli intercambiabili. È chiaro quindi che ogni macchina – classificata per funzione e design finalizzati – ha della struttura superflua. Se si tratta di un’entità astratta o di un prodotto intellettuale, classificato allo stesso modo, può non essere assurdo pensare di sbarazzarsi di tutta la struttura superflua.
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Una teoria fisica ci fornisce descrizioni e modelli che possono essere usati nella rappresentazione di situazioni fisiche. Diciamo che una teoria ha della struttura superflua se fornisce più rappresentazioni per una stessa situazione fisica. Sfortunatamente, il modo stesso in cui descriviamo e identifichiamo o distinguiamo le situazioni fisiche tende ad essere carico di teoria. Non è così possibile, di solito, avere sotto mano un resoconto della natura che sia autorevole, adeguato, indipendente da teorie, rispetto al quale possiamo verificare la presenza di strutture superflue. Possiamo soltanto esaminare le rappresentazioni teoriche e cercare evidenze interne che ci suggeriscano che alcune di esse sono tanto simili che distinguerle porta a una distinzione senza una differenza. “Tanto simili”: c’è una storia dietro. Se sono simili a tal punto, esse devono differire solo in quegli aspetti che equivalgono a strutture fisicamente superflue. Logicamente, certo, ci potrebbero essere differenze fisiche che non corrispondono ad alcuna differenza misurabile o osservabile. Ma la logica da sola non può decidere che cos’è fisicamente superfluo in un modello. Le visioni metafisiche, l’intuizione fisica e le preferenze empiristiche per il contenuto empirico, rispetto alle distinzioni metafisiche, avranno tutte un ruolo nell’identificare ciò che è veramente superfluo. Ma, in tutti i casi, la simmetria è una guida per questa identificazione, ed è questo ciò che vorremmo mostrare in un quadro concettuale sufficientemente generale per lo studio della struttura teorica. Se usciamo dallo studio del teorico, gli indizi per determinare le differenze fisicamente significative sono le differenze osservabili o misurabili. Ma queste non sono una guida agevole e, come vedremo, la stessa distinzione tra “osservabile” e “misurabile” risulta parecchio importante. Spesso, una teoria viene utilizzata molto prima che ci rendiamo conto che essa contiene quantità non misurabili e che scopriamo quali possono essere. Identificare le quantità non misurabili, stanarle dai loro nascondigli all’interno dell’apparato teorico, è un processo lungo, difficile e tutto tranne che banale. Che una teoria contenga quantità non misurabili è una scoperta, quindi, e non una bella scoperta. Perché c’è qualcosa che non va in una teoria che contiene quantità non misurabili? Non è perché abbiamo una garanzia a priori che tali quantità non esistono, che i nostri sensi penetrano fino in fondo l’essenza delle cose, ma perché le quantità non misurabili non fanno del tutto parte dell’oggetto del teorizzare. Matematicamente, isolare una quantità non misurabile vuol dire dimostrare che la teoria alla quale appartiene ha delle componenti inattive, degli ingranaggi che girano a vuoto. Per chiarire questo punto, tuttavia, abbiamo bisogno di chiarire che cosa sono le teorie e quale rapporto ha la teoria con i fenomeni.
J. Ismael, B. C. van Fraassen - La simmetria come guida
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2. Che cos’è una teoria? Una teoria ha due ingredienti principali: una ontologia teorica che specifica lo spazio delle possibilità (metafisiche) iniziale e un insieme di leggi che seleziona da questo spazio le possibilità fisiche. In ogni teoria che si è sviluppata storicamente, c’è un gran margine di manovra nel modo in cui essa è stata concepita e presentata. In meccanica classica, per esempio, basta ricordare i nomi dello stesso Newton, di Lagrange, di Hamilton, di Kirchhoff, di Mach, di Birkhoff e di Mackey, per notare quanto diverse possono essere le ricostruzioni fondazionali. La forma della nostra presentazione vuole dare risalto, nel modo più perspicuo possibile, al ruolo della simmetria nelle concezioni della struttura delle teorie fisiche. 2.1. L’ontologia teorica Il quadro concettuale iniziale di una teoria – la sua ontologia (teorica) – serve a delineare in termini molto generali che cosa dovrà essere considerato il suo spazio delle possibilità (metafisiche) iniziale. Secondo l’uso comune, chiameremo mondi (possibili) i punti in questo spazio. La nostra ontologia sarà specificata da un catalogo in cui si elencano classi di entità, quantità e relazioni, le quali, insieme, determinano i parametri di rappresentazione della teoria. Questi, a loro volta, servono da “base di sopravvenienza” per descrivere la natura: tutte le possibilità che possiamo concepire in questo contesto teorico possono essere interamente concepite in quanto parametri che appartengono al catalogo o sono derivati dagli articoli del catalogo. Gli articoli del catalogo devono essere “tipizzati” (come lo sono, per esempio, gli insiemi in teoria dei tipi). Perciò, se A è un’entità e Q una quantità, specificare che Q(A) = r sarà sensato solo se Q, A e r sono del tipo giusto. Tutte le specificazioni complete, nel senso che abbiamo appena indicato, identificano punti nello spazio delle possibilità iniziale: mondi (metafisicamente) possibili. Questo spazio, in effetti, è l’insieme dei mondi ottenuti attraverso una qualsiasi disposizione dei mattoncini di base della teoria1. Come primo esempio, pensiamo al revival dell’atomismo antico nel sedicesimo e nel diciassettesimo secolo. Il mondo che concepiamo è costituito da atomi, il cui numero è la prima quantità di base; ogni atomo è caratterizzato da un elenco fissato di qualità primarie. Queste qualità primarie, 1
In quanto segue, quando diciamo “possibilità” intenderemo sempre possibilità metafisica. Preciseremo esplicitamente quando si tratta di possibilità fisiche.
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in effetti, sono quantità; la loro quantificazione è stata un passo cruciale per le nuove scienze. Almeno all’inizio, la “filosofia meccanicistica” del diciassettesimo secolo non pensò di avere bisogno d’altro; qualsiasi aspetto del mondo più chiaramente qualitativo, era un semplice derivato dei precedenti. In questo contesto, vale certamente quello che David Lewis e altri hanno chiamato “principio di ricombinazione”2. Infatti, se prendiamo una parte qualsiasi di una classe di atomi di un mondo e la combiniamo con altre di un altro mondo, mantenendo in ciascun caso le loro qualità primarie, il risultato è un terzo mondo (metafisicamente) possibile. Per un teoria più olistica, le cose potrebbero non stare esattamente così. Potremmo pensare che la base di sopravvenienza contenga quantità più complesse e le quantità più semplici come derivate. Un altro modo, forse altrettanto “formale”, potrebbe essere quello di pensare che le proprietà olistiche dei sistemi complessi siano relazioni esterne (ossia relazioni che non sopravvengono alle proprietà intrinseche di ciò che mettono in relazione) tra le loro parti. Consideriamo, per esempio, un sistema di n-corpi in meccanica quantistica elementare. Lo stato del sistema non è determinato dagli stati delle sue parti. In effetti, come Schrödinger faceva già notare, se il sistema è in uno stato puro, gli stati ascritti alle sue parti possono, in generale, essere non puri; e diversi stati puri del sistema sono compatibili con gli stessi stati (misti) delle sue parti. Perciò, potremmo pensare lo stato del sistema come primario e il resto come derivato. Per esempio potremmo considerare, seguendo la rappresentazione di Schrödinger, per ogni n tutti gli stati dei sistemi a n-corpi, come stati primari. Se il tempo è un parametro indipendente, rappresentato dal continuum dei numeri reali, ogni mondo possibile è una traiettoria in uno degli spazi degli stati rilevanti. Ma, in senso formale, è anche possibile pensare che lo stato del sistema codifichi lo stato delle parti insieme a certe relazioni non sopravvenienti e non spaziali tra le sue componenti che non sono colte nei loro stati individuali3. Ciononostante, prima che le leggi siano introdotte, e parzialmente rispetto a quanto specifichiamo nel catalogo, tanti di questi mondi (metafisicamente) possibili saranno molto strani e non assomiglieranno per niente a ciò che pensiamo sia un mondo (fisicamente) possibile nel senso della meccanica quantistica. A questo punto, ciò che abbiamo, è un quadro concettuale basilare in cui le leggi possono essere formulate. 2 3
I problemi riguardanti la possibilità metafisica dei mondi che contengono quantità o entità di cui non troviamo istanza nel nostro mondo non sono rilevanti in contesti fisici, cfr. (Lewis 1983). Questo caso è complicato dal fatto che le relazioni in esame sono relazioni tra probabilità, cioè correlazioni. Cfr. l’appendice A di (Mermin 1998).
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2.2. Leggi e possibilità fisiche Possiamo a questo punto rappresentare una teoria come un insieme strutturato di possibilità; non è un brutto modo di pensare alle teorie4. Questi insiemi strutturati di possibilità (da qui in avanti, “spazi delle possibilità”) si relazionano immediatamente con gli spazi con i quali i fisici sono abituati ad avere a che fare (gli spazi delle fasi e gli spazi delle configurazioni, per esempio, possono essere identificati con i loro sottospazi) e risultano oggetti familiari ai filosofi. Le leggi della teoria possono darsi in molti modi diversi, ma esse hanno un unico, semplice ruolo. Esse selezionano un sottoinsieme di punti dello spazio delle possibilità metafisiche: quella selezione è (o rappresenta) l’insieme delle possibilità fisiche; possiamo chiamarli anche mondi fisicamente possibili. Se le leggi sono specificate separatamente in quanto condizioni espresse da proposizioni o equazioni, per esempio, allora i mondi selezionati sono proprio quei punti nello spazio delle possibilità metafisiche che soddisfano quelle condizioni.
3. Il contenuto empirico Adesso dobbiamo introdurre l’ingrediente esterno alla struttura della teoria, cioè all’ontologia e alle leggi: il rapporto tra teoria e fenomeni. Tale rapporto è rilevante in due contesti: quando cerchiamo di decidere quale attitudine epistemica avere nei confronti di una teoria e quando cerchiamo di interpretarla. 3.1. La struttura qualitativa Per cominciare, introduciamo il predicato interpretativo “qualitativo”. Un mondo, così come ha una struttura, possiede delle caratteristiche qua4
Nel nostro approccio, alcune caratteristiche, che giocano un ruolo importante in certe concezioni delle teorie (p.es. il linguaggio in cui sono formulate, o la forma matematica delle loro equazioni), sono qui ritenute irrilevanti e relegate ad un ruolo sussidiario rispetto alla scelta dei mondi, che sono il vero centro di interesse. Non diamo molto peso ai dibattiti sul modo “giusto” di rappresentare le teorie; qualsiasi modo che contenga informazioni sufficienti a ricostruire l’ontologia e le leggi è adeguato. Non importa nemmeno più di tanto come contrassegniamo le possibilità fisiche, ma è conveniente tenere i contrassegni separati dalla struttura intrinseca dello spazio, così che le strutture intrinseche allo spazio rappresentino solo le relazioni interne tra le possibilità.
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litative, ma questa distinzione si impone da fuori, quando mettiamo in relazione le caratteristiche di una struttura a noi, la comunità epistemica. Perciò, la distinzione non si trova all’interno della teoria o dei suoi modelli; pertiene all’uso della teoria (e dei suoi “modelli”). Nella nostra terminologia, gli aspetti qualitativi di una situazione fisica corrispondono ai parametri che caratterizzano quella situazione e ci sono direttamente accessibili attraverso la percezione. Quando specifichiamo le implicazioni di una teoria che pertengono agli aspetti qualitativi di una situazione, stiamo collegando la teoria al contenuto di possibili percezioni, dunque stiamo specificando il contenuto empirico. Ci rendiamo conto che l’equazione di caratteristiche qualitative e caratteristiche percepibili è controversa, dal momento che potrebbe trattarsi di qualcosa di più problematico di una scelta terminologica. Per questo motivo, ci dilungheremo sul collegamento tra i due termini e tra questi e altri termini che sono usati tipicamente in questo contesto. Tradizionalmente, i termini “qualità” e “qualitativo” hanno, in effetti, un significato diverso. La tavola delle categorie di Kant elenca la qualità, la quantità e la relazione e le distingue in quella maniera tradizionale. Ma per noi oggi la qualità non può essere in contrasto con la quantità. Prendiamo una qualsiasi qualità Q che un’entità A può possedere o non possedere; possiamo pensare a Q come a una quantità (una funzione che ha come valori i numeri o simili oggetti matematici simili) tale che Q(A) = 1 se A possiede Q e Q(A) = 0 altrimenti. I valori delle quantità non devono nemmeno essere numeri reali: un insieme parzialmente ordinato di determinazioni secondo un parametro può essere rappresentato da una funzione che mappa le entità in una struttura matematica parzialmente ordinata in base ai suoi valori. La distinzione tra gli aspetti metrici e non metrici di una struttura geometrica è più vicina alla distinzione tradizionale tra quantità e qualità, ma altrettanto debole5. 3.2. Qualitativo vs. misurabile Ma la distinzione tra quantità direttamente accessibili e non accessibili – in cui le prime sono collegate all’osservazione e all’esperienza –, è cruciale per qualsiasi valutazione di quanto bene o male una teoria riesca a rappresentare la natura, se in maniera adeguata o inadeguata. Questa distinzione 5
Le coordinate possono essere introdotte per costruzione in geometria proiettiva sintetica ed è possibile, a partire da queste, definire una metrica. Questo punto è stato centrale nella diatriba tra Russell e quelli che, a suo avviso, tradivano la vera teoria dello spazio. Cfr. (Russell 1897).
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figura spesso camuffata nei termini “intuizione fisica”, “fisicamente dotato di senso”, “fisicamente significativo” e così via; il suo nome è davvero legione. In un recente articolo di (Belot 2001), che discuteremo in una sezione successiva, è facile trovare esempi lampanti. Discutendo il programma di Hertz, per esempio, Belot scrive: in effetti, la sua implementazione tecnica è fin troppo facile. Il problema è piuttosto che le implementazioni conosciute hanno poco interesse fisico. L’energia cinetica in questione non ha nessuna relazione immediata con alcuna nozione fisica (Belot 2001, p. 72).
Sarebbe difficile, in questo contesto, leggere “fisico” e non vedervi implicato almeno “misurabile”, se non addirittura “osservabile”. Come tanti altri nel lessico filosofico, “osservabile” è un termine fisarmonica, si allunga e si accorcia fin troppo facilmente. Un primo uso si applica soltanto alle entità – oggetti, eventi, processi che possono essere o non essere sufficientemente piccoli, grandi, pesanti, ecc. per essere osservabili da noi6. Un secondo uso, che adotteremo qui, si applica alle quantità che possono caratterizzare una situazione, perché distinguibile ad esempio in base a un discrimine, anche sommario, di colore, consistenza, odore, ecc. Qui, considereremo solo queste ultime come qualitative. Di conseguenza, esse devono essere distinte dalle quantità misurabili. Queste ultime comprendono solo le quantità i cui valori hanno un impatto apprezzabile sul discrimine sommario di colore, consistenza, odore, ecc., ma non importa quanto la connessione sia attenuata, l’impatto sia esoterico o le condizioni alle quali può essere apprezzato siano speciali. Potremo considerare senza alcun problema le quantità qualitative come misurabili, ma molte quantità misurabili saranno non qualitative. Osserviamo allora una distinzione tripartita tra quantità qualitative, quantità misurabili ma non qualitative e quantità non misurabili. Decidere quali quantità sono qualitative fa parte delle risorse per aggiustare l’interpretazione di una teoria. Questo però può sia essere un fatto di natura, che dipendere dal contesto, disegnandosi diversamente in diversi contesti teorici la linea qualitativo/non qualitativo. Abbiamo delle opinioni in merito, ma questa scelta non sembra pesare sulla nostra discussione principale. La distinzione misurabile/non misurabile, d’altro canto, non è certo una linea data in modo grezzo, piuttosto, per ogni teoria da interpretare, deve essere determinata usando le suddette 6
Uno di noi (BvF) preferisce questo uso in maniera esclusiva, ma qui esso è indebolito.
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risorse. Questo punto si collega direttamente al nostro tema principale: la struttura superflua sarà allineata alla presenza di quantità non misurabili nell’immagine del mondo di una teoria. 3.3. Caratteristiche misurabili ma non qualitative La storia di questo argomento è stata raccontata abilmente da Glymour, che nel suo Theory and Evidence (1980) l’ha poi continuata in modo notevole. Immaginiamo una discussione tra alcuni newtoniani e dei loro rivali cartesiani intorno al 1700. Tutti penseranno che le quantità estensive sono date direttamente all’osservazione, per gli oggetti osservabili. Ma la misurazione di certe quantità, con la riga e con l’orologio, presuppone certe assunzioni sostanziali – nel caso del movimento dei pianeti, per esempio, le osservazioni immediate non basteranno senza alcune assunzioni su come viaggia la luce. Fin qui, tuttavia, per quanto riguarda le quantità cinematiche, le due parti del contendere condividono le minime assunzioni richieste. Diverso è per quanto riguarda le nuove quantità newtoniane di massa e forza. Certamente esistono procedure operative per determinarle, ma la misurazione delle masse e delle forze in un sistema è un calcolo fondato sull’assunzione che il sistema considerato sia un sistema della meccanica newtoniana. Era questo il punto principale della discussione di Poincaré a proposito delle quantità in meccanica classica, ne La scienza e l’ipotesi, ma proseguiva i tentativi del diciannovesimo secolo di definire le quantità dinamiche in termini cinematici. Questi tentativi non possono avere successo (data la nostra attuale e precisa nozione di definizione) ma è possibile esprimere le assunzioni teoriche presupposte nella misurazione di quelle quantità dinamiche usando solo termini cinematici. Il miglior esempio noto è ancora la “definizione” della massa di Mach nei termini di accelerazioni reciprocamente indotte in circostanze speciali. Poiché queste circostanze speciali di solito non occorrono, la sfida è quella di capire se il comportamento cinematico del sistema implica i valori delle masse e delle forze. Il caso banale di un corpo che non è mai accelerato ci fa respingere la pretesa che questa sia un’affermazione generale, anche nel caso in cui correggiamo “implica” con “implica relativamente alla meccanica newtoniana”. La procedura di Mach è inadeguata anche per casi meno banali7. Ma nel secolo successivo Pendse ha provato che, se tutti i dati cinematici sono dati un numero sufficiente di volte per un sistema di punti materiali, allora le forze e le 7
Cfr. (Jammer 1961), cap. 8 per una trattazione chiara di questo e di quanto segue.
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masse saranno determinate in maniera univoca per un’ampia classe di casi. Il punto principale è naturalmente che quest’ampia classe di casi non è di certo esaustiva – non solo la validità generale della teoria (come la costanza della massa) ma anche l’isolamento dinamico (con la conservazione del momento lineare e angolare) sono presupposti nei calcoli di misurazione. In seguito, (Sneed 1971) ha dato una forma molto precisa alla conclusione di Poincaré; Glymour, benché duramente critico di Sneed, ha mostrato come questo punto emerga anche in altri autori, come Hans Reichenbach, e lo ha trasferito nei suoi concetti di prova ed evidenza. Una teoria è messa alla prova per mezzo di misurazioni di quantità, partendo dall’assunzione che la teoria sia soddisfatta; per certe quantità, non è possibile qualcosa di più fondamentale. Nei nostri termini, queste sono quantità misurabili e decisamente non qualitative. Da un punto di vista epistemologico, di conseguenza, la misurazione è a tutti gli effetti una procedura dipendente dalle teorie circostanti per generare nuovi fenomeni osservabili inseriti in un contesto teorico. Viene da qui la nostra enfasi sull’osservazione e non sulla misurazione per quanto riguarda il rapporto tra teoria e fenomeni. Per riassumere: collegheremo la struttura superflua con la presenza di quantità non misurabili. Tuttavia, ciò che è misurabile/non misurabile non può essere letto direttamente in una teoria. Abbiamo bisogno di usare ciò che è osservabile per fare questa distinzione, ma ciò che è osservabile/non osservabile non si allinea con ciò che è misurabile/non misurabile. Qui sopra abbiamo cercato di indagare la relazione tra le due distinzioni, ma c’è ancora del lavoro da fare su questo tema.
4. Le simmetrie: modi di preservazione della struttura Adotteremo qui la seguente precisa terminologia. Una trasformazione è una mappa uno a uno che associa un dominio ad un codominio. Nel contesto attuale, dominio e codominio sono entrambi lo spazio delle possibilità iniziale. Una trasformazione potrebbe essere definibile attraverso le istruzioni per aggiungere o rimuovere degli oggetti da un mondo, cambiare le loro proprietà o muoverli nello spazio e nel tempo, ma in generale può non essere affatto computabile o definibile in alcun senso. Intuitivamente, le simmetrie sono trasformazioni che preservano la struttura e perciò possono essere classificate in base al (tipo di) struttura che preservano. Dobbiamo distinguere le simmetrie di un mondo dalle simmetrie di una teoria. Le simmetrie di un mondo sono trasformazioni che mappano il mondo su sé stesso. Così, se M è un mondo possibile e h
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è una sua trasformazione, h è una simmetria di M se e solo se hM = M. Le simmetrie di una teoria, per contrasto, sono trasformazioni dello spazio delle possibilità iniziale che preservano il soddisfacimento delle sue leggi e preservano anche il loro non-soddisfacimento. (Queste definizioni le dovremo tenere bene a mente quando tratteremo dei vari gruppi di simmetrie che possono essere associati a una teoria.) Secondo la terminologia che abbiamo adottato, le simmetrie di una teoria mappano mondi fisicamente possibili in mondi fisicamente possibili, e mondi fisicamente impossibili in mondi fisicamente impossibili. Perciò possiamo, in maniera equivalente, chiamarle simmetrie delle sue leggi. (In effetti, un modo per specificare le leggi è semplicemente quello di specificare quel gruppo di simmetria – da non confondere con i gruppi di simmetria più ristretti che potrebbero essere discussi in un contesto specifico!) Esse non devono preservare alcuna caratteristica particolare di questi mondi. In generale, non avrebbe alcun senso suggerire che solo le caratteristiche preservate dalle (invarianti rispetto a certe) simmetrie di una teoria data sono reali. Infatti, identificare tutti i mondi possibili che rispettano tali simmetrie (in quanto rappresentazioni della stessa possibilità fisica) significherebbe affermare che esiste un solo mondo fisicamente possibile. Si noti che verrebbe inclusa ogni mappa da mondi a mondi che trasforma mondi “legali” in mondi “illegali”; di conseguenza, ciascun mondo fisicamente possibile sarebbe l’immagine di ogni altro mondo sotto una certa mappa. Nel caso della meccanica newtoniana delle particelle, per esempio, queste mappe comprendono quelle che mettono in relazione un sistema a un altro con lo stesso numero di particelle (ma differenti traiettorie), ma anche quelle mappe che mettono in relazione sistemi con differenti cardinalità. Dobbiamo guardare quindi ad altre simmetrie, trasformazioni che preservano non tanto il soddisfacimento e il non-soddisfacimento delle leggi, ma anche altre caratteristiche significative. Per esempio, per costruire una teoria potremmo cominciare con trasformazioni che preservano una certa struttura spaziotemporale, e magari qualche altra quantità, e poi chiederci quali di queste trasformazioni preservano le leggi. Questo punto di natura generale è stato suggerito da (Weyl 1952, pp. 26-27) e può essere illustrato con un esempio di trasformazioni galileiane in meccanica classica. Queste trasformazioni sono strettamente collegate alle leggi. Eppure, non possiamo dire che una caratteristica invariante a tutte le trasformazioni galileiane ha sempre a che fare con le leggi. Infatti, il numero – diciamo il numero di particelle in un sistema – è invariante, ma le leggi della meccanica classica non impongono alcun vincolo al numero. Le leggi vincolano le relazioni
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tra quantità, ma, tipicamente, non i particolari valori che esse assumono. Le caratteristiche di una situazione, nomologicamente contingenti e tuttavia reali, sono precisamente quelle caratteristiche che distinguono i mondi collegati a una simmetria delle leggi. Quindi, in una diagnosi di quale struttura è reale e quale struttura è superflua, le simmetrie sulle quali concentrarsi sono di una (o più d’una) classe intermedia. Almeno una viene subito alla mente: la classe delle simmetrie della teoria che preservano anche tutte le caratteristiche qualitative di ogni modello. Questa classe può essere definita nello stesso modo per tutte le teorie e perciò ha la stessa generalità delle nozioni di simmetria di un mondo e di simmetria di una teoria8. 5. I segni della struttura superflua Consideriamo una simmetria di una teoria T che mappa ogni mondo fisicamente possibile in un altro che è indistinguibile qualitativamente da esso9. Sarà sempre possibile, senza intaccare il contenuto empirico della teoria, interpretare tale trasformazione come una simmetria di tutti i mondi che essa mette in relazione. Sarà sempre possibile, in altre parole, interpretarla come identità dei mondi in questione, anche se potrebbe non comportarsi come identità delle nostre rappresentazioni di quei mondi. Se h è 8
9
Le trasformazioni galileiane non preservano la posizione o la velocità, eppure queste sono quantità direttamente misurabili. Questa obiezione, a prima vista, sembra cogente, ma non più di tanto se ci si sofferma un po’. La posizione e la velocità non sono preservate in un sistema di riferimento dato, mentre lo sono le distanze e le velocità relative. Ma a essere misurate in senso proprio sono quest’ultime; le prime risultano da una misurazione, ma hanno bisogno anche di una qualche convenzione e di lavoro con carta e penna. Ricordiamo da prima che, tracciando le linee di demarcazione, le caratteristiche qualitative sono quelle accessibili all’osservazione diretta da parte dell’osservatore, mentre la misurazione in generale necessita dell’osservazione così come di un qualche calcolo intriso di teoria. Facciamo notare che potremmo aver bisogno di aggiungere un elemento indessicale in questa concezione. Il navigatore di una nave, per esempio, può accorgersi della presenza di un iceberg dieci miglia a nordest. È chiaro che a un rapporto di questo tipo va aggiunto l’indessicale “da qui”. Tale rapporto è compatibile con l’ignoranza dell’ubicazione del navigatore nel globo e il contenuto indessicale è indipendente da quella. Ma lasciamo la trattazione di questo aspetto dell’osservazione a un’altra occasione. Questo punto è essenziale; le trasformazioni in esame devono preservare la struttura qualitativa di tutte le possibilità fisiche. Cfr. più avanti per un ulteriore disaccordo apparente con Belot.
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una simmetria delle leggi che preserva la struttura qualitativa e MT e MT* sono rappresentazioni teoriche di mondi (descrizioni o strutture matematiche che rappresentano un mondo) tali che MT* = hMT e MT* ≠ MT, allora sarà sempre possibile identificare i mondi rappresentati rispettivamente da MT e MT* e pensare alle strutture che distinguono le loro rappresentazioni come superflue. 5.1. Trasformazioni banali e non banali Affermare che una trasformazione è banale significa interpretarla nei termini di una permutazione (al più) delle caratteristiche fisicamente non significative della struttura teorica. Consideriamo fisicamente significative (i) quelle caratteristiche che sono (congiuntamente o individualmente) vincolate da leggi, (ii) le caratteristiche qualitative, non importa se vincolate da leggi. Per questo, proponiamo che proprio le simmetrie delle leggi che preservano la struttura qualitativa siano indicative della presenza di struttura teorica superflua e che dovrebbero sempre essere ritenute banali. Distinguiamo qui tre classi di trasformazioni, con le loro corrispondenti interpretazioni: a) Trasformazioni che preservano la struttura qualitativa ma non sono simmetrie delle leggi. Queste trasformeranno per lo meno alcuni mondi fisicamente possibili in mondi fisicamente impossibili, benché non ci sia alcuna differenza osservabile. b) Simmetrie delle leggi che non preservano la struttura qualitativa. Queste produrranno mondi fisicamente possibili distinti. c) Simmetrie che preservano la struttura qualitativa. Proponiamo che sono proprio queste le simmetrie che suggeriscono la presenza di struttura superflua. Le simmetrie della classe (b) includono le trasformazioni non geometriche che permutano i valori di quantità non osservabili rilevanti dinamicamente (cioè trasformazioni che inducono cambiamenti non osservabili con effetti osservabili potenzialmente ma non attualmente) e le trasformazioni geometriche che non sono simmetrie delle leggi (trasformazioni che possono cambiare lo stato di moto di un sistema in modi rilevanti per il loro comportamento dinamico)10. 10 Nel prosieguo discuteremo un esempio, in connessione con alcune proposte di (Belot 2001).
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5.2. Un argomento sofistico Ecco un argomento per cui tutte le teorie avrebbero necessariamente struttura superflua secondo i criteri di cui sopra. Consideriamo la teoria molto semplice che afferma: (i) Ci sono esattamente due oggetti. (ii) C’è un oggetto rosso e un oggetto nero. Prendiamo un mondo che soddisfa queste leggi; esso ha due membri nel suo dominio. Chiamiamo quello rosso a e quello nero b. C’è un altro mondo, prodotto dalla permutazione dei due (una trasformazione che non preserva il colore, ma certamente la legalità) in cui a è l’oggetto nero e b l’oggetto rosso. Questi due mondi sono indiscernibili qualitativamente. Ma sono chiaramente distinti, perché nel primo mondo la proprietà (λx)(x = a & Rosso(x)) è istanziata, mentre nell’altro mondo non lo è. (Si noti che qui non entra in gioco il principio dell’identità degli indiscernibili: in ciascun mondo ciascun individuo ha una descrizione definitoria univoca.) Possiamo prendere dalla letteratura filosofica vari stratagemmi che mettono alla prova e cercano di evitare questa conclusione. Dovremmo insistere che le trasformazioni non banali devono preservare le proprietà essenziali degli individui e che le proprietà dell’identità (come (λx) (x = a)) sono essenziali? Non sarebbe una buona idea, perché allora solo la trasformazione identità f(x) = x sarebbe non banale. Dovremmo proporre che “=” non faccia parte del linguaggio ammissibile per costruire le teorie? Neanche questa sembra una buona idea, se costruiamo (i), come è comune fare, nel modo seguente: “Esiste un x, esiste un y, tali che non vale [x = y] ma per ogni z, z = x o z = y”. Dovremmo essere in grado di esprimere la numerazione. Tuttavia, è possibile salire a un ordine superiore e ottenere le proprietà numeriche primitive: “in questi mondi Rosso e Nero sono istanziati singolarmente” e “la proprietà di essere Rosso o non Rosso è istanziata due volte”. Allora, potremmo forse fare a meno di “=”. Noi crediamo che questo sia un problema sofistico, generato artificialmente. Ci sono due scelte ovvie per la rendicontazione filosofica. Possiamo dire che l’argomento riesce a mostrare la struttura superflua in ogni teoria, ma questa struttura superflua è struttura superflua banale, definendo questa nozione proprio come “struttura superflua che ogni teoria possiede”. O in alternativa possiamo dire che i mondi raffigurati sono identici, che
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abbiamo soltanto due descrizioni che differiscono in base a un’etichettatura arbitraria che non ha alcun significato fisico. Preferiamo la seconda opzione, ma non vi vediamo alcuna questione sostanziale11. Un modo di rendere sostanziale il problema è quello di obiettare che ogni individuo ha la sua ecceità. Ma introdurre l’ecceità, o qualsiasi altro fattore nascosto individuante, non farebbe altro che spingere l’argomento sofistico un passo più avanti. Infatti, se tutte le trasformazioni non banali devono preservare l’ecceità, allora soltanto la trasformazione identità sarebbe non banale. Se d’altro canto l’ecceità non deve essere preservata, allora ci saranno varianti banali ma distinte dei mondi prodotte ancora una volta per permutazione degli individui. Questa dialettica è quindi una semplice ripetizione dello stesso argomento. In quel che segue, a volte diremo solo “trascurando l’identità degli individui” per ricordarci di questa rendicontazione filosofica. Ma aggiungiamo poche brevi note per localizzare propriamente questo problema. Ci sono due modi di pensare le trasformazioni. Possiamo descrivere le trasformazioni in un metalinguaggio interpretato, con tanta struttura quanto vogliamo. In quel caso, per descrivere la loro attività sulla classe di strutture che prendiamo in considerazione, le trasformazioni dovrebbero essere raggruppate per classi di equivalenza nella misura in cui siano indistinguibili dai loro effetti sulle strutture nella classe considerata. In alternativa, possiamo descrivere le trasformazioni nello stesso linguaggio in cui descriviamo le strutture. Nel primo caso, le trasformazioni sono individuate in maniera più grossolana, tanto che non ci sono trasformazioni distinte che siano indistinguibili dai loro effetti sulle strutture in questione. Questo ha l’effetto di legare l’individuazione delle trasformazioni alle strutture in modo che, quando identifichiamo della struttura superflua nei modelli, la stiamo simultaneamente identificando nella classe delle trasformazioni applicabili. La seconda alternativa è più naturale, perché sale di un livello, applicando lo stesso ragionamento tanto all’individuazione delle trasformazioni quanto all’individuazione delle possibilità fisiche. Le trasformazioni che agiscono allo stesso modo su tutte le strutture nella classe sono identiche, malgrado le variazioni della notazione con cui vengono presentate. Tornando al nostro esempio, parlare di permutazione di colori tra elementi individuali che lasciano inalterata la distribuzione globale del colore è un’assurdità.
11 Cfr. (van Fraassen 1991), capitolo 12, sezione 4.2 e (Huggett 1999).
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6. Simmetrie delle leggi Abbiamo introdotto la nostra tesi, ma non l’abbiamo finora sostenuta; intendiamo adesso proporre un’argomentazione plausibile, esaminando altri modi di vedere la questione ed esempi che illustrano le differenze. Almeno all’apparenza, la nostra tesi è in disaccordo con Belot, che scrive (2001, p. 55): se esistesse una classe di mondi possibili la cui geometria condivisa e le leggi risultassero invarianti sotto un certo insieme di simmetrie, allora… esisterebbero mondi distinti che condividerebbero tutte le loro proprietà qualitative e relazionali.12
L’articolo di Belot, che discute il principio di ragion sufficiente di Leibniz (prs), è dedicato a un’esplorazione della possibilità di un’interpretazione banale di certe simmetrie della meccanica classica. Invece di concentrarsi sugli spazi dei mondi possibili, Belot parla di spazi di stati possibili e si concentra sugli spazi la cui struttura geometrica determina le traiettorie fisicamente possibili in essi, scrivendo effettivamente le leggi dinamiche della teoria nello spazio. In Belot, quindi, quelli che noi chiamiamo mondi sono le traiettorie. Cambia solo il modo di esprimersi, ma ci sono delle ragioni (buone ragioni, crediamo, che scoraggiano confusioni altrimenti affascinanti) per cui preferiamo parlare di spazi di mondi, che hanno non più struttura intrinseca di quanta gliene è data dalle relazioni interne tra i loro elementi, e continueremo a usare questa terminologia. Ritornando alla tesi citata, notiamo che, in effetti, Belot omette la restrizione alle simmetrie che preservano la struttura qualitativa, concedendoci un semplice controesempio. Consideriamo, per esempio, la teoria molto semplice che sostiene che ci sono due tipi di cose nel mondo, triangoli e quadrati, e che ci sono due leggi: (i) Ci sono solo tre oggetti nel mondo. (ii) Tutte le cose sono triangoli neri o quadrati arancioni. Trascurando l’identità degli individui (si veda sopra!), abbiamo soltanto quattro mondi fisicamente possibili, distinti a seconda che abbiano 0, 1, 2, 3 triangoli neri. Consideriamo la trasformazione h* che trasforma i trian12 Ammettiamo che stiamo usando quest’articolo eccellente e penetrante come un pretesto, e che l’apparente disaccordo potrebbe non andare molto in profondità; esso farà comunque emergere chiaramente il contenuto delle nostre affermazioni.
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goli in quadrati e i quadrati in triangoli e trasforma le cose nere in cose arancioni e le cose arancioni in cose nere. Questa trasformazione h* è una simmetria di (i) e (ii) e mappa l’insieme dei mondi fisicamente possibili su sé stesso. Ma questi mondi hanno tutti una struttura distinta13. È facile trovare esempi fisicamente realistici. Ogniqualvolta si ha una teoria che ha solo modelli distinguibili qualitativamente, qualunque automorfismo dell’insieme delle possibilità fisiche costituirà un esempio. Per avere un esempio opposto in cui le qualità sono preservate e in cui ci sono mondi distinti e indiscernibili, prendiamo qualsiasi teoria, aggiungiamoci una quantità nascosta e non misurabile Q e sia j la trasformazione che lascia intatto tutto meno il valore di Q, il quale viene permutato. Siccome Q è non misurabile, essa è isolata causalmente dai valori di tutte le altre quantità e perciò permutare i valori di Q in un mondo non influenzerà i valori delle quantità osservabili o misurabili. Fintantoché non aggiungiamo nuove leggi che fanno menzione esplicita di Q e che si relazionano alle quantità osservabili e misurabili, j sarà una simmetria della teoria e tra i modelli della teoria ci saranno mondi che condividono una geometria e tutte le proprietà qualitative e relazionali. Un esempio più interessante è quello che fa Glymour della teoria di Newton aggiornata che sostituisce alla forza newtoniana la quantità complessa morza + gorza (1980, pp. 356-362). Sia k la trasformazione che aggiunge alla morza ciò che toglie dalla gorza, lasciando inalterata la forza (supponiamo che morza e gorza possano avere valori negativi). La teoria aggiornata sarà invariante sotto k e il mondo w (eccetto in esempi degeneri) sarà distinto ma indistinguibile dal mondo kw. Perché Belot ha trascurato questi esempi? Forse se ci concentriamo sulle simmetrie geometriche la distinzione tra le simmetrie delle leggi che preservano la struttura qualitativa e quelle che non la preservano non viene in mente. Ciò che distingue la classe delle simmetrie geometriche è che esse preservano la struttura qualitativa; ma non è vero in generale che le simmetrie di una teoria preservano la struttura qualitativa dei suoi modelli. È solo per contrasto con le trasformazioni geometriche che non sono simmetrie e con le simmetrie che non preservano la struttura qualitativa, che emerge quel che hanno di speciale le simmetrie geometriche. Prendendo in considerazione altre simmetrie che hanno una certa prominenza in letteratura (come le simmetrie di gauge e la simmetria di permutazione), possiamo 13 Per completare l’esempio, potremmo aggiungere che (i) e (ii) sono invarianti rispetto alle trasformazioni galileiane e che h* lascia intatta la struttura metrica di un mondo.
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afferrare il significato fisico generale delle simmetrie. Le trasformazioni che preservano la struttura qualitativa non sono tutte simmetrie delle leggi e le trasformazioni che sono simmetrie delle leggi non preservano tutte la struttura qualitativa. Solo quelle che hanno entrambe le caratteristiche suggeriscono la presenza di struttura teorica superflua. Solo quelle che hanno entrambe le caratteristiche permettono un’interpretazione banale14. 6.1. Indiscernibilità qualitativa con differenze dinamiche Belot qualche volta parla come se il principio di ragion sufficiente di Leibniz (prs) procurasse l’identificazione di qualunque coppia di modelli qualitativamente indistinguibili di una teoria. Nell’introduzione del suo articolo, per esempio, egli sostiene che: una descrizione di un insieme di mondi possibili che include coppie di mondi con la stessa struttura qualitativa può [e, in base a prs, dovrebbe] corrispondere al più esiguo insieme delle possibilità che emerge quando identifichiamo mondi qualitativamente identici (Belot 2001, p. 55).
Ma questo non può essere15. Consideriamo la trasformazione che mappa un secchio vuoto che ruota in un mondo newtoniano su un secchio qualitativamente indistinguibile in stato di quiete e che mappa ogni altro mondo su sé stesso. Entrambi sono modelli della teoria di Newton e se nessun secchio viene riempito sono qualitativamente indistinguibili. Senza dubbio, la teoria di Newton prevede delle differenze tra i due, che diventerebbero evidenti se introducessimo uno strumento di misurazione (l’acqua) nei secchi. Ma per ipotesi ci sono soltanto i secchi, e questi possiedono di conseguenza le stesse caratteristiche qualitative. prs, tuttavia, non ci dà istruzioni per identificare questi mondi. Piuttosto, dovremmo pensare a prs come all’indicazione di evitare di riconoscere le distinzioni dinamiche che non hanno effetti qualitativi potenziali. Gli “effetti qualitativi potenziali” sono qui gli effetti qualitativi che si presentano in una qualche circostanza fisicamente possibile, stando alla teoria (cioè in uno dei mondi fisicamente possibili della teoria)16. 14 Questo ci dice qualcosa anche delle condizioni alle quali riconosciamo la struttura geometrica intrinseca, dato che tutte le trasformazioni geometriche preservano la struttura qualitativa; vale a dire, quando hanno potenziali effetti qualitativi. 15 Ci sono altre cose che suggeriscono che Belot non può credere a questa tesi, benché altre ancora rendono chiaro che non si sta semplicemente esprimendo in modo inaccurato. 16 Belot ci fa sapere (comunicazione privata) che intende “qualitativo” in un senso diverso dal nostro: “Uso ‘qualitativo’ nel senso del metafisico [per riferirmi
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La differenza è tutto tranne che banale. In contesti fisici, lo spazio delle possibilità metafisiche è ottenuto, per mezzo di una ricombinazione senza condizioni, dagli enti, dalle quantità e dalle relazioni che pensiamo che siano i mattoncini del mondo attuale. Se prendessimo lo spazio di stato della meccanica newtoniana, come suggerisce Belot, e identificassimo qualunque coppia di mondi qualitativamente identici, tralasceremmo la struttura combinatoria (lo spazio conterrebbe, per esempio, i mondi in cui ci sono secchi pieni d’acqua che girano, ma non i mondi in cui ci sono secchi vuoti che girano) e questa non è un qualcosa al quale possiamo rinunciare soltanto perché si adatta bene ai nostri obiettivi teorici. Una delle ragioni per cui ci interessiamo allo spazio delle possibilità, una delle cose che lo rendono un oggetto di interesse fisico, è che esso è collegato, alla maniera indicata dal principio di ricombinazione, alla struttura di ogni mondo che contiene. Ci interessiamo alle possibilità (metafisiche) in contesti fisici, almeno in parte, perché esse si collegano in linea di principio alla struttura dell’attualità e non possiamo abbandonare il principio di questo collegamento senza rinunciare alla (a questo aspetto della) loro significatività17. L’intuizione fisica alla quale risponde il principio di Leibniz è che, se riconosciamo un insieme di mondi possibili con un alto grado di ridondanza qualitativa, potremmo star riconoscendo più struttura nel mondo attuale di quanta non sia lecito supporre, e che, se abbiamo un modo per eliminare il grasso senza toccare la carne (se troviamo un modo per fare a semplicemente alle proprietà intrinseche di un oggetto]; penso che sia un uso molto più debole del vostro; e non si fonda direttamente su considerazioni che tematizzano la percezione…”. Non abbiamo dato enfasi a questa differenza perché non intacca i controesempi. Possiamo semplicemente stipulare che, nell’esempio del quadrato nero/triangolo arancione, le uniche proprietà intrinseche e reali dei mondi descritti siano colore e forma e che, come non ci sono proprietà qualitative che permettono di distinguere il mondo in cui il secchio vuoto newtoniano è in rotazione da quello in cui è stazionario, non ci siano neanche proprietà intrinseche e reali. Il senso debole di “qualitativo” rende l’argomentazione di Belot meno ambiziosa di quanto ci si aspetta; poiché non si può determinare quali proprietà siano qualitative in senso debole indipendentemente dall’interpretazione di una teoria, Belot non sta raccomandando un criterio generale, valido per tutte le teorie, per identificare la struttura superflua. Il suo argomento si applica soltanto dopo che prendiamo alcune decisioni interpretative. Si veda più avanti. 17 Ci potrebbe essere un nuovo spazio, con una struttura combinatoria, che contiene tutti e soli i mondi nel mondo newtoniano modificato, ma i mondi in quello spazio avrebbero una struttura non newtoniana. La tesi è che non possiamo capire le situazioni fisiche raffigurate dai mondi newtoniani modificati – quali sono le loro componenti, da quali enti, quantità e relazioni sono fatti – senza vederli nel contesto del nuovo spazio, senza capire come scomporli e rimetterli insieme.
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meno di alcune strutture non qualitative senza perdere alcuna distinzione qualitativa), dovremmo farlo. Ma questo affare di identificare le possibilità qualitativamente indistinguibili non ci dirà niente a proposito della struttura del mondo attuale se rinunciamo alla ricombinazione. Non capiamo come è fatto il mondo attuale in base a una teoria che rimuove alcune delle ridondanze qualitative, a meno che non riusciamo a metterlo a contrasto con uno spazio combinatoriamente strutturato. Non capiamo davvero che cosa ci dice una teoria, quali sono i mattoncini del mondo attuale, a meno che non sappiamo come scomporli e rimetterli insieme; vale a dire, a meno che non sappiamo quali sono, in base alla teoria, i gradi reali della libertà metafisica. Per riassumere: le simmetrie di una teoria T sono le trasformazioni che mappano l’insieme dei mondi fisicamente possibili su sé stesso. Le trasformazioni che non sono simmetrie di T, invece, portano a volte da un mondo fisicamente possibile alla luce di T, a un mondo che non lo è, e possiamo dire che cambiano il mondo in una qualche maniera che sia rilevante dinamicamente. Alcuni di questi cambiamenti dinamicamente rilevanti saranno visibili, ma altri avranno effetti visibili solo a certe condizioni (p.es. la differenza tra i secchi newtoniani in universi rotanti o non rotanti). La differenza tra tali mondi è qualitativamente potenziale perché, se riempissimo i secchi di acqua, allora, caeteris paribus e tenendo le leggi per ferme, le differenze qualitative emergerebbero. Il prs dovrebbe significare un divieto di differenze invisibili e irrilevanti dinamicamente. Dovrebbe essere pensato come un divieto al riconoscimento delle differenze invisibili e intrinseche che non hanno manifestazioni visibili a nessuna condizione fisicamente possibile, attuale o controfattuale. Le trasformazioni geometriche sono speciali nel senso che esse preservano la struttura qualitativa; perciò riconoscere differenze tra mondi che rispettano le simmetrie geometriche è sempre una violazione di prs. Ma le simmetrie non preservano in generale la struttura qualitativa dei loro modelli, sia che intendiamo “qualitativo” come abbiamo fatto noi, sia nel senso debole di Belot. Se così fosse, se identificassimo tutti i mondi fisicamente possibili che rispettano le simmetrie, nessuna teoria avrebbe più di un modello. In una comunicazione privata, Belot ha suggerito di restringere la nozione di simmetria: Per me contano come simmetria di una teoria soltanto quelle permutazioni del suo spazio dei mondi possibili che preservano la struttura definendo la dinamica della teoria (dunque le mie simmetrie sono diffeomorfismi che preservano, diciamo, la struttura hamiltoniana e simplettica o la struttura dello spazio di Hilbert in casi fisici tipici).
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Non è illegittimo inserire delle restrizioni nelle proprie definizioni. Ma farlo ha un prezzo. Se definiamo le simmetrie di una teoria come quelle che preservano la struttura definendo la dinamica, allora non possiamo far uso di considerazioni sulla simmetria per vedere quanta struttura dinamica serve per riprodurre il contenuto empirico di una teoria, cioè per mettere in evidenza la struttura dinamica che non svolge in effetti nessun lavoro empirico. La simmetria è una nozione matematica e pensiamo che sia meglio lasciarla incontaminata dalla fisica per quanto riguarda la sua definizione. Riteniamo importante anche che qualunque nozione di simmetria usata in un contesto speciale debba derivare da nozioni generali definite allo stesso modo per qualsiasi teoria. Se combiniamo una nozione puramente matematica di simmetria con una distinzione valida per ogni teoria (in quanto premessa indispensabile per l’interpretazione) tra strutture qualitative e non qualitative nei modelli, otteniamo una buona guida all’identificazione delle strutture superflue, una guida che ha una chiara motivazione epistemica e che possiamo consultare senza aspettare di aver preso quelle stesse decisioni interpretative che ci dovrebbe aiutare a prendere. 6.2. Le simmetrie di un mondo e l’identità degli indiscernibili Le simmetrie di un dato mondo, distinte dalle simmetrie di una teoria, sono soltanto quelle trasformazioni che lo mappano su sé stesso (i suoi automorfismi). È questo il senso in cui una rotazione di 360° è una simmetria di tutte le lettere, mentre una rotazione di 180° è una simmetria della lettera O ma non della lettera P. Per queste simmetrie, non avrebbe di certo senso pensare che esse rilevano la struttura superflua in un mondo particolare. Poiché esse mappano il mondo su sé stesso, non possono essere usate a sostegno di alcuna ipotesi che questo mondo possibile è in effetti lo stesso (rappresenta la stessa situazione fisica) di un altro mondo possibile. Tuttavia, se una trasformazione è una simmetria di alcuni mondi ma non di altri, possiamo chiederci se per caso essa non preservi tutta la struttura significativa e così metta in relazione soltanto quei mondi che rappresentano allo stesso modo ciò che potrebbe essere un mondo reale. Se le situazioni fisiche S e S’ sono rappresentate come immagini speculari l’una dell’altra, per esempio, sono davvero due possibilità fisiche distinte che si rappresentano o solo una? La domanda è: l’operazione matematica corrisponde a un’operazione fisica? Applicando questa trasformazione stiamo davvero riorganizzando un mondo, o mappandolo su un duplicato, oppure stiamo soltanto permutando alcuni dettagli insignificanti della rappresentazione?
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Dovremmo avere il forte sospetto che ci sia struttura superflua se due mondi distinti sono collegati da una trasformazione che ha un qualche mondo come punto fisso. Come esempio intuitivo, familiare a molta letteratura, immaginiamo che i mondi w1, w2 e w3 contengano rispettivamente solo una mano sinistra, una mano destra e due mani (destra e sinistra, che sono l’una l’immagine riflessa dell’altra mediante un piano centrale). La riflessione trasformerà w1 in w2 e viceversa ma trasformerà w3 in sé stesso. Questo è un chiaro avvertimento che ci fa pensare che w1 e w2 non rappresentano due distinte configurazioni fisiche possibili ma soltanto una18. Questo esempio famoso ha fatto molto discutere ed è stato il tema di una letteratura ampia e diversificata. Consideriamo un esempio più astratto, i gruppi di quattro elementi noti come 4-gruppo di Klein19. Si tratta di un gruppo commutativo di quattro elementi e, a, b, c in cui e è l’elemento identità (ex = x per ogni x), ciascun elemento è il proprio inverso e se x, y, z sono elementi distinti, allora, oltre a e, anche xy = z:
e
a
b
c
e
e
a
b
c
a
a
e
c
b
b
b
c
e
a
c
c
b
a
e
L’elemento e è qui definibile in maniera univoca. Ma non possiamo costruire una descrizione che identifichi in maniera univoca nessuno degli altri elementi; essi sono indiscernibili strutturalmente e qualitativamente. Gli automorfismi di questa struttura sono precisamente le permutazioni del suo insieme di elementi non-identità e possiamo definire solo ciò che è invariante sotto automorfismi. Tuttavia, non avrebbe senso suggerire che quegli elementi dovrebbero essere identificati. Il risultato sarebbe un gruppo a due elementi e arriveremmo alla strana conclusione che il 4-gruppo non esiste (sebbene ci siano oggetti che hanno questa forma, insieme a struttura addizionale). 18 Cfr. l’articolo di Pooley in (Brading e Castellani 2003). 19 Rynasciewicz ha fatto buon uso di questo esempio in (Rynasciewicz 2001).
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Dobbiamo sottolineare due punti. Il primo è che il gruppo è invariante alle permutazioni dei tre elementi non-identità. Se sostituiamo a con b e viceversa, la tabella diventa solo:
e
b
a
c
e
e
b
a
c
b
b
e
c
a
a
a
c
e
b
c
c
a
b
e
e questa è in tutta evidenza la stessa tabella di prima, in un ordine lievemente diverso. Dovrebbe venirci il sospetto che se due mondi sono collegati da una tale permutazione, essi non rappresentano due possibilità distinte. Ma in secondo luogo, questa invarianza alla permutazione non è una base per suggerire che questo mondo, il 4-gruppo, sia stato raffigurato con ridondanza nella tabella di sopra20. 6.3. Un nuovo argomento sofistico Abbiamo usato la parola “suggerire” con una certa enfasi sopra: ogni caso deve essere esaminato separatamente. Perciò distinguiamo con molta enfasi questo tema (le simmetrie dei mondi) da quello delle simmetrie delle leggi che preservano la struttura qualitativa e puntano in modo chiaro alla struttura superflua. Ma ci sono state eccome delle proposte, tipicamente connesse al principio dell’identità degli indiscernibili di Leibniz (pii), che hanno tratto da qui conclusioni eccessivamente generali. Consideriamo il mondo w3 di prima, che consiste di due mani che sono l’una l’immagine riflessa dell’altra. Quel mondo rimane inalterato se riflesso rispetto al proprio piano centrale – concludiamo quindi che contiene una mano sola! Il mondo di Black21, 20 Cfr. l’articolo di French e Rickles in (Brading e Castellani 2003). 21 Riferimento a (Black 1952). [N.d.T.]
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che consiste di due sfere identiche, fornisce l’esempio più semplice (se non il più illuminante). Perché non concludere che questo mondo, in effetti, contiene soltanto una singola sfera descritta in modo ridondante, come nel solito duo della stella della sera e della stella del mattino22? Questi argomenti sono sofistici, sfruttando una versione insostenibile di pii. Senza dubbio, ci sono casi in cui una teoria ha modelli distinti collegati da una simmetria delle sue leggi che preserva la struttura qualitativa e non può rappresentare possibilità distinte. Che questo succeda in un caso specifico può essere suggerito dal fatto che questa simmetria ha alcuni mondi come punti fissi. Ma qui, in questo sofisma, l’inferenza va nella direzione opposta: verso la conclusione che sono questi punti fissi ad avere struttura superflua in sé stessi e quindi sono articoli superflui nello spazio delle possibilità fisiche della teoria! Gli esempi delle sfere e delle mani dovrebbero illustrare già perché questo è un sofisma23. Se così non è, è perché in tali casi fantasiosi il costo di negare le possibilità che ci sembrano ovvie non sembra troppo alto. Ma, prima di tutto, gli altri esempi che abbiamo portato dovrebbero chiarire qual è il prezzo di una tale operazione, e, in secondo luogo, possiamo sempre presentare la questione in modo più astratto24. Supponiamo che, per una certa relazione binaria R in un dato mondo sia vero che: Ci sono oggetti x e y tali che Rxy e non Rxx. In quel caso, il mondo contiene almeno due oggetti. Arriviamo a questa conclusione senza bisogno di pensare a cosa d’altro potrebbe essere vero in questo mondo e di conseguenza senza considerare se gli oggetti in esame siano differenziati in un qualunque modo che possiamo descrivere. Questo semplice punto refuta tante versioni ingenue di pii. Ci sono versioni più sofisticate che non cadono tanto facilmente, ma non le riterremo sacrosante se non sono tautologiche25. Il punto principale è ben illustrato anche da un esempio citato da Belot nella sua discussione in merito a se possiamo identificare gli indiscernibili 22 Uno di noi due (al meglio della carità ermeneutica) è arrivato fin troppo vicino a essere convinto da questa linea argomentativa; cfr. (van Fraassen 1985, pp. 63-65). 23 Cfr. (van Fraassen 1991, pp. 454-456 e 459-465). 24 Cfr. ibidem, (ultimo paragrafo della sezione 3.2). 25 Per una discussione approfondita di questo tema, piena di distinzioni accuratamente particolareggiate, cfr. l’articolo di Saunders in (Brading e Castellani 2003).
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nei modelli di una teoria. Il modo logico in cui procedere sarebbe ridurre ogni mondo modulo la relazione di indiscernibilità: Risultato: ogniqualvolta abbiamo una struttura che ammette delle simmetrie non banali, possiamo trascurarle costruendo una struttura quoziente… (Belot 2001, p. 60)
L’esempio che ferma in partenza questo suggerimento (suggerito a Belot da Kit Fine) è abbastanza semplice (ibidem): Consideriamo due strutture per un dato insieme numerabile di oggetti; in una struttura a quell’insieme di oggetti è dato un ordinamento isomorfo agli interi, nell’altra un ordine isomorfo ai razionali. Il quoziente di ciascuna struttura è semplicemente: un singolo oggetto, in relazione con sé stesso.
Belot fa notare che è “necessario esaminare la relazione tra una struttura e il suo quoziente caso per caso” (ibidem). Piuttosto deludente, se speravamo in un metodo generale per eliminare completamente la presunta struttura superflua26! Ci accorgiamo ora, tuttavia, che genere di distinzione cruciale tende a essere ignorata in questo campo. Le simmetrie dei mondi – di strutture singole che dovrebbero rappresentare la natura – possono al massimo dare suggerimenti o indizi sulla possibile struttura superflua nella teoria. Di certo non possono implicarla – il mondo potrebbe dopotutto essere simmetrico in tutti i modi che vuole! Quindi, una teoria deve poter avere modelli che hanno qualsiasi tipo di simmetria concepibile. Non la simmetria di un determinato mondo, ma la simmetria delle leggi che preservano la struttura qualitativa può rivelare la struttura superflua.
26 Cosa da cui Belot (comunicazione privata) prende le distanze: “Dopo tutte queste restrizioni vi potreste chiedere: qual è veramente l’ambizione del mio articolo? È molto modesta: far notare che in filosofia della fisica avremo sempre a disposizione un trucco che permette di passare dalla formulazione di una teoria che ammette le simmetrie a una formulazione affine che non lo fa; e iniziare una prima valutazione dei meriti e demeriti interpretativi di compiere una tale mossa in alcuni casi classici”. Anche questo progetto modesto, tuttavia, non può andare avanti senza una distinzione tra le simmetrie che sono e le simmetrie che non sono candidate alla reinterpretazione. Le trasformazioni che non preservano la struttura qualitativa, le trasformazioni che mappano i mondi distinguibili osservativamente l’uno sull’altro, anche se sono simmetrie delle leggi, non sono candidati per la reinterpretazione.
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7. Il contesto teorico generale I formalismi con poca struttura superflua sono buona cosa, certo, perché essi riflettono in maniera pulita la struttura di ciò che rappresentano; offrono meno appigli extramatematici alle strutture mentali che proiettiamo sui fenomeni. Ma vogliamo concludere questa discussione generale della struttura teorica con una riflessione sulla struttura del teorizzare. I metodi per rimuovere la struttura in eccesso sono molto più di semplici procedure di ripulitura. Non sono qualcosa di meramente successivo al costruirsi delle nostre rappresentazioni, come se si trattasse di un ritrattista che cancella i segni a matita o uno scultore che rimuove l’argilla in più. I metodi per rimuovere la struttura in eccesso sono il cuore del teorizzare; capiamo com’è il mondo andando a vedere che tipo di rappresentazioni supporta. Partiamo a teorizzare, cioè, con le rappresentazioni e ci facciamo strada, come in una triangolazione, per così dire, verso la comprensione del carattere intrinseco del loro oggetto comune. La costruzione di una teoria è un processo a due stadi. Il primo è generare un insieme di modelli abbastanza ricco da incorporare i fenomeni, il secondo è tentare di semplificare quei modelli esibendo ed eliminando la struttura in eccesso. Continuando in questo modo, snelliamo la struttura dei modelli, facendo anche attenzione a non compromettere la loro capacità di incorporare i fenomeni. Rifiutiamo una classe per intero, solo se troviamo un insieme di modelli più semplice27. Queste procedure inverse per identificare la struttura superflua sono indispensabili e, tra queste, l’identificazione delle simmetrie delle leggi che preservano la struttura qualitativa è fondamentale. Se interpretiamo tali trasformazioni come banali, prosciughiamo della loro significatività le strutture che distinguono le rappresentazioni collegate, dandoci modelli più semplici senza sacrificare niente dell’aspetto empirico28. Questa concezione a due stadi del teorizzare è illustrata da molteplici esempi storici. Un esempio comune è lo sviluppo della meccanica quantistica29. All’inizio, ci colpiscono le differenze tra la meccanica ondulatoria 27 O un insieme di modelli che sono chiaramente più semplici della nostra stima in buona fede del potenziale di semplificazione dei modelli che abbiamo. 28 Certo, il rovescio della medaglia è che quanto più grande è l’insieme delle simmetrie geometriche delle leggi di una teoria, tanto meno struttura spaziotemporale dinamicamente significativa riconosce. 29 Qui saremo sbrigativi; vedi p.es. la trattazione di Otávio Bueno di questo sviluppo nel contesto del valore euristico del teorizzare guidato dalla simmetria. Cfr. (Bueno 2001).
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di Schrödinger e la meccanica delle matrici di Heisenberg. Una prima semplificazione la dobbiamo alle ricerche di von Neumann sulla struttura dello spazio di Hilbert condivisa, una seconda a Weyl e all’ancora più basilare struttura di gruppo dietro l’algebra delle osservabili30. Una guida all’identificazione della struttura superflua, tuttavia, non è una ricetta per formulare una bella teoria che non abbia niente di superfluo, cioè una descrizione intrinseca e locale del mondo che ha tutte le proprietà che vorremmo avesse una teoria. Servano a illustrare questo punto tutti i problemi che sono associati all’interpretazione della simmetria di gauge. Consideriamo, ad esempio, le teorie di Yang-Mills: abbiamo simmetrie locali delle fasi generalizzate associate con le funzioni d’onda dei campi di materia, che mostrano tutti i segni formali della presenza di struttura superflua, ma non possiamo semplicemente asportare le strutture problematiche senza rendere la teoria non-locale. Sembra che abbiamo bisogno di qualcosa nella regione di spazio occupata dai potenziali di gauge per spiegare effetti come l’effetto Aharanov-Bohm31 in maniera locale.
8. Conclusione Abbiamo esplorato il problema di come le simmetrie funzionano, in fisica, da guide alla presenza di struttura superflua. La lezione filosofica che possiamo imparare da questo è un approfondimento di quello che è emerso come il tratto caratteristico della fisica moderna. Le ontologie delle nostre teorie più fondamentali non sono guidate dall’intuizione fisica; non sono informate da pregiudizi filosofici ma, al massimo, dall’ideale di una qualche semplicità formale. La storia della fisica moderna è stata (adattando una frase da un libro di Barbour uscito di recente32) “uno sforzo lungo e sostenuto di fare a meno di concetti ridondanti” e le simmetrie del giusto tipo, del tipo di cui abbiamo parlato, possono essere segnalatori di ridondanza. (Traduzione dall’inglese di Luca Cabassa, Matteo Caparrini e Mattia Galeotti)
30 Cfr. (Bub 1981) 31 Redhead e Nounou in (Brading e Castellani 2003) danno conto delle alternative. 32 Cfr. Barbour (1999). Barbour applica la frase non alla fisica, ma al libro stesso.
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Riferimenti bibliografici Barbour, J. 1999 The End of Time: The Next Revolution in Our Understanding of the Universe, Weidenfeld & Nicholson, London. Belot, G. 2001 The Principle of Sufficient Reason, in “Journal of Philosophy”, 98, pp. 55-74. Black, M. 1952 The Identity of Indiscernibles, in “Mind”, 61, pp. 153-164. Brading, K. e Castellani, E. (a cura di) 2003 Symmetries in Physics: Philosophical Reflections, Cambridge University Press, Cambridge-New York. Bub, J. 1981 Hidden variables and quantum logic – a skeptical review, in “Erkenntnis”, 16, pp. 275-93. Bueno, O. 2001 Weyl and von Neumann: Symmetry, Group Theory, and Quantum Mechanics, [preprint] . Glymour, C. 1980 Theory and Evidence, Princeton University Press, Princeton. Huggett, N. 1999 Atomic metaphysics, in “Journal of Philosophy”, 96, pp. 5-24. Jammer, M. 1961 Concepts of Mass in Classical and Modern Physics, Harvard University Press, Cambridge, MA. Lewis, D. K. 1983 New work for a theory of universals, in “Australasian Journal of Philosophy”, 61, pp. 343-377. Mermin, D. 1998 What is quantum mechanics trying to tell us?, in “American Journal of Physics”, 66, pp. 753-767. Poincaré, H. 2003 La scienza e l’ipotesi, Bompiani, Milano.
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Russell, B. 1897 An Essay on the Foundations of Geometry, Cambridge University Press, Cambridge. Rynasciewicz, R. 2001 Definition, convention, and simultaneity: Malament’s result and its alleged refutation by Sarkar and Stachel, in “Philosophy of Science”, 68, pp. S345-57. Sneed, J. 1971 The Logical Structure of Mathematical Physics, Reidel, Boston. Van Fraassen, B. C. 1985 An Introduction to the Philosophy of Time and Space, seconda edizione, Columbia University Press, New York. 1991 Quantum Mechanics: An Empiricist View, Oxford University Press, Oxford. Weyl, H. 1952 Symmetry, Princeton University Press, Princeton; tr. it. di G. Lopez, La simmetria, Feltrinelli, Milano 1962.
Commento introduttivo a Materia inerte contro materia vivente: criticità estesa, geometria del tempo, anti-entropia – una panoramica di Giuseppe Longo e Mäel Montévil Luca Cabassa e Mattia Galeotti Non può esistere un impero dentro un altro impero, altrimenti non c’è più nessun impero né come contenente né come contenuto. Quel che rimane è una filosofia dell’impero, quella cioè che rifiuta la ripartizione, l’imperialismo. L’imperialismo dei fisici o dei chimici è quindi perfettamente logico: esso spinge fino in fondo l’espansione della logica, ossia la logica dell’espansione. Non si può difendere l’originalità del fenomeno biologico, e di conseguenza l’originalità della biologia, delimitando, entro il terreno della fisica e della chimica, entro un mondo d’inerzia o di movimenti determinati dall’esterno, delle isole di indeterminazione, delle zone di dissidenza, dei focolai d’eresia. Se l’originalità del biologo va rivendicata, deve trattarsi dell’originalità di un dominio sull’intero dell’esperienza e non su degli isolotti nell’esperienza. Paradossalmente, il vitalismo classico peccherebbe, in definitiva, soltanto di eccessiva modestia, della paura a universalizzare la sua concezione dell’esperienza. Canguilhem 1976, p. 141
Giuseppe Longo è un matematico specializzato in logica e computabilità e un epistemologo. Dopo essersi dedicato principalmente alla Logica matematica e alle sue applicazioni in campo informatico (cfr. Asperti e Longo 1991), Longo ha spostato i propri interessi sul rapporto tra matematica e scienze naturali, in particolare sulla biologia evolutiva e dell’organismo. I suoi lavori, tra cui segnaliamo la collaborazione con il fisico Francis Bailly (Bailly e Longo 2006), si pongono come obiettivo l’elaborazione, all’interfaccia continua tra matematica, fisica e biologia, di nuovi principi di intelligibilità nelle scienze del vivente.
