Edoardo Cacciatore. La rivoluzione poetica del Novecento
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EDOARDO CACCIATORE:

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editrice

EDOARDO CACCIATORE: LA RIVOLUZIONE POETICA DEL NOVECENTO a cura di «Quaderni di critica»

(Filippo Bettini, Marcello Carlino, Aldo Mastropasqua, Francesco Muzzioli, Giorgio Patrizi)

LMOS editrice

In copertina: Fernando Leal, Illustrazione per Metropolis

ISBN 88-86584-15-6 © 1997 Lithos editrice i Viale Ippocrate, 96a - 00161 Roma Tel./fax 06/44238852

INDICE

Introduzione

TESTIMONIANZE Edoardo Cacciatore, Pensare la scrittura, scrivere il pensiero Luigi Malerba, Una grazia enigmatica Michele Perriera, L’incompiuta restituzione Roberto Di Marco, Dichiarazione su Edoardo Cacciatore per coloro che verranno Mario Lunetta, Cacciatore: l’aritmesi degli urti Stelio Maria Martini, L’E/normità discorsiva di Edoardo Cacciatore

L’ATTUALITÀ DI EDOARDO CACCIATORE Filippo Bettini, La poetica di Edoardo Cacciatore: l’altro Novecento Francesco Muzzioli, La “restituzione” sociale. Storia, messaggi delle cose, critica dell’ideologia, agire comunicativo e istanze politiche e civili nella poesia di Cacciatore Giorgio Patrizi, Edoardo Cacciatore o la poesia “restituita” Iolanda Capotondi, Un caso prolungato di “censura” critica: linee e proposte di una rivalutazione alternativa

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IL PRIMO CACCIATORE Filippo Bettini, Graduali: genesi antilirica di una scrittura allegorica e sperimentale Marcello Carlino, I! cerchio non si chiude: note in margine ad un frammento dei Graduali Marcello Carlino, // discorso di continuità metamorfica della Restituzione Filippo Bettini, Lo specchio e la trottola: energia e rifrazione del movimento della materia nella sperimentazione “noetica” del linguaggio Gustav René Hocke, La poetica di Cacciatore: dagli esordi a Lo specchio e la trottola Massimiliano Manganelli, Hocke lettore di Cacciatore

Indice

IL SECONDO CACCIATORE Stelio Maria Martini, Cacciatore e la nuova «lezione delle cose»: Dal

dire al fare e Ma chi è qui il responsabile? Francesco Muzzioli, Lo “sperimentalismo compiuto” de La puntura dell’assillo Giorgio Patrizi, Edoardo Cacciatore o il pensiero come poesia Cecilia Bello, Itto itto: scrittura e filosofia nell’ultima opera di Edoardo Cacciatore Giorgio Patrizi, I nomi dell’Alterazione

PER LA RIAPERTURA DEL DIBATTITO Giorgio Patrizi, // partito preso delle parole

A Edoardo Cacciatore

Edoardo Cacciatore è morto il 25 settembre 1996, quando questo libro era già pronto per la stampa. Lasciamo a questa dedica, che pure appare irrituale, il ricordo e la testimonianza di una lunga consuetudine di rapporti non solo letterari e culturali.

INTRODUZIONE ittica

Aver promosso e curato un libro su Edoardo Cacciatore, e per di

più una monografia critica estesa a tutte le opere e pluralisticamente arricchita di contributi e di testimonianze, è per noi motivo di soddisfazione e di orgoglio. Ed è un fatto che si carica di significati e si riveste di responsabilità ben al di là di quel sentimento di appropriazione, usuale e quasi patologico in un certo ambito accademico, che gode nel piantare sull’autore la propria bandierina al modo di un baleniere su di un cetaceo arpionato. Non è da oggi, infatti, che abbiamo cominciato a progettare e a scrivere questo libro: esso è il coronamento e lo sbocco naturale di un lavoro che si era svolto finora in articoli, saggi,

presentazioni, prefazioni (materiali che qui abbiamo ripreso, rifatto e rifuso con ricerche nuove), che hanno costituito negli anni il tentativo di sollecitare il risveglio dell’interesse della critica e del pubblico sulla figura e sull’opera di Cacciatore, ingiustamente dimenticata e penaliz-

zata, tranne rarissime eccezioni, e tenuta al margine dai grandi quadri delle antologie e delle storie letterarie, dove — e lo controllerà facilmente ognuno — ha ricevuto nullo o minimo posto. Ma, col raggiungere finalmente la dimensione del libro, non vogliamo conseguire soltanto un tardivo risarcimento e compilare una sorta di domanda di ammissione del nostro autore nel novero dei poeti del Novecento; intendiamo affermare molto di più: il posto che in questi anni è stato negato a Cacciatore è un posto fondamentale, tra i principali nella let-

teratura di questo secolo. Siamo convinti, infatti, che per dare a Cacciatore il giusto spazio critico e per disegnarne le giuste dimensioni e valenze occorra rivoluzionare l’immagine invalsa della poesia novecentesca e quasi rovesciare come un guanto le sue gerarchie, riscrivendone da cima a fondo la storia. Ad un attento esame del suo linguaggio e del suo pensiero, Cacciatore si è andato rivelando ai nostri occhi come una grande figura estranea ai miti e ai riti del sistema poetico dominante, che ha duramente pagato tale estraneità nei modi dell’isolamento: ma tale isolamento (comune del resto ad altri grandi protagonisti della poesia re-

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«Quaderni di critica»

cente: Emilio Villa, il Volponi poeta) non toglie che la poetica di Cacciatore costituisca un ben consapevole progetto di alternativa che, non confondendosi ma procedendo accanto ai nomi succitati e al versante più “contestativo” delle nuove avanguardie (soprattutto Sanguineti e Pagliarani), permette di distinguere nella fase del secondo Novecento un cospicuo fronte ad elevatissima qualità di scrittura e a esorbitante tenore di elaborazione culturale antagonista che è diverso, opposto, dissenziente rispetto alle vie più ovvie e retrograde tenute dalla poesia dei nostri anni.

Della rivendicazione del valore assoluto della poesia di Cacciatore tutto il libro si fa portatore, nelle sue diverse parti e nel vario taglio dei contributi, alcuni di carattere generale e propositivo, altri di più minuta analisi, puntati su singole opere o addirittura su singoli testi. Non possiamo anticipare qui tutte le ragioni che addurremo, ciascuno di noi e dei nostri collaboratori con il proprio approccio e sul proprio 0ggetto di ricerca. Ma in questa sede, parlando con voce collettiva, ci pare opportuno rilevare le prospettive di discussione e di dibattito in cui si inscrive la ripresa e quasi la “scoperta” del continente-Cacciatore; che sono: 1) la messa in questione del lirismo quale unica e sola estrinsecazione del dettato poetico; 2) l'ampliamento del discorso critico a tutti gli ambiti e livelli dell’elaborazione testuale; 3) l’articolazione dell’ipotesi di una letteratura attuale di opposizione e di conflitto. Su tutti questi tre punti — come si vedrà — la caratura della poesia di Cacciatore è altissima: basti considerare, rispetto al primo punto, che la tendenza che gli è connaturata della poesia-pensiero costituisce di per se stessa, di fatto, motivo di detonante polemica verso la nostra tra-

dizione, rimasta sempre più o meno sotterraneamente preda del neoidealistico postulato della poesia intuitiva e sentimentale; che, sul se-

condo punto, la eccezionale densità e ricchezza della poesia cacciatoriana esorbita di gran lunga da tutti gli standard e mette a mal partito ogni parzialità metodologica; che, infine, a proposito del terzo punto, sarebbe piuttosto difficile configurare lo spettro e le caratteristiche della sperimentazione attuale senza valutare a pieno l’apertura di nuove prospettive contenuta nelle procedure dell’autore qui in esame. Ed è da notare che la sordità della critica italiana verso Cacciatore è proprio spiegabile (non giustificabile, s’intenda bene, ma spiegabile sì)

Introduzione

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telematica

proprio con i ritardi su queste tre dimensioni: l’arroccarsi della critica su una idea convenzionale della poesia e degli stessi configurazione e sviluppo del Novecento letterario; la resistenza verso un oggetto di studio che comporta necessariamente una soverchiante fatica intellet-

tuale; la mancanza di qualsivoglia interesse per là promozione di tendenze future che siano innovative e devianti dalla norma corrente. Alle inadempienze della critica ufficiale conviene ribattere evidenziando in tutta la sua portata l’attualità della posizione di Cacciatore; la quale principalmente risiede, a nostro avviso, nel non lasciarsi catturare dalle due sirene dell’ideologia contemporanea, il neotradizionalismo e il postmodernismo: sul primo versante Cacciatore, se anche potrà apparire — una volta superata la rimozione culturale — con la fisionomia di un grande classico, magari in qualità di discendente della poesia filosofica di Lucrezio, tuttavia, a ben guardare, intrattiene con

il passato rapporti obliqui, che passano piuttosto per i rami inadempiuti e scartati (come è quello medesimo della poesia lucreziana) e sempre costantemente si impegna a mettere alla prova la tradizione, a strapparla a un culto astratto e nostalgico per provocarne la resistenza e l'efficacia nella carne viva dell’esperienza dentro la cultura e la società presente; sul secondo versante, è proprio il richiamo allo spessore della parola e agli strati culturali che pertengono al linguaggio della poesia a distanziare Cacciatore rispetto alla “lingua di plastica” del mercato letterario (ed egli del resto è rimasto schivo e alieno dalla voga degli isterismi spettacolari della cultura), nel mentre la sua composizione testuale non si fa appaiare al montaggio indifferenziato e la sostanza conoscitiva della sua complessità lo tiene al riparo dalla facile deriva di un non-senso giocoso. Ed è da sottolineare l’utilità che il confronto con Cacciatore potrà avere nel dibattito in corso sulla ridefinizione dell’avanguardia, con l’aiutarci a strappar via da quella nozione alcuni caratteri stereotipi e, tra essi, soprattutto l’idea di risolverla in un puro formalismo e in una mera distruzione irriverente delle forme. Tra l’altro, l’influsso di Cacciatore, arrivato magari per chissà quali vie traverse, si è fatto sentire nelle recenti proposte del nuovo movimento della Terza Ondata e nella pratica di una allegoria che si riappropria dei modelli del passato utilizzandoli come elementi criticamente 0ggettivati della propria figurazione.

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«Quaderni di critica»

Forse i critici del futuro diranno che Cacciatore era troppo avanti sul suo tempo per essere capito subito; noi, dal nostro osservatorio cronologicamente ravvicinato, non possiamo far altro che cercare di reagire positivamente alle tante sollecitazioni di questo autore e provare a intravederne tutta l’importanza e la validità. Non ultima ragione di apprezzamento è che occupandosi di Cacciatore ci si trova obbligati ad uscire dalle questioni settoriali del gusto e stanno strette perfino le querelles delle “guerre di successione” letteraria. Si tratta, infatti, di una operazione poetica che non si arrocca in un iperuranio mentale, ma si muove continuamente a verificare la pulsante condizione del mondo-della-vita e a contatto di essa si evolve e si modifica nel tempo storico. Per il rimandare costantemente dall’esperienza individuale a quella collettiva, il suo sforzo di conoscenza e di animazione attraverso il linguaggio riguarda non soltanto i cultori della poesia ma tutti coloro che sono interessati alla “riforma” della coscienza civile e culturale, tanto indispensabile oggi a qualsiasi progettazione e governo di una società altrimenti inestricabilmente caotica e segmentata. A partire da tale ordine di riflessioni, rivolgiamo in particolare questo nostro lavoro ai giovani e al mondo della scuola: con la speranza che la nostra esposizione — accompagnando l’auspicabile ristampa dei testi, ormai introvabili al di fuori delle biblioteche, e con difficoltà anche in

quelle — possa servire da stimolo e da strumento: da via d’accesso, a superare il pregiudizio della “difficoltà” della poesia moderna per entrare, senza timori reverenziali come pure senza arroganze populistiche, nel continente-Cacciatore; e da punto di riferimento per inoltrarsi in quella che è certo zona ancora in parte incognita e richiedente percorsi complessi, ma che a quanti accettino la scommessa di una lettura non garantita in partenza e non già tutta segnata da risposte prefabbricate di comodo, ad essi assicura in ricompensa una comunicazione di straordinaria profondità noetica e, insieme, di altrettanto straordi-

naria energia vitale.