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Maël Montévil è un biologo teorico che lavora all’intersezione tra biologia sperimentale, matematica e filosofia. Le sue ricerche si concentrano, da una parte, sulla nozione di storicità biologica e sulle sue implicazioni per la teoria e la modellizzazione; dall’altra, sui perturbatori endocrini e, più in generale, le perturbazioni della vita nell’Antropocene. È autore, con Giuseppe Longo, di una monografia sulla teorie dell’organismo (Longo e Montévil 2014). Per inquadrare il lavoro di Longo e Montévil – ma anche quello svolto da Longo con Bailly, a cui questo testo è collegato in modo diretto – bisogna cominciare sgombrando il campo da un primo possibile fraintendimento: non si tratta qui di dare una definizione dei fenomeni vitali, non esiste cioè un’idea platonica della vita che possa essere afferrata con la stabilità e l’invarianza concettuale massimale proprie delle nozioni matematiche, come lo è per esempio la definizione o l’idea di triangolo. Fin dall’incipit di questo lavoro, gli autori introducono piuttosto delle nozioni operative, cioè degli strumenti concettuali che rendono possibile un approccio sistemico alla biologia. L’impossibilità di conseguire una definizione essenziale degli oggetti di studio non è di certo una prerogativa della biologia; se ad es. pensiamo alla fisica moderna, i concetti fondamentali quali materia o energia possiedono una definizione solo in termini di contrapposizione e relazione tra grandezze. Nel campo fisico-matematico, l’impostazione assiomatica svolge una duplice funzione: da una parte esplicita le relazioni tra le grandezze in gioco, dall’altra rende intelligibili gli stessi gesti empirici di misura. Come già rilevato nel lavoro di Ismael e van Fraassen in questa sezione, le nozioni operative in fisica e in matematica rispondono a criteri di non-ridondanza e di necessità teorica; rileviamo un carattere specifico nel cammino della fisica moderna, ossia la sostituzione del concetto di essenza con quello di invariante individuato mediante l’uso di simmetrie. Rinunciare a una definizione della vita non è una novità in biologia teorica: i lavori di Longo, Montévil, Bailly – ma dovremmo estendere l’elenco includendo scienziati affini quali Soto, Sonnenschein, Noble, Mossio – si inseriscono all’interno di una riattivazione del pensiero di Darwin lontano da qualsivoglia lettura dogmatica neodarwiniana. Le ricerche di Edelman, Eldredge, Gould, Lewontin, Rosen, Vrba, West-Eberhard, centrali nel campo evoluzionistico contemporaneo e nei lavori dei nostri autori, rendono evidente le esigenze a cui deve rispondere una teoria biologica, prima fra tutte “il fatto che ogni costituzione è contingente, è cioè risultato di una storia – sia la costituzione (evoluzione) della vita che la nostra comprensione storica di essa”. L’operazione portata avanti dai nostri autori, però, risente di un’ulteriore tradizione, quella dell’importazione di concetti e strumenti di intelligibilità
Commento introduttivo a Materia inerte… di Giuseppe Longo e Mäel Montévil
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tipiche della fisica-matematica in campo biologico. La novità, in questo caso, consiste nell’operazione di discriminazione condotta sui lavori di D’Arcy Thompson, Turing, Thom, Goodwin e Petitot: la comprensione di come un essere vivente cambi forma e funzioni deve sì riferirsi ai concetti sviluppati in fisica, ma non deve forzare l’analogia al punto da annullare le specifiche fenomenalità della biologia. In questo caso, una delle principali difficoltà concettuali e tecniche è l’instabilità delle simmetrie coinvolte. Fatte le dovute precisazioni sul contesto in cui inquadrare il lavoro di Longo e Montévil, proponiamo dunque ad alcuni suggerimenti di lettura del testo che segue. Innanzitutto, possiamo rinvenire una serie di indicazioni metodologiche che esplicitano, in maniera piuttosto generale, le specificità di una teoria del vivente. La prima indicazione operativa viene dalla distinzione tra imitazione e modello dei fenomeni viventi. Si può parlare di questa distinzione qualora sussistano almeno due visioni metafisiche di una situazione tra loro compresenti: un fenomeno sarà modellizzato se la visione entro cui ci troviamo è capace di rendere intelligibile il suo svolgimento, di tracciare un sistema soddisfacente delle sue cause sostanziali; invece, sarà imitato se la nostra visione è capace di prevedere l’evoluzione di alcune sue caratteristiche salienti senza far riferimento ad alcun meccanismo causale specifico del fenomeno stesso. “In breve, il modello cerca di cogliere, attraverso la descrizione matematica, ciò che conta in una dinamica, ciò che la rende intelligibile (ad esempio, il gioco delle forze nella morfogenesi: azione, reazione, diffusione); l’imitazione, invece, mira a ‘far credere’ che l’una sia l’altra, senza alcun impegno verso l’intelligibilità del fenomeno” (Longo 2021, p. 14). La seconda indicazione proposta riguarda la necessità di un approccio storico. Il dispiegamento, sia filogenetico che ontogenetico, delle forme di vita, – così come i nostri tentativi di comprenderlo – si svolge “su un’evoluzione materiale (meglio ancora: su una delle possibili evoluzioni, che ha luogo su questa Terra, in questi ecosistemi e con questa materia fisica e storia)”. Si tratta quindi di un posizionamento di assoluta contingenza, ancora una volta controcorrente rispetto a un principio operativo del fisicalismo: l’a-temporalità delle leggi dell’inerte viene rimpiazzata dalla storicità del vivente, e anzi la prima si mostra come passaggio al limite della seconda nel momento in cui ogni carattere individuato come contingente viene annullato. Infine, l’ultima indicazione pertiene alla specificità del gesto teorico. Il passaggio dalle teorie dell’inerte alle teorie della materia vivente infatti non riguarda la ricerca dei modi in cui “la vita possa essere emersa dall’i-
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nerte”, ma piuttosto il modo in cui una teoria del vivente possa svilupparsi in quanto estensione di una teoria dell’inerte, facendo apparire la seconda come una specificazione singolare della prima. Si verrebbe così a ribaltare la concezione della fisica-matematica come concettualizzazione dei principi primi da cui i fenomeni biologici emergerebbero attraverso un banale processo di sgranatura del punto d’osservazione. Ovviamente, la postura ideologica di una fisica che discende in modo unitario da certi principi primi è contraddetta dalla compresenza di diverse teorie fisiche che mantengono tra loro incompatibilità significative, di cui citiamo come esempio l’inconciliabilità tra relatività e fisica quantistica. La prospettiva unitaria è da intendere a sua volta come una nozione operativa: in fisica l’unità non è un dato, ma il traguardo di diverse teorizzazioni che hanno permesso l’unificazione di alcune visioni attraverso la creazione di nuovi principi di costruzione concettuale. L’attenzione alla compresenza di visioni metafisiche distinte diviene quindi un requisito necessario nello spazio teorico delle scienze del vivente. Seguendo l’esposizione di Longo e Montévil, questa attenzione epistemologica si rende necessaria in particolare nell’utilizzo di strumenti o proprietà che sono caratteristiche della fisica-matematica, come l’entropia, la chiralità, le criticità, la misura, la frattalità, (e altre dettagliate nella sezione 2.1). Nello studio del vivente questi concetti non sono utilizzati “in quanto tali”, ma forniscono un “punto di partenza per le riflessioni sui fenomeni della vita”. In altre parole, non si tratta di verificare la coerenza su ogni livello formale nell’utilizzo di questi strumenti concettuali – impresa che sarebbe senza dubbio destinata all’insuccesso –, quanto piuttosto di utilizzarli per aprire possibilità diagrammatiche, in grado di rispondere ai problemi contingenti dello studio dei contesti biologici. Alla luce di queste indicazioni metodologiche, le tre nozioni che compaiono nel sottotitolo assumono un’importanza fondamentale poiché mostrano operativamente cosa significa introdurre nuove grandezze osservabili compatibili con le oggettivazioni delle teorie fisiche, ma irriducibili ad esse. Ad esempio, se consideriamo la nozione di transizione critica, ci accorgiamo immediatamente della distinzione tra un suo uso “in quanto tale” derivato dalla teorizzazione fisica, e un uso strumentale all’intelligibilità di alcuni elementi specifici nel nuovo ambito disciplinare, elementi che hanno motivato in primis il trasferimento del concetto al di fuori dell’ambito fisico. In fisica la criticità è un cambiamento di regime dinamico che determina la formazione di nuove “strutture coerenti”, e viene descritta attraverso una transizione di parametri che è puntuale e di solito reversibile. Ma nello studio del vivente, ci ricordano gli autori, siamo interessa-
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ti a uno stato irreversibile e perdurante di criticità, “fino alla morte”. La transizione è quindi “ininterrotta”, lo sviluppo nel tempo dell’organismo produce e mantiene nuove “strutture di coerenza”, e proprio l’estensione su intervalli parametrici non puntuali permette di specificare nel nostro quadro teorico la condizione contingente (risultato di una storia) e persistente di ogni organismo. “L’idea chiave è che tutte le usuali proprietà delle transizioni di fase critiche sono conservate […]. Tuttavia, mentre in fisica, queste si applicano solo in un punto topologicamente isolato […], noi riteniamo che la ‘transizione’ debba essere definita su un intervallo non banale”. Quest’approccio incontra grandi difficoltà concettuali e tecniche a causa dell’instabilità delle simmetrie coinvolte. Il problema principale consiste in come oggettivarle, dato che, in contraddizione con le situazioni fisiche, tali simmetrie non sembrano essere teoricamente determinate in maniera tale da appartenere ad un insieme specifico e pre-dato – questione profondamente legata all’instabilità dello spazio delle fasi, la cui conservazione è la fondamentale simmetria delle teorie fisiche. Il concetto di anti-entropia quantifica la complessità di un organismo, o meglio “la sua facoltà di essere descrivibile tramite diversi livelli di organizzazione”. Questa grandezza non è da intendere come una semplice entropia negativa, anche se risulta avere la stessa unità di misura e valore assoluto negativo. Tramite l’anti-entropia si potranno misurare diverse tipologie di complessità: dalla complessità combinatoria, a quella morfologica o funzionale; quindi in generale la misura dell’anti-entropia quantifica la possibilità di organizzazione, senza una specificazione del processo organizzativo. Si tratta di una grandezza aggiuntiva all’entropia (positiva) dell’organismo: la loro compresenza permette di soddisfare i principi fondamentali di esistenza e mantenimento dell’anti-entropia, che divengono così due caratteristiche centrali della fase critica estesa in cui si trova ogni organismo vivente. Delimitando un termine di anti-entropia che è comparabile ma non componibile con l’entropia positiva, si rende conto della capacità di un organismo vivente di organizzarsi, mantenere i suoi livelli organizzativi e non contraddire la crescita entropica globale. Quando l’anti-entropia è nulla, il sistema acquisisce le caratteristiche dei sistemi fisici classicamente intesi, e la descrizione fisica dei processi in questo senso risulta essere un funzionamento singolare dei processi viventi, in cui il livello di ridondanza predisposta alla ricezione di nuova complessità, viene ad annullarsi. Questa maniera di intendere il rapporto tra fisica e biologia si sposa in modo coerente con la descrizione di Ismael e Van Fraassen del teorizzare fisico. Per questi ultimi, infatti, la fisica risponde all’esigenza di individua-
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re le caratteristiche intrinseche degli oggetti di studio tramite la sfrondatura degli elementi ridondanti delle loro rappresentazioni: si tratta dunque di eliminare nelle rappresentazioni tutti quegli elementi eccedenti rispetto a ciò che è strettamente necessario 1) alla verifica delle leggi fondamentali della teoria, e 2) all’individuazione delle caratteristiche qualitative del sistema considerato. La ricerca di una rappresentazione minimale diviene quindi una direttrice estetica che condiziona l’intero regime discorsivo delle teorie fisiche. Invece, nel lavoro di Longo e Montévil, con l’idea di antientropia la ridondanza diviene una vera e propria nozione operativa che rende trattabile in termini proto-formali quell’eccedenza che nel panorama fisico doveva essere epurata. Tramite la nozione di anti-entropia la costituzione di diversi livelli organizzativi diviene trattabile in modo sistematico all’interno di ogni studio del vivente. Se con le nozioni operative di transizione critica estesa e di organizzazione biologica/anti-entropia la direzione della trasgressione categoriale tra fisica e biologia è chiaramente sbilanciata dal punto di vista della fisica, l’ultima nozione operativa esaminata nel testo, quella di tempo proprio del vivente, è chiaramente sbilanciata verso la biologia. Il tempo, tradizionalmente, è stato considerato un parametro delle traiettorie nello spazio delle fasi e, nonostante la molteplicità delle teorie in cui compare, la sua rappresentazione formale è stata sempre associata a una linea esprimibile mediante numeri reali. L’analisi del vivente operata dal punto di vista della transizione critica estesa, tuttavia, necessita di render conto della cascata di cambiamenti di simmetria che hanno luogo e che mantengono lo stato della materia non inerte. Il tempus absolutum di Newton, o anche il suo equivalente relativistico che scorre incessantemente rispetto alle equazioni di Lorentz, non è sufficiente. Il tempo del vivente deve essere rappresentato mediante nuove caratterizzazioni che combinino il cerchio e la spirale. E con “tempo del vivente” non si deve intendere solo il tempo ritmico – quello che può essere associato ai diversi ritmi che scandiscono il fluire della vita, siano essi esterni (tipicamente circadiani) o interni (metabolismo, respirazione, cardiaci) –, ma anche quello che potremmo definire kairos, il tempo opportuno in cui vari cicli si combinano in una situazione unica, singolare, o raramente ripetibile. Per concludere, proponiamo alcune considerazioni su un aspetto generale delle ricerche di Longo e Montévil. Come già detto, le teorie scientifiche possono essere incompatibili, ma corrette ed affidabili nel loro proprio ambito (ad es., la relatività generale in macrofisica e la meccanica quantistica in microfisica); in questi casi, l’unità teorica non è data, la contraddizione non viene superata, anzi, persiste senza risolversi dialetticamente. L’in-
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compatibilità e l’impossibilità della sintesi teorica devono essere comprese, per ciò che ci preme rilevare, alla luce della citazione di Canguilhem posta in esergo. In quest’ottica, il lavoro di Longo e Montévil (così come quello di Bailly) persegue l’universalizzazione del dominio del biologico sull’intero dell’esperienza, evitando generalizzazioni mistificanti e cadute nell’indeterminatezza. L’obiettivo è prendere posizione per l’autonomia teorica del vivente, consapevoli della ricchezza concettuale sviluppata dalle teorie fisiche, ma refrattari ad ogni paradigma orientato necessariamente alla riduzione o all’unificazione. La coesistenza di multiple rigorose prospettive di intelligibilità è un dato obiettivo che smentisce la necessità di una teoria del Tutto. Che significato epistemologico ha questa presa di posizione all’interno di un campo teorico? Principalmente uno, ossia che – contrariamente a una visione classica secondo cui la conoscenza del mondo consiste in un rispecchiamento del mondo in una mente – la conoscenza consiste nella selezione del perimetro della situazione che attraversiamo a partire dalle salienze che ci hanno stimolato. Dove non c’è una presa di posizione contingente, non si dà conoscenza. Nel gesto di taglio si dà la possibilità di nuovi gesti e quindi di nuovi saperi. Riferimenti bibliografici Nelle pagine web personali degli autori, oltre a numerose indicazioni bibliografiche in costante aggiornamento, è possibile scaricare gran parte degli articoli. Giuseppe Longo: . Mäel Montévil: . Bailly, F. e Longo, G. 2006 Mathématiques et sciences de la nature. La singularité physique du vivant, Hermann, Paris. Canguilhem, G. 1976 La conoscenza della vita, Il Mulino, Bologna. Longo, G. 2021 Matematica e senso, per non divenir macchine, Mimesis, Milano. Longo, G. e Montévil, M. 2014 Perspectives on Organisms: Biological Time, Symmetries and Singularities, Springer, Berlin.
Giuseppe Longo, Mäel Montévil
MATERIA INERTE CONTRO MATERIA VIVENTE: CRITICITÀ ESTESA, GEOMETRIA DEL TEMPO, ANTI-ENTROPIA – UNA PANORAMICA
La singolarità fisica dei fenomeni del vivente sarà analizzata attraverso il confronto con alcuni concetti guida delle teorie dell’inerte. Evidenzieremo analogie concettuali, trasferimenti di metodologie e di strumenti teorici tra la fisica e la biologia, oltre ad indicare significative differenze e talvolta dualità logiche. Al fine di rendere le fenomenalità biologiche intelligibili, introdurremo estensioni teoriche di alcune teorie fisiche. In quest’articolo di sintesi dunque riassumeremo e proporremo un quadro concettuale unificato per le principali conclusioni ricavate da un lavoro che abbraccia un libro e numerosi articoli, citati nel corso della trattazione1. 1. Una definizione di vita? Nel corso dell’antichissimo dibattito tra fisicalismo e vitalismo, si è spesso trattato di definire cos’è il fenomeno della vita. Un piccolo ma notevole libro di Schrödinger (Che cos’è la vita?) ha contribuito a ravvivare il dibattito in un modo che riteniamo rilevante, almeno nella sua seconda parte, e al quale ci riferiremo nella sezione 3.2. Per il momento, precisiamo come affronteremo la questione: Primo Una definizione “ideale” dei fenomeni vitali sembra fuori questione: non esiste un’idea platonica della vita che possa essere afferrata in maniera definita o con la stabilità e l’invarianza concettuale massimale proprie delle nozioni matematiche (come lo è la definizione o l’idea del triangolo…). Si tratta piuttosto di definire alcune nozioni operative che permettano di elaborare concetti con i quali lavorare per un approccio sistemico in biologia. Inoltre, la fisica non definisce la “materia” se non per 1
Un’attività che deve moltissimo alle collaborazioni con Francis Bailly, deceduto nel 2009.
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mezzo di una dualità o contrapposizione operativa (rispetto al concetto di energia o a quello di vuoto o di anti-materia, per esempio). Un’ulteriore “impossibilità dimostrabile di definire l’oggetto di studio”, estremamente rigorosa, verrà presentata in appendice. Si noti che l’approccio di Darwin all’evoluzione non utilizza né ha bisogno di una definizione della vita, ma ha bisogno di porre i principi di una storia degli organismi, ovvero dell’evoluzione. Secondo Ogni tentativo operativo, a nostro avviso, deve essere fatto con riguardo alla specifica fenomenalità dei fenomeni vitali: ad esempio, è possibile che per qualsiasi lista finita scelta di proprietà “definitorie” della vita, esista un informatico sufficientemente talentuoso in grado di crearne la corrispondente immagine virtuale in maniera da restituirla sullo schermo di un computer (è abbastanza semplice programmare un sistema “autopoietico” (Varela et al. 1974; Varela 1989) o un ciclo metabolico formalizzato alla maniera di (Rosen 1991) – cfr. Mossio et al. 2009, per esempio). Tuttavia, non solo ogni essere umano, ma anche il più semplice degli animali lo riconoscerebbe come una serie di “immagini virtuali” non viventi (tipicamente rilevabili attraverso iterazione identica, come indirettamente suggerito dal gioco dell’imitazione di Turing – vedi (Longo 2021), in particolare la “lettera Turing” in appendice di quel libro. Si tratta piuttosto di proporre un’intelligibilità possibilmente robusta di una fenomenalità nella sua propria storia costitutiva, tenendo presente il fatto che ogni costituzione è contingente, è cioè risultato di una storia – sia la costituzione (evoluzione) della vita che la nostra comprensione storica di essa. Detto altrimenti, la vita ed i nostri modesti tentativi di afferrarla si dispiegano su un’evoluzione materiale (meglio ancora: su una delle possibili evoluzioni, che ha luogo su questa Terra, in questi ecosistemi e con questa materia fisica e storia). Per quanto riguarda la vita, il nostro punto di vista include ciò che i biologi esprimono spesso dicendo che nulla può essere compreso in biologia se non alla luce dell’evoluzione (darwiniana e in questo mondo). Dovrebbe essere chiaro che in questa sede non discutiamo come “la vita possa essere emersa dall’inerte”, ma piuttosto esploriamo come passare dalle attuali teorie dell’inerte a una teoria del vivente sufficientemente robusta. In particolare, in questa sede accenniamo a un’analisi della singolarità fisica e della specificità dell’oggetto vivente, guardando prima alle proprietà che vorremmo avere (o non avere) in qualsiasi teoria dello “stato vivente della materia”. Si tratta infatti di un tentativo incompleto (vedi ap-
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pendice) di fornire un quadro concettuale che possa guidare analisi più specifiche. Presentiamo qui una breve sintesi, in un esplicito gioco di rimandi tra fisica e biologia, che può solo indirizzare il lettore interessato verso i lavori presentati in bibliografia. In un’appendice metodologica, prenderemo in prestito dalla logica matematica una comprensione del ruolo dell’incompletezza nei “nostri sforzi teorici verso la conoscenza” (per dirlo con le parole di H. Weyl) e della sua relazione con le “definizioni” concettuali o formali, in particolare della vita. Questo articolo è la revisione in italiano di una sintesi di numerosi anni di lavoro, sarà spesso quindi incompleto nelle evocazioni delle idee presentate. Ogni volta però i riferimenti permettono di ricostruirle con più rigore e, comunque, si rinvia al libro (Longo e Montévil 2014) per una trattazione più organica – si vedano anche (Bailly e Longo 2011) e (Soto et al. 2016). 2. Dalla fisica alla biologia attraverso estensioni teoriche e dualità concettuali Varie teorie fisiche (classica, relativistica, quantistica, termodinamica…) rendono intelligibile l’inerte in maniera notevole. Esistono incompatibilità significative (i campi relativistico e quantistico non sono unificati; sono infatti incompatibili). Tuttavia, alcuni grandi principi (di costruzione concettuale, cfr. Bailly e Longo 2011) conferiscono una grande unità alla fisica teorica contemporanea. Il principio geodetico e la sua formulazione attraverso “simmetrie” (Weyl 1952; van Fraassen 1989; Bailly e Longo 2011) permettono di cogliere, sotto una prospettiva concettualmente unitaria, una vasta area di conoscenze riguardante l’inerte. La biologia, essendo stata ad oggi meno “teorizzata” e matematizzata, può progredire nella costruzione dei propri quadri teorici anche grazie ad analogie, estensioni e differenziazioni riguardanti teorie fisiche, come pure ricorrendo a dualità concettuali. Per quanto riguarda le dualità, ne citeremo una che è, a nostro avviso, fondamentale (e ampiamente affrontata in altri lavori, Frezza e Longo 2010; Bailly e Longo 2011; Longo e Montévil 2011a): la genericità degli oggetti fisici (la loro invarianza teorica e sperimentale) e la specificità delle loro traiettorie (la loro ricostruzione per mezzo del principio geodetico) è, dualmente, invertita nella specificità (individuazione e storia) dell’oggetto vivente e nella genericità delle traiettorie (evolutive, ontogenetiche: sono solo dei “possibili” all’interno di spazi – ecosistemi – in co-costituzione).
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2.1 Aspetti fisici 2.1.1 Gli aspetti esclusivamente fisici Escludiamo dalle nostre analisi quelle proprietà che provengono dalla fisica (dove risultano spesso essenziali), ma il cui trasferimento in biologia è, dal nostro punto di vista, fuorviante: 1. La genericità degli oggetti (l’invarianza teorica e sperimentale degli oggetti fisici – o simmetria per sostituzione) non si applica alla biologia: l’oggetto vivente è storico e individuato; non è “intercambiabile”, in generale o con la generalità della fisica, né teoricamente né empiricamente, ci torneremo. 2. La specificità delle traiettorie (geodetiche, in fisica), dato che escludiamo la prevalenza del principio geodetico (non c’è “ottimalità”) per le dinamiche ontogenetiche ed evolutive di “individualità biologiche” – cellule, organismi, specie (che chiamiamo, sinteticamente, “bioloni”); in breve, embriogenesi, sviluppo ed evoluzione non sono traiettorie ottimali, ma possibili. 3. La stabilità del sistema di riferimento in quanto tale. Oltre che nella fisica classica, anche nella relatività generale e nei rapporti energia/geometria nello spaziotempo, le dimensioni sono fissate e non variano durante l’analisi fenomenica. Invece, lo spazio degli osservabili in biologia, dei fenotipi per esempio, che possono essere descritti anche da nuove “dimensioni”, è esso stesso soggetto a cambiamenti dinamici in un ecosistema. Usando un’analogia parzialmente informale, potremmo dire che lo “spazio delle fasi” (e lo spazio delle possibilità) dei fenomeni vitali è dinamicamente (co)costituito (Longo et al. 2012). Sempre per analogia, osserviamo che nella teoria della relatività, lo spazio-tempo è (co)costituito dalla distribuzione di energia/materia, ma in dimensioni stabili e nello spazio delle fasi pre-dato dalla teoria (“è la teoria che fissa gli osservabili ed i parametri pertinenti” dice Einstein) – mentre in (Longo et al. 2012) sosteniamo che le cose stanno diversamente nei processi biologici, in particolare nell’evoluzione. Anzi, essa è proprio data dal cambiamento dei fenotipi e dei parametri pertinenti – prima che apparisse l’emoglobina tutti i processi (e fenotipi) relativi ed i loro parametri semplicemente… non c’erano; lo stessa si dica per il volo dei vertebrati e tutti i fenotipi correlati, prima che alcuni dinosauri prendessero a volare. Come discusso in (Longo e Montévil 2011a), la genericità degli oggetti fisici e la specificità della loro traiettoria dipendono dalle simmetrie teoriche che permettono di costituirli. In biologia, la nostra ipotesi è che le
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simmetrie teoriche propriamente biologiche siano instabili. Ciò conduce ad un cambiamento dello status teoretico degli oggetti biologici rispetto alle situazioni fisiche. Discuteremo questo punto più avanti. 2.1.2 Proprietà fisiche della “transizione” verso lo stato vivente della materia In letteratura, troviamo spesso lavori notevoli riguardanti certe proprietà fisiche, a volte trasferite all’analisi dei fenomeni vitali, ma che nel seguito del testo considereremo nella loro forma esclusivamente biologica (cioè, che troviamo solo nello stato vivente della materia; per esempio, le transizioni critiche, che sono puntiformi in fisica, saranno “estese” nel nostro approccio, cfr. infra). In biologia, quindi, non consideriamo alcune delle proprietà che discuteremo “in quanto tali”, poiché esse si presentano come componenti dell’analisi dell’inerte; tuttavia forniscono un buon punto di partenza per le riflessioni sui fenomeni della vita (cfr. i riferimenti bibliografici). Per il momento, le evochiamo da una prospettiva fisica (“in quanto tali”) sottolineando che dal nostro punto di vista esse appartengono in parte al vocabolario teorico biologico ma non propriamente: 1. Criticità in quanto tale (in fisica, presente nelle transizioni di fase, come un punto matematico rispetto al parametro di controllo) (Jensen 1998; Zinn-Justin 2007); 2. Chiusura organizzativa in quanto tale (presente nella chimica fisica: micelle, vescicole, ma anche uragani, fiamme – la cui struttura è interamente organizzata secondo principi geodetici, in contrasto con gli organismi viventi, cfr. infra); 3. Plasticità passiva in quanto tale (presente nei cambiamenti di forma fisica o nei fenomeni di azione/reazione/propagazione alla maniera di Turing, per esempio Longo 2021); 4. Proprietà scalari in quanto tali (presenti in numerosi fenomeni fisici e in particolare nelle transizioni critiche, diffusione anomala, ecc.); 5. Fenomeni di crescita in quanto tali (presenti nella crescita dei cristalli, per esempio); 6. Chiralità in quanto tale (presente in fisica delle particelle o in chimica, per esempio); 7. Possibili variazioni negative dell’entropia (presenti nel passaggio dal disordine all’ordine, nelle transizioni critiche, per esempio), 8. La dimensionalità delle quantità fisiche (quasi sempre presente); 9. La misura che è intesa classicamente come imprecisione e come un risultato (tranne quando frattale);
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10. La frattalità in quanto tale di alcuni oggetti e dinamiche (presente in un certo numero di fenomeni fisici, ma anche in organi di piante e animali in quanto costretti dal loro ruolo nello scambio di energia e materia) (Weibel 1991); 11. La chimica delle macromolecole e la chimica fisica in vitro. 2.2 Aspetti biologici La materialità contingente dei fenomeni vitali include, tipicamente, la chimica fisica specifica della biologia, donde il nostro primo gruppo di proprietà: 2.2.1 Alcune proprietà “fisiche” dei fenomeni del vivente 1. Il ruolo biologico della chiralità delle molecole (amminoacidi, zuccheri) nel metabolismo; 2. Varie altre invarianze fisiche secondo il livello di organizzazione (le basi chimiche e la struttura geometrica del DNA, relativamente comuni a tutti gli oggetti viventi; le invarianti metaboliche, inclusa la relazione metabolismo/massa/durata, cfr. infra). Oltre alle proprietà fisiche di cui sopra, che si manifestano specificamente (e solo) nei fenomeni vitali, le seguenti fanno certamente parte della teorizzazione biologica: 1. Analisi in termini di substrati fisico-chimici come le reti di interazione macro-molecolare che possono essere trovate solo nelle cellule; 2. L’estensione matematica di alcune leggi fisiche che includono quantità che non appaiono come tali o in modo operativo nella fisica (per esempio, la nostra nozione di anti-entropia negli equilibri metabolici, menzionata più avanti, che estende le equazioni di equilibrio ben note in termodinamica grazie ad una nuova osservabile: l’anti-entropia, appunto (Bailly e Longo 2009). 2.2.2 Il mantenimento dell’organizzazione biologica L’organizzazione delle attività fisiologiche (le funzioni degli “orgoni” – organelli, organi, popolazioni, cfr. Bailly et al. 1993; Bailly e Longo 2011), è spesso accompagnata da una chiusura organizzativa che si compie per mezzo di: 1. Il metabolismo e le attività fisiologiche (essenziali all’integrazione e alla regolazione) che interagiscono e, di fatto, si sovrappongono;
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2. L’accoppiamento tra vari livelli di organizzazione, correlati in modo causale, sia “verso l’alto” sia “verso il basso”, in particolare attraverso l’integrazione e la regolazione, 3. La frattalità degli orgoni nelle loro funzioni fisiologiche (polmone, sistema vascolare, sistema nervoso… strutture intracellulari); 4. Le leggi di scala (l’allometria descrive la temporalità e il metabolismo in funzione della massa biologica) (Brown et al. 2002; West 2006); 5. L’importanza dei numeri puri (senza dimensioni fisiche) e della loro relativa invarianza (numero totale dei battiti cardiaci, delle respirazioni… che sono in media costanti per i mammiferi, e anche tra gruppi importanti di specie meno studiate rispetto ai ritmi interni). Cercheremo di inquadrare concettualmente queste proprietà dello stato vivente della materia per mezzo di concetti relativamente nuovi, incluso quello di transizione critica estesa nella sezione 3.1, come luogo e quadro teorico per questi fenomeni che abbiamo semplicemente enumerato sopra. 2.2.3 La relazione con l’ambiente A queste funzioni, dobbiamo aggiungere il rapporto con l’ambiente che non è solo dinamico, ma adattivo e (o perché) cognitivo (come lo sono le attività protensionali). Inoltre, la dinamica è anche situata al livello dello spazio di riferimento o, più in generale, dello “spazio delle fasi” (in quanto spazio dei parametri e osservabili rilevanti), poiché un organismo co-modifica il proprio ambiente: 1. Plasticità adattiva a tutti i livelli dell’organizzazione, nell’interazione con un ambiente; 2. Il cognitivo, presente non appena c’è vita, risiede, in particolare, nella capacità di discriminare (la densità numerabile di punti critici all’interno della zona di criticità estesa menzionata più avanti può rappresentare questa capacità discriminatoria, con passaggi discontinui (ma senza interruzioni) da un punto all’altro); 3. Il principio di compatibilità (tendenza a realizzare tutte le possibilità compatibili con i vincoli dati), che giustifica la genericità delle traiettorie evolutive e ontogenetiche; 4. La specificità dell’oggetto e, come dicevamo al punto 3, la genericità delle traiettorie (contrariamente alla fisica); 5. I cambiamenti negli spazi alle fasi, che inducono e permettono la dinamica biologica, anche nel numero di dimensioni descrittive rilevanti (ovvero, torniamo a dire: lo spazio stesso dei parametri e osservabili
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pertinenti cambia nel corso della dinamica dei fenomeni del vivente, al contrario di quelli delle teorie fisiche, diversi certo da una teoria all’altra, ma fissati una volta per tutte, una volta scelto il quadro teorico, classico, relativistico, quantistico – quest’ultimo per esempio può essere uno spazio di infinite dimensioni, detto di Hilbert, che permette di scrivere l’equazione di Schrödinger, cambiare il numero di particelle in fisica statistica, ma sempre con le stesse caratteristiche osservabili). Di nuovo, la maggior parte di questi aspetti sono legati a un’instabilità delle simmetrie teoriche biologiche, associate qui alla co-costituzione dell’oggetto biologico e dell’ambiente teoricamente rilevante e… cangiante. 2.2.4 Passaggio alle analisi dell’organismo Le transizioni critiche sono ampiamente discusse nell’analisi del passaggio, in particolare, dall’inerte al vivente (Kauffman 1993). Come tali, esse descrivono molto bene gli stati dell’inerte che sono abbastanza interessanti anche per la biologia (cfr. Binney et al. 1992; Mora e Bialek 2011). In fisica, tuttavia, le “strutture coerenti” appaiono su transizioni puntuali, e normalmente in modo reversibile. Siamo, tuttavia, di fronte ad uno stato vivente della materia quando la criticità è irreversibile e perdura (fino alla morte). Affrontiamo questi problemi considerando un organismo come se stesse in una transizione irreversibile “continua” (ininterrotta). Ogni mitosi, in un organismo multicellulare, produce una biforcazione asimmetrica e la formazione di una nuova struttura di coerenza – nuova matrice tissulare…, come componenti di una transizione critica. Nel nostro approccio, l’intervallo di criticità è quindi esteso nel tempo e in tutti i parametri di controllo rilevanti (temperatura, pressione, …), cfr. sezione 3.1. L’idea chiave è che tutte le usuali proprietà delle transizioni di fase critiche sono conservate (la formazione di strutture di coerenza, lunghezze di correlazione divergenti, cambiamenti di simmetria…). Tuttavia, mentre in fisica, queste si applicano solo in un punto topologicamente isolato (almeno questa è la rappresentazione matematica, in cui si applicano i metodi di rinormalizzazione, cfr. sezione 3.1), noi riteniamo che la “transizione” debba essere definita su un intervallo non banale. Questo avviene quando i ritmi (punto 1 infra e sezione 3.3), l’attività protensionale (punto 2 e 3.3) e l’organizzazione, in quanto anti-entropia (punto 3 e 4, cfr. anche 3.2), si manifestano assieme. Possiamo allora concepire (ma questa discussione non è il nostro scopo, in questa sede) che, all’origine della criticità estesa della vita, ci possano essere state particolari transizioni critiche della materia inerte, una transizione globale che all’improvviso ha sovrapposto tutte quelle di cui ci stiamo occupando. Tutte queste possono essere descritte come “biforcazioni” concet-
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tuali e materiali, con i loro correlati organizzativi: estensione della criticità a un intervallo, attraverso la formazione di membrane stabilizzatrici e di differenti livelli di organizzazione (come l’anti-entropia), biforcazione della dimensione temporale (ritmi autonomi). Tuttavia, la criticità estesa è un fenomeno continuativo per tutta la vita, ben oltre la sua origine. I cinque punti che seguono saranno al centro della sintesi di questo testo (e sono descritti in dettaglio negli articoli inclusi nei riferimenti). Proponiamo quindi di organizzare queste “biforcazioni”, che segnano il passaggio (concettuale) da uno stato dell’inerte allo stato vivente, come una costituzione di: 1. La seconda dimensione temporale, il tempo compattificato dei ritmi biologici, ovvero l’aggiunta di una dimensione temporale sotto forma di un cerchio2, compattificazione della retta temporale infinita: une spirale che si avvolge lungo il cilindro così generato rappresenta geometricamente i ritmi biologici – cardiaci, respiratori, metabolici… (Bailly et al 2011; Longo e Montévil 2014); 2. La protensione, come “gesto proattivo” nell’interazione con l’ecosistema, presente anche nelle forme di vita più semplici; 3. L’anti-entropia, come la costituzione e il mantenimento dell’organizzazione (che si oppone alla disorganizzazione – in particolare all’entropia prodotta da tutti i processi irreversibili); 4. La distinzione in numerosi livelli di organizzazione, al centro dell’attività di integrazione e di regolazione di ogni unità vivente (che possono essere concettualmente unificati come orgoni – organelli, organi, popolazioni – e bioloni – cellule, organismi, specie). 5. Un’instabilità delle simmetrie teoriche degli oggetti, che può essere vista come una cascata di cambiamenti di simmetria, nel tempo, e che conduce alla variabilità – da intendersi nel senso forte di cambiamenti nelle simmetrie teoriche – con questo facciamo riferimento al ruolo delle simmetrie in fisica: i grandi principi di conservazione (energia, quantità di moto…) sono “simmetrie” nelle equazioni che li esprimono (Bailly e Longo 2011). La prima e fondamentale instabilità di simmetrie è il primo 2
In fisica, viene chiamata compattificazione di uno spazio M la costruzione di uno spazio prodotto MxC, munito della proiezione naturale MxC→M, dove lo spazio C è compatto (e d’abitudine ha anche misura finita). Si dice in questo caso che MxC è compattificato sullo spazio C. Nel caso in esempio, M è lo spazio-tempo usuale dei fenomeni, mentre C corrisponde a una dimensione temporale ciclica modellizzata da un cerchio. Questa nozione di compattificazione non va confusa con la nozione topologica di compattificazione di una varietà geometrica X, che corrisponde all’immersione densa di X in una varietà compatta Y. [N.d.T.]
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principio dell’eredità di Darwin: “riproduzione con variazione”, ovvero ad ogni riproduzione, da una cellula ad un grande organismo, la discendenza varierà – un principio di “non-conservazione” del fenotipo, se si vuole (ad es., una cellula dà luogo a due cellule leggermente diverse fra loro e da quella originaria; questo è funzionale alla produzione di diversità, dunque alla stabilità stessa del vivente). In breve, l’intelligibilità dei fenomeni del vivente che proponiamo presuppone l’esistenza (“da qualche parte”, “all’origine della vita”) di biforcazioni la cui comprensione richiede l’aggiunta delle nuove entità teoriche di cui sopra. Queste possono essere perfettamente compatibili con la teorizzazione fisica (fatto non evidente, viste le incompatibilità esistenti all’interno della fisica, quantistica e relativistica, ad esempio), ma non sono specifiche di quel campo. In questo senso, si tratta di proporre estensioni teoriche compatibili, ma “rigorose”, delle teorie dell’inerte. La riduzione può essere un passo ulteriore per il riduzionista interessato, che dovrebbe dimostrare che queste teorie sono prima di tutto conservative (in senso logico: non dimostrano più “teoremi”, o proprietà), poi solo apparentemente basate su proprietà “indipendenti”, ma in realtà derivabili dai principi delle teorie fisiche esistenti. Non facile, visto che neppure le proprietà dei fluidi incompressibili (idrodinamica) sono derivabili dalle proprietà quantistiche (l’equazione di Schrödinger, diciamo), né da quelle della fisica statistica (Boltzmann). E in una cellula c’è molta acqua… 3. La singolarità fisica dello stato vivente della materia Torniamo ora, con qualche dettaglio in più, a queste nuove oggettività rilevanti per il biologico. Con i concetti che suggeriamo non intendiamo in alcun modo definire o caratterizzare la vita. Cerchiamo solo di mettere a fuoco alcune fenomenalità che sembrano particolarmente preminenti e cerchiamo di trattarle in un modo possibilmente robusto a livello concettuale. I tre punti che seguono delineano brevemente il lavoro sviluppato in numerosi articoli, ai quali faremo riferimento di volta in volta. 3.1 Criticità estesa L’interesse biologico delle teorie fisiche della criticità è dovuto in primo luogo al fatto che, in fisica, le transizioni di fase critiche sono processi di cambiamento di stato in cui, mediante un cambiamento improvviso
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(una singolarità rispetto a un parametro di controllo), la struttura globale è coinvolta nel comportamento dei suoi elementi: la situazione locale dipende dalla (è correlata alla) situazione globale. Matematicamente, questo può essere espresso dal fatto che la lunghezza di correlazione tende formalmente all’infinito (è il caso con transizioni di secondo ordine, come la transizione para-/ferromagnetica); fisicamente, questo significa che la determinazione è globale e non locale. In altre parole, una transizione critica è legata a un cambiamento di fase e alla comparsa di comportamenti critici di alcune grandezze degli stati del sistema – magnetizzazione, densità, per esempio – o di alcune delle sue caratteristiche particolari – come la lunghezza di correlazione. Può presentarsi all’equilibrio (flussi nulli) o lontano dall’equilibrio (flussi non nulli). Nel primo caso, gli aspetti fisicomatematici sono piuttosto ben compresi (per quanto riguarda la matematica, rinormalizzazione (Binney et al. 1992), per quanto riguarda il ponte tra descrizione microscopica e macroscopica, la termodinamica), mentre, nel secondo caso, siamo lontani dall’avere teorie altrettanto soddisfacenti. Alcuni casi specifici, senza particolare enfasi sulla situazione lontana dall’equilibrio, sono stati ampiamente sviluppati e divulgati da Bak, Kauffman e altri (cfr. Bak et al. 1988; Kauffman 1993; Nykter et al. 2008). I “mucchi di sabbia”, la cui criticità si riduce all’angolo di formazione delle valanghe in tutte le scale, la percolazione (cfr. Bak et al. 1988; Laguës e Lesne 2003) o persino la formazione di un fiocco di neve sono esempi interessanti. La prospettiva assunta è, in parte, complementare a quella di Prigogine: ciò che conta nella formazione di strutture di coerenza non sono le fluttuazioni all’interno di una situazione debolmente ordinata, ma “l’ordine che deriva dal caos” (Kauffman 1993). Tuttavia, in entrambi i casi le correlazioni potenziali sono improvvisamente rese possibili da un cambiamento di uno o più parametri di controllo per un valore specifico (puntuale) di questo parametro. Per esempio, le forze che attraggono le molecole dell’acqua le une verso le altre, in quanto ghiaccio, sono potenzialmente già presenti: il passaggio al di sotto di una temperatura precisa, così come il moto browniano decrescente, a un certo valore di pressione e umidità, permette che queste forze si esercitino e conducano tipicamente alla formazione di un fiocco di neve. Le transizioni critiche devono essere intese anche come improvvisi cambiamenti di simmetria (rotture di simmetria e formazione di nuove simmetrie), e una transizione tra due diversi oggetti fisici macroscopici (due stati diversi), con una conservazione delle simmetrie dei componenti. Le rotture di simmetria specifiche, locali e globali forniscono la varietà di forme organizzate e le loro regolarità (le nuove simmetrie) poiché queste
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transizioni sono (molto) sensibili alle fluttuazioni in prossimità della criticità. In fisica, la natura puntiforme del “valore critico” del parametro di controllo è una questione matematica essenziale, così come per il trattamento da parte della matematica di “rinormalizzazione” nelle teorie della criticità, (cfr. Binney et al. 1992). Sulla falsariga degli approcci fisici alla criticità, ma all’interno del quadro concettuale della termodinamica lontana dall’equilibrio, consideriamo i sistemi viventi come “strutture coerenti” in una transizione critica continua (estesa). Lo stato permanente di transizione è mantenuto, ad ogni livello di organizzazione, dalle attività di integrazione/regolazione dell’organismo, cioè dalla sua struttura coerente a livello globale. In breve, in (Bailly e Longo 2008; Longo e Montévil 2011a; Longo e Montévil 2014), sulla base delle prime idee di (Bailly 1991), proponiamo di analizzare l’organizzazione della materia vivente come “transizioni critiche estese”. Queste transizioni sono estese nello spazio-tempo e rispetto a tutti i parametri di controllo pertinenti (pressione, temperatura ecc.), essendo la loro unità assicurata da relazioni causali globali tra i livelli di organizzazione (e dalla loro integrazione/regolazione). Più precisamente, il nostro principale paradigma teorico è fornito dall’analisi delle transizioni di fase critiche, poiché questa forma peculiare di stato critico presenta alcuni aspetti particolarmente interessanti per la prospettiva biologica: la formazione di lunghezze di correlazione estese (matematicamente divergenti) e di strutture di coerenza, la divergenza di alcune osservabili rispetto al (o ai) parametro(i) di controllo e il cambiamento delle simmetrie associate a potenziali cambiamenti rapidi dell’organizzazione biologica. Tuttavia, le “strutture critiche coerenti” che sono l’obiettivo principale del nostro lavoro non possono essere ridotte agli approcci fisici esistenti, poiché le transizioni di fase, in fisica, sono trattate come “eventi singolari”, corrispondenti a uno specifico valore ben definito del parametro di controllo, come già detto in precedenza, un solo punto (critico!). Invece, ciò che sosteniamo è che nel caso dei sistemi viventi, queste transizioni critiche coerenti sono “estese” e mantenute in modo tale da persistere nello spazio multidimensionale di analisi, pur conservando tutte le proprietà fisiche menzionate sopra (lunghezze di correlazione divergenti, nuove strutture di coerenza, cambiamenti di simmetria…). Un oggetto vivente non è solo una dinamica o un processo, nei vari sensi possibili analizzati dalle teorie fisiche, ma è una permanente transizione critica: è sempre al confine di un cambiamento, in particolare di cambiamenti di simmetrie, come analizzato in (Longo e Montévil 2011a; 2014). Abbiamo allora a che fare con un’organizzazione estesa, globale, permanentemente ricostruita e in trasformazione, in inte-
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razione con strutture locali, poiché l’interazione globale/locale è propria delle transizioni critiche, anche in fisica – si pensi ai miliardi di riproduzioni cellulari che han luogo in un’ora, per dire, in un organismo come il nostro, ognuna una “transizione critica” (biforcazione, riorganizzazione, correlazioni tissutali che cambiano…). Matematicamente, bisogna vedere la criticità estesa come data da un insieme di punti critici denso in un intervallo di numeri reali, ma dove la “topologia” non è quella usuale (degli intervalli convergenti a 0, in lunghezza) ma una topologia debole, dove gli intervalli hanno le lunghezze minime delle “durate” pertinenti ai vari fenomeni esaminati: in biologia nulla ha senso al di sotto di “intervalli temporali minimi”, le “durées” di Bergson, menzionate anche da H. Weyl, nella polemica con Einstein (Longo 2021a). Finora, la nostra analisi, negli articoli citati sopra, è stata in gran parte concettuale, poiché, a causa della perdita della matematica della rinormalizzazione, che richiede la “puntualità” della transizione, sembra esserci poca fisica matematica conosciuta che possa applicarsi a questa situazione fisicamente singolare, per di più lontana dall’equilibrio. Chiaramente, la seconda grande difficoltà concettuale e tecnica è l’instabilità delle simmetrie coinvolte. La questione consiste in come oggettivarle, dato che, in contraddizione con le situazioni fisiche, tali simmetrie non sembrano essere teoricamente determinate in maniera tale da appartenere ad un insieme specifico e pre-dato – questione profondamente legata all’instabilità dello spazio delle fasi, la cui conservazione è la fondamentale simmetria delle teorie fisiche. 3.2 Anti-entropia In (Bailly e Longo 2009) la nostra prospettiva sistemica per la complessità biologica, sia nella filogenesi che nell’ontogenesi, è sviluppata attraverso un’analisi dell’organizzazione in termini di “anti-entropia”, una nozione che abbiamo definito e che differisce concettualmente dall’uso comune di “entropia negativa”. Si noti che sia la formazione che il mantenimento dell’organizzazione (una ricostruzione permanente della struttura coerente) procedono in direzione opposta rispetto all’aumento dell’entropia. Questa è anche la preoccupazione di Schrödinger nella seconda parte del suo libro del 1944. Egli considera la possibile diminuzione dell’entropia mediante la costruzione di “ordine dall’ordine”, che chiama informalmente “entropia negativa”. Nel nostro approccio, l’anti-entropia è presentata matematicamente come una nuova osservabile, non è quindi solo l’entropia con un segno negativo (entropia negativa, come più rigorosamente presentata nel
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lavoro di Shannon e in Brillouin 1956). In genere, quando si sommano in egual quantità, entropia ed entropia negativa danno 0: nel nostro approccio, l’entropia e l’anti-entropia si trovano simultaneamente e non si annullano nell’intervallo critico esteso dello stato vivente della materia – anzi “producono” l’oggetto vivente o, più modestamente, co-esistono in esso. Si potrebbe considerare l’analogia puramente concettuale con l’antimateria in fisica quantistica, che ne ha ispirato il nome: quest’ultima è una nuova osservabile, relativa a nuove particelle, le cui proprietà (carica, energia) hanno segno opposto. Seguendo la nostra analogia molto grossolana, la materia e l’antimateria, sommandosi, non danno mai 0, ma un nuovo stato energetico: la doppia produzione di energia sotto forma di raggi gamma quando si incontrano in una singolarità (puntiforme!). Di nuovo, l’entropia e l’anti-entropia coesistono in un organismo, come zona estesa (intervallo) di criticità. A questo scopo, vanno introdotti due principi, “esistenza e mantenimento dell’anti-entropia” (Longo e Montévil 2014), oltre a quelli termodinamici, che sono (matematicamente) compatibili con i principi tradizionali ma che non hanno alcun significato per quanto riguarda la materia inerte. L’idea è che l’anti-entropia rappresenta la proprietà chiave di un organismo, persino unicellulare, di essere descrivibile mediante diversi livelli di organizzazione (anche una cellula eucariote possiede organelli, microtubuli, mitocondri…), che si regolano, si integrano l’un l’altro – parti che integrano funzionalmente un tutto, e il tutto le regola. Questo corrisponde alla formazione e al mantenimento di una struttura di coerenza globale, in corrispondenza alla sua criticità estesa: l’organizzazione aumenta, diciamo lungo l’embriogenesi, e si mantiene, contrastando la continua produzione di entropia dovuta a tutti i processi irreversibili. Nessuna criticità estesa né la sua proprietà chiave della coerenza sarebbero possibili senza la produzione di anti-entropia: l’organizzazione globale – sempre rinnovata – (esprime e) permette il mantenimento della transizione critica estesa. In (Bailly e Longo 2009), vedi anche (Longo e Montévil 2014), abbiamo applicato la nozione di anti-entropia a un’analisi del lavoro di Gould sulla complessificazione della vita nel corso dell’evoluzione (Gould 1997). Abbiamo così esteso una tradizionale equazione di equilibrio per il metabolismo alla nuova nozione specificata dai principi di cui sopra. Questa equazione è ispirata dall’analisi di Gibbs dell’energia libera, che è accennata come possibile strumento per l’analisi dell’organizzazione biologica in una nota in (Schrödinger 1944). Abbiamo esaminato sistemi lontani dall’equilibrio e ci siamo concentrati in particolare sulla produzione di entropia globale associata al carattere irreversibile dei processi. Nell’articolo del
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2009, un’analisi approfondita dell’anti-entropia è stata condotta nei termini di un’equazione di diffusione della biomassa sulla complessità fenotipica nel corso dell’evoluzione. È possibile ricostruire, sulla base di principi generali, la curva dell’andamento della biomassa sulla complessità nell’evoluzione formulata da (Gould 1997). Inoltre, proponiamo una valutazione quantitativa della complessità fenotipica nell’embriogenesi in relazione ad alcuni dati empirici (Caenorhabditis elegans). Ancora una volta, la Meccanica Quantistica ha indirettamente ispirato il nostro approccio matematico: abbiamo preso in prestito l’approccio operatoriale utilizzato da Schrödinger nella sua famosa equazione, ma alla luce di un inquadramento classico. Classicamente, questa equazione può essere intesa come un’equazione di diffusione (in effetti, abbiamo usato coefficienti reali invece di complessi, quindi al di fuori del quadro matematico delle teorie quantistiche). 3.3 Tempo biologico La rappresentazione consueta del tempo in fisica (lineare) è insufficiente, a nostro avviso, per la comprensione di alcuni fenomeni della vita. Una forma estesa di presente sembra più adeguata per la comprensione della memoria, poiché questa è una componente essenziale dell’apprendimento, ai fini dell’azione futura (basata sulla “protensione”, come aspettativa preconscia). In particolare, mentre la memoria, come ritenzione, è trattata in alcune teorie fisiche (fenomeni di rilassamento), la protensione sembra al di fuori dell’ambito della fisica. Abbiamo quindi suggerito alcune semplici rappresentazioni funzionali della ritenzione e della protensione biologiche (Longo e Montévil 2011b; cfr. anche Varela 1999). Allo stesso modo, il ruolo dei ritmi biologici non sembra avere alcuna controparte nella formalizzazione matematica degli orologi fisici, che sono basati su frequenze nella dimensione temporale solita (se del caso, termodinamica, ovvero irreversibile). In (Bailly et al. 2011) abbiamo presentato una varietà bidimensionale come “cornice matematica” per accogliere i ritmi biologici autonomi: la seconda dimensione è “compattificata”, ovvero, è una fibra circolare ortogonale alla rappresentazione orientata del tempo fisico, come dicevamo. L’aggiunta di una nuova dimensione per il tempo biologico è giustificata dal particolare status dimensionale dei ritmi biologici interni; è compattificata perché la “retta temporale” è trasformata in un cerchio ed ogni e diversa descrizione temporale dei fenomeni (correlati a ritmi – cardiaci, metabolici, respiratori…) dà luogo ad una spirale che si avvolge nel cilindro generato dal “prodotto” tempo-termodinamico x tempo-compattificato. La vita in effetti è scandita temporalmente sia dai
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ritmi esterni fisici (tipicamente circadiani), che sono frequenze, sia da quelli interni (metabolismo, respirazione, cardiaci). Questi ultimi sono numeri puri, non frequenze: quando sono usati come coefficiente nelle leggi di scala diventano frequenze medie e producono il tempo della durata della vita (Schmidt-Nielsen 1984; West et al. 1997; Savage et al. 2004). Questi ritmi hanno anche comportamenti singolari (variazioni multiscala) rispetto al tempo fisico, che possono essere visualizzati nella nostra prospettiva teorica. In contraddizione con le situazioni fisiche, la scalabilità (i coefficienti di scala), tuttavia, non sembra essere associata ad un esponente stabile. Queste due caratteristiche peculiari (numeri puri e serie temporali simili a frattali) sono le principali giustificazioni dell’autonomia del nostro tempo compattificato rispetto al tempo fisico. I due nuovi aspetti del tempo biologico ci hanno permesso di introdurre la nozione astratta di “inerzia biologica” come componente dell’analisi concettuale del tempo della criticità estesa. Si noti che il nostro approccio di protensione e ritenzione è, per ora, focalizzato su aspetti locali del tempo biologico, e dovrebbe quindi essere completato per accogliere le correlazioni a lungo raggio osservate sperimentalmente (cfr. Grigolini et al. 2009). Infatti, questo tipo di correlazioni è rilevante per entrambi gli aspetti del tempo biologico, e si adatta al quadro concettuale della criticità estesa. Un altro aspetto del tempo biologico, introdotto in (Longo e Montévil 2011a), è il tempo costituito dalla cascata di cambiamenti di simmetria che ha luogo nelle transizioni critiche estese. In altri termini, questo tempo è definito dalle trasformazioni organizzative onnipresenti che avvengono nella materia biologica. Qui, il tempo corrisponde quindi alla storicità degli oggetti biologici e al processo di individuazione biologica (sia ontogenetica che filogenetica). In effetti, il tempo non è più il parametro delle traiettorie nello spazio delle fasi poiché quest’ultimo è instabile, quindi la temporalità definita dai cambiamenti dello spazio delle fasi ha una natura originale.
4. Conclusione A grandi linee, a partire dalla criticità estesa, le leggi che proponiamo, pur trattando queste particolari osservabili e grandezze, specifiche dei fenomeni vitali, costituiscono una estensione delle leggi fisiche esistenti: tali leggi conservano la stessa struttura matematica formale e, se poniamo il valore delle osservabili o dei parametri considerati a 0 (estensione della criticità, seconda dimensione temporale, durata della protensione, valore
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dell’anti-entropia), esse restituiscono le teorie dell’inerte. Le nostre proposte teoriche sono quindi compatibili, sebbene irriducibili, alle “teorie fisiche esistenti”. Ossia, sono riducibili a queste leggi solo se, e non appena, ci troviamo al di fuori della zona della criticità estesa – che ha la sua propria temporalità e la sua anti-entropia –, o non appena queste specifiche quantità vanno a 0. In conclusione, la fenomenalità peculiare della vita merita alcune nuove osservabili (nei nostri tentativi, transizione critica estesa, organizzazione biologica, tempo proprio). Il punto è la pertinenza “per sé”, se esiste, di questa concettualizzazione. Coloro che sostengono che tutti questi concetti dovrebbero essere ridotti a teorie fisiche (esistenti?) sono i benvenuti nel provarci. Ma dovrebbero prima di tutto guardare alla stessa storia della fisica, dove le nuove cornici teoriche sono segnate dall’invenzione di nuovi concetti, nuovi osservabili e di nuove prospettive. La loro pertinenza è stata giudicata “in quanto tale”, non sulla base della loro riducibilità a motivi esplicativi esistenti e perciò “sicuri”3. Si noti, tuttavia, che le transizioni critiche estese, in associazione con i cambiamenti di simmetria onnipresenti, possono condurre a cambiamenti metodologici più radicali, in quanto associati alla specificità degli oggetti e alla genericità delle traiettorie. 5. Appendice: Interfacce dell’incompletezza Abbiamo bisogno di una definizione della vita per costruire teorie robuste sullo stato vivente della materia? Rispondiamo a questa domanda attraverso un’analogia con una cornice teorica dove può essere trattata con il massimo rigore: la logica matematica. Il concetto di numero intero (quindi “standard” o finito) è catturato (definito, caratterizzato) dalla teoria (formale) dei numeri? Frege (1884) credeva di sì, poiché il concetto assoluto di numero era, a suo avviso, pienamente caratterizzato dalla teoria di Peano-Dedekind. In termini logici moderni, possiamo dire che, per Frege, l’Aritmetica di Peano (AP) era 3
In altri termini, affinché la riduzione o l’unificazione possa essere realizzata, la prima questione da affrontare è: che cosa si vuole ridurre e a che cosa? L’audacia della fisica, nella sua storia, è stata proprio di inventare concetti ed osservabili, e persino strutture matematiche, nuovi, da Newton a Hamilton, dalla termodinamica alla fisica quantistica. Poi, procedere per unificazioni: Newton (mele che cadono e pianeti che girano), Hamilton, Maxwell, Boltzmann (il principio ergodico è asintotico, non “riduce” proprietà macro a micro), Einstein (gravitazione ed inerzia).
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“categorica”. Cioè, si credeva che la AP avesse un solo modello, a meno di isomorfismi: il modello standard dei numeri interi (quello che il lettore ha imparato alla scuola primaria, con lo 0, 1… e in aggiunta l’induzione formale). Così, si supponeva che la teoria dovesse definire in modo univoco “cosa è un numero”. Tutto ciò si è rivelato clamorosamente sbagliato. Löwenheim e Skolem (1915-20) dimostrarono che AP ha un numero infinito di modelli non isomorfi. Inoltre, un semplice teorema (“compattezza”), ha dimostrato che nessun predicato, definibile in AP, può isolare tutti ed esattamente tutti gli interi standard (cfr. Marker 2002). In breve, qualsiasi predicato valido su infiniti numeri interi standard, deve valere anche per (infiniti) numeri interi non standard (che non possono essere considerati propriamente “finiti”) – questo è noto come il “lemma di overspill”. Il teorema di incompletezza di Gödel ha rafforzato queste proprietà negative: AP è incompleto o, equivalentemente, ha molti modelli logicamente non equivalenti, una proprietà molto più forte della non-categoricità: alcuni asserti sono validi in certi modelli, altri in altri – una catastrofe per gli assolutisti dell’aritmetica e della logica. A fortiori, non c’è speranza di caratterizzare in maniera finitista il concetto di numero intero standard, compattezza e Gödel lo vietano: si deve aggiungere un assioma dell’infinito (teoria degli insiemi) o una quantificazione di secondo ordine per farlo, e questi sono quadri formali infinitari o impredicativi – altro spauracchio dei logicisti (Longo 2011). Eppure, tutti considerano AP come la teoria formale “naturale” dei numeri: essa individua splendidamente le principali proprietà rilevanti, molto robuste, dei numeri (0, successore, induzione), sebbene non possa definire cosa sia un numero. In analogia all’impossibilità della fisica di definire il proprio oggetto di studio, la “materia” inerte, come abbiamo detto all’inizio, abbiamo qui un altro esempio di una coerente cornice teorica che non può definire, al suo interno, il proprio oggetto di studio, cioè l’oggetto numero naturale. Non vediamo un modo per uscire dal linguaggio della fisica o della biologia in maniera analoga a ciò che può fare la logica matematica: a cosa mai potrebbe corrispondere un assioma dell’infinito o una quantificazione di ordine superiore, impredicativa? Forse: … “assumere il punto di vista (e il linguaggio) di Dio”? Incoraggiamo quindi il lettore a proseguire la riflessione teorica in biologia senza l’angosciante ricerca di una definizione della vita. E con la chiara prospettiva dell’intrinseca incompletezza di tutti nostri sforzi teorici (Longo 2010; 2011): possiamo solo sperare di cogliere e organizzare esplicitamente grazie alle teorie alcuni frammenti di realtà, qualunque sia il significato di questa parola. Cerchiamo di farlo al meglio delle nostre cono-
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scenze, in modo sufficientemente ampio e robusto, e in piena libertà teorica ed empirica, senza necessariamente sentirsi attaccati alle teorie esistenti, né affannandosi alla ricerca continua della “Teoria (completa?) definitiva” o della “riduzione definitiva”4. (Traduzione dall’inglese di Luca Cabassa e Mattia Galeotti) Riferimenti bibliografici Bailly, F. 1991 L’anneau des disciplines. Enquête sur quelques concepts théoriques et gnoséologiques, in “Revue Internationale de systémique”, 5 (3), pp. 233-399. Bailly, F., Gaill, F. e Mosseri, R. 1993 Orgons and biolons in theoretical biology: Phenomenological analysis and quantum analogies, in “Acta Biotheoretica”, 41, pp. 3-11. Bailly, F. e Longo, G. 2008 Extended critical situations: the physical singularity of life phenomena, in “Journal of Biological Systems”, 16, pp. 309-336. 2009 Biological organization and anti-entropy, in “Journal of Biological Systems”, 17, pp. 63-96. 2011 Mathematics and the Natural Sciences. The Physical Singularity of Life, Imperial College Press, London; ed. fr. Mathématiques et sciences de la nature. La singularité physique du vivant, Hermann, Paris 2006. Bailly, F., Longo, G. e Montévil, M. 2011 A 2-dimensional geometry for biological time, in “Progress in Biophysics and Molecular Biology”, 106, pp. 474-484. Bak, P., Tang, C. e Wiesenfeld, K. 1988 Self-organized criticality, “in “Physical review A”, 38, pp. 364-374. Binney, J., Dowrick, N. J., Fisher, A. J. e Newman, M.E.J. 1992 The Theory of Critical Phenomena: An Introduction to the Renormalization Group, Oxford University Press, New York. Brillouin, L. 1956 Science and Information Theory, Academic Press, New York. 4
Ringraziamenti: il primo autore desidera ringraziare vivamente i traduttori e revisori (Luca Cabassa e Mattia Galeotti), non solo per l’eccellente traduzione, ma per i commenti e le chiarificazioni fatte o richieste.
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Brown, J. H., Gupta, V. K., Li, B.-L., Milne, B. T., Restrepo, C. e West, G. B. 2002 The fractal nature of nature: power laws, ecological complexity and biodiversity, in “Philosophical Transactions of the Royal Society of London. Series B: Biological Sciences”, 357, pp. 619-626. Frege, G. 1884 Collected Papers on Mathematics, Logic and Philosophy, Basil Blackwell, Oxford; in italiano è possibile trovare gran parte degli scritti in Frege, G., Logica e aritmetica, a cura di Corrado Mangione, Boringhieri, Torino 1965. Frezza, G. e Longo, G. 2010 Variations on the theme of invariants: conceptual and mathematical dualities in physics vs biology, in “Human Evolution”, 25, pp. 167-172. Gould, S. J. 1997 Full house: The spread of excellence from Plato to Darwin, Three Rivers Press, New York. Grigolini, P., Aquino, G., Bologna, M., Lukovic, M. e West, B. J. 2009 A theory of noise in human cognition, in “Physica A: Statistical Mechanics and its Applications”, 388, pp. 4192-4204. Jensen, H. J. 1998 Self-Organized Criticality, Emergent Complex Behavior in Physical and Biological Systems, Cambridge lectures in Physics, Cambridge. Kauffman, S. A. 1993 The origins of order, Oxford University Press, New York. Laguës, M. e Lesne, A. 2003 Invariance d’échelle, Belin, Paris. Longo, G. 2008 Laplace, Turing and the “imitation game” impossible geometry: randomness, determinism and programs in Turing’s test, in R. Epstein, G. Roberts, and G Beber, (a cura di) Parsing the Turing Test, Springer, Dordrecht, pp. 377-411. 2010 Incompletezza, in Bartocci, C. e Odifreddi, P. (a cura di), La Matematica, vol. 4, Einaudi, Torino, pp. 219-262; versione rivista e tradotta in inglese: Interfaces of Incompleteness, in Minati, G., Abram, M. e Pessa, E. (a cura di) Systemics of Incompleteness and Quasi-systems, Springer, New York 2019, pp. 3-56. 2011 Reflections on Concrete Incompleteness, in “Philosophia Mathematica”, 19, pp. 255-280. 2021a Confusing biological rhythms and physical clocks. Today’s ecological relevance of Bergson-Einstein debate on time, in A. Campo, S. Gozzano (a cura di), Einstein vs Bergson. An enduring quarrel of time, De Gruyter. 2021 Matematica e senso, per non divenir macchine, Mimesis, Milano-Udine.
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Commento introduttivo a Una concezione bi-costruzionista dell’etologia di Dominique Lestel Fiorella Giaculli Ben lungi dall’essere un congegno macchinico che risponde a meri stimoli, l’animale è concepito da Lestel come un vivente ermeneutico, che crea e interpreta il suo mondo. Alla rigidità e necessità della catena causale, in cui il paradigma realista-cartesiano inscrive l’animal, l’etologo francese contrappone l’indefinito e il possibile. L’animale non agisce meccanicamente, bensì ermeneuticamente; inventa significati e mondi, e attraversa un orizzonte simbolico similmente all’animale uomo. “Ermeneuta” è il vivente in generale: nelle battute finali dell’articolo che presentiamo, Lestel accenna all’idea secondo cui “soggetti semiotici, ermeneutici, intrinsecamente creatori” sono anche i vegetali, i funghi, i batteri e gli archeobatteri. Essere in vita significa interpretare, attribuire un significato e agire conformemente a esso. Come emerge sin da (Lestel 2011), l’approccio bi-costruzionista costituisce un approccio biosemiotico, che si contrappone sia all’etologia realista-cartesiana, che corrobora l’esistenza di una realtà oggettiva indipendente dall’osservatore, sia alla biosemiotica di von Uexküll, che concepisce l’interpretazione dell’Umwelt in termini eminentemente fisiologici e monadici (cfr. Lestel 2011, p. 100). L’elemento poietico è duplice ed è racchiuso nella sillaba bi che definisce la costruzione: il primo è l’interpretazione e l’invenzione dell’animale, il secondo è l’“interpretazione dell’interpretazione” e l’“invenzione dell’invenzione”, operate dall’etologo. Questi i due assi che caratterizzano la concezione etologica di Lestel, per il quale un problema cruciale dell’etologia risuona nella domanda “come possono gli esseri umani inventare modi per comprendere come gli animali inventano i loro mondi?”. Prima di tutto, considerando l’animale come un essere inventivo che abita uno spazio di possibili e di significati, rispetto a cui escogitare delle strategie di comprensione, dialogando con coloro che conoscono gli animali al di là dell’accade-
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mia (come gli allevatori e i cacciatori) e praticando una “philosophie de terrain”, di esperienza del mondo; in secondo luogo, accogliendo l’elemento insolubile, che sfugge ai “desideri epistemici dell’umano” (Lestel 2009, p. 169). La sillaba bi rimanda non solo alla duplicità della costruzione, ma evoca anche la mutualità delle significazioni, umane e animali, che suggerisce una “écologie della réciprocité”; esprime inoltre l’inscindibilità dell’osservazione dall’osservatore: non vi è un osservato puro e neutro, ma il soggetto e l’oggetto interagiscono. Nell’osservare gli animali, anche l’uomo è osservato e vede qualcosa di se stesso nell’altro, nel creare ancora una volta, strumenti per comprendere l’animalità, l’uomo riafferma la sua natura animale, poietica ed ermeneutica. Anche la sorpresa e l’apertura sono duplici e reciproche: l’animale abita uno spazio aperto, in cui il non previsto, il nuovo, l’indeterminato costituiscono una sorpresa, per l’animale stesso e per l’osservatore umano, che deve porsi in un atteggiamento di apertura nei confronti dell’animale, per potersi sorprendere a sua volta. Di coabitazione è lo spazio in cui l’uomo e l’animale vivono insieme e per pensare tale “comunità ibrida”, secondo Lestel, occorre sviluppare un’“eto-etnologia” che abbia cura di questo spazio di relazioni, l’avvenire topografico dell’uomo: “[e]sseri umani nel futuro significa cercare nuovi modi di creare spazi in comune con l’animale, spazi istituzionali, psicologici, sociali, culturali, metabolici e anche spirituali” (Lestel 2016), che recuperino ed esprimano quanto è proprio dell’uno e dell’altro congiuntamente. Oltre a essere racchiuse nella sillaba bi, le differenze tra il paradigma realista-cartesiano e quello bi-costruzionista sono implicite già nelle definizioni dell’animale macchina da un lato e dell’animale ermeneutico dall’altro, in cui si delineano due caratteri contrapposti, l’assenza di “resto” e la creatività, individuati sin da (Lestel 2010). Secondo la concezione realista-cartesiana, in quanto apparecchio che risponde a mere cause, l’animale è una macchina il cui funzionamento è noto, privo di resto, facilmente prevedibile e studiabile; inoltre, per un tale congegno non si pongono questioni di natura etica. Al contrario, che l’animale non sia una macchina è supportato da Lestel in relazione alla sfera cognitiva ed emotiva e tale interpretazione si rifrange sul piano etico: l’animale crea significati, prova emozioni, non è dunque una macchina e non può essere trattato come tale. “Que les animaux souffrent, ressentent du plaisir et des émotions signifie clairement qu’ils ne sont pas des machines et ne doivent donc pas être traités comme tels”, scrive icasticamente l’etologo ad apertura del paragrafo Dire que l’animal est une machine est dépourvu de sens, in (Lestel 2010). La differenza profonda tra l’animale e la macchina risiede nella ca-
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pacità creatrice del vivente, in grado di inventare e reinventare (significazioni e azioni), che la macchina non possiede, potendo solo programmare a partire da dati preimpostati1. Nell’articolo che presentiamo, attraverso due tabelle che schematizzano la “tensione epistemica” tra l’approccio realista-cartesiano e quello bi-costruzionista, Lestel tratteggia e poi riprende più diffusamente i tratti precipui delle due concezioni, che si riflettono in due diverse epistemologie ed etologie. Al macchinico si riannoda il concetto policromo di determinazione: l’animale assume comportamenti determinati riconducibili a un etogramma, che descrive una serie di comportamenti possibili inerenti a una specie; l’animale è determinato da rapporti causali a cui risponde passivamente e meccanicamente ed è determinato dalla specie a cui appartiene, che stabilisce le sue capacità e i suoi comportamenti, senza concedere spazio a una singolarità che la eccede. Una macchina siffatta non ha propriamente una storia né si presenta come un apparecchio inaccessibile: uno sguardo attento munito degli strumenti giusti è in grado di fornire un buon “manuale per l’uso”, grazie a cui comprendere l’animale nella sua “trasparenza” e nei suoi automatismi. L’etologo cartesiano contempla dunque una macchina semplice, predefinita. Al contrario, l’animale ermeneutico conserva un nucleo di opacità e inaccessibilità, che si sottrae allo sguardo dell’etologo bi-costruzionista, perché è vivente indefinito. All’animale ermeneutico si riannoda il non determinato: il concetto di specie è concepito come “spazio di esistenza” mobile, in cui l’individuo ha sì capacità appartenenti alla sua specie, ma possiede anche capacità a lui peculiari, che lo connotano nella sua singolarità. Là dove il realistacartesiano vede una determinazione comportamentale, legata alla specie e a risposte meccanico-causali, il bi-costruzionista osserva l’indeterminazione comportamentale e con essa la possibilità dell’invenzione, dell’imprevisto e della sorpresa, insiti nella natura interpretativa dell’animale. Egli non è “reattivo”, “percepisce il suo ambiente non come un pannello di stimoli bensì come un paesaggio di significazioni”. In virtù di questa diversa determinazione, che esclude il macchinico e il meccanico e che 1
In merito a tale punto, si rimanda in particolare al paragrafo Personne n’a jamais démontré ni prouvé que l’animal était une machine, in (Lestel 2010), in cui l’autore, attraverso i concetti di movimento e creazione, delinea la radicale differenza tra l’animale e la macchina. Paradigmatico a riguardo è il seguente passo: “L’animal peut trouver de nouvelles manières d’être, alors que certaines machines peuvent seulement explorer des alternatives préfabriquées – ce qui est sensiblement différent. La machine donne l’illusion du nouveau, alors que l’animal invente vraiment de nouveaux comportements et de nouvelles habitudes”.
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reinterpreta l’idea di specie, l’etologo costruzionista preferisce utilizzare il concetto di “attività”, anziché comportamento, per la sua complessità, che tiene insieme interpretazione e significazione. L’attività è “una sequenza comportamentale che si organizza attorno a processi di significazione. In questa situazione, l’animale interpreta ciò che deve fare, ciò che può fare e ciò che fa. La sua occupazione del mondo non assume mai la forma di una risposta cieca a uno stimolo causale, e non avviene mai in maniera isolata, bensì in relazione ad altre azioni e in funzione di un obiettivo, di un bisogno o di un desiderio”. Inoltre, il suo abitare il mondo intreccia tre storie, filogenetica, culturale e individuale; e l’animale sapiens può finanche provare nostalgia dei viventi che fu, di cui il suo organismo è intriso, insieme alle sue facoltà e alla sfera emotiva. “Biostalgia” è parola che designa tale sentimento, l’impossibilità di rivivere un passato biologico e a un tempo la consapevolezza di portarlo con sé. Nella misura in cui vive in un mondo di significazioni inventate e interpretate da lui, dunque in virtù della sua “capability” ermeneutica, l’animale può definirsi un soggetto. Questo il grande scarto tra l’epistemologia di stampo cartesiano e l’epistemologia bi-costruzionista: per la prima, esiste un solo soggetto conoscente, l’etologo, per la seconda, i soggetti sono due, l’etologo e il suo oggetto d’indagine, non macchina bensì ermeneuta. Invero, questa soggettività duplice si rivela immediatamente molteplice, nella misura in cui la facoltà semiotica appartiene anche alle forme di vita non animali. “Sujet” è inoltre quel vivente di cui l’etologo può individuare “les raisons” dei suoi comportamenti, non riconducibili a cause meccaniche o a meri stimoli; diversamente, se tutti gli animali sono soggetti, non tutti però possono dirsi individui o persone. “Individu” è un vivente che ha una personalità e un carattere che lo contraddistinguono, è una creatura che ha una storia individuale che eccede la storia filogenetica e culturale, configurandosi come biografia, l’individualità. L’individualità è dunque plurale e una notevole “sfida” dell’etologia contemporanea consiste nel pensare l’individualità non umana. “Personne” è infine l’animale che ha coscienza o rappresentazione di sé come soggetto2. “L’humain n’est plus le seul sujet dans l’univers”: questa considerazione è per Lestel la vera rivoluzione etologica degli ultimi vent’anni e si configura come la quarta ferita narcisistica inferta all’uomo, dopo la rivoluzione
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Cfr. (Lestel 2004), p. 35 ss. Su l’“animal comme sujet” si veda anche l’omonimo capitolo quinto di (Lestel 2011), in cui l’etologo propone la sua interpretazione della soggettività animale, dialogando con le prospettive di von Uexküll, Buytendijk, Portmann e Jonas.
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copernicana, darwiniana e freudiana3. Tale ferita è intimamente relata a quella biologica, compiendo entrambe lo stesso movimento di decentramento: alla struttura apicale si sostituisce la forma ramificata, al compimento antropomorfo compiute forme animali, al verticale l’orizzontale, che intreccia e tiene insieme soggetti ermeneutici, umani e non umani4. Riferimenti bibliografici Lestel, D. 2001 Les origines animales de la culture, Flammarion, Paris. 2004 L’animal singulier, Seuil, Paris. 2009 Pensare con l’animale, in A. Cavazzini e A. Gualandi (a cura di), Logiche del vivente. Evoluzione, sviluppo, cognizione nell’epistemologia francese contemporanea, in “Discipline filosofiche”, a. XIX, n. 1, Quodlibet, Macerata. 2010 L’animal est l’avvenir de l’homme, Fayard, Paris. 2011a What Capabilities for the Animal?, in “Biosemiotics”, 4 pp. 83-102. 2011b Apologie du carnivore, Fayard, Paris. 2016 L’animale è l’avvenire dell’umano. Guida allo zoo-futurismo, intervista a cura di A. Pigliaru per “Il manifesto”, .
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Cfr. (Lestel 2004, pp. 59-60): “C’est, à mon sens, la véritable révolution scientifique des sciences de l’animal de ces vingt dernières années: l’humain n’est plus le seul sujet dans l’univers. Il s’y trouve d’autres sujets non humains qui peuvent devenir de surcroît des individus o des personnes. Après Copernic (l’homme n’est plus au centre du monde), Darwin (l’homme est une espèce d’animal), Freud (l’homme est le jouet de son inconscient), l’homme rencontre ainsi une quatrième blessure narcissique. Qu’on ne la voie pas est déjà un symptôme. Qu’on n’ait pas encore commencé à la penser en est un autre. Que l’on refuse d’y voir un problème en est un troisième”. Tale riconoscimento si riflette anche sulla quotidianità del nutrirsi: posto che per Lestel il “vegetariano politico” costituisce una “necessità vitale” per l’età contemporanea e dunque ha un ruolo etico, come emerge in (Lestel 2011b), secondo l’etologo il “vegetariano etico” non può definirsi pienamente tale, giacché, con la scelta di non mangiare carne, afferma una differenza netta tra la soggettività umana e quella animale (che invece si nutre di altri animali), riproponendo una cesura nella natura e propugnando un’idea di vivente in cui l’uomo non è inscritto del tutto.
Dominique Lestel
UNA CONCEZIONE BI-COSTRUZIONISTA DELL’ETOLOGIA*1
1. Introduzione L’etologia contemporanea affonda massicciamente le proprie basi su un approccio realista e cartesiano all’animale che associa a una concezione di fondo del mondo delle procedure legittime per studiarlo. Essa presuppone che il mondo esista indipendentemente da quelli che lo abitano, che i soggetti siano separati da esso e che sia possibile fornire una descrizione soddisfacente dell’animale attraverso procedure meccaniche e causali che ne determinerebbero i comportamenti. Questo approccio si caratterizza per la possibilità di descrivere l’animale come una sorta di macchina e per il valore dato alle “osservazioni prive di osservatore”. Questa espressione, che può sembrare un po’ strana, descrive quella che viene chiamata oggettività nelle scienze, cioè la necessità di fornire una descrizione del mondo che non dipende dagli osservatori coinvolti. Un’osservazione è considerata scientifica solo nel momento in cui ciò che percepisce un osservatore allenato è simile a ciò che percepisce un altro buon osservatore. Tale requisito significa che lo statuto dell’osservatore è puramente accessorio. Contro tale approccio realista-cartesiano, propongo qui un approccio bi-costruzionista che rimette in primo piano l’intuizione secondo la quale noi inventiamo il mondo piuttosto che scoprirlo, e lo inventiamo secondo una molteplicità eterogenea e variegata di partner più o meno affidabili. L’animale vi riveste dunque uno ruolo di agente inventivo allo stesso titolo che l’essere umano. Comprendere l’animale significa di conseguenza che l’etologo deve costruire dei modi per capire come l’animale costruisce il proprio mondo. Un’etologia così intesa si sviluppa lungo due assi: *1 Il paradigma bi-costruzionista è stato esposto per la prima volta in occasione del congresso internazionale di biosemiotica di Praga nel 2009. Una prima versione di questo testo, sensibilmente differente, è apparsa in (Lestel 2011).
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quello dell’invenzione dell’invenzione e quello dell’interpretazione dell’interpretazione1. Tale approccio bi-costruzionista non è relativistico, se s’intende con ciò la possibilità di adottare un punto di vista arbitrario sul mondo in funzione della propria posizione sociale: il mondo esiste indipendentemente dalle rappresentazioni che se ne fanno coloro che lo abitano, ma in maniera conseguente con i loro modi di abitarlo. Queste due concezioni dell’etologia portano a concepire l’animalità in modi molto diversi tra loro.
2. Che cos’e il costruzionismo ontologico? L’approccio bi-costruzionista che propongo si ispira all’approccio costruttivista stabilito da alcuni importanti teorici a partire dalla seconda metà del XX secolo, sebbene sia stato originariamente concepito dal filosofo inglese George Berkeley e dal filosofo napoletano Giambattista Vico nel XVIII secolo2. Parlo di “costruzionismo” piuttosto che, seguendo il loro esempio, di “costruttivismo” perché tale termine è stato recuperato da una corrente relativista delle scienze umane e sociali che non ha nulla a che vedere con quello che c’interessa in questa sede. Lo psicologo ed epistemologo svizzero Jean Piaget è stato il primo a dare una formulazione moderna a tale problema, stabilendo una connessione tra la questione della costruzione individuale della conoscenza nel bambino e quella dell’adattamento darwiniano. Egli pensava così una relazione originale tra realtà e conoscenza, di natura non solo rappresentazionale ma pratica. Secondo questo modello, la rappresentazione non è più considerata come un’immagine della realtà, e la comunicazione non può essere assimilata a un messaggio inviato in codice Morse: essa deve piuttosto essere concepita come una forma di adattamento che interferisce con le possibilità stesse della realtà3. Gli altri interpretano i miei messaggi sulla base delle loro esperienze del mondo – non in funzione delle mie – ed è illusorio cercare una rappresentazione “vera” della realtà che serva da metro di valutazione delle diverse rappresentazioni del mondo – alcune sono solo “più vere” di altre. Occorre piuttosto met1 2 3
Questo tipo di riflessione si trova sistematicamente nel pensiero del fisico Ernst von Förster che, negli anni cinquanta, concepisce la “cibernetica di secondo ordine”. Bisognerebbe approfondire in questo senso l’estrema ricchezza della filosofia italiana e spagnola. Cfr. (von Glasersfeld 2001).
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tere in gioco le varie rappresentazioni in una situazione e nelle attività che le accompagnano. L’osservatore fa sempre parte dell’osservazione, e la ricerca di osservazioni senza osservatore4 è non solo una ricerca senza fine, ma per di più senza speranza. Chi è alla ricerca di regole chiare e semplici deve dedicarsi al diritto o alla contabilità piuttosto che all’etologia. È lo psicologo, linguista ed epistemologo austriaco Ernst von Glasersfeld che ha dato alla prospettiva costruzionista la sua forma più convincente: egli ritiene che il mondo sia sottodeterminato rispetto alle nostre capacità di conoscerlo. Il costruttivismo pragmatico di von Glasersfeld è molto diverso dal costruttivismo sociale del pensiero postmoderno, per il quale la conoscenza non è che la risultante sociale e culturale degli esperti. Per von Glasersfeld, non possiamo avere accesso alla realtà del mondo che in maniera molto parziale e non possiamo svilupparne una conoscenza pratica che a partire dalle nostre azioni e dai vincoli non negoziabili del reale nel quale ci imbattiamo. L’accesso ristretto alla verità del mondo non deriva dalla limitatezza delle nostre capacità cognitive o epistemiche, ma da una sotto-determinazione del mondo che ci costringe a inventarlo sempre in parte. Egli fornisce l’esempio molto illuminante dello scalatore che traccia una via su una parete rocciosa. Le possibilità di spostamento di quest’ultimo dipendono dai vincoli a cui egli stesso è sottoposto in termini di gravità, anatomia, capacità tecniche e attrezzatura disponibile – e dalle caratteristiche fisiche della superficie della montagna: per avanzare ha bisogno di appigli, fessure, cornicioni e molteplici punti di appoggio. Una volta che una via è stata tracciata, un arrampicatore può in generale intraprenderne un’altra, ma il numero di vie possibili è drasticamente limitato. 3. Dal costruttivismo ontologico al bi-costruzionismo L’approccio originale che sostengo non è solo costruzionista, ma bi-costruzionista. Esso si basa sull’intuizione che l’etologo deve inventare dei modi per capire come l’animale inventa il suo mondo. Una tabella permette di mostrare in maniera sintetica quali sono le differenze tra i due paradigmi.
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La nozione di “oggettività” ripetuta instancabilmente dagli epistemologi positivisti e dagli scienziati che li seguono, presuppone precisamente questa idea di osservazione senza osservatore.
450Epistemologie Approccio realista-cartesiano
Approccio bi-costruzionista
L’animale è determinato dal suo patrimo- Il patrimonio genetico dell’animale costinio genetico. tuisce un vincolo tra altri. Bisogna studiare i comportamenti dell’a- Bisogna studiare le attività dell’animale nimale ed è possibile farlo attraverso un e l’etogramma non è che uno strumento etogramma.5 tra altri per farlo. L’animale segue sempre delle routines L’animale innova e inventa. L’animale è generatore di sorprese. comportamentali. Paradigma dell’animale macchina. Il comportamento dell’animale è sempre causale e meccanicista. L’animale è spiegabile attraverso una catena di causalità.
Paradigma dell’animale ermeneutico. L’attività dell’animale si costituisce attraverso delle procedure d’interpretazione. L’animale è comprensibile solo in uno spazio d’interpretazione e di significazione.
L’animale ha delle competenze che sono L’animale ha delle capabilità che sono quelle della specie. peculiari della specie, del gruppo e dell’individuo stesso e che dipendono dall’ambiente, dai concatenamenti, dalle caratteristiche della specie. L’animale non ha storia.
Ogni animale si trova all’incrocio tra tre storie di diversa importanza: filogenetica, culturale e individuale.
Le capacità dell’animale sono quelle del- Ci sono animali singolari che non si la specie alla quale appartiene. comportano “come dovrebbero”.
Queste opposizioni sono un po’ artificiali ma restituiscono una tensione epistemica che ha un innegabile potere euristico. Conviene riprenderle una a una, per esplorarle in maniera più dettagliata e comprenderne le effettive implicazioni (cfr. Lestel 2011).
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Un etogramma è un catalogo di comportamenti distinti tipicamente impiegati da una specie. Questi comportamenti sono sufficientemente stereotipati, tanto che un osservatore può registrare il numero di tali atti, o il numero di volte in cui un particolare comportamento è svolto in un tempo dato. Radicati nello studio dei vari comportamenti innati specie-specifici, gli etogrammi rappresentano uno stadio iniziale nell’indagine dei comportamenti di una specie e dei contesti in cui si manifestano. Le difficoltà nella compilazione degli etogrammi riguardano i comportamenti raramente eseguiti, i segnali graduati, le variazioni inter-individuali e i comportamenti non-stereotipati. [N.d.T]
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3.1. Vincoli genetici L’approccio sociobiologico ha radicalizzato una tendenza presente più in generale nell’etologia dominante, ipnotizzata dai legami che uniscono i comportamenti dell’animale al suo corredo genetico, secondo una prospettiva profondamente causalista6. Le tendenze più dinamiche dell’etologia contemporanea danno maggiore importanza al ruolo dei comportamenti acquisiti, anche se la dimensione genetica rimane in primo piano, ed essa stessa tende a prendere sempre più in considerazione le differenze inter-individuali. Uno scimpanzé non è un babbuino, e ci possono essere molte differenze tra due scimpanzé, entro i limiti della specie. Un approccio costruzionista alle intelligenze animali è piuttosto in linea con ciò che dice Bas van Fraassen (cfr. van Fraassen 1989) quando contrappone a una razionalità chiusa che si esprime esclusivamente attraverso le regole, una razionalità aperta o democratica che non è esplicitamente contro le regole. 3.2. Comportamento versus Attività L’etologia, così come è praticata per lo più ai giorni nostri nelle università, si riferisce ai “comportamenti”, mentre l’approccio bi-costruzionista preferisce concentrarsi sulle “attività”. Il “comportamento” è un’unità causale d’azione che l’etologo può avere l’illusione di determinare in modo esaustivo per gli individui di una data specie, e a partire dalla quale elaborerà un “etogramma” – uno schema semplice, per non dire semplicistico, che combina unità comportamentali e unità temporali. Un’attività è qualcosa di più complesso: è una sequenza comportamentale che si organizza attorno a processi di significazione. In questa situazione, l’animale interpreta ciò che deve fare, ciò che può fare e ciò che fa. La sua occupazione del mondo non assume mai la forma di una risposta cieca a uno stimolo casuale, e non avviene mai in maniera isolata bensì in relazione ad altre azioni e in funzione di un obiettivo, di un bisogno o di un desiderio.
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Si ricordi che la rottura introdotta dall’etologia oggettivista di Lorenz e Tinbergen rispetto alla psicologia behaviorista egemone all’epoca, consiste precisamente nell’ingiunzione a tener conto della biologia dell’animale e delle differenze maggiori che ne derivavano tra una specie e l’altra.
452Epistemologie
3.3. Routine versus Sorpresa L’etologia realista-cartesiana insiste sull’importanza dei patterns comportamentali e non ammette, al limite, che l’introduzione di occasionali perturbazioni aleatorie nella produzione dei comportamenti7. Allo stesso modo, l’attitudine interpretativa dell’etologia realistacartesiana squalifica qualsiasi dimensione interpretativa della scelta di un partner sessuale, a favore di semplici riflessi reattivi. L’approccio bi-costruzionista, al contrario, pone la sorpresa, l’innovazione e la creatività al centro dell’attività animale. Essenzialmente, l’animale si definisce nel suo poter sorprendere l’osservatore umano. L’etologo, a sua volta, deve lui stesso dare prova di grande creatività per riuscire a discernere la creatività dell’animale e per poterne rendere conto in modo soddisfacente. 3.4. Animale Reattivo versus Animale Ermeneutico L’animale dell’etologo realista-cartesiano non è tanto meccanico quanto piuttosto reattivo. È un sistema behaviorista primitivo puramente causale; la presenza di circuiti di retroazione è il massimo ch’egli possa tollerare. Al contrario, l’approccio bi-costruzionista concepisce ogni animale come un ermeneuta che interpreta il mondo che lo circonda e in particolare gli altri, e che dunque percepisce il suo ambiente non come un pannello di stimoli bensì come un paesaggio di significazioni. Come ha scritto il biologo Jesper Hoffmeyer, “un cane è prima di tutto un messaggio per un altro cane” (Hoffmeyer 1997; 2009). Non si tratta evidentemente di negare l’esistenza o la pertinenza dei rapporti causali che presiedono alla vita degli animali, ma di assegnare loro il posto che gli spetta. Dopotutto, anche un essere umano se non mangia muore, e non c’è niente di ermeneutico in tale processo. 3.5. Competenze e Capabilità Il linguista Noam Chomsky utilizza la nozione di “competenza” in un senso puramente biologico. Quella di “capability”, dell’economista Amartya Sen, è più interessante perché biologica e culturale a un tempo. Secondo l’approccio bi-costruzionista, le capacità dell’animale non possono essere ridotte a semplici competenze innate: alcune buone ragioni vi si 7
Un buon esempio è il modo in cui Deneubourg tratta gli errori delle formiche. Cfr. (Halloy, Sempo, Caprari et al. 2007).
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oppongono. Gli animali di una certa specie non sono infatti limitati dalle competenze che si pretende rispecchino le caratteristiche dei membri di quella specie: il caso degli oranghi capaci di fare nodi ne è un ottimo esempio. Perché Wattana era capace di fare ciò che nessun altro orango (o quasi) era in grado di fare? (Herzfeld e Lestel 2005a; 2005b). Alcuni animali possono mostrare abilità sorprendenti se sono stati educati in dispositivi ad hoc, ben diversi dagli ammaestramenti di tipo behaviorista. Le scimmie pittrici osservate dallo storico dell’arte belga Thierry Lenain dimostrano che ciò che è effettivamente in gioco è una forma di appropriazione personale di capacità potenziali – un fenomeno che va ben al di là della capacità di comprensione dei comportamentisti e di altri scienziati di stampo meccanicista. Il problema di queste abilità insolite è che molte di esse emergono nell’interazione con gli esseri umani e che dunque gli etologi duri e puri le considerano come artefatti comportamentali poco interessanti. A parità di condizioni, è come se si dicesse di un violinista virtuoso che non è interessante studiarlo nella misura in cui le sue doti provengono da un “condizionamento” materiale – il violino! La prospettiva degli etologi è distorta da un “condizionamento” naturalista di cui non sono consapevoli. 3.6. L’animale come sistema causale versus l’animale come entità che si autoanticipa L’animale realista-cartesiano è un sistema causale e deterministico: gli organigrammi funzionali dell’etologia oggettivista del dopoguerra raggiungono in questo senso una complessità indecifrabile8. L’animale bicostruzionista si distingue da un sistema fisico per le sue capacità di anticipazione9. Se lancio una pietra, posso calcolare la sua traiettoria con molta precisione; se lancio un gatto, tale previsione è impossibile, poiché il gatto si comporterà in modo tale da cadere sulle zampe. L’auto-anticipazione intesa in questo modo è una proprietà semiotica singolare molto diversa dalla previsione, che è causalista. 3.7. Storia La ricchezza dello spazio dei possibili nell’animale ci costringe a concepirlo come un soggetto storico – tanto sul piano biologico, evi8 9
Cfr. per esempio gli organigrammi proposti negli anni sessanta da Robert Hinde, per spiegare il canto degli uccelli. La nozione di sistema auto-anticipante è stata proposta da Robert Rosen (cfr. Rosen 1991; 2000) ed è stata ripresa da Nadin (2003).
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dentemente, che su quello culturale, il che è meno ovvio per gli etologi. Inoltre, questa storia è sempre duplice: certamente è quella del collettivo (o più esattamente di varie collettività)10, ma anche quella dell’individuo11. L’etologia è così chiamata a convergere con l’etnologia12. Per gli scienziati realisti-cartesiani, l’animale non è che un piccolo robot senza storia, nei due sensi del termine: l’animale non produce storia e non è possibile raccontare su di lui delle storie che non siano superficiali e ingenue. Quando Dennett (cfr. Dennett 1990) descrive l’etologia come una forma di “retro-ingegneria” va preso alla lettera: non intende essere né spiritoso né ironico.
4. Due epistemologie molto diverse I due paradigmi appena discussi si basano su modelli epistemologici molto differenti che è utile mettere a confronto. L’epistemologia è di solito considerata come una pratica intellettuale volta a chiarire la pratica scientifica, ma penso ch’essa serva piuttosto a legittimarla. L’epistemologo è il sicario dello scienziato, il suo “portaborse” (categoria utilizzata durante la guerra d’Algeria), il suo “utile idiota” (per riprendere un’espressione di Sartre). In risposta allo scettico (che è scettico rispetto alla scienza, o rispetto a un particolare approccio considerato), l’epistemologo spiega come alcuni scienziati abbiano buoni motivi per imporsi su altri. L’inquietante scoperta di Feyerabend (e il motivo per cui è detestato anche dai filosofi della scienza), alla quale è giunto a partire da una lettura sovversiva dell’opposizione popperiana tra logica della scoperta e logica della giustificazione, è che tutto è ammesso nella scienza. Voler restringere artificialmente i metodi validi è particolarmente utile per neutralizzare i concorrenti. L’epistemologia realista-cartesiana, in altre parole, non giustifica la veridicità del proprio approccio, ma tende piuttosto a squalificare gli approcci metodologici di chi vorrebbe contestarne il paradigma.
10 Ho parlato della complessità di questo fenomeno in (Lestel 2008). 11 Una delle tendenze più entusiasmanti dell’etologia contemporanea è quella interessata all’individuazione nelle formiche. 12 Per una prima teorizzazione di questo punto, cfr. (Lestel, Brunois e Gaunet 2006).
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Epistemologia realista-cartesiana
Epistemologia bi-costruzionista
Finzione dell’osservatore inesistente.
Ogni osservazione richiede un osservatore.
Paradigma del contagio: ogni osservatore può contaminare il comportamento dell’animale ed è fondamentale preservarlo da tale contatto.
Paradigma del concatenamento: ciò che è necessario spiegare non è come evitare la trasformazione, bensì perché essa si produce così facilmente, e quali sono i meccanismi in gioco.
L’antropomorfismo è il pericolo numero Bisogna seguire un approccio popperiano delle capabilità dell’animale basato sulla uno. familiarità con l’animale. Gli aneddoti devono essere assolutamen- Le occorrenze rare costituiscono dei dati te interdetti. preziosi da raccogliere con cura. Empirismo ingenuo e realista. La realtà dell’animale si svela interamente attraverso osservazioni rigorose ed esperienze giudiziose. Nessuna dimensione concettuale dell’etologia.
Costruzionismo dei costruzionisti. Necessità di legare osservazione, sperimentazione e concettualizzazione per comprendere le varietà dei costruzionismi animali.
Ideale di trasparenza (si può e si deve for- Esisterà sempre una parte dell’animale nire una rappresentazione integrale dell’a- irriducibile all’apprensione umana. nimale). Etologia universitaria monopolistica.
Bisogna lasciare spazio a epistemologie minoritarie, quelle di altre culture e quelle dei professionisti dell’animale.
Anche in questo caso è interessante riprendere singolarmente i termini dello schema per precisarli e commentarli. 4.1. Statuto dell’osservatore Lo statuto dell’osservatore è uno dei punti di maggior frizione tra l’epistemologia realista-cartesiana e l’epistemologia bi-costruzionista. Lo statuto dell’osservatore è stato definito nel XVII secolo da parte delle scienze fisiche: egli deve restare il più lontano possibile dal proprio oggetto di studio al fine di ottenerne una descrizione più neutra possibile. Al contrario, nell’approccio bi-costruzionista, l’osservazione di un animale è un processo interattivo. Osservatore e osservato giocano ruoli complementari che possono all’occasione invertirsi – l’etologo è costantemente osservato da coloro ch’egli osserva. La relazione che li lega l’uno agli altri è tutt’altro che
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semplice e il resoconto che ne fa il positivismo è del tutto insufficiente. La questione che ossessiona il positivista (in che modo l’osservazione disturba l’animale) non è più sensata di quella che consisterebbe nell’escogitare un modo per comprare il pane senza disturbare il panettiere. Entrambe le situazioni sono situazioni sociali, cioè situazioni in cui gli uni e gli altri si adattano a coloro che incontrano. Il preteso ideale dell’agente segreto è semplicemente assurdo, inefficace e per di più scortese. 4.2. Antropomorfismo L’antropomorfismo perturba la relazione con l’animale solo nelle fantasie dell’osservatore puritano che non vuole compromettersi, sotto il pretesto che potrebbe compromettere l’altro. Al contrario, l’antropomorfismo dovrebbe essere considerato come una risorsa piuttosto che come un difetto. L’oggettività funzionale dell’etologo realista-cartesiano si basa su una logica ingegneristica che impoverisce notevolmente le situazioni (con il pretesto di semplificarle), allorché l’approccio bicostruzionista insiste piuttosto sulla necessità di stabilire rapporti di buon vicinato con l’animale studiato affinché si possa dispiegare una feconda conoscenza reciproca. 4.3. Aneddoti e osservazioni rare ed eccentriche L’etologo realista cartesiano prova un timore panico di fronte a quelli che chiama “aneddoti”. L’aneddoto non rappresenta solo un’informazione statisticamente insignificante e quindi non pertinente, ma rappresenta inoltre un’informazione eccentrica che induce in errore. Bisognerebbe piuttosto parlare di osservazioni rare, che non si verificano che di rado. Il modello “meccanicista” dell’etologo realista-cartesiano non solo, in definitiva, è poco realistico, ma è anche molto semplicistico. Dopotutto, gli astrofisici si confrontano costantemente con osservazioni rare senza essere immediatamente presi dal panico nel figurarsi soggiacenti intenzioni sovversive. C. Boehm sottolinea giustamente che a Gombe è stata osservata una sola ribellione di subalterni in 35 anni di studio continuo (Boehm 1999). C. Boesch, a sua volta, descrive un solo caso di insegnamento presso gli scimpanzé (una femmina che insegna al suo cucciolo a rompere delle noci di Coula molto dure con un percussore e un’incudine) e questa è l’unica osservazione di un simile comportamento che abbiamo (Boesch 1999); e si potrebbero moltiplicare gli esempi per un numero molto elevato di specie. Che ci siano osservazioni eccentriche o delle sovra-interpretazioni è fuori
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discussione, ma non bisogna buttare il bambino con l’acqua sporca: è al contrario una caratteristica fondamentale di ogni sistema vivente, quella di generare fenomeni rari – e persino, orrore, profondamente perturbanti13. 4.4. Empirismo ingenuo, realismo e costruzionismo L’approccio realista-cartesiano si basa in etologia su un empirismo ingenuo e una concezione realista del mondo frutto di una finzione. Impiego il termine “ingenuo” perché l’etologo considera in generale il lavoro concettuale come una perdita di tempo. È sufficiente, secondo lui, per comprenderlo, osservare l’animale con una certa attenzione (che può richiedere un’attrezzatura sofisticata). Egli accetta d’altronde come intemporali e naturali dei concetti che hanno una lunga storia culturale. L’approccio bi-culturale è al contrario sensibile a tale complessità dei concetti e della loro storia, anche di quelli apparentemente più semplici. 4.5. Ideale di trasparenza Per il realista-cartesiano, un animale è un agente totalmente trasparente ch’egli può descrivere in modo esaustivo. Questo ideale di trasparenza si basa su tre prerequisiti che raramente vengono enunciati esplicitamente. Il primo consiste nel presupporre che l’animale sia una sorta di macchina, di cui l’etologo ideale deve fornire il manuale per l’uso. Il secondo, che è possibile trovare questo piano ricorrendo al metodo sperimentale e alle osservazioni statistiche. Il terzo è che esistono criteri affidabili che permettono di distinguere le informazioni rilevanti dalle altre. Il bi-costruzionista ritiene, al contrario, che sia impossibile eliminare ogni traccia di singolarità nell’animale individuale e che ognuna di queste tracce sia importante. L’animale non è una macchina, e ogni organismo è il risultato di contingenze storiche e di una miriade di traiettorie diverse. Un matematico non può rintracciarle in anticipo perché lo spazio dei possibili è non tanto infinito quanto piuttosto indefinito. Gli aneddoti animali non sono monadici ma interattivi, inseparabili l’uno dall’altro, cooperativi e irreversibili. Ed è chimerico voler trovare un ipotetico punto zero a partire dal quale si potrebbe riavvolgere l’animale e far ricominciare la sua vita diversamente. Delle caratteristiche apparentemente secondarie giocano spesso un ruolo 13 Cfr. (Taleb 2001; 2007). Il problema degli etologi è che hanno un rapporto feticistico con statistiche che non comprendono: è uno strumento troppo potente che non sanno maneggiare.
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essenziale. In un accesso di modestia che gli fa onore, il realista cartesiano è pronto a riconoscere che non può sapere tutto, e ciononostante tralascia un sapere aggiuntivo ch’egli giudica debole o poco interessante. Per il bicostruzionista aneddoti e dettagli nell’osservazione rivelano, al contrario, aspetti “essenziali” dell’animale, benché essere un animale significhi più profondamente che l’essenza dell’animale può essere rivelata solo parzialmente. E d’altronde, l’animale ha davvero una “essenza”? 4.6. Il monopolio dell’etologia accademica e le osservazioni professionali non accademiche L’etologia realista-cartesiana si organizza secondo una duplice strategia, in base alla quale l’etologo vuole stabilire un sapere positivo sull’animale ed eliminare tutti gli altri concorrenti che potrebbero rivendicare una qualche legittimità in materia. Un fisico teorico dovrà competere solo con altri fisici che hanno la sua stessa formazione; non è il caso dell’etologo che si confronta con una folla di professionisti e dilettanti che hanno una conoscenza approfondita di certi animali senza poter esprimere questa conoscenza in un formato universitario: istruttori, cacciatori, allevatori, addestratori, ecc., tutti rivendicano un’esperienza reale con gli animali. Gli etologi hanno allora a disposizione due armi per eliminare questa concorrenza selvaggia: l’accusa di antropomorfismo e quella della mancanza di un’istruzione formale che conferisca un diploma riconosciuto. Il bi-costruzionista cerca sempre, al contrario, di collaborare pienamente con questi soggetti non accademici.
5. L’animale singolare I due approcci all’animale che ho delineato si basano su due concezioni inconciliabili. La nozione di “animale singolare” ci permette di capire, a partire da un fenomeno preciso, in che misura l’approccio bicostruzionista sia più efficace della prospettiva realista-cartesiana nell’affrontare le complessità dell’animalità. Ho proposto il concetto di “animale singolare” all’inizio degli anni 2000 (Lestel 2004; 2007) per rendere conto di quegli animali dotati di capacità che non si trovano (o che si trovano solo in minima parte) in altri membri della loro specie: animali in grado di stabilire un rapporto diverso con il mondo, secondo modalità che sono loro proprie. Tali capabilità si evolvono nel corso delle loro vite individuali e differiscono da un individuo all’altro. Wattana è un tipico esempio di animale
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singolare. Questa giovane femmina di orango, che viveva nella ménagerie del Jardin des Plantes di Parigi era capace di fare dei nodi, laddove le altre grandi scimmie non ne sono capaci, ad eccezione dell’essere umano (cfr. Herzfeld e Lestel 2005a; 2005b). Nel paradigma realista-cartesiano, un animale non può rappresentare individualmente un motivo di sorpresa. Anche se alcuni comportamenti sono potenzialmente imprevedibili, rimangono comportamenti specie-specifici che tutti i membri di quella specie, posti in circostanze simili, potrebbero adottare. Naturalmente è possibile scoprire specie che presentano comportamenti inaspettati, ma è improbabile che tali scoperte si verifichino con specie note. Tali osservazioni sono considerate eccentriche e non significative. La nozione di “innovazione comportamentale” emersa alla fine degli anni ’90 mostra come alcuni animali possano sviluppare nuovi comportamenti che saranno successivamente trasmessi ai loro congeneri. Ma in questi studi l’accento è posto sul comportamento piuttosto che su colui che lo inventa: farlo avrebbe avuto una scomoda conseguenza, avrebbe cioè costretto ad ammettere che certi animali possono essere “diversamente animali” rispetto ai congeneri con i quali vivono. Un animale singolare dispiega attività elaborate che non possono essere ricondotte a comportamenti semplicemente innovativi. Ciò che è qui in gioco non sono solo dei comportamenti ma un insieme di comportamenti nuovi relativi a un individuo ben preciso. Le attività dell’individuo singolare sono irriducibili a comportamenti rari (come la nascita di un cucciolo di elefante) o eccentrici (come le due teste del serpente I/M descritto da Burghardt). La sfida maggiore posta dalla nozione di animale singolare è quella dei limiti della specie. La nozione di specie rappresenta già un rompicapo insolubile per i biologi, che non riescono a trovare una definizione capace di ottenere un consenso generale (cfr. Lestel 2020), e non sorprende che la situazione sia ancora più confusa a livello comportamentale e cognitivo. Il fatto che perlomeno alcuni animali possano agire in maniera inaspettata rispetto alle aspettative della specie, non può essere pensato semplicemente come dimensione supplementare dei comportamenti animali, ma deve essere preso come il segno della necessità di riconsiderare profondamente ciò che è una specie, assumendola non solo come una categoria biologica, quanto piuttosto come uno spazio esistenziale all’interno del quale ogni singolo animale vive la sua esistenza (alcune specie, come l’orango-tango, saranno allora dotate di una mobilità molto superiore a quella, per esempio, della formica, che comunque non ne è affatto priva). Ne deriva una questione inedita: come rendere conto di ciò che significa far parte di una specie dal punto di vista della prima persona. A questo proposito, è utile distinguere
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diversi meccanismi di trasformazione. Ne distinguerò tre che mi sembrano rilevanti: l’indeterminazione comportamentale, l’imprevedibilità comportamentale e la creatività, ciascuna delle quali mostra una tappa ulteriore della complessità con cui ci confrontiamo. 5.1. Indeterminazione comportamentale L’idea d’indeterminazione comportamentale è stata originariamente concepita a proposito del comportamento dei vermi (Eberhard 1990). L’innovazione che ne dipende non deriva da mutazioni ma da un’indeterminatezza che non può essere equiparata a una forma di plasticità dei comportamenti – non si tratta di adattarsi a condizioni ambientali instabili in modo spesso prevedibile, come ad esempio quando le strategie di caccia si adattano al comportamento delle diverse prede. L’indeterminazione comportamentale porta a cambiamenti imprevedibili nel comportamento che sono aleatori rispetto alle caratteristiche dell’ambiente, e che non sono correlati con le variabili ambientali. Questi cambiamenti devono piuttosto essere considerati come rumore nel sistema nervoso. 5.2. Imprevedibilità comportamentale Il concetto di imprevedibilità comportamentale è stato originariamente utilizzato per spiegare i comportamenti schizofrenici da una prospettiva evoluzionistica (Huxley, Mayr, Osmmond, e Hoffer 1964): il comportamento degli schizofrenici sarebbe sintomatico di una tendenza generale di alcuni organismi ad adottare comportamenti imprevedibili. Tali strategie possono essere molto efficaci dal punto di vista sociale (Driver e Humphries 1988), e sono ben note nella teoria evolutiva, come capacità di reagire in modo casuale, per sfuggire ai predatori, catturare prede o trovare partner sessuali, ad esempio. Il comportamento creativo può rappresentare un’alternativa per un potenziale partner sessuale, tanto da indurre il tentativo di comprendere la creatività artistica da una prospettiva evoluzionistica (Dissanayake 1992). 5.3. La creatività Alcuni animali singolari raggiungono dunque uno stadio d’innovazione molto complesso, che è quello della creatività. Essi lo esprimono sia nel loro comportamento che nella realizzazione di artefatti; gli esempi abbondano, ma la loro importanza è sottovalutata. Alcuni dei comportamen-
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ti creativi più sorprendenti emergono durante le interazioni con gli esseri umani: ne sono un esempio i corvi studiati da Heinrich (Heinrich 1999) o le scimmie pittrici a cui si è interessato lo storico dell’arte belga Thierry Lenain (Lenain 1997). K. Pryor (Pryor 1975) ha dimostrato che è possibile insegnare a un delfino l’innovazione, ricompensando ogni comportamento in qualche modo nuovo rispetto ai precedenti. La creatività è molto difficile da spiegare da un punto di vista meccanicistico; essa è legata all’innovazione e i realisti-cartesiani non possono riconoscere l’importanza di un fenomeno non interpretabile in modo puramente meccanicistico.
6. Il problema centrale dell’etologia In generale, i filosofi sono a disagio con le scienze e le tecnologie perché si trovano di fronte a una tecnicità che in gran parte sfugge loro, e l’etologia non fa eccezione da questo punto di vista. Non si tratta soltanto di conoscere la disciplina in questione, ma di conoscerla abbastanza bene da essere capaci di stabilire una distanza critica rispetto al discorso degli scienziati coinvolti: solo una piccola minoranza di filosofi è capace di una tale padronanza del problema. Gli etologi che si credono filosofi sono ancora più sospetti: in generale, lo scienziato pensa che per padroneggiare un campo scientifico sia necessario rispettare un duro apprendistato, mentre è sufficiente leggere qualche autore e rifletterci un po’, per fare della filosofia. Il risultato è di conseguenza patetico: Edward Wilson e Frans De Waal sono caricaturali da questo punto di vista. Si potrebbe riassumere la loro posizione (un po’ in malafede, d’accordo, ma solo un po’!) dicendo ch’essi ritengono che tutti i problemi filosofici hanno risposte biologiche. Una scienza che voglia studiare gli animali viventi non come dispositivi causali più o meno complessi si trova tuttavia ad affrontare una sfida assai ardua: quella di rendere conto di modi di esistere estremamente diversi da quelli degli esseri umani, senza ch’essi siano tuttavia totalmente inaccessibili. La mia scommessa (che è il risultato di una lunga frequentazione degli animali, sia in cattività che in ambienti naturali) è che questi modi di esistere14 passino fondamentalmente per strategie inventive combinate con abitudini ripetitive, entrambe specifiche della specie considerata. Il problema centrale dell’etologia può quindi essere espresso nel seguente modo: come possono gli esseri umani inventare modi per comprendere come gli animali inventano i loro mondi? 14 Non parlo di “modi d’esistenza” che è un’espressione mobilitata da Etienne Souriau e Gilbert Simondon in tutt’altro contesto.
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7. L’osservatore non è mai solo un osservatore se vuol essere un buon osservatore L’obiezione relativistica che si potrebbe opporre a questo approccio è relativamente importante. La molteplicità dei possibili non si riduce a una pluralità di punti di vista epistemologicamente equivalenti e impossibili da valutare secondo criteri rigorosi. Interpretazione debole: un fenomeno può essere talmente complesso che la sua osservazione sarà diversa a seconda del punto di vista adottato, la sintesi di tutti questi punti di vista porta a una rappresentazione più contrastata e forte del fenomeno in questione. Interpretazione forte: l’osservatore stesso fa parte del fenomeno. L’osservatore non è mai solo un osservatore se vuole essere un osservatore rilevante: è sempre qualcuno che agisce nel mondo e lo trasforma. Ne deriva un approccio ermeneutico-popperiano: ogni ipotesi, e le più ardite sono ammissibili e persino attese, deve essere testata empiricamente, ma questo processo non è mai puramente automatico e deve essere sempre accompagnato da discussioni interpretative. La dimensione ermeneutica del processo evidenzia d’altronde l’importanza delle discussioni non dogmatiche nella comprensione dei fenomeni. L’approccio proposto è quindi empirico (nella misura in cui attribuisce molta importanza alla fattualità dei fenomeni) ma non positivista (un fatto resta sempre problematico e il suo significato deve inscriversi in un’interpretazione). 8. L’etologo di troppo C’è una caratteristica affascinante del paradigma realista-cartesiano: in che modo un modello di pensiero che ha costantemente generato errori e interpretazioni false sugli animali (ad esempio nel caso del behaviorismo o della sociobiologia) possa ancora essere considerato serio e legittimo? Ne sarebbe dovuta derivare una certa modestia, e la sua assenza c’interroga. Si potrebbe dare un’affascinante spiegazione di tipo politico: il paradigma realista-cartesiano è ideale per controllare gli etologi stessi. È difficile rendersi conto di quanto l’attività scientifica contemporanea sia diventata burocratica: e non mi riferisco alle domande di sovvenzione, ecc., ma proprio alla pratica scientifica stessa. La procedura necessaria a scrivere un articolo scientifico in modo ch’esso sia pubblicabile su una rivista importante lo dimostra in modo esasperato, separando accuratamente la domanda posta, la descrizione del dispositivo, i dati ottenuti e – sempre in un paragrafo finale a parte – la discussione dei risultati. Tale formato esclude un’intera cate-
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goria di testi e una vasta gamma di pratiche dell’etologia scientifica. Uno dei vincoli imposti dall’esercizio consiste nella necessità di far scomparire ogni osservatore umano, come se non fosse che un elemento secondario del dispositivo proposto. L’ideale inespresso ma evidente in questa negazione, nell’etologia attuale, dell’importanza di quello che in ergonomia verrebbe chiamato “il fattore umano”, è quello di far scomparire il più possibile l’etologo. Quest’ultimo appare solo come un pesante vincolo il cui effetto è globalmente negativo. La sua logica conseguenza è quella di istituire un’etologia senza etologo con dispositivi tecnici che registrano i dati e intelligenze artificiali che li analizzano, ad esempio tramite robot come i droni. Il ruolo occupato dall’etologo, nella costruzione di conoscenza, appare sempre più superfluo, di troppo. 9. L’etologia deve restare una scienza? La risposta è ovviamente affermativa, ma sarebbe più sensato domandarsi se l’etologia non debba essere che una scienza. Il paradigma bi-costruzionista si oppone alla tendenza del paradigma realista-cartesiano, rimettendo l’essere umano al centro del dispositivo etologico e includendo pratiche effettive di osservazione che non si attengono al regime di una scienza oggettivista. Dal momento in cui l’umano torna ad essere un elemento centrale del dispositivo epistemico di osservazione e comprensione dell’animale, sarà possibile assumere fino in fondo questa esigenza e sviluppare un’altra forma di scienza che dia maggiore importanza alle dimensioni soggettive e creative dell’esistenza condivisa con l’animale. In altre parole, è possibile concepire un’“etologia clinica” nella quale si possa studiare il modo in cui quest’uomo qui vive con quell’animale, senza immediatamente sfociare in considerazioni generali sulle interazioni tra le specie? 10. E poi… L’etologia contemporanea segue massicciamente un paradigma realistacartesiano che considera gli animali come sistemi causali più o meno complessi e parte dal presupposto che esiste una realtà indipendente dall’osservatore. L’etologia cognitiva è rimasta sostanzialmente ancorata a questo paradigma, differenziandosi dal behaviorismo solo per il fatto che riconosce alle causalità mentali la stessa esistenza delle causalità fisiologiche dei comportamentisti. L’obiettivo di tali approcci resta sempre quello di for-
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nire una descrizione esaustiva del comportamento animale che si presenta sotto forma di una sorta di manuale di istruzioni un po’ sofisticato, che renda conto di un sistema di funzioni e routine comportamentali – approccio che Dan Dennett sintetizza perfettamente quando definisce l’etologia come una forma di retro-ingegneria. Il paradigma bicostruzionista rompe con questo paradigma riconoscendo che l’animale esercita una vera creatività nel corso della sua esistenza, nonostante i vincoli impostigli dalla specie: l’animale interpreta infatti costantemente ciò che accade ed è ben lungi dal reagire passivamente a questi eventi. Tutti gli esseri viventi sono caratterizzati da uno “spazio dei possibili” (inerente a una data specie ma diverso da individuo a individuo), che si materializza attraverso una costruzione condivisa dell’ambiente, considerato tanto come sistema di segni e sensazioni che come spazio fisico. Una caratteristica fondamentale di questo spazio di possibili è che diventa visibile solo a posteriori: non essendo uno spazio astratto, esso può essere ricostituito, più o meno parzialmente, soltanto après coup. Nella prospettiva del paradigma bi-costruzionista, gli animali non sono prigionieri della specie: essi possono, individualmente o attraverso collettivi opportunistici, costruire nuove finestre sul mondo. Infine, vorrei concludere questo articolo con un’osservazione che mira ad aprire ancor più il paradigma del bi-costruzionismo: in questa occasione ho parlato solo di animali, ma tale prospettiva vale anche per altri ordini del vivente – vegetali, funghi, batteri o archeobatteri – che, ancor più degli animali, rappresentano campi di ricerca sterminati ancora in gran parte inesplorati. L’impresa di concepire gli esseri viventi come soggetti semiotici, ermeneutici e intrinsecamente creativi non è che agli inizi. (Traduzione dal francese di Benedetta Piazzesi) Riferimenti bibliografici Boesch, C. 1999 Teaching in wild chimpanzees, in “Animal Behaviour”, 41, pp. 530-532. Boehm, C. 1999 Hierarchy in the forest. The evolution of egalitarian behavior, Harvard University Press, Cambridge. Dennett, D. 1990 The interpretation of texts, people and other artifacts, in “Philosophy and Phenomenological Research”, 50, pp. 177-194.
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Commento introduttivo a La neuroscienza cognitiva incarnata e le sue conseguenze per la psichiatria di Thomas Fuchs Francesco Pisano Nella considerazione ecologica della mente si gioca, secondo Fuchs, l’attualità dell’umanismo. Vale a dire: la possibilità di un umanismo compatibile con la svolta naturalistica che sul finire del secolo scorso ha travolto diversi aspetti della cultura filosofica. Come conseguenza di questa svolta, nella filosofia europea ha aleggiato, durante i successivi vent’anni, un’aria post-alluvionale. È sembrato ovvio collocare l’edificio umanista, già profondamente minato dalla storia culturale e politica del Novecento, tra le prime vittime del cataclisma. Per introdurre il lavoro di Fuchs e il suo significato umanistico nel panorama dell’epistemologia contemporanea, bisognerebbe allora compendiare gli effetti del Novecento sulle autorappresentazioni della filosofia. Dobbiamo qui renderci presente almeno un aspetto specifico di questa storia: la distruzione di qualunque idea di filosofia che non comprenda la convinzione della fine della filosofia1. Questa distruzione ha prodotto un paradosso, e con esso un’aporia. L’imbarazzante impressione di raccogliere cocci, per chi si dedica al lavoro filosofico, si è quindi facilmente trasformata in risentimento contro la svolta naturalistica. Il paradosso di una filosofia non-filosofica smette di essere un problema operativo e diventa fonte di risentimento quando la sua origine è collocata in luoghi connotati soltanto negativamente: l’analisi linguistico-concettuale e il laboratorio delle scienze cognitive. In varia misura sconosciute e/o 1
Due vie, tradizionalmente contrapposte, convergono verso questo esito: quella che passa per Heidegger e quella che passa per Wittgenstein. Se si accetta la dicotomia novecentesca tra filosofia “continentale” e filosofia “analitica”, e dunque l’idea che la loro somma componga l’insieme del lavoro filosofico, risulta chiara l’influenza globale dell’idea della fine della filosofia nello spazio della filosofia – poco importa se essa debba cedere il passo al chiarimento del linguaggio o al suo innalzamento a un ordine poetico. Cfr. (Guignon 1990).
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temute, queste officine della svolta analitica e poi naturalistica restano, in buona parte della discussione filosofica europea odierna, dogmaticamente contrapposte o comunque alienate rispetto all’autorappresentazione “continentale” della filosofia. Questa narrazione è una semplificazione non sempre esplicitata, ma comunque invalsa in molte ricostruzioni della storia della filosofia recente. Non c’è oggi chi vi aderirebbe in sede scientifica, cioè pubblicamente, senza precisarla alla luce delle proprie convinzioni. Ma resta una narrazione ricca di effetti. Un valore centrale della ricerca di Fuchs sta nella chiarezza che questa ricerca getta sull’operato laboratoriale delle scienze cognitive e sulle implicazioni di questo operato per l’idea di umanità – disinnescando, in questo modo, una delle opposizioni dicotomiche alla base di questa narrazione. Si tratta di implicazioni eticoantropologiche che, al di là di riduzionismi e dogmatismi, continuano a porre problemi operativi e operabili dal punto di vista della tradizione filosofica europea. Thomas Fuchs (1958) insegna filosofia e psichiatria all’Università di Heidelberg. È anche uno psichiatra attivo in ambito clinico. Il suo lavoro epistemologico è quindi informato dalla sua familiarità con il laboratorio delle scienze cognitive. Questa giuntura biografica ci orienta già verso un presupposto concettuale del suo lavoro: la sofferenza psichica umana (tema della psichiatria) può essere trattata “scientificamente” assumendo metodi e strategie propri dell’esplorazione sperimentale della cognizione umana (compito delle scienze cognitive), a patto che questa trattazione sia mediata da un’indagine fenomenologica. Questa indagine dovrà mantenere ciò che è proprio dell’esperienza umana e delle sue distorsioni patologiche (cioè, anzitutto, l’essere vissuta in prima persona), trasportandolo però su un piano strutturale o eidetico. Su questo piano, essa andrà intesa come il correlato di un’architettura cognitiva abbastanza stabile da poter essere trattata sperimentalmente, cioè come un complesso di costanti e variabili vincolate. In altre parole, la fenomenologia dovrebbe sollevare il problema della sofferenza psichica dalle ristrettezze dell’individualità radicale (la mia sofferenza) a un piano ideale comunitario (la nostra sofferenza) e trattabile in termini scientifici, senza per questo schiacciare questo secondo piano sui parametri del laboratorio. Attenendosi a questi parametri, infatti, si può affrontare la sofferenza psichica soltanto come sofferenza di esso, dell’uomo come soggetto sperimentale. La questione è ancora aperta, nell’epistemologia contemporanea della psichiatria. In effetti, la psichiatria è una pratica tale che il domandarsi se essa sia scienza o meno mette in questione la stessa demarcazione generale tra scienza e non-scienza (Cooper 2009).
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La familiarità col laboratorio serve a Fuchs, quindi, per fronteggiare il problema, insieme etico ed epistemologico, della sofferenza psichica. Egli sviluppa il suo lavoro lungo due direzioni. Una prima direzione discute concetti come “incarnazione”, “corpo vivente”, “temporalità” e “intersoggettività” nel quadro di una teoria generale del nesso tra fenomenologia e scienze cognitive, cioè nel quadro di una fenomenologia naturalizzata2 alla luce delle neuroscienze. A questo piano appartengono ricerche di ampio respiro, come (Fuchs 2000; 2017) e il più recente (Fuchs 2021). L’ampio respiro di Fuchs è un respiro antropologico: la domanda su come fare psichiatria ha come orizzonte problematico un complesso di questioni legate alla sofferenza psichica. Le risposte fornite da Fuchs gravitano attorno a un’idea implicita nel suo discorso: l’idea che lo scopo della psichiatria consista nella comprensione della grande varietà delle patologie psichiche come manifestazioni di tensioni e storie anzitutto umane – e in questo senso, appunto, nostre. La circoscrizione dell’ambito psichiatrico attraverso la questione terapeutica fa leva, quindi, su un presupposto umanista. Il lavoro psichiatrico consiste, di conseguenza, nell’integrare ciò che è osservabile nel quadro delle scienze cognitive a una descrizione fenomenologica (cioè strutturale, o meglio eidetica) della psiche umana in vista di una funzione terapeutica, dove è inteso che la terapia serve a rispondere a una richiesta avanzata da pazienti umani effettivamente sofferenti e capaci di articolare espressivamente la propria sofferenza. Il secondo piano di sviluppo delle ricerche di Fuchs prende in carico proprio l’individualità costitutiva del destinatario della terapia clinica, e la esplora attraverso casi di studio (ad es. Fuchs 2012; 2019a e 2019b) individuali3. Lavorare a una teoria umanista della sofferenza umana dopo la naturalizzazione dell’epistemologia significa cercare un nesso tra una varietà di osservazioni neurologiche registrate e protocollate su livelli diversi, rispetto a oggetti tematici diversi, e un modello unitario e positivamente caratterizzato di ciò che è umano – modello che dovrebbe circoscrivere in modo sistematico questi oggetti. Il tradizionale problema della conoscenza scientifica dell’individuale assume però, in Fuchs, un senso più concreto. La salute psichica dell’individuo non può essere spiegata o comunque regolata da una legge generale, perché ciascuna vita psichica umana è tale proprio in quanto chiede il riconoscimento della sua propria sofferenza individua2 3
Testo chiave per iniziare ad addentrarsi nel complesso progetto di naturalizzare la fenomenologia è (Petitot et al. 1999). Una bibliografia dettagliata e quasi completa degli scritti di Fuchs a partire dal 2008 è liberamente consultabile a questo indirizzo web: .
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le – proprietà esistenziale da cui la legge generale, come tale, astrae. Le richieste individuali di riconoscimento della sofferenza non possono essere assorbite da alcuna legge generale, perché chi soffre non potrebbe fare niente col tipo di spiegazioni che una psichiatria puramente nomologica sarebbe in grado di offrire. Trattare le patologie psichiche in modo scientifico significa trattarle iuxta propria principia. Tra i loro principi ci sono anche la libertà e l’espressività umane. Perciò, queste richieste di riconoscimento insistono alle porte di ogni edificazione teorica della scienze mediche e non possono essere cacciate via. Esse mostrano i punti ciechi di queste scienze, il residuo che esse tralasciano – residuo tanto più notevole quanto più la vita umana assunta a tema è ridotta ai confini del laboratorio. Senza un’epistemologia della psichiatria capace di restare aperta all’individuale che la trascende, insomma, le nostre speranze di affrontare la sofferenza psichica con mezzi adeguati risultano radicalmente indebolite. E ciò a sua volta porta allo scoperto, nell’età della sofferenza psichica4, un’altra domanda: se i processi di naturalizzazione rendono più efficaci, in generale, le pratiche scientifiche, e se queste pratiche devono in qualche modo migliorare le nostre condizioni di vita, perché il trionfo della tecnoscienza naturalizzata coincide con un diffuso danneggiamento della salute mentale individuale e collettiva? Questa domanda chiama in questione la presunta efficacia dell’apparato naturalizzante come garante del rapporto stabile tra noi, la verità e la felicità. Fuchs sviluppa la questione, come dicevo, in modo non dogmatico dall’interno del laboratorio. Egli appartiene a quel gruppo di filosofi che ha cercato, più o meno recentemente, di rendere abitabile il laboratorio, almeno per gli ospiti legittimati a entrarvi5, sottraendolo alla caratura unilateralmente negativa che gli antinaturalismi gli hanno attribuito. L’umanismo naturalizzato proposto da Fuchs è un umanismo che non ha più bisogno di contrapporsi al laboratorio – un umanismo strettamente correlato alla possibilità di un’epistemologia non riduzionista delle scienze cognitive. “Naturalismo”, infatti, non è necessariamente riduzionismo. Non implica, cioè, la convinzione che si possa parlare in modo esauriente della natura soltanto con la grammatica delle scienze naturali, e che dunque se ne debba parlare con questa grammatica. Un’epistemologia naturalizzata ma non riduzionista dovrebbe essere capace di definire l’oggetto tematico delle scienze cognitive senza ridurne 4 5
L’introduzione più incisiva al rapporto tra l’epoca presente e un’endemia di patologie a carattere depressivo è fornita da (Fisher 2019). Un esempio su tutti: (Latour 1998).
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il senso ai termini della grammatica fisicalista. Questo oggetto non ridotto sarebbe, ai minimi termini, la persona umana in quanto sistema integrato, entro la quale la sofferenza più intima e individuale dovrebbe rivelarsi sistematicamente connessa a una pluralità di aspetti e livelli di analisi, a loro volta unificati nella personalità e nell’istanza di sofferenza o disagio psichico che essa pone, chiedendo aiuto, allo psichiatra (Fuchs 2021, pp. 181-195). La specificità dell’antiriduzionismo fuchsiano sta, quindi, in un certo modo di integrare concettualmente la sofferenza psichica nell’ecologia della mente. Questa integrazione avviene a partire dal suo carattere intenzionale. Messo in rapporto con il concetto di natura e, in particolare, con l’ordinaria tensione naturalizzante che da lungo tempo signoreggia in epistemologia (Rysiew 2021), il concetto di intenzionalità si frantuma in profili logici, ontologici, ma anche etici, antropologici ed esistenziali, correlati ai mezzi concettuali e operativi attraverso i quali, di volta in volta, si taglia il concetto di natura. Il lavoro di Fuchs si fa carico di tutti questi profili. Li lega attraverso un concetto di natura sintonizzato, anzitutto, sul mondo della vita umana6, sul luogo abitato dagli umani. La difesa fuchsiana di un umanismo post-alluvionale viene fatta passare, insomma, attraverso una rielaborazione fenomenologica di questioni epistemologiche. Ciò segnala già l’esigenza che una critica dell’idea riduzionista di natura sia ripensata a partire dal fatto che esperienza e significato – le altre due componenti strette nel nesso intenzionale studiato dalla fenomenologia, il quale tiene tradizionalmente insieme appunto essere (naturale), esperienza e significato – hanno luogo nella natura, non fuori di essa; e che, viceversa, non c’è natura che non sia pensata tramite un significato, e dunque interpretata e reinterpretata entro il procedere dell’esperienza vissuta. Questo è il suggerimento epistemologico più generale che Fuchs, insieme ad altri che hanno tentato e tentano di conciliare indagine fenomenologica e scienze cognitive7, ci trasmette. Il saggio che segue si trova in una posizione privilegiata per presentare questa strategia generale di mediazione a partire dalla sua destinazione concreta: la ricomprensione della patologia psichica, cioè della sofferenza individuale e umana che essa eventualmente sottintende al di là del suo inserimento in un quadro patologico. Muovendoci dal piano generale del confronto tra paradigma neurobiologico e paradigma ecologico di considerazione della mente verso il problema del trattamento terapeutico della patologia 6 7
Fuchs reinterpreta, qui, un concetto di matrice husserliana. Per un’introduzione al suo senso e alle sue implicazioni, cfr. (Costa 2009, pp. 183 ss). Un esempio classico di questo tentativo è offerto da (Gallagher e Zahavi 2009).