Roma, luglio 1996

Filippo Bettini, Marcello Carlino, Aldo Mastropasqua, Francesco Muzzioli, Giorgio Patrizi (collettivo «Quaderni di critica»)

Introduzione

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Nota dei volumi di Edoardo Cacciatore citati nei saggi di questo libro:

L'’identificazione intera, Napoli, ESI, 1951; La restituzione, Firenze, Vallecchi, 1955; Lo specchio e la trottola, Firenze, Vallecchi, 1960; Dal dire al fare cioè: la lezione delle cose, Urbino, Argalia, 1967; Ma chi è qui il responsabile?, Roma, Cooperativa scrittori, 1974; che

comprende

Tutti i poteri (cinque presentimenti), Milano, Feltrinelli,

1969; Graduali, Lecce, Manni, 1986; La puntura dell’assillo, Milano, Società di poesia, 1986; Carichi pendenti, Bergamo, Lubrina, 1989; Itto itto, Lecce, Manni, 1994.

|

PENSARE LA SCRITTURA, SCRIVERE IL PENSIERO Edoardo Cacciatore

| La poesia è intensificazione della realtà, introduce in essa una vibrazione intellettuale, è come un frammento di realtà, di cui vuole ren-

dere l’esperienza e il calore, che il poeta assorbe ed emana attraverso il testo. Non c’è una prospettiva “ortodromica” nella mia ricerca, ma una sorta di processo pluridinamico che potrei ricondurre, con il lin-

guaggio della fisica, al principio di indeterminazione di Heisenberg. Jo, quando comincio a scrivere, non so esattamente in quale direzione concluderò il testo; possiedo una traccia, ma non so ancore fin dove essa arriverà: proseguo in una sorta di avventura fin quando non tocco un termine. Ma debbo dire che, rileggendo un mio testo, non mi è mai capitato di non condividerlo più: in genere, ho un atteggiamento di distacco come se si trattasse di pagine altrui e interviene quasi la sorpresa di averle scritte. Per quanto riguarda la declamazione del testo, sono favorevole alla poesia detta ad alta voce, perché essa va sentita anche nelle sue valenze sonore, e la si può godere veramente sentendola leggere possibilmente dall’autore. In questo caso è possibile seguirla proprio come fa il musicofilo che va al concerto seguendo la partitura, ed è questo il

modo più intenso di godere la musica, perché di volta in volta viene svelato quello che sta avvenendo, e al tempo stesso percepito, non soltanto letto. (Dichiarazione dell’autore in un incontro con gli studenti del Liceo E. Majorana di Roma, per l’iniziativa “Scrittori nelle scuole”, 1983-84)

UNA GRAZIA ENIGMATICA

Luigi Malerba

Quando Valentino Bompiani mi presentò nel 1966 Edoardo Cacciatore nel vecchio ufficio della sua Casa Editrice a Piazza di Spagna, mi fece capire, non ricordo più con quali parole, che si trattava di un poeta “sapiente”. Non lo avevo mai sentito nominare, ma le parole di un uomo di grande sensibilità letteraria come Bompiani mi avevano incuriosito. Cacciatore aveva avuto da Valentino il mio romanzo // serpente e dopo averlo letto mi aveva ritenuto degno di ottenere dalle sue

mani una copia de La restituzione. Confesso che rimasi incantato dalla grazia enigmatica di quei versi. Sono sempre molto incerto sulle mie qualità di lettore di poesia, ma ho avuto allora la sensazione immediata di meraviglia che solo la grande poesia riesce a comunicare. Non succede tutti i giorni. E questo da un poeta quasi sconosciuto o comunque rimasto in ombra per gli strani e a volte crudeli casi della vita letteraria. | Diventammo amici e più di una volta con mia moglie andai a trovarlo a piazza di Spagna nella casa di Shelley di cui era conservatore e dove viveva insieme alla moglie Vera, che aveva scritto alcuni pregevoli libri di narrativa. Ci incantava con i suoi racconti di viaggi e di incontri e i suoi pettegolezzi, ormai “storici”. Una spiegazione della sua quasi emarginazione non l’ho mai trovata, ma forse le ragioni che ne dava lui stesso e che venivano interpretate da alcuni come una manifestazione di egotismo esasperato, credo proprio che avessero un fondamento reale nella gelosia dei coetanei che, a suo dire, lo avevano

sistematicamente ignorato. La passione letteraria di Cacciatore spaziava in area internazionale e soltanto da un altro amico scrittore altrettanto misterioso e labirintico come Rodolfo Wilcock ho avuto informazioni e consigli di lettura così precisi e aggiornati, spesso insoliti. Ricordo tra l’altro che fin dal primo libro Les choses mi consigliò di leggere Perec, allora sconosciuto

Testimonianze

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in Italia, e che nella sua casa incontrai Ingeborg Bachmann, che allora abitava a Roma. Finalmente nel 1965 uscì nel volume Immagini e maniere pubblicato da Feltrinelli un saggio memorabile di Alfredo Giuliani, una interpretazione e analisi appassionata della poesia di Cacciatore. Quel saggio, che portava in.calce la data 1957, segnò l’inizio di un suo riconoscimento lentissimo ma costante. Dunque non mi ero sbagliato. Ho letto in seguito gli altri libri di Cacciatore, ma è rimasto dentro di me soprattutto l’incanto della prima lettura e il mistero del suo autore esiliato in patria. Cacciatore mi disse un giorno che aveva ricevuto da Giuliani l’invito a entrare nell’antologia dei Novissimi ma che aveva rifiutato perché non poteva accettare la compagnia di uno di quei poeti. Si trattava di Sanguineti. Carattere difficile certamente il nostro Edoardo, pienamente cosciente del proprio valore, ma spesso accecato da ombrosità e da furenti snobismi. AI tempo della Cooperativa Scrittori gli offrimmo l'opportunità di

pubblicare un suo libro di poesie che i grandi editori rifiutavano. Ricordo che quando ci consegnò il testo con un titolo impossibile gli domandammo con tutte le cautele se per caso fosse disposto a cambiarlo. Come sfregio alla nostra domanda decise subito un titolo beffardo e altrettanto impossibile: Ma chi è qui il responsabile? Negli anni Ottanta e Novanta Cacciatore ottenne le preziose attenzioni dei critici e scrittori della seconda generazione da Filippo Bettini a Mario Lunetta, da Romano Luperini a Francesco Muzzioli e Giorgio Patrizi, ma ancora non è spezzato del tutto il cerchio magico che lo tiene prigioniero. L’immagine del mondo di Edoardo Cacciatore, anarchica e pitagorica insieme come ha scritto Giuliani, si è manifestata anche in libri di

riflessione che ci raccontano soprattutto il grande enigma nel quale ha sempre navigato il poeta come in un mare tempestoso. Ma forse le tempeste fanno bene alla poesia.

L’INCOMPIUTA RESTITUZIONE Michele Perriera

La finestra del suo piccolo studio d’epoca si apriva su Trinità dei monti. Era una mattina molto soave. Edoardo Cacciatore parlava con svagata naturalezza e c’era un’opacità fra noi, una specie di attiva dimenticanza, una segreta, impronunciabile meraviglia. Il suo volto — che nel controluce sembrava di pietra — ricordava gli dei ricciuti e aggrondati di certe civiltà disperse; la sua voce — cordiale e tuttavia sfuggente - mi rammentava il suono del violoncello, il suo cantare caldo e remoto. Era lucidissimo ed era folle. Ed era infinitamente mite nella sua fiera astrazione, che trattava le idee come sassi, i linguaggi come gangli di cuore, le memorie come panorami sensoriali di una profezia senza enfasi e senza nostalgia. Era l’inizio degli anni Settanta. Avevo in mente di scrivere un saggio su di lui. Mi era stato rivelato, anni prima, dal bellissimo ritratto di

Giuliani; mi avevano poi entusiasmato i suoi libri, letti proprio come papiri: una sontuosa archeologia dell’epoca presente, il suono di una mente sconfinata, ai quattro venti, che fa della materia il suo mondo variegato, il suo universo di atti, di coscienze, di utopie. Trottola della materia, la storia vi gira come un vortice, come un gioco a nascondere,

nella velocità, l'oggetto stesso dello stupore: la mutazione, la trasposizione del senso. Specchio di questo miracolo materiale, la poesia non ne riflette solo la sagoma, ne fa sentire la polluzione, lo scricchiolio, la

genesi. In quella assorta mattinata romana, a casa sua, mi parlava più o me-

no di tutto questo: senza nessuna invadenza teorica; con quel severo tono usuale con cui si parla di vicende vissute, di esperienze incompiute, di possibili viaggi. Compostissimo nel suo completo grigio, mi osservava raramente; quasi sempre guardava altrove, in quella opacità — mi pareva — in cui stava parlando, che certo avvertiva non dentro di noi, né forse tra noi, ma nel mondo come grande madre, come figlio prodigo. Di tanto in tanto però rivolgeva verso i miei i suoi brillanti

Testimonianze

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occhi di antropoide, le cui grosse sopracciglia davano al volto nobilissimo una vorticosa impronta di animale. E intanto — con grande lievità — parlava e riparlava del suo Mach, della sua fisicità dello spirito, della sua fede nella restituzione dello spirito alla materia. Prendendo appunti per un saggio a venire, io in realtà non scrivevo quasi niente: l’inizio di alcune frasi, il lampeggiare di certe parole, il flusso di qualche mania. E quando lo lasciai, mi sentivo, sì, acceso, ma

era come se questa accensione della mia mente fosse in qualche modo intraducibile, per me, irriferibile. Per oltre vent’anni di tanto in tanto ho riguardato quegli appunti: ogni volta animato da un rinnovato desiderio di scrivere su Cacciatore, ogni volta raggiunto da quella opacità che c’era stata fra noi. E ad onor del vero non ho mai fatto nulla per finire. Anzi per lungo tempo, spesso, l’ho ignorato. Come si fa con i grandissimi maestri, che non si vogliono e non si debbono imitare. L’ultima volta che l’ho visto, eravamo ad Orvieto o a Piacenza, non

ricordo: era venuto anche lui ad un raduno dei reduci del “’63”. Era la fine degli anni Settanta, credo. Fra stato appena ucciso Aldo Moro. O stava per essere assassinato. Eravamo in una grande, storica piazza e lui parlava con Alberto Arbasino, con la svagata soavità di sempre; e notai che Arbasino gli parlava, a sua volta, con una emozione, con una

intensità che non avevo mai vista in lui. Come se ci fosse tra i due una vibrante opacità. Mi sentivo in colpa con Cacciatore per non aver scritto il saggio per il quale, qualche anno prima, gli avevo rubato una splendente, intera mattinata. Lo ascoltavo appartato. Stava parlando dei poteri segreti, della loro crescente ubiquità, della violenza e della stupidità che diffondevano nel mondo. Si sentiva personalmente unto, sporco, corroso da questa persecuzione segreta. Sentiva che il Sapere ne era stretto alla gola, ne era quasi estinto. Era lucido e folle, come sempre, e non perdeva la sua placida, elegante compostezza. Né era mutato il suo fosco sguardo d’antropoide, che a un certo punto posò su di me, come si guarda un albero o un drappo. Non mi riconobbe, credo, ma ricambiò il sorriso. E la nostra reciproca restituzione rimase incompiuta.

DICHIARAZIONE SU EDOARDO PER COLORO CHE VERRANNO

CACCIATORE

Roberto Di Marco

Nella primavera-estate del 1957 compivo vent’anni e seppi di Cacciatore dalla lettura di un saggetto recensivo magistrale che sul n. 3 del «Verri» gli dedicava Alfredo Giuliani. Pur avendo idee diverse, del «Verri» di Anceschi e in ispecie di Alfredo Giuliani mi fidavo in modo assoluto. E così incominciò la mia ricerca dei testi di Edoardo Cacciatore. Mi ci volle un anno per avere, da una libreria napoletana, una

copia de L’identificazione intera, del 1951. Io nel °57 ero aspirante poeta, amavo la filosofia greca, ero un patito di Goethe ma leggevo e rileggevo Shaftesbury, ero marxista e materialista ed ero in me lacerato tra la fitta militanza comunista e l’amore per le humanities ma in senso contrario. Quelle 700 pagine di Cacciatore, quando le ebbi insieme a versi per me sconvolgenti di Emilio Villa, me le leggevo di notte, a spizzichi, ritrovando in esse chiarissime le mie stesse radici sicano-sicule, e infatti, mi facevano tornare in mente le sentenze e le metafore

di mio zio Cola contadino analfabeta. E capivo, e mi orientavo facilmente tra le difficoltà lessicali di quella prosa che, è vero, richiamava

il barocco, ma un barocco tutto speciale. A metà libro interruppi la lettura. Mi dissi: devo prima rileggere i frammenti di Epicuro e il De rerum natura di Lucrezio e, nel caso specifico, la Vita nuova di Dante che

è tutt'altra pasta, ma nella cultura occidentale è il modello originario di ogni forma di Bil/dungsroman. Il racconto finisce qui. Dopo Cacciatore, che rimase, scoprii Emilio Villa, e però già da prima mi intrigava molto il Laborintus di Edoardo Sanguineti. Poi mi rituffai nelle Storie di Erodoto, nel De bello gallico di Cesare e infine incominciarono a venir fuori i miei Contrappunti.

Testimonianze

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DI

Torno su Cacciatore, brevemente. Da critici e letterati (a parte la

scuola romana dei «Quaderni di critica» e pochi altri) gli scritti del mio notevole concittadino sono assai poco frequentati, valorizzati e discussi. Essi non sanno ciò che perdono. Lui, il filosofo-poeta che discende dai fenici, perde nulla. Lui «ha dalla sua la immenomabile transilità dell’Energia che transita» (/tto itto, p. 353). Perde nulla anche il paesaggio culturale siciliano, essendo tutta l’opera di Cacciatore — e /tto

itto specialmente — un gran monumento di pensiero (pensiero pensato con le dita oltre che nella mente che partorisce lava) tra gli ulivi centenari. Per concludere: se dipendesse da me, io, ai turisti che in estate vengono a Palermo e meravigliati e ammirati sostano increduli in Piazza Pretoria (o della Vergogna), darei da leggere, per capire lo spettacolo stupendo delle statue nude che circondano la fontana centrale, il testo del paragrafo XLIII del capitolo Aritmesi inscansabile di Itto itto. Il titolo del paragrafo sunnominato dice: «Anche l’inamovibilità che sembra priva di andamenti ha una sua peculiare andatura». Letteratura questa? Per favore...

Letterarie, in Cacciatore, sono le forme, quando fa poesia. E sul-

l’interpretazione appunto letteraria (che però va a/ di là delle forme, come è giusto materialisticamente) della poesia cacciatoriana nulla avrei da aggiungere allo scritto critico di Filippo Bettini premesso all'edizione 1986 dei Graduali. Ma terrei anche in gran conto (specialmente per comprendere la natura allegorica della poesia cacciatoriana) la stupenda scheda extra-testo anonima (ma che presumo scritta direttamente da Cacciatore) contenuta nell’edizione 1969 di Tutti ipoteri. Io ebbi la fortuna nella primavera del 1959 di nutrirmi della traduzione italiana parziale (voluta da Giorgio Colli per la sua Enciclopedia di autori classici presso l’editore Boringhieri di allora) degli Orphicorum Fragmenta raccolti da Otto Kern nel 1922 a Berlino per l’editore Weidmann. E la lettura “profonda” di quei frammenti orfici

a

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Roberto Di Marco

confermò (così mi parve, ma ne sono convinto ancora oggi) l’idea originaria che mi ero fatta della scrittura di Edoardo Cacciatore. In breve: si tratta di una scrittura noetica e poetica.insieme (e sapevo già, da Esiodo e Omero, ma anche da Dante Alighieri, che poesia e pensiero sono la stessa cosa, e da Cacciatore avevo imparato che la stessa cosa è sempre un’altra cosa), scrittura la quale, pur collocandosi contraddittoriamente nel mezzo del Novecento, viene da lontano, dalle ma-

trici stesse di questa civiltà che volge ormai alla sua fine (e si leggano

bene i cinque presentimenti di 7utti i poteri, affianco però alla Restituzione, cioè alla rinascita). E qui finisce la mia testimonianza per coloro che verranno.

CACCIATORE:

L’ARITMESI DEGLI URTI

Mario Lunetta

È raro imbattersi, specialmente in una letteratura come la nostra, impregnata nel profondo di tensioattivi cattolici (e più precisamente gesuitici) difficilmente biodegradabili, in un autore che, come Edoardo Cacciatore, sia al tempo stesso coltivatissimo e crudele: crudele nel senso che la sua intransigenza di pensiero-scrittura non arretra davanti a nessun arrangement diplomatico, a nessuna mediazione da ciambellano, per esplicarsi senza remore in tutta la sua ardua ricchezza. Così, la sua prosa e la sua poesia, che lavorano da sempre su una tastiera assolutamente interattiva e risultano perciò vicendevolmente inseparabili, conoscono soltanto il codice dell’implacabilità e dell’azzardo estremo; sono macchine produttrici di disagio non esorcizzabile, centrali generatrici di vuoto in forza della loro strenua costipazione, e per ciò stesso di fastidio: qualcosa di radicalmente opposto a quella tendenza al compromesso (linguistico e di senso) così tipica del nostro parnaso otto-novecentesco, proclive sul suo versante più ufficializzato, per stimmata genetica e per piccolo cinismo opportunistico, al Lirismo Domestico (e addomesticato) e al finto Maledettismo da passerella. Cacciatore è convinto che la poesia è un’ermeneutica della realtà; e ancora, che è — com’egli stesso ha scritto una volta — «un atto liberatorio, un soccorso conoscitivo che il poeta può prestare ai suoi simili perché si è addestrato più di loro a capire la realtà. Che è feroce, crudele, spietata e solo attraverso un viaggio graduale verso la totalità dell’esperienza, alla ricerca dei nessi tra gli eventi, mossi da un impulso meta-razionale alla conoscenza dell’essere del mondo, si può cogliere

l’eternità di un istante, si può affermare l’aritmesi degli urti (itti, battiti) che si rifrange e si placa nelle cellule del discorso». Cacciatore sa che la poesia non eternizza niente: al massimo, quando la sua è una energia possente, spezza la continuità dell'enorme spessore di menzogna che avvolge e intride la nostra esistenza, e che si chiama, ai livelli del minimo quotidiano, Senso Comune; e ai livelli

Mario Lunetta

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più alti (e altisonanti), Ideologia. La scrittura, che tradisce sempre la sua incancellabile contiguità con l’ideologia che comunque veicola, è pradossalmente anti-ideologica quando la propria stessa ideologicità smaschera e mette allegoricamente in scena. Contiene il mondo ma sputtana la sua falsa rappresentazione, grida la nudità del re e decapita i feticci.

Cacciatore, che di questa pratica è maestro, sa con Wittgenstein che «ogni spiegazione è un’ipotesi». Per questo, la foresta del linguaggio, quella foresta barocca e così spesso spinta a un gelido diapason, la cui voce plurale si ode e si gode da La restituzione (1955) a Graduali (1986), da L’identificazione intera (1951) all’imponderabile /tto itto (1994), è per Cacciatore il luogo della ricerca senza speranza e insieme il luogo di una precaria salvezza: una salvezza non banalmente catartica ma sprezzantemente pagata ad altissimo prezzo intellettuale ed etico; una non-speranza del tutto priva di narcisismi nichilistici. Quindi, ancora col filosofo del Tractatus logico-philosophicus, «dissodare il linguaggio» per liberarsi della stregoneria del sapere supposto. «Ogni lingua ha il suo silenzio» dice Canetti. E la sonorità multitonale della lingua poetico-filosofica cacciatoriana ha anch'essa i suoi silenzi, come dire i suoi crepacci improvvisi che si aprono sotto i piedi del lettore e gli mostrano ciò che mai i tepori della sua morbida attesa, o la gommapiuma della sua routine mentale gli avrebbero prospettato. Un atto di violenza, certo. Cioè, un atto di grande, democratica fiducia all’o-

nestà intelligente di chiunque si misuri con le asprezze di un testo complesso, che configura se stesso come fenomeno di progettualità

aperta. «Lo spleen — osserva Benjamin — è il sentimento che corrisponde alla permanenza della catastrofe». Nel linguaggio fermentativo e insieme densificato di Cacciatore, la permanenza della catastrofe è forse il dato meno mutevole negli anni, della sua straordinaria avventura allegorica. La contraddizione va senza posa esplorata e regolata contro la sua facies equivoca, fino a farla deflagrare. Questa è — da sempre — la strategia del poeta della Puntura dell’assillo, il lievito ossessivo del suo

pensiero-forma.

La stagnazione,

l’ossificazione,

l’orizzontalità

marmorea del senso mistificato sono i suoi eterni nemici. Alla loro ipocrisia, Cacciatore — uomo di volto alato e di criniera leonina — oppone la ricchezza del disordine. Il disordine dei segni, cioè il contrario

Testimonianze

Dati

della loro confusione, può produrre chiarezze sempre ulteriori, da conquistare scontando tutti i rischi della propria quéte nel pànico aggrovigliato del Labirinto. Perché quest'immagine, a questo punto del mio modesto discorso cacciatòrico? Per suggestione testuale, certo; ma anche, suppongo, per suggestione metonimica dettata dal trovarsi ubicata la casa del poeta ai piedi di quello stupendo labirinto vegetale che è l'Orto Botanico. Largo Cristina di Svezia 12: è qui che Edoardo abita con Vera (Signorelli), la sua impagabile moglie, anche lei scrittrice di conio non comune, coprotagonista — come scrive suo marito — di quell’«incontro totale: sentimentale e intellettuale», che ha segnato una volta per sempre le loro vite. Poche volte sono stato in quella casa, e sempre m'è

parso di “udirvi” un silenzio fortemente laborioso, la palpabile presenza di una concentrazione umana e intellettuale al tempo stesso aperta al mondo e impermeabile: qualcosa di analogo, insomma, alla sensazione che invariabilmente mi comunica l’Orto Botanico: di sconfinata luce misteriosa, e di abisso.

(Accademia Platonica, agosto 1996)

L’ENORMITÀ DISCORSIVA DI EDOARDO CACCIATORE Stelio Maria Martini

La singolarità del caso di Edoardo Cacciatore nel quadro dell’atti| vità poetica in Italia negli ultimi sessant'anni si rivela fondata sulla vocazione del poeta all’e/normità discorsiva. E/normità discorsiva sia nel senso di abnormità o esorbitanza rispetto alle norme del discorso, sia nel senso della costitutiva immanità della sfera verbale, materia propria dell’autore. Se partiamo dall’idea come di un’immunità di Cacciatore nei confronti del comune consenso alla realtà, non importerà molto stabilire se sia stata una sua nativa disposizione a tenerlo immune o se, invece, egli abbia prima o poi acquisito tale immunità col maturare della sua vocazione. Di fatto la realtà è per lui dicibile solo attraverso il discorso formidabile e proteiforme e la sua opera, nell’insieme come nelle singole parti, consiste in un formidabile accumulo verbale che, nella costante sfida all’automatismo discorsivo, riesce sempre a meraviglia, cioè a farsi strada sempre sorprendentemente grazie all’architetturale aspetto formale, che la esibisce come progetto sempre disponibile per l’uso. Ciò è sufficiente per porre Cacciatore al capolinea di partenza di una nuova modalità di scrittura propria dell’avanguardia, in parallelo con la scrittura che negli stessi anni e autonomamente,

veniva realizzando Emilio Villa in base a orientamenti e con esiti di profonda analogia. Edoardo Cacciatore, nato a Palermo nel 1912 e romano di adozione, a lungo non ritenne di pubblicare i suoi scritti, versi O prosa che fossero. Una curiosa quanto insospettabile testimonianza di questo, che è un fatto di cui va tenuto debito conto, è reperibile in un diario di Sibilla Aleramo:

«12 dicembre

[1943], domenica, sera.