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psichica non abbiamo, però, solo l’impressione di muoverci dal generale al particolare secondo un movimento applicativo. Ci sembra anche di risalire verso lo sfondo olistico, ecologico, vitale e umano che dovrebbe perimetrare i processi di produzione di teorie scientifiche. Questo doppio movimento funziona solo se si accetta la scommessa umanista e fenomenologica di Fuchs. Tale scommessa resta, più in generale, la chiave di volta di molti tentativi di riorganizzazione del progetto razionalista (cioè: non cocci, ma edifici; non paradossi, ma problemi operativi) dopo la svolta naturalistica. Riferimenti bibliografici Cooper, R. 2009 Is psychiatric research scientific?, in M. R. Broome, L. Bortolotti (a cura di), Psychiatry as Cognitive Neuroscience: Philosophical perspectives, Oxford University Press, New York, pp. 12-28. Costa, V. 2009 Husserl, Carocci, Roma. Fisher, M. 2019 “La lenta cancellazione del futuro”, in V. Perna (a cura di), Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti, minimum fax, Roma, pp. 11-47. Fuchs, T. 2000 Leib, Raum, Person. Entwurf einer phänomenologischen Anthropologie. Klett-Cotta. 2012 The Extended Body: A case study in the neurophenomenology of social interaction, in “Phenomenology and the Cognitive Sciences”, 11, pp. 205–235. 2017 Ecology of the Brain. The Phenomenology and Biology of the Embodied Mind, Oxford University Press, New York. 2019a The Experience of Time and its Disorders, in G. Stanghellini et al. (a cura di), The Oxford Handbook of Phenomenological Psychopathology, Oxford University Press, New York. 2019b The Life-World of Persons with Mood Disorders, in G. Stanghellini et al. (a cura di), The Oxford Handbook of Phenomenological Psychopathology, Oxford University Press, New York. 2021 In Defense of the Human Being. Foundational Questions of an Embodied Anthropology, Oxford University Press, New York. Gallagher, S. e Zahavi, D. 2009 La mente fenomenologica. Fenomenologia e scienze cognitive, Raffaello Cortina Editore, Milano.
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Guignon, C. 1990 Philosophy after Wittgenstein and Heidegger, in “Philosophy and Phenomenological Research”, 50/4, pp. 649-672. Latour, B. 1998 La scienza in azione. Introduzione alla sociologia della scienza, Edizioni di Comunità, Roma. Petitot, J. et al. (a cura di) 1999 Naturalizing Phenomenology: Issues in Contemporary Phenomenology and Cognitive Science, Stanford University Press, Stanford CA. Rysiew, P. 2021 Naturalism in Epistemology, in E. N. Zalta (a cura di), The Stanford Encyclopedia of Philosophy, .
Thomas Fuchs
LA NEUROSCIENZA COGNITIVA INCARNATA E LE SUE CONSEGUENZE PER LA PSICHIATRIA
1. Introduzione Il progresso della ricerca sul cervello, durante gli ultimi due decenni, dimostra la potenza del paradigma neurobiologico. Quando è applicato al fenomeno della malattia mentale, tuttavia, questo progresso genera spesso una prospettiva ristretta – com’è tipico di ogni paradigma scientifico. Gli psichiatri dovrebbero essere coscienti di questa restrizione: diversamente dai neurologi, infatti, essi hanno a che fare con persone piuttosto che con cervelli. La prospettiva ristretta può essere descritta criticamente da questi termini: (1) riduzionismo, (2) reificazione e (3) isolamento. (1) Riduzionismo. Nella sua forma riduzionista, la neurobiologia tende a guardare alla soggettività come a un mero sottoprodotto dell’attività del cervello quale macchina per manipolare simboli o come processore di informazioni. La coscienza diventa un epifenomeno del meccanismo neuronale che, operando alle nostre spalle, crea l’illusione di un sé continuo e di un volere autonomo (Churchland 1995; Roth 1996). (2) Reificazione. Sembra che stati mentali o soggettivi possano essere localizzati nel cervello. Pensieri o sentimenti, pare, possono essere osservati nell’illuminazione colorata di strutture corticali e subcorticali. Ciò risulta nella credenza che le immagini del cervello possano mostrare anche la causa di una malattia mentale, o la malattia mentale stessa – la quale consisterà, per esempio, in una ridotta attività metabolica in certe aree della corteccia. (3) Isolamento. Come ulteriore conseguenza, questa prospettiva isola il paziente individuale e tratta la sua malattia come separata dalle interconnessioni con il suo ambiente. Tuttavia, è su queste interconnessioni che le sue esperienze personali e le sue disposizioni sono fondate, ed è spesso l’effettiva situazione interpersonale che innesca la sua malattia.
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Queste tendenze verso un riduzionismo neurobiologico non sono affatto inevitabili. Potrebbero essere contrastate da quello che io chiamo prospettiva estesa o ecologica della mente e del cervello. Secondo questa prospettiva, la mente non è nel cervello. Anzi, non è localizzata in alcun posto, ma è piuttosto distribuita tra il cervello, il corpo e l’ambiente. Per spiegare questa affermazione, cito Ludwig Feuerbach, filosofo del diciannovesimo secolo: Non è l’anima a pensare e sentire, né il cervello; poiché il cervello è, in quanto tale, un’astrazione fisiologica, un organo tagliato fuori dalla totalità del teschio, della faccia, del corpo nel suo complesso. Il cervello è l’organo della mente solo nella misura in cui è connesso a una testa e a un corpo umani (Feuerbach 1846/1985, p. 177).
Vorrei aggiungere: un corpo umano che è connesso con il suo ambiente e con altri esseri umani incarnati. Con questa aggiunta, la citazione cattura sostanzialmente l’essenza del mio argomento, che si svilupperà come segue. L’odierna neuroscienza cognitiva guarda alla mente come in qualche modo localizzata in, causata da o identificabile con il cervello. Tuttavia, questo cortocircuito tra mente e cervello porta a una impasse concettuale e metodologica, perché trascura il carattere essenzialmente incarnato, relazionale e biografico della mente umana. Per trovare la nostra via di fuga da questa impasse, dobbiamo superare il dualismo di mente e cervello attraverso la considerazione del fenomeno della vita, inclusivo dell’organismo, del corpo vissuto e del mondo della vita in cui sia la mente che il cervello sono radicati. Ciò porta alla mia tesi: La mente individuale non è confinata nella testa, ma si estende attraverso il corpo vivente e include il mondo al di là della membrana dell’organismo, e specialmente il mondo interpersonale del sé e dell’altro; questo è anche il mondo in cui mente e cervello sono essenzialmente formati. Qui di seguito prima discuterò e proverò a supportare questa tesi, poi spiegherò alcune delle sue conseguenze per la psichiatria e per il concetto di malattia mentale.
2. Il divario mente-corpo e la teoria del doppio aspetto La neuroscienza cognitiva è ancora basata sul divario principale tra il “mentale” e il “fisico”, o tra la mente soggettiva e il corpo oggettivo – la prima accessibile solo dall’interno, o dalla cosiddetta prospettiva in prima persona, l’altra accessibile solo dall’esterno, o da una prospettiva in terza persona. Perciò, mente e mondo sono anche trattati separatamente
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l’uno dall’altro, con il mondo esterno rispecchiato dalla mente, la quale funge da sistema rappresentazionale collocato nella testa. Come nota Thompson (2007, p. 36), ciò ha prodotto “modelli astratti e reificati della mente come sistema fisico di simboli, disincarnato e senza cultura” collocati nel cervello di un individuo isolato. Quel che va perso, nel divario principale, è la persona umana, cioè, essenzialmente, l’essere vivente, il soggetto incarnato. La persona non è né pura soggettività esperita da dentro, né un complesso sistema fisiologico osservato dall’esterno: è un essere vivente che interagisce con gli altri nella seconda persona, o nella prospettiva-“tu”. Ciononostante, l’odierna filosofia della mente è basata principalmente sull’assunzione di una profonda differenza tra coscienza e vita biologica – l’una concepita come interna e puramente mentale, l’altra come una proprietà esterna e funzionale di certi sistemi fisici. Così, la base della mente si restringe fino al cervello, e il corpo coi suoi sensori e attori diventa un mero dispositivo input-output al servizio del cervello. Dunque non c’è modo di chiudere il baratro tra mente e vita (Thompson 2007, p. 222). Sconnessi dal loro ancoraggio nell’organismo vivente, i processi mentali e neuronali possono essere relazionati solo l’uno all’altro, risultando in un cortocircuito di mente e cervello e nella molteplicità di vani tentativi di superare questo divario cartesiano. Il cosiddetto problema difficile della coscienza non può essere risolto finché la mente e la vita sono concettualizzate in modo tale da escludersi reciprocamente in modo intrinseco. Una possibile via di fuga da questa impasse potrebbe basarsi sulla nozione di incarnazione [embodiment], che fa riferimento sia al radicamento [embedding] dei processi mentali nell’organismo vivente sia all’origine di questi processi nell’esperienza sensomotoria di un organismo. Il cervello è primariamente un organo dell’essere vivente, e solo attraverso questo essere vivente esso diventa un organo per la mente. Perché sia corpo che mente sono essenzialmente in relazione con ciò che sta oltre di loro, e dunque essenzialmente dipendenti sullo scambio continuo con il loro ambiente (Jonas 1966). Come la respirazione non può essere ristretta ai polmoni, ma funziona soltanto in un’unità sistemica con l’ambiente, così la mente individuale non può essere ristretta al cervello. Perché la coscienza non è affatto un oggetto o uno stato che può essere localizzato, ma piuttosto un processo del relazionarsi a qualcosa: un percepire-di, ricordare-di, desiderare-che, mirare-a, ecc. Questo carattere dinamico e intenzionale della coscienza non è coperto dal concetto del singolo “evento mentale” che potrebbe essere tradotto in corrispondenti stati mentali. Perciò, nemmeno il sistema neurocognitivo può essere afferrato separatamente. Esiste soltanto
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in quanto mescolato al mondo nel quale ci muoviamo e viviamo con gli altri tramite la nostra esistenza corporea. C’è una bella osservazione fatta da Lichtenberg, confrontato dai tentativi dei contemporanei di localizzare l’anima nel cervello: Se nel contemplare il sole che tramonta faccio un passo avanti, mi ci avvicino, per quanto minimamente. Tuttavia, le cose stanno piuttosto diversamente con l’organo dell’anima. Potrebbe senz’altro essere possibile che con un’approssimazione troppo ravvicinata – come nel caso del microscopio – ci si allontani da ciò a cui ci si può avvicinare (Lichtenberg 1796/1973, p. 852).
Mente, coscienza e vita non sono “micro”, ma “macrofenomeni” che si mostrano soltanto nella coesistenza, cioè nella prospettiva in seconda persona. Al di sotto di una certa distanza, semplicemente spariscono. Questa non è soltanto un’idea romantica; è un’idea di centrale importanza per lo sviluppo della mente e del cervello. Le madri che interagiscono coi loro bambini si tengono intuitivamente proprio alla giusta distanza affinché i bambini possano vederle chiaramente (Papousek e Papousek 1995). Imitazione, intonazione affettiva, attenzione ed empatia congiunte – tutti processi di importanza centrale per il primo sviluppo del cervello umano come organo sociale – dipendono dalla “giusta distanza”, dalla prospettiva in seconda persona. È soltanto nel corso di queste interazioni incarnate e dotate di significato che i sistemi neurali responsabili per la cognizione sociale possono maturare. Sotto questa condizione, un’opzione razionale sembra essere quella di assumere un approccio mescolato o ibrido alla mente e al cervello, tale da non creare un baratro esplicativo in senso assoluto. Per questo approccio misto, l’incarnazione vissuta, da un lato, e il corpo fisico inclusivo del cervello (Leib e Körper, in tedesco), dall’altro, sono due aspetti di un unico organismo vivente in relazione con gli altri – l’uno corrispondente alle prospettive in prima e seconda persona, l’altro alla prospettiva in terza persona. Ora, invece che un baratro tra due ontologie radicalmente differenti (il mentale e il fisico), noi abbiamo una dualità di aspetti nella cornice dell’incarnazione: un “problema Leib-Körper”, per così dire, ma interno al comune riferimento all’essere vivente, alla persona (Fuchs 2008, pp. 103 ss.). La questione riguarda, ora, la relazione tra il corpo in quanto soggettivamente vissuto e il corpo in quanto organismo collocato nel mondo. Così, invece di tentare di identificare stati del cervello e stati mentali in modo che i termini del cervello e i termini della mente restino ovviamente incommensurabili, dovremmo piuttosto esplorare come gli stati del cervello e gli stati coscienti partecipino ciascuno di processi dinamici e interattivi che coinvolgono l’intero organismo.
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3. Cicli di incarnazione Dopo aver delineato alcune caratteristiche basilari dell’approccio incarnato, considererò ora l’incarnazione più da vicino. Tre modi di incarnazione permanenti e intrecciati formano la base della mente umana (Thompson e Varela 2001): 1. cicli di autoregolazione organismica, inclusivi di un basilare senso affettivo di sé; 2. cicli di accoppiamento sensomotorio tra organismo e ambiente; 3. cicli di interazione intersoggettiva, che coinvolgono una cooperazione intenzionale, un’attenzione condivisa e una comunicazione verbale. 3.1 Cicli di autoregolazione organismica Tratterò brevemente dei cicli di autoregolazione organismica. Ovviamente, l’integrità dell’intero organismo dipende da questi cicli regolatori che coinvolgono cervello e corpo su molteplici livelli. Ma la regolazione organismica ha anche una dimensione affettiva e cosciente. La neuroscienza affettiva, rappresentata in particolare da (Damasio 1999) e (Panksepp 1998), ha enfatizzato la dipendenza della coscienza di sfondo dalla regolazione omeodinamica dell’intero corpo, mediata e integrata da strutture limbiche, diencefaliche e pertinenti al tronco encefalico (quali il talamo, il cingulum e l’insula). La coscienza di sfondo consiste nel sentimento di essere vivi, che è un’autoaffezione di base o una coscienza intima del proprio essere-sé corporeo. Perciò, i processi della vita e i processi della mente sono inseparabilmente collegati. Ogni stato cosciente è radicato nella regolazione omeodinamica tra cervello e corpo e, in un certo senso, dà integrazione allo stato presente dell’organismo complessivamente inteso. 3.2 Cicli di accoppiamento sensomotorio tra organismo e ambiente: cognizione incarnata e azione Al di là della regolazione interiore, il compito principale del sistema nervoso è stabilire i cicli sensomotori che connettono organismo e ambiente. Qui l’incarnazione implica l’intrinseca connessione di percezione e azione corporea – connessione già sviluppata nei concetti della Funktionskreis di (von Uexküll 1973) e nella Gestaltkreis di (von Weizsäcker 1986). Ciò che l’organismo sente è una funzione di come esso si muove, e come si muove è una funzione di quello che sente. Un classico esperimento di (Held e Hein
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1963) ha mostrato che i neonati sono incapaci di sviluppare una percezione spaziale se nel loro ambiente sono solo trasportati, vedendo senza muoversi attivamente. Dunque lo spazio percettivo non è un contenitore esterno pre-dato, ma piuttosto un mezzo o uno spazio di lavoro, plasmato dai nostri corpi sensibili e mobili da stimoli visivi indifferenziati. Ciò significa che i sistemi viventi non operano sulla base di rappresentazioni interne del mondo esterno. Piuttosto, essi attuano un ambiente inseparabile dalla loro struttura e dalle loro azioni, una Umwelt nel senso di von Uexküll. Seguendo queste tracce, (Varela et al. 1991) hanno avanzato il loro “approccio enattivo” alla cognizione, eguagliando questa a un’azione incarnata. In questa prospettiva, i movimenti situati sono i veri e propri strumenti della percezione e della cognizione. Nel caso della vista, ad esempio, al ruotare degli occhi la stimolazione sensibile della retina muta e si distorce in modi precisi, similmente a quanto accade quando il corpo si muove avanti, indietro e così via (O’Regan e Noë 2001a, 2001b). Nel tatto, le dipendenze sensomotorie sono ancora più ovvie. Dunque, percepire significa affidarsi implicitamente e fluidamente a questi schemi di dipendenze sensomotorie per esplorare attivamente il mondo. Questa idea è supportata dalla scoperta dei cosiddetti neuroni canonici nella corteccia premotoria, che sono attivati sia avendo a che fare con strumenti sia semplicemente guardandoli (Grafton et al. 1997; Gallese e Umiltà 2002). La percezione “evoca”, perciò, i corrispondenti schemi di interazione pratica, derivati da precedenti esperienze simili. O, in altre parole: conoscere qualcosa significa aver imparato come averci a che fare. Lo stesso vale per l’azione motoria. Le mie azioni sono incarnate, e ciò significa che non sono in qualche modo innescate da una mente interiore, ma invece attuate da me come soggetto incarnato. Quando scrivo una lettera, ad esempio, non c’è un punto nell’unità dell’azione dove il mio “sé” finisce e il “mondo” comincia, non c’è un confine che separa il mondo “interiore” da quello “esteriore”. Reti neurali, movimenti muscolari della mia mano, penna e carta lavorano insieme, sinergicamente, per buttare giù i miei pensieri, e l’intero sistema corpo-ambiente crea la mia esperienza di agentività [agency]. Io non sono una coscienza esterna al mio scrivere, ma un “sé ecologico” i cui confini procedono oltre la mia pelle. Nell’abile maneggiamento di strumenti, nel suonare il pianoforte o nel guidare una macchina, io incarno questi strumenti. Così, sento la carta grattare sulla punta della penna, e sento la ruvidezza della strada sotto le ruote della mia automobile – proprio come la persona cieca sente il terreno sulla punta del suo bastone, non nella sua mano.
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3.3 Cicli di interazione intersoggettiva: intersoggettività incarnata Cognizione e azione, come abbiamo visto, sono entrambe attività del soggetto incarnato. Tuttavia, lo sviluppo della specifica soggettività umana richiede non soltanto l’interazione di cervello e corpo, di corpo e ambiente, ma soprattutto l’interazione con gli altri. Ciò implica un’intersoggettività primariamente incarnata o, per usare un termine di Merleau-Ponty (2003, p. 256), una “intercorporalità”. Ricerche recenti mostrano che, negli infanti umani, la capacità di imitazione è essenziale per comprendere gli altri. Dalla nascita, gli infanti possiedono schemi corporei interpersonali per l’imitazione facciale spontanea e la risonanza emotiva (Meltzoff e Moore 1989; Meltzoff e Brooks 2001). Essi esperiscono il corpo dell’altro come simile al proprio, e perciò traspongono anche le espressioni facciali viste e i gesti degli altri nei loro propri sentimenti. Questi schemi sono alla base dello sviluppo, nel corso delle prime interazioni, di abilità empatiche più sofisticate. L’incarnazione e l’interaffettività formano, dunque, la base della comprensione sociale attraverso la pratica interattiva di corpi significativi ed espressivi. La ricerca sul sistema dei neuroni specchio ha supportato il collegamento tra percezione e azione anche nella cognizione sociale: uno stretto accoppiamento funzionale tra le azioni prodotte dal sé e le azioni percepite negli altri. Il movimento dell’altro è in partenza compreso come un’azione diretta a scopi per via della sua corrispondenza con un’azione performata dal sé. Ciò sembra valere anche per gli accoppiamenti emozionali e le risonanze corporee. L’infante impiega la propria autocoscienza propriocettiva ed emozionale per sentire quel che vede sul volto dell’altra persona. I sistemi neurali coinvolti nella comprensione reciproca e nell’empatia appaiono, dunque, avere natura pratica, poiché coinvolgono l’accoppiamento dinamico del corpo del sé e del corpo dell’altro. Tuttavia, meccanismi cerebrali come il sistema dei neuroni specchio sono difficilmente utilizzabili come basi sufficienti per la comprensione reciproca. Anzitutto, gli “specchi” di certo non esistono nella natura fisica. Uno specchio sul muro non rispecchia niente, se non per un soggetto che è capace di cogliere il riflesso come un’immagine rispecchiata. Quindi l’infante deve imparare da sé che gli altri sono “come me” nel corso di un’interazione, di uno scambio mutuale. Inoltre, assumendo una visione incarnata dei neuroni specchio, comprensiva del concetto di sviluppo, non ci si aspetta dagli infanti che essi comprendano gli obiettivi delle azioni altrui per mezzo del sistema a specchio prima che essi stessi possano performare l’azione da sé. Coerentemente, le ricerche sui movimenti anticipatori dell’occhio durante l’osservazione di un’azione diretta a scopi hanno
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mostrato che essa è presente negli infanti di dodici mesi, ma non in quelli di sei mesi (Falck-Ytter et al. 2006). Una visione puramente trasversale trascura il carattere radicato e biografico del sistema dei neuroni specchio. Questo sistema si sviluppa e funziona solo nella misura in cui è mescolato con uno spazio comune di interazioni incarnate e significative. In altre parole: comprendere gli altri è conoscere come cooperare e avere a che fare con loro. Proprio come il sé ecologico è costituito dal ciclo di azione e percezione, il sé intersoggettivo (cioè, l’autocoscienza intersoggettiva) si sviluppa nel corso di interazioni sociali. La mente incarnata è, nel suo livello più fondamentale, costituita intersoggettivamente. Di contro, gli schemi di interazione esercitano un’influenza diretta sulle disposizioni continue degli individui coinvolti. Data la sua singolare plasticità, infatti, il cervello umano è fondamentalmente adatto per svilupparsi entro un contesto sociale. Non è inserito nel mondo come un apparato prefabbricato, essendo piuttosto strutturato epigeneticamente dalla continua interazione di un organismo e del suo ambiente, così come una chiave si struttura in funzione della sua serratura. Ciò vale in particolare per l’ambiente sociale, che diventa la “nicchia ontogenetica” decisiva per lo sviluppo individuale. Nel corso di questo sviluppo, i costumi, gli abiti e le tecniche culturali sono acquisite per imitazione e apprendimento cooperativo. Dalla nascita, la nostra mente, così come le correlate strutture cerebrali, è essenzialmente formata da influenze sociali e culturali. Potremmo parlare di una “socializzazione incarnata”, perché capacità specificamente umane possono svilupparsi soltanto nella mutua cooperazione, installandosi così nei processi di crescita organica del cervello. La cultura, in questo senso comprensivo, non è solo un sistema cognitivo di segni e significati. Essa scolpisce i processi di formazione dell’individuo e le sue capacità nella sua struttura cerebrale. Di conseguenza, il cervello umano diventa un organo essenzialmente sociale e biografico. 3.4 Riassunto Per riassumere, ho descritto brevemente tre cicli di incarnazione: 1. cicli di autoregolazione organismica, inclusivi di un basilare senso affettivo di sé; 2. cicli di accoppiamento sensomotorio tra organismo e ambiente, risultati in un “sé ecologico”; 3. cicli di interazione intersoggettiva, alla base del sé intersoggettivo.
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Il cervello umano è cruciale per tutti e tre i modi dell’incarnazione. Non crea, ma invece media e regola i cicli, ed è reciprocamente formato e strutturato da essi lungo la durata della vita. Ora, se la mente umana emerge da questi modi di interazione incarnata e se è conseguentemente incarnata nell’organismo vivente, le affermazioni neuroriduzioniste come “non sei altro che un gruppo di neuroni” o “tu sei il tuo cervello” sono sia un errore categoriale sia un’incoerenza biologica. Al contrario: tu sei un soggetto di esperienza vivente e corporeo in relazione con altri. Qualsiasi cosa si possa congetturare su un fittizio cervello in una vasca, sarebbe sempre più ragionevole supporre comunque che, per creare l’illusione del sé e del mondo, il dispositivo dovrebbe comunque replicare non soltanto la regolazione omeostatica ma tutte le interazioni cervello-corpo-ambiente: la vasca non dovrebbe essere altro che un corpo vivente impegnato nel mondo. Il cervello è solo un organo, e non è il cervello ma l’organismo – la persona vivente – che ha accesso cosciente al mondo.
4. Il cervello come organo traduttivo Dato tutto ciò, una nozione ecologica di vita è indispensabile per un approccio non-riduzionista e non-dualistico al problema del rapporto mente-corpo. I processi mentali e consci sono anzitutto manifestazioni ed espressioni dell’essere vivente, dell’organismo nel suo complesso. Certo, il cervello è un organo centrale dei processi mentali, ma non la loro unica “sede”. La mente non è collocata in alcun posto in assoluto, ma distribuita tra il cervello, il corpo e il mondo, e perciò attraversa continuamente i confini del cranio (Clark 1997). Ciò corrisponde anche al ruolo primario del cervello nell’evoluzione. Anche organismi primitivi, privi di un sistema nervoso centrale, reagiscono a stimoli e mutamenti ambientali. La funzione primordiale del sistema nervoso centrale consisteva nella connessioni di stimoli ambientali ripetuti con reazioni o movimenti adeguati. Il sistema nervoso centrale non crea, ma è piuttosto inserito in un ciclo di processi afferenti ed efferenti, o sensori e motori, come una stazione trasmettitrice che trasforma e coordina. Con la crescita dello sviluppo del cervello, le sue funzioni coordinative si sono accresciute, in particolare attraverso il costituirsi di cicli di feedback e feedforward. Ma ciò non ha cambiato il suo carattere principale come organo connettivo, inserito nelle interazioni tra organismo ed ambiente. Il decisivo progresso generato dall’evoluzione della mente non è risultato soltanto in una reazione migliorata a stimoli, ma anche in una formazione
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gestaltica, cioè nella capacità di afferrare situazioni o interi complessi. Una “situazione” consiste nell’essere situato [situatedness] di un essere vivente nel suo ambiente. Afferrare una situazione significa afferrare sé stessi in relazione a essa. Questo afferramento è generato da (1) una sintesi di esperienze di senso, che creano il nostro incorporato essere-nel-mondo, (2) da una valutazione integrata delle opzioni e del significato di una data situazione, di cui facciamo esperienza come emozione e, (3) in momenti successivi, e specificamente nel momento umano dell’evoluzione, dalla rappresentazione iconica e simbolica del mondo, cioè da idee e linguaggio. La mente crea delle totalità: “corpo”, “sentimento”, “sé”, “idee”, “concetti”. Ciò permette all’organismo di rappresentare la sua relazione con l’ambiente, e di compiere azioni dotate di significato, piuttosto che meramente automatiche. Se ora proviamo a descrivere il ruolo del cervello su questa base sistemica, potremmo concepirlo come un organo di trasformazione o traduzione, che traduce le relazioni tra elementi singoli di una data situazione (“stimoli”) in totalità, cioè in unità gestaltiche. Gli schemi costantemente cangianti delle eccitazioni neuronali corrispondono a totalità emergenti nell’esperienza soggettiva. Potremmo illustrare questa trasformazione con immagini come questa.
O potremmo illustrarla pensando alla sintesi di singole lettere in una parola (per esempio, “mela”), che afferriamo immediatamente attraverso le sue componenti, senza nemmeno essere coscienti delle lettere. Ovviamente, abbiamo dovuto imparare, in passato, questa parola lettera per lettera
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(“m-e-l-a”), ma stabilizzando lo schema o la figura nella nostra esperienza soggettiva, il nostro cervello è diventato indotto a formare un corrispondente schema neuronale (un “attrattore”, in teoria dei sistemi) in modo tale che la costellazione di singole lettere assumesse il nuovo significato di “mela”. Il cervello trasforma configurazioni di singoli elementi in unità di livello superiore, corrispondenti alle nostre percezioni. Lo stesso vale in direzione reciproca: se voglio scrivere la parola “mela”, il cervello trasforma automaticamente gli schemi sottostanti di attività neurale nei richiesti schemi motori e in impulsi ai muscoli. Il cervello è quindi un organo di trasformazione: da configurazioni di elementi singoli a unità di livello superiore, corrispondenti alle nostre percezioni e alle nostre azioni. Diventa, così, l’organo della mediazione tra il mondo microscopico dei processi materiali o fisiologici, da un lato, e il mondo macroscopico dell’organismo vivente e delle sue esperienze dall’altro. Integrando processi elementari in schemi di ordine superiore, abilita l’essere vivente a relazionarsi al mondo percependo e agendo. Se seguiamo questa linea, non possiamo considerare l’esperienza soggettiva come un semplice raffigurarsi epifenomenico di sottostanti processi neuronali (“reali”). Al contrario, essa gioca un ruolo essenziale nell’interazione sistemica tra un organismo e il suo ambiente. Poiché è solo tramite l’esperienza cosciente che l’organismo è capace di entrare in una relazione con l’ambiente a un più alto livello di significato, fatto di unità percettive e cognitive integrate o “Gestalten”. Queste unità soggettive e significative influenzano, a loro volta, la plasticità, la strutturazione e il funzionamento del cervello. Una “biologia biografica” implica la continua formazione e ricostruzione del cervello attraverso l’esperienza soggettiva. La mente funziona vincolando e dando struttura alle proprietà cerebrali e corporee di livello inferiore: essa consiste, anzitutto, in un’attività di formazione e mantenimento di unità significative di esperienza che stabilizzano gli schemi corrispondenti di attività neuronale e dunque innescano, di conseguenza, reazioni fisiologiche dell’organismo nel suo complesso. In questa relazione complementare non c’è qualcosa come “una mente che agisce su un corpo fisico”, né “un cervello che produce la mente”. Invece, il cervello agisce come un trasformatore che, in funzione di determinati input, può rivolgersi a differenti livelli gerarchici traducendo in entrambe le direzioni: influenze psicosociali sul livello del significato e dell’intenzionalità sono trasformate in alterazioni di schemi dell’attività neuronale sul livello biologico, e viceversa. Ciò signi-
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fica che ogni processo riguardante l’eziologia e i sintomi della malattia mentale ha natura tanto biologica quanto psicologica (vedi lo schema sotto). Da un lato, la traduzione funziona “top-down”, cioè dall’esperienza soggettiva (ad esempio, una situazione sociale vissuta, un intervento psicoterapeutico) al livello dei processi neuronali e biochimici. Dall’altro lato, funziona “bottom-up” – muovendosi, ad esempio, da effetti farmacologici sul metabolismo dei trasmettitori neuronali alla modificazione dell’esperienza soggettiva (Fuchs 2004; 2005). Mutamenti neurobiochimici diventano cambiamenti di umore a livello soggettivo, ma la soggettività influenza a sua volta la plasticità, la strutturazione e il funzionamento del cervello.
Coerentemente, ci si dovrebbe aspettare che il riapprendimento procedurale in psicoterapia influenzi la struttura e le funzioni del cervello alterando la plasticità sinaptica e l’espressione dei geni. Potrebbero risultarne cambiamenti a lungo termine di schemi patofisiologici nel cervello, mostrabili ad esempio tramite studi di neuroimaging. Negli esami PET di pazienti depressi, Brody et al. (2001) e Martin et al. (2001) hanno trovato differenti aree-obiettivo su cui la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) si applica con più successo rispetto a quanto accade con la somministrazione di farmaci: la corteccia frontale mediale e la corteccia cingolata sono trattate con più successo mediante CBT, mentre sulle regioni limbiche subcorticali (tronco encefalico, insula, cingolata subgenuale) è più efficace la farmacoterapia. Questo quadra con l’idea che interventi mediante CBT si focalizzino principalmente sul modificare disfunzioni cognitive, portando di con-
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seguenza all’alleviarsi di sintomi vegetativi e inibizione; la farmacoterapia procede, invece, in direzione inversa. La psicoterapia sembra essere basata anzitutto su una direzione topdown corticale, la farmacoterapia su meccanismi bottom-up subcorticali. Questo concetto bidirezionale è anche supportato dai risultati del gruppo di Mayberg (Mayberg et al. 2002), che ci mostrano, in casi di grave depressione, gli effetti principalmente corticali (“soggettivi”) di un placebo, in contrasto agli effetti subcorticali, limbici e sul tronco encefalico della fluoxetina. In un altro studio, gli stessi autori hanno trovato una simile reciprocità e contrapposizione tra effetti corticali e limbici in un gruppo composto da persone tristi in modo ordinario e persone depresse (Mayberg et al. 1999). Ciò significa che non c’è separazione, ma piuttosto una mutua trasformazione, prodotta dal cervello, di processi psicologici in processi biologici e viceversa.
5. Modelli circolari di malattia mentale Ovviamente, questo concetto sistemico ed ecologico di mente e cervello si contrappone a ogni riduzionismo biomedico – un riduzionismo all’opera in affermazioni come “la depressione è, in effetti, solo uno squilibrio chimico”, o “gli psichiatri responsabili dovrebbero focalizzarsi sulle cause reali della malattia psichiatrica, cioè i danni cerebrali”. La spiegazione bottom-up dei disordini mentali quali prodotti di specifiche eziologie è inadeguata per la complessità causale della maggior parte dei disordini. Dovremmo, invece, sviluppare modelli eziologici basati su una causalità circolare tra l’organismo e il suo ambiente, con il cervello a fare da mediatore. Qualunque sia la base genetica, ad esempio, della depressione, questa può essere solo una precondizione del complesso processo interattivo che risulta in una patologia psichiatrica. La patologia è il prodotto di una pluralità di influenze soggettive, neuronali, sociali e ambientali che interagiscono continuamente le une con le altre. Entro queste interazioni circolari, il cervello agisce come un trasmettitore che media, traduce e persino amplifica – ma non come una “causa monolineare”. Modelli circolari relativi a cicli di feedback negativi tra sintomi primari, emozioni, cognizioni e interazioni sociali sono stati già sviluppati per patologie quali depressione e ansia (Grawe 2002), così come per la terapia familiare sistemica. Secondo un’impostazione simile, ho descritto la depressione come una desincronizzazione psicofisiologica (Fuchs 2001): un percepito ac-
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cumulo o diffrazione tra le proprie aspettative e i propri risultati, una perdita che l’individuo non è in grado di affrontare, sono avvertiti come una perdita di sincronicità e connessione con un’alterità ritenuta importante. Questa percezione della situazione personale è tradotta del cervello in schemi neurobiologici associati con un umore depresso. Al livello biologico, la depressione implica un disaccoppiamento di processi fisiologici ritmici (ad es., endocrini), normalmente sincronizzati gli uni con gli altri e con l’ambiente. Nel corso di questa desincronizzazione biologica, una prolungata risposta allo stress da parte dell’asse ipotalamico-pituitario-adrenale e da altri sistemi endocrini alimenta, a sua volta, ansia e umore depresso. Il percorso causale procede quindi dalla “mente”, dall’esperienza soggettiva della situazione, al cervello e al corpo, e poi ancora alla mente. La desincronizzazione psicosociale e quella fisiologica si innescano e si influenzano l’un l’altra. Così, l’esperienza soggettiva è più di un semplice sottoprodotto di una sottostante depressione “reale” o “cerebrale”. L’umore depresso, la percezione di insufficienza e il pensiero distorto non sono soltanto sintomi accidentali o epifenomenici, importanti solo per motivarci a consultare uno psichiatra. La depressione, al contrario, è innescata dalla percezione soggettiva di situazioni significative, per lo più interpersonali, ed è in buona misura mantenuta o peggiorata da un sentire, da un pensare e da un interagire con gli altri in modo negativo. La schizofrenia potrebbe essere vista, da un punto di vista similmente ecologico, come un processo circolare implicante disfunzioni neuropsicologiche e biochimiche, da un lato, e alienazione psicosociale dall’altro. Basilari disfunzioni cognitive e del sé nella fase prodromica (Klosterkötter 1988; Klosterkötter et al. 2001; Parnas 2000) portano il paziente a ritrarsi da situazioni che sovraccaricano le sue capacità intenzionali ed emozionali. La perdita dell’intonazione sociale al mondo della vita comune risulta in una progressiva dissoluzione dei significati comuni e delle percezioni gestaltiche. Alla fine, il processo di alienazione culmina in una crisi psicotica, nella quale i significati intersoggettivi perduti sono rimpiazzati da un mondo privato e isolato di allucinazioni (Fuchs 2007). Questi schemi rigidi e concreti del percepire e del pensare (che comunque sono funzionali a scopi adattivi) sono correlati con alterazioni neurobiochimiche del cervello, le quali possono essere trattate da farmaci neurolettici. Dunque, c’è un’influenza circolare e reciproca tra fattori soggettivi, intersoggettivi e fisiologici. Di nuovo: il cervello opera sia causando sia riflettendo alterazioni nelle relazioni tra corpo, sé e mondo. Insomma, il concetto ecologico della malattia mentale suggerisce una comprensione pluralistica del trattamento terapeutico. La distinzione dualistica tra
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terapie somatiche agenti sul cervello e terapie psicologiche, dotate di elusivi effetti puramente soggettivi, non è più sostenibile. Le interazioni circolari tra sé, corpo, cervello ed ambiente possono essere approcciate su diversi livelli e in diversi snodi, poiché ogni modalità di trattamento terapeutico sarà trasformata dal cervello, finendo per contribuire a un effetto olistico. Da un lato, oltre a un certo punto, le disfunzioni neurobiologiche ed endocrine coinvolte, ad esempio, nella depressione, potrebbero essere troppo avanzate per essere accessibili tramite interventi sul livello psicologico. Trattamenti farmacologici (bottom-up) potrebbero allora permettere al paziente di dedicarsi nuovamente alle sue relazioni, favorendo indirettamente il suo benessere sociale. Dall’altro lato, come abbiamo visto, la psicoterapia non cambia soltanto gli impliciti schemi relazionali del paziente, le sue disposizioni e il suo comportamento, ma anche le funzioni e le strutture del suo cervello. Data la limitata efficacia del trattamento farmacologico, soprattutto in casi di malattia cronica, sarebbe sbagliato trascurare queste opzioni di trattamento top-down. Inoltre, una prospettiva soltanto biologica tende a isolare il paziente individuale e a far sembrare la sua malattia separata dalle sue interconnessioni con l’ambiente. Gli aspetti intenzionali e qualitativi di credenze ed emozioni non possono essere spiegati in termini di processi fisici nel cervello; né, se vogliamo cambiare le credenze e le disposizioni disadattative del paziente – quelle che lo hanno condotto alla malattia e che potrebbero condurlo, in futuro, a una ricaduta – possiamo fare a meno di nuove esperienze soggettive e intersoggettive. Solo l’esperienza cosciente è capace di correggere i corrispondenti schemi disfunzionali dell’attività neuronale. Siccome il cervello è un organo dotato di storia, probabilmente – e auspicabilmente – non ci sarà mai un modo per creare nuove visioni del sé e del mondo tramite una manipolazione del cervello. Ogni approccio sociale alla psichiatria è basato su una visione olistica, ecologica della vita.
6. Conclusione Ho abbozzato una prospettiva sistemica o ecologica della mente e del cervello in quanto radicati nella relazione tra un organismo e il suo ambiente. Non c’è una cosa come il cervello in sé, se non quando lo separiamo dall’organismo vivente in un’autopsia. Il suo ruolo potrebbe essere visto nella mutua traduzione di singoli elementi di una data situazione entro unità di ordine superiore, esperite come totalità dotate di significato e viceversa. Solo la soggettività contiene gli interi gestaltici che, per un organismo, rappresentano un’esperienza integrata della realtà. Ed è solo l’esperienza soggettiva a esse-
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re in grado di cambiare gradualmente gli schemi disfunzionali di percezione e comportamento che potrebbero portare a patologie psichiche. Una psichiatria del cervello, se ben compresa, dovrebbe diventare una psichiatria “sistemica” o “ecologica” (Fuchs 2005). La psichiatria ha bisogno di una “ecologia del cervello” per afferrare meglio l’interconnessione tra l’approccio psicologico, quello sociale e quello farmacologico in un modo che sia adeguato al suo oggetto. Alla fine, questo oggetto non è il cervello, ma il paziente che soffre di una patologia mentale. (Traduzione dall’inglese di Francesco Pisano) Riferimenti bibliografici Brody, A. L. et al. 2001 Regional brain metabolic changes in patients with major depression treated with either paroxetine or interpersonal therapy, in “Archives of General Psychiatry”, 58, pp. 631-640. Churchland, P. M. 1995 The engine of reason, the seat of the soul, MIT Press, Cambridge. Clark, A. 1997 Being there. Putting brain, body, and world together again, MIT Press, Cambridge. Damasio, A. 1999 The feeling of what happens: body and emotion in the making of consciousness, Hartcourt Brace, San Diego. Falck-Ytter, T. et al. 2006 Infants predict other people’s action goals, in “Nature Neuroscience”, 9, pp. 1320-1326. Feuerbach, L. 1985 Wider den Dualismus von Leib und Seele, Fleisch und Geist, in Anthropologischer Materialismus. Ausgewählte Schriften I, Europäische Verlagsanstalt, pp 165-191. Fuchs, T. 2001 Melancholia as a desynchronization. Towards a psychopathology of interpersonal time, in “Psychopathology”, 34, pp. 179-186. 2004 Neurobiology and psychotherapy: an emerging dialogue, in “Current Opinion in Psychiatry”, 17, pp. 479-485.
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Commento introduttivo a Natura dissimulatrice, economia inafferrabile di Philip Mirowski Marco Ferrari Enfant terrible della storia del pensiero economico, come lui stesso si è definito (Confessions of an Aging Enfant Terrible, in Mirowski 2004, pp. 37-50), Philip Mirowski è una figura ancora poco nota nelle fila della letteratura economica italiana – scientifica e non –, malgrado si sia imposto, nell’ultimo trentennio, come una delle voci al contempo più prolifiche e più originali del dibattito. Le sue numerose monografie (Mirowski 1985; 1988; 1989; 2002; 2004; 2011; 2015; Miroswki e Nik-Khan 2017), collettanee (Mirowski 1987; 1994a; Mirowski e Sent 2001; Mirowski e Plehwe 2009; Van Horn, Mirowski e Stapleford 2011; Plehwe, Slobodian e Mirowski 2020), edizioni critiche (Mirowski 1994b; 1999) e articoli lo hanno, a poco a poco, consacrato come uno dei rappresentanti più eminenti di quella che si potrebbe definire una storia non-mainstream del pensiero economico mainstream. Oppure, prendendo in prestito il titolo di una sua intervista del 2005, una “prospettiva revisionista sulla storia del pensiero economico” (Mirowski 2005), a patto di chiarirsi sul significato da attribui re a tale aggettivo. Lo sguardo di Mirowski sulla storia del pensiero economico è uno sguardo revisionista nella misura in cui si esercita attraverso lo scandaglio della “vita segreta dell’economia” (Mallorquín 2003), vale a dire dei suoi impensati. Impensati che riguardano ciò con cui “gli economisti – mainstream – non hanno mai fatto i conti” vale a dire “l’origine delle loro teorie” (Lash e Dragos 2016, p. 124). Quelli che, con un lessico più consono a questa antologia e che, al contempo, rivela immediatamente le ragioni dell’interesse nei confronti di un autore come Mirowski da parte di questo progetto, potremmo definire i suoi presupposti epistemologici. Proprio la “riflessività”, infatti, secondo Mirowski, rappresenta lo “spauracchio” degli “economisti ortodossi” che “non riescono a dare un’occhiata approfondita alla propria storia” (Lash e Dragos 2016, p. 127). La ricostruzione
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della tramatura di questa storia – i suoi “mutamenti” e le sue “rotture” (Lash e Dragos 2016, p. 129) – ha rappresentato, sin dall’inizio della sua carriera (Mirowski 1984c), una grossa fetta della ricerca di Mirowski che, nelle pieghe meno indagate di quest’ultima, ha contribuito a far luce sulla presenza di una vastissima operazione di interpolazione, da parte delle scienze economiche, di tutta una serie di concetti appartenenti al mondo delle scienze naturali. Concetti che, in economia, hanno agito al pari di quelle che Gilles Châtelet (1998; tr. it. 2002) definiva “metafore non creatrici” o “metafore di secondo letto”, che “si contentano di ‘illustrare’ e di ‘dare vita a’ un modello importato, chiavi in mano” (p. 33) dall’esterno. È soprattutto attorno a due turning point di questa storia – che celano sotto di sé due grandi “rotture epistemiche rimosse” (Lash e Dragos 2016, p. 129) – che si è più specificamente concentrato il lavoro di Mirowski, sebbene in svariati luoghi egli si sia adoperato nell’istruire un’indagine collettiva riguardo al ruolo esercitato dalle “immagini naturali all’interno del pensiero economico” (Mirowski 1994) in quasi tutta la sua ampiezza1. Nella sua prima monografia organica, More Heat than Light: Economics as Social Physics, Physics as Nature’s Economics (1989), ad essere presa in esame era la pervasività con cui il concetto di energia – e più nello specifico una certa declinazione della legge di conservazione dell’energia elaborata entro i confini di una fisica “della causalità, del rigido determinismo e dell’ordine prestabilito; in altre parole, […] la fisica prima della seconda legge della termodinamica” (Mirowski 2002, p. 7) – aveva influenzato la genesi dell’economia neoclassica, il suo metodo (quello proprio di un’economia finalmente “scientifica”) e i suoi concetti (funzione di utilità, teoria dell’equilibrio, teoria del valore…). Successivamente, prima in Machine Dreams: Economics Becomes a Cyborg Science (2002) e poi in The Knowledge We Have Lost in Information: The History of Information in Modern Economics (2017), scritto a quattro mani con Edward Nik-Khan e frutto della rielaborazione di un corso tenuto presso l’Institute for New Economic Thinking, ad essere indagata era piuttosto l’influenza esercitata, a partire dalla seconda guerra mondiale, dalla riserva metaforica estraibile dai concetti di quelle che Mirowski definisce cyborg sciences (teoria dell’informazione, intelligenza artificiale, ricerca operativa, teoria dei gio1
Tuttavia, Mirowski ha sempre avuto cura di precisare come l’“incessante traffico imponente tra la disciplina dell’economia e le varie scienze naturali” sia spesso avvenuto “in entrambe le direzioni, anche se la bilancia commerciale complessiva potrebbe pendere verso l’esportazione delle immagini Naturali all’interno dell’economia politica”. Nel testo che abbiamo deciso di tradurre egli fornisce prove efficaci dei modi e dell’estensione, temporale e “disciplinare”, di tale transfert.
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chi…) (Mirowski 2002, pp. 11-18) – in particolare, cosa maggiormente visibile nel volume del 2017, del concetto di informazione – sull’ortodossia economica neoclassica; un’influenza tale da mutare i connotati di quest’ortodossia al punto da renderla radicalmente altra da quello che era stata durante la prima fase del suo sviluppo. In questo modo, la storia della scienza, il cui studio aveva rappresentato a lungo, per Mirowski, “un’indulgenza segreta e un piacere surrettizio, che rubava momenti al [suo] legittimo lavoro di ricerca in storia economica e teoria economica” si mostra, in questi termini, “scandalosamente” connessa con la storia dell’economia (Mirowski 1989, p. 3) e al massimo grado rivelativa delle ragioni reali della serie di impasse su cui, nel presente più attuale, sembrano non cessare di inciampare molte delle teorie economiche mainstream, come il neoclassicismo e il suo rifacimento cyborg, in una declinazione sempre più influenzata dall’avvento del neoliberalismo (Van Horn, Mirowski e Stapleford 2011). È esattamente questo tipo di atteggiamento – questa precisa funzione attribuita all’indagine storica – a rendere, a nostro avviso, la pratica di Mirowski qualcosa di differente da un’archeologia del sapere di matrice foucaultiana, sebbene lui stesso talvolta vi si sia riferito in questi termini (Mirowski 2005, p. 80). E non tanto, o perlomeno non solo, a causa delle limitazioni che Mirowski stesso sembrerebbe rilevare nella categoria foucaultiana di episteme, circa la natura delle rassomiglianze di pensiero fra discipline, il ruolo della matematica e della metafora e l’assenza di qualsiasi riferimento, da parte del filosofo francese, alle scienze fisiche (Mirowski 1989, p. 4). Piuttosto perché le ricostruzioni storiche di Mirowski, a differenza di quelle di Foucault, non sono epistemologicamente neutre (Foucault 1968; tr. it. 2007, p. 64). Esse, a nostro avviso, riprendono a tutti gli effetti il “problema critico” riguardante la legittimità e il diritto di una scienza ad essere scienza, al di là del “fatto di essere data” o del “fatto stesso della sua esistenza” (Foucault 1969; tr. it. 2011, pp. 251-252)2. La nostra sensazione è che, tramite l’analisi della coltre opaca dei transfert concettuali e metaforici, ciò su cui Mirowski intende far luce sia il senso del problema (Bachelard 1938; tr. it. 1995, p. 129) che proprio tali importazioni prive di una reale “esperienza di pensiero proprio che ne legittimi la scelta” (Châtelet 1998; tr. it. 2002, p. 33) non consentono di intercettare e che, al contempo, una loro
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La qual cosa è, a nostro avviso, particolarmente evidente in Mirowski 1988. Proponiamo di interpretare in questo senso anche il provocatorio sottotitolo feyerabendiano “Protecting Economics from Science”, che ci permetteremmo di correggere, forse, in “Protecting Economics from Scientism”.
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interrogazione storico-critica permette di far brillare, rendendolo visibile3. Per intercettarlo, infatti, non può essere sufficiente l’“imitazione di modelli fisici o di un presunto ‘metodo scientifico’”. Si rende necessario, piuttosto, un processo di istruzione concettuale singolare, fondato su “specifiche considerazioni filosofiche generate all’interno della disciplina economica” che consenta di “fornire all’economia una propria logica intrinseca” (Mirowski 1993, p. 208). Dei tentativi in tal senso possono essere rilevati nelle pieghe di ciascuno dei lavori più propriamente “archeologici” di Mirowski e, in maniera più evidente, in quei lavori più “consapevolmente teorici” che dovrebbero, a nostro avviso, essere letti in stretta connessione con i primi per evitare di prestare il fianco a quell’“estromissione della conoscenza storica” in cui spesso rischiano di incorrere, a detta dello stesso Mirowski, questo genere di lavori (Mirowski 2004, p. 44). L’insieme di tali tentativi ha reso sempre più visibili col tempo i caratteri di una proposta di “ricostruzione della teoria economica” (Mirowski 1987) che tenesse conto della natura complessa, diversificata e storico-evolutiva del proprio oggetto, in direzione radicalmente contraria rispetto agli appelli al riduzionismo omogeneizzante e astorico delle teorie economiche mainstream. Devono essere interpretati in questo senso tanto gli svariati tentativi di rivivificazione del pensiero economico istituzionalista (Mirowski 1987; 1988, pp. 72-174) – e della sua concezione “sociologica” dell’economia, contrapposta al principio dell’agente razionale astorico dell’economia ortodossa4 –, quanto i più recenti affondi in direzione di un’economia computazionale evolutiva (Mirowski 2007) che, confrontandosi con le più recenti acquisizioni teoriche di una certa biologia e una certa scienza computazionale5 (a partire da una 3
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Per questa ragione, proponiamo di comprendere il lavoro di Mirowski nei termini di un’epistemologia dei concetti economici, nel senso preciso che ha attribuito a tale termine la tradizione epistemologica francese. Sul tema, cfr. Cesaroni 2020. Per quanto concerne il piano del confronto inter-scientifico (concetti, metafore, modelli, problemi…), questa postura ci sembra si declini, nel caso di Mirowski, in quello che definiremmo – facendo giocare in senso inverso l’espressione di Châtelet – un uso ponderato e creativo/inventivo delle metafore, nella misura in cui è governato da e finalizzato a un’istruzione concettuale singolare. Recentemente, proprio in seguito a un confronto con il lavoro di Mirowski, Carlos Mallorquín (2003, p. 178) ha proposto di collocare nella medesima corrente anche la scuola storica tedesca (Hodgson 2001) e lo strutturalismo latinoamericano (Mallorquín 2001). Si vedano, in particolare, per l’importanza che assolvono all’interno della più recente riflessione di Mirowski, i lavori di Walter Fontana. Abbiamo evidenziato che si tratta del confronto con una certa biologia, nella misura in cui il confronto con un’altra biologia – o con la biologia in altri termini – è stato parte integrante della costruzione e dell’evoluzione delle teorie economiche mainstream. Si pone
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rivalutazione più generale della teoria degli automi di von Neumann), mira a considerare i mercati – al plurale, nella misura in cui, secondo Mirowski, “non esiste qualcosa come un ‘Mercato’ generico; piuttosto, esistono numerose e diverse forme di regole e comportamenti che possono essere utilizzati per facilitare gli scambi” (Mirowski 2004, p. 44) – come strutture algoritmiche, differenti l’una dall’altra, con un grado di complessità più o meno elevato e in costante evoluzione. Un vettore “storico-teorico” e uno più marcatamente “operativo”, dunque, che si contaminano l’uno con l’altro allo scopo di tratteggiare i contorni di un “nuovo istituzionalismo economico formale” in grado di rappresentare “l’insieme delle differenti istituzioni del mercato come un algoritmo, sottoposto a un processo di evoluzione nel quale persone e culture costituiscono ambienti mutevoli” (Mirowski 2004, p. 46). Accanto a questa linea di ricerca principale, che, come un fil rouge, percorre trasversalmente tutta la produzione di Mirowski e ne istruisce, al contempo, anche le restanti linee di fuga, devono essere annoverati un interesse sempre più pronunciato per i science studies – nello specifico per una loro recente sotto-categoria, denominata economics of science – com’è perfettamente visibile in Mirowski 2002, 2004 e 2011 e per il neoliberalismo che, sulla scia di Foucault, egli non reputa unicamente una teoria economica, ma, più ampiamente, un fenomeno socio-politico6: “colletti-
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qui, da un lato, il problema del perché certi “concetti” spesso non cessino di essere utilizzati all’interno di una disciplina scientifica anche quando sono più o meno parzialmente falsificati o smentiti dalla prova sperimentale, ecc.; dall’altro, del perché quando si confrontano con le scienze naturali, le scienze sociali attingano proprio a concetti spesso già caduti in prescrizione all’interno di quelle stesse scienze. Traendo alcune conseguenze personali dall’analisi di Mirowski (Doing What Comes Naturally: Four Metanarratives on What Metaphors Are For, in Mirowski 1994a, pp. 3-19), si potrebbe pensare che a monte dei transfert concettuali e metaforici tra scienze naturali e scienze sociali – nelle loro declinazioni mainstream – ci sia un’esigenza di stabilizzazione, tanto della Natura, quanto della Società. Da parte nostra, siamo convinti che ciò sia causato dalla persistenza (e dalla riproposizione costante), all’interno di svariati domini epistemici, di una postura epistemologica ideologica – che è mutata nel tempo, pur conservando degli invarianti fondamentali – che tenderebbe a ridurre la pratica scientifica all’esercizio di una combinatoria assiomatico-deduttiva e la realtà a una serie di strutture stabili autoperpetuantesi sempre identiche a se stesse. Sul tema, ci permettiamo di rinviare a Bardin e Ferrari 2022. È nostra convinzione che nel lavoro di Mirowski (cfr. anche supra, n. 3) – sebbene con un grado di riflessività non sempre e non del tutto autocosciente delle poste in gioco epistemologiche – possa (e debba) essere rilevata una postura del tutto differente. Il quale, tuttavia, ha influito notevolmente – a detta di Mirowski accanto alla rottura di paradigma nelle scienze naturali prodotta dall’avvento delle cyborg
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vo di pensiero” (categoria che riprende dal filosofo della scienza polacco Ludwik Fleck), prima (Mirowski e Plehwe 2009), movimento politico e culturale profondamente integrato nel tessuto sociale e nel vissuto antropologico (a tal punto da non soccombere a una delle più importanti crisi finanziarie recenti), poi (Mirowski 2015). Il testo che rendiamo disponibile per la prima volta in traduzione italiana afferisce alla linea di ricerca principale del lavoro di Mirowski, nella convinzione che esso possa suscitare maggior interesse nelle potenziali lettrici e nei potenziali lettori di questa antologia. Esso ha il pregio di condensare in poche pagine gran parte delle questioni che abbiamo cercato di sollevare con questa presentazione e, di converso, è avendo in mente tutte queste questioni che invitiamo le lettrici e i lettori ad avviarsi alla comprensione dei suoi contenuti. Riferimenti bibliografici Bardin, A., Ferrari, M. 2022 Governing Progress: From Cybernetic Homeostasis to Simondon’s Politics of Metastability, in “The Sociological Review”, 70, n. 2, pp. 248-263. Cesaroni, P. 2020 La vita dei concetti. Hegel, Bachelard, Canguilhem, Quodlibet, Macerata. Châtelet, G. 1998 Vivre et penser comme des porcs. De l’incitation à l’envie et à l’ennui dans les démocraties-marchés, Exils, Paris; tr. it. Vivere e pensare come porci. L’istigazione all’invidia e alla noia nelle democrazie-mercato, a cura di M. Pinchierri, Arcana, Roma 2002. Foucault, M. 1968 Sur l’archéologie des sciences. Réponse au Cercle d’épistémologie, in “Cahiers pour l’Analyse”, 9, pp. 9-40. tr. it. Sull’archeologia delle scienze. Risposta al Circolo di epistemologia, in Il sapere e la storia. Sull’archeologia delle scienze e altri scritti, a cura di A. Cutro, ombre corte, Verona 2007, pp. 29-80. sciences – sulla riconfigurazione “informazionale” dell’ortodossia economica (neoclassica) americana. Sul tema, in relazione all’evoluzione della scuola di Chicago, cfr. Van Horn, Mirowski e Stapleford 2011. In Bardin e Ferrari 2022, abbiamo provato a mostrare come l’avvento del neoliberalismo stesso possa essere interpretato come la conseguenza, sul piano della scienza politica/scienza di governo, della rottura prodotta dalla cibernetica all’interno della postura epistemologica a cui ci siamo riferiti nella nota 5 e le cui origini possono essere fatte risalire alla nascita della cosiddetta scienza moderna.
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1969 L’archéologie du savoir, Gallimard, Paris; tr. it. L’archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura, tr. di G. Bogliolo, Rizzoli, Torino 2011. Hodgson, G. 2001 How Economics Forgot its History: The Problem of Historical Specificity in Social Science, Routledge, London. Lash, S., Dragos, B 2016 An Interview with Philip Mirowski, in “Theory, Culture & Society”, 33, n. 6, pp. 123-140. Mallorquín, C. 2001 El institucionalismo norteamericano y el estructuralismo latinoamericano: ¿discursos incompatibles?, in “Revista Mexicana de Sociologia”, 1, pp. 71-108. 2003 Philip E. Mirowski o la vida secreta de la economía, in “Estudios Sociologicos”, 21, n. 1, pp. 167-181. Mirowski, P. 1984c Physics and the “Marginalist Revolution”, in “Cambridge Journal of Economics”, 8, pp. 361-379. 1985 The Birth of the Business Cycle, Routledge, London 2015 (ristampa anastatica). 1988 Against Mechanism: Protecting Economics from Science, Rowman & Littlefield, Lanham. 1989 More Heat than Light: Economics as Social Physics, Physics as Nature’s Economics, Cambridge University Press, Cambridge. 1993 The Goalkeeper’s Anxiety at the Penalty Kick, in N. De Marchi (a cura di), Non-Natural Social Science: Reflecting on the Enterprise of More Heat than Light, Duke University Press, Durham, pp. 305-349. 2002 Machine Dreams: Economics Becomes a Cyborg Science, Cambridge University Press, Cambridge. 2004 The Effortless Economy of Science, Duke University Press, Durham. 2005 A Revisionist’s View of the History of Economic Thought: Interview with Philip Mirowski, in “Challenge”, 48, n. 5, pp. 79-94. 2007 Markets Come to Bits: Evolution, Computation and Markomata in Economic Science, in “Journal of Economic Behavior & Organization”, 63, pp. 209-242. 2011 Science-Mart: Privatizing American Science, Harvard University Press, Cambridge-London. 2015 Never Let a Serious Crisis Go to Waste: How Neoliberalism Survived the Financial Meltdown, Verso, London-New York.
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Mirowski, P. (a cura di) 1987 The Reconstruction of Economic Theory, Kluwer Academic Publishers, Boston-Dordrecht-Lancaster. 1994a Natural Images in Economic Thought: “Markets Read in Tooth and Claw”, Cambridge University Press, Cambridge. 1994b Edgeworth on Chance, Economic, Hazard and Statistics, Rowman & Littlefield, Lanham. Mirowski, P., Tradewell, S. (a cura di) 2009 The Road from Mont Pèlerin: The Making of the Neoliberal Thought Collective, Harvard University Press, Cambridge-London. Mirowski, P., Sent, E.-M. (a cura di) 1999 The Economic Writings of William Thornton, 5 voll., Routledge, London. Mirowski P., Sent, E.-M. (a cura di) 2001 Science Bought and Sold: Essays in the Economics of Science, The University of Chicago Press, Chicago. Mirowski, P., Nik-Khan, E. 2017 The Knowledge We Have Lost in Information: A History of Information in Modern Economics, Oxford University Press, Oxford. Plehwe, D., Slobodian, Q., Mirowski, P. (a cura di) 2020 Nine Lives of Neoliberalism, Verso, London-New York. Van Horn, R., Mirowski, P., Stapleford, T.A. (a cura di) 2011 Building Chicago Economics: New Perspectives on the History of America’s Most Powerful Economics Program, Cambridge University Press, Cambridge.
Philip Mirowski
NATURA DISSIMULATRICE, ECONOMIA INAFFERRABILE
1. Introduzione Come Geoff Hodgson, ho trascorso la maggior parte della mia vita accademica meravigliandomi dell’infinita varietà di modi attraverso cui le reiterate concezioni della “Natura” hanno governato la maggior parte delle discussioni occidentali sull’“Economia” e i modi leggermente più oscuri attraverso cui la freccia della causalità è stata invertita nel corso della storia della scienza. Un argomento così grande, l’antitesi stessa di una TED talk1, un argomento che praticamente scoppia di significato filosofico e che si dispiega su vasti tratti della storia umana, sembrerebbe sollecitare una ricchezza di disquisizioni dotte ed elaborate sul suo significato e le sue conseguenze – ma, con mio sgomento, la maggior parte di quanto ho incontrato è invece equivoco, feuilleton evanescenti, che sfoggiano una sfumatura distinta di agitazione che solitamente si conclude con infondate professioni di fede, quando non con un vero e proprio ostruzionismo. La filosofia della scienza si è rivelata più o meno apatica riguardo al pas de deux di Economia e Natura. (Forse i filosofi della scienza pensano che l’economia sia stata un personaggio troppo sgradevole per essere vista fraternizzare con la fisica). Alcuni dei miei amici hanno suggerito che la situazione è meno inconsistente nel contesto di lingua tedesca; ma la mia personale debolezza linguistica ha bloccato questo percorso di esplorazione, con mio duraturo rammarico. Nella filosofia anglofona, si trova una letteratura confusa sulla “fallacia naturalistica”, accoppiata al sospetto subdolo che non sia davvero 1
TED (Technology Entertainment Design) è una serie di conferenze, chiamate anche TED talks, attualmente curate da Chris Anderson e gestite dalla sua fondazione non-profit, The Sapling Foundation. Nato come evento singolo nel 1984, da un’idea di Richard Saul Wurman e Harry Marks e consacrato alla tecnologia e al design, dal 1990 si svolge con cadenza annuale e vi si discutono questioni di ordine generale (scientifico, culturale, accademico, ecc.). D’ora in poi, le note del traduttore verranno contrassegnate tramite la sigla N.d.T. e le parentesi quadre; tutte le altre note sono da considerarsi dell’Autore. [N.d.T.]
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la stessa cosa dell’argumentum ad naturam; ogni ulteriore tentativo di denunciare l’errore culmina in ammissioni di sconfitta con cupa regolarità2. Tutti sembrano allora ripiegare sulla questione pretestuosa se l’economia sia o non sia una scienza, come se questo diversivo non costituisse l’ultimo rifugio dei furfanti. La situazione nella storia della scienza è migliore, ma comunque deludente. Non è possibile familiarizzare con i sottili dettagli della storia intellettuale senza accorgersi subito che c’è stato un incessante traffico imponente tra la disciplina dell’economia e le varie scienze naturali ad intervalli regolari, spesso in entrambe le direzioni, anche se la bilancia commerciale complessiva potrebbe pendere verso l’esportazione delle immagini Naturali all’interno dell’economia politica. Oltretutto, il vivace carry trade3 risale a secoli fa, agli esordi dell’economia politica, fatto ripetutamente notato da un vasto gruppo di storici della scienza4. Si giunge così di rado a proporre una delle pochissime generalizzazioni stabili nella storia del pensiero umano che sembrerebbe un’opportunità senza precedenti per scandagliare la struttura profonda dei costrutti umani della Natura e dell’Economia – ma, ancora una volta, non è quello che è successo. Al contrario, la questione tende ad essere inquadrata o come un’epidemia di ricorrenti attacchi di “scientismo”, con cui si intende lo sdegno derisorio per i tentativi incauti di cooptare l’aura di legittimità delle scienze naturali per l’economia politica; oppure, in alternativa, come un qualche processo epistemico astratto di valutazione del ricorso retorico all’analogia/metafora nel processo di costruzione di modelli. Devo confessare che, all’inizio della mia carriera, ho flirtato con entrambe le opzioni. All’inizio, sono caduto sotto l’influenza di alcuni grandi filosofi della scienza sociale, da Heinrich Rickert e Wilhelm Dilthey fino a Friedrich Hayek, ognuno dei quali un tempo ha cercato di denunciare le ambizioni di rendere lo studio del “Sociale” una scienza nelle loro sembianze variopinte5. Curiosamente, per tutti quei risoluti austriaci/tedeschi, si pensava che la demarcazione fosse situata intorno a una distinzione tra 2 3
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Così è come leggo Daston 2019. Nell’ambito della finanza internazionale il carry trade indica la pratica speculativa consistente nel prendere a prestito del denaro in paesi con tassi di interesse più bassi, per cambiarlo in valuta di paesi con un rendimento degli investimenti maggiore in modo sia da ripagare il debito contratto sia da ottenere un guadagno con la medesima operazione finanziaria. [N.d.T.] Cfr. Mirowski 1989; 1994; Schabas e De Marchi 2003; Poovey 1998; Wennerlind 2011; Gammon 2010. Anche Hodgson 1993; 2001 ha esplorato queste figure da varie prospettive.
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una sfera di Alterità impermeabile alla nostra intenzionalità e pulsione alla padronanza, in contrasto con una sfera diversa e meno causalmente strutturata di cui noi stessi potevamo comprendere l’architettura, per così dire, dall’interno, perché era composta dalla nostra stessa intenzionalità e dai nostri moventi umani. Non ci volle molto per osservare che il resto del mondo degli intellettuali trovava quella particolare distinzione assolutamente noiosa e irrilevante – compresa, tra l’altro, la maggior parte dei veri scienziati sociali – e quindi ci si è comportati persistentemente come se un tale abisso tra il Naturale e il Sociale non esistesse6. Per il ricercatore medio, è chiaro come il giorno che l’economia accademica dovrebbe aspirare ad essere una “scienza”, qualunque cosa significhi per loro questo titolo onorifico. Anche alcuni pensatori degni di nota, come Hayek, hanno cambiato tono nel corso della loro vita, una volta osservato che il nuovo secolo americano non aveva pazienza per quelle denunce germanofone delle ambizioni smodate degli scienziati naturali7. Questa manifesta incapacità di accordare legittimità a chiunque si impegni a rispettare un’ingiunzione di abnegazione per quanto riguarda l’appello alle scienze naturali in economia costituisce un importante indizio della struttura profonda sottostante alla connessione sotterranea che cercheremo di esplorare più avanti in questo capitolo. Con un imbarazzo forse maggiore, dovrei anche confessare di avere temporaneamente preso in considerazione l’approccio della “retorica dell’economia”, che ha cercato di comprendere gli appelli alla Natura come mera appropriazione di metafore alla ricerca di una strategia sistematica di costruzione di modelli in economia8. Da questo punto di vista, si potrebbe ritenere che le metafore delle scienze naturali agiscano solo come euristiche, spingendo l’esploratore a sognare ad occhi aperti che il fenomeno economico possa assomigliare, in qualche modo vago, a qualche teoria esistente delle scienze naturali, allo scopo di generare nuove strategie di ricerca, come, ad esempio, l’importazione di uno specifico insieme di tecniche matematiche; al contrario, questo può estendersi fino alla 6
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Un bell’esempio di ciò è il fatto che George Soros, il principale finanziatore dell’Institute for New Economic Thinking (lNET), sottoscrive chiaramente questa distinzione germanica (Soros 2010), mentre posso attestare che quasi tutti gli economisti partecipanti all’lNET non lo fanno. Discuto questa notevole inversione di rotta in Hayek, dalle denunce dello scientismo al flirtaggio con la cibernetica e la biologia evolutiva in Mirowski 2007. Cfr. anche Hodgson 1993. Cfr., per esempio, il saggio di Arjo Klamer e Thomas C. Leonard, So What’s an Economic Metaphor?, in Mirowski 1994. Cfr. anche Kellert 2008; De Marchi 1993; Menard 1988.