Lunga visita di Vera Signorelli col marito, Edoardo Cacciatore. Questi due giovani mi danno sempre un grande senso di armonia, è il loro intimo accordo (che appare, e credo sia, perfetto) a creare un’atmosfera così suasiva. Non conosco i versi che Cacciatore scrive (e non pubblica) e quasi nulla delle prose liriche di Vera: ma cer-

Testimonianze

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tamente ambedue sono fra coloro che “in stato poetico” vivono quasi perennemente». Così si trova che solo verso i quarant'anni Cacciatore decide per la prima volta di dare alle stampe un suo spesso lavoro in prosa, L’identificazione intera. Una insistente preoccupazione verbale quale non usava, l’uso di una lingua continuamente tornante su se stessa in sovradeterminazioni, pur nella tensione continua a superarsi, una irrefrenabile eterodossia di pensiero e di atteggiamento rifiutanti il comune consenso nei confronti della realtà diedero l’impressione di un lavoro ostico, indigeribile, perfino risibile. Come avvenne in una serata

di grasse risate tra i paracrociani che si riunivano presso la direzione de «Il mondo», di Mario Pannunzio, in Via della Colonna Antonina

52, quando qualcuno volle incaricarsi di tenere allegra la compagnia

dando lettura di passi del libro. L’episodio è qui riferito perché, venuto a conoscenza dell’autore, valse sicuramente a offrirgli riscontro verificativo tanto dell’opportunità del suo lungo rifiuto a pubblicare, quanto (posto che ce ne fosse stato bisogno) della consapevolezza della singolarità della propria posizione, per la quale non era possibile il riferimento a modelli antecedenti. Il poeta viene a conoscenza, e cioè viene a meraviglia con il suo stesso venire a discorso e con l’andar dicendo, e la meraviglia è tutt'uno con l’e/normità del discorso medesimo. Questo pullula e si rifinisce in quella clausola singolare che è il poeta, ma la oltrepassa comunque. Il poeta agisce grazie al suggerimento morfologico dei sensi, ma tale morfologia è propriamente proteiforme e, nell’atto stesso di darsi, è già alterata, come alterata è la clausola medesima.

è la concrezione verbale in cui tutto ciò si realizza, dunque, ad essere in alterazione continua, e l’alterazione non è disfacimento bensì inci-

pienza continua di nuova realtà, oltre qualsiasi norma o prevedibilità. I termini propri in cui Cacciatore enuncia questa poetica (e che sono gli stessi che qui diamo in corsivo) sono riscontrabili nelle opere dell’autore in versi e in prosa, indifferentemente, dalla prima all’ultima, identificati nel carattere formale o teorico che assumono, mentre nel

suo complesso l’opera si dà come progetto idoneo alla rivelazione del caos attraverso la corposa materialità verbale di cui consta: scrittura, flatus, risonanze. Venivano intanto maturando i tempi perché l’autore potesse sen-

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i

Stelio Maria Martini

tirsi più volentieri indotto a pubblicare. All’inizio degli anni Cinquanta in Italia si poteva registrare la ripresa dell’attività di poeti tardo e postfuturisti, come Carlo Belloli (attivo fin dal 1943), ma anche di Farfa e Tullio d’Albisola, e nel 1952 Antonino Tullier esporrà alla Galleria Annunziata di Milano le sue poesie “disintegrate”. A Napoli, l’invenzione verbale di Vittorio Viviani creava una lingua rotta dagli estri e sfiancata dalle pulsioni umorali e iraconde di «sonetti» (1940-1977, poi raccolti in Rime per un diario, Guida, Napoli, 1977), che godettero di un’invidiabile circolazione ad opera dei numerosi destinatari. All’estero veniva affermandosi la poesia “concreta”, il cui manifesto venne redatto da Oyvind Fahlstròm, e che ebbe le proprie aree “cicloniche”

intorno alla rivista svizzero-tedesca «Konstellationen» (1953) di Eugen Gomringer, ed a quella brasiliana «Noigandres» (1952), insieme a un’antologia di quei poeti, esperienza, quest’ultima, che nacque mentre era presente colà Emilio Villa. Il quale, per parte sua, aveva già pubblicato la raccolta E ma dopo (Argo, Roma, 1950, con disegni di Mirko), mentre Mimmo Rotella, dopo aver inventato, sempre a Ro-

ma, la sua poesia “epistaltica” (1949), ne pubblicherà poi il manifesto, auspice Sinisgalli, su «Civiltà delle macchine» nel 1955. Senza risalire alla prima metà del secolo, la ripresa di una nuova scrittura in Italia va ravvisata in queste esperienze e non in altre. Se non nella sola altra di Cacciatore, il quale, ugualmente distante dalla tradizione come dalle nuove esperienze appena ricordate, e in ogni caso in piena autonomia rispetto ad esse eppure ugualmente partecipe e fondatore, pubblicò sulla rivista romana «Botteghe oscure», in due fascicoli 1953 e 1954, Graduali, primo nucleo delle sue scritture poetiche. Le poesie di Graduali sono state ripubblicate in volume solo in anni recenti, precisamente nel 1986, e qui diremo che un’altra volta almeno succederà che una rivista (significativamente, «Il Verri», n. 1, 1960) pubblicherà testi poetici di Cacciatore ancora inediti. Intanto sarà utile notare che già nel primo nucleo delle poesie di Cacciatore è possibile rilevare tutti i termini strutturali della sua poetica: diceria, alterazione, incipienza continua, cellula, clausola singolare, identificazione, restituzione di realtà, transito, enormità discorsiva, discorso a meraviglia, architettura, scempio, storia, certezza incredibile. I

medesimi possono essere puntualmente riscontrati nell’ultima raccol-

Testimonianze

SII

ta, La puntura dell’assillo, del 1986: «zonzeggia il linguaggio e pare obbedisca» (III, 1), «benché sia mnemonico dà meraviglia» (IV, 1), «l’identica storia al contrario diverte» (XI, 6), «e trovi che l’unico è fatto da tanti» (XIX, 14), «ma t’alteri e agendo sei già alveare» (XXI, 4), «tu fosti e contrai futuro anteriore» (L, 14). E che siano termini strutturali al discorso del poeta è comprovato dal parallelismo delle scritture poetiche rispetto alle teorizzazioni in prosa, le quali ultime, pertanto, finiscono col presentarsi, nei confronti delle prime, come il loro laboratorio, ed anche ciò è tipico dello sperimentalismo come dell’avanguardia. Si trova infatti che mentre L’identificazione intera risulta parallela a La restituzione, Lo specchio e la trottola è teorizzato nel saggio Contrattempo accademico: intorno alla poesia e all'uomo moderno premesso alla stessa raccolta; e mentre il saggio Dal dire al fare cioè: la lezione delle cose precede la raccolta Ma chi è qui il responsabile?, si deve pensare che laboratorio de La puntura dell’assillo sia il saggio, uscito due anni fa, /tto itto.

Ma ben oltre l'argomento della fedeltà del poeta ai propri temi, come alle proprie tecniche, quello che qui si vuole sottolineare è, invece,

l’evoluzione soteriologica di questa scrittura, nella quale si può seguire, ad esempio, il tema dello scempio evolvere in efferatezza, anzi nel tema del coefficiente di efferatezza proprio del reale, oppure il tema dell’acquazzone delle immagini evolvere in quello dell’epifania delle cose, depositi di energia salvifica per cui l’uomo entra oggi efficacemente

nella realtà, finalmente immesso dal proprio demonismo nelle sediziose correnti d’energia che zonzeggiano nell'universo. Ancora una volta, troviamo il demonismo e l’energia di cui qui si parla consistere in questa medesima scrittura, la cui carica sediziosa la rende progetto/dispositivo, come si diceva, pronto per l’uso, e sempre attraverso l’e/normità linguistica. Si tratta, a ben vedere, della medesima e/normità gestita contem-

poraneamente ma autonomamente da Villa, alla quale costui per suo conto perviene con il far esplodere le unità verbali e beneficiando dell’irradiamento delle schegge in tutte le direzioni. Laddove il sorprendente assemblaggio verbale di Cacciatore, insieme incline alla lingua bassa come a quella alta, al luogo comune (e basti pensare a titoli come Ma chi è qui il responsabile? e Dal dire al fare) come al lavorio sulla

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Stelio Maria Martini

stessa formazione verbale, sembrerebbe orientato in direzione di esiti

diversi. Ma non è così, non fosse perché la sovradeterminazione qui regna sovrana e riesce a giovarsi di arditezze verbali sempre più insistite, specie da ultimo: per esempio di abrupto come sostantivo, o itfo (stimolo o puntura dell’assillo demonico, ictus patologico e accento), e altre neoformazioni quali zonzeggiare, brieggiare, trànsile, flussipede, e perfino recuperi come naca o strafalaria, punti d’arrivo di una libertà verbale non nuova, peraltro, nell’autore.

Resta dunque che nel quadro storico della recente tradizione della nuova scrittura in Italia, Cacciatore va considerato un capostipite. In anni in cui, certamente non più per oscura (ai più) intuizione come poteva essere al tempo di Marinetti, bensì conclamatamente il logos risulta assorbito senza residui nel preponderante rumore mediatico che sovrasta e scorre via, l’opera di questi capostipiti si presenta come proveniente da un punto in cui il logos era all’arché. La stessa opera è ora pensabile come idonea a porre il logos in epoché.

E

LA POETICA DI EDOARDO L’ALTRO NOVECENTO

CACCIATORE:

Filippo Bettini £

Il caso di Edoardo Cacciatore, così come si è venuto svolgendo e configurando dal ’50 ad oggi, ha ormai assunto contorni socio-culturali che sfiorano il paradossale. Poeta tra i maggiori del secondo Novecento, precursore dello sperimentalismo letterario degli anni Sessanta, autore di opere fondamentali (come La restituzione e Lo specchio e la trottola) che hanno segnato una svolta nel modo corrente di “intendere e fare letteratura”, modello di riferimento, oggi più di sempre, per molti giovani esponenti dell’ultima avanguardia della Terza Ondata, Cacciatore non solo non è ancora conosciuto e valorizzato quanto dovrebbe a livello di diffusione pubblica ed editoriale, ma stenta anche a trovare da parte della critica un congruo e doveroso riconoscimento della sua importanza e della sua attualità. La sua opera è andata progressivamente incontro ad un duplice e simultaneo processo di emarginazione e di occultamento, che si è risolto da un lato nel sotterraneo blocco della circolazione materiale dei suoi testi (praticamente irreperibili, perché, da tempo, non più ristampati), dall’altro nella conseguente esclusione del suo nome dai riferimenti prioritari del dibattito teorico e militante dipanatosi nell’ultima parte del secolo. E le ragioni non sono certo casuali: né si deve parlare di svista o di negligenza, quanto piuttosto converrà pensare a premeditata avversione. Si deve risalire ad un motivo più interno: e cioè alla sostanziale incompatibilità dell’impostazione e dei valori della sua poetica con il sistema cristallizzato dei principi ideologici e linguistici della tradizione letteraria del Novecento italiano. La ricerca di Cacciatore si è articolata, fin dall’inizio, nello sviluppo

di tre momenti distinti, tra loro complementari: la proposta di una nuova sintesi tra pensiero filosofico e scrittura poetica, l’esercizio di un’interrogazione costante sui modi e sulle finalità dello scrivere, la

creazione di un linguaggio espressivo assolutamente inedito, ricco di

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Filippo Bettini

ascendenze classiche ma di spiccata vocazione sperimentale. E, fin dall’inizio, la consequenzialità e il rigore del suo svolgimento non hanno consentito alcun margine di mediazione e di recupero da parte dei modelli egemoni della cultura ufficiale e si sono presentati, agli occhi dei suoi rappresentanti, come espressioni di un comportamento trasgressivo, eretico, iconoclasta, sentito come offesa alla istituzione letteraria

e come causa embrionale di indignazione e di scandalo.

I. Poesia e filosofia Cacciatore è, infatti, uno di quei rari esempi di “poeta-pensatore” che, anziché assegnare alla poesia una funzione catartica e trasfigurativa (come vorrebbero i più diffusi canoni evocativi del gusto lirico e frammentistico), tende ad assumerla come luogo incandescente di analisi e di interpretazione del reale, come filtro ineludibile di scoperta e di verifica della pluralità dei suoi aspetti dinamici e contraddittori e delle loro interne possibilità di correlazione e di sintesi. Sia la sua scrittura in versi che quella in prosa prendono vita da un’inclinazione “noetica” e riflessiva che non fa da generico sfondo al momento fantastico-inventivo, ma ne definisce un aspetto essenziale e costitutivo e rappresenta, quindi, un presupposto determinante della sua giustificazione estetica e della sua organizzazione tematica e formale. Tra pensiero e linguaggio non si interpone alcun divario di successione gerarchica e temporale: entrambi agiscono simultaneamente nell’esperienza unitaria della pratica del testo e giungono ad esprimere le relative valenze della loro identità nel reciproco rapporto di compenetrazione e di scambio. La poetica di Cacciatore si colloca, dunque, entro le

coordinate di un genere di “poesia filosofica” che rimanda ai grandi precedenti dell’opera letteraria di Lucrezio e di Leopardi e che si manifesta, hic et nunc, quale modo autonomo e totalmente originale di parlare e mettere a fuoco, attraverso la pregnanza metaforica del segno verbale, la condizione storica ed esistenziale dell’uomo moderno. A favore della sua connotazione speculativa, antilirica e antirapsodica, depone tutta una serie di elementi che è possibile rinvenire nel fitto repertorio della produzione creativa dell’autore: il taglio eminen-

La poetica di Edoardo Cacciatore: l’altro Novecento

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EA VOTARE Se

temente saggistico di alcuni scritti (l’introduzione a Lo specchio e la trottola e l’intero volume Dal dire al fare), la spregiudicata adozione della formula del “romanzo saggio” (nel primo straordinario libro, L’identificazione intera), o della “poesia-saggio” (nell’ultimo, ancor più straordinario, /tto itto), la preponderanza della componente “gnomico-sentenziale” anche nei testi propriamente poetici (La restituzione, Lo specchio e la frottola, Ma chi è qui il responsabile?, La puntura dell’assillo), la stessa densità concettuale e semantica dei titoli delle sin-

gole opere (che non racchiudono alcuna sfumatura autobiografica e contemplativa, ma rinviano direttamente a categorie e metafore del pensiero). E si aggiunga, inoltre, che la visione filosofica di Cacciatore, di impronta radicalmente materialistica e (come lui ama dire) di origine pre-cristiana, si manifesta in una sistematica demolizione dei “luoghi comuni” del sapere borghese (l’idea finalistica del “progresso”, la nozione ottimistica della “storia”, la concezione positiva del rapporto “uomo-natura”, lo stesso mito della figura auratica e separata del “poeta-vate”) e mira a spogliare la realtà di ogni falsa apparenza, di ogni sovrastruttura ideologica di natura dogmatica e consolatoria, pervenendo, così, al risultato di imprimere ancora più energia

e più slancio alla carica polemica, antagonistica e demistificante della

scrittura. Ma esaminiamo più da presso il funzionamento del momento investigativo nel processo genetico dell’esperienza poetica. Proprio perchè il pensiero non è prestabilito ed esterno alla poesia ma è pressoché costituzionale alla biologia del suo organismo vivente e capillarmente ramificato in ogni sua parte e articolazione, si può affermare che il pri-

mo presupposto teorico-filosofico della poetica cacciatoriana sia rintracciabile nella definizione della poesia come incessante riformulazione critica e coscienziale dei dati del reale. E una poetica che, volendo usare una formula un po’ comprensiva, chiamerei di “conoscenza in atto”: conoscenza dinamico-processuale, mai definita una volta per tutte. A tale presupposto se ne aggancia direttamente un altro che sostiene, fin da L’identificazione intera, tutto il discorso dell’autore e che, non meno importante del precedente, ne è un’intima conseguenza: vale a dire la consapevolezza e la scoperta dell’essenza relativa e variabile del mondo, della natura, degli eventi, della storia e della vita

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degli uomini. Per Cacciatore la conoscenza della realtà non è un sistema statico di elementi, una costruzione lineare e cristallizzata, forgiata

secondo un codice fisso e inalterabile, ma non è neppure, d’altra parte, un semplice e puro processo. Se di fenomeno processuale si tratta, non è in vista di una progressione ascensionale, intessuta di sequenze sintagmatiche, disposte l’una dopo l’altra verso il raggiungimento di un Fine ultimo, visto come meta conclusiva dello sviluppo della civiltà umana. Nessuno più dell’autore dei Graduali e dell’Identificazione è lontano, come si è detto, da qualsiasi visione teleologica della storia, e

della poesia che con la storia si misura; e nessuno più di lui è ugualmente contrario ad ogni sua eventuale implicazione autoritaria e totalizzante, provocata (magari alla luce di un materialismo deterministico e volgare) dall’indiretta restaurazione di un più o meno feroce dogma o pregiudizio. La forma in cui la realtà si presenta alla sua intelligenza è sì un processo, ma un processo di spostamenti e di metamorfosi, irrimediabilmente esposti alle stigmate dell’instabilità e della precarietà. È difficile capire l’inizio della poesia di Cacciatore e tanto più la successiva maturazione delle grandi opere, se si prescinde dalla considerazione della dinamica bipolare in cui si instaura il rapporto fondante tra coscienza del soggetto e natura della realtà rappresentata. Nel movimento di questa realtà ogni elemento entra in progressivo conflitto con inattese, che rare sotto la che mi pare

gli altri e produce di volta in volta soluzioni diverse ed tocca proprio allo scrittore individuare, scoprire e cattusuperficie dei fenomeni. C'è un passo dell’Identificazione utile citare per le informazioni che offre al riguardo:

«Che cos'è la realtà? dovizia di transazioni, sciame, pleroforia di prodigi, concretezza appassionata, sempre in procinto di realizzarsi; tale è il fascino interno alla realtà, l’alterarsi inevitabile di tutto, una continua metafora

per assolvere la semantica implicita di quel mutevolissimo e commoventissimo andar dicendo che è la vita degli uomini, i quali peccano nel chiudersi, rifiutarsi a quell’incredibile, delirante visione ininterrotta che, facen-

dosi sempre più sottesa, a poco a poco cessano di considerare come facoltà noetica e che invece è l’anima reale.»

La poetica di Edoardo Cacciatore: l’altro Novecento

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II. L'interrogazione della scrittura

Questo dell’“alterazione” è un principio fondamentale che non è solo affermato teoricamente, ma che trova la sua compiuta verifica anche sul terreno della ricerca in versi. Basta spostare lo sguardo ai Gra-_ duali (che insieme alla Restituzione, ma prima di essa, hanno nell’Identificazione la loro nutrice teorica) per avvedersi che esso è al contempo il presupposto e il motivo centrale della raccolta, aprendone il discorso («Realtà è sempre in preda all’alterazione») e conducendolo poi a conclusione («Dove corri férmati è qui il movimento / In questa alterazione così sediziosa»), oltre ad orientare lo stesso procedimento dell’organizzazione strutturale, divisa in quattro sezioni e internamente modificata lungo il tragitto dalla crescita quantitativa dei versi dei suoi

componimenti, che dal numero iniziale di quattro (Tetrasticha) passano a cinque (Pentasticha), a sei (Esasticha) e infine a sette (Eptasticha). Domina, tra le pieghe semantiche del verso — o in forma di immagini o in chiave di concetto o in battuta di esclamazione e di dialogo — la coscienza di una mutazione implacabile che investe, senza risparmio, ogni aspetto e dimensione della realtà: gli oggetti, gli eventi, la natura, la corporalità, il pensiero, l'ideologia, i rapporti sociali, la vita interiore, la produzione fantastica, l’invenzione artistica, la trasgressione del linguaggio.

Qui, nella saldatura operativa della concezione gnoseologica della scrittura con la visione relativistica del “divenire di tutto” sta la sostanziale caratterizzazione “materialistica” della Weltanschauung cacciatoriana, la quale, a sua volta — sempre a condizione di essere intesa in una accezione speculativa profondamente libertaria e democratica — si articola su due piani distinti. Vi è una valenza materialistica che coinvolge il mondo nel suo complesso e che si riallaccia ad un'istanza critico-riformulatoria, ostile e irriducibile alla postulazione di ogni valore ipostatico e di conseguenza all’introduzione di qualsivoglia a priori, assunto o implicato a fini giustificatori. Il soggetto si pone di fronte all’esterno, come se ogni schermo di natura precauzionale e difensiva si fosse infranto o, laddove ancora resistesse, dovesse essere abbattuto e

oltrepassato. Tale è il compito principe del filosofo, del poeta e, più di entrambi, in sinolo, del poeta-filosofo. Vi è poi una seconda valenza

Filippo Bettini

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che esprime, per così dire, un materialismo più intrinseco e specifico al fatto estetico e che non prescinde mai da un serrato confronto della conoscenza poetica delle cose con l'accertamento e la gestione, in prima persona, delle potenzialità espressive, fatiche e comunicative della parola poetica. Nell’attribuire una funzione sintetica alla ragione del verso e nel coglierne la potenza del ritmo vitale rispetto ad un mondo pervaso da contraddizioni laceranti, Cacciatore esprime in La restituzione la propria convinzione che il linguaggio letterario sia la più efficace chiave di riconoscimento e di rappresentazione di eventi tra loro incompatibili ed abbia quindi la capacità di convertire la discordia del “molteplice empirico” in una comunicazione diretta e tangibile del “non senso”. La pronuncia della vigorosa dedica che battezza il volume: «Vera, che tutto sia senza senso anzi vuol dire

Le ombre che siamo chiedono consistenza Potenza rampante o allucinazione Chi parla di evadere anzi restituire»;

la ribadisce esplicitamente nel sonetto / della sezione Probatio: «La malattia da cui sei sempre interrotto È classificata con il tuo stesso nome Guardi sopra le cose guardi al di sotto Fra te e la verità resta l’avverbio come Offriti direttamente tu in ostaggio Malattia e salute parla in un linguaggio»

e la sintetizza poi con icastica pregnanza nelle stupende sequenze definitorie del sonetto r della medesima sezione: «Le idee rintoccano se le cose toccano Ma il pensiero in verità non è mai vandalo Nascono parole sono voglie che schioccano Irrefrenabilmente vien fuori lo scandalo 6) Lo scandalo è qui in realtà vivere vorremmo Toccando il pensiero non le cose che avemmo.»

Come, dunque, si vede, l’interrogazione della scrittura non si estrin-

CRCTRITA ERE La poetica

di Edoardo Cacciatore: l’altro Novecento

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seca in un atteggiamento di pienezza demiurgica né tanto meno in una pretesa di veridicità oracolare (come pure è stato scioccamente detto da qualche critico miope e prevenuto), ma si dispiega in una riflessione autocritica che ha oculatamente di mira i limiti della conoscenza e della parola e la puntuale insufficienza di ogni loro espressione compiuta e formalizzata. Se anche lo scrivere, come parte della realtà e come luogo più alto e trasparente della sua coscienza e della sua rappresentazione,è fatalmente esposto alla legge dell’alterazione, accade che i suoi stessi processi di codificazione espressiva ne siano internamente condizionati e non possano ambire ad alcuna garanzia di stabilità e di sicurezza ma siano invece sempre guidati da una vigile consapevolezza del loro oggettivo status di provvisorietà e di dissoluzione. Per supremo ossimoro — figura chiave della retorica cacciatoriana — l’unica declinazione di permanenza possibile è quella dell’instabilità e del mutamento. Ma, contrariamente a quanto vorrebbe una spontanea lectio facilior, l'instabilità della forma non è solo l’esito della modificazione di ogni posizione via via raggiunta dal flusso delle cose, bensì qualcosa di più relazionalmente complesso e articolato. Per la precisione, l’arricchimento della sua concezione e della sua pratica letteraria riceve un impulso decisivo dallo sviluppo che trova, nel successivo saggio Dal dire al fare e nel libro in versi gemello Ma chi è qui il responsabile?, la teoria dell’“esterno” come agente prioritario di vita e di rapporti. È in essa che la poetica dell’“alterazione” e della “restituzione” si riverbera nella complessità semantica della testualità poetica e disvela fino in fondo la portata politica e civile della sua immanente contemporaneità. Le cose si dispongono e scorrono nello spazio, circondano l’uomo e dall’esterno si proiettano su ogni emanazione della sua personalità e del suo lavoro, fino a plasmarne tutta la sostanza interiore. Parafrasando il messaggio di Andatura, che fa eco in Ma chi è qui il responsabile? al concetto centrale dibattuto in Da! dire al fare, replicando per duecentocinquanta versi in ossessiva e ubriacante epifora il lessema “esterno”, è possibile scorgere una misura di totale dipendenza dal “fuori”, che, nel medesimo istante in cui riassume, tra origine e sboc-

co, tra sito e tragitto, tra oggetto e circostanza, l’intero orizzonte del “fare” umano quale prodursi sociale della materia vivente («Svegli o in