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conversione della metafora naturale in analogie concrete, dove si procede più pedissequamente, punto per punto attraverso le variabili, per misurare la validità di un isomorfismo letterale delle teorie esplicative nella Natura e nell’Economia. In entrambi i casi, l’esercizio potrebbe essere condito da un appello a qualche incentivo ulteriore per promuovere l’Unità delle Scienze. Il primo approccio euristico è stato più o meno associato al programma di “retorica” di Deirdre (Donald) McCloskey, un tempo popolare tra gli economisti negli anni Ottanta, ma ora ampiamente consegnato al cumulo di ceneri della storia. Il secondo approccio – sottoporre parti specifiche delle teorie a una verifica di isomorfismo matematico – era l’oggetto del mio esame della tabella di concordanza tra la meccanica classica e la teoria neoclassica dei prezzi nella tesi di Irving Fisher (1892); più tardi ancora, Duncan Foley esplorò gli omeomorfismi matematici tra la termodinamica classica e la teoria neoclassica dei prezzi9. Nel lavoro di Wade Hands, la ricerca di isomorfismi matematici ha portato a risultati storici più interessanti10; ma è degno di nota il fatto che, una volta dimostrato che gli omeomorfismi non erano esatti – che il modello neoclassico canonico non si traduce precisamente termine a termine nella meccanica classica, tranne che in strane circostanze – la reazione è stata banale: e se i modelli matematici non fossero identici? Perché mai ci si dovrebbe aspettare che il modello economico imiti vigliaccamente il modello fisico? Alcuni dei recensori mainstream di More Heat than Light (Mirowski 1989) sono arrivati al punto di negare che qualcuno dei loro eroi abbia mai imitato consapevolmente la fisica11, anche se le ammissioni dei primi neoclassici di questo fatto erano evidenti a tutti nelle fonti storiche. Si è attribuito tutto questo a qualche meravigliosa coincidenza, un allineamento accidentale dei cieli, a volte ascritto alla combinazione che la matematica fosse molto simile. Ci sono certamente buone ragioni per sostenere che non ci si dovrebbe ragionevolmente aspettare una corrispondenza termine a termine in eco9 Per il primo, cfr. Mirowski 1989; per il secondo, Smith e Foley 2008. 10 Cfr. Hands 1993; Mirowski e Hands 1998. 11 “Di tanto in tanto si scoprirà che qualche pezzo di economia è matematicamente identico a qualche pezzo di fisica assolutamente non correlato […]. Penso che questo non abbia alcun significato metodologico, ma si verifichi semplicemente perché chiunque giochi a questo tipo di gioco tende a seguire la linea di minor resistenza matematica. So che Philip Mirowski ritiene che aspetti più profondi della teoria economica tradizionale siano il prodotto di una profonda imitazione della teoria fisica del diciannovesimo secolo. Questa tesi mi sembra falsa, ma non pretendo di essere un esperto” (Solow 1997, pp. 73-74). Questo coglie piuttosto bene i modi con cui attualmente gli economisti neoclassici affrontano le questioni filosofiche.
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nomia e fisica (o biologia, o…), sia nella struttura teorica, che nei modelli matematici; ma l’osservazione significativa, per quel che ci riguarda, è che nessuno è stato interessato a perorare questa causa. Invece di un confronto con l’ontologia del Naturale e del Sociale, tutto ciò che si osserva in economia è un’alzata di spalle e un auspicio che “nessuno si aspetti che sia così”. All’inizio della mia carriera, ho cercato di utilizzare filosofi della scienza continentali come Emile Meyerson per far notare che un’importante discontinuità tra Natura ed Economia si trovava nell’area delle simmetrie e dei principi di invarianza: ho cercato di proporre la nozione del “Vecchio Mondo” secondo cui i principi di conservazione avevano senso in fisica in un modo che non avrebbero mai potuto avere in economia – nessuna invarianza attraverso il tempo o reversibilità dello scambio; questo genere di cose. Nessuno sembrava preoccupato di prendere il toro per le corna o in ogni caso di accordare ad esso una qualche capacità performativa. Ora, questo potrebbe essere liquidato come una conseguenza delle mie carenze espositive e dei miei poteri persuasivi12; tuttavia, in questo contesto, vorrei proporre che il totale disinteresse nel salutare qualsiasi verifica delle analogie fallite o difettose da parte degli economisti debba essere considerato come un sintomo di una sindrome più profonda e sommersa. Infatti, l’indizio successivo per completare il puzzle è che, in economia, le appropriazioni dalle scienze naturali non si sono fermate intorno al 1890; al contrario, i modelli dalla Natura hanno continuato ad attraversare a cascata l’economia fino ai giorni nostri: si pensi al principio di Le Chatelier, all’ecofisica, all’equazione di Black-Scholes per il prezzo delle opzioni, agli hamiltoniani, alla neuroeconomia, alla teoria evolutiva dei giochi, ai modelli di isteresi a vetro di spin…la lista potrebbe continuare all’infinito. Per fare qualche passo avanti, abbiamo bisogno di superare la nozione superficiale secondo cui gli economisti si appropriano strumentalmente dei modelli della Natura semplicemente perché vogliono crogiolarsi nell’aura riflessa della scienza di provenienza. Alcuni lo fanno, ma se e quando sono sinceri su questo fatto, vengono sottoposti al ridicolo dai loro pari. Eppure, contro ogni probabilità, i modelli economici che assomigliano molto alla Natura continuano a godere di un vantaggio estremamente favorevole nella grande corsa per l’attenzione accademica e guadagnano sostegno generale. Una volta portati ad ammettere che c’è una carenza di autocoscienza da parte degli economisti su tutto ciò, e quindi niente di ovvio su questa dinamica, allora si è predisposta la strada per una migliore classe di spiegazioni. 12 Difetti che non dovrebbero mai essere completamente ignorati.
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Nella sezione successiva mi lancerò in un diverso tipo di comprensione dell’impiego della Natura in economia, più aperto alla storicizzazione delle entità stesse di “Economia” e “Natura”, proposto da alcuni sociologi e storici della scienza. Sebbene siano molto più perspicaci delle tendenze impulsive menzionate sopra, alla fine anche questi resoconti si rivelano insufficienti, in un modo che cercheremo di motivare portando a galla alcune controversie in ecologia della conservazione sulla corretta comprensione della Natura. La sezione seguente suggerisce che è stato terribilmente difficile discutere la relazione tra Economia e Natura, perché, in un approccio realmente storico a tale questione, quasi tutta l’episteme del pensiero occidentale comincia a disfarsi. Il confronto con le fonti storiche aprirà la strada alla generalizzazione filosofica – quella che parla direttamente alle attuali crisi ambientali che sono state rese vane da questo greenwash dell’ecosistema. Non solo il contenuto stesso dei termini “Economia” e “Natura” cambia drasticamente nel tempo, ma sembra che essi si siano definiti insieme nel corso dei secoli, in modalità che diventano quasi impossibili da separare nettamente.
2. Dall’economica della natura all’economia de-naturalizzata? I primi usi del termine “Economica” risalgono al xv secolo; era usato in riferimento alle attività di approvvigionamento di una famiglia. Per frantumare rapidamente la pietra-sostantivo, denotava un’attività, non una cosa13. La frase “Economica della Natura” apparve subito dopo, riferita principalmente a un’analogia della prima con la nozione religiosa di Dio 13 L’originale riporta: “The early uses of the term ‘Oeconomy’ date back to the fifteenth century; it was used in reference to the provisioning activities of a household. To briefly grind the gerund-stone, it betokened an activity, not a thing” (corsivi nostri). Il riferimento a “provisioning” dell’espressione “gerund-stone” è impossibile da replicare, come tale, in italiano. Abbiamo, pertanto, deciso di sostituire a “gerund-stone”, l’espressione “pietra-sostantivo”, mettendo in corsivo il sostantivo di riferimento, “approvvigionamento”. Un’alternativa poteva essere quella di rendere “provisioning activities” con l’espressione “attività relative all’approvvigionarsi”, ma ci sembrava introdurre un’oscurità semantica poco produttiva. Facendo ciò, tuttavia, siamo consapevoli di eliminare il riferimento all’aspetto morfologico del dispiegarsi di un’attività veicolato dal gerundio in lingua inglese e che, nel caso della frase in questione – è proprio su questo fatto che gioca Mirowski –, trova un perfetto corrispettivo sul piano semantico, dal momento che “provisioning”, a differenza della coppia italiana “approvvigionamento/approvvigionarsi”, è, al contempo, sostantivo e verbo. [N.d.T.]
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che supervisiona allo stesso modo la sua creazione. Era anche un termine fortemente sessuato [gendered] e il sinonimo più prossimo era quello di attività di “allevamento”. Aveva connotazioni sia di attuale sostentamento, che di conservazione a lungo termine e di gestione; il suo obiettivo era quello di tramandare l’abbondanza della terra alle generazioni future, ad imitazione di ciò che Dio ci aveva originariamente lasciato in eredità. Ribadiamolo, il sostantivo si riferiva a un insieme abbondante di pratiche, dato che non esisteva in quel periodo una “cosa” passiva chiamata l’economia. Al contrario, “Natura” era un sostantivo promiscuamente capiente, che, a volte, veniva utilizzato per riferirsi all’intera Creazione non umana, mentre, altre volte, tendeva a indicare la realtà materiale. In ogni caso, il termine era indistricabile dalle correnti teologiche cristiane del tempo. Contrariamente agli studiosi moderni che tentano di proiettare l’economia neoclassica sui testi antichi, Keith Tribe (1978) ha insistito sul fatto che molto di ciò che consideriamo come un ragionamento economico era presente nel contesto dei “trattati di allevamento” fino al xviii secolo, strutturato intorno alla cura adeguata della terra, della famiglia e, talvolta, per estensione analogica, del feudo o del regno. Una delle incongruenze [infelicities] interne contro cui gli autori di quel tempo lottavano era la giustapposizione tra una visione essenzialmente statica del mondo, espressione della beneficenza di Dio, e i requisiti di espansione del lavoro e delle provviste per soddisfare gli obblighi di una buona gestione. Una modalità di riconciliazione degli ukase contraddittori si dette con la fioritura della filosofia naturale nel diciassettesimo secolo, nel periodo di quella che talvolta è chiamata la “rivoluzione scientifica”. Carl Wennerlind (2011) ha sostenuto che la Financial Revolution in Gran Bretagna ebbe la strada spianata dalla rivoluzione scientifica; per quel che ci riguarda, il suo lavoro dimostra come le nuove versioni della “Natura” fecero decollare una nuova concezione dell’economia politica già nel xvii secolo. Abbreviando terribilmente, possiamo riassumere la storia in questo modo. Come noto, i membri del Samuel Hartlib Circle, come Robert Boyle, William Petty e Gilbert Plattes, cercarono di sostenere, attraverso la filosofia e gli esperimenti, che l’umanità poteva esercitare un minimo di controllo sulla natura. Lontano da una qualche dottrina astratta, il Circle era intenzionato ad affermare che la Natura non era un’entità statica, ma si sviluppava nelle sue capacità attraverso il tempo; inoltre, affermava, tale sviluppo poteva essere accelerato sbloccando alcune delle sue capacità altrimenti dormienti, specialmente attraverso la nuova scienza dell’alchimia. Dunque, la ricerca della conoscenza poteva potenzialmente stimolare l’industriosità [industry] e, ancora più importante, dimostrare che la moneta
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[specie] (o il denaro [money]) poteva servire anche ad attivare una natura dormiente nella più grande sfera dell’agricoltura. Il denaro non aveva bisogno di affluire dall’estero, o di essere prelevato come bottino; opportunamente sollecitata, la Natura poteva coprire un aumento locale di denaro (e di credito) e accelerare le forze del commercio. In altre parole, la Natura poteva anche essere arruolata per garantire la validità di una concezione di ricchezza pecuniaria valida più ristretta rispetto alla precedente nozione di allevamento, cosa negata dalla tradizione aristotelica e tomista. È possibile che quella prospettiva specifica sia andata in fumo con la Great Recoinagge e la South Sea Bubble; ma, per quel che ci riguarda, dovrebbe bastare rendersi conto del fatto che una Natura più dinamica e manipolabile è stata una conseguenza significativa della rivoluzione scientifica, insieme al più familiare passaggio dal “mondo chiuso all’universo infinito”. L’ipotesi insidiosa di una Natura come un Altro sempre più alieno da dominare, piuttosto che da gestire con parsimonia, avrebbe avuto conseguenze di vasta portata per il più antico complesso di un’economica della Natura (per non parlare delle icone di genere). I philosophes illuministi portarono oltre questa tendenza, cercando di fondare i propri progetti politici sempre più saldamente sulla loro comprensione di una Natura, che poteva sostenere sia un corpo sano, sia un corpo sofferente e in declino. Infatti, come molte storie dell’economia riconoscono, la prima concezione “moderna” dell’economia politica è spesso attribuita ai sostenitori della “fisiocrazia” – un’etichetta che significava “governo della Natura”. Tralasciando tutte le specifiche per ragioni di brevità, possiamo osservare come la riduzione della Natura a un singolo Tableau che traccia lo spostamento del blé tra i tre ordini della società costituisse un serio restringimento delle precedenti connotazioni della Natura come generosità di Dio in favore di una schematizzazione matematica (e analogica) del corpo politico dipendente, nondimeno, dalla Natura come unica fonte di mantenimento ed espansione del valore. Tale modello illuminista persistette fino al xix secolo, nello specifico fino a quando arrivò l’introduzione della matematica delle probabilità all’interno dell’economia politica, come ha dimostrato Philippe Le Gall: Cournot, Regnault e Briaune condividevano una rappresentazione unificata del mondo: l’universo era una macchina ordinata, funzionante sulla base di un piccolo insieme di regole e principi identici, stabiliti da Dio – diversi tipi di fenomeni erano intesi obbedire a principi simili. Il loro uso delle analogie [matematiche] era quindi legato all’unificazione, anche se diedero forme diverse a questa idea: Cournot e Regnault riducevano i fenomeni economici a fenomeni meccanici, mentre Briaune pensava che i fenomeni economici dipendessero dai fenomeni naturali (Le Gall 2008, p. 469).
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All’epoca dell’economia politica classica britannica, non c’era ancora nulla di simile all’entità contemporanea chiamata “economia”; poteva esserci una “ricchezza delle nazioni”, ma nessuna sfera separata e distinta di leggi monetarie speciali. Anzi, al suo posto c’era un insieme di principi naturali che coprivano la produzione e la distribuzione del sostentamento, ora confuso con una sostanza-valore [value substance], che serviva come stenografia per la fiorente e ronzante confusione tra merci [commodities] e istituzioni di produzione manifatturiera e commercio [institutions of manufacture and trade]. La presenza o l’assenza di questa sostanza, a sua volta, assicurava l’esistenza di un “prezzo naturale”. L’appello stenografico a una sostanza o a un fluido imponderabile come sineddoche di un fenomeno, come il flogisto per la combustione, o la vis viva per il movimento, era merce di scambio per la filosofia naturale del xviii secolo. Dunque, anche la spiegazione in economia politica assunse questo formato. Con i fisiocrati era “grano”, con le sue ovvie connotazioni naturali; con Adam Smith era “stock”, ancora radicato nelle analogie con l’allevamento del “capitale” (come i “capita” degli animali). Nel crocevia tra Ricardo e Marx, la sostanza ha preso una piega vertiginosa per assumere l’aspetto del lavoro umano astratto come sostanza ultima del valore. Ci sono commentatori di ogni genere che considerano questa tradizione superata dell’economia politica, nel bene e nel male, come solidamente radicata nella fisicità della materia prima delle merci e, quindi, nel mondo reale della Natura. Per esempio, molti neo-ricardiani del ventesimo secolo (o “sraffiani”) preferivano i modelli di stile classico proprio perché li consideravano come aventi a che fare con cose che si possono assaggiare, toccare e maneggiare. Radicare l’economia politica nella produzione rappresentava convenzionalmente l’approvazione di un mondo stabile e affidabile di beni fisici, surplus tangibili e crescita misurabile. Per loro, una volta ceduto il passo all’economia neoclassica, l’economia politica ortodossa ha abbandonato il suo ancoraggio nella fisicità del mondo, barattandolo per fantasmi della mente e, quindi, ha smarrito la sua strada. Alcuni sedicenti “economisti ecologici” sono stati anch’essi nostalgici dell’orientamento classico nei confronti del mondo materiale, come scopriremo presto. Chiaramente, nella transizione dalla teoria della sostanza del valore in economia politica classica alla teoria dei campi dell’economia neoclassica, ci si è palesemente lasciati alle spalle un certo numero di preoccupazioni: per esempio, la teoria neoclassica dei prezzi ha lottato per sviluppare una teoria unanime della produzione e ha rinunciato a qualsiasi distinzione stringente tra attività “produttive”
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e “improduttive”14. Tuttavia, avremo modo di vedere a breve come tutta questa apparente robusta fisicità [corporeality] fosse più che ingannevole, poiché dipendeva da una teoria del valore obsoleta ed era basata su un’immagine della Natura che al culmine dell’economia classica del diciannovesimo secolo stava già cominciando a dissolversi. Questo calo di tensione per la perdita di un mondo che solo Samuel Johnson poteva amare è rilevante perché costituisce anche un segno distintivo per l’unica storica contemporanea che ha dedicato sforzi sostanziali per tracciare la traiettoria della Natura in economia. Margaret Schabas nel suo Natural Origins of Economics (2005) ci ha reso il servizio di raccogliere le citazioni della maggior parte dei principali economisti politici, da Hume a Jevons e Marshall, mostrando ciò che è stato esplicitamente scritto riguardo ai loro atteggiamenti verso la Natura. Generalizzando, Schabas sostiene che i primi autori erano molto influenzati dalla filosofia naturale del loro tempo, ritraendo l’umanità situata all’interno della Natura nei termini che abbiamo discusso in precedenza. Tuttavia, nota che questo orientamento ha cominciato ad essere abbandonato in Gran Bretagna a partire da John Ramsey McCulloch e specialmente da John Stuart Mill, i quali procedono con l’erigere una dicotomia tra le leggi della natura fisica e un insieme separato di leggi dell’agire umano, a volte poste in opposizione alla Natura. Nel suo capitolo 8, documenta dettagliatamente come l’ortodossia economica britannica non fu affatto influenzata da Darwin e dalla sua versione dell’evoluzione della Natura, indipendentemente da quanto sostenuto da Marshall, per esempio. La tesi principale di Schabas è che, quando arriviamo ai neoclassici, l’economia si è “de-naturalizzata [de-natured]”: Gli economisti classici assumevano l’economia come un’entità naturale e vedevano l’homo œconomicus come una creatura fatta di passioni e istinti animali piegati a risultati […] che erano in contrasto con i dettami della ragione. Gli economisti successivi, come Mill e i primi neoclassici, condussero l’uomo fuori dalla natura. L’economia era vista come il risultato di un agire razionale e, quindi, non più direttamente governato da forze naturali (Schabas 2005, p. 150).
Forse ancora più drammaticamente, dopo aver identificato questo spartiacque in un modo che ricorda così tanto gli atteggiamenti dei neoricardiani, ci informa che ciò era di scarsa importanza filosofica: Il fatto che l’economia abbia subito una denaturalizzazione nel corso di circa un secolo non porta con sé alcun significato più profondo. È stato un 14 Tali questioni sono discusse in Mirowski 1989.
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processo puramente contingente […]. I discorsi sembrano beneficiare del ragionamento analogico, ma i canali di scambio sembrano altamente accidentali (Schabas 2005, p. 154). Mentre gli economisti classici consideravano i loro fenomeni come appartenenti a una natura fisica esterna, gli economisti neoclassici credevano che il loro discorso fosse composto da fenomeni artificiali. Questo è evidente nel concetto classico di prezzo naturale (Schabas 2005, p. 155).
Sebbene si possa simpatizzare con la selva di citazioni semi-contraddittorie e di estratti da una gamma diversificata di economisti politici attraverso cui [Schabas] ha valorosamente navigato per restituire queste generalizzazioni, sembra che molte barche siano state trascurate per giungere a questo ormeggio finale. Se chiaramente qualcosa di importante è cambiato a metà del xix secolo, si commetterebbe un errore logico e concettuale a dipingere tale inversione di rotta come una “de-naturalizzazione”. Inoltre, non esiste alcun senso storico plausibile per cui le prime tre generazioni di neoclassici avrebbero pensato di sostenere una “scienza dell’artificiale”. Per di più, liquidare la trasformazione degli appelli alla natura come largamente accidentale sancisce un abbandono del dovere filosofico. Ma prima di esplorare il perché, potrei suggerire che Schabas stessa avesse cominciato a percepire la debolezza latente nella sua tesi, dato che, successivamente, ha pubblicato un articolo (2009) suggerendo che “l’Economia” come oggetto d’analisi non avrebbe debuttato storicamente nell’economia politica prima della metà del xix secolo. Se considerare indiscutibile l’esistenza dell’“Economia” nei classici costituisce un anacronismo, allora, forse, anche considerare una Natura stabile che si estenderebbe fino ai primi tempi moderni non costituisce un anacronismo scientifico minore. E questo è quanto, riguardo ai punti di riferimento ontologici. Per indagare le relazioni pericolose tra Natura ed Economia, con il transito avanti e indietro di metafore e pericolosi fluidi corporei, sarebbe opportuno essere molto precisi su ciò che gli “scienziati” e gli “economisti” contemporanei intendevano con questi concetti carichi di significato [loaded concepts]. Una semplice profilassi potrebbe essere quella di domandarsi: quanto della filosofia naturale del diciassettesimo/diciottesimo secolo (o della fisica, o della biologia, o della chimica, o…) uno scienziato moderno riconoscerebbe come una valida caratterizzazione della Natura? Dopo un inventario dei vari “fluidi sottili”, eteri, proprietà dormienti, spiriti animali e tutto il resto, la risposta ovvia sarebbe “non molto”. Solo perché i nostri antenati e noi utilizziamo la stessa parola,
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“Natura”, non significa affatto che abbiamo, noi e loro, lo stesso accesso immediato a qualche denominatore comune senza tempo. Solamente perché i neoclassici sostenevano di avere spostato nella “mente” il luogo del valore economico non significa che avessero rinunciato a fondare le loro teorie sui concetti di Natura caratteristici del loro tempo. Schabas si avvicina pericolosamente a rendersene conto alla fine del suo libro, quando prende brevemente in considerazione il mio lavoro sulle vaste appropriazioni, da parte dell’economia neoclassica, della fisica dell’energia nel diciannovesimo secolo e della teoria computazionale nel ventesimo secolo, cioè dopo aver insistito sul fatto che l’economia è entrata in uno stato de-naturalizzato. Mentre c’è un continuo scambio analogico e metodologico tra l’economia e le scienze naturali, i fenomeni sono isolati in sfere separate. I fenomeni economici sono il prodotto della deliberazione umana e delle istituzioni umane, che a loro volta sono ampiamente indipendenti dalle condizioni evolutive. Se un ecologo adotta un modello dall’economia, non c’è quasi nessuna indicazione del fatto che le cause del fenomeno preso in esame siano le stesse. Né l’economia si interseca con le scienze fisiche a livello ontologico (Schabas 2005, p. 156). La mia tesi della denaturalizzazione sostiene che l’ordine economico, per come è articolato dai principali teorici, si è grandemente allontanato dai concetti della natura fisica. In altre parole, qualunque cosa dia ordine all’economia, anzitutto […] non è più strettamente legata alla natura fisica. L’economia, per come è concepita dai teorici dell’economia, è notevolmente distaccata dal mondo fisico per come è concepito dai professionisti delle scienze fisiche e della vita (Schabas 2005, p. 157).
Tuttavia, se si aggiusta la premessa per riconoscere che il trasferimento concettuale tra economia e scienze fisiche ha avuto luogo a tutti i livelli – metodologico, epistemico, ontologico – e si tiene conto delle immagini Naturali d’annata dell’epoca in cui i trasferimenti avvengono, allora queste ultime due affermazioni di Schabas appaiono palesemente false15. Inoltre, se l’entità scomoda “L’Economia” assume solamente una rilevanza periodica all’interno dell’evoluzione dell’economia ortodossa, come proposto da Schabas (2009), allora il “distacco” della Natura dall’Economia è una correlazione di qualcosa di instabile con niente di davvero sostanziale. Più che un “divorzio”, ciò a cui assistiamo nella storia è una trasformazione [transmogrification] dell’entità complessa “Natura + Economia”. Di conseguenza, l’intera modalità di formulazione della 15 Una reazione simile è stata ventilata da Underwood 2009.
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sua generalizzazione comincia a disfarsi. Gran parte di ciò che lei considera una disgiunzione [disjuncture] storica universale è semplicemente un artefatto della striatura di strati storici sedimentari di trasferimenti passati. Questo, sommato alle sconfessioni superficiali da parte di teorici dell’economia contemporanei come Robert Solow, costituisce il più debole dei fondamenti su cui erigere una tesi ontologica sull’“Economia de-naturalizzata”. Infatti, una volta concesso che non c’è una singola Natura senza tempo che funge da ancoraggio per un’Economia decisamente traballante nel corso della storia dell’economia, possiamo anche rifiutare la strana idea secondo cui l’interazione tra esse sia “accidentale” e priva di conseguenze radicali per le dottrine fondamentali abbracciate dagli economisti. Ovviamente, alcune rotture in economia saranno ricondotte a trasformazioni drastiche interne alle scienze naturali – l’esempio più lampante è la genesi della teoria neoclassica dei prezzi, estratta dall’ascesa, nella metà del xix secolo, della fisica dell’energia. Ma anche le storie più recenti – in parte esplorate ulteriormente nella sezione successiva – costeggiano l’errore di trattare sia l’economia che le scienze fisiche come fossero sospese in un vuoto. L’importanza della saga della Natura e dell’Economia deriva dal fatto che si tratta di concetti profondamente assiologici all’interno della cultura generale: essi veicolano molteplici sfumature di significato da una comunità di discorso all’altra. Si estendono ben oltre i confini di un discorso teorico strettamente definito, per abitare ogni possibile sfera di interesse umano. Un modo per rilevare tutto ciò è consultare brevemente il lavoro di un altro storico dei concetti di Natura. Earl Gammon (2010) ha evidenziato il fatto che la trasformazione dell’economia avvenuta a metà del xix secolo dev’essere compresa nella prospettiva di una rottura di certe concezioni teologiche della Natura. Come abbiamo indicato in precedenza, il primo pensiero moderno dipendeva direttamente dalle garanzie teologiche per fondare la nozione di un’Economica della Natura. Sebbene non sia generalmente oggetto di attenzione nella storia dell’economia, anche l’economia politica classica del xviii secolo dipendeva pesantemente da questa gerarchia di convalida. La fisiocrazia si basava sui poteri curativi della natura, che costituivano, in definitiva, un’espressione dell’amore di Dio. Così, anche le prime formalizzazioni francesi della probabilità nell’economia politica. Sebbene fosse più ambiguo riguardo alla religione organizzata, Adam Smith ricorse, nella sua Teoria dei sentimenti morali, a una simile Economica della Natura: la Provvidenza, attraverso la Natura, dota l’uomo di appetiti e istinti che producono fini morali. Tuttavia, il progetto di
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costruire una Teologia Naturale cominciò a rompersi all’inizio del diciannovesimo secolo16 e questo ebbe conseguenze disastrose per le nozioni culturali di Natura. Se la Natura non poteva più essere fondata senza problemi sulla teologia, allora, pari passu, le nozioni volgari [vernacular] di ordine avrebbero dovuto subire una revisione. La grande sintesi storica di Auguste Comte, con le sue fasi della società che vanno dal teologico al metafisico al “positivo”, con un differente tipo di spazio creato per le scienze sociali, era sintomatica di questo sconvolgimento. Malgrado in pochi abbiano aderito direttamente alla sua piuttosto tendenziosa “religione dell’umanità”, è nondimeno accaduto che lo Stato abbia cominciato ad assumere parte dell’imprimatur per coprire le capacità di progresso umano precedentemente attribuite alla Divinità. Dunque, non è casuale che quest’epoca sia stata testimone dell’invenzione della Società come entità ontologica e, contemporaneamente, della prima apparizione autocosciente del “socialismo”. La Natura aveva gemellato un doppelgänger chiamato “Società”; con il passare del tempo, entrambi avrebbero generato una terza entità chiamata “L’Economia”17. Come conseguenza, un tono più conflittuale cominciò a caratterizzare le nozioni del rapporto dell’umanità con la Natura: lo Stato rivendicava la responsabilità di guidare l’Economia in nome della Società; l’Economia cominciò a mostrare una preoccupante tendenza a deviare dai suoi ormeggi Naturali. Lentamente, impercettibilmente, l’atteggiamento passò da dominio e gestione a dominio di un mondo esterno che non poteva più semplicemente incarnare da solo il progresso morale. Osserviamo qui un tipo di narrazione molto diverso da quello che si trova in Schabas. La rottura storica identificata da Schabas era principalmente la conseguenza di un fallimento della concezione teologica della Natura. L’economia politica classica si sarebbe effettivamente trovata priva della sua comoda versione della Natura all’inizio del diciannovesimo secolo, ma si trattava di una versione della Natura che aveva rappresentato per qualche tempo una controfigura di Dio piuttosto mal camuffata. L’avvento del darwinismo non fece che peggiorare le cose. Alcuni scienziati naturali si sforzavano di trovare qualcosa da far fare a Dio; ma altri cominciarono a postulare una nuova Natura meccanica, unificata da 16 La storia del fallimento dei trattati di Bridgewater è qui rilevante. Su questi, cfr. Helmstadter e Lightman 1990. 17 Una maniera di intendere La grande trasformazione di Karl Polanyi è concepirla come una descrizione di questo processo dal punto di vista della storia economica, piuttosto che, come facciamo qui, da quello della storia intellettuale e della filosofia.
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alcuni principi quasi-vitalisti, principalmente quello dell’energia, aperta alla manipolazione da parte dell’umanità. L’imperativo morale avrebbe quindi dovuto provenire dall’Umanità; il massimo che la Natura poteva portare in tavola sotto la nuova amministrazione era un’incarnazione della virtù dell’“efficienza”. Una risoluzione conclusiva fu quella di reclutare l’umanità per ricongiungersi alla Natura come espressione di puri impulsi energetici: i formalismi del campo energetico furono riformulati nello scomodo formato dell’“utilità” (insieme ad alcuni altri concetti di contorno – per esempio, Sigmund Freud iniziò, anche, come un sostenitore dell’energetica). Schabas accoglie l’idea superficiale di un forte contrasto tra la Natura materiale esterna e gli estranei imponderabili processi mentali interni – ma questa non era la maniera con cui gli economisti del tardo diciannovesimo secolo lo avrebbero visto. La matematica fisica dell’energia rappresentava un modo pulito per inaugurare un’unità transumana del Nuovo Ordine Naturale: William Stanley Jevons, Francis Ysidro Edgeworth, Vilfredo Pareto, Irving Fisher, tutti ne hanno discusso in questi termini. Nessuno di loro vedeva la psicologia al di fuori delle scienze naturali; anzi, insistevano sul contrario. Solo più tardi l’attuale disciplina nascente della psicologia afflisse le loro belle speranze; e così, nel ventesimo secolo, l’economia neoclassica dovette tagliare i ponti con la psicologia. Così, la dicotomia di Schabas risulta essere fuorviante nella maggior parte dei casi. L’economia neoclassica divenne dominante, almeno in parte, perché partecipava abbastanza direttamente all’espressione culturalmente risonante del nuovo modello di Natura del diciannovesimo secolo. L’economia non fu “de-naturalizzata”; fu piuttosto “ri-naturalizzata [re-natured]”. 3. La natura dell’ecologia Confesso di essere un po’ stupito del fatto che a qualcuno che ha familiarità con la storia e la filosofia della scienza siano sfuggite le irruzioni ontologiche che sono scoppiate in tutte le scienze naturali a proposito della scomparsa della solidità storica della Natura. Chiunque avrebbe potuto osservarlo nei testi divulgativi di Bruno Latour e Donna Haraway, che, sebbene affascinanti, saranno tristemente trascurati in questa sede. Potrei anche rinviare alla storia della fisica del ventesimo secolo, che suona come una litania dello smembramento della Natura in teorie dei molti mondi, principi antropici, “particelle di Dio”, la rappresentazione dell’universo al fondo come nient’altro che informazione e, più recen-
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temente, di tutta la natura come un ologramma18. Quanto questo charivari19 di promiscuità tradisce non è tanto che i fisici si sono scatenati spogliando la Natura di ogni singolo brandello di significato volgare e valore morale, ma piuttosto, credo, che la fisica stessa abbia perso così tanto caché culturale negli ultimi tre o quattro decenni che, nel bene e nel male, quasi nessuna delle sue attuali speculazioni astratte sull’ontologia della Natura ha più molto impatto sulla cultura generale. Solamente la componente più ingenua dell’attuale intellighenzia potrebbe cavarsela sbattendo irosa i pugni sul tavolo per confutare il relativismo e poi appellarsi ai fisici perché la sostengano. I fisici moderni sono diventati alcuni tra i più eretici sommi sacerdoti del carattere mutevole della natura, ma il loro rituale fare baldoria rimane in gran parte confinato all’interno dei loro ritiri monastici. Dunque, se la fisica non è più così importante, allora la gente da dove prende le sue idee riguardo alla natura di questi tempi? Credo che da un paio di decenni a questa parte sia molto più attenta alle controversie e agli sviluppi della biologia e, in misura minore, dell’ecologia. Le minacce veramente rilevanti, che vanno dalle impurità che violano i nostri corpi, al degrado dell’aria e dell’acqua ambientale, dalla scomparsa di intere specie, al disastro incombente del riscaldamento globale, fanno tutte appello alle scienze contemporanee che si pronunciano sulla Natura per l’accoglienza o il rifiuto, da parte sua, delle vaghe speranze e paure dell’Umanità. Attualmente è convinzione diffusa che avere accesso ai propri dati genomici ci dica senza mezzi termini chi si è veramente20. Alcuni gruppi considerano ancora una delle più grandi questioni politiche del nostro tempo se Darwin abbia o meno reso per sempre la Natura inospitale a qualsiasi nobiltà dello spirito umano. È molto comune pensare di ridurre il pensiero umano a una qualche combinazione di storia evolutiva e configurazioni fisiche dei neuroni. Per quel che ci riguarda, sarà utile avere accesso alla storia recente dell’ecologia per esplorare ulteriormente la danse macabre di Natura ed Economia. Sembra che anche Schabas avesse qualche sentore di ciò, data 18 Per la teoria dei mondi e i principi antropici, si veda Barrow e Tipler 1986. Per il mondo come informazione e, opzione più inquietante, come ologramma, si vedano, rispettivamente, Davies e Gregersen 2010 e Cowen 2013. 19 Lo charivari era una manifestazione di protesta plateale, di rabbia o irrisione collettiva, contro individui responsabili di atti ritenuti offensivi verso la morale comune, diffuso fino al xx secolo. [N.d.T.] 20 (ultima consultazione 11/04/2016).
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la sua citazione “Se un ecologo adotta un modello dall’economia […]” riportata sopra. Ciò che ha trascurato di dirci è che alcune delle battaglie più spietate sul significato e il valore della Natura si sono verificate in ecologia e intorno ad essa nel recente passato; inoltre, sono gli ecologisti e i loro compagni di viaggio che sono stati più cauti nel preoccuparsi del modo in cui l’economia moderna si è appropriata della Natura per la propria causa e dei modi con cui l’ecologia può aver garantito per questa causa. In altre parole, stiamo vivendo l’ennesimo periodo di ri-naturalizzazione dell’economia e ciò ha lasciato un sacco di gente insoddisfatta riguardo alla direzione che sembrano prendere le cose. Non è possibile divagare nella letteratura della storia dell’ecologia senza notare rapidamente che, quando si tratta di Natura, questi autori sono più che disposti ad avventurarsi dove gli angeli (e il loro opposto, gli economisti) hanno paura di camminare. Quanti altri scienziati, in altri campi, sono stati disposti a cominciare il loro articolo citando favorevolmente il famoso saggio di Raymond Williams, Ideas of Nature (1980), per ammettere in anticipo gli usi politici della Natura? Quanti storici della scienza possono cominciare scrivendo: “La Natura nella cultura occidentale è il prodotto di una tradizione religiosa monoteista” e poi procedere a fare un elenco di tutte le diverse cose per cui la Natura, nell’ultimo secolo, è stata un sostituto [stand-in]: Natura come realtà ingenua incontaminata; Natura come imperativo morale; Natura come Eden; Natura come urcommodity; Natura come Ritorno del rimosso; Natura come terreno contestato; Natura come alterità Radicale (Cronon 1995, pp. 35-52)? Quanti altri campi introducono i loro articoli con la domanda: “Fino a che punto la natura è indipendente dall’agire e dalle concezioni umane e fino a che punto è costruita dalla società e dai processi di pensiero umani?” (Foster e Clark 2008, p. 311). E quanti storici delle altre scienze partirebbero ammettendo che la loro disciplina di riferimento è fluida e frammentata, ma allo stesso tempo una fonte di convalida politica e che ciò implica l’obbligo di abiurare il ruolo di cheerleader e di impegnarsi nella critica disciplinare: Questa scienza [dell’ecologia] è arrivata ad avere una grande influenza sulla nostra percezione della natura nei tempi moderni; le sue idee, d’altra parte, sono state impressioni di noi stessi tanto quanto apprensioni oggettive della natura; l’analisi scientifica non può prendere il posto del ragionamento morale; la scienza, inclusa la scienza dell’ecologia, promuove, almeno in alcune delle sue manifestazioni, alcune delle nostre ambizioni più oscure nei confronti della natura e quindi ha bisogno di essere moralmente esaminata e criticata di tanto in tanto (Worste 1990, p. 2).
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Per quel che riguarda la nostra prospettiva, nessuna disciplina si è preoccupata maggiormente del fatto di contribuire a formare il significato e i referenti della Natura per la cultura generale e, per questo motivo, di non poter facilmente separare le preoccupazioni internaliste di “scienza normale” dalle sue più ampie ambizioni politiche e sociali. Ci sono poche altre scienze che ammettono liberamente di adottare modelli da fuori per mettere in moto scuole di ricerca, in particolare l’economia, e di conseguenza creano spazio per pensare in modo riflessivo a questo fatto. Come ha scritto Donald Worster, “[…] in larga misura, l’ecologia oggi è diventata ‘bioeconomia’: una divisione affine, o forse persino subordinata, dell’economia” (1994, p. 292). In qualche modo, la storia dell’ecologia ha qualcosa da insegnare alla storia dell’economia. Non c’è una storia unanime dell’ecologia; ciò che esiste è un certo numero di eccellenti resoconti a grana fine di sottocomponenti della disciplina. Ho l’impressione che l’ecologia vegetale abbia raccolto un bel po’ di attenzione in passato; l’approccio sistemico all’energetica di Howard e Eugene Odum è stato trattato da diversi punti di vista; e la fascinazione per la teoria dei giochi e le teorie della complessità hanno cominciato ad attirare l’attenzione. Chiaramente, non si può pretendere di generalizzare riguardo lo stato dell’archivio della storiografia dell’ecologia, anche se non posso trattenermi dal notare che le traiettorie generali dell’ecologia e dell’economia presentano alcune sorprendenti somiglianze. Come ha dichiarato Richard Levins in un’intervista: Il gene come unità fondamentale dell’organismo individuale è in qualche misura parallelo alla ricerca dell’unità fondamentale dei sistemi ecologici […] gli ecologisti hanno elaborato la nozione di energia […]. La nozione di energia come cosa fondamentale a cui guardare come mezzo universale di scambio è chiaramente portata in biologia per analogia con lo scambio economico (Levins, in Callebaut 1993, p. 262).
L’energia come mezzo di crescita e di scambio è certamente un modo attraverso cui la Natura assume un’attitudine da commerciante; ma questo costituisce solo l’inizio di una più profonda connessione sotterranea. Dopotutto, se il modello canonico neoclassico originale della teoria matematica dei prezzi è stato copiato dall’energetica negli anni Settanta dell’Ottocento, allora era inevitabile che gli ecologisti si imbattessero in analogie pregnanti nell’economia neoclassica, una volta elaborato un impegno nei confronti dell’energetica come principio organizzativo scientifico. Allo stesso modo, quando gli ecologisti cominciarono ad appassionarsi ai computer e alla teoria dei sistemi negli anni Settanta, sarebbe stata solo una questione di
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tempo prima che scoprissero che gli economisti erano già stati lì prima di loro, con un sacco di modelli affascinanti di sistemi di feedback e trasferimento di informazioni per ritrarre un sistema relativamente omeostatico21. Certamente, esistevano pagine e pagine di buoni studi empirici sugli ecosistemi e un sacco di lavoro sul campo e di test in corso; ma qui si tratta di chiarire che cosa stava succedendo alla rappresentazione di riferimento della Natura in ecologia nel periodo postbellico. Non sono il primo a notare che questa sequenza di sviluppi di modellazione ha continuato a portare la Natura sempre più in linea con le visioni economiche ortodosse del Mercato; a tal punto che una delle principali questioni affrontate nella storia dell’ecologia è quanto la scienza dell’ecologia sia diventata una branca dell’economia. Contrariamente a quanto sostiene Schabas, non viviamo in un mondo di Economia de-naturalizzata; al contrario, abbiamo a che fare quotidianamente con la scienza della Nature Inc22. (Traduzione dall’inglese di Marco Ferrari) Riferimenti bibliografici Arsel, M., Büscher, B. 2012 NatureTM Inc.: Changes and Continuities in Neoliberal Conservation and Market-Based Environmental Policy, in “Development and Change”, 43, n. 1, pp. 53-78. Barrow, J.D., Tipler, F.J. (a cura di) 1986 The Anthropic Cosmological Principle, Oxford University Press, Oxford. Büscher, B., Dressler, W., Fletcher, R. (a cura di) 2014 Nature Inc.: Environmental Conservation in the Neoliberal Age, The University of Arizona Press, Tucson. Callebaut, W. (a cura di) 1993 Taking the Naturalistic Turn, Or How Real Philosophy of Science Is Done, The University of Chicago Press, Chicago. Cowen, R. 2013 Simulations Back Up Theory that the Universe is a Hologram, in “Nature”, 10 dicembre. 21 La storia della cibernetica nell’economia del dopoguerra è l’oggetto del mio Machine Dreams (Mirowski 2002). 22 Cfr., per esempio, Arsel e Buscher 2012 o Buscher et al. 2014.
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Commento introduttivo a Durkheim di Bruno Karsenti Giovanni Minozzi Il lavoro di Bruno Karsenti (1966), attualmente directeur d’études presso il Laboratoire interdisciplinaire d’études sur les réflexivités (LIER-FYT) dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, è mosso da un tentativo di ripensare filosoficamente la maniera in cui la logica delle scienze sociali inflette e trasforma in profondità la teoria politica delle società moderne. Rispetto al discorso della filosofia politica classica, esso si configura pertanto come un lavoro dichiaratamente epistemologico – ossia come una filosofia delle scienze sociali, riflessione sulla riflessione prodottasi all’interno di questi saperi, all’intersezione tra sociologia e antropologia, ma anche tra storia e psicoanalisi – e storico-concettuale – ossia come una filosofia storica delle scienze sociali, condotta a partire dal riconoscimento del carattere situato e discontinuo che segna la formazione dei concetti scientifici. Questo cantiere prende avvio con le prime opere dedicate al pensiero di Marcel Mauss, in particolare L’homme total. Sociologie, anthropologie et philosophie chez Marcel Mauss (1997), dove si tratta di ricostruire la problematica che anima la concezione maussiana del “fatto sociale totale” – compreso come tentativo di superamento della separazione tra individuo e società venutasi a formare, in Francia in particolar modo, nell’opposizione tra psicologia e sociologia – e di riaprire in questo modo il progetto archeologico foucaultiano, misurando lo scarto che si viene a creare una volta che le scienze umane vengano comprese in quanto scienze sociali. Sempre più, in effetti, la riflessione di Karsenti si distacca da un certo sfondo foucaultiano-althusseriano per articolare diversamente la storicità specifica dello sviluppo delle scienze umane e la posta in gioco antropologica che le caratterizza, senza per questo riattivare una logica di tipo “umanista”. Alla rivalutazione epistemologica dello specifico “senso del problema” (Bachelard 2011 [1938]; tr. it. 1995, p. 12) sollevato dalle scienze umane si connette quindi un tentativo di apprezzarne il significato politico, al di là della loro riduzione a saperi tecnico-amministrativi, legati alla parabola
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governamentale della razionalità politica occidentale. Al contrario, il passaggio attraverso di esse, e della sociologia in particolare, appare necessario per determinare la fisionomia che il problema politico acquista in quelle società sconvolte dalla Rivoluzione francese, evento al contempo sociale ed epistemico (cfr. Karsenti 2000). Da qui, una prima direttrice delle successive ricerche di Karsenti procede a ritroso, in un lavoro di scavo su alcuni snodi cruciali di questa sequenza del pensiero francese, di cui testimoniano in particolare i due studi dedicati al pensiero di Comte (Politique de l’esprit. Auguste Comte et la naissance de la science sociale) e di Durkheim (La société en personnes. Études durkheimiennes), entrambi pubblicati nel 2006, ma anche l’approfondimento delle letture sociologiche di autori chiave come Montesquieu e Rousseau. Una seconda direttrice risale invece, dall’approfondimento della torsione che il paradigma sociologico subisce in pensatori come Freud, Bergson, Lévi-Strauss, o ancora negli approcci pragmatisti e fenomenologici, verso la più stringente attualità dei dibattiti relativi allo statuto delle scienze sociali e al tipo di azione teorica che esse sono in grado di esercitare. D’une philosophie à l’autre. Les sciences sociales et la politique des modernes (2013) riunisce queste due direttrici, precisando i contorni di una vera e propria epistemologia delle scienze sociali, che registra e approfondisce il modo in cui il tenore politico delle scienze sociali – tenore che non è “una portata, e ancor meno un’intenzione, come se la politica, questo luogo che immaginiamo volentieri come quello delle decisioni e delle scelte imposte dall’esterno a una realtà votata a sottomettervisi, operasse preliminarmente per piegare le scienze sociali ai propri fini” (Karsenti 2013; tr. it. 2017, p. 36) – altera l’immaginario della filosofia politica moderna, rompendo con il carattere astratto e formale della sua concettualità, in particolare quella depositatasi nelle teorie contrattualiste. A questo gesto, fa così seguito un ripensamento della natura politica delle scienze sociali e della loro capacità di operare una comprensione sociologica dei meccanismi ideologici che mettono in tensione l’ideale democratico delle società moderne, superando l’individualismo metodologico che sostiene i paradigmi scientifici dominanti al loro interno (diritto, economia, psicologia). Di qui la rivendicazione di una coappartenenza tra impostazione sociologica e movimento socialista (indagata in Socialisme et sociologie, pubblicato nel 2017 assieme a Cyril Lemieux), volta a fornire una comprensione adeguata di quella volontà di sapere che permea le spinte all’emancipazione che percorrono il nostro presente, nonché a riconnetterle a una più ampia riflessione sul plesso popolo-società-nazione e sui rapporti tra universalismo politico e questione ebraica (dal libro su
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Moïse et l’idée de peuple. La vérité historique selon Freud, del 2012, a La Question juive des modernes. Philosophie de l’émancipation, del 2017). Il testo che si è scelto di presentare in questa sede, estrapolato da una raccolta di contributi sulla storia dei rapporti tra i filosofi e la scienza, costituisce un approfondimento del nesso tra scienza sociale e pratica filosofica nel pensiero di Durkheim. Si potrebbe dunque domandare per quale ragione si sia privilegiato un testo che si presenta in apparenza come un commento a un classico del pensiero sociologico, a scapito di altri che affrontano più direttamente i dibattiti riguardanti lo statuto epistemologico degli approcci sociologici contemporanei – a partire, ad esempio, dalla mancata ricezione italiana dei lavori di Jean-Claude Passeron sul ragionamento sociologico (Passeron 2006) e di quelli di Bernard Lahire sull’esprit della sociologia (2007), per limitarci a due casi rilevanti in area francese. Il bisogno di una scienza di ritornare costantemente ai suoi atti fondativi non è forse il sintomo della sua immaturità teorica? L’invocazione della tutela filosofica non tradisce forse la circolarità ideologica in cui le scienze umane sono prese, nel loro bisogno di “demistificarsi senza posa” (Foucault 1966; tr. it. 2013, p. 390)? Stando a una certa immagine della rottura bachelardiana, che ha inciso fortemente sullo sviluppo della stessa sociologia francese, la scienza dovrebbe in un certo senso progredire in una perpetua revisione dei propri fondamenti e della propria storia, affrancandosi, mediante una serie di atti epistemologici, tanto dalle insufficienze della scienza passata, quanto dal tessuto rappresentativo dell’opinione. Da questo punto di vista, riportare lo sguardo sul positivismo possiede un senso ben preciso: si tratta precisamente di determinare quale tipo di rottura sia in gioco nella costituzione di una scienza dei fenomeni sociali. Nelle parole di Karsenti, quest’ultima nasce infatti come “una teoria per la pratica”, sospesa “tra l’imperativo di rottura e il riconoscimento della continuità” con il senso comune; ed è quindi una scienza che “deve potere disporre anche di una teoria della penetrazione sociale del proprio discorso” e che, se “non rompe, come invece fanno le altre [scienze] con il senso comune, è perché sa di essere, fin dall’inizio, una conoscenza comunemente voluta all’interno delle società democratiche come la possibilità di un accesso di tutti a ciò che propriamente le muove. Detto in una parola, è per una ragione politica” (Karsenti 2013; tr. it. 2017, p. 35)1. 1
È evidente come, sotto questo profilo, la ricerca di Karsenti si misuri, fra gli altri, con il tentativo di Pierre Bourdieu di articolare la rivendicazione dell’autonomia epistemologica della sociologia con la sua comprensione pratica e pragmatica – con esiti tuttavia diversi, sia per quanto attiene al rapporto tra sociologia e filosofia, sia rispetto alla maniera stessa in cui la distinzione tra teoria e pratica viene concepita.
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Misurare la portata di questo “inizio” a cui rimanda la genesi della scienza sociale impone allora di confrontarsi con il positivismo in quanto momento di soglia all’interno di questa storia. La comparsa della sociologia come scienza positiva, per come viene formalizzata da Auguste Comte, rinvia all’esigenza di individuare un sapere capace di risolvere l’anarchia che lacera la società europea all’indomani della Rivoluzione francese; anarchia che è politica solo nella misura in cui dipende da un’anarchia intellettuale, ovverosia dalla mancanza di principi epistemici condivisi su cui fondare l’azione politica, paralizzata nelle aporie in cui la precipita il dispositivo teologico-metafisico della sovranità moderna (cfr. Duso 2007). Alla sua radice, il sorgere del discorso sociologico è perciò inseparabile dall’apparizione di un piano propriamente epistemologico, che presiede alla costruzione dei metodi di questa nuova scienza a partire dallo studio sistematico dei rapporti che la connettono alle (e la differenziano dalle) altre pratiche scientifiche – piano dal quale Comte inizialmente esclude, in chiave anti-spiritualistica, la psicologia e, con essa, la priorità del soggetto come fondamento trascendentale di una teoria della conoscenza, aprendo a una concezione dell’epistemologia come teoria storica e differenziale delle scienze. L’articolazione dei rapporti tra pluralità e unità delle scienze appare quindi come la precondizione per risolvere il problema politico che la Rivoluzione apre senza poterlo davvero risolvere. In entrambi i casi, si tratta di capire come governare un processo inarrestabile di specializzazione che coinvolge allo stesso modo, anche se con effetti differenti, la pluralizzazione delle attività scientifiche e delle funzioni economiche. Se il positivismo rappresenta una sorta di impensato della nostra modernità, è nella misura in cui, piuttosto o prima di costituire un progetto tecnocratico, scientista, improntato alla neutralità assiologica e all’applicazione indiscriminata dei paradigmi delle scienze naturali, esso ha per primo articolato riflessivamente le poste in gioco sottese alla funzione sociale della scienza e al divenire scientifico della politica, estendendo la nozione di divisione del lavoro al di là del “senso infinitamente stretto che le hanno dato gli economisti” (Comte 1978; tr. it. 1969, p. 261). Riprendendo e sviluppando sul piano epistemico quanto nel discorso di Comte rimaneva vincolato a una prospettiva giudicata ancora troppo filosofica, Durkheim tenta di esplorare questo plesso alla luce della specializzazione interna alle scienze sociali. La lettura di Karsenti si concentra allora Sul tema, che meriterebbe ben altra considerazione, cfr. il saggio I dilemmi dello strutturalismo della pratica in Karsenti 2013; tr. it. 2017, pp. 225-259.
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sulla tensione che viene a determinarsi tra la necessità di pensare lo sviluppo scientifico da una prospettiva immanente a questo stesso processo di specializzazione e l’ideale di generalità che Durkheim eredita da Comte e che non riesce (e che forse non deve) del tutto a scongiurare. La discussione di questa polarità fondamentale tra scienza sociale e filosofia è funzionale a illuminare alcune specificità che continuano a segnare la storia della sociologia francese. In particolare, Karsenti mostra come, proprio mediante la loro riflessione sulla divisione del lavoro, Durkheim e Comte abbiano gettato le premesse per aggirare l’alternativa tra, da una parte, un’immagine del positivismo come mera estensione deterministica di modelli matematici, fisici o biologici al sociale e, dall’altra, la separazione radicale tra scienze dello spirito e della natura affermatasi in area tedesca; e come, così facendo, abbiano aperto dall’interno di una prospettiva epistemologica, la possibilità di pensare un’ontologia differenziata del sociale. Soprattutto, dietro a questa polarità emerge lo sforzo epocale con cui le scienze sociali provano ad assumere la forma, o quantomeno circoscrivono lo spazio e l’esigenza, di una nuova scienza politica, all’interno della quale – come testimonia il riaffiorare sempre più insistente del problema del governo che la rappresentanza moderna tende a neutralizzare (cfr. Duso 2006) – i concetti politici moderni e la nozione di potere che li sorregge vengono di volta in volta refutati o risemantizzati, criticati duramente e riadattati a una nuova grammatica dell’ordine societario (cfr. Chignola 2004; Ricciardi 2010), in un processo che, non senza ambiguità, costringe a rimettere in gioco le nozioni più familiari e a riportare in primo piano la carica trasformativa ed emancipatrice del sapere scientifico, contro alla sua riduzione a mero strumento amministrativo. In questo senso, come ebbe a scrivere Lévi-Strauss, quella stessa “origine filosofica” della sociologia francese, da cui essa ha tentato faticosamente di separarsi, “potrebbe essere la sua migliore risorsa per il futuro” (Lévi-Strauss 1947; tr. it. 2013, p. 79). Riferimenti bibliografici Bachelard, G. 1938 La formation de l’esprit scientifique, Vrin, Paris; tr. it. a cura di E. Castelli Gattinara, La formazione dello spirito scientifico, Raffaello Cortina, Milano 1995. Chignola, S. 2004 Fragile cristallo. Per la storia del concetto di società, Editoriale Scientifica, Napoli.
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Bruno Karsenti
DURKHEIM Scienza e filosofia nella divisione del lavoro
L’unificazione delle scienze attraverso la loro comune adozione del metodo positivo è una delle tesi cardinali di quello che si definisce positivismo. Questa tesi, tuttavia, non si limita solamente alla sua dimensione epistemologica; piuttosto, la riflessione epistemologica si rivela in questo caso strettamente dipendente, e in fondo inseparabile, da una riflessione di ordine sociale e politico. Pensare la forma originale di totalizzazione del sapere che la tradizione positivista ha voluto promuovere impone in effetti di restituire l’interrogazione più ampia incentrata sul concetto di divisione del lavoro, fenomeno sociale eretto a principio d’intelligibilità del mondo naturale e storico. Da Comte a Durkheim, è attorno a questo concetto che una certa corrente di pensiero si organizza, prende forma e s’inflette progressivamente in un senso che modifica considerevolmente il postulato di partenza. Unificare i metodi, nella scienza come in altri settori, è articolare delle funzioni, organizzare l’attività nelle varie vie che essa percorre per effettuarsi. Tutto comincia dunque – ed è questo un punto comune al positivismo e al marxismo, a partire dal quale si potrebbe peraltro istituire un paragone fecondo – con una critica dell’economia politica. Per principio, e ritornando alla formulazione iniziale della critica dell’economia politica in cui il positivismo trova la sua sorgente, si comincerà con l’ammettere che la divisione del lavoro dev’essere posta al contempo come un processo e come un problema. Dal momento che non hanno colto l’ampiezza della loro scoperta, gli economisti non hanno misurato la sua storicità e si sono lasciati sfuggire il problema che essa solleva. Tale problema, secondo Comte, è quello di una dinamica contraddittoria, che implica, in un medesimo movimento, progresso e deterioramento. “Causa generale del perfezionamento umano”, la divisione del lavoro presenta, altrettanto naturalmente, “una tendenza continua al deterioramento e alla dissoluzione, che finirebbe per arrestare ogni progresso, se non fosse incessantemente combattuta da un’azione sempre crescente del governo e soprattutto del governo spirituale” (Comte 1978; tr. it. 1969, pp. 262-263). In questa considerazione si concentrano la comprensione positivista della modernità e
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la relazione interna tra politica e pensiero che ne struttura il senso. Il progresso, dal momento che ha necessariamente luogo sotto la forma di una specializzazione, contiene in se stesso il suo punto di arresto, che consiste in una dispersione degli spiriti [esprits]1. Se la divisione implica una separazione delle specialità, tale separazione tende naturalmente alla dissoluzione; ed è questa tendenza naturale che occorre rettificare. Ciò non è tuttavia possibile, paradossalmente, se non spingendo al limite questo movimento. A immagine della medicina, che, quando si applica a una situazione che diagnostica come una crisi, trae dall’organizzazione vitale le risorse per superarla, la filosofia positiva vede nel processo di specializzazione – concepito nella sua completa estensione, di cui si vuole essa stessa come un risultato – il rimedio al male che esso ingenera. Il problema costitutivo della modernità, lascito del pensiero comtiano alle varie concezioni che declinano il tema positivista sulla sua scorta, è allora quello di una sintesi appropriata, unica via d’uscita alla crisi. Problema che si pone nella pratica solo perché è innanzitutto posto nella teoria, ovverosia nell’attività scientifica, nella quale gli spiriti, a mano a mano che si acuiscono, e progrediscono acuendosi, “si assottigliano”, si ripiegano su loro stessi e perdono di vista tanto i loro rapporti reciproci quanto il movimento d’insieme al quale devono concorrere. L’unità degli spiriti, fondamento di un ordine sociale autentico, risulta ancora più difficile da stabilire. È la solidarietà delle funzioni distinte che si tratta d’instaurare, sapendo che il movimento di specializzazione, assunto e non negato, impedisce una pura e semplice restaurazione del modo di unità vigente in precedenza. Come conciliare questa contrazione necessaria con l’emergere di un ordine? Non mediante la costruzione di una logica sviluppata sul piano puramente speculativo, parallela allo sviluppo delle scienze, secondo l’asse che domina l’idealismo tedesco. È su questo punto che interviene la tesi dell’unità metodologica delle scienze. Per il filosofo positivo, la soluzione va ricercata dal lato dei metodi scientifici, cioè situandosi sul piano della pratica delle scienze e ricomponendo la loro unità all’interno del metodo 1
Si è scelto di mantenere in tutta la sua polivalenza il concetto di esprit, traducendolo con “spirito” piuttosto che con “mente” o “intelletto”, termini che, per quanto l’utilizzo comtiano si riferisca in primo luogo alle funzioni intellettuali e al loro ruolo direttivo nella società, rischiano di non restituire la ricchezza del suo spettro semantico, di cui alcune sfumature sono affrontate nel presente saggio. In prima approssimazione, si potrebbe dire che lo sforzo comtiano si configura, attraverso la mediazione fondamentale di Montesquieu, come un tentativo di sintesi tra la naturalizzazione delle funzioni cognitive perseguita dagli Idéologues e la filosofia del Geist di matrice tedesca. [N.d.T.]