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Filippo Bettini

coma cuccagna è l’esterno / Qui a ore ti ha assunto l’esterno / Per in-

ciso intrattieni l’esterno / Su pel corpo ti espandi all’esterno / Giù giù in te risprofondi all’esterno / Frughi l’intimo e trovi l'esterno») al punto di partorire da sé persino l’unità dell’essere individuale e della sua coscienza («Sei in sostanza un inserto di esterno / Individuo compendi l’esterno / Imballaggio già usato è il tuo esterno / ... /L’interiore è un estratto d’esterno»), giunge ad informare sia le profondità mnemoniche («Nei ricordi s’incastra l’esterno / Ma l’anamnesi mena all’esterno») e oniriche («Sembra un sogno invece è l’esterno»), sia i meccanismi intellettuali («Ed il Logo noleggia l’esterno») e percettivi («Cosa tremi? è stimolo esterno») del segno visivo e di quello verbale («Il pittore rafferma l’esterno / In cornice è al quadrato l’esterno / ... / Sulle sillabe a posto è l’esterno /... / Sì poesia spesaccia è d’esterno»). In tal modo il linguaggio della poesia, compenetrato in lungo e in largo dalla “realtà di fuori” — e, dunque, certo, pure e in primo luogo dall’economia, dalla società, dal costume, dalla morale, dalla politica — è costretto a vivere, in corrispondenza con le loro trasformazioni, un processo

alterativo di doppio grado: deve essere costantemente altro da se stesso per rendere conto del mutamento senza fine di quella realtà che esso interpreta e rappresenta e deve a pari titolo evolversi e rinnovarsi, obbedendo all’“andatura” del ritmo dettato dall’esterno, come com-

ponente e momento in sé dell’alterazione globale. «La mia filosofia — soleva dire Cacciatore — non si ferma ad Eraclito. Non muta soltanto l’acqua del fiume che scorre entro le rive. Anche le rive si alterano». E in queste rive intendeva chiaramente significare la conoscenza e la rappresentazione dello stesso “scorrere” universale, compreso ma mai catturato dall’espressione noetica della prosa e del verso.

III. La rivoluzione del linguaggio poetico Dagli aspetti letterari finora enucleati discende anche la terza caratteristica saliente dell’operazione di Cacciatore e dei suoi effetti — come si è detto — positivamente traumatici e sconcertanti. Alla novità del nesso centrale tra riflessione e poesia corrisponde la

La poetica di Edoardo Cacciatore: l’altro Novecento

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potenza di una rivoluzione “espressiva” che pone Cacciatore tra i maggiori eversori della lingua poetica del nostro secolo. L'intervento sulle strutture formali del linguaggio, condotto dall’autore, si differenzia infatti da quello più frequentemente praticato dagli esponenti delle avanguardie storiche e attuali. E questo perchè la sua esecuzione non esclude a priori un confronto interno e capillare con la tradizione letteraria del passato, ma si attua, anzi, su due piani paralleli e concomitanti. Da un lato esso parte da una complessa opera di prelievo e di assimilazione di figure stilistiche, ritmiche, strofiche e lessicali di lontana derivazione classica (il ripristino della rima, l'introduzione di arcaismi e termini rari, il ricorso al genere del sonetto elisabettiano e del carmen saeculare, ecc.): sempre piegate, però, all’esigenza funzionale di una misurazione sincronica delle loro proprietà reattive all’inevitabile impatto con la lingua poetica del presente. Dall’altro, essa procede e si sviluppa attraverso la riconversione di queste e altre figure alla pratica di soluzioni inventive che violano apertamente qualsiasi norma prestabilita dell'espressione linguistica e del discorso in versi (l’abolizione totale della punteggiatura, la dissimulazione dell’ordine sintattico delle parole, il conio di molti neologismi, il ricorrente uso dell’unità metrica del “tridecasillabo”, la costruzione di moduli ritmici e mu-

sicali di carattere violento e contrastivo). E il risultato che sortisce è la creazione di una poesia compatta e multiforme, unitaria e segmentata, che alterna fasi di limpida trasparenza ad altre di profonda e complessa difficoltà; che ora si fa allegorica e barocca, ricca di immagini e me-

tafore a catena, ora, invece, si distende su una cifra più aperta di comunicazione diretta e di semplicità espressiva. Una poesia in cui anche le punte più ardue di innovazione tecnica e formale appaiono esenti da ogni compiacimento gratuito e autofinalistico e si nutrono dell’esercizio gnoseologico di una mente poetica che non esita a rivendicare il più ampio spazio possibile di libertà segnica, per interrogare quelle contraddizioni dell’esistenza e della civiltà che sfuggono alle maglie costrittive di un linguaggio univocamente definito. Sicché la loro stessa investitura sperimentale non è mai una premessa teorica e programmatica della ricerca in atto, ma un esito spontaneo e quasi naturale del suo svolgimento. Cerchiamone conferma, al termine della nostra indagine, in una

d è

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considerazione più ravvicinata dei principali livelli di funzionamento del testo. I vari procedimenti prima indicati si basano sul supporto di una solida e riconoscibile articolazione discorsiva. Il sistema retorico della lingua è sfruttato al massimo dall’autore sia come telaio portante della della macchina poetica nel coordinamento e nella distribuzione delle parti, sia come deposito attivo di singole figure adibite al conseguimento di particolari effetti semantici e fruitivi. Alla prima classe di impiego appartengono La restituzione, Lo specchio e la trottola, e, in misura sensibilmente minore, i Graduali e Ma chi è qui il responsabile?; alla seconda gli infiniti e originalissimi accorgimenti di rango morfologico e soprasegmentale, applicati, oltre che nelle succitate raccolte, anche ne La puntura dell’assillo, priva, a differenza delle precedenti, di una sua divisione interna in sezioni. L’impianto costruttivo de La restituzione può essere addirittura considerato “metaretorico”, dacché le parti del suo svolgimento si fregiano di titoli autoreferenziali (Proemium,

Narratio, Excessus,

Probatio, Exemplum,

Refutatio, Epilogus),

per disegnare un percorso dialettico-argomentativo, in cui il tema del confronto (l'atto del “restituire” come portato consapevole della legge dell’“alterare”) che è al centro del momento preliminare dell’inventio (raccolta del materiale), ed il piano articolato della sua trattazione, sanzionato dal momento successivo della dispositio (organizzazione del materiale in successione di discorso) prendono il deciso sopravvento su quello poeticamente tradizionale dell’elocutio (forma compiuta

dell’eloquio), il quale, pur non esaurendosi in un capitolo privilegiato e a se stante, non ne viene indebolito o messo in ombra, ma ne è sem-

mai ulteriormente potenziato e “surdeterminato”, dando a sua volta

nuovo alimento agli ultimi due momenti del richiamo citazionale (memoria) e della drammatizzazione prosodica (actio), per effetto di un impulso generale che trova fuori di sé, ancora una volta all’“esterno”, a conclusione dell’intero ciclo retorico, le ragioni più vere, e dunque più urgenti, delle proprie scelte interne e dirompenti. Ancor più audace ed insolita, se possibile, è la struttura de Lo specchio e la trottola,

la quale, tuttavia, grazie anche all’inclusione della scrittura saggistica dell’introduzione (Intorno alla poesia e all'uomo moderno), nell’unità esplosiva della cifra composita del libro, registra un pretto ampliamento della denotazione del tema rispetto a quella della sua articolazione

La poetica di Edoardo Cacciatore: l’altro Novecento

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discorsiva. Ad essere autoreferenziale non è più la disposizione degli elementi (dispositio) ma l’illustrazione dell’argomento (inventio), che, preannunciato dal componimento La piazza e dettagliatamente affrontato nella prosa introduttiva, si scinde in tante sezioni quante sono quelle che — ad eccezione dell’iniziale Preambolo e del conclusivo Corridoio d’uscita — corrispondono ai tre stadi della facoltà “libidica”, eretta a referente contestuale della problematica del libro: Libido sentiendi, Libido sciendi e Libido dominandi, per parte loro internamente scomposti in altre microsezioni che ne precisano le modalità tecniche e temporali di progressione evolutiva: A perdita di senso, Dalla fine al principio e Il consenso pieno per il primo; Tre irreticenze, Sette improperi e Undici insinuazioni per il secondo; Nove dialoghi (0 monologhi forse alla fine) per il terzo. Stando alle evidenti innervature eristico-speculative del campo semantico in cui si inserivano titolo generale, titoli di sezione e sottotitoli della raccolta, più che di “metaretorica” è qui il caso di parlare di “metanoèsi”, di una tessitura che non presuppone il rinvio alle istanze del pensiero e delle sue implicazioni con il mondo della società e della storia, ma che le fa proprie e le assimila con esplicita nominazione alla consistenza delle proprie fibre, una trama com-

positiva che diviene tout court base retorica di una “poesia filosofica”: non discorso sull’organizzazione del discorso, ma discorso sulla filosofia del discorso. Ecco, allora, le due varianti capitali in cui si determina

il funzionamento costruttivo dell’“arte della persuasione” nella poesia di Cacciatore. E, se ci siamo soffermati su questi due esempi, ciò è dovuto al fatto che essi attengono ai due capolavori assoluti del “poeta filosofo” (provvisti, non a titolo fortuito, dei gradi più alti e motivati di elaborazione retorica), ma descrivono anche il contesto strutturale in cui vanno ad inserirsi e a trovare il loro posto le singole figure del discorso e gli altri procedimenti formali che da queste figure e dal loro contesto non possono prescindere. Si volga, ad esempio, la mente alla figura del “climax” e dell’“anticlimax” operanti proprio nella progressione del ragionamento e dell’argomentazione, che raggiunge il suo spannung persino nelle vibrazioni soprasegmentali del verso (come la rima e la scansione metrica); o alla figura dell’“ossimoro” che, in versione di “coniunctio oppositorum” o nell'accezione limitrofa di “contraddizione”,

interpreta e restituisce, mutando

di luogo in luogo, il

Filippo Bettini

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principio contrastivo del concetto di “alterazione”; o alla “brachilogia”, sempre pronta a intervenire per assecondare la rapidità fulminea dei passaggi descritti (ellissi) ed evidenziare al tempo stesso il soggetto o complemento di congiunzione dall’uno all’altro (zeugma); o agli accorgimenti più ristretti e localizzati della “gnome” o della “apodissi”, concepiti in sintonia con la vocazione assertoria e sapienziale della scrittura cacciatoriana, resa così incisiva e lapidaria nelle sue clausole finali; o ancora all’“ironia” e all’“allegoria”, che da figure retoriche si fanno funzioni costitutive e dominanti dell’organicità semantica del testo: la prima con un contrassegno di severità e di sarcasmo che, a guisa di soppesata distanza, la riconduce pienamente all’etimo filosofico della sua scaturigine; la seconda con una pluralità convergente di elementi

razionali, gnoseologici,

discorsivi, sintagmatico-strutturali,

che, compresa l’istanza della responsabilità etico-morale (direttamente attinta dalla sua formulazione classica), concorrono a renderla terribilmente moderna e antagonistica. Tutti tropi, procedimenti, modalità strutturali, che dimostrano quanto lontana sia da ogni concezione paregorica, da ogni tentazione evasiva, da ogni suggestione lirico-evocativa (così diffusa, magari in forma di “sublime medio”, anche nella

migliore tradizione della poesia classica del Novecento, Montale incluso) questa lucida e palpitante scrittura del pensiero e delle cose, sentita e praticata, invece (se proprio c’è bisogno di usare una formula sintetica), come produzione intellettuale di conoscenza e di interpretazione del reale nella materialità del linguaggio e del suo movimento “noetico”. Ma non possiamo licenziare il nostro scritto senza prima aver fatto un cenno almeno essenziale agli altri livelli salienti del funzionamento

formale della pratica del testo (per i quali, in ogni caso, ci sembra utile rimandare ai saggi specifici sulle singole opere, contenuti nelle pagine successive del libro). Mi riferisco in primo luogo alla strepitosa novità dell’operazione condotta sul terreno della metrica. Cacciatore — com'è noto — è l’artefice e lo sperimentatore sistematico di un metro pressoché sconosciuto nella poesia italiana del passato (se si escludono saltuarie e poco significative eccezioni — per altro mai così definite e riconosciute — di testi polimetrici di un Lucini o di un Pavese): il “tridecasillabo”, un verso di tredici sillabe e di marcata impronta dattilica

La poetica di Edoardo Cacciatore: l’altro Novecento

TIE

che si approssima assai più alla scansione “quantitativa” della metrica antica (latina e greca) che non alla mobilità “accentuativa” della metrica moderna. Dal punto di vista strettamente tecnico, la peculiarità fondamentale che lo distingue e lo rende davvero “unico” sta nel fatto che la sua prolungata estensione non è la somma di due metri minori di stampo tradizionale (quali possono essere, ad esempio, i due senari del dodecasillabo o i due settenari del verso martelliano), ma si pre-

senta e funziona come un sequenza compatta non smembrabile al suo interno. Ed è proprio essa a conferire al “tridecasillabo” una compo-

sizione ritmico-sonora che lo allontana dalla cantabilità di qualsiasi altro metro della lirica italiana: il suo andamento cogitativo, spesso petroso, aspro e dissonante, misura le proprie cadenze (pur sempre riconoscibili) sul criterio della propria “dicibilità” ragionativa e non su quello, istituzionale e compromesso, della sua capacità di suggestione armonica e musicale. Si osservino a puro titolo di esempio i versi che chiudono il sonetto di tipo elisabettiano La piazza, posto, quasi in fog-

gia epigrafica, ad apertura de Lo specchio e la trottola: «Senti fuori / stormisce un bosco / è l’inaudito Bianco del risveglio e / con il buio combacia Non di alberi la Piazza / ci parla e di foglie Brusìo è unanime e / per sempre in sé ci accoglie.» (le barre sono nostre, n.d.a.)

Come si può notare, è del tutto speciale la funzione giocata dalla cesura che, nello scandire le macrosequenze interne dei versi, ne cor-

robora ancor più la saldatura attraverso il filo narrativo del loro dipanarsi sintattico. Al contrario della cesura classica, la sua posizione è

estremamente mobile e può essere all’occorrenza persino multipla: nel primo dei quattro versi, per l’esattezza, ricorre due volte (dopo la quarta sillaba e dopo la nona); negli altri tre versi cade una sola volta (dopo la sesta sillaba nel secondo e nel quarto, dopo la settima nel terzo). In tutti e quattro i casi, però, essa produce l’effetto di attivare tra i segmenti scanditi una continua tensione di alternanza tra due rami di variazione soprasegmentale: una progressione ritmico-tonale (climax) — che in altri casi può decollare in misura maggiore fino a toccare apici vertiginosi che tolgono il respiro — ed una flessione susseguente (an-

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ticlimax) che consente di riprendere fiato e di ristabilire la cifra discorsiva del ragionamento. La dialettica contrastiva del loro avvicendamento si modula nel ritmo del pensiero che anima e dispone le parole del verso e serve, di conseguenza, a rinvigorire quella propensione teorica e investigativa delle forme del linguaggio poetico che abbiamo prima sottolineato. (Ed anche quando il metro prescelto sia diverso e rientri magari nel repertorio tradizionale del “dodecasillabo”, il risultato che ne esce è fortemente contrastivo ed antitradizionale, dal mo-

mento che la localizzazione della cesura viene assai spesso a corri-

spondere alla conclusione di una proposizione e all’inizio di una successiva, in più delle volte concisa e perentoria, ai limiti dello stile tacitiano. Si attua una moltiplicazione delle sequenze sintattiche che entra in conflitto con il ritmo — una specie di inverso speculare dell’enjambement — e produce un frazionamento delle movenze sonore, con l'inevitabile effetto di interrompere la linearità musicale del verso e di sottrarre all’azione dissolvente del suo riassorbimento melodico i valori semantici del ragionamento poetico). Ma il rilievo accordato al “tridecasillabo” risulterebbe comunque aporetico, se non si aggiungesse che alla “riforma metrica” attuata da Cacciatore fa riscontro una sua non meno importante riforma nel campo della “rima”. La riscoperta e il rilancio della prassi rimica, portati a sfida del moderato compromesso della lirica novecentesca (sospesa a metà tra finzione di ripudio ed esercizio di occultamento), implicano una modalità di impiego che richiede al poeta soluzioni impervie e arditissime, ai limiti dell’impossibile. Alla pari del metro, anche le rime hanno il compito di rimarcare, con l’iterazione omofonica dei loro suoni, il ritorno circolare e martellante del pensiero e dei suoi concetti. I quali segnano, così, alla ricorrenza terminale di ogni verso, la loro frontiera di approfondimento, di transizione o di metamorfosi. Sotto il segno della dissonanza e della difformità, le rime si originano dall'incontro fra lessemi di natura eterogenea. Fanno rima, per intenderci, non solo coppie di aggettivi o di sostantivi o di verbi, bensì binomi bastardi di un verbo e un sostantivo o di un sostantivo e un aggettivo o di un aggettivo e un verbo. E, allorché sono i verbi a rimare, si tratta per lo più di “modi” inusuali e di “accentazioni” spregiudicate, qual è, ad esempio, l’“imperativo sdrucciolo” di Ridine è la libidine, che

La poetica di Edoardo Cacciatore: l’altro Novecento

o PATO

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forma il titolo del Preambolo de Lo specchio e la trottola ed è poi seguito da una spirale vorticosa di rime e di assonanze disposte ad incrocio nella strofa dell’incipit: «Voce d’ingorda voglia è questa ma a chi parla Una corda che taglia ov’è nient'altro il viso Questa voce e per stanza solo ha una soglia Volontà di riso tanta su cui si staglia E danza certo ora a darsi un contegno e canta?»

Si noti che qui il gioco delle rime interne (viso/riso; voglia/soglia; stanza/danza; taglia/staglia; tanta/canta) è duplicato dal fenomeno delle assonanze esterne (parla/canta; soglia/staglia), che è a sua volta moltiplicato dal registro delle assonanze interne (voglia/taglia; taglia/soglia; voglia/staglia; parla/taglia) che si rifrange infine circolarmente nel gioco delle rime. (E non si trascuri neppure l’uso di altre soluzioni inusitate, come il ricorso dilatato alla “rima identica” che l’autore, nel

già citato componimento Andatura, spinge al limite estremo delle duecentocinquanta repliche, destinate a ribadire il termine-noema di “esterno” nella molteplicità dei diversi referenti a cui è accostato). Avvalendoci di una metafora, potremmo ipotizzare che /a rima sia in Cacciatore l’equivalente tonale del rapporto tra pensiero e linguaggio. Da un lato, essa risponde all’esigenza di porre in risalto il ritorno della riflessione in fieri sul tema trattato, incoraggiandone, a seconda dei casi, il

suggerimento iniziale o ampliandone lo svolgimento avviato o siglan-

done la chiusura a mo’ di sentenza. Dall’altro, la sua presenza è finalizzata a fissare degli argini che delimitino, di volta in volta, il movimento espansivo e virtualmente illimitato della conoscenza poetica del reale e lo disciplinino nella misura del linguaggio e del verso, instaurando un prezioso equilibrio con il continuum narrativo provocato dall’abolizione della punteggiatura, e con la stessa funzione intermedia del “tridecasillabo”, inevitabilmente definito dalla sua lunghezza metrica ma contemporaneamente esteso fino al punto più avanzato di progressione spaziale mai consentita ad un verso non composto. Va da sé che questo che abbiamo appena addotto è solo un esempio (alla pari dei precedenti) del senso generale dell’operazione condotta

nel campo del linguaggio. Molti altri se ne possono addurre e spiegare

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1

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di circostanze, sequenze, componimenti, raccolte, che meriterebbero

di essere analiticamente approfonditi nella contestualità organica delle singole opere e sinteticamente ricostruiti e collegati nell’evoluzione dinamico-processuale della poetica di Cacciatore. (Ed è quel che si cercherà, appunto, di fare nel proseguimento della trattazione critica del libro). Per ora ci basti dire che la fisionomia d’insieme che resulta dalla composizione dei tratti da noi disegnati, e cioè quella di un “poeta-pensatore” di enorme carica innovativa (ma meglio sarebbe dire rifondativa), che è insieme allegorico e. sperimentale, intellettualmente “eretico” e letterariamente “straniero” rispetto alla cultura egemone del Novecento, rappresenta, di certo, uno dei motivi che hanno con-

tribuito ad assegnare all’opera di Cacciatore una posizione così atipica ed isolata nel panorama della cultura letteraria italiana da renderla difficilmente ascrivibile a qualsivoglia tendenza o corrente, da mettere in discussione ogni frusto principio di sovranità limitata tra l’ambito della tradizione e quello della avanguardia e da autorizzare anche noi ad affermare che le ragioni della sua emarginazione e del suo isolamento coincidono finalmente con le ragioni stesse del suo valore e della sua grandezza.

LA “RESTITUZIONE” SOCIALE. Storia, messaggi delle cose, critica dell’ideologia, agire comunicativo e istanze politiche e civili nella poesia di Cacciatore Francesco Muzzioli

Per la sua densità di pensiero, che non ha uguali tra i contemporanei (e forse si potrebbe giungere a dire: in tutto il Novecento), la poesia di Edoardo Cacciatore merita sicuramente il titolo di poesia filosofica. Ma questa definizione — che già di per sé suona a contraltare dei lirismi vecchi e nuovi e delle estetiche che, di riffa o di raffa, si ri-

fanno alla “poesia” pura — ha un gran bisogno di precisarsi e articolarsi con istanze altre o diverse, per non sottostare all’equivoco che la leggerebbe quale operazione meramente intellettuale ed astratta, magari con arroccamento metafisico e comunque con un esito di scrittura che sarebbe solo la trasmissione successiva, e quindi secondaria, di un la-

voro mentale tutto ben compiuto prima di intrigarsi con le forme poetiche. La formula della poesia filosofica, intanto, ha da essere specificata rispondendo alla domanda “quale filosofia?”; perché qui — nel caso di Cacciatore — non si ha a che fare con un contenuto ideale che (come idealismo vorrebbe) tocca le cose solo in ultimo grado quasi per eventuale concessione verso di esse e solo per quanto coincidano con i presupposti del pensiero, altrimenti peggio per loro; le cose — non solo gli oggetti della vita e della storia, ma anche quelle “cose” che sono i versi e le figure della poesia, esse pure storiche — sono loro a toccare, a suscitare le idee, a resistere, a confliggere, a provocare movimento in quell’ordine altrimenti imperturbabile. Addirittura si potrebbe affermare che in Cacciatore non c’è “filosofia” in senso stretto, proprio perché come tale non può essere ritenuta una rigorosa “filosofia dell’alterazione”. Una volta avvisato e fattosi carico della onnipresenza dell’“alterazione” nei suoi molteplici e materiali aspetti, il pensiero assume la consapevolezza della sua pre-

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carietà e impossibilità di fissarsi; quindi, insieme, della labilità dei li-

miti protettivi e di conseguenza del suo coinvolgimento con le cose, come con le materie e gli strumenti della scrittura. Dove ci potrà essere differenza di misura e di “respiro”, di diffusione narrativa o di concentrazione figurativa tra prosa e poesia, ma non mai una netta separazione, una autonomia ontologica; come pure una netta separazione non potrà mai bloccare il soggetto e l’oggetto, la ragione e la materia. Semmai quella di Cacciatore sarà una dialettica, ma di un tipo senza facili superamenti o conciliazioni. Se, come dicono i Graduali,

«La conoscenza oggi non vuole più simboli / Vuole realtà immediatamente trova cose» (Tetrasticha, XXVI), questo impatto con un terreno duro e corposo, e nient’affatto fantasmatico, tenderà ad annoverare,

tra le principali “realtà” e “cose” che si impongono all’attenzione e fanno presa su di essa, quelle relative alla vita pubblica e associata. Ecco allora che la poesia filosofica, a prima vista attribuibile alla prospettiva di una ricerca del senso della vita in generale, beatamente al di fuori o al di sopra delle determinazioni contingenti, si apre a più precise e particolari istanze politiche e civili, come ad esatti corrispettivi del proprio corso 0 processo.