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positivo. L’“unica logica ragionevole” procede a posteriori, mediante l’osservazione e la ricapitolazione, all’interno di ogni scienza positiva, delle “differenti vie che si seguono per procedere alle scoperte” (Comte 1973, p. 58). Il positivismo è una filosofia, non a rischio della scienza, ma a rischio delle scienze, così come esse si effettuano. Vale a dire che anche qui domina lo schema della divisione del lavoro e che questa richiede di essere pensata dall’interno, di modo che possa emergere un principio di organizzazione che le sia esattamente adeguato. La questione cruciale è di sapere da che luogo può procedere la sintesi suscettibile di porre fine all’anarchia intellettuale e che forma essa debba prendere. A ciò, si è già potuto fornire un abbozzo di risposta: la sintesi dipende da un atto di governo, che si può caratterizzare come politico a condizione di precisarne la modalità propriamente spirituale. Per Comte, in effetti, la politica ha una struttura duplice, che bisogna trattenersi dal semplificare. Il governo spirituale si distingue dal governo temporale, con il quale coesiste, per il fatto che non si esercita direttamente sulle azioni, ma consiste in un “regolamento delle opinioni, delle inclinazioni, delle volontà, in una parola delle tendenze” (Comte 1978; tr. it. 1969, p. 255). Se è vero che “le idee governano e sconvolgono il mondo, o in altri termini che tutto il meccanismo sociale poggia su delle opinioni” (Comte 1998; tr. it. 1967, p. 94), allora si ammetterà che è precisamente questo potere spirituale, o governo dell’opinione, di cui i tempi moderni sentono crudelmente la mancanza, nell’incompiutezza che caratterizza il termine del periodo critico cominciato con il XIV secolo e che raggiunge il suo apice con la Rivoluzione. Consumatasi la distruzione della filosofia teologica e dell’unità che era riuscita a stabilire, una nuova unità può essere prodotta solo dalla filosofia positiva, la cui proprietà fondamentale è di essere un pensiero delle leggi e non delle cause, un pensiero dei rapporti costanti e non dei termini sostanziali considerati come degli assoluti. Ora, pensare in maniera relazionale, pensare in termini di rapporti, è appunto la posta in gioco definita dalla doppia tendenza inerente alla divisione del lavoro. È perché vi è divisione, separazione, che deve esserci organizzazione, unione del diverso come tale, senza riduzione né uniformizzazione. Nello stato sociale attuale, dunque, governare non significa altro che regolare la divisione del lavoro; e ciò non può avvenire senza l’instaurazione di un potere spirituale specificamente adatto alle società moderne, potere capace di riunire gli spiriti in un modo inedito, potere di organizzazione che il positivismo attribuisce a quella filosofia condotta sotto il suo nome. Ne deriva, come nota Durkheim (Durkheim 1990a; tr. it. 2016, p. 343), che Comte ammette un’analogia, forse persino un’equivalenza, tra politica
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e filosofia. Va notato che non si tratta qui di un semplice corollario della tesi principale, ma dell’esplicitazione del suo senso propriamente filosofico. Poiché il problema politico si riassume nell’attuale carenza di potere spirituale che solo la filosofia positiva è in grado di colmare, quest’ultima fa uso del termine governo in un senso forte. Governare è far concorrere gli spiriti all’ordine generale da cui tendono ad allontanarsi. Questa azione teorica si esercita innanzitutto, nello stato positivo, sulle scienze stesse, saperi speciali la cui articolazione può essere realizzata solo mediante una sintesi filosofica che li riunisce senza confonderli. La politica può essere rifondata solo filosoficamente e la filosofia è in fondo una politica delle scienze, base necessaria della politica tout court. Ovvero: la filosofia è l’organo governativo di cui le scienze hanno bisogno per non cedere al deterioramento che il loro libero sviluppo reca con sé. Ma allora, si comprende come questa mediazione politica, necessaria per pensare il rapporto della filosofia con le scienze, racchiuda un’ambiguità. Da una parte, la filosofia si definisce solamente nel suo rapporto con le scienze. Per costituire l’unità dei metodi all’interno del metodo positivo, è necessario passarle in rassegna tutte, dal momento che l’unità è quella dei lavori in quanto divisi. Dall’altra, la filosofia non è completamente immanente alle scienze con cui si confronta, poiché deve sovrastarle per regolarle, agire politicamente su di esse. La politica delle scienze non si confonde con una politica scientifica, ed è la filosofia che si trova in una posizione di sovranità, nel senso politico del termine – e ciò proprio nella misura in cui è risolutamente esclusa dalla sfera del potere preso in senso temporale. Si possono reperire le tracce di questa ambiguità su più livelli della dottrina comtiana. Innanzitutto nella definizione della filosofia come un curioso ibrido, sapere generale-speciale, nuova specialità generata dal processo di specializzazione, ma che completa le specialità scientifiche solo per esaminarle sotto il profilo generale dei loro “metodi essenziali e dei loro principali risultati”, in una parola del loro spirito. Poi nella definizione della sociologia, sesta scienza fondamentale il cui accesso allo stato positivo definisce lo “scopo speciale” del corso, opera propriamente scientifica a cui rimane sospeso lo “scopo generale”, cioè la fondazione della filosofia positiva come tale (Comte 1998; tr. it. 1967, pp. 89-90). La sociologia, divenendo una scienza, non è più una semplice aggiunta al sistema delle scienze, ma ciò che permette di fondarlo precisamente in quanto sistema. Cosa la distingue allora dalla filosofia? Non molto, sembrerebbe. LévyBruhl, commentando Comte, vi vede una “scienza universale”, mentre le altre scienze possono a loro volta essere viste come dei “grandi fatti so-
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ciologici” (Lévi-Bruhl 1900, p. 403) attraverso i quali si articola la legge dei tre stati. Questa legge è quindi la legge sociale suprema, almeno per la sociologia dinamica, la sola a cui Comte abbia davvero contribuito, in un senso che, occorre ben dirlo, non la distingue del tutto da una forma rimaneggiata di filosofia della storia. A ciò si aggiunge il fatto, rilevato ancora da Durkheim, che la visione politica del filosofico trova in Comte il suo corrispettivo esatto nell’ordine pratico. In effetti, la concezione della regolazione del corpo sociale in termini di governo porta con sé una certa concezione dello Stato come centro normativo esclusivo, le cui determinazioni s’impongono in modo massiccio, e come dall’esterno, al loro campo di applicazione. Insomma, il problema moderno della regolazione della divisione del lavoro può risolversi solo mediante l’istituzione e il rafforzamento di un organo di governo capace di rapportare le parti al tutto e di imporre il punto di vista dell’insieme. Ma come garantire, in queste condizioni, che vi sia effettivamente organizzazione e non una riduzione a delle norme omogenee, indifferentemente valide per ogni funzione? Come essere sicuri che la produzione del tutto tenga conto dell’eterogeneità delle parti determinata dalla loro divisione funzionale? Simili domande si rivolgono in primo luogo al filosofo – e si comprende la difficoltà della posizione che lo “specialista delle generalità” vorrebbe occupare rispetto a una divisione del lavoro teorico che egli deve accettare e ratificare, di cui è egli stesso l’ultimo prodotto, ma nella quale non può risolversi a lasciarsi assorbire completamente. Questa difficoltà, del resto, non si esprime tanto nel rapporto che la filosofia intrattiene con la scienza in generale, o anche con le scienze prese nella loro pluralità, quanto nel suo rapporto con una scienza in particolare: la sociologia, scienza dei fatti sociali, vale a dire dei fatti più complessi con i quali lo spirito si confronta nella sua investigazione positiva del mondo e nello sforzo mediante cui quest’ultimo è infine ricondotto al piano del soggetto umano. Il progetto di sintesi non deve forse essere riportato a quest’ultimo stadio della gerarchia delle scienze? Dopotutto, la sociologia non è in grado di giocare il ruolo di polo sintetico veramente interno alla divisione, permettendo di risolvere le tensioni che un intervento filosofico lascia inesorabilmente sussistere? Facendo dipendere l’avvento della filosofia positiva dalla realizzazione della sociologia positiva, Comte ha gettato le basi di un dilemma che è lungi dall’essere risolto, e che orienta ancora la posizione conflittuale del problema sociologico nel campo intellettuale francese: conflitto tra le pretese concorrenti della sociologia e della filosofia, le cui origini vanno ricercate nell’ambiguità positivista che si è rilevata, seguendo la stretta prossimi-
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tà che essa mantiene tra due operazioni dove il generale e lo speciale si scambiano e s’invertono. Se la filosofia è una specialità, senza ridursi del tutto a una scienza, è perché il suo oggetto è generale, perché si sforza di legare fra loro le generalità scientifiche. Dal suo canto, la sociologia è una scienza il cui oggetto è speciale, ma che, in ragione di questa stessa specialità – specialità estrema, che presuppone, come Comte riconosce, uno spirito formato nei modi di razionalità corrispondenti alle scienze anteriori (Comte 1998; tr. it. 1967, p. 142) – potrebbe autorizzare un punto di vista generale, gettando così un dubbio sulla pertinenza di una sintesi propriamente filosofica. Il problema della divisione del lavoro, in questa misura, rimane aperto – vale a dire il problema della regolazione immanente dei lavori divisi e della produzione interna dell’unità del differente. Di questa incompiutezza, il confronto e lo scarto mantenuti tra la filosofia da una parte, e le scienze dall’altra, sarebbe l’ultimo sintomo. E il positivo, a questa altezza, non sarebbe così “definitivo” come si vuole. Spetta a Durkheim intraprendere quest’opera di completamento. Egli non esita perciò ad applicare al pensiero di Comte quella qualifica di “provvisorio” che quest’ultimo riservava alla metafisica. Indubbiamente Comte non è già più un metafisico per colui che, a sua volta, non teme più di definirsi esclusivamente sociologo. Resta il fatto che lo scopo speciale del Corso di filosofia positiva non è stato raggiunto e che questo scacco deriva proprio dal fatto che la sociologia di Comte, in fondo, non è nient’altro e niente più che una filosofia. Ma allora anche il suo scopo generale, proprio in quanto obiettivo filosofico, rischia di sgretolarsi. Di modo che il compimento, la soluzione davvero definitiva al problema della divisione del lavoro, potrebbe in ultima analisi apparire come un rovesciamento del positivismo stesso. Comunque sia, è nel prolungamento dell’intenzione positivista che, per Durkheim, si tratta ora di porsi alla sommità della classificazione delle scienze e di lavorare alla costituzione della sociologia sotto un duplice rapporto, esterno e interno. La sociologia non è ancora una scienza positiva per due ragioni. Innanzitutto, per via di un’indeterminazione dei suoi contorni esterni. Insufficientemente distinta dalla filosofia e dalle altre scienze che le sono connesse – la psicologia, in primissimo luogo –, la sua specificità non è stabilita né rispetto all’oggetto, né rispetto al metodo. Una volta istituita questa separazione, le resterà ancora da organizzare internamente il proprio lavoro, che si realizza solo mediante una specializzazione delle ricerche. La complessità dei fenomeni sociali impone in effetti questo ritaglio, dal momento che la sociologia non può essere riportata a una visione unilineare preordinata dal dispiegarsi di un’unica legge fondamentale. Ora,
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se la divisione del lavoro teorico va prolungata in queste due direzioni, è altrettanto importante comprendere quanto queste siano strettamente legate. È perché l’egemonia filosofica non viene contestata che il lavoro sociologico si trova indebitamente semplificato e, dunque, bloccato. Come a dire che, con Comte, “la scienza si era richiusa non appena fondata” (Durkheim 1975, p. 128). Un blocco della divisione del lavoro scientifico che il fondatore del positivismo non ha saputo capovolgere per applicarlo alla scienza che aveva preteso di fondare, mettendola alla prova non semplicemente delle altre scienze naturali e del sapere generalista che dovrebbe coronarla, ma delle scienze sociali, dei saperi specializzati a seconda dei tipi differenti di fenomeni sociali. È questo il prezzo, che Comte non aveva accettato di pagare, di quella estrema complessità fenomenica che aveva tuttavia saputo identificare. Ancora una volta, secondo Durkheim, bisogna estendere il principio della divisione del lavoro più lontano di quanto non sia stato fatto. La questione dell’unità delle scienze passa per l’istituzione della frontiera tra sociologia e filosofia, al fine di raggiungere l’unità delle scienze sociali in seno alla sociologia. È questo il motivo per cui l’opera di Durkheim, ancor più di quella di Comte, pone al lettore un problema di statuto. Essa s’impone come un’opera scientifica, tanto che si sarebbe tentati di prendere semplicemente atto della rottura che rivendica rispetto alla filosofia – principalmente quella filosofia della storia da cui la concezione comtiana, così come quelle di Mill e di Spencer, non si erano completamente separate. Le Regole del metodo sociologico occupano, in questa prospettiva, una posizione di primo piano, in ragione dell’epurazione esemplare che effettuano. La circoscrizione di un campo oggettivo definito dalle specie, o tipi, sociali si articola alla messa in opera di procedure di conoscenza specifiche, in cui l’autonomia del sapere trova la sua garanzia. La sociologia si costituisce in scienza quasisperimentale, dove il sostituto dell’esperimento è attinto dal metodo comparativo, esso stesso subordinato, non senza qualche correzione, al modello induttivo delle variazioni concomitanti stabilito da Mill. Ma sarebbe sbagliato dimenticare che tale operazione metodologica è preceduta da un gesto più fondamentale, situato esattamente all’incrocio tra scienza e filosofia: questo gesto, effettuato nella Divisione del lavoro sociale, consiste nell’assegnare come primo oggetto alla sociologia il processo stesso che l’ha generata come sapere speciale. In altre parole, interrogandosi sulla divisione del lavoro, il sociologo non si concentra solamente su un fenomeno centrale per le società moderne; si interroga altresì su se stesso, o piuttosto, si impegna a fondare il suo approccio applicandolo a una realtà di cui è esso stesso un aspetto. La Divisione del lavoro sociale si apre con la con-
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statazione della sparizione del “gentiluomo” del XVIII secolo, in quanto figura intellettuale socialmente valorizzata, e sull’affermazione crescente del primato dello specialista. Di quella trasformazione attuale dell’imperativo categorico in “mettiti nella condizione di esercitare utilmente una determinata funzione” (Durkheim 1990a; tr. it. 2016, p. 95), la vocazione sociologica si offre allora come il miglior testimone nell’ordine del sapere, sulle rovine delle filosofie sociali precedenti. Ed è a questa valorizzazione della specializzazione che bisogna ricondurre, come alla sua condizione prima di enunciazione, l’epistemologia sociologica che le Regole si sforzano di formalizzare. Anziché accreditare la rottura, vorremmo quindi ritornare sull’operazione teorica che essa suppone, e che è chiaramente espressa dal titolo stesso della prima opera del sociologo. Dire che la divisione del lavoro è prima di tutto un fenomeno sociale, assegnato a una scienza particolare che è quella dei fenomeni sociali, significa individuare come obiettivo critico esplicito la pretesa dell’economia politica di renderne conto su un piano puramente economico; ma anche la filosofia, incapace da parte sua di comprendere il senso del processo di specializzazione e di produrre la sintesi che esso richiede. Durkheim prende qui atto di una disgiunzione: se la divisione del lavoro è oggetto di analisi unicamente per l’economia politica, se la sua dimensione sociale rimane inosservata, è perché il sociale, dal canto suo, è preda di un approccio puramente ideale, fondato su delle ipotesi speculative prive di ogni fondamento empirico che sono la materia dei filosofi sociali – che Durkheim battezza talvolta, con un disprezzo pronunciato, con il nome di “letterati”. L’oggetto “società” è dunque indebitamente separato dalla sua forma e questa rimane incomprensibile fintanto che è staccata dalla funzione di socializzazione che la definisce. Divisione del lavoro e società sono disgiunte, separate da quelle prospettive a loro modo indipendenti e snaturanti incarnate dall’economia e dalla filosofia, approcci dalle carenze simmetriche di cui la sociologia ha il merito di mostrare la co-implicazione. Allo stesso modo, ad essa spetta il compito di riunire i due poli in un unico sguardo – secondo una congiunzione conforme all’esistenza del tipo sociale moderno, per il quale la divisione del lavoro, lungi dall’essere un fenomeno superficiale o accessorio, gioca il ruolo di autentico principio di organizzazione. Mediante questa sutura, l’economia politica è superata e la filosofia invalidata. Questo doppio rigetto si traduce però in maniere differenti nei due casi. L’economia politica non inquadra adeguatamente il suo oggetto e resta sulla soglia della scienza sociale; tuttavia, concentrandosi sulla divisione del lavoro, essa designa qualcosa di reale. Da parte sua, mantenen-
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dosi al di qua dei requisiti della scienza positiva, la filosofia sociale rischia invece di non parlare di nulla. Ciò che pertanto si rivela privo di pertinenza è una filosofia della divisione del lavoro. La sintesi positivista ha cambiato contemporaneamente punto di ancoraggio e forma. Non è più l’appannaggio dello specialista delle generalità, bensì procede da una specialità pienamente assunta, cioè da una scienza. Così si vuole risolto il problema positivista di una sintesi immanente dei lavori teorici. Ora, bisogna riconoscere che tale risoluzione non è affatto ovvia. In che modo una scienza particolare, senza cedere nulla del carattere speciale del suo oggetto, può rivendicare un titolo sintetico? Di quali caratteri dev’essere dotata la conoscenza dei fatti sociali perché possa giungere a occupare il centro del sistema del sapere, giocandovi un ruolo architettonico? Al fine di abbordare tali questioni, conviene ridefinire la divisione del lavoro applicata all’attività scientifica. La prima illusione da combattere, nella fattispecie, è quella che assimila l’attenzione alle strutture particolari di un campo oggettivo che implica la specializzazione a una semplificazione delle funzioni intellettuali messe in opera. Occorre dunque ritornare sulla diagnosi di “assottigliamento” pronunciata da Comte, per svelare quel che ha di inesatto. Questa illusione, sorretta dal desiderio di formazione di una classe di generalisti dove trova riparo il filosofo positivo, riposa su una falsa valutazione delle trasformazioni mentali a cui conduce la conoscenza scientifica, man mano che delimita i problemi che deve risolvere e costruisce i procedimenti metodologici specificamente adatti a essi. Insomma, la divisione è qui apprezzata dal punto di vista della tecnica cognitiva che essa implica: Si confronti la tecnica così elementare dell’antico filosofo, del saggio che, con la sola forza del pensiero, si accinge a spiegare il mondo, con quella dello scienziato odierno che giunge a risolvere un problema particolarissimo soltanto mediante una combinazione molto complicata di osservazioni e di esperienze, e grazie alla lettura di opere scritte in tutte le lingue, di corrispondenze, di discussioni e così via. […] La complessità della sua natura non è che apparente. […] Guardate bene e vedrete che tutto si riduce a un esiguo numero di facoltà generali e semplici, le quali però, non avendo perduto nulla della loro primitiva indeterminatezza, si distaccano facilmente dagli oggetti ai quali si fissano, per riferirsi in seguito ad altri (Durkheim 1990a; tr. it. 2016, pp. 304-305).
Se qui traspare il classico tema positivista della sostituzione dell’osservazione all’immaginazione, esso viene rinviato contro ogni pretesa di operare un legame superficiale tra diversi campi di ricerca. Di modo che l’opposizione tra il filosofo e lo scienziato non mira unicamente a
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distinguere tra gli Antichi e i Moderni, ma, in seno alla stessa modernità, a invalidare una postura che persiste fin nel dispositivo comtiano. Su questo punto, Durkheim prolunga le critiche già rivolte da Claude Bernard al presunto specialista delle generalità – “mauvais esprit”, “sterile e orgoglioso”, che s’immagina, “come la mosca cocchiera, che sia lui a partorire tutte le scoperte attraverso le idee che emette su di esse” (Bernard 1913, p. 35). È alla generalizzazione, e non alla specializzazione, che bisogna imputare un autentico impoverimento. Concependo i diversi ordini di fenomeni senza immergersi in ciò che hanno di proprio e senza tener conto delle loro asperità, o di ciò che Durkheim chiama le loro “sfumature”, lo spirito non semplifica solo il suo oggetto: semplifica se stesso, rimane a un livello che, per essere unificato, non richiede altro che una serie di operazioni dello stesso tipo, di cui non si suscita mai il rinnovamento. Votato a una “deplorevole monotonia” (Durkheim 1990a; tr. it. 2016, p. 305) quanto alle sue procedure, si espande solo superficialmente. I legami che stabilisce devono la loro facilità non tanto alla potenza particolare di cui sarebbe investito quanto al formalismo a cui si limita, e che rende conto molto sommariamente delle strutture della realtà osservata. Al contrario, finché ci si mantiene all’interno di uno stesso campo, e nella misura in cui questo è stato nettamente circoscritto, appaiono dei fatti che non s’inseriscono in anticipo in un regime prestabilito di correlazioni. Lo spirito dello scienziato interessato al dettaglio del campo di ricerca che si è fissato è sottomesso a una disciplina adattativa rigorosa che, fondata su un’osservazione più fine e più approfondita, lo spinge a produrre delle nuove combinazioni e a sviluppare, in questo modo, delle nuove funzioni. È ancora una volta Claude Bernard di cui si sente qui l’eco: “Scavando sempre di più in un punto, ci si avvicina sempre più all’essenza di tale fenomeno, e conoscendo l’essenza di un fenomeno, per piccolo che sia, si conoscerebbe l’essenza di tutti” (Bernard 1913, p. 30). È scendendo nel dettaglio che si trovano i mezzi di fuoriuscirne. Il primato dell’osservazione, in virtù della delimitazione e dell’approfondimento che implica, costituisce un fattore di rinnovamento teorico e di complessificazione intellettuale. Non vi è autentica espansione del pensiero se non all’interno degli studi speciali, poiché le specialità sono atte a cogliere delle forme inedite di correlazione fenomenica, sulla base delle quali si stabiliscono delle leggi positive. Quanto alle generalizzazioni che emanano da una posizione di superiorità, che rinviino alla figura del saggio antico o a quella del gentiluomo, esse ricadono inevitabilmente, agli occhi dello sviluppo del sapere moderno, sotto l’accusa di “dilettantismo” (Durkheim 1990a; tr. it. 2016, p. 70).
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Trattandosi del positivismo, che si afferma come abolizione e squalificazione definitiva della metafisica in quanto forma intellettuale dominante, l’accusa sembrerebbe profondamente ingiusta. Voler riportare il filosofo positivo agli atteggiamenti speculativi classici qui abbozzati a grandi linee – e, a dire il vero, senza sfumature – sembra perlomeno eccessivo. Eppure, è proprio questa figura a essere in prima istanza il bersaglio. Non basta infatti dire che la filosofia non ha altro oggetto al di fuori delle scienze nella loro pluralità; bisogna inoltre domandarsi sotto quale aspetto queste la interessano nello specifico – in altri termini, che cosa c’è di filosofico in esse. Questo aspetto è veramente inerente ad esse, o deriva da una ricostruzione? Se appartiene loro in proprio, essendo ogni scienza affetta da una certa filosofia – dopotutto, Comte parla appunto di filosofia biologica, di filosofia astronomica o di filosofia chimica – occorre altresì conferirgli una portata scientifica? E se sì, di che ordine? Oppure bisogna attenersi alla constatazione che la filosofia così concepita unifica non tanto delle scienze ma delle filosofie scientifiche, e concludere che essa non fa che sfiorare la scienza per come si effettua, dandosi in anticipo la materia che conviene al proprio esercizio? Tutto dipende, nella fattispecie, dalla consistenza di quelle “generalità” che la filosofia ha per vocazione di collegare. Sappiamo che, per Comte, esse risiedono nei metodi essenziali che hanno permesso di raggiungere, in ogni scienza, i suoi principali risultati. Il concetto di metodo occupa dunque una posizione di cerniera. Dire che la filosofia tratta solo di questioni scientifiche, significa dire che i concetti filosofici sono sempre in fondo dei concetti metodologici. Pertanto, si comprende come il metodo designi al contempo ciò che vi è di più proprio in una scienza e ciò in cui essa si estrae dalla sua dimensione speciale, per assumere un certo carattere di generalità. È a questo livello interno alla scienza che viene concepita una prima articolazione del generale e dello speciale, preliminare a quella effettuata dal punto di vista della filosofia generale. Sotto questo profilo, bisognerebbe mitigare la critica di Claude Bernard e di Durkheim. Fin dal 1819, Comte rinviava la prima generalizzazione alla pratica di ciascuna scienza, osservata dall’angolo della sua “maniera generale di procedere” (Comte 1973, p. 58), che solo essa è in grado di definire. Se il metodo positivo unifica i vari metodi, è nella misura in cui ogni scienza procede positivamente a suo modo. È il motivo per cui l’unificazione dei metodi non è un’unificazione delle scienze in seno a una sola e medesima scienza universale, sul modello cartesiano, ma una coordinazione delle pratiche scientifiche resa possibile dal loro comune sviluppo positivo – dal fatto che esse abbiano tutte rinunciato alla ricerca
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delle cause per quella delle leggi e sostituito il relativo all’assoluto. Resta il fatto che questa definizione del metodo positivo all’interno di ogni scienza non è distinta dalla sua messa in opera. Perché possa emergere, è necessario in primo luogo che si operi un’esteriorizzazione dello sguardo. Il principio che, in Comte, orienta la critica della psicologia introspettiva vale altrettanto quando si tratta di sapere ciò che una scienza può dire di se stessa in quanto modo di conoscenza. Dal momento che lo spirito si osserva solo nelle sue opere, dal di fuori, un punto di vista esterno va istituito affinché il procedere delle scienze possa essere colto precisamente come positivo. Punto di vista che la filosofia giunge a incarnare, a condizione di essere compresa come filosofia generale, per la quale i metodi scientifici costituiscono i fatti generali suscettibili di essere coordinati. Si passa allora a un secondo livello di generalità, o piuttosto a una seconda modalità di articolazione del generale e dello speciale. Non più il generale che emerge nello speciale, ma la specialità legata all’osservazione di fatti generali. A questo stadio, si avverte l’ampiezza della difficoltà. Come si può, in ultima analisi, pretendere di dire alla scienza dall’esterno ciò che essa sta facendo? Oltretutto, in questo tipo di discorso non vi è sempre già una dimensione normativa in cui la filosofia, lungi dal limitarsi a esprimere ciò che ha luogo, si mette in posizione di dettare, se non la direzione in cui bisogna andare, almeno in che modo convenga procedere, giudicando la conformità di tal metodo particolare al modello di cui si considera la guardiana almeno tanto quanto l’interprete? È proprio questo rischio d’ingerenza del filosofo e di alienazione dello scienziato che Claude Bernard vedeva profilarsi nel suo commento di Comte. Inquietudine del tutto legittima, giudica Durkheim, se si considera che il dispositivo comtiano testimonia un’incomprensione radicale dell’attività scientifica per come si svolge effettivamente. La critica, in questo caso, verte sullo statuto di quel che si chiama metodo in scienza e sulla possibilità di formare su questa base i concetti metodologici di cui la filosofia fa la trama esclusiva del suo discorso. Per principio, l’unità dei metodi è un miraggio, poiché i metodi scientifici costituiscono un materiale fondamentalmente eterogeneo e rappresentano appunto ciò che, a livello delle scienze, è meno suscettibile di essere ricondotto all’unità. L’immanenza del metodo alla scienza che lo formula e lo pratica, e che lo formula solo praticandolo, è completa. Inoltre, se esso giustifica la sua irriducibilità alla pratica di un’altra scienza, è perché rimane essenzialmente un concetto pratico. All’opposto del progetto comtiano di una ripresa teorica che abbraccerebbe in un solo gesto metodi e risultati, si tratta dunque di marcare,
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a beneficio del metodo, una differenza epistemologica tra i due termini. Si distinguerà la scienza nel processo del suo farsi, che procede secondo il suo metodo, e ciò che ne risulta, le proposizioni che essa stabilisce e che, in virtù di questa fissità, si rivelano effettivamente disponibili all’osservazione esterna. [È] certo che, per poter avere un’idea abbastanza esatta di una scienza, bisogna averla praticata, e per così dire averla vissuta; essa non consiste infatti interamente delle poche proposizioni che ha definitivamente dimostrate. Accanto a questa scienza attuale e realizzata ce n’è un’altra, concreta e vivente, che in parte si ignora e ancora si cerca: accanto ai risultati acquisiti vi sono le speranze, le abitudini, gli istinti, i bisogni, i presentimenti, che sono così oscuri che è impossibile esprimerli a parole, e che sono tuttavia così potenti da dominare talvolta tutta la vita dello scienziato. Tutto ciò fa ancora parte della scienza; ne è anzi la parte migliore e più imponente, poiché le verità scoperte sono ben poche in confronto a quelle che restano da scoprire – e d’altra parte, per possedere tutto il senso delle prime e comprendere tutto ciò che in esse è condensato, bisogna aver visto da vicino la vita scientifica finché si trova allo stato libero, cioè prima che si sia fissata in forma di proposizioni definite. In caso contrario si avrebbe la lettera e non lo spirito. Ogni scienza ha per così dire un’anima che vive nella coscienza dello scienziato (Durkheim 1990a; tr. it. 2016, p. 346).
A prima vista, questo testo contiene un enunciato curioso, assai poco positivista – e per certi versi assai poco durkheimiano, almeno se lo si compara con l’oggettivismo rivendicato nelle Regole del metodo sociologico. Se Comte ha avuto ragione nel parlare dello spirito di una scienza, il suo torto è stato quello di non ricondurlo interamente al metodo, distinto dalle “proposizioni stabilite”, specie di deposito che ricopre il processo di conoscenza soggiacente più di quanto non lo esprima. Ma allora, dove e come reperire questa scienza in atto, se ciò non può avvenire attraverso le manifestazioni oggettive della “scienza attuale e realizzata”? La risposta è sorprendente nel suo soggettivismo. Rinvia alla coscienza dello scienziato, depositario dell’“anima della scienza”, e ancor più alla dimensione vissuta di una pratica scientifica di cui lo scienziato è il soggetto nel senso pieno del termine, attore di un metodo che è il solo a poter esprimere adeguatamente, precisamente nella misura in cui lo pratica. Non si assiste allora a un puro e semplice rovesciamento del principio positivista dell’osservazione esterna, ridotta a poter cogliere unicamente una realtà fossilizzata? Tutto dipende da ciò che si intende qui per esteriorità. Quel che Durkheim nega, è la pertinenza tanto di una formulazione metodologica estranea alla pratica delle scienze, quanto di una sintesi dei metodi. Ciononostante, all’interno di una scienza, il
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metodo può e deve essere formulato distintamente dal praticante, che lo isola dalla sua applicazione a un oggetto determinato. È così che Durkheim giustifica la scrittura delle Regole del metodo sociologico: queste ultime erano implicitamente alla base de La divisione del lavoro sociale, e spetta al sociologo delinearle e renderle apparenti affinché si possa “meglio giudicare” l’orientamento dato agli studi di sociologia (Durkheim 1986; tr. it. 2018, p. 44). La coscienza dello scienziato, in questa misura, si esteriorizza: ma non per ricongiungersi a quella più ampia e più comprensiva del filosofo. È solamente per sottoporre alla discussione la propria pratica. Ora, tale discussione, ed è qui il punto cruciale, rimane rigorosamente scientifica. Lo spirito di una scienza – o la sua anima – non è un sottoinsieme dello spirito universale; né tantomeno deve concepirsi in questo modo per progredire nel suo campo. Non è da una filosofia dello spirito che la scienza attende i suoi avanzamenti, ma da se stessa, vale a dire dallo sviluppo del proprio spirito. Occorre aggiungere: solo da se stessa? Il problema è più delicato, e dev’essere posto su due livelli. Innanzitutto, per quanto riguarda la pratica scientifica, è chiaro che l’indipendenza dei metodi non implica il loro isolamento e la loro completa separazione. Una perfetta impermeabilità è lungi dall’essere desiderabile ed è smentita dal processo stesso della ricerca, ivi compreso in sociologia, dove gli apporti della psicologia e della biologia sono manifesti. Bisogna poi precisare che tali apporti non risultano da prestiti o da puri trasferimenti di procedure, ma che dipendono piuttosto da quella che conviene chiamare l’analogia produttiva. Il torto delle sociologie biologiche o psicologiche, il loro riduzionismo, sta nel fraintendimento dell’uso dell’analogia come forma legittima di comparativismo. Confusa con l’induzione, essa ha condotto queste discipline a ricavare le leggi sociali dalle leggi scoperte in altri ordini di fenomeni, impedendosi così di restituirne la specificità. Per contro, “se si fosse cominciato col determinare – con l’aiuto di procedimenti sociologici – certe condizioni dell’organizzazione sociale, sarebbe stato perfettamente lecito esaminare in seguito se esse non presentassero uniformità parziali con le condizioni dell’organizzazione animale, quali il biologo le determina da parte sua” (Durkheim 1996; tr. it. pp. 21-22)2. L’analogia consiste dunque nel mettere in relazione tanto delle procedure metodologiche quanto delle leggi fenomeniche già individuate in ciascun campo, e nel rilanciare la ricerca mediante un effetto di chiarimento reciproco tra degli approcci di cui non si contesta l’indipendenza. 2
Il corsivo è di Karsenti. [N.d.T.]
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Si può persino stimare che questo chiarimento si riveli più efficace quanto più gli ordini di fenomeni considerati si trovano in un rapporto più stretto e immediato. È questo il caso della psicologia, che la prossimità con la sociologia rende pericolosa per certi aspetti – essa rappresenta il terreno più propizio per il riduzionismo – ed eminentemente istruttivo per altri – come si sforza soprattutto di dimostrare l’articolo del 1898 Rappresentazioni individuali e rappresentazioni collettive. Così come la psicologia è portata a distinguere le rappresentazioni individuali dal loro sostrato organico, la sociologia introduce una separazione tra le rappresentazioni individuali, che nel suo caso fanno da sostrato, e le rappresentazioni propriamente collettive. Condotta con rigore, l’analogia è dunque un metodo di comparazione tra i diversi spiriti scientifici che può rilevarsi fecondo per ciascuno di essi. Oltretutto, il chiarimento può benissimo giocare negativamente, per differenziazione, piuttosto che per assimilazione. È un’altra virtù dell’analogia quella di marcare i propri limiti, di distinguere avvicinando, sottolineando delle “similitudini parziali” significative nella loro incompletezza. Essa permette di determinare fin dove il paragone è possibile e a partire da che punto non lo è più, e, di conseguenza, di individuare più nettamente dei caratteri distintivi. Un caso tipico di questo utilizzo è fornito nella Divisione del lavoro sociale, allorché Durkheim compara le prospettive biologiche sulla specializzazione con quelle che i dati storico-etnografici autorizzano in sociologia (Durkheim 1990a; tr. it. pp. 322-323). Mentre nell’organismo individuale la specializzazione delle funzioni biologiche raggiunge rapidamente una soglia di stabilità, conferendo al legame organo-funzione una certa fissità, il processo sociale di divisione del lavoro testimonia al contrario una flessibilità costante, segno di un affrancamento continuo della funzione rispetto alle determinazioni del suo sostrato organico. A rigore, l’analogia tra i due tipi di leggi è quindi valida solo per delle società in cui la divisione del lavoro si è sviluppata fino a un certo punto, per poi irrigidirsi in una forma relativamente stabile [arrêtée]. È il caso del regime delle caste – strano caso di pietrificazione del processo, su cui Bouglé e poi Dumont concentreranno più tardi la loro attenzione3 –, che solo l’analogia 3
Celestin Bouglé (1870-1940) fu un filosofo e sociologo francese vicino a Durkheim, autore nel 1908 degli Essais sur le régime des castes. Tra i primi a far parte dell’Année sociologique, fu una figura rilevante nella formazione intellettuale di pensatori come Claude Lévi-Strauss, Georges Canguilhem e Raymond Aron. Louis Dumont (1911-1998) fu un antropologo, allievo di Marcel Mauss (il quale era a sua volta nipote di Durkheim e suo stretto collaboratore), la cui ricerca si è concentrata su una comparazione tra le società indiane e quelle occidentali a partire dall’opposizione tra gerarchia ed uguaglianza, olismo e individualismo. Tra le
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biologica permette di comprendere meglio. Si trova in questo modo giustificato un metodo comparativo sul piano delle scienze stesse. Metodo che non ha affatto vocazione a unificarle, ma solamente a farle comunicare, a un livello che resta scientifico e che non richiede l’intervento di un generalista nell’esplicitazione dei termini della discussione. La stessa considerazione può essere sviluppata ponendosi dal punto di vista della “coscienza dello scienziato”, la cui invocazione ci è apparsa come un segno ambiguo di soggettivismo. In effetti, se il soggetto occupa il primo piano, non è in quanto luogo chiuso di cui solo un’introspezione ben condotta potrebbe consegnare il segreto. È piuttosto in quanto coscienza individuale, liberata dal giogo di una coscienza collettiva che agisce nella forma di una costrizione esterna. Il tema dell’indipendenza dello scienziato, già caro a Claude Bernard, acquista il suo senso una volta che lo si collochi nella riflessione generale sulla divisione del lavoro. Man mano che il lavoro si divide, le funzioni si specializzano, il che significa altresì che si autonomizzano. Esse si affrancano da un sistema di regole omogenee che valgono indifferentemente per tutti – sistema che può applicarsi solo a delle funzioni scarsamente distinte – per costituire spontaneamente, mediante il loro proprio meccanismo, il regime regolatore adeguato alla loro azione specifica. In termini di economia psichica, il processo può allora essere descritto come quello del declino della coscienza collettiva in quanto dispensatrice di rappresentazioni di ordine superiore, dotate di un potere normativo. La coscienza dello scienziato è una coscienza speciale: ciò significa che le rappresentazioni individuali che essa contiene non sono più semplicemente una materia passiva che può essere regolata solo dall’esterno tramite un’istanza trascendente, bensì si dimostrano ormai atte a regolarsi da se stesse, contemporaneamente dall’interno e nel loro rapporto con altre coscienze speciali. Pertanto, raggiungere la coscienza dello scienziato non vuol dire rimettersi alla pura e semplice particolarità della sua esperienza soggettiva, bensì percepire in essa la specializzazione in atto, nella sua virtù regolatrice. Si comprende come, ancora una volta, sia nell’analisi della specializzazione, presa nella sua forma normale, senza considerare le circostanze particolari che possono disturbarla, che risiede la soluzione al problema positivista della dispersione degli spiriti. Se la divisione è veramente una specializzazione funzionale, bisogna ammettere, contro Comte, ma anche contro Spencer ed Espinas, che essa non implica sue principali opere, Homo hierarchicus. Essai sur le système des castes (1966) e gli Essais sur l’individualisme. Une perspective anthropologique sur l’idéologie moderne (1983). [N.d.T.]
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la dispersione. Se questa si dà, sarà unicamente per delle ragioni contingenti, estranee al processo. Per la sua stessa natura, la specializzazione implica una nuova modalità di coesione spirituale, fondata sulla differenziazione assunta come tale e filtrata necessariamente attraverso una regolazione plurale e immanente. Plurale, perché ogni funzione produce delle regole che le sono proprie, perché ogni scienza è autonoma nel suo campo. Immanente, perché le regole particolari tendono sempre più a coordinarsi al loro livello, senza l’intervento di una norma esterna. Lo spirito delle scienze, nelle condizioni fissate dal lavoro intellettuale diviso, non risiede da nessuna parte se non nello spirito degli scienziati i quali, liberamente, comunicano, coordinano le loro pratiche e comparano i loro metodi. Il torto di Comte è stato quello di misconoscere questo fatto, in cui tuttavia risiede il vero senso della divisione del lavoro teorico. È il motivo per cui è stato portato a distinguere una classe di generalisti e a riservarle un posto all’apice della gerarchia. È anche il motivo per cui, sul piano politico, si affidava allo Stato per regolare dall’esterno le azioni differenziate degli organi che compongono il corpo sociale. Doppio errore che attesta l’equivalenza primordiale tra filosofia e politica che abbiamo rilevato, e che Durkheim cerca di dissipare. Poiché se è vero che i lavori sono uniti in quanto divisi, bisogna ammettere che tale unità deriva dalla divisione stessa, non dalla sua attenuazione o dal suo riassorbimento. Dividere significa già organizzare, e la dispersione di cui gli interpreti della modernità prendono atto con inquietezza va intesa come una irregolarità della divisione stessa, come una deviazione dalla sua tendenza fondamentale e come un’incapacità temporanea e anormale di assolvere alla sua vera funzione. Questa patologia costituisce certamente un oggetto legittimo di riflessione – in un certo senso essa è persino, come si vedrà, il principale oggetto del sociologo in quanto storico del presente. Ma non dev’essere intesa come altra da ciò che è, né disturbare l’analisi del processo considerato nel suo aspetto essenziale. Nelle Regole del metodo sociologico, Durkheim descrive dal suo punto di vista la dislocazione a cui sottopone la coppia di normale e patologico, rispetto a come essa continua a giocare per i filosofi sociali: facendo dipendere la normalità dalle condizioni generali di esistenza di un dato tipo, considerato in una fase determinata del suo sviluppo, si impedisce così che il patologico possa essere decretato senza considerazione e specificazione dello stato normale di cui è l’alterazione. Non crediamo che mai ci si sia limitati in modo sistematico a pronunciarsi sul carattere normale o anormale dei fatti sociali partendo dal loro grado di generalizzazione. È sempre a gran colpi di dialettica che sono state risolte questioni del genere (Durkheim 1986; tr. it. 2018, p. 106).
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Indubbiamente il criterio della generalità, definito in queste pagine a partire dal concetto di media, sposta le difficoltà più che risolverle, riservando tutta la positività al normale e votando il patologico alla sola dimensione negativa dello scarto, come giudicherà Foucault in Malattia mentale e psicologia (Foucault 1954; tr. it. 1997, pp. 70-73). Resta il fatto che questa definizione del normale e del patologico in termini di rapporto specifico è formulata in modo da prevenire ogni tentativo di volontarismo filosofico che intenda sfuggire al controllo positivo dell’osservazione. Volontarismo che è ancora reperibile nella comprensione comtiana della divisione del lavoro in quanto fenomeno intrinsecamente ambivalente, contemporaneamente progressivo e regressivo. Sulla scorta di Comte, il problema era stato ripreso in maniera originale da Alfred Espinas in Des sociétés animales4. Si trattava allora di risolvere l’ambivalenza scomponendo le condizioni di formazione delle totalità sociali in due registri: da una parte la divisione come tale, fondamentalmente dispersiva, e, dall’altra, le fasi complementari di raggruppamento che s’innestano su di essa, le cui forme sono la coordinazione e la subordinazione (Espinas 1878, pp. 414-416). Si vede però quanto questa prospettiva sia insufficiente. Ci si lascia ancora sfuggire, in queste condizioni, il senso propriamente sociale della divisione. Si continua a non comprendere in che cosa dividere significhi appunto socializzare. Eppure è questa la principale posta in gioco, se si considera che è precisamente in questa funzione di socializzazione che risiede il senso della solidarietà organica, compresa come modo di coesione specifica delle società moderne, fondata sulla differenziazione regolata degli organi e non più sulla loro somiglianza e sul loro aggiustamento meccanico. Organizzare la divisione del lavoro, non vuol dire allora nient’altro che liberare la potenza organizzatrice della divisione, epurarla dagli elementi che la ostacolano, svelare la sua forma normale assieme alle condizioni della sua affermazione sotto questa forma. In nessuno caso significa combatterla. Applicata alla questione della specializzazione scientifica, questa rivalutazione della divisione ha come primo effetto quello di relegare la filosofia in secondo piano, rifiutandole il titolo di istanza normativa. “La filosofia è come la coscienza collettiva della scienza e, qui come altrove, il compito della coscienza collettiva diminuisce a misura che il lavoro si divide” (Durkheim 1990a; tr. it. 2016, p. 347). Significa che essa è sempre 4
Alfred Victor Espinas (1844-1922) fu un filosofo e sociologo francese, noto soprattutto per aver tradotto e diffuso le teorie di Spencer in Francia. Radicalizzando il monismo evoluzionista spenceriano, la sua tesi di dottorato sulle “società animali” mirava a individuare le condizioni sociobiologiche necessarie a uno studio dei fenomeni propriamente sociali concepiti come fatti naturali. [N.d.T.]
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meno capace di fornire al sapere delle rappresentazioni omogenee suscettibili di regolare il suo corso nelle molteplici vie che si sono determinate al suo interno. Contestazione epistemologica di cui va altresì sottolineato il senso politico, non solo in riferimento a Comte, ma anche alle trasformazioni contemporanee dello Stato sociale, di cui la sociologia durkheimiana può essere considerata al contempo il supporto ideologico e l’espressione scientifica adeguata. Infatti, se il legame intrinseco tra politica e filosofia deve essere sciolto, non è semplicemente in ragione di una incapacità comprovata della filosofia nel suo rapporto con le scienze; è anche nella misura in cui la regolazione politica è inadatta a servire da modello in questo caso, poiché, a sua volta, non può più effettuarsi nello stesso modo allorché le attività divise si coordinano in maniera relativamente autonoma. La questione dell’ordine si pone così in termini radicalmente nuovi una volta che l’organizzazione immanente dei lavori diviene cosciente di se stessa. Nel solco di Durkheim, una certa riflessione in diritto pubblico – condotta principalmente da Léon Duguit5 – arriverà fino a concludere in favore della destituzione del concetto di sovranità, definendo lo Stato unicamente nel suo rapporto al sociale e invocando la sostituzione della nozione di servizio pubblico a quella di potenza pubblica. Il che corrisponde in fondo a un’applicazione alla politica della traduzione durkheimiana dell’imperativo categorico, “mettiti nella condizione di esercitare utilmente una determinata funzione”, in conformità al progetto di una costituzione fondata sulla regolazione immanente delle attività. A questo stadio, tuttavia, si impone una distinzione. Se, sul piano teorico, la perdita di rilevanza della filosofia è manifesta, lo stesso non si può dire, sul piano pratico, per l’istanza statale. Per quanto lo Stato venga pensato come un organo sociale, la sua presenza è nondimeno fortemente marcata, a maggior ragione quando la solidarietà organica diviene preponderante. Da questo punto di vista, va evitata la confusione che vedrebbe nell’affermazione della solidarietà mediante la e nella divisione una concessione più o meno velata alle tesi liberali, le stesse che sottendono la sociologia spenceriana contro cui Durkheim costruisce in larga parte la sua operazione. In altri termini, è nell’opposizione simmetrica a Comte e a Spencer che
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Léon Duguit (1859-1928) fu uno dei più rilevanti teorici contemporanei del diritto francese, autore dell’importante Traité de droit constitutionnel (1911). Avversario di Maurice Hauriou e critico del positivismo giuridico tedesco, fu largamente influenzato da Comte e Durkheim nel suo tentativo di fondare una teoria sociologica del diritto che superasse le astrazioni metafisiche inerenti al concetto di sovranità, concependo lo Stato come organo della solidarietà sociale. [N.d.T.]
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si determina il significato politico della sociologia durkheimiana – e quindi quello dello Stato sociale che si afferma con essa. Se la diminuzione della coscienza collettiva è un fenomeno inarrestabile e se il ruolo delle coscienze individuali va crescendo, è chiaro che l’imposizione del punto di vista dell’insieme alle parti distinte non può essere rinviata a un atto di governo la cui autorità dovrebbe essere rafforzata: nella misura in cui l’uniformità non può essere “mantenuta per forza e a dispetto della natura delle cose” (Durkheim 1990a; tr. it. 2016, p. 345), tale rafforzamento non sarebbe che un artificio impotente. Ma ciò equivale a dire che allora le parti riescono a organizzarsi da sole, mediante il solo gioco dei loro rapporti? Tocchiamo qui un punto decisivo della concezione durkheimiana. E vediamo altresì come l’“olismo” nel quale abitualmente la si relega mascheri il gesto che compie: quello di un confronto serrato con l’individualismo liberale, piuttosto che il suo puro e semplice rifiuto. Nella fattispecie, la questione si concentra sul carattere d’immanenza della regolazione organica. Se la divisione è di per se stessa fattore di organizzazione, e si distingue in questo dalla dispersione, è perché essa attualizza un insieme di regole di cui le individualità particolari non sono la fonte. Da dove emergono allora le regole alle quali si sottomettono i lavori divisi? La risposta durkheimiana riposa sull’articolazione di due istanze, entrambe esteriori agli individui: una intermedia, incaricata di regolare la funzione al suo stesso livello, a contatto con il tipo di attività in questione, e un’altra centrale, il cui sviluppo si accresce via via che le funzioni si distinguono. Il principale errore dei liberali, infatti, consiste proprio nel fatto che hanno occultato questo movimento di centralizzazione, prendendo per una sparizione dello Stato quella che non è altro che la sua trasformazione. Trasformazione sicuramente considerevole, poiché fa di esso non più un produttore di regole che si applicano dall’esterno a un corpo sociale passivo, bensì una parte integrante di questo corpo, un organo che, in virtù della sua posizione centrale, riflette e rende visibili le une alle altre le regolazioni locali che si effettuano a livello periferico. In altri termini, è nel rapporto dello Stato alle corporazioni che la solidarietà organica si realizza politicamente. Polo di visibilità e di comunicazione reciproca degli organi, lo Stato non deve rafforzarsi, ma piuttosto estendersi fino ad abbracciare sempre più rapporti e a renderli sempre più fluidi e trasparenti. Cosa che d’altra parte avviene naturalmente, se i corpi intermedi giocano normalmente il loro ruolo di regolatori locali e di trasmettitori (Durkheim 1990b; tr. it. 2016, p. 162). In questo modo, la concezione durkheimiana vorrebbe evitare il doppio scoglio dello statalismo e del laissez-faire, e pensare una forma di autoregolazione del corpo sociale che ne preservi l’unità.
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Questa deviazione attraverso la politica permette allora di affrontare la coordinazione delle scienze da un’angolatura differente. In sintesi, la refutazione della filosofia corrisponde, nell’ordine teorico, alla refutazione della vecchia figura statale. Rimane tuttavia da capire come il nuovo ordine, quello della solidarietà organica propriamente detta, sia portato a tradursi sul piano scientifico. Si è già rilevata l’importanza che Durkheim accorda non all’unità dei metodi, ma alla loro comunicazione sul fondo di un pluralismo fondamentale. Si capisce ora che questa comunicazione non può avvenire in maniera anarchica, senza che si stabilisca un dispositivo che ammetta a sua volta dei nuclei regolatori locali articolati attorno a un polo centrale di riflessione. Il pluralismo metodologico è anch’esso ordinato secondo il modello della solidarietà organica, orizzonte della divisione del lavoro, o piuttosto modo di coesione di cui la divisione è al contempo l’espressione e il vettore. Sotto questo profilo, il progetto di sintesi teorica non viene rinnegato. Al contrario, esso è ripreso con una coscienza più chiara della sua complessità e delle sue difficoltà, nelle condizioni fissate da una specializzazione completamente assunta. Diviene di conseguenza necessario pensare una forma di organizzazione del lavoro scientifico che, sebbene non permetta più di accreditare né la figura di una scienza universale né quella di una sovranità filosofica, nondimeno garantisca una composizione coerente e una regolazione dei rapporti tra le diverse scienze, reinscrivendole in un movimento d’insieme che risulta dalla coordinazione dei loro movimenti particolari. Ma perché sarebbe necessario pensare questa organizzazione? Dopotutto, se è vero che si tratta dello sviluppo normale del processo di specializzazione, perché non dovrebbe bastare la constatazione dell’ordine prodotto? Questa domanda è tanto più giustificata in quanto si rivolge a quella che vuole essere innanzitutto una scienza empirica, fondata sul rigetto delle pure deduzioni concettuali a profitto dell’osservazione rigorosa dei dati di fatto. Ora, se i fatti possono attestare, come si è visto, una certa forma di discussione scientifica fondata sull’analogia comparativa dei metodi e delle leggi che vengono individuati in ciascun campo, è dubbio che se ne possa ricavare un’organizzazione in senso forte. In altri termini, ci si domanda se, trattandosi delle scienze, non sia eccessivo voler trarre da una comunicazione inter-scientifica, tutto sommato limitata, un nuovo ordine del sapere, adottando come schema direttivo il passaggio dal meccanico all’organico che si era potuto descrivere in sociologia. In questo registro, più che in ogni altro, è semmai la dispersione che si impone allo sguardo. E ci sarebbe una qualche forma di petizione di principio nel voler ritenere normale una situazione che da nessuna parte si realizza nei fatti – punto in cui il decreto di patologia che si era voluto evitare riemerge in contrasto con la posizione affermata all’inizio.
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Questa obiezione incita a ritornare sul rifiuto dell’unità metodologica per valutarne tutte le implicazioni. Il metodo di una scienza, secondo Durkheim, designa essenzialmente una regolazione del pensiero dello scienziato. Le regole che esso comporta sono per la scienza “ciò che le regole del diritto e dei costumi sono per la condotta” (Durkheim 1990a; tr. it. 2016, p. 350). Ne consegue che l’ordine emerso dal metodo rimane rigorosamente interno a una determinata scienza in particolare e non riguarda le relazioni con l’esterno; e sarebbe senza dubbio esagerare i meriti e la portata dell’analogia comparativa renderla l’oggetto di una nuova specialità, il metodo di una nuova disciplina. La rinuncia all’unità metodologica implica piuttosto il fatto che “[n]on vi sono discipline che concertino gli sforzi di scienze differenti in vista di uno scopo comune”. Bisogna necessariamente leggervi una deregolamentazione del sapere considerato nel suo insieme? Qui la diagnosi di Durkheim è fondamentalmente divisa: Ciò è vero soprattutto per quel che riguarda le scienze morali e sociali; le scienze matematiche, quelle fisico-chimiche e perfino quelle biologiche non sembrano infatti essere estranee fino a questo punto. Invece il giurista, lo psicologo, l’antropologo, l’economista, lo statistico, il linguista, lo storico conducono le loro ricerche come se i diversi ordini di fatti che studiano formassero altrettanti mondi indipendenti. Tuttavia, in realtà, si compenetrano da ogni lato: di conseguenza, lo stesso dovrebbe accadere nelle scienze corrispondenti. Ecco da dove proviene l’anarchia che è stata segnalata – d’altronde non senza esagerare – nella scienza in generale, e che è soprattutto vera in queste scienze determinate. Esse offrono infatti lo spettacolo di un aggregato di parti disgiunte che non cooperano; se quindi formano un insieme privo di unità, ciò avviene non perché non abbiano una sufficiente consapevolezza delle loro somiglianze, ma perché non sono organizzate (Durkheim 1990a; tr. it. 2016, p. 350).
Per chi esiste anarchia intellettuale? Questa domanda precede e determina quella relativa all’esistenza dell’anarchia. Senza dubbio, su questo punto, il giudizio comtiano non era completamente infondato. Ma esso era il frutto di una doppia generalizzazione. Generalizzazione filosofica innanzitutto, che preconizzava l’unificazione dei metodi nel e tramite il metodo positivo. Generalizzazione scientifica in seguito, che finiva per considerare tutte le scienze da uno stesso punto di vista e per sottometterle a una stessa diagnosi. Ora, le situazioni differiscono sensibilmente a seconda che si prendano in considerazione le scienze della natura o le scienze umane. Per quanto riguarda le prime, colpisce constatare che non solo la dispersione non è un problema, ma che una certa correlazione è già all’opera. Qui infatti non sono solo i metodi a comunicare comparandosi. Sono le regioni attribuite a ogni tipo d’investigazione che si lasciano concepire come le parti differenziate di uno stesso
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mondo naturale. Di conseguenza, i rapporti esterni tra le scienze si regolano da soli e il consenso emerge spontaneamente. Ma non avviene lo stesso nel blocco costituito dalle scienze umane. Quest’ultimo si rivela affetto da una certa sregolatezza, situazione non esattamente anarchica, ma piuttosto anomica – termine che Durkheim prende in prestito dal filosofo Jean-Marie Guyau per designare non l’assenza di un principio direttivo condiviso, ma la carenza di regole nei rapporti istituiti tra differenti tipi di attività. È a questo livello che il problema della coesione del sapere – e dunque dell’autentica patologia nell’ordine teorico – si pone in tutta la sua acutezza. Ed è a questo livello che occorre collocarsi per sperare di risolverlo. Come far concorrere le investigazioni che conducono – ciascuno dal suo lato e “come se i diversi ordini di fatti che studiano formassero altrettanti mondi indipendenti” – il giurista, lo psicologo, l’antropologo, l’economista, lo statistico, il linguista, lo storico? In questa enumerazione, si sarà ovviamente rilevata un’assenza, dove risiede in ultima analisi la soluzione durkheimiana – chiave dell’imperialismo che abitualmente le si attribuisce. È al sociologo che spetterà il compito di riassorbire l’anomia delle scienze umane. È da lui, come sappiamo, che si dovrà attendere la sintesi teorica mancante, che consiste nel trattare le scienze umane per quel che sono fondamentalmente: delle scienze sociali, vale a dire delle parti differenziate di uno stesso complesso. A questo riguardo, sono necessarie alcune considerazioni per comprendere esattamente il senso e la portata di questa pretesa. Prima considerazione: se la sociologia appare come una soluzione al problema della divisione del lavoro teorico, ciò non riguarda il sapere considerato nel suo insieme, ma solamente il settore specifico dove questo problema si pone effettivamente. Di modo che è legittimo domandarsi se la sociologia esiste, in questo senso preciso, solo perché l’anomia regna ancora nelle scienze umane. A questo titolo, la sociologia non incontrerebbe l’anomia come una situazione eccezionale che dovrebbe affrontare occasionalmente, ma come il suo oggetto costitutivo. Essa emerge come disciplina unificante solo nella misura in cui i saperi speciali che riunisce sotto il suo controllo non sono ancora del tutto capaci di auto-organizzarsi, prendendo coscienza della loro consistenza sociale comune. Presa di coscienza che non dev’essere di superficie, ma deve impregnare il lavoro di ricerca, facendo prevalere il punto di vista sociologico in ogni studio di dettaglio e rendendolo sensibile alla sua solidarietà con le investigazioni che gli sono realmente connesse. È così che Ratzel6, dal punto di vista della geografia, 6
Friedrich Ratzel (1844-1904) fu un geografo ed etnologo tedesco che ebbe un ruolo di primo piano nello sviluppo della geografia umana e della geografia politica.
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e passando correlativamente per l’etnografia e la storia, è riuscito a delineare una tipologia delle forme che riveste il sostrato sociale materiale, seguendo i due assi principali del territorio e della popolazione in un senso che Durkheim qualifica come morfologico. Occorre dunque circoscrivere nettamente il settore coerente e relativamente autonomo della morfologia sociale, campo di positività in cui l’articolazione delle differenti scienze sociali si afferma come la condizione necessaria dei loro rispettivi avanzamenti. Solo l’idea sociologica è capace di suscitare una tale convergenza. All’inverso, il torto della Völkerpsychologie di Wundt, che ricerca le leggi del pensiero collettivo attraverso quelle sue manifestazioni privilegiate che sono la mitologia e il linguaggio, fu proprio di non averlo compreso. È la ragione per cui, secondo Durkheim, essa rappresenta un aggregato fragile, un insieme composito di elementi che appartengono a livelli di realtà eterogenei, che dipendono il più delle volte dalle scienze dell’individuale. Resta da capire se questa idea sociologica meriti di essere sostenuta per se stessa all’interno di un approccio definito. In una parola, è lo statuto della sociologia tout court ad essere qui in questione. Discutendo del suo rapporto con le scienze sociali, Durkheim ritrova in ultima analisi, se non il metodo di Comte, quantomeno il desiderio iniziale che egli aveva formulato: si tratta di far trionfare l’idea sociologica, di farla penetrare sempre più a fondo negli studi speciali al fine di assicurare la loro coordinazione. Ma allora, ci si domanda se la critica preliminare del dominio filosofico non sia stata vana. Dalla filosofia alla sociologia si è certo consumato il passaggio alla scienza: ma ciò non è avvenuto per riservare ancora una volta al suo interno un polo generalista, che presenta in fondo le stesse difficoltà? È significativo, a questo riguardo, che Durkheim si spinga fino a invocare, ancor più che una sociologia generale, una “filosofia sociale rinnovata e ringiovanita” (Durkheim 1975, p. 159). L’espressione è ambigua, e la si può accettare solo se si definisce questo rinnovamento con più precisione. Per Durkheim, è chiaro che la sintesi sociologica deve prodursi spontaneamente e che non può essere concepita indipendentemente dallo sviluppo dei saperi speciali. Occorre poi che questo ordine immanente prenda coscienza di sé: il che suppone che l’orientamento sociologico sia formulato per se stesso. Lavorare a precisare tale orientamento, “ad accentuarlo, a renderlo più cosciente, tale è, riteniamo, il problema urgente della sociologia” (ivi, p. 158). Ma anche se si ammette ciò, cosa accade una volta che questo chiarimento ha Durkheim recensisce la sua Politische Geographie (1897) all’interno del secondo numero dell’Année sociologique, la prima rivista francese di sociologia di cui egli fu fondatore, all’interno della quale i lavori di Ratzel vennero spesso discussi e tradotti. [N.d.T.]
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avuto luogo? Riportate alla loro realtà di scienze sociali, le scienze umane non si organizzano da sole, rendendo pertanto caduco l’intervento di uno sguardo sociologico generale? Insomma, è quanto bisognerebbe concludere, se si acconsentisse ad attribuire alla situazione di normalità delle scienze della natura una dimensione normativa. Su questo piano, in effetti, nessuna disciplina – né la matematica, né la biologia e nemmeno la fisica – assume una funzione direttiva e i legami sembrano piuttosto intessersi spontaneamente. Ispirandosi a questo modello, si dovrebbe allora ammettere che la sociologia è in definitiva votata alla stessa sorte di quella filosofia che intendeva soppiantare. Se essa è certamente un sapere speciale, non lo è ancora abbastanza da permettere di pensare una sintesi completamente immanente dei lavori teorici, che può solo risultare dalle scienze sociali al plurale – plurale la cui unità organica può così affermarsi mentre vengono meno, parallelamente, l’indeterminatezza e la dispersione che l’appellativo di scienze umane lasciava sussistere. All’immagine ben nota del Durkheim fondatore della sociologia, bisognerebbe sostituire quella, più sorprendente, del Durkheim profeta della sua estinzione, almeno in quella forma inglobante che essa aveva preso nella sua fase apertamente imperialista. Tuttavia, occorre ancora notare come, in questa stessa fase, la pretesa sintetica rimanga perfettamente circoscritta. A differenza dell’anarchia intellettuale che motivava l’impresa comtiana, l’anomia teorica è invece localizzata. Al punto che si vede trasparire in Durkheim – in rottura con le sue premesse positiviste e facendo eco alle distinzioni canoniche della sociologia tedesca emersa da Dilthey – una sorta di scissione interna all’ordine del sapere, un divario tra le scienze naturali e le scienze umane. Divario che bisogna evidentemente trattenersi dall’accentuare, poiché designa essenzialmente una disimmetria epistemologica che non implica una divisione reale nell’ordine dei fenomeni. La diagnosi differisce secondo le forme di sapere prese in considerazione, ma questa differenza non riveste uno statuto ontologico. Durkheim non si stanca di ripeterlo: la società è una realtà naturale, e il torto delle filosofie politiche precedenti, in particolare nella loro versione contrattualista, è di aver sottratto il regno sociale al principio generale del determinismo, di aver concepito i rapporti sociali come trasformabili dalla volontà degli uomini, insomma di aver globalmente ceduto a quella che il sociologo chiama la “leggenda del legislatore” – leggenda che Montesquieu, precursore delle scienze sociali a questo titolo, fu il primo a denunciare chiaramente (Durkheim 1966; tr. it. 1976, pp. 62-64). Ora, è proprio in questo ostacolo all’estensione del determinismo che il divario epistemologico che si è rilevato trova la sua ragione fondamentale. La questione dell’organizzazione del sapere non si pone da
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nessuna parte con tanta urgenza e con tanta difficoltà quanto al livello delle scienze umane, poiché queste presentano, in virtù del centro di gravità che ammettono più o meno esplicitamente, una resistenza radicale a pensarsi in quanto scienze sociali. Scienze dell’uomo, esse non concepiscono che la figura dell’individuo possa essere aggirata affinché si riveli il loro statuto scientifico. In questo modo, esse lo erigono a principio della società e, di conseguenza, guardano a quest’ultima come a un prodotto istituzionale sempre affetto da una certa artificialità. Non vi è però alcuna sociologia possibile senza il rifiuto di una simile posizione, o quantomeno senza una ridefinizione del concetto di istituzione che lo sottragga a un puro artificialismo indissolubilmente individualista e volontarista. Se la sociologia può dirsi scienza delle istituzioni – definizione a cui Durkheim acconsente in alcuni testi (Durkheim 1986; tr. it. 2018, p. 40) – è a condizione di insistere sulla necessità propria di cui queste sono investite e di elucidarne i caratteri originali. Necessità che, senza arrivare a vietare ogni modifica, ne limita l’ampiezza all’interno di una rete complessa e massiccia di determinazioni, che deve innanzitutto essere descritta e valutata per se stessa. Di rimando, ne consegue che l’intervento sociologico nel campo scientifico – la sua giustificazione al contempo in quanto sapere costituito e in quanto terapia moderna, risoluzione dell’anomia che caratterizza lo stato attuale del sapere – va concepito essenzialmente come una critica delle scienze umane. A quali condizioni tale progetto è sostenibile? Alle fondamenta del dispositivo durkheimiano, sembra che sussista una posizione che si deve in definitiva qualificare come ontologica. Certo, il sociale non è, per le scienze che si qualificano a partire da esso, una fonte da cui esse procederebbero unanimemente e che, mediante una sorta di movimento riflessivo, esse non farebbero in ultima istanza che ritrovare. Ciononostante, la convergenza di cui esse sono suscettibili – e ancor più l’articolazione da cui dipende sempre maggiormente il loro progresso al contempo singolare e comune – suppone che l’idea sociologica che dovrebbe orientarle non sia una pura astrazione, ma che ad essa corrisponda, al livello fenomenico stesso, un certo grado di realtà. In questo senso, le scienze sociali non possono costituirsi senza che al sociale venga accordata una dimensione sostanziale, sebbene questa dimensione assuma delle forme particolari, affidate a delle analisi specifiche. Il che significa che, per queste scienze, il giuridico, il religioso, l’economico si costituiscono oggettivamente solo in virtù della dimensione sociale che li attraversa e li dispone su uno stesso piano. In una parola, è l’essere sociale dei fenomeni umani che li rende accessibili a uno sguardo scientifico, il quale conserva in tal modo una certa unità attraverso le molteplici strade che prende per approcciarsi al suo oggetto.
B. Karsenti - Durkheim
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In un testo del 1904, Weber pronuncia una lezione di prudenza epistemologica che tocca molto da vicino la difficoltà con cui ci stiamo qui confrontando. Secondo Weber, il progetto di una “scienza sociale generale, è inficiat[o] anzitutto da questo, che il punto di vista del “sociale”, cioè della relazione tra gli uomini, possiede una determinatezza sufficiente per la delimitazione dei problemi scientifici solo quando è accompagnato da qualche speciale predicato che lo qualifica nel suo contenuto” (Weber 1951; tr. it. 1958, p. 78). Se si ritiene che la condanna si riferisca solamente a una sociologia generale del legame sociale, concepito formalmente come “relazione tra gli uomini”, è chiaro che essa non tocca in alcun modo il progetto durkheimiano, il quale si è costituito precisamente contro una simile facilità e testimonia una specializzazione di cui le rubriche de L’Année sociologique permettono di misurare il rigore e l’ampiezza. Ma si può intendere l’enunciato weberiano in un altro senso, più radicale: ovverosia che non c’è sociologia se non specificata, e che, per le scienze sociali, il punto di vista sociale non ricopre nessun altro contenuto se non quello che gli forniscono la dimensione giuridica, economica, estetica o religiosa. A questa conclusione estrema, la sociologia durkheimiana non può spingersi; e soprattutto non deve farlo, fintanto che il suo problema resta quello, ereditato dalla tradizione positivista, di una sintesi che solo il punto di vista sociale è capace di fornire. Per questa ragione, all’idea inconsistente del legame sociale come forma pura, che le diverse società esistenti o che sono esistite declinano ciascuna a suo modo, essa rinuncia solo facendo del sociale una realtà fondamentale, che sottende gli ordini di fenomeni attribuiti agli studi speciali e giustifica la loro comune appartenenza a uno stesso registro epistemologico. Troppo attenta alla pratica delle scienze per sottoscrivere il desiderio comtiano di una sintesi dei metodi, essa ricostituisce l’unità del sapere sull’uomo sociologicamente, vale a dire, in fondo, all’interno di quella si può chiamare un’ontologia sociologica – dovendo il sociale essere posto ontologicamente affinché le scienze umane si sviluppino in uno stesso fascio e compongano a loro volta una totalità organica, conformemente al tipo di solidarietà propria delle società in cui si producono. (Traduzione dal francese di Giovanni Minozzi)
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Commento introduttivo a Epistemologia della medialità: una riflessione filosofico-mediale di Sybille Krämer Federica Buongiorno Nel 2020 è apparso in italiano Piccola metafisica della medialità. Medium, messaggero, trasmissione (Krämer 2020), il libro che, per molti aspetti, costituisce il precedente e il fondamento teorico del saggio di Sybille Krämer qui tradotto, nonché l’opera più rappresentativa del suo pensiero. Pubblicato in tedesco nel 2008, il testo ebbe immediata eco in Germania, date anche la notorietà e la centralità di Krämer nel dibattito filosofico tedesco: titolare della cattedra di Filosofia teoretica presso la Freie Universität di Berlino dal 1989 al 2018 e attualmente professoressa invitata presso la Leuphana Universität di Lüneburg, Krämer è tra i/le più noti/e filosofi/e dei media e della conoscenza in Germania. L’opera del 2008 suscitò un dibattito piuttosto acceso per via delle tesi “eccentriche” sostenute dall’autrice, la quale proponeva una rivalutazione della sfera mediale in esplicita discontinuità sia con l’approccio habermasiano improntato al concetto dialogico e bilaterale di comunicazione, sia con la scuola kittleriana, vale a dire con l’orientamento storicamente più importante e influente negli studi sui media, soprattutto a Berlino (dove Friederich Kittler insegnò, presso la Humboldt Universität, e dove è collocato il suo archivio). Più lenta è stata, invece, la ricezione all’estero della proposta di Krämer1: per quanto riguarda il contesto italiano, il motivo di questo ritardo è senz’altro dovuto, da un lato, a una certa resistenza – nutrita dal forte impatto esercitato dalla decostruzione di tradizione francese e post-heideggeriana – a teorie variamente finalizzate a riattivare istanze metafisiche e, dall’altro, alla maggiore lentezza con cui i temi e i problemi specificamente legati alla sfera mediale sono entrati nel discorso critico-filosofico italiano (lo stesso Friederich Kittler è autore di recente scoperta in Italia)2. 1 2
L’opera del 2008 è stata tradotta in giapponese nel 2014 e in inglese nel 2015, prima di apparire in italiano nel 2020. Cfr. (Buongiorno 2020a e 2020b).
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Uno degli obiettivi centrali della Piccola metafisica era proprio quello di dischiudere definitivamente l’interesse filosofico tedesco al tema della medialità, rimasto sino a quel momento – per motivi che l’autrice stessa ricostruiva già nel 20043 – ai margini del dibattito. La tesi “metafisica” al centro della proposta di Krämer, per come si sviluppa – limitandosi alle monografie pubblicate prima del 2008 – nel passaggio dall’interesse più generale per il nesso natura-tecnica-società4 a quello più specifico per il formalismo e il simbolismo delle macchine5, sino agli studi sulla calcolabilità razionale6 e sulla comunicazione7, può essere riassunta nei seguenti termini: è possibile (e necessario) realizzare un’indagine filosofica non solo dell’apriori tecnologico attivo nei processi mediali ma anche e più radicalmente della medialità in quanto tale. Questo gesto “metafisico” informa anche il saggio che qui presentiamo ed è descritto al meglio da Krämer stessa in una intervista rilasciata nel 2020 a DoppioZero: Quello che propongo nel libro è un capovolgimento filosofico-mediale della figura della metafisica tradizionale. Da Platone in poi si è tramandata una figura fondamentale della metafisica: ciò che esiste realmente ed essenzialmente si trova dietro ciò che appare, sottratto al mondo del percepibile. Questa posizione si è unita, per lo più, a un gesto ermeneutico: la sensibilità, anche la materialità di ciò che si mostra come fenomeno deve essere superata in funzione di un senso nascosto alle sue spalle e spesso inteso come immateriale. (…) Comprendere il gesto metafisico della mia filosofia dei media, dunque, significa riconoscere l’ironia consistente nel fatto che l’elemento nascosto nell’avvenimento mediale è quella materialità, quella tecnicità che nella metafisica tradizionale è stata dissolta ontologicamente e che viene riscoperta, appunto, proprio mediante una riflessione filosofico-mediale di stampo metafisico! (Buongiorno 2020b).
La metafisica della medialità si traduce, dunque, in una “fisica dei media” (Krämer 2020, pp. 18; 23; 25), nella ri-materializzazione (e ricentralizzazione) del corpo dei media, della loro consistenza materiale. È qui che, seguendo l’intrinseca ambivalenza dei media, la tesi di Krämer si fa ambivalente: “Nell’evento mediale il rapporto tra materialità e dematerializzazione, tra sensibilità e de-sensibilizzazione è dato in una re3 4 5 6 7
Cfr. (Krämer 2004). Cfr. (Krämer 1981). Cfr. (Krämer 1988). Cfr. (Krämer 1991). Cfr. (Krämer 2001).
Commento introduttivo a Epistemologia della medialità… di Sybille Krämer
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ciprocità ambigua” (Buongiorno 2020b). Nel saggio che qui introduciamo, l’autrice ribadisce: Nel rapporto con i media vi è una caratteristica che può essere chiamata “ritrarsi dei media nella loro operatività”: nella misura in cui i media funzionano regolarmente nel loro uso, vale a dire senza interferenze, essi tendono a far apparire qualcosa ritirandosi e rimanendo, nella loro materialità e costituzione, al di sotto della soglia di percezione.
Se, da un lato, è vero che il “corretto” funzionamento dei media presuppone la loro retrocessione e de-estetizzazione (smaterializzazione), dall’altro proprio questo movimento implica la possibilità del recupero e della riattivazione della fisicità perduta: La fenomenologia elementare dell’uso dei media qui delineata, orientata alla “scomparsa del medium-in-funzione”, non si applica senza restrizioni. Interferenze e disfunzioni come lo sfarfallio degli schermi, la trasmissione rumorosa del suono, l’interruzione nella fornitura di energia fanno sì che i media diventino invadenti nella coscienza degli utenti.
La fisicità dei media rientra in gioco nei fenomeni-limite dell’interferenza e della disfunzione, di cui Krämer enfatizza il carattere strutturale e costitutivo, ma anche nella sfera dell’arte, in cui la materialità del medium è spesso rivendicata ed esibita come elemento centrale dell’opera (si pensi, ad esempio, ai tagli sulla tela di Lucio Fontana, che introducono l’elemento della profondità e tridimensionalità rompendo con la bidimensionalità figurativa tradizionale). Krämer si concentra qui su alcune versioni specifiche dell’ambiguo riemergere della “fisica dei media”, in particolare sui processi di formalizzazione. Proprio tra gli scienziati umanisti vi è un pregiudizio quasi inestirpabile nei confronti della formalizzazione: quello secondo cui si tratterebbe di un processo di totale de-sensibilizzazione. Eppure, in nessun altro contesto si deve considerare in maniera altrettanto precisa e dettagliata l’aspetto dei segni, nessun’altra attività si muove così tanto nella regione dell’intuibile, quanto l’operare formale (Buongiorno 2020b).
Questo aspetto trova una traduzione peculiare nella retorica della “profondità” contrapposta alla “superficialità”, al centro del nostro saggio: Nel quadro di una retorica che ci è fin troppo familiare, ciò che è “profondo” viene nobilitato, mentre si scredita ciò che è “superficiale”: un pensiero degno del suo nome è orientato alla profondità. Eppure, attività di pensiero o anche processi cognitivi complessi sono difficilmente concepibili senza scrivere e ri-
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scrivere qualcosa, senza operare con segni e formule visibili, senza produrre e interpretare tabelle, schemi, grafici e diagrammi, o senza creare visualizzazioni basate su immagini tecniche come la radiografia e la risonanza magnetica.
È in questo modo che riemerge, qui, il riferimento alla corporeità dei media: i processi di pensiero simbolico e formale sono difficilmente eseguibili senza una qualche forma di tracciamento o scrittura, senza dunque l’appoggio sensibile su media visibili. In questo caso, l’ambivalenza consiste nel fatto che le tecniche di rappresentazione impiegate sfruttano la bidimensionalità, ossia riducono la profondità tridimensionale della realtà esperita alla dimensione della “piattezza artificiale”. Questa riduzione non è da intendersi in senso negativo: essa veicola un potenziale creativo e produttivo in quanto consente – nella sua posizione “terziaria” e mediante, tipica dei media nella concezione di Krämer – il passaggio (la trasmissione) di contenuti da una sfera ontologica ed epistemica (la tridimensionalità) a un’altra (la bidimensionalità), consentendoci di operare con processi di pensiero complessi. La creatività qui rivendicata è, pertanto, quella specifica della trasmissione e traduzione più che della creazione: “la prospettiva della medialità non accentua in primo luogo la produzione e la realizzazione di qualcosa, ma la connessione, la trasmissione e la mediazione tra qualcosa”. Questa dinamica è mostrata, nel paragrafo 5 del saggio, con riferimento sistematico alla figura del messaggero, già al centro del testo del 2008, di cui è ripresa la caratterizzazione secondo otto tratti tipici che enucleano tutti, con accenti diversi, la natura terziaria e ambivalente della medialità nel senso appena descritto. La tesi è rafforzata sviluppando due argomenti di epistemologia critica della medialità: il primo (paragrafo 8) è interno alla teoria del linguaggio e implica una critica dell’interpretazione fonetica della scrittura alfabetica. Questa interpretazione è possibile in quanto la scrittura alfabetica realizza una trasposizione del flusso temporale del linguaggio parlato in una successione spaziale di lettere. “Come testo, la scrittura alfabetica diventa una lingua orale immobilizzata”. Questa interpretazione, tuttavia, è perlomeno parziale, in quanto “le scritture sono sistemi di segni genuinamente visivi, a volte anche tattili, che – diversamente dal continuum vocale – operano sempre con la bidimensionalità della superficie”: è così che riemerge, in questo contesto, la fisica implicita dei media. Il secondo argomento richiamato da Krämer (nel paragrafo 9) si riconnette una volta di più alle tesi sviluppate nel fondamentale libro del 20088, e chiama 8
Cfr. (Krämer 2020, cap. VII, pp. 263 sgg). Il tema era stato già affrontato in (Krämer 2007).
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in causa il dominio della cartografia: la carta geografica esemplifica al meglio il potenziale “ambiguamente creativo” dei media, ossia il suo carattere al tempo stesso eteronomo e produttivo. Essa, infatti, “non solo ‘riporta’ fedelmente (seppure in scala e con le inevitabili deformazioni implicate dal modello proiettivo) un territorio, ossia lo ‘trasmette’, ma lo rende al tempo stesso uno spazio d’azione e di movimento interattivo per colui che si serve concretamente della carta” (Buongiorno 2020a, p. xvii). A ben vedere, la cartografia si è sviluppata anche storicamente all’insegna dell’ambivalenza: la contrapposizione tra i due modelli proiettivi di Mercatore e di Peters, qui ricordata dall’autrice, dimostra appunto l’impossibilità di sviluppare proiezioni cartografiche in assenza di deformazioni9. Si tratterà, allora, di scegliere tra le varie distorsioni possibili in funzione dell’obiettivo euristico perseguito: Nel discorso della cartografia, due narrazioni competono per l’interpretazione “corretta” delle carte: nella narrazione della “carta trasparente”, le carte sono considerate come rappresentazioni esatte di un territorio in senso naturalistico-realistico. La carta diventa un messaggero neutrale di informazioni cartografiche e incarna l’ideale dell’oggettività scientifica: il mondo mostrato dal punto di vista dell’osservatore esterno, nella “vista da nessun luogo”. Nella narrazione della “carta opaca”, le carte sono considerate nel senso strumentalecostruttivista, in associazione alle condizioni tecniche, sociali e politiche della loro produzione, non come uno strumento per la rappresentazione di un territorio, ma per la sua produzione. Decifrare le tracce della produzione cartografica significa trattare la carta come uno strumento di potere da decostruire.
Krämer insiste sul fatto che le due interpretazioni non sono semplicemente concorrenti ma complementari: il percorso teorico svolto si conclude anche in questo saggio con l’evidenziazione, latamente inquietante ma di estrema fecondità epistemica, del carattere “diabolico” costitutivo di ogni medium e incarnato al meglio dalla figura del messaggero. La mediazione che questo svolge 9
Da un lato, la carta storica sviluppata nel 1569 da Mercatore fa apparire le aree lontane dall’equatore irrealisticamente più grandi, a discapito dei paesi del Sud del mondo (basti pensare che la Groenlandia è rappresentata con una superficie equivalente a quella dell’Africa, o la Finlandia con un’estensione verticale maggiore dell’India); si trattava di uno strumento utile alla navigazione ma infedele quanto alla rappresentazione. Al contrario, la carta proposta da Arno Peters nel 1983 in “ideologica” contrapposizione a quella di Mercatore, con l’obiettivo di mantenere una proporzione fedele tra le aree del mondo, sconta tutta una serie di altre distorsioni che la rendono bensì più fedele al territorio, ma inservibile alla navigazione.
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(…) rimane ambivalente, poiché nella posizione di terzo il messaggero non collega solamente, ma allontana al tempo stesso; può interrompere e creare dissidio, seminare lite e ordire intrighi. La mediazione ha un doppio volto: può essere simbolica, cioè mettere in comune (dal greco “symballein”, mettere insieme, mettere in comune), oppure diabolica, cioè dividere. Il deragliamento diabolico è genuinamente inscritto nella funzione di terzietà e neutralità del messaggero.
La metafisica della medialità è essenzialmente una filosofia dell’ambivalenza mediale. Riferimenti bibliografici Buongiorno, F. 2020a Una teoria dell’ambivalenza mediale: la “terza via” alla filosofia dei media di Sybille Krämer, in Krämer, S., Piccola metafisica della medialità. Medium, messaggero, trasmissione, tr. it. e cura di F. Buongiorno, Storia e Letteratura, Roma, pp. ix–xix. 2020b Per un nuovo “illuminismo digitale”: pensare i media oggi. Intervista a Sybille Krämer, in “DoppioZero”, 03.05.2020, . Krämer, S. 1981 Technik, Gesellschaft und Natur. Versuch über ihren Zusammenhang, Campus, Frankfurt a.M.-New York. 1988 Symbolische Maschinen. Die Idee der Formalisierung in geschichtlichem Abriß, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt. 1991 Berechenbare Vernunft. Kalkül und Rationalismus im 17. Jahrhundert, De Gruyter, Berlin-New York. 2001 Sprache – Sprechakt – Kommunikation. Sprachtheoretische Positionen im 20. Jahrhundert, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2004 Die Heteronomie der Medien. Versuch einer Metaphysik der Medialität im Ausgang einer Reflexion des Boten, in “Journal Phänomenologie”, 22, pp. 18-38. 2008 Medium, Bote, Übertragung. Kleine Metaphysik der Medialität, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2007 Karten – Kartenlesen – Kartographie. Kulturtechnisch inspirierte Überlegungen, in P. Helas, M. Polte e C. Rückert (a cura di), Bild/Geschichte: Festschrift für Horst Bredekamp, De Gruyter, Berlin, pp. 73-82. 2020 Piccola metafisica della medialità. Medium, messaggero, trasmissione, tr. it. e cura di F. Buongiorno, Storia e Letteratura, Roma.
Sybille Krämer
EPISTEMOLOGIA DELLA MEDIALITÀ: UNA RIFLESSIONE FILOSOFICO-MEDIALE
1. Premessa Noi non chiediamo: “Cosa sono i media?”. Gli artefatti umani non possono essere semplicemente classificati in cose che sono media, e cose che non lo sono. Piuttosto, siamo interessati al peculiare uso di ciò che definiamo “medium”. Nell’orizzonte di questo orientamento diretto all’uso, diventa comprensibile il significato di medialità e ciò non tanto ontologicamente – media intesi come un certo tipo di cose – bensì come una dimensione implicita nel nostro rapporto con il mondo. Astenendoci da un’ontologia dei media cerchiamo di evitare una trappola teorica, che consiste nel comprendere i media e il campo di potenza ed efficacia in essi incorporato in un senso “ultimativamente giustificante”. La costituzione dei media non può fornire origini (mono)causali per cambiamenti storicosociali, né i media possono essere ipostatizzati in una considerazione trascendentale, come condizione di possibilità di ogni percezione, esperienza, pensiero e comunicazione. E questo nonostante il fatto che difficilmente possiamo percepire, fare esperienza, pensare e comunicare qualcosa al di fuori dei media. Analizzare i media come oggetti di conoscenza secondo un orientamento oggettuale è compito delle scienze dei media; compito della filosofia è sviluppare la medialità come prospettiva del nostro rapporto con noi stessi e con il mondo.
2. Fenomenologia elementare dell’uso dei media Nel rapporto con i media vi è una caratteristica che può essere chiamata “ritrarsi dei media nella loro operatività”: nella misura in cui i media funzionano regolarmente nel loro uso, vale a dire senza interferenze, essi tendono a far apparire qualcosa ritirandosi e rimanendo, nella loro materialità
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e costituzione, al di sotto della soglia di percezione1. Tutti i media – e non solo le “realtà virtuali” generate da computer – presentano perciò una tendenza immersiva: si presenta un contenuto, ma il mezzo rimane oscurato in questo atto. Sentiamo una voce umana, ma non le vibrazioni dell’aria; vediamo un colore, ma non le onde luminose; un film ci trascina nell’azione e ci fa dimenticare non solo lo schermo, ma anche il cattivo posto a sedere, etc. I media sensibilizzano de-sensibilizzandosi. Questa estetica divergente dei media ne costituisce la logica elementare d’uso. Questo auto-nascondersi dei media non è un’evidenza recente. Nella sua teoria della percezione, Aristotele sottolineava già (Aristotele 2001, 418b e 419a) che i media sono al tempo stesso materiali e trasparenti: lo spazio tra l’occhio e l’oggetto visto non è vuoto ma pieno, e al tempo stesso trasparente e traslucido – diafano, appunto. Sostanze come l’aria, l’acqua e il cristallo sono perciò mezzi di percezione adeguati. Questa trasparenza del mezzo aristotelico di percezione viene trasferita successivamente anche alla significazione linguistica; di ciò diventa paradigmatica la dissolvenza della voce, la scomparsa del suono linguistico nel momento della sua enunciazione vocale: “(…) la figura più autentica dell’intuizione-segno è un esserci nel tempo: un dileguare dell’Esserci mentre l’Esserci è” (Hegel 1996, § 459, p.749). Nel corso del 1900, Fritz Heider ha ripreso questa figura del pensiero e l’ha condensata nella tesi secondo cui i media sono sempre “incatenati” a qualcosa di importante, a loro esterno, che rendono presente, ma “in se stessi sono per lo più ‘nulla’” (Heider 1927, p. 30). I media non sono privi di un loro ordine; ma questo ordine deve garantire un massimo di plasticità, di modo che – sono già le parole di Niklas Luhmann – negli eventi mediali si vedano sempre le forme, ma non il medium stesso2. La mediatezza del contenuto mediale appare sotto le spoglie dell’immediatezza. La fenomenologia elementare dell’uso dei media qui delineata, orientata alla “scomparsa del medium-in-funzione”, non si applica senza restrizioni. Interferenze e disfunzioni come lo sfarfallio degli schermi, la trasmissione rumorosa del suono, l’interruzione nella fornitura di energia fanno sì che i media diventino invadenti nella coscienza degli utenti. I problemi di funzionamento degli apparati tecnici mediali segnalano durevolmente la dipendenza da un know-how tecnico-mediale. Infine, è nelle opere d’arte che la medialità degli oggetti artistici viene portata alla luce e persino esibita, spesso anche sovversivamente attraversata e commentata: i tagli 1 2
Cfr. (Mersch 2002, p. 122 ss.); (Engell/Vogl 2000, p. 10); (Groys 2000, pp. 21 ss.); (Krämer 2008, pp. 25 ss). Cfr. (Luhmann 1986).
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di Lucio Fontana sulle superfici dei suoi dipinti aprono i suoi quadri alla tridimensionalità e alla profondità plastica; con questo “atto d’incisione” gli espone e sovverte la bidimensionalità come condizione nota della figuratività tradizionale. Questo nesso tra figuratività e bidimensionalità porta a un’altra caratteristica di molte forme di utilizzo dei media: si tratta della “piattezza artificiale”. 3. Piattezza artificiale Viviamo in un mondo della vita tridimensionale e tuttavia siamo circondati da superfici illustrate e inscritte. A tal punto diamo per scontato le pagine di carta stampata, le immagini, i disegni tecnici, i pannelli di visualizzazione, gli schermi e le mappe di tutti i tipi, comprese le interfacce elettroniche, che non notiamo quasi più quale speciale forma di spazialità sia incarnata dalla bidimensionalità. Empiricamente non esistono superfici bidimensionali, eppure trattiamo tutti i tipi di tracciamento e inscrizione come se fossero piani: ciò che conta ed è significativo è inciso o impresso sulla superficie; nello scrivere, nel disegnare, schizzare, dipingere, leggere e guardare, la dimensione della profondità di una superficie è tendenzialmente dissolta. La “piattezza artificiale”3 costituisce forse un dato di fatto quasi antropologico? In ogni caso, sin dallo sviluppo delle pitture rupestri, dei tatuaggi sulla pelle, dall’uso delle meridiane che trasformano le ombre in orologi, dall’invenzione di immagini, scritte, diagrammi e mappe, c’è stato un filo conduttore di una “tecnica culturale di appiattimento spaziale”, che culmina nel presente uso ubiquitario di schermi e smartphones. Nel quadro di una retorica che ci è fin troppo familiare, ciò che è “profondo” viene nobilitato, mentre si scredita ciò che è “superficiale”: un pensiero degno del suo nome è orientato alla profondità. Eppure, attività di pensiero o anche processi cognitivi complessi sono difficilmente concepibili senza scrivere e riscrivere qualcosa, senza operare con segni e formule visibili, senza produrre e interpretare tabelle, schemi, grafici e diagrammi, o senza creare visualizzazioni basate su immagini tecniche come la radiografia e la risonanza magnetica. Tutte queste modalità di rappresentazione sfruttano esplicitamente la piattezza artificiale. È dunque sensato sciogliere ulteriormente l’ovvia connessione tra spirito [Geist] e profondità e realizzare un rivolgimento dello sguardo: 3
Su questo concetto, cfr. (Krämer 2016, pp. 59-86).
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non soltanto le scienze, ma anche molte forme d’arte – si pensi alla coreografia, alla notazione musicale, ai quaderni di schizzi e alle sceneggiature – così come tutte le complesse realizzazioni ingegneristiche e architettoniche, sfruttano la forza creativa del formato bidimensionale. Tutto ciò che è, che non è ancora e persino ciò che non potrà mai essere – come i cosiddetti “oggetti impossibili”4 – può essere proiettato nella bidimensionalità come struttura grafica, può essere annotato, disegnato e poi trasformato e riconfigurato nell’interazione di occhio e mano. Inoltre, documenti piatti e formulari di ogni tipo producono e garantiscono l’identità personale e ci “marchiano” come membri identificabili, localizzabili e quindi riferibili di una società. Da ultimo, ma non meno importante, l’orientamento pratico in un terreno sconosciuto è impensabile senza l’uso di mappe della rete stradale, mappe della città, tabelloni, cartelli e segnaletica. In quel che segue ci concentreremo sulla dimensione epistemica della piattezza artificiale: in cosa consiste il segreto della creatività cognitiva e del potere stimolante di questo tipo di “appiattimento”? In quanto situati in un corpo vivo (leiblich), disponiamo di un vero e proprio sistema di orientamento; Kant aveva già stabilito che tutto ciò che è corporeo ha tre assi o direzioni tra loro perpendicolari: destra/sinistra, sopra/sotto, davanti/dietro. Secondo questa direzionalità, ciò che sta dietro di noi – pensato ora senza specchietto retrovisore – contrassegna una regione invisibile e perciò anche incontrollabile. Mediante la registrazione grafica di stati di cose (Sachverhalte) su superfici mobili, che possiamo maneggiare ed esaminare, dotiamo noi stessi di una prospettiva a volo d’uccello su ciò che è rappresentato: la visualizzazione sinottica di una panoramica è altrettanto rilevante della tattilità potenziale nel maneggiare la superficie. Si aprono così delle prospettive d’azione: così accade nei calcoli scritti, nelle derivazioni logico-formali, nelle liste di cose da fare, nei programmi (informatici) di ogni tipo e nell’annotazione dei pensieri, che soltanto in questo modo diventano osservabili ed emendabili nella loro proposizionalità, come datità enunciabili. La carta costituisce uno spazio sperimentale di cognizione complessa, uno spazio laboratoriale per la creazione artistica e un campo di gioco per tutti i tipi di bozze e progetti. È un caso che molti giochi richiedano un campo di gioco disegnato diagrammaticamente, che si tratti di scacchi e Go, di calcio e tennis, o di giochi di rimbalzo sul marciapiede?
4
Cfr. (Reuterwärd 1990).
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4. Il medium come “terzietà” mediante Parlare di una “medialità della piattezza artificiale” è più facile a dirsi che a pensarsi. Cosa significa riflettere sul rapporto cognitivo con le superfici in una prospettiva mediale? Che tipo di conoscenza si apre? Abbiamo accennato al fatto, caratteristico della medialità, del rendere percepibili i contenuti presentati nell’auto-ritrarsi della fisicità del medium. Ora diventa rilevante un altro aspetto a ciò correlato: i media assumono funzionalmente la posizione di un terzo ovvero di una terzietà che media tra due parti diverse, tra due diversi campi o sistemi e stabilisce tra loro un nesso di connessione e trasmissione. La medialità va intesa come una forma di relazionalità. Uno sguardo etimologico all’uso linguistico nel greco antico è rivelatore. “Medium” indica il termine medio sillogistico: il terminus medius è la parola che appare in entrambe le premesse e che stabilisce in generale la loro connessione. La conclusione collega le premesse in modo tale che il termine medio viene a cadere: esso è eliminato nella conclusio. La posizione del “termine mediano” scompare nella mediazione riuscita. Andiamo oltre l’esempio etimologico: cosa trasmettono le superfici inscritte e illustrate, nella misura in cui vengono impiegate come strumenti del pensiero? Tra quali realtà differenziali stanno (o meglio, funzionano) le superfici inscritte come un terzo? Prendiamo a esempio l’aritmetica: come entità matematiche, i numeri sono invisibili e non localizzabili spazio-temporalmente. Operare in modo più complesso con i numeri sulla carta significa inscrivere cifre – e, appunto, non numeri; significa dare ai segni numerici una collocazione e una posizione precisa come cifre sulla superficie, e poi trasformarli in modo tale che la manipolazione dei segni svolga al tempo stesso un calcolo numerico. La medialità della piattezza artificiale permette di oggettualizzare visivamente le entità teoriche, cioè invisibili, così che le soluzioni dei problemi e le conoscenze sul mondo invisibile dei numeri possano essere ottenute mediante operazioni sul visibile. La scrittura del calcolo nel sistema posizionale decimale non tratta più i numeri come numeri (contabili) – come era ancora con l’abaco greco o quello romano; piuttosto, quello che ora vale come numero è ciò che si fa strada quale oggetto di riferimento di espressioni segniche correttamente formate: è soltanto così che può nascere lo spazio numerico moderno – dall’esistenza dello zero, al calcolo con grandezze infinitesimali, fino ai numeri immaginari e reali. La mediatizzazione del calcolo numerico attraverso il sistema numerico decimale modifica, dunque, ciò che si considera come numero e il modo in cui si qualifica lo spazio numerico.
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L’invenzione cartesiana di un sistema di coordinate, seppur non ancora ortogonale, dimostra significativamente questa spinta alla conoscenza attraverso la spazializzazione bidimensionale5. Il “piano di coordinate cartesiano” in uso oggi suddivide la superficie della carta in quattro quadranti in modo tale che i punti geometrici siano rappresentati da coppie di numeri, così da dare loro una posizione numericamente ben definita sulla superficie. D’ora in poi, certe curve possono essere rappresentate come equazioni, i problemi geometrici possono essere risolti come calcoli aritmetici. Le figure sono convertibili in formule e viceversa. Così, quando Cartesio pone fine – con la sua invenzione della geometrica analitica – allo scisma tra geometria (magnitudo) e aritmetica (multitudo), esistente sin dalla scoperta greca dell’incommensurabilità, questa mediazione tra due domini matematici divenuti reciprocamente estranei produce l’invenzione di una configurazione di linee come sistema di riferimento. Il piano delle coordinate – considerato come medium – è situato tra i domini dei punti geometrici e i domini dei numeri aritmetici; esso costituisce un manuale di traduzione tra curve ed equazioni, che dà allo stesso tempo una nuova fisionomia e un nuovo contorno al rispettivo significato di “geometria” e “aritmetica”. Questi esempi tratti dalla tecnica del calcolo e dalla matematica fanno emergere che i media sono usati nel ruolo di una terzietà mediante, che – situata tra due parti disgiunte – stabilisce il loro nesso e, con questa connessione, modifica al tempo stesso fondamentalmente ciò che entrambe le parti sono e significano. Dipende dal rispettivo interesse conoscitivo come si caratterizzano questi lati, questi campi o mondi. La piattezza artificiale, ad esempio, può essere intesa come mediatrice tra tempo e spazio: gli atti di scrittura trasformano la successione temporale delle parole pronunciate nella configurazione spaziale bidimensionale dei testi; le linee temporali disegnate dagli storici trasformano la sequenza di eventi storici in una costellazione discretizzante di linee. Qualcosa di procedurale, di fluido, si condensa in struttura e figurazione e può poi anche essere riconvertito in proceduralità – pensiamo alle partiture o alla lettura di testi. La creatività cognitiva della piattezza artificiale è ancora sottovalutata nei suoi impulsi artistici, scientifici, creativi di cultura. Il nucleo di questa creatività – almeno questa è la nostra ipotesi – è il fatto di essere situata tra l’unidimensionalità del tempo e la tridimensionalità dello spazio del mondo vitale, e di essere in grado, in virtù di questo posizionamento, di trasferire, trasporre, tradurre e trasmettere l’una nell’altra. È chiaro che processi come collegare, trasmettere, mediare e tradurre implicano forme di attività estremamente diverse. Tralasciamo però queste 5
Cfr. (Descartes 2018).
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differenze in favore dell’idea fondamentale che intendiamo esporre qui, ossia che la prospettiva della medialità non accentua in primo luogo la produzione e la realizzazione di qualcosa, ma la connessione, la trasmissione e la mediazione tra qualcosa. Sottolineiamo questo ruolo di connessione e trasmissione per una buona ragione: perché questa posizione “nel mezzo” assicura che i media siano protetti dalla loro appropriazione costruttivista e teorico-costitutiva ed evita il loro autonomizzarsi in principi di responsabilità monocausale. Proprio l’evidenza della medialità di quasi tutti gli artefatti e le azioni culturali, sviluppatasi negli anni Sessanta del secolo scorso, è apparsa sotto forma di ipostasi e di assolutizzazione del punto di vista mediale come istanza ultimativamente fondante delle dinamiche culturali. A dirla tutta, per autori come Marshall McLuhan o Friederich Kittler, i media stilizzati come sovrani hanno ereditato gli attributi di potenza (Potenzials) trasmessi nell’età moderna da Dio ai soggetti umani, una potenza che nella modernità – da Nietzsche a Foucault – si è erosa sempre più. L’Homo generator, questa eco moderna e laica del demiurgo divino, vive allora sotto forma di un potenziamento e di una autonomizzazione dei media. Ma i media non sono autonomi, bensì eteronomi. Concezioni come il dettame post-strutturalista secondo cui non c’è nulla al di fuori dei testi, ma anche l’assunto di molte filosofie analitiche e di alcune non analitiche secondo cui il linguaggio – e solo il linguaggio – costituisce il punto archimedeo del nostro rapporto con il mondo, sono insostenibili nel contesto di una riflessione mediale che si muove nella prospettiva della terzietà mediale e della funzione mediatrice. Ne segue che la prospettiva mediale può essere accentuata più precisamente con l’aiuto di un “modello del messaggero”6. “Messaggero” non è inteso, qui, come un’istituzione personale derivata dal messaggero storico, ma come qualsiasi istanza – sia essa umana, simbolica o tecnica – che stabilisce una connessione tra cose eterogenee trasmettendo qualcosa e trasfigurando così sia le parti da mediare quanto il mediato stesso. 5. Il modello del messaggero come approccio filosofico ai media Non è questo il luogo per descrivere nel dettaglio il modello del messaggero. La sua preoccupazione filosofica, caratterizzata metaforicamente come un mandato (Botengang), è quella di affiancare al modello autoriale (Urheber), che ha ispirato la concezione moderna del soggetto con furore 6
Cfr. (Krämer 2008, pp. 103-121).
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generativista, un modello diversamente orientato. Un modello il cui telos non consiste nell’ipostasi della creazione e dell’invenzione, ma che mira a distinguersi per forme di attività meno affascinanti, quali: collegare, trasmettere, mediare, tradurre, far circolare. Forme di attività che, tuttavia, possono valere come atti genuini di creazione culturale, che includono attori non personali sotto forma di apparati simbolici e tecnici in tutte le forme miste concepibili e gli intrecci tra persone, segni e dispositivi tecnici. Vanno indicate, almeno sommariamente, otto dimensioni del modello del messaggero: (1) Distanza come fenomeno fondamentale di ogni con-divisione7 (Mitteilung): la distanza reciproca è la condizione fondamentale di ogni comunicazione. La distanza non si limita alla lontananza spazio-temporale, ma implica la differenza che rende i comunicanti estranei tra loro nella pienezza delle loro diverse storie ed esperienze. La comunicazione presuppone una forma di divisione (Teilung) e di essere-divisi. Il messaggero diventa il punto di riferimento del modo in cui gestiamo la distanza e la differenza. La diversità non è annullata, ma superata attraverso la funzione del messaggero e quindi conservata come differenza e resa gestibile. Rapportarsi a ciò che è lontano, a ciò che è assente, è una – se non la – fonte della cultura. (2) Eteronomia come parlare con voce estranea: i messaggeri parlano in nome di un altro. Il messaggero non è causa del suo fare: parla con voce straniera, svolge un ruolo il cui copione non ha scritto egli stesso. Questa posizione discorsivamente impotente appare come un’impronta negativa di quella sovranità del soggetto parlante che sta alla base della teoria filosofica degli atti linguistici. La filosofia è praticamente nata dal rifiuto del modello del messaggero: la critica di Platone al rapsodo è sempre anche una critica a colui che intende il suo discorso solo come discorso del messaggero. Ma non emerge proprio in ciò il valore culturale del teatro? Il tratto distintivo dell’umano sta davvero solo nel parlare in nome proprio o non anche nel poter parlare con la voce di un altro e per un altro? Non era questo il significato originale di “rappresentanza”: agire in nome e per conto di un altro? Ovunque si tratti di medialità, l’eteronomia del mediale, ovvero la sua “esternalità”, costituisce un tratto fondamentale. (3) La terzietà come cellula germinale della società: il messaggero crea una relazione sociale. La posizione mediana tra due parti inaugura una for7 Traduco Mitteilung letteralmente con “con-divisione” per mantenere il gioco evocato dall’autrice enfatizzando il trattino divisorio tra mit e Teilung – sebbene il termine sia qui inteso nel senso specifico di “comunicazione”. [N.d.T.]
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ma triadica di relazione nella quale il messaggero è essenziale senza esserne il soggetto e l’autore. Modelliamo le strutture sociali, cioè le relazioni intersoggettive, per lo più in forma diadica: come parlante e ascoltatore, ego e alter ego, servo e signore, mittente e destinatario, emittente e ricevente. L’emergere di un terzo appare disturbante e parassitario. Ma con il passaggio alla dimensione di un terzo – questa è la nostra ipotesi – viene raggiunto per la prima volta quel livello in cui le interazioni si condensano (possibilmente) in istituzioni sociali. La terzietà – e non la dualità – forma la cellula germinale della socialità8. Se è così, diventa anche chiaro che le due parti tra le quali si vuole stabilire una connessione acquisiscono le loro caratteristiche essenziali solo all’interno della relazione triadica. (4) Neutralità e deragliamento diabolico: la neutralità è la radice dell’ufficio del mediatore; l’indifferenza verso le parti da mediare sembra un imperativo. Il messaggero realizza il suo mandato attraverso una sorta di spersonalizzazione e di auto-neutralizzazione9. Ma questa posizione mediana rimane ambivalente, poiché nella posizione di terzo il messaggero non collega solamente, ma allontana al tempo stesso; può interrompere e creare dissidio, seminare lite e ordire intrighi. La mediazione ha un doppio volto: può essere simbolica, cioè mettere in comune (dal greco “symballein”, mettere insieme, mettere in comune), oppure diabolica, cioè dividere. Il deragliamento diabolico è genuinamente inscritto nella funzione di terzietà e neutralità del messaggero. (5) Rendere percepibile l’invisibile: l’“inautenticità” del discorso del messaggero rinvia al fatto che il messaggero, nel dire qualcosa, prima di tutto mostra qualcosa; con il suo discorso presenta il discorso di un altro. Il messaggero non è semplicemente un’istituzione della comunicazione verbale, ma piuttosto del rendere visibile qualcosa che non è presente bensì assente e invisibile. Nell’orizzonte del modello del messaggero, il rendere percepibile, cioè mostrare, diventa la determinazione fondamentale del funzionamento mediale. Comunicare significa anche rendere percepibile qualcosa all’altro. (6) Materialità come incarnazione: qualunque cosa sia un messaggio, deve poter essere sciolto dalla situazione e trasportato. Come parte del continuum della materialità, il messaggero si muove nell’intervallo della spinta verso il senso. L’esteriorità del significato costituisce la base della sua operazione. La trasmissione è possibile solo in virtù della scissione 8 9
Cfr. (Fischer 2000; 2004). Ci asteniamo qui da una discussione critica del concetto artistico-filosofico di “trasfigurazione” di (Danto 1984).
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tangibile di senso e sensibilità, testo e trama, forma e contenuto. Nel messaggero s’intrecciano incorporazione e scorporazione. La materialità della comunicazione acquista in esso una forma tangibile. (7) Indifferenza ontologica: nella sua funzione di trasmissione, il messaggero può essere sostituito da entità non personali, cioè sistemi e apparati simbolici o tecnici. Niente è così tecnicamente trasferibile come la funzione della trasmissione stessa. Inteso in termini personalizzati, il messaggero è una persona che si comporta come fosse un apparecchio o un foglio scritto. L’onnipresente funzione di messaggero delle culture digitalizzate è costituita dall’“interfaccia”. La differenza ontologica tra persone, segni e macchine si confonde; il confine tra personale, simbolico e tecnico diventa operativamente permeabile. Nel modello del messaggero, lo “status di attore” è sempre assegnato a conglomerati di persone, simboli e apparati. È perciò esclusa un’interpretazione antropomorfica del messaggero: il modello del messaggero non è una ri-personalizzazione del medium. (8) Mediazione come potenziale trasfigurativo: in contrapposizione a una visione statica, nella quale ci sono due entità/campi/parti preconfezionate, più o meno fisse, il cui nesso è creato dal mandato (Botengang), si deve sottolineare: nell’atto di mediazione, coloro tra i quali si deve mediare subiscono una modificazione fondamentale. E questo vale anche per ciò che viene trasmesso nel modo del “mandato”. La mediatizzazione evoca una trasformazione che ha luogo in qualcosa che non è genuinamente (ex nihilo) creato dal medium, ma che è alterato in modo decisivo nel processo di mediatizzazione. Descriviamo questa trasformazione con il termine “trasfigurazione”. 6. Trasfigurazione Il tentativo di evitare l’ipostatizzazione di un ruolo costitutivo, costruttivo o causale dei media attraverso una comprensione della medialità nei termini del mandato, non oscura la visione dell’importante potere formativo dei media, addirittura “buttando il bambino con l’acqua sporca”? Come si può tematizzare adeguatamente il ruolo dei media, nel loro atto di presentare un contenuto, configurando quest’ultimo risolutamente nella cornice del modello del messaggero? Il fatto che i media, ritraendosi nell’atto del loro utilizzo, appaiano come se fossero trasparenti rispetto al loro contenuto e lo portino alla luce nel modo più indisturbato e immutato possibile, non significa che questo contenuto sia sottratto alla messa in forma (Formgebung) mediale. Ma come si può descrivere e spiegare questo potere trasfor-
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mativo del medium nel contesto di un modello del messaggero? Come si manifesta la “messa in forma mediale”? È il concetto di trasfigurazione a indicarci qui la via. Nella sua ascendenza religioso-spirituale, la parola indica un medium che assume le caratteristiche di ciò che trasmette. Si tratta di una metamorfosi in cui un medium sembra trasformarsi in ciò che viene mediato. Cristo è considerato come il mediatore tra gli esseri umani e Dio. La trasfigurazione biblica10 trasforma Gesù in qualcosa di immediatamente divino per i presenti. Questo ispira anche la rappresentazione pittorica della trasfigurazione: la Trasfigurazione di Raffaello mostra come la metamorfosi della forma umana di Cristo in qualcosa di sovrumano si realizzi come un processo di visibile diventar-altro; il suo corpo rapito e fluttuante nell’ultraterreno, circondato da una luce scintillante, che abbaglia gli astanti. Gesù non è più un essere umano, ma è diventato Cristo, incarna un’entità celeste, divina. La trasfigurazione intesa come scena religiosa può essere commentata prosaicamente in termini di teoria dei media: “trasfigurazione” è un altro termine per l’anestetizzazione del medium-in-uso. Il medium sfuma la propria esistenza fisica per far apparire, ritraendosi, un’altra esistenza nell’atto di mediazione. E cosa potrebbe incarnare meglio questo potere trasformativo se non una trasformazione letterale del medium nel modo d’esistere di ciò che trasmette? Tuttavia – ed è questo che rende per noi interessante il concetto di “trasfigurazione” – una trasfigurazione non cancella la figurazione mediale, ma la conserva come traccia. Nel quadro della Trasfigurazione di Raffaello, riferito alla scena biblica, la corporeità di Cristo rimane – sebbene in sospeso – mentre Dio non ha corpo. La disposizione cruciforme delle sue membra ricorda al tempo stesso la postura della successiva crocifissione, sintomo della prefigurazione di un evento futuro che – ciò che conta nella visione cristiana – si compirà nella fisicità e corporeità del medium e non nella sua (immortale) divinità. La nostra domanda era: in che modo, nel quadro del modello del messaggero, si può descrivere il fatto che il medium non trasmette semplicemente il suo contenuto nell’atto della trasmissione, ma piuttosto lo forma e lo condiziona? Una risposta può esser fornita dal concetto di trasfigurazione: il medium si mostra nel contenuto trasmesso sotto forma di traccia. Le tracce sono trasformazioni del visibile nel modo di una latenza: questa latenza deve essere resa esplicita e manifesta, cioè identificata, letta e interpretata da coloro che si interessano alla scoperta delle tracce. Nel processo 10 Scena narrata da tre Apostoli nei Vangeli: Luca 9:28-36, Marco 9:2-9; Matteo 17:1-8.
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di lettura delle tracce ci imbattiamo in una funzione di inversione del mandato: i lettori di tracce si comportano come fossero i destinatari di qualcosa il cui mittente deve essere prima ricostruito. Tale ricostruzione della traccia del medium nel contenuto presentificato è un atto di epistemologia critica del mediale. Nell’uso dei media vediamo “solo” il contenuto; è soltanto invalidando l’uso nel corso della riflessione critica che la logica intrinseca e la caparbietà del medium diventa del tutto riconoscibile. Intendiamo delucidare queste riflessioni in base a due scenari mediali. (1) La relazione tra il linguaggio e la scrittura alfabetica illustra cosa significa che il medium della scrittura assume la forma del linguaggio senza essere genuinamente un linguaggio. (2) La relazione tra carta e territorio illustra cosa significa che una filosofia critica della medialità emerge non nell’uso delle carte stesse, ma soltanto nella loro revoca. 7. Epistemologia critica della medialità I: critica della teoria del linguaggio È quasi un luogo comune interpretare la scrittura alfabetica come scrittura fonetica in quanto trasferisce il flusso temporale del linguaggio parlato in una successione spaziale di lettere. Come testo, la scrittura alfabetica diventa una lingua orale immobilizzata. Persino il manuale Schrift und Schriftlichkeit. Writing and its Use definisce la scrittura come la trascrizione del linguaggio parlato (Günther e Ludwig 1994, p. VIII). Eppure questa interpretazione fonetica della scrittura alfabetica è insufficiente: le scritture sono sistemi di segni genuinamente visivi, a volte anche tattili, che – diversamente dal continuum vocale – operano sempre con la bidimensionalità della superficie e, inoltre, in quanto utilizzano il registro dell’ordine destra/sinistra e su/giù, non sono affatto organizzate solo linearmente. Le scritture possono rappresentare le lingue orali, ma non sono costrette a farlo: le scritture della logica e della matematica, e con esse tutti i sistemi formali, la notazione musicale e della danza, così come tutti i linguaggi di programmazione, sono sistemi di scrittura indipendenti dalle lingue parlate, che in casi eccezionali possono anche essere pronunciati. L’alfabeto stesso deve la sua diffusione culturale, non da ultimo, alle sue funzioni indipendenti dalla lingua parlata: esso è una macchina di smistamento mediante la quale grandi quantità di dati – come gli elenchi telefonici, i dizionari, i cataloghi delle biblioteche – possono essere ordinati e consultati con chiarezza; con l’algebra letterale l’alfabeto diventa anche un sistema di segni matematici che, come algebra simbolica, permette di esprimere le regole numeriche in modo universalmente valido.
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Qui, tuttavia, ci limitiamo alla relazione tra la lingua colloquiale e la scrittura, che in rapporto alla scrittura alfabetica si determina in modo tale da rimandare, come sistema segnico secondario, alla lingua orale quale suo sistema primario. La scrittura – almeno secondo l’opinione comune – non solo rappresenta il linguaggio orale, ma è una forma di linguaggio, e non per esempio un’immagine11. È proprio per questo che il concetto di trasfigurazione è rivelatore: il medium assume la forma di ciò che trasmette. Mentre, però, la scrittura alfabetica in quanto scrittura fonetica compie questa metamorfosi, ciò che il linguaggio a sua volta è si modella secondo attributi che sono in effetti quelli della scrittura, ma in nessun modo del linguaggio orale. Pochi cenni frammentari possono spiegare il fatto che (e il modo in cui) il mezzo della scrittura si infiltra e impregna il nostro concetto di linguaggio12. (i) L’idea stessa di una verbalità sciolta dalla prosodia, dalla mimica, dal gesto e dalla deissi come una forma autonoma di comunicazione chiamata “#lingua” evoca l’interporsi della scrittura fonetica: il gesto reificante con cui il “linguaggio” viene stilizzato in un oggetto solitario e al tempo stesso universale trova la sua base di evidenza, osservabilità e analizzabilità solo nel presentarsi di testi scritti. (ii) I fonemi, come unità ultime, indivisibili del linguaggio non si possono affatto distinguere nel flusso del discorso, ma sono a loro volta proiezioni della struttura del grafema sull’evento sonoro. In questa prospettiva, il fonema come unità linguistica più piccola è un’eredità del grafema. (iii) Inoltre, l’assunzione di una sistematicità del linguaggio – ovvero l’idea che un numero limitato di elementi fondamentali siano combinati e ricombinati secondo regole – è ricavata dal modello del principio di costruzione delle scritture artificiali, ma non dal modello del linguaggio “naturale”, che cambia costantemente a ogni espressione. (iv) Anche gli intervalli tra parole e frasi non hanno una controparte nel discorso – che conosce pause (di respirazione), ma non segue segmentazioni grammaticali. La discriminabilità di singoli pensieri identificabili si deve alla forma scritta con le sue lacune e spazi vuoti. (v) Infine, l’attributo della grammaticalità, che ci permette di discriminare tra frasi “corrette” e “scorrette”, è un prodotto del potere normativo 11 Il concetto di “figuratività scritturale” (Schriftbildlichkeit), (Krämer/Cancik-Kirschbaum/Totzke 2012, pp. 13-38) spiega il carattere ibrido della scrittura come connessione di attributi discorsivi e iconici. 12 Sull’esplicazione scientifico-linguistica di questo fatto cfr. (Günther 1995) e (Stetter 19992).
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della lingua scritta, con – ad esempio – le sue distinzioni ortografiche tra maiuscole e minuscole o di punteggiatura. L’immagine scritturale espone ciò che è privo di modello nell’immagine fonetica. In questo orizzonte, l’irritante affermazione di Jacques Derrida secondo cui la scrittura precede il linguaggio non è affatto assurda: il linguaggio come entità nel senso di una struttura sistemica universale è il risultato della performanza della scrittura alfabetica. Ciò che qui indichiamo in una prospettiva linguistica si applica anche ai concetti filosofici del linguaggio. Non poche filosofie del linguaggio (ma naturalmente non tutte) aderiscono alla predilezione aristotelica del discorso apofantico, enfatizzando così la proposizionalità, sistematicità e rappresentazionalità del linguaggio e determinando l’argomentazione e la giustificazione come contrassegni primari del nostro rapporto linguistico con il mondo e persino come terreno nativo della comunicazione linguistica. Tanto le teorie della comunicazione quanto le teorie degli atti linguistici seguono il principio di rendere i singoli atti comunicativi o linguistici filosoficamente comprensibili come istanziazioni di un insieme di regole dell’agire linguistico che possono essere esplicitate quali norme della comunicazione efficace. Il sistema di queste regole precede la processualità della loro applicazione13. Tuttavia, una tale relazione tra il basarsi su regole o convenzioni precedenti e l’applicazione (più o meno) riuscita ribadisce un principio che è inerente alla costruzione di sistemi artificiali di scrittura, ma non alla lingue colloquiali “naturali”. Solo la sedimentazione degli usi linguistici nei testi permette la stilizzazione delle teorie delle strutture linguistiche così come le teorie filosofiche dell’azione linguistica. Il fatto, però, che sia il medium della scrittura a produrre e rendere plausibile una concettualizzazione proposizionale-rappresentazionale-regolare del linguaggio è rimasto quasi nascosto, malgrado la testualità costituisca il terreno nativo di tutto il lavoro filosofico e scientifico; fino a quel momento dell’ultimo terzo del secolo scorso in cui la medialità nascosta del linguaggio è stata resa tematica ed esplicita anche nella ricostruzione della distinzione tra oralità e letteralità. Eppure, la filosofia (con poche eccezioni) non ha seguito questa esplicitazione della traccia del medium scritturale nel concetto di linguaggio. Tuttavia, una filosofia del linguaggio che ignori la differenza tra i mezzi di scrittura e la voce in riferimento alle possibilità d’uso del linguaggio, resta insufficiente. Sono le forme della sua esistenza mediale che determinano ciò che possiamo fare con e nel linguaggio.
13 Cfr. al riguardo (Krämer 2001).
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8. Epistemologia critica della medialità II: critica della cartografia Quando usiamo le carte come strumenti di orientamento – qui nel senso di carte escursionistiche, atlanti stradali o mappe cittadine che registrano un territorio reale –, esse costituiscono un mediatore tra una conoscenza cartografica collettiva e un progetto di mobilità ogni volta individuale. I percorsi possono essere pianificati in anticipo e, se sul luogo riesce un’indessicalizzazione, la carta può essere utilizzata per trovare un percorso effettivo. Nello svolgimento di questo ruolo pratico-orientativo non c’è quasi alcuna riflessione sulla logica intrinseca di una carta: piuttosto, la rappresentazione cartografica è seguita come istanza di rappresentazione di un reale. Essa è trattata come fosse una “finestra trasparente” per la visione d’insieme e l’individuazione del percorso. Solo una disfunzione, una rottura tra l’immagine della carta e la reale esperienza di movimento attira l’attenzione sulla fatticità tecnico-culturale e quindi sulle possibili tortuosità della mappatura. Nell’uso, invece, rimaniamo di solito ciechi alla medialità della carta, sebbene le sue tracce siano inequivocabilmente presenti e massimamente degne di nota. In cosa consistono queste tracce della medialità – pensate ancora nel modello della carta topografica? Le carte come proiezioni bidimensionali di mondi tridimensionali incarnano un paradosso: qualsiasi fedeltà nella raffigurazione strutturale di certe condizioni geografiche si deve pagare con l’infedeltà rispetto ad altre proprietà. La carta di Mercatore, ad esempio, è una carta angolarmente accurata del mondo e uno strumento di navigazione insuperabile per raggiungere in sicurezza i porti di destinazione attraverso oceani privi di segni. Tuttavia, la precisione angolare ha il prezzo di una distorsione dell’area, nella quale le distanze tra le latitudini sono costrette a crescere verso i poli, così che la loro estensione superficiale viene notevomente aumentata rispetto alle aree vicine all’equatore. Lo sappiamo: la Groenlandia appare grande quasi quanto l’Africa. Questa distorsione non è un’appropriazione geografica eurocentrica, ma una condizione necessaria per la funzione di navigazione di una proiezione di Mercatore. Infatti, per principio l’appiattimento cartografico non può darsi senza distorsione; quale deformazione scegliere tra le varie possibili dipende dallo scopo della mappatura. Una carta di Arno Peters del 198314, ad esempio, che è fedele all’area ma non agli angoli, mostra l’estensione delle superfici terrestri senza distorsioni; in quanto, però, la fedeltà angolare nel rapporto latitudine/longitudine è omessa, questa mappa è utile per chiarire le implicazioni della proiezione 14 Cfr. (Peters 1983).
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di Mercatore e per offrire un’immagine più realistica dell’estensione delle aree continentali, ma è del tutto inadatta come strumento di navigazione. Osserviamo così che nell’uso per orientarsi la carta è trattata come se trasmettesse una veduta di un territorio rappresentato cartograficamente. Una riflessione critico-mediale, però, rivela qualcos’altro: ciò che viene mostrato nella carta non è un territorio, ma la conoscenza di un territorio relativamente allo scopo pragmatico della carta. A presentarsi non è una cosa, bensì una “cosa epistemica”15, configurata attraverso procedure selettive di proiezione, schematizzazione e astrazione. L’uso della carta, in cui conta il contenuto della stessa, va distinto dall’analisi e dalla riflessione sulle convenzioni e sulle pratiche geografiche di rappresentazione. Le condizioni logico-matematiche, tecnico-culturali e storico-politiche della produzione cartografica si sedimentano nelle carte. È compito di un’epistemologia critico-mediale della cartografia esporre, analizzare e commentare criticamente questi sedimenti come tracce del medium nel contenuto cartografico. Nel discorso della cartografia, due narrazioni competono per l’interpretazione “corretta” delle carte16: nella narrazione della “carta trasparente”, le carte sono considerate come rappresentazioni esatte di un territorio in senso naturalistico-realistico. La carta diventa un messaggero neutrale di informazioni cartografiche e incarna l’ideale dell’oggettività scientifica: il mondo mostrato dal punto di vista dell’osservatore esterno, nella “vista da nessun luogo”. Nella narrazione della “carta opaca”, le carte sono considerate nel senso strumentale-costruttivista, in associazione alle condizioni tecniche, sociali e politiche della loro produzione, non come uno strumento per la rappresentazione di un territorio, ma per la sua produzione. Decifrare le tracce della produzione cartografica significa trattare la carta come uno strumento di potere da decostruire. Per una ricostruzione filosofico-mediale di questo dibattito, tuttavia, è chiaro che l’interpretazione trasparente-realista e quella opaco-costruttivista non sono disgiunte tra loro, ma tematizzano due forme diverse di utilizzo delle carte17: l’interpretazione realista corrisponde alla trasformazione trasfigurativa della carta in ciò che è rappresentato, che avviene usando praticamente la carta e seguendo più o meno ciecamente le direttive. L’interpretazione costruttivista corrisponde al confronto critico con il relativismo delle rappresentazioni cartografiche, un atteggiamento che 15 Sulla base di (Rheinberger 2001). 16 Cfr. (Jacob 1975). 17 Cfr. (Krämer 2008, pp. 298-330).
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– tuttavia – presuppone la rinuncia all’uso effettivo delle carte come mezzi di navigazione (ricordando alla lontana la metodologia husserliana dell’epochè). La trasparenza e l’opacità delle mappe, la rappresentazionalità e la relatività non si escludono a vicenda, ma si includono piuttosto reciprocamente: questa è l’essenza di una riflessione sul fenomeno cartografico nella prospettiva della medialità. Un’epistemologia critica della carta ispirata in senso filosofico-mediale conterrà anche una risposta alla questione filosofica fondamentale del rapporto tra realismo e relativismo? (Traduzione dal tedesco di Federica Buongiorno) Riferimenti bibliografici Aristotele 2001 L’Anima, a cura di G. Movia, Bompiani, Milano. Descartes, R. 2001 Il discorso sul metodo e la nuova geometria, White Star, Milano. Engell, L. e Vogl, J. 2000 Vorwort, in C. Pias, J. Vogl e L. Engell (a cura di), Kursbuch Medienkultur: Die maßgeblichen Theorien von Brecht bis Baudrillard, Deutsche VerlagsAnstalt, Stuttgart, pp. 8-11. Fischer, J. 2000 Der Dritte. Zur Anthropologie der Intersubjektivität, in W. Eßbach (a cura di), wir / ihr / sie. Identität und Alterität in Theorie und Methode, Ergon, Würzburg, pp. 103-138. 2004 Figuren und Funktionen der Tertiarität. Zur Sozialtheorie der Medien, in J. M. e M. K. Schäffauer (a cura di), Massenmedien und Alterität, Vervuert Verlagsgesellschaft, Frankfurt a. M., pp. 78-86. Groys, B. 2000 Unter Verdacht: Eine Phänomenologie der Medien, Carl Hanser, München, Wien. Günther, H. 1995 Die Schrift als Modell der Lautsprache, in “Osnabrücker Beiträge zur Sprachtheorie”, 51, pp. 15-32. Günther, H. e Ludwig, O. 1994/1996 Schrift und Schriftlichkeit. Writing and Its Use. Ein interdisziplinäres Handbuch, De Gruyter, Berlin-New York.
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Commento introduttivo a Lacan e la scienza moderna di Jean-Claude Milner Marco Ferrari 1. C’è una teoria della scienza in Lacan “C’è una teoria della scienza in Lacan”. È con questa affermazione dai tratti tanto perentori, quanto provocatori – se ci assestiamo sulla maniera con cui una certa vulgata è solita pronunciarsi riguardo al profilo dello psicoanalista francese (Sokal e Bricmont 1998; tr. it. 1999, pp. 31-46) e più in generale della psicoanalisi (Meyer 2005; tr. it. 2006) – che si apre il testo di Jean-Claude Milner che ci accingiamo a presentare. Figura poliedrica1, quando scrive Lacan e la scienza moderna, Milner è noto innanzitutto come linguista. Un linguista sui generis, per molti versi. Lo si potrebbe definire – prendendo in prestito una sua stessa espressione – un “linguista desiderante”, dimezzato – come il visconte calviniano – tra una “preoccupazione epistemologica” concernente lo statuto della scienza linguistica, che si trovava, in quegli anni, a fare i conti con l’eredità strutturalista saussuriano-jakobsoniana, da un lato, e il più recente apporto generativotrasformazionale chomskyano, dall’altro (Milner 1989 [ISL]), e quello che lui stesso definiva un “desiderio del linguista in quanto tale” (Milner 1978; tr. it. 1980 [AL], pp. 11 e 13), indirizzato, piuttosto, all’“impensato della linguistica come scienza” (Milner 2011 [CT], p. 11) – un impensato che poteva assumere varie forme (le poesie per Jakobson, gli anagrammi per Saussure…) e che a lui, nello specifico, era stato reso potentemente visibile dall’incontro con la psicoanalisi. È a cavallo della medesima contraddizione – provando a fare i conti con i differenti volti che può assumere l’interazione fra i suoi estremi – che diventa, a nostro avviso, massimamente produttivo rileggere questo testo di Milner, anche alla luce della sua produzione anteriore e posteriore. Una contraddizione che, beninteso, non 1
Per un auto-inquadramento generale, si vedano Milner, Banfield e Heller-Roazen 2010 e CT.
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riguarda più solamente la scienza linguistica e i suoi impensati, ma, più estesamente, la scienza “al singolare” (Milner 2012, p. 230) – la scienza moderna, galileiana – e il suo impensato. Un impensato che, secondo Milner, Lacan consentiva di circoscrivere (CT, p. 11) e a partire dal quale, solo, a nostro avviso, diventa sensato individuare il “nodo tra la psicoanalisi e la scienza moderna” (Milner 2008; tr. it. 2009 [PS], p. 124) e riproporre, a partire da esso, “il quesito – che fu dello psicoanalista francese e interessa al massimo grado questa antologia – che va da: la psicoanalisi è una scienza? a: che cos’è una scienza che includa la psicoanalisi?” (I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Resoconto del seminario del 1964, in Lacan 2001; tr. it. 2013, pp. 187-189, qui p. 187). 2. Una teoria della scienza moderna Scienza “al singolare” – la cui “nascita giustifica il singolare” (Miller 1966) –, scienza moderna, galileiana – dicevamo. Alla luce di queste specificazioni, l’affermazione secondo cui “c’è una teoria della scienza in Lacan” si arricchisce di significato. La teoria della scienza ricavabile dall’opera di Lacan (Milner 1995; tr. it. 2019 [OC], pp. 19-38) è una teoria della scienza moderna – l’emergenza della quale ha reso possibile la comparsa della psicoanalisi e ha “fornito” a quest’ultima il soggetto su cui essa opera (La scienza e la verità, in Lacan 1974, tr. it. 2002, pp. 859-882). Da cosa si riconosce questa scienza moderna? Quali sono i suoi tratti distintivi? Gran parte dello sforzo ermeneutico di Milner in questo testo – e nel più noto ampiamento monografico che gli succederà pochi anni dopo, L’opera chiara. Lacan, la scienza, la filosofia – procede proprio dal tentativo di fornire una risposta a questa domanda e trarre da essa una serie di conseguenze in relazione alla riflessione di Lacan, alla psicoanalisi e alla filosofia. Attraverso un’apprensione estremamente originale della riflessione dello psicoanalista francese e delle sue fonti – Koyré e Kojève –, Milner arriva a identificare nella letteralità e nella contingenza i tratti singolari a partire dai quali l’emergenza della scienza moderna si è resa riconoscibile. E tuttavia, affinché sia possibile attribuire a questi ultimi un significato preciso, è necessario identificare all’altezza del discorso della scienza moderna una rottura rispetto al discorso dell’episteme antica – che temporalmente lo precede2. Se 2
Concentriamo volutamente l’attenzione sul termine “discorso” per sottolineare la natura non-storicista della tesi di Milner. Episteme e scienza – sebbene sia possibile rintracciare le loro “figure storiche” – sono innanzitutto configurazioni discorsive dotate di proprietà specifiche (OC, pp. 48-52 e 59-66).
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per l’episteme antica non può esserci scienza che dell’eterno e del necessario – vale a dire di ciò che non può essere altro da quello che è –, per la scienza moderna, “non c’è scienza che del contingente”, vale a dire di ciò che – logicamente e materialmente – può sempre essere altro da quello che è. La lettera – dispositivo specificamente moderno – dichiara Milner, facendo dialogare ereticamente Popper e Lacan, Kripke e Mallarmé, non consiste in nient’altro che nel cogliere il contingente in quanto contingente3. Nell’atto della sua fissazione precipitano la contingenza di quanto può sempre essere altro da quello che è; la necessità che, una volta che la lettera lo ha fissato, esso non sia altro da quello che è; infine, di converso, l’impossibilità che esso possa essere altro da quello che è4. È all’interno di questo universo dischiuso dall’emergenza della scienza moderna – un universo contingente e infinito, in cui non c’è posto per l’eternità e la finitudine (e le sue figure: Dio, anima, Uomo, coscienza, Io…) – che ha potuto apparire la psicoanalisi e in cui i suoi concetti – in primo luogo, quello di inconscio – possono acquisire un senso.
3. Psicoanalisi della Scienza (moderna). I due classicismi di Lacan Di contro, rileva Milner, esistono, all’interno dell’universo dischiuso dalla scienza moderna, tutta una serie di posizioni che fungono da resistenza rispetto ai tratti distintivi di quest’ultima. Tale è, generalmente, 3
4
Il fatto di rilevare nella lettera e non semplicemente nella matematizzazione – la lettera matematica che della prima costituisce una delle tante possibili declinazioni – il tratto distintivo della scienza moderna costituisce forse l’aspetto di maggiore originalità della proposta milneriana rispetto a quella di Koyré. Tale ampliamento gli consente, da un lato, di evidenziare il ruolo assolto dall’umanesimo fiorentino nella nascita della scienza moderna; dall’altro, di minare la distinzione – ancora persistente all’interno della diagnosi koyréiana– tra physei e thesei, natura e convenzione, e, così facendo, di dimostrare l’appartenenza delle cosiddette scienze umane (linguistica, antropologia, psicoanalisi…) – riformate alla luce di quella “nuova figura della scienza moderna” (OC, p. 125) che fu lo strutturalismo –, al discorso della scienza, sotto l’egida del cosiddetto galileismo esteso (PS, pp. 165-221). Se la necessità nomina “l’oblio della contingenza”, l’impossibilità nomina la sua ek-sistenza/in-esistenza, ovverosia la sua insistenza nella forma di un’assenza più presente della presenza. È ciò, a nostro avviso, che fa dire a Milner che l’impossibile è il “nocciolo reale” della contingenza. A sancire l’irreversibilità della processione modale contingenza-necessità-impossibilità – l’inopportunità del ritorno della contingenza, da un lato, e la radicalità del suo oblio, dall’altro – sono altri due concetti fondamentali della psicoanalisi lacaniana: sutura e forclusione.
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lo spazio occupato dalla filosofia. La morte come marca della finitudine heideggeriana, la strategia trascendentale kantiana, il logicismo fregeano assolvono esattamente questo compito, traducibile nel tentativo di “salvare la ricerca greca dello Stesso” nei limiti dell’universo della scienza. Anche lo strutturalismo e la teoria (iperstrutturalista) del significante di Lacan (nonché la “metafisica moderna” e l’“ontologia formale” (OC, p. 113) promosse, a partire da quest’ultima, dai Cahiers pour l’Analyse, sotto le insegne della logica del significante5) incorrono, secondo Milner, nel medesimo rischio, istruendo una nuova strategia trascendentale, distinta da quella kantiana solamente nella misura in cui prende in conto tutti i fenomeni che Kant aveva ignorato6. Per quanto concerne Lacan, tale rischio è particolarmente percepibile nella prima fase della sua riflessione – che, ne L’opera chiara, Milner ha ritagliato a partire dal Discorso di Roma e denominato primo classicismo lacaniano –, ma non esaurisce il “tutto dottrinale della psicoanalisi”. Esisterebbe un secondo classicismo lacaniano in cui la psicoanalisi si riconfermerebbe “la dottrina dell’Universo infinito e contingente” che non ha mai cessato di essere. Il suo perno è il Seminario XX e al suo interno la lettera si diversifica dal significante e diviene un’oggetto teorico autonomo. Essa si scolla, inoltre, dal retroterra trascendentale in cui il primo classicismo l’aveva collocata e torna a dare forma all’“incessante ritorno del contingente, dell’infinitamente contingente, senza il quale il dispositivo d’insieme scivolerebbe nel trascendentale nudo”7. Testimoni “non di una scienza riuscita ma delle faglie che la fendono” (PS, p. 124), le lettere hanno valore non nella misura in cui “si sommano in un corpo di scienza”, ma in “ciò che articolano di sospensivo, vale a dire di impossibile”, confermando i tratti di quella che, secondo Milner, rappresenta la reale prassi distintiva della scienza moderna: “disfare e ricomporre in maniera interamente inedita, incessantemente precaria e rilanciata, le parti dell’immutabile e del transeunte” (OC, pp. 136, 135 e 69). Rivista del Cercle d’épistémologie dell’ENS di cui Milner fu membro fondatore. Per un inquadramento di tale esperienza, anche in relazione ai contenuti di questo testo e a L’opera chiara, cfr. Milner 2012. 6 Essa si fonda su un doppio minimalismo: i) epistemologico, che si traduce nella fondazione di ogni scienza su “un numero minimale di assiomi e di concetti iniziali”; e ii) ontologico (forzando un po’ il lessico milneriano), che si traduce nella riduzione di ogni oggetto/realtà a “un sistema al quale viene attribuito il minor numero possibile di [elementi e] proprietà” invarianti (OC, pp. 101 e 105). 7 Tale ritorno del contingente dev’essere, a nostro avviso, inteso nella stessa maniera in cui Lacan affermava che ciò che è forcluso nel Simbolico, ritorna nel Reale. 5
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4. Una scienza che includa la psicoanalisi. Due soli o molti classicismi? Così facendo, la psicoanalisi sembrerebbe reclamare l’attenzione, (d)all’interno dei confini della scienza moderna, su quegli elementi di contingenza e impossibilità che essa, per delle ragioni strutturali, presuppone e consegna all’oblio (Chiesa 2010). È nostra convinzione – con e contro Milner – che essa faccia di più e che questo “fare di più” converga in direzione di alcune questioni fondamentali tanto di questa antologia, quanto della sezione specifica che ospita questo testo. Ne L’opera chiara, dopo avere illustrato i caratteri distintivi del secondo classicismo lacaniano, Milner afferma che anch’esso “si è concluso e che non è stata l’ultima parola” di Lacan (OC, p. 175). Gli sarebbe succeduta quella che Milner definisce decostruzione. Se il secondo classicismo portato all’estremo consentiva di mettere la scienza moderna di fronte al proprio impensato, la decostruzione sancirebbe il farsi largo di tale impensato e, al contempo, dell’impossibilità di pensarlo. Tale impossibilità decreterebbe il divorzio tra Lacan e la scienza. La psicoanalisi diverrebbe, così, epistemologicamente priva di interesse ed epistemicamente incapace di rivendicare una qualche scientificità. Sebbene non manchino, all’interno dell’ultimissima fase della riflessione di Lacan, gli elementi per suffragare una posizione come quella di Milner, vorremmo perlomeno sottoporre alla lettrice e al lettore l’eventualità di una lettura differente. È nostra convinzione, infatti, innanzitutto, che la fase più estrema della riflessione di Lacan non segni un cambio di rotta rispetto a quelle che la precedono, ma costituisca piuttosto la risoluzione dialettica delle instabilità presenti in queste ultime8. La qual cosa non comporta un indietreggiare del pensiero rispetto al proprio impensato – in direzione di un tacere e un mostrare di matrice wittgensteiniana –, ma piuttosto uno sforzo ulteriore di avere a che fare con esso, che precipita in una maniera differente di collocarlo all’interno del discorso della scienza. Nel caso di Lacan, questo ha significato provare a collocare – agendo sul piano della scienza psicoanalitica, ma rendendo possibile, al contempo, trarre da ciò delle conseguenze riguardo la scienza in generale – l’impossibile e il contingente all’interno del discorso della 8
Tale atteggiamento è, a nostro avviso, sufficiente a escludere l’adesione di Lacan a un qualche tipo di minimalismo epistemologico. È nostra convinzione, piuttosto, che egli ci fornisca strumenti importanti anche per produrre una disamina critica di quest’ultimo. Siamo ugualmente convinti che anche la categoria di Wissenschaft o sapere assoluto, recentemente sviluppata da Milner (2006; CT, pp. 5060), possa rivelarsi ugualmente utile a tal fine.
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scienza in una maniera differente da quella dell’oblio e delle sue forme: sutura e forclusione. Infatti, sutura e forclusione della contingenza (pilastri più o meno dichiarati di ogni possibile minimalismo ontologico), questa la nostra posizione, implicavano strutturalmente la possibilità della riduzione – una riduzione di tipo nuovo, fondata sull’opposizione e sulla differenza, anziché sulla somiglianza e sull’identità – dell’universo contingente e infinito a un universo composto da strutture dotate di identità permanente e proporzionalità regolare – stabili e più o meno immutabili9. Fare valere i diritti dell’impensato che la psicoanalisi – ma non solo – aveva contribuito a rendere visibile non significava, allora, divorziare dalla scienza, quanto piuttosto dalla morsa delle riduzioni immaginarie (o degli “effetti di miraggio”, per utilizzare un’espressione di Milner) a cui la scienza moderna aveva mostrato di non riuscire del tutto a sottrarsi. Ciò che Milner intravede nell’ultima fase della riflessione di Lacan e che interpreta come una distruzione della lettera (OC, p. 168) – operazione di cui i nodi sarebbero i principali artefici – e, attraverso essa, come una presa di distanza dal discorso della scienza, andrebbe piuttosto interpretata come un’incisione, operata a partire dal reale della scienza moderna, di tutta una serie di concetti su cui a pesare era piuttosto la morsa delle riduzioni immaginarie e che trovavano in una certa declinazione della lettera una compiuta formalizzazione. Per molti versi tale passaggio non sancì nemmeno la distruzione della lettera in quanto tale, ma piuttosto la sua refonte (Pêcheux e Fichant 1969; tr. it. 1975; Balibar 1994) nella forma di un “dirottamento” (OC, p. 170) in direzione del suo nocciolo reale10. L’adozione, ad uso specifico della psicoanalisi, di una formalizzazione in grado, innanzitutto, di organizzare, elucidare e definire le trasformazioni che le invenzioni concettuali di Lacan avevano prodotto all’interno della scienza psicoanalitica. Invenzioni concettuali attraverso cui lo psicoanalista francese aveva provato a fare luce su tutta una serie di processi empirici in cui la necessità non sancisce l’oblio della contingenza, ma piuttosto il suo incessante (ri-)prendere (una) forma (sempre parziale e momentanea) (Balmès 2011, pp. 48-55). Poi, il rilevamento di una formalizzazione 9
Cfr. PS, p. 205: “Spinta al suo limite, la struttura fondata sulla differenza non incontra più che la ripetizione indefinita dello Stesso”. 10 Per le stesse ragioni, ipotizziamo possa costituire ugualmente un errore anche affermare che il nodo cede il passo a “una vera e propria antimatematica” (OC, p. 170). Non potrebbe essere piuttosto indice di una trasformazione della matematica, in una direzione preconizzata da un’affermazione lapidaria dello stesso Milner – “e se Bourbaki fosse morto?” (OC, p. 167)?
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in grado di fornire anche alle altre scienze dell’universo infinito e contingente uno strumento per organizzare, elucidare e definire i propri concetti preservandone, al contempo, la singolarità11. Dunque, non solo, come sostiene apertamente Milner, c’è una teoria della scienza in Lacan, ma, come invitano a pensare alcune tensioni che attraversano la sua opera (AL; Milner 1983; tr. it. 2003) e costituiscono il segno più visibile della sua inesauribile vitalità, essa non ha nemmeno mai cessato di esservi. I suoi sviluppi più tardi sono sia epistemologicamente interessanti, nella misura in cui consentono non solo di pensare una scienza che includa la psicoanalisi (Glynos e Stavrakakis 2002; Burzotta 2007), ma anche il nocciolo reale della scienza moderna sottratto ai suoi scivolamenti immaginari e ideologici; sia epistemicamente decisivi, nella misura in cui è unicamente all’interno del perimetro da essi tracciato che diventa sensato porsi il problema della scientificità della psicoanalisi (Palombi 2002). Riferimenti bibliografici Balibar, É. 1994 Coupure et refonte. L’effet de vérité des sciences dans l’idéologie, in Lieux et noms de la vérité, Éditions de l’Aube, Le Tour d’Aigues, pp. 99-162. Balmès, F. 2011 Structure, logique, aliénation. Recherches en psychanalyse, érès, Toulouse. Burzotta, L. (a cura di) 2007 La psicoanalisi e la scienza, FrancoAngeli, Milano. 11
A differenza della teoria della struttura qualunque – cardine dello strutturalismo, ma anche, potremmo dire, di ogni strategia trascendentale –, infatti, la teoria del nodo “non è una teoria del qualunque” o, meglio, non ne presuppone alcuna, dal momento che “è necessario che ciascun anello sia qualificato” e “[s]e gli anelli sono qualificati, non sono qualunque” (OC, p. 161). Il riconoscimento di tale singolarità esclude definitivamente, a nostro avviso, la plausibilità di un qualsiasi minimalismo epistemologico. A una definizione generale di Scienza – e a una sua fondazione assoluta, generica e aprioristica – sembrerebbe potersi contrapporre, dunque, l’attestazione di una pluralità di scienze e della singolarità dei loro propri oggetti/concetti. Si tratta di una declinazione della pratica scientifica particolarmente valorizzata nelle fila della tradizione epistemologica francese. Tuttavia, perlomeno a nostra conoscenza, malgrado ne abbia certamente accortezza, Milner non si riferisce mai ad essa in questi termini. Fatto per certi versi curioso, che ci limitiamo ad enunciare, è piuttosto mediante il ricorso a Popper – filtrato attraverso la lettura di Chomsky – che Milner afferma di avere “corretto” il minimalismo epistemologico da lui stesso adottato negli anni dei Cahiers. Sul tema, cfr. PS, pp. 208-212 e Milner 2012.
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Jean-Claude Milner
LACAN E LA SCIENZA MODERNA
C’è una teoria della scienza in Lacan. Non è necessario dimostrarlo, dal momento che questa teoria è stata esposta dallo stesso Lacan in vari testi e sviluppata da F. Regnault1. In queste condizioni, il mio progetto sarà il seguente: ammesso che ci sia una teoria della scienza in Lacan – e io penso che essa sia esauriente e nient’affatto banale – domandarsi perché ce ne sia una. Ovviamente possiamo supporre che la risposta a questa domanda dipenda parzialmente da ciò che la teoria stessa è. Dirò dunque qualcosa di quest’ultima, ma al solo fine di fare luce sulle ragioni della sua esistenza. Bisogna partire da Freud. Anche in lui c’è una teoria della scienza. Se ci domandiamo perché ce ne sia una, la riposta è in realtà abbastanza semplice. Essa si trova all’interno di ciò che si è concordi nel definire lo scientismo di Freud2 e che in lui non è nient’altro che un consenso dato all’ideale della scienza: questo ideale da solo basta a fondare il desiderio che la psicoanalisi sia una scienza. Si tratta, infatti, di un punto ideale – esterno o infinitamente distante – in direzione del quale tendono le linee del piano e che, allo stesso tempo, appartiene a tutte e non le incontra mai. Non è la scienza ideale, la quale “incarna” in maniera variabile l’ideale della scienza: determinazione strettamente immaginaria, richiesta affinché delle rappresentazioni siano possibili3. 1
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Si veda il suo libro Dieu est inconscient (Regnault 1985); a cui si aggiungeranno testi più recenti e soprattutto l’intervento pronunciato all’École de la Cause, il 15 ottobre 1989, “Entre Ferdinand et Léopold” [N.d.T. Questa, come tutte le note successive, sono dell’Autore. Le note del traduttore verranno, invece, contrassegnate tramite la sigla N.d.T. e le parentesi quadre]. Un giorno bisognerà spiegare a seguito di quali manipolazioni questa parola sia passata così generalmente per insultante. Ai miei occhi non lo è più di quanto lo siano, per esempio, parole come materialismo, ateismo o irreligione (cito a caso). In ogni caso, è un fatto che Lacan rapporti Freud allo scientismo (cfr., in particolare, La scienza e la verità, in Lacan 1966; tr. it. 2002, pp. 859-882, qui pp. 861-862); anche qualora si fosse trattato per lui di marcare una differenza, non sembra che intendesse con ciò sminuire colui al quale voleva fare ritorno. La disgiunzione-congiunzione tra l’ideale della scienza e la scienza ideale è, con buona evidenza, conforme alla disgiunzione-congiunzione tra ideale dell’io e io
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È vero che le rappresentazioni sono sempre necessarie; in particolare, è inevitabile – quando si rivendica l’ideale della scienza, come faceva Freud – che ci si dia una rappresentazione di ciò che deve essere la scienza, e questa è una scienza ideale. Generalmente, se ne prendono in prestito i tratti da una scienza costituita nel momento in cui si parla; poi, ci si domanda: cosa dev’essere la psicoanalisi per essere una scienza? – e si sono trasformati i tratti in criteri. Allo stesso tempo, si apre la strada a un altro scientismo: non quello dell’ideale della scienza, ma quello della scienza ideale. Freud vi ci si abbandona, prendendo la fisionomia della scienza ideale da altri, ai suoi occhi più qualificati. Citiamo qui Helmholtz e Mach, per limitarci ai più grandi4. È vero che si aggiunge – ricostruibile attraverso i testi freudiani – una teoria trasversale della scienza; non solamente una teoria di ciò che dev’essere una scienza, ma una risposta alla domanda: perché c’è una scienza anziché nessuna scienza? Tuttavia, questa teoria rimane appunto frammentata e non è certo che Freud avrebbe acconsentito a ricomporla, come ha fatto con la sua teoria della religione. Riguardo alla domanda sul perché della scienza, Lacan non fa che riprendere gli aforismi di Freud, che riassume in questa maniera: la scienza è, al momento della sua nascita, una tecnica sessuale5. Nel fare ciò, egli procede con cautela. Così come procede con cautela nel rispondere alla domanda: perché c’è una psicoanalisi anziché nessuna psicoanalisi? In ogni caso, non troveremo, riguardo a queste domande sulle origini, un
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ideale, per come Lacan l’ha articolata, a partire da D. Lagache, nella sua Nota sulla relazione di Daniel Lagache: Psicoanalisi e struttura della personalità (Lacan 1966; tr. it. 2002, pp. 643-681, in particolare pp. 664-679). Da una tale analogia strutturale, è facile trarre gli effetti di miraggio operati dal nome di scienza; essi esistono, devono essere dissipati, ma la scienza non vi si riduce. Un dato fra gli altri: Freud aveva cofirmato, nel 1911, un manifesto che rivendicava la creazione di una società in cui sarebbe stata sviluppata e diffusa una filosofia positivista. Tra i firmatari, troviamo i nomi di E. Mach, D. Hilbert, F. Klein e A. Einstein. L’indicazione è duplice: il fatto che Freud abbia concesso la sua firma dice qualcosa delle sue posizioni in un periodo in cui pubblicava la terza edizione della Traumdeutung, aveva appena fondato l’Internazionale e la Zentralblatt für Psychoanalyse; inoltre, quando si conoscono i filtraggi che solitamente accompagnano questo genere di operazioni, il fatto che il nome di Freud sia stato accettato, o addirittura sollecitato, permette anche di misurare il suo successo sociale in seno all’ambiente positivista di lingua tedesca. Si veda, su questo punto, l’importante introduzione storica fornita da A. Soulez alla raccolta Manifeste du cercle de Vienne et autres écrits (1985, p. 32). Cfr. Lacan 1973; tr. it. 20032, p. 147.
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corpo dottrinale integralmente costituito. La teoria lacaniana della scienza riguarda qualcos’altro. Fedele a Freud sul punto precedente, Lacan si separa da lui sulla questione dell’ideale della scienza: lui non ci crede. Più nello specifico, egli non ci crede per la psicoanalisi. Rispetto a quest’ultima, la scienza non gioca il ruolo di un punto ideale. Essa non è esterna al suo campo; al contrario, essa lo struttura internamente. Ciò è detto nella forma: il soggetto della psicoanalisi è il soggetto strutturato (Lacan dice anche forcluso o suturato) dalla scienza. Tuttavia, non essendo esterna al piano definito dalle linee della psicoanalisi (o non trovandosi infinitamente distante da questo), essa non lo struttura come una regolazione. Non ha dunque senso domandarsi a quali condizioni la psicoanalisi sarebbe una scienza. In altri termini, poiché non c’è un ideale della scienza rispetto alla psicoanalisi, per lei non c’è nemmeno una scienza ideale. La psicoanalisi troverà in se stessa i fondamenti dei suoi principi e dei suoi metodi. Per mostrare che la scienza non funziona come un ideale, Lacan utilizza degli operatori omomorfi agli operatori storici: successione [succession] e rottura [coupure]. Si appoggia così su Koyré piuttosto che su Mach; e su un Koyré corretto da un alquanto storicizzante Kojève. A scopo di chiarezza, è possibile adottare qui i costumi dei geometri, che ragionano per assiomi e teoremi. Ecco i più importanti: – Teoremi di Kojève: 1. Tra il mondo antico e l’universo moderno c’è una rottura. 2. Questa rottura riguarda il cristianesimo. Ovviamente, questi due teoremi riposano su un assioma, che si ritrova in diverse forme in numerosi autori, tra i quali il più recente è Michel Foucault: Ci sono delle rotture. Si noterà che accettare l’assioma non significa necessariamente accettare i teoremi, come testimonia appunto l’opera di Foucault. Detto altrimenti, c’è almeno un altro assioma da restituire; ne ho parlato altrove e non verrà discusso qui. – Teoremi di Koyré: 1. Tra l’episteme antica e la scienza moderna c’è una rottura. 2. La scienza moderna è la scienza galileiana, il cui tipo è la fisica matematizzata. – Ipotesi di Lacan: I teoremi di Koyré sono un caso particolare dei teoremi di Kojève. – Lemmi di Lacan: 1. La scienza moderna si costituisce attraverso il cristianesimo, in quanto esso si distingue dal mondo antico.
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2. Poiché il punto di distinzione tra cristianesimo e mondo antico deriva dall’ebraismo, la scienza moderna si costituisce attraverso ciò che vi è di ebraico nel cristianesimo6. Si sviluppa così un vocabolario della periodizzazione e, nello stile neohegeliano di Kojève, un vocabolario di messe in relazione massicce. Tramite questo vocabolario, i più astuti non hanno difficoltà ad articolare una delle possibili risposte alla questione di sapere perché Lacan costruisca una teoria della scienza. Non è – diranno loro – per scientismo, poiché Lacan non crede all’ideale della scienza. Ma, apparentemente, per delle tesi storicizzanti: “L’emergenza della scienza galileiana ha reso possibile la psicoanalisi”, “La psicoanalisi non è concepibile senza la suturazione operata dalla scienza moderna nei confronti del soggetto” o “La psicoanalisi può svilupparsi solamente all’interno dell’Universo infinito della scienza”, ecc. Il problema è che queste risposte in se stesse non significano nulla; esse non fanno altro che reiterare la questione sotto una forma differente. Più in generale, non bisogna lasciarsi prendere troppo dal Lacan delle messe in relazione massicce; è un Lacan della dotta conversazione, tradizione che proviene da Mointagne e da La Mothe Le Vayer, se non da Aulo Gellio o da Macrobio. Egli brilla per intuizioni profonde, paralleli folgoranti, effetti di verità, ma non è un Lacan del matema. Che il Lacan del matema non offuschi il Lacan della conversazione va bene, ma nemmeno il contrario. Ebbene, bisogna mantenere la proposizione: la periodizzazione non è propria del matema, ma della conversazione. Essa, pertanto, non costituisce mai l’ultima parola di nessuna questione. All’occasione, essa ha una funzione precisa: rompere, per quanto riguarda la psicoanalisi, la pertinenza della coppia ideale della scienza-scienza ideale. Che cosa c’è di più efficace, a questo proposito, degli operatori di successione e di rottura, la cui piccola spesa sono un relativismo e un nominalismo di buona compagnia? Azzarderò questa ipotesi: Freud aveva dovuto, per promuovere la psicoanalisi all’interno di una congiuntura dominata dall’idealismo filosofico, appoggiarsi sullo scientismo dell’ideale della scienza; il prezzo da pagare non era nulla di meno che lo scientismo della scienza ideale. Lacan doveva, per promuovere la psicoanalisi all’interno di una congiuntura in cui le istituzioni psicoanalitiche si erano lasciate dominare dallo scientismo della scienza ideale, relativizzare e nominalizzare; il prezzo da 6
Si veda Lacan 1986; tr. it. 20082, p. 145: “[…] la scienza moderna, quella nata da Galileo, aveva potuto svilupparsi soltanto a partire dall’ideologia biblica, giudaica, e non dalla filosofia antica e dalla prospettiva aristotelica”.
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pagare era il discorso periodista. Tuttavia, si deve ben vedere che Lacan ha fatto di tutto affinché la teoria della rottura potesse essere depurata da tale zavorra. Tale è la funzione della teoria dei discorsi: portare alla luce le proprietà di un discorso in generale (ricordiamo che il discorso, in Lacan, costituisce un legame sociale) e, così facendo, mostrare che l’eterogeneità e la molteplicità vi sono intrinseche. Esse non costituiscono semplicemente gli effetti nel discorso di periodi ed epoche, che sarebbero in se stesse estrinseche rispetto ai discorsi. Nello specifico, esse non si proiettano semplicemente sull’asse delle successioni. Mediante una dottrina della pluralità dei posti, della pluralità dei termini, della differenza tra proprietà di posto e proprietà di termini, della mutabilità dei termini in relazione ai posti, si ottiene ciò che si potrebbe chiamare un’articolazione non cronologica del concetto di rottura. Certamente, l’emergenza di un discorso nuovo, il passaggio da un discorso a un altro (ciò che Lacan chiama il “quarto di giro”), in poche parole il movimento, possono fare evento; e senza dubbio, questi eventi costituiscono un oggetto che gli storici si impegnano a cogliere nella forma della cronologia. Tuttavia, essi non sono ciò che ne dicono gli storici. Ogni storia, a questo proposito, deriva dalla fallacia e la prima adulterazione risiede proprio nell’omogeneizzazione minima supposta dalla seriazione temporale. Conviene convocare qui le armi dello strutturalismo: ammesso che la teoria dei discorsi costituisca una letteralizzazione dei posti e dei termini, la rottura costituisce innanzitutto il puntamento [pointage] di un impossibile letterale. È impossibile che un sistema di lettere sia differente da quello che è. È impossibile per un sistema di lettere passare, senza sconvolgimenti, a un altro sistema di lettere. Detto altrimenti, non ci sono trasformazioni da sistema a sistema se non per mezzo di catastrofi. Ma, più in profondità, interviene la logica della disgiunzione tra somiglianza e identità; ogni rottura costituisce una teoria dell’omonimia e della sinonimia. Essa si enuncia così: su entrambi i lati di una rottura, tra i discorsi ci sono solo delle omonimie, o: non ci sono sinonimie tra discorsi, o: tra discorsi differenti, non c’è altra relazione che quella della rottura, o, infine: ciò che gli storici prendono per rotture, sono eterogeneità letterali. Il teorema di Koyré menziona la scienza galileiana. Presuppone dunque l’esistenza di una caratterizzazione distintiva di questa scienza.
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Tale è l’oggetto di quello che possiamo chiamare il discriminante di Koyré: è galileiana una scienza che combina due tratti: l’empiricità e la lettera matematica. Il problema è evidentemente quello di sapere che cosa ciò significhi. Ebbene, niente di più facile che mancare il punto. Perlomeno in Francia, il discriminante di Koyré è diventato classico, ovverosia banale. Tuttavia, il gesto essenziale di Koyré consisteva nel fare luce su una ben singolare peripezia. La scienza antica, l’episteme, si scopriva compiuta solamente nel momento in cui aveva esposto ciò attraverso cui un oggetto qualsiasi non poteva, in tutta necessità e per tutta l’eternità, essere altro da ciò che era. Più esattamente, ciò che vi è di episteme in un discorso era solamente la raccolta di quanto tale discorso cattura di eterno e necessario nel suo oggetto. Da ciò conseguiva che un oggetto si presta più naturalmente all’episteme quanto più facilmente lascia che in esso si riveli ciò che lo rende eterno e necessario – così che non c’è scienza di ciò che può essere altro da ciò che è, mentre la scienza più compiuta è la scienza dell’oggetto più eterno e più necessario: la teologia è l’orizzonte dell’episteme. Da ciò conseguiva anche che, nell’uomo, la scienza poteva trovare sostegno solo in ciò che mette in relazione l’uomo all’eterno e al necessario. C’è un nome per questo: è l’anima; distinta dal corpo, istanza nell’uomo di quanto lo mette in relazione al transeunte e al contingente. Da ciò conseguiva, infine, che la matematica propone alla scienza un paradigma d’elezione. Questo perché la matematica ereditata dai Greci concerne il necessario e l’eterno. Forme e Numeri non possono essere altro da quello che sono e, al contempo, non possono né venire all’essere, né cessare di essere – essendo ciò che sono, eternamente. La necessità delle dimostrazioni non vale che nella misura esatta in cui essa è connaturale alla necessità in sé. Così come le traiettorie dei corpi celesti cristallizzano per gli occhi del corpo la figura più adeguata dell’eterno, ugualmente il cammino che parte dai principi e dagli assiomi per arrivare alle conclusioni cristallizza per gli occhi dell’anima la figura più adeguata del necessario7. Al contrario, 7
Quando Aristotele definisce il sillogismo – si tratta, ricordiamolo, della denominazione generale del ragionamento, prima di costituire la denominazione tecnica di una forma particolare – “[…] un discorso in cui, posti taluni oggetti, alcunché di diverso […] risulta necessariamente” (ex anagkès) [N.d.T. Aristotele 2003, p. 92]; quando Platone, nel Timeo, annoda il pensiero regolato al decorso dei corpi celesti: “Ma noi di questo affermiamo questa cagione, che dio ha trovato e ci ha donato la vista, affinché, contemplando nel cielo i giri dell’intelligenza, ce ne giovassimo per i giri della nostra mente, che sono affini a quelli, sebbene essi siano disordinati e quelli ordinati, e così ammaestrati e fatti partecipi dei ragionamenti veri secondo natura, imitando i giri della divinità che sono regolari, potessimo
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l’empirico, in ciò che esso ha di differente, non cessa di venire all’essere o di cessare di essere, essendo, pertanto, incessantemente altro da quello che è. Esso è, dunque, intrinsecamente anti-matematico. Se, ciononostante, la matematica è in grado di catturare qualcosa all’interno di questa varietà, questo sarà, allora, ciò che vi si lascia riconoscere di identico a sé e di eterno. La matematica è la porta d’ingresso di ogni dottrina del Medesimo8. La scienza greca è dunque matematica nella misura esatta in cui né la scienza, né la matematica sono empiriche. In breve, la scienza greca non è matematizzata. Combinando la matematica e l’empiricità, il discriminante di Koyré soddisfa almeno due operazioni. La prima è che i numeri non funzionano più come Numeri, chiavi d’oro delle idee, ma come lettere e, come lettere, essi devono catturare il differente in ciò che esso ha di incessantemente altro: l’empirico è letteralizzabile in quanto empirico. La lettera non porta l’oggetto verso il cielo delle Idee. La letteralizzazione non è idealizzazione. Riguardo alla seconda, per fare luce su di essa conviene forse fare ricorso a un’epistemologia apparentemente molto lontana da quella di Koyré, specificamente quella di Popper. Una proposizione scientifica dev’essere
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correggere l’irregolarità nei nostri” [N.d.T. Platone 1993, p. 391], essi fondano entrambi l’episteme antica. La necessità nei logoi, in quanto necessità, è il punto in cui si realizza, nella scienza, la somiglianza tra l’essere necessario dell’ente [étant] e l’essere necessario del conoscente [sachant]; reciprocamente, la scienza non è nulla se non è la realizzazione di questa somiglianza che, attraverso le vie dell’anima purificata, unisce l’uomo dotato di un corpo all’Essere supremo, incorporeo. Certamente, anche le mie stesse parole appartengono all’ambito della conversazione, piuttosto che a quello del matema. I dati storici sono più intrecciati: citiamo Archimede e Lucrezio, che complicano il dispositivo, come pure l’ottica greca, per come ci è stata restituita da Simon 1988. Citiamo anche, a seguito di E. Garin, l’astrologia dotta, che pretendeva proprio di cogliere gli accidenti di un destino in ciò che esso ha di più singolare e questo attraverso le configurazioni delle stelle eterne e i calcoli numerici. Da qui, lo scandalo che essa ha potuto suscitare presso alcuni filosofi antichi (ben sintetizzato nel discorso di Favorino, riportato da Aulo Gellio, Notti attiche, XIV, 1 [N.d.T. Aulo Gellio 1968, pp. 451-457]) e l’insistenza sul suo carattere “straniero” (caldeo). Resta il fatto che questa dottrina ha ottenuto diritto di cittadinanza nella configurazione greco-latina. E. Garin giunge ad affermare che la combinazione del matematico e dell’empirico, caratteristica della scienza moderna, è stata resa possibile dal ritorno dell’astrologia dotta, ridivenuta accessibile a partire dal xii secolo e fiorente nel xv e nel xvi secolo. Così come la magia, in quanto azione sul mondo regolata da principi teorizzabili, offre i primi elementi della relazione moderna che unisce la scienza, come teoria della tecnica, alla tecnica, come pratica e applicazione della scienza. Si veda Garin 2007, pp. 141-178.
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confutabile – afferma questo autore – definendo così, con il nome di demarcazione, ciò che possiamo anche chiamare il discriminante di Popper. Ebbene, una proposizione può essere confutabile solo se la sua negazione non è né senza senso, né logicamente contraddittoria. Detto altrimenti, il suo referente deve potere – logicamente e materialmente – essere altro da quello che è. Ma questa è la contingenza. In breve, solo una proposizione contingente è confutabile e non c’è scienza che del contingente. Vediamo le conseguenze. La scienza non è più matematica, ma matematizzata. Essa calcola l’empirico come tale, senza convertirlo in Forme e Numeri. La necessità dei suoi ragionamenti non mantiene alcune connaturalità con la necessità delle Idee. Essa non richiede nessun’anima e, se l’anima esiste, non pretende nulla da lei. Questo è il dispositivo all’interno del quale si inscrive Lacan. Il termine medio decisivo è il contingente. Attraverso esso, il discriminante cronologico di Koyré e il discriminante strutturale di Popper si lasciano combinare9. Del resto, al di là di ogni riferimento a Popper (al quale si è interessato tardivamente e senza passione), è infatti la parola contingente che Lacan coglie in Kojève e Koyré, malgrado essi non la proferiscano effettivamente: “[…] la volta celeste non esiste più, e l’insieme dei corpi celesti […] si presenta come qualcosa che potrebbe anche non esserci – la loro realtà […] è segnata essenzialmente da un carattere di fatticità, essi sono fondamentalmente contingenti”10. Sarebbe illegittimo evocare a questo punto Mallarmé? In verità, se si ammette che il proprium della lettera moderna non consiste che nel cogliere il contingente in quanto contingente, il motto dell’età della scienza è così enunciato: nessuna lettera abolirà mai il caso. E chi potrà negare che la lettera sia un colpo di dadi? La lettera è così com’è, senza alcuna ragione che la faccia essere così com’è: allo stesso tempo, non c’è ragione per cui essa sia altra da quello che è. Se fosse altra da quella che è, essa sarebbe solamente un’altra lettera. In verità, una volta che una lettera è, persiste e non cambia (“l’unico numero che non può essere un altro”). Tuttalpiù un discorso può, non cambiarla, ma cambiare di lettera. Così, con un giro passibile di ingannare, la lettera assume tratti di immutabilità, omomorfi a quelli dell’idea eterna. Certamente, l’immutabilità di ciò che non ha ragion d’essere così com’è non ha niente 9
Al riguardo, consultare i lavori di T. Kuhn e in particolare la sua raccolta di saggi La tensione essenziale. Cambiamenti e continuità nella scienza (Kuhn 1977; tr. it. 1997), più esplicita riguardo al confronto con Popper rispetto a La struttura delle rivoluzioni scientifiche [N.d.T. Kuhn 19702; tr. it. 2009]. 10 Lacan 1986; tr. it. 20082, p. 145.
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a che fare con l’immutabilità di ciò che non può, senza violare la ragione, essere altro da quello che è. Tuttavia, l’omomorfia immaginaria rimane. Da ciò consegue che la cattura del differente da parte della lettera le conferisce, nella misura in cui può essere altra da quella che è, i tratti immaginari di ciò che non può essere altro da quello che è. È ciò che si chiama la necessità delle leggi della scienza. Essa somiglia, da tutti i punti di vista, alla necessità dell’Essere supremo, ma le somiglia tanto più in quanto non ha nulla a che vedere con essa. La struttura della scienza moderna riposa integralmente sulla contingenza. La necessità materiale che si riconosce alle leggi è la cicatrice di questa contingenza stessa. Nel bagliore di un istante, ogni punto di ogni referente di ogni proposizione della scienza appare come passibile di essere infinitamente altro da quello che è, da un’infinità di punti di vista. L’istante successivo, la lettera lo ha fissato così com’è e come non passibile di essere altro da quello che è, salvo cambiare di lettera, ovverosia di parte. Ma la condizione dell’istante successivo è proprio l’istante precedente. Mostrare che un punto dell’universo è così com’è richiede che siano lanciati i dadi di un universo possibile dove questo punto sarebbe altro da quello che è11. All’intervallo di tempo in cui i dadi roteano in aria prima di ricadere a terra la dottrina ha conferito un nome: emergenza del soggetto; il quale non è il lanciatore (il lanciatore non esiste), ma i dadi stessi fintanto che sono in sospeso. Nella vertigine di questi possibili reciprocamente esclusivi, brilla, infine, nell’istante successivo in cui i dadi ricadono, il bagliore dell’impossibile: è impossibile che, una volta ricaduti, essi rechino un altro numero sulla loro faccia leggibile. Da lì si vede che l’impossibile non si separa dalla contingenza, ma ne costituisce il nocciolo reale. Per vederlo, sarebbe necessario non smettere di passare dal precedente al successivo. Ebbene, è proprio questo che non si può fare perché bisognerebbe anche passare dal successivo al precedente. La scienza, ad ogni modo, non lo consente; dacché la lettera si è fissata, resta solo la necessità e impone l’oblio della contingenza che l’ha autorizzata. L’inopportunità di questo ritorno è ciò che Lacan chiama la sutura. La radicalità dell’oblio è ciò che Lacan chiama la forclusione. Poiché il soggetto è ciò che emerge nel passaggio da un istante all’altro, sutura e forclusione sono necessariamente sutura e forclusione del soggetto12. 11 Si troverà in S. Kripke l’articolazione della lettera, dell’universo possibile e del colpo di dadi. Cfr., in particolare, Kripke 1989; tr. it. 2003, pp. 137 e ss. Soprassediamo, chiaramente, sull’orrore che potrebbe suscitare in Kripke un accostamento a Mallarmé o Lacan, supponendo che sappia perlomeno di chi si tratti. 12 Detto altrimenti, la dottrina della lettera riposa su una logica a due tempi. Il lettore potrà verificare che la formula di Lacan S1(S1(S1(S1 → S2))) – la si trova in Lacan
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Ammettere che una proposizione contingente ed empirica, in quanto empirica e contingente, sia matematizzabile significa, all’orizzonte della lettera, disfare e ricomporre, in modo interamente inedito, incessantemente precario e rilanciato, le parti dell’immutabile e del transeunte. L’insieme integrale dei punti ai quali si riferiscono le proposizioni della scienza è normalmente denominato Universo. Poiché ognuno di questi punti dev’essere compreso come un’oscillazione di una variazione infinita; poiché è sufficiente che una sola variazione affetti uno solo dei loro punti, affinché due universi possibili siano distinti; poiché, per questo fatto, gli universi possibili sono in numero infinito; poiché l’Universo non esiste per la scienza che attraverso la deviazione di questi universi possibili; allora l’Universo è necessariamente infinito e non potrebbe essere altrimenti, anche se i punti che lo costituiscono fossero, per caso, in numero attualmente finito. Infinito qualitativo, si potrebbe dire, anziché quantitativo. Ebbene, è unicamente attraverso la contingenza che l’infinito viene all’Universo e proviene dal suo stesso interno. Il che, ancora una volta, sconvolge le relazioni abituali, che annodano facilmente l’infinito ad un luogo esterno, che trascende l’Universo. L’Universo, come oggetto della scienza e come oggetto contingente, è intrinsecamente infinito13; è al suo interno, e non al di fuori di esso, che si devono trovare le marche di questa infinità. La tesi moderna per eccellenza si enuncerà dunque in questa maniera: Non esiste finitudine nell’Universo. La tesi moderna si enuncia anche: Non esiste nulla che sia fuori-Universo14.
1975; tr. it. 2011, p. 137 – non è che la letteralizzazione di questa logica [N.d.T. Per una chiarificazione ulteriore delle ragioni per cui, all’interno della scolastica lacaniana, sutura e forclusione sono strutturalmente sutura e forclusione del soggetto, si veda Miller 1966; tr. it. 1972]. 13 Di quale infinito si tratta? In ultima istanza, dell’infinito letteralizzabile: quello dei matematici, vale a dire di Cantor. Ma è giunto molto più tardi. All’origine della scienza galileiana, il paradosso vuole che nel momento stesso in cui questa si dichiara matematizzata e si riferisce all’universo infinito, non esiste una matematica dell’infinito. Su questo fondo di isteresi, si struttura l’oscillazione tra infinito positivo e infinito negativo, di cui Descartes rappresenta il primo segnale. 14 Quanti sono familiari con le formule lacaniane riconosceranno la formula del femminile. Ne trarranno facilmente la predizione secondo cui la scienza ha qualcosa a che fare con la psicosi e con i suoi effetti di “pousse-à-la-femme”. Si ricorderanno, all’occasione, di alcuni punti della religione positivista.
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Ebbene, questo è difficile da immaginare. Da lì, il ricorrere, nelle rappresentazioni, di figure del fuori-Universo. Dio, l’Uomo, al quale si attribuisce qualche proprietà specifica che lo eccettua dall’Universo e costituisce questo Universo come un Tutto. A questa proprietà d’eccezione sono attribuiti nomi differenti; a lungo, la filosofia ha qui invocato l’anima, istanza nell’uomo di ciò che lo apparenta a Dio. Tuttavia, sappiamo che l’anima è legata all’episteme. Quando quest’ultima cedette il passo alla scienza moderna, anche l’anima dovette gradualmente cedere il passo. Giunse allora la coscienza. Lì, precisamente, interviene la psicoanalisi. Essa riprende il problema dell’Universo e lo risolve così: il concetto che c’è un Universo, che nulla vi fa eccezione, nemmeno l’Uomo, è quello che dice no alla coscienza: è l’inconscio. Il nome di inconscio si chiarisce in questo modo; se la coscienza, e più precisamente la coscienza di sé, accorpa i privilegi dell’uomo, come eccezione rispetto al Tutto, la negazione con cui Freud affetta la coscienza ha una sola funzione: rendere obsoleti questi privilegi. Di fatto, possiamo concludere dal medesimo movimento che la coscienza in se stessa ha poca importanza; sono molto più importanti i privilegi di cui essa è diventata, per un certo periodo, l’etichetta. Attraverso essa sono colpite anche tutte le altre etichette: l’anima tanto quanto la coscienza. Si chiarisce così, in particolare, l’atto di sfregio che Lacan, facendo un passo in più rispetto a Freud, persegue nei confronti dell’anima15. Il programma è duplice: scienza senza coscienza e, quindi, rovina dell’anima. È assolutamente vero, come affermava Freud, che la psicoanalisi ferisce il narcisismo e che è questo che la apparenta a Copernico, vale a dire alla scienza moderna. Ma, per comprenderlo, bisogna aggiungere che il narcisismo si riduce sempre a una domanda di eccezione per se stessi – e viceversa. L’ipotesi dell’inconscio non è che un’altra maniera di affermare l’inesistenza di tali eccezioni; per questa stessa ragione, essa non è niente di più e niente di meno che un’affermazione dell’Universo della scienza. Così, l’inconscio non solo realizza il programma che Rabelais temeva, ma assume esattamente le funzioni dell’infinito. E come in precedenza il supporto dell’infinito era cercato fuori dall’Universo – in Dio –, si vede che Dio è inconscio, nel senso in cui si dice (ma con effetti inversi): Dio è amore; su questi punti rinvio a F. Regnault. Del resto, le due parole hanno la stessa struttura: si dice Unbewusst come si dice Unendlich. L’infinito è ciò che dice no all’eccezione della finitudine; l’inconscio è ciò che dice no alla coscienza di sé come privile15 Si veda Televisione, in Lacan 2001; tr. it. 2013, pp. 505-538, qui pp. 507-508.
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gio. Senza dubbio, Lacan ha spesso commentato sfavorevolmente il carattere negativo della parola Unbewusst. Vi si può riconoscere una dottrina cartesiana: l’infinito è primo e positivo, il finito è secondo e si ottiene, in qualche modo, attraverso un prelievo; ugualmente, l’inconscio spiega il conscio, non l’inverso. Esso stenografa un’affermazione, non una limitazione. Si può vedere, tuttavia, come la barra della negazione abbia le sue virtù. Per di più, la lingua tedesca ne aggiunge alcune. Il prefisso unnon è sempre così piattamente negativo come il prefisso latino in-; non si limita sempre a delimitare il complementare del dominio contrassegnato dal positivo. Così, l’Unmensch non è un non-umano, ma un uomo disfatto, un mostro; l’Unkraut è un’erba (Kraut), ma un’erba cattiva, parassita; l’unheimlich non è il rovescio del famigliare, ma un famigliare parassitato da qualche cosa che lo disperde. Ugualmente, si potrebbe dire che, nell’universo moderno, non c’è distinzione demaniale tra il finito e l’infinito, ma che l’infinito parassita incessantemente il finito; sicché ogni finito, per come la scienza lo prende in considerazione, si pone innanzitutto come qualcosa che avrebbe potuto essere infinitamente altro da quello che è. Del resto, non saremmo molto lontani dal Descartes teorico delle verità eterne. Parallelamente, nella psicoanalisi l’inconscio parassita incessantemente il conscio; lo mostra come qualcosa che può essere altro da quello che è ed è solamente a questo prezzo che esso stabilisce in cosa non può proprio essere altro. Il prefisso negativo sarebbe solamente l’impronta di questo parassitismo. La psicoanalisi è, al fondo, una dottrina dell’Universo infinito e contingente. Ebbene, i filosofi sembrano portati a resistere alla contingenza infinita. I rapporti che la psicoanalisi intrattiene con le diverse filosofie devono essere interpretati in questo modo. Consideriamo, per esempio, la dottrina della morte. Non si può ignorare che, agli occhi dei più, la morte rappresenta la marca stessa della finitudine. Tuttavia, il lemma moderno stabilisce che la finitudine non esiste e la psicoanalisi segue questo lemma. Essa ne offre anche una versione specifica: in quanto marca della finitudine, la morte nell’analisi non è nulla, o: la morte non conta nell’analisi che in quanto marca di infinità. Tale è il fondamento del concetto della pulsione di morte. Ne concluderemo che la parola morte è un focolaio di omonimie tra finito e infinito. Ma che ne è delle filosofie in cui la morte conta proprio per la ragione inversa: in quanto marca della finitudine? Esse sono intrinsecamente non moderne e poiché la psicoanalisi è intrinsecamente moderna, nessuna dottrina della
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psicoanalisi può riconciliarsi con queste filosofie. Se Heidegger si trova tra queste, se l’essere per la morte è essere per la finitudine, allora, nonostante gli scambi epistolari e le visite private, nonostante anche il peso da attribuire, per quanto concerne la dottrina della cura, a una definizione di verità come svelamento, la dottrina di Lacan, in quanto dottrina della psicoanalisi, è antinomica alla filosofia di Heidegger – e viceversa. A meno che, per caso, non si possa o si debba eliminare la contingenza infinita e radicale dalla dottrina lacaniana. In quel caso si avrebbe un Lacan filosofo, ma esso sarebbe disgiunto dal Lacan teorico e praticante della psicoanalisi. Eracle al bivio: misuriamone la posta in gioco. Tra tutti, occorre qui evocare Kant. Da un lato, poiché la filosofia critica, come la psicoanalisi secondo Lacan, incontra la scienza come determinazione interna al suo proprio campo; dall’altro, e soprattutto, poiché, incontrandola, essa intende resistere all’infinita contingenza attraverso cui la scienza si fonda. A tal fine, essa non si soddisfa dei diversi fuori-Universo; essa costruisce una strategia particolarmente più sofisticata e più efficace, detta strategia trascendentale: spogliare un oggetto delle sue proprietà, farlo nella maniera più sistematica possibile e giungere nondimeno a scoprire che, malgrado tale spogliamento, proprio prima che esso cessi di essere semplicemente pensabile, l’oggetto si rivela né completamente vuoto, né completamente senza struttura. Le proprietà residuali non possono essere altre da quelle che sono, poiché, se per caso fossero altre, l’oggetto cesserebbe di essere pensabile. Esse non sono affettate dal differente, poiché sono ottenute dall’eliminazione del differente. Tuttavia, consentendo di cogliere questo minimum attraverso cui un oggetto è pensabile, esse consentono anche di cogliere in cosa il differente è pensabile. Si compie così l’impossibile prodigio: nei limiti dell’universo della scienza e senza rinunciare a nulla di esso, salvare la ricerca greca dello Stesso, mentre la scienza è diventata empirica, vale a dire non greca. Ebbene, consideriamo, all’interno della dottrina lacaniana, la teoria del significante. Se si ammette che il metodo trascendentale consiste, una volta spogliato sistematicamente un oggetto delle sue proprietà empiriche e contingenti, nel constatare che esso possiede ancora delle proprietà, la teoria del significante ne presenta bene i caratteri: essa stabilisce le proprietà di qualunque significante e stabilisce che queste proprietà sono specificabili e che sono specificabili a priori16. È, del resto, ciò che separa la teoria del si16 Supporre, inoltre, che queste proprietà a priori siano parzialmente coglibili attraverso la logica matematizzata è ciò che trasforma la teoria del significante in logica del significante. Sappiamo che i Cahiers pour l’Analyse si proponevano
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gnificante e la linguistica strutturale: all’interno di quest’ultima, si invocano dei fenomeni detti strutturali (o sistemici, ecc.), ma non è proposta una risposta determinata alla domanda: “Quali sono le proprietà generali di un fenomeno strutturale qualunque?”; quando la domanda è posta, ci si accontenta di nozioni indeterminate del tipo: “Una struttura (o un sistema, ecc.) è una totalità”, ma più spesso la domanda non è posta, il che, tra l’altro, è meglio: si tratta allora la nozione di struttura (o di sistema) come un termine positivo. In Lacan, al contrario, è legittimo domandare: “Quali sono le proprietà generali di un sistema significante qualunque?” ed è legittimo rispondere. Si ottiene così una teoria generale dei sistemi. Inoltre, siccome il significante è esso stesso ciò senza il quale nulla si distingue, le proprietà che gli si attribuiscono sono solamente le proprietà del distinguibile in quanto tale. Siccome la proprietà primaria di qualunque pensiero possibile è non solo di essere distinto da un altro, ma anche di cogliere ciò in cui il suo oggetto è distinto da ogni altro, la teoria del significante è una teoria del pensabile in quanto tale: una logica trascendentale o ciò che viene al posto di una tale logica; siccome la proprietà di qualunque essere possibile è di essere distinguibile da un altro, la teoria del significante è anche un’ontologia trascendentale o ciò che viene al posto di una tale ontologia. Possiamo essere più precisi. Alberto Magno denominava trascendentia le proprietà che convengono a ogni oggetto, in opposizione alle proprietà “ordinarie” che convengono sempre solo a un sottoinsieme di oggetti. A dire il vero, una proprietà P non è ben definita se non permette di distinguere tra gli oggetti che hanno questa proprietà e gli oggetti che non ce l’hanno. È a ciò che le proprietà trascendentali fanno eccezione. Alberto Magno ne riconosceva tre: la proprietà di essere un unum, la proprietà di essere un verum, la proprietà di essere un bonum17. È dunque trascendentale una teoria che prende per oggetto l’una o l’altra di queste proprietà. La filosofia kantiana è certamente trascendentale in questo senso stretto. Certo, Lacan non avrebbe accettato senza discutere la lista dei teologi scolastici. Nondimeno, nella misura in cui si occupa del significante qualunque, la teoria del significante si occupa delle proprietà di ogni significante; essa è, pertanto, trascendentale in un senso limitato. Inoltre, la nozione stessa di significante è appropriata a raccogliere in una sola tutte le proprietà trascendentali: sarebbe abbastanza facile mostrare come a partire da essa si dovrebbero poter dedurre le tre proprietà riconosciute da Alberto (tra le altre cose) di costituire positivamente una tale logica, distinta dalla logica matematizzata, ma basandosi su di essa. 17 Cosa che San Tommaso riassume: “Omne ens est unum, verum, bonum”. Su tutto questo, si veda Scholz 1968, p. 172.
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Magno, vale a dire, è vero, mostrarne il carattere secondario, se non fallace. Tuttavia, vediamo il capovolgimento: ciò che rende Lacan irriducibile alla scolastica non è l’aver rigettato l’esistenza di proprietà trascendentali, ma l’aver voluto fare la teoria di queste stesse proprietà. In breve, la teoria del significante è trascendentale in un senso radicale: essa è la teoria trascendentale per eccellenza. Ciò che vale per la teoria del significante, si estende alla teoria del soggetto, poiché il soggetto è incluso nella definizione stessa del significante. La teoria del soggetto è anch’essa dunque una teoria trascendentale, nella misura in cui suppone questo: per quanto lontano si spinga la riduzione delle proprietà, si incontra ancora il soggetto, con delle proprietà (eclissi, folgorazione, ecc.). Se le teorie del significante e del soggetto costituissero il tutto dottrinale della psicoanalisi, quest’ultima rischierebbe di non rientrare nella scienza moderna o di rientrarvi solamente nel senso in cui la filosofia kantiana vi rientra: come una resistenza. In senso stretto, la psicoanalisi lacaniana si proporrebbe come una metafisica trascendentale, che si distinguerebbe da Kant non per il metodo, ma per la presa in conto di fenomeni che Kant aveva ignorato: i fenomeni freudiani (sogno, lapsus, ecc.) va da sé, ma anche nuove figure della scienza moderna. Alla via regia di Newton, si dirà, altre se ne sono aggiunte: scienze letterali piuttosto che quantitative, biologia molecolare, teoria matematica della comunicazione, logica, linguistica strutturale. Significherebbe allora che il testo kantiano non è più sufficiente, ma che è richiesto un kantismo ancora più radicale. Questo articolerebbe due programmi essenziali e connessi: da una parte, caratterizzare e fondare il giudizio letterale, da distinguere dai giudizi analitici o sintetici, a priori o a posteriori; dall’altra, problematizzare l’Io [Je] e la compagnia che esso propone alle rappresentazioni. Il Discorso di Roma si apre a una tale lettura. Chi la perseguisse fino alla fine concluderebbe che Lacan ha fornito gli elementi di una Critica della Coscienza comparabile, per rango, alla Critica della Ragione. Del resto, un tale progetto sarebbe di per sé solamente lodevole. Dopotutto, è possibile che Frege si sia proposto, mutatis mutandis, un progetto simile: riscrivere tutta la filosofia trascendentale, rinunciando solamente alla tesi secondo cui i giudizi aritmetici sono sintetici a priori a vantaggio della tesi secondo cui i giudizi aritmetici sono analitici. La relazione di Lacan a Frege non sarebbe dunque casuale, ma strutturale. Più in generale, è vero che la filosofia kantiana incontra la scienza non solamente come un ideale che le sarebbe esterno, ma come un punto della sua propria linea. Da questo punto di vista, è vero che un’analogia strutturale le apparenta qualche proposizione
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di Lacan. Presentazione seducente, dunque, utile forse, ma completamente falsa. Questo non è il programma lacaniano, se perlomeno lo si considera nella sua interezza. L’ostacolo non risiede nella clinica; questa esiste, ma la clinica non ha mai impedito la metafisica, tutt’altro. Non più di quanto il reale della credenza impedisca la fantasmagoria religiosa, tutt’altro. L’ostacolo risiede nella teoria stessa, nella quale si deve percepire l’incessante ritorno del contingente, dell’infinitamente contingente, senza il quale il dispositivo d’insieme scivolerebbe nel trascendentale nudo. Resta da determinare il contenuto di questa istanza. Il problema, di fatto, è quello di scoprire ciò che potrebbe sempre essere altrimenti. Questo non può essere l’intelletto, come luogo dei pensieri; la dottrina significante, in effetti, riporta il pensabile alle sue condizioni minime e queste condizioni, in quanto minime, non possono essere altre da quelle che sono, senza dissipare la possibilità di ogni pensiero. A tal proposito, l’inconscio lacaniano, preso nella sua positività di funzionamento, è appunto un “si pensa [ça pense]”, vale a dire il pensiero sottomesso alle sue leggi minime, che sono “al di sotto” delle leggi del calcolo e del giudizio18, ma con ciò non cessano di essere delle leggi del pensabile in quanto tale, che le altre leggi suppongono e che, al contrario, non suppongono queste altre leggi. La metafora e la metonimia, in quanto operazioni, sono le sole operazioni logicamente possibili su di un sito significante; tale è lo statuto che ha loro conferito Jakobson e che Lacan conserva per loro, rinforzandolo anche con una reciproca: ogni serie sulla quale è possibile definire le operazioni di metafora e metonimia è una serie significante. Ci troviamo in una logica della deduzione a priori. Supponiamo allora che l’istanza della contingenza sia il corpo o, perlomeno, una qualche risorsa del corpo. Avanzerei l’ipotesi che la sessualità 18 Da qui l’importanza che Lacan attribuisce alla proposizione di Freud: “[Il lavoro onirico] [n]on pensa, non calcola, non giudica affatto […]” (Freud 1942; tr. it. 1989, p. 463). Cfr. Televisione, in Lacan 2001; tr. it. 2013, p. 513 (si veda anche p. 525) dove l’inconscio è definito “[…] sapere che non pensa, non calcola e non giudica […]”. Non c’è contraddizione tra la proposizione “l’inconscio non pensa” e la famosa definizione dell’inconscio come un “pensa [ça pense] dove non sono”; bisogna comprendere che il pensiero negato all’inconscio è il pensiero immaginarizzato e che il pensiero accordato all’inconscio è il pensiero riportato alle sue leggi minime, vale a dire disimmaginarizzato. Tuttavia, va notato che la dottrina minimalista di Lacan non è necessariamente quella dell’inconscio freudiano; è possibile che questa debba essere pensata come passibile di obbedienza a leggi differenti da quelle a cui esso obbedisce. Lo statuto della condensazione e dello spostamento (leggi constatate e non dedotte) e lo statuto generale della metafora e della metonimia (leggi dedotte dalla struttura generale di ogni catena significante) non sono concettualmente identiche.
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non sia altro che questo: il luogo della contingenza infinita all’interno del corpo. Che ci sia la sessuazione o no è contingente. Che ci siano due sessi o più è contingente. Tuttavia, non cessa di essere letteralizzabile. Sappiamo, del resto, che la letteralizzazione sessuata in Lacan si costituisce intrinsecamente come scansione [en épel] dell’infinito. L’inconscio freudiano in quanto sessuale è, dunque, l’inconscio in quanto ciò che potrebbe essere altro da ciò che è; in quanto “strutturato” è l’inconscio in quanto è così com’è e di cui, a partire dall’istante in cui è così com’è, la lettera enuncia il fatto che ormai non può essere altro da quello che è. Inoltre, l’inconscio è l’infinito. Nel suo luogo, si intersecano, dunque, come si conviene, l’infinito e il contingente. Ebbene, la sessualità è anch’essa parassitata dall’infinito; lo è a causa della pulsione di morte, del godimento, delle chicane del Tutto, ecc. Così che la reversibilità è completa: l’inconscio è la presa dell’Universo infinito sull’essere parlante, ma, in quanto tale, non può essere che sessuale; la sessualità è anch’essa la presa dell’Universo infinito sull’essere parlante, ma, in quanto tale, essa non può essere che inconscia. Ritroviamo allora la scienza moderna; la psicoanalisi non può farlo che a condizione di appoggiarsi sulla sessuazione come fenomeno e sulla sessualità come regione in cui questo fenomeno si compie. Comprendiamo perché Lacan necessita di una teoria della scienza. Essa sola consente di determinare esattamente lo statuto dei concetti maggiori della psicoanalisi. Essa sola consente di comprendere il punto d’intervento di quest’ultima: il passaggio dall’istante precedente in cui l’essere parlante potrebbe essere infinitamente altro da quello che è – nel suo corpo e nel suo pensiero – all’istante successivo in cui l’essere parlante, a causa della sua stessa contingenza, è divenuto del tutto simile a una necessità eterna. Perché, alla fine, la psicoanalisi non parla che di questo: la conversione di ogni singolarità soggettiva in una legge tanto necessaria quanto le leggi della natura, tanto contingente e tanto assoluta quanto queste ultime. È vero che la filosofia non ha cessato di trattare questo istante. In un certo senso, si potrebbe sostenere che essa lo ha propriamente inventato. Tuttavia, per descriverlo, essa ha generalmente preso in prestito le vie del fuori-Universo. È al solo scopo di evitarlo che, per intuizione e per dottrina, Lacan sceglie la scienza e, all’occasione, l’antifilosofia, che sta alla filosofia come l’Anticristo sta al Cristo, vale a dire un discorso che richiede ciò di cui non ha bisogno, che gli somiglia assolutamente, che parla delle stesse cose, usando gli stessi termini e questo perché non ha alcun rapporto con esso. (Traduzione dal francese di Marco Ferrari)
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VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), Testo stabilito da J.-A. Miller, a cura di A. Di Ciaccia, tr. di M.D. Contri, rev. della tr. della prima edizione di R. Cavasola, rev. della tr. della seconda edizione di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 20082. 2001 Autres écrits, Textes réunis par J.-A. Miller, Seuil, Paris; tr. it. Altri scritti, Testi riuniti da J.-A. Miller, a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2013. Miller, J.-A. 1966 La suture. Elements de la logique du signifiant, in “Cahiers pour l’Analyse”, 1, pp. 37-49. tr. it. La sutura. Elementi della logica del significante, in Cahiers pour l’Analyse. Scritti scelti di analisi e teoria della scienza, a cura di R. Balzarotti, Bollati Boringhieri, Torino 1972, pp. 50-63. Platone 1993 Timeo, tr. it. di C. Giarratano, in Opere complete, 9 voll., Laterza, RomaBari, Vol. 6, pp. 347-446. Regnault, F. 1985 Dieu est inconscient, Navarin, Paris. Scholz, H. 1969 Einführung in die kantische Philosophie, in H. Hermes, F. Kambartel e J. Ritter (a cura di), Mathesis Universalis. Abhandlungen zur Philosophie als strenger Wissenschaft, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt, pp. 152-219. Simon, G. 1988 Le regard, l’être et l’apparence dans l’Optique de l’Antiquité, Seuil, Paris. Soulez, A. (a cura di) 1985 Manifeste du cercle de Vienne et autres écrits, Puf, Paris.
Roberta Lanfredini
POSTFAZIONE
La crisi della cosiddetta Concezione standard delle teorie scientifiche è cosa nota, così come nota è la crisi di una Concezione standard dell’epistemologia. Per un empirista logico come Otto Neurath, l’idea di una filosofia scientifica si fondava su quattro principi ritenuti irrinunciabili: antimetafisica, centralità e neutralità dell’osservazione, propensione a un intervento metodico della logica e matematizzazione di tutte le scienze. Il problema è che tali principi regolativi sono stati, a uno a uno, nel corso del Novecento, sottoposti a pesanti revisioni da parte della cosiddetta epistemologia postpositivista; revisioni a tal punto radicali da spingere Thomas Kuhn, che di quelle revisioni è stato uno dei principali protagonisti, a ritenere che i tentativi di migliorare la concezione tradizionale, o standard, del metodo scientifico avessero contratto malattie che, nonostante gli innumerevoli sforzi, non stavano rispondendo alle cure. Tanto per iniziare, i cosiddetti fatti scientifici non risultano mai essere, secondo Kuhn, meri fatti, indipendenti cioè da convinzioni e teorie esistenti. Produrli richiede infatti un apparato che dipende dalla teoria, spesso da quella stessa teoria che gli esperimenti avrebbero dovuto sottoporre a controllo. E quando il sistema stesso veniva riprogettato per eliminare o ridurre tali divergenze, il processo di riprogettazione spesso finiva per orientarsi verso la revisione delle concezioni che plasmavano l’osservazione, piuttosto che verso le ipotesi sottoposte a controllo. In tal modo, le osservazioni, comprese quelle pensate come base di controllo empirico, lasciavano spazio a contrasti in merito all’accettazione o non accettazione di quelle leggi o teorie che erano funzione dell’interpretazione delle stesse asserzioni osservative. Non solo. Secondo Kuhn, in queste circostanze di vero e proprio dissidio tra “interpretazioni teoriche” e “interpretazioni osservative”, i singoli scienziati fedeli alle prime o alle seconde si trovavano talvolta a difendere il proprio punto di vista in modo del tutto acritico, violando le norme del comportamento professionale da loro sottoscritte, con la conseguente incapacità di riconoscere scoperte che andavano controcorrente e alla sostituzione di argomentazioni razionali con opinioni personali,
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le quali finivano per rendere le controversie scientifiche simili, cito Kuhn, a “una zuffa tra gatti”. Siamo molto lontani dall’ideale di purificazione e di distillazione caro agli empiristi logici. E altrettanto lontani dal prendere in considerazione con strumenti spassionati, razionali e privi di pregiudizi quel fenomeno, che pure è essenziale, addirittura vitale, al discorso scientifico, che è il dissenso teorico; fenomeno che coinvolge direttamente la dialettica, evidentemente complessa, tra ipotesi dominanti e ipotesi emergenti. Si apre, a partire da queste considerazioni, il capitolo chiaroscurale della cosiddetta Undone Science; di quella scienza cioè che fa riferimento a aree di ricerca generalmente ignorate, quindi rimosse, e di conseguenza non finanziate (e viceversa), rispetto alle linee di ricerca considerate dominanti. La Undone Science rientrerebbe così in una più ampia politica della conoscenza in cui molti gruppi tra loro in competizione lottano tra loro per la costruzione e l’approvazione di quei programmi di ricerca che poi risulteranno emergenti. Il che confermerebbe la visione di Kuhn, Lakatos e Feyerabend secondo cui la ricerca scientifica, lungi dal procedere in modo lineare, realizzando un costante e progressivo avvicinamento a una verità assoluta o quantomeno generalmente condivisa (conformemente al concetto di verosimilitudine popperiano), somiglierebbe, appunto, a una “zuffa tra gatti” in cui, ben al di là della specifica attività di ricerca, ciò che assume rilevanza sono le dimensioni sociali, politiche, economico-industriali, di contorno. Condizioni che evidentemente hanno il potere di obliare e sopprimere ipotesi di ricerca nuove e promettenti, e tuttavia scomode dal punto di vista dell’apparato dominante. The Undone Science, appunto. Quanto finora detto è ormai sedimentato nella storia della epistemologia contemporanea, ma vale la pena ricordarselo per non cadere in patenti ingenuità epistemologiche. Il libro Epistemologie. Critiche e punti di fuga nel dibattito contemporaneo, curato da Luca Cabassa e Francesco Pisano, prende le mosse da tale sedimentazione cercando tuttavia, per esplicito riconoscimento dei Curatori, punti di fuga, vie di uscita rispetto ai confini fissati dall’attuale dibattito epistemologico. Tali punti di fuga si conquistano mediante uno spostamento dell’attenzione da una visione statica dei problemi, che costituiscono l’ossatura portante di una epistemologia tradizionale (controllo empirico; contesto della scoperta vs contesto della giustificazione; natura del dato empirico; rapporto tra osservabile e inosservabile; fondazionalismo vs anti-fondazionalismo, ecc.), a una visione dinamica, genetica e integrata di quello stesso scenario.
R. Lanfredini - Postfazione
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Quelli che per Lakatos, Kuhn e Feyerabend erano concepiti come risultati ottenuti mediante un faticoso processo di decostruzione degli assunti della Concezione Standard delle teorie scientifiche (compresa evidentemente la prospettiva popperiana) vengono ora concepiti non più come punti di arrivo ma come nuovi punti di partenza. A partire da quel plurale contenuto nel titolo, epistemologie, a indicare come l’epistemologia debba esser sempre concepita come pluralistica (ontologicamente e metodologicamente) e non singolare. L’ibridazione è inoltre parte integrante del fenomeno scienza: ibridazione con il contesto sociale, culturale, economico in cui tale fenomeno si realizza; ibridazione dello stesso scienziato con i fattori epistemici, organizzativi e anche affettivi che lo configurano come soggetto scientifico e al tempo stesso lo plasmano e condizionano; ibridazione con la dimensione politica e etica che pone condizioni e limiti al discorso scientifico. Ibridazione, infine, tra i due usi che il termine epistemologia incarna e il cui inestricabile intreccio emerge qui come punto di partenza imprescindibile: l’intreccio cioè tra una epistemologia come dottrina della scienza e epistemologia come teoria della conoscenza; tra Wissenschaftslehre e Erkenntnistheorie. Secondo i Curatori non è infatti possibile pensare alla pratica scientifica tenendola separata dai problemi classici di filosofia della conoscenza: le teorie della percezione; la riflessione sulle nozioni di induzione e di causalità; le procedure di controllo empirico e l’olismo epistemologico; il nesso tra dato e azione, il valore costitutivo del dato mediante la corporeità; la distinzione ontologica tra inerte e vivente; la sistemica; e così via. Ma non è nemmeno possibile formulare una epistemologia nel senso di una teoria della conoscenza prescindendo da quei risultati scientifici che spesso hanno determinato un vero e proprio cambiamento di rotta all’interno dell’architettura filosofica e concettuale; basti pensare all’impatto che le geometrie non euclidee, la meccanica quantistica e le scienze biologiche relative al vivente hanno avuto nello scenario della riflessione filosofica. La dinamica tra le due nature dell’epistemologia è, com’è noto, complessa: come giustamente ricordano i Curatori, la storia mostra come molti siano stati i tentativi di epistemologizzare la conoscenza, appiattendo le istanze gnoseologiche sulla costruzione del discorso scientifico; ma mostra anche come molti siano stati i tentativi di gnoseologizzare la filosofia della scienza da parte, ad esempio, della fenomenologia, o del costruttivismo. Potremmo sostenere, parafrasando una nota metafora kantiana, come la gnoseologia senza pratica scientifica risulti vuota e come, d’altro canto, tale pratica senza riflessione gnoseologica (e insieme storica, politica, e economica) sia cieca.
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La strada che il libro intende perseguire è una strada al contempo di integrazione e di pluralismo critico; integrazione e pluralismo che evitano di concepire la teoria della conoscenza come una forma parassitaria della produzione scientifica e della sua specializzazione o frammentazione; tantomeno come apparato di divulgazione di un sapere esclusivo; oppure come sapere talmente rarefatto da non riuscire a catturare alcun aspetto del lavoro e dei problemi che lo scienziato si trova concretamente ad affrontare. Ma nemmeno l’attività scientifica deve essere intesa come sapere neutrale e oggettivo, che non necessita di una riflessione o messa a tema sistemica, concettuale, politica e etica. La prospettiva inaugurata dal libro è quindi, potremmo dire, sintetica, poiché si fa portatrice di quell’incessante opera di intermediazione tra ordine del discorso scientifico e ordine del discorso filosofico; la quale, sola, può farsi garante sia di una scienza critica (e etica) sia di una filosofia non dogmatica.
EPISTEMOLOGICA (Nuova serie) 1. Roberta Lanfredini (a cura di), Architettura della conoscenza e ontologia 2. Roberta Lanfredini (a cura di), Materia 3. Pietro Salis, Pratiche discorsive razionali. Studi sull’inferazionismo di Robert Brandom 4. Nicolai Hartmann, Possibilità ed effettività 5. V. Busacchi, P. Salis, S. Pinna, Prassi, cultura e realtà 6. Francesco Bernardo Vitale, Fenomenologia dell’impercezione. Malafede, farisaismo, falsa coscienza e denegazione in Maurice Merleau-Ponty. Logica del punto cieco, volume I 7. Andrea Pace Giannotta, Fenomenologia enattiva. Mente, coscienza e natura 8. Federico Boem, Pensare per mappe. Ontologie per una pratica scientifica 9. Benedetta Baldi (a cura di), Persuasione 10. Carmen Cini, Learning to be a self. Si divento IO attraverso il TU
Finito di stampare nel mese di novembre 2023 da Digital Team - Fano (PU)
Digitally signed by Kenneth R. Westphal
Luca Cabassa ha conseguito il dottorato di ricerca in Filosofia presso il consorzio delle Università di Pisa e Firenze. Si occupa di epistemologia, in particolare del rapporto tra matematica e scienze del vivente. Francesco Pisano è assegnista di ricerca postdoc presso l’Università di Napoli Federico II e docente a contratto presso l’Università Niccolò Cusano di Roma, dove insegna Filosofia della scienza. Lavora sull’idea di un’epistemologia fenomenologica, sulla storia della logica trascendentale e su problemi di logica della conoscenza tra kantismo, pragmatismo e neoempirismo.
Luca Cabassa - Francesco Pisano (a cura di) Epistemologie
Frutto di un lavoro collettivo, questa antologia di traduzioni offre dei punti di fuga a chi studia epistemologia in Italia. Punti di fuga: ossia vie d’uscita dai programmi culturali che ancora vincolano il dibattito epistemologico italiano e, insieme, perni per l’articolazione di nuove prospettive di ricerca. I testi qui presentati, inediti in Italia, sono stati selezionati, tradotti e commentati attraverso un dialogo vivo e partecipato tra studiose e studiosi di diversa formazione. Il volume, suddiviso in tre sezioni (Unità e pluralità, Politica e scienza, Casi di studio), esplora i discorsi contemporanei sulle scienze, riflette sul loro rapporto con la sfera politica e suggerisce vie per la ricerca autonoma in ambito epistemologico.
Epistemologie Critiche e punti di fuga nel dibattito contemporaneo A cura di Luca Cabassa e Francesco Pisano Postfazione di Roberta Lanfredini Testi originali di Gilbert Simondon, François Laruelle, Timothy Williamson, Karen Barad, Reza Negarestani, Gaston Bachelard, Georges Canguilhem, Helen E. Longino, Donna Haraway, Yuk Hui, Gilles Châtelet, Jenann Ismael, Bastiaan C. Van Fraassen, Giuseppe Longo, Mäel Montévil, Dominique Lestel, Thomas Fuchs, Philip Mirowski, Bruno Karsenti, Sybille Krämer, Jean-Claude Milner
ISBN 978-88-5759-905-2
MIMESIS
Mimesis Edizioni Epistemologica www.mimesisedizioni.it
34,00 euro
9 788857 599052
MIMESIS / EPISTEMOLOGICA