E al pensiero in quanto pensiero dell’alterazione e in alterazione, che è connaturata l’istanza politica e civile. Questo lo si può considerare almeno da quattro punti di vista, che distinguiamo in: 1) poiché l’alterazione determina il divenire temporale e sancisce la caducità dell'esistente, sulle cose si appone il segno della storia, che in esse permane come indice storico e spessore di memoria; 2) poiché il pensiero, come abbiamo visto, è intrecciato con l’azione (andando pendolarmente “dal dire al fare”) ed esso per sua parte attivo, si determina un continuo e reciproco rimbalzo tra l’astratto e il concreto: la poesia si attualizza con elementi “freschi di fabbrica” i cui messaggi si sovrappongono agli elementi “noti da prima” che la poesia stessa convoglia in quanto forma della tradizione e del passato; 3) poiché la dinamica dell’alterazione mette in crisi tutti imodi di pensare statici (idee fisse, Opinioni costituite, luoghi comuni), la poesia che ne tiene conto avrà un risvolto critico sul piano culturale; si apre il problema della critica dell’ideologia: e, per corollario, si innesca una nitida attenzione per le trasformazioni dell’ideologia e, quindi, dei mutamenti di fase cui è ne-

La “restituzione” sociale

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cessario rispondere; 4) poiché l’alterazione è il trionfo della molteplicità, non ci sarà soggetto umano che nel rapporto intersoggettivo: la pienezza vitale non è concepibile che in quanto adesione collettiva; anche la “restituzione” e il “rimpatrio” non possono assumere il loro

grado massimo e compiuto se non in senso “sociale”. Cercherò ora di sviluppare uno per volta questi quattro punti di vista che in realtà sono i lati di una stessa figura.

1) La poetica dell’alterazione assume uno sguardo “storico”: ma non, come si potrebbe pensare, semplicemente ponendosi nel punto più avanzato dello sviluppo e da esso decretando la fine di tutto ciò che è stato prima. Se è vero — come vedremo più avanti — che il testo di Cacciatore si intriga, e quasi si impianta, a contatto con i termini dell’attualità, non però esso concede qualcosa alla mitizzazione assolutizzante che proclama migliore d’ogni altra epoca il presente: ogni trionfalismo è impossibile per uno sguardo che già travolge l’istante odierno nella sua più o meno prossima trasformazione e caduta (in tal modo vengono osservati, nei Graduali, i ferventi «cantieri delle necro-

poli future»). Non solo non c’è progresso che possa arrogarsi il raggiungimento di un punto d’arrivo, ma nemmeno c’è sviluppo che — in questa prospettiva — possa definirsi linearmente; l’alterazione, infatti, non lascia adito a “stati” bene o male passibili di un qualche carattere comune, quanto piuttosto induce scompensi, squilibri, se non proprio contrasti, insomma intrecci complicati che negano pace alle direzioni diritte di un percorso avanzante. Quando Cacciatore, in uno dei più

significativi componimenti della Restituzione, rovescia il famoso titolo oraziano nel suo Carme momentaneo, non è soltanto per sottolineare la precarietà di un esistere senza garanzie di “lunga conservazione”, ma per produrre (attraverso lo stesso andamento linguistico e poetico) una visione del tempo caratterizzata dalla discontinuità, dall’insorgenza dell’apparentemente marginale, dalla coesistenza del disomogeneo. Non nei punti d’arrivo e nelle loro “clausole” restrittive, ma nell’ampiezza del “momento” («In questo momento è realtà temporale»; «Momento pantomima su chitarra od arpa»; «Di momento in momento sempre fuori segno; «Equilibrio in bilico senza tirocinio»), con tutta

la rete dei rapporti nel loro esplosivo e pervadente moltiplicarsi («Piazze vie uffici officine edifici»; «Tra l'animazione più felice che gli

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Francesco Muzzioli

ozi»), si trova l’“intensità” che supera le divisioni statuite («Le immagini separate senza distacco»; «L’intensità che all’istante li unifica») e apre le porte alla libera circolazione comunicativa, dando ragione anche alla minuzia del quotidiano («La storia naturale allegra in quel cucciolo»; «Gli scoppi di voce dei garzoni a diporto») e assegnando addirittura ad esso pari dignità («Partita di calcio o riunione politica» che sia). L’“occasione” offre spunti e motivi (insomma: cose concrete), ma la poesia non si limita al rilevamento di fenomeni bruti e del loro puro “esserci”. Se le cose si alterano, se le cose stanno già alterandosi, al

punto che non è possibile parlarne che in modo altrettanto “alterato”, ecco che diventa necessario riscontrare in esse diversi strati temporali, e coglierli nel loro rimescolamento: nell’immagine presente emerge il passato, che continua ad essere depositato in essa e a segnarla di tracce, ed emerge in modo tale da poter riacquistare eloquenza e forza

(proprio in virtù dei soprassalti dell’alterazione), comportando quella simultaneità tra presente e passato che Cacciatore ha più volte fatto rilevare, fino dai Graduali («Nulla è distrutto anche il passato è moderno») e dalla Restituzione («Sì che il presente al passato è simultaneo»); e non già secondo l’inclinazione dell’atteggiamento tradizionalista promulgando obbligato il salvataggio di valori incontrovertibili da eternare sotto venerazione antiquaria, quanto piuttosto come ineliminabile contraddizione della pluridimensionalità del mondo. Mettiamo Cacciatore al centro di un luogo mediamente storico, ad esempio la piazza romana di Campo de’ fiori, e non dovremo aspettare troppo per veder complicarsi la prospettiva a causa delle interferenze sulla immagine diretta (nel caso, il mercato del pesce) di un ordine di immagini provenienti da epoche precedenti (nel caso, il rogo di Giordano Bruno). L'esperimento è già verificabile nella Restituzione sotto il titolo de I! Nolano a mezz'aria e si apre precisamente con una interferenza e sovrapposizione di stimoli («Campo di Fiori è un mercato particolare / Vi senti più il bruciato che il pesce di mare»), destinati a contendersi lo spazio dell’intero testo: infatti il passato non riemerge completamente esautorando il presente, in una nostalgica réverie o reviviscenza; proprio perché si tratta di un ritorno del rimosso e represso, esso dà il colpo di avvio ad una dialettica di almeno tre livelli, in

tenni ai

La “restituzione” sociale

SI

cui, oltre al presente e al passato, interviene anche un livello che potremmo chiamare di dimensione mista in cui le tracce storiche e i segni attuali ricevono ulteriore senso (fungono, in certo modo, da allegoremi) di una situazione vitale che riguarda i soggetti impegnati nella comunicazione. Abbiamo qui a che fare con un momento “forte” del ricordo (il “bruciato” dell’antico rogo si fa strada fino a sovrastare l’attuale — e non piccolo — sentore del pesce) che induce a uno spessore delle immagini e delle parole a contrasto con l’impoverimento culturale di massa («La mente fa corpo con le cose d’accatto»), “scadente” nei termini stessi di quella valutazione economica che impera nell’oggi; questo “mercato particolare” consente anzi a Cacciatore di assumere in tutta la sua durezza la logica mercantile fino a ribaltarla, trasformandola in imperativo etico («La libertà sempre ha un prezzo incredibile / A buon mercato è la merce deperibile»); passato e presente così resi interconnessi («La folla è diversa in realtà nulla di nuovo»; «I discendenti rincorrono gli antenati») si rispecchiano l’uno nell’altro,

scoprendo l’identico ottundimento delle facoltà nelle operazioni dell’igiene sociale repressiva e della cancellazione della memoria che rimuove le esperienze scomode e contestative («Gli spazzini al solito azionano gli idranti / Il sangue si lava affermano i benpensanti // Il sangue si cancella chi se ne rammenta / La sensualità stessa si fa sonnolenta»); seguendo i cartelli segnaletici della crudeltà alimentare («Testine d’abbacchio con occhi miti e ceruli / L’evidenza storica s’abbatte sui creduli») per giungere alle immagini d’urto del finale, dove l’apparente convivenza civile della società viene smagata nell’evidenziarsi di

una situazione minacciosa che alterna una sicurezza fatta di paura e autosegregazione ai rischi della ricaduta fuori dalle protezioni costituite («Tra muri civili ognuno è selvaggina / La paura mondana è mutua calcina») e coinvolge lo stesso soggetto scrivente che, nel gioco citazionale con l’opera di Bruno (il distico finale, «Il cacciatore anche lui diviene caccia / L’uno e l’altra insieme lasciano vera traccia», prende spunto da un verso bruniano ispirato al mito di Atteone) indica l’impersonalità del soggetto poetico risucchiato nel suo stesso processo di scrittura e però destinato a restare in esso incisivamente come “traccia”, ossia come costante potenzialità significativa.

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2) Sebbene non solo le forme strettamente poetiche (strofe, verso, rima), che si mantengono — pur con fortissime tensioni e spezzature interne — regolate e calcolabili, ma anche la stessa applicazione del pensiero raziocinante appaiano come modalità di “ordine”, ereditate dal passato, esse però non stanno mai se non in situazione, vale a dire nel nesso con la puntualità concreta dell’esistenza: che le turba ed esaspera. Insieme alle impronte della tradizione, anzi delle tradizioni (al plurale), che Cacciatore convoca sulla pagina ai più svariati livelli, non possono mancare i riferimenti, “occasionali” ma decisivi, all'ambiente

e al momento storico. Ad esempio, Roma con le sue plurisecolari architetture a petto del degrado urbanistico («Vecchi stemmi e palazzi così solenni / Traspaiono ed insegnano il loro ludibrio»; si legge nella Restituzione). Ma non basta: “fa epoca” anche ogni tratto di vita quotidiana, si colloca tra e si scontra con un pulviscolo di istanze e di rap-

porti, di oggetti e di segni che richiedono di essere annotati, ma — più ancora — di essere interpretati. La dialettica del tempo storico tra passato e presente si duplica, così, nella dialettica dell’astratto e del concreto, che potremmo ridefinire “del massimo e del minimo”: il massimo del senso, quello che può essere ipotizzato dai “ragionamenti della poesia” (per usare una espressione di della Volpe) si ritrova nell'evento minimo, quello che apparentemente si mostra dotato della minore e quasi nulla rappresentatività. E, tuttavia, ci si può chiedere: tale dialettica si svolge tra forma e contenuto (affidando la forma al passato e il contenuto al presente)? Tra poetico e prosaico (anche qui: passato=poetico e presente=prosaico)? Una risposta affermativa mi parrebbe ridurre la complessità e la portata del testo di Cacciatore. Certamente la tendenza ad attualizzare gli oggetti poetici porta nel campo delle operazioni molti materiali inediti, non già canonizzati dalla tradizione; basti pensare, ri-

prendendo un attimo il Carme momentaneo, all’accostamento in esso di personaggi mitici («Febo e Diana», poi «Leda», «Ilithyia o Lucina») con elementi della quotidianità («i giornali all’edicola», il «cascherino», il «postino», «l’autocisterna», «ottonami e ferramenta»). Epperò il livello del prosaico entra in gioco in modo assai diverso da come precedentemente contemplato nella tradizione (sia pure in quei rami exlege della poesia del passato che si possono ricondurre al barocco op-

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pure al crepuscolarismo). Non riscontriamo, infatti, né il tour de force barocco (la dimostrazione a/ limite che si può fare poesia con qualsiasi cosa, fosse pure una mosca o una zanzara), né l’abbassamento crepuscolare (che, a contrappeso del sublime, fa entrare in poesia il “gabinetto”, in Moretti, o fa rimare “Nietzsche” e “camicie”, in Gozzano).

Questi aspetti, non già che siano assenti, ma diventano marginali in Cacciatore: il problema è che, in lui, il prosaico (il moderno, l’attuale) non costituisce una materia inerte che in quanto tale fa resistenza ai segni della poesia: è invece qualcosa di già significante che incalza la poesia e la costringe a incrementare il suo apparato di “lettura”, nelle forme stesse della scrittura. È la «lezione delle cose». Lo vediamo subito, dai Graduali: «Decifrabile a un tratto è tutta la via / Attizzano

attenzione le insegne accese / In realtà chi di noi si accorge dove sia / I semafori e le tabelle di transito / Invano insinuano un che nel proprio gergo» (Pentasticha III). La materia moderna è dunque una materia semiotica (lo dicono nel loro stesso etimo le insegne e i semafori) ed è, semmai, il linguaggio della poesia a trovarsi in difetto di comprensione, e a rischiare di perdere l’arricchimento comunicativo dei nuovi linguaggi o “gerghi”, come qui sono chiamati. Il «Decifrabile a un tratto è tutta la via» ci dice almeno due cose importanti; che l'aumento di comunicazione costringe ad uscire in un luogo pubblico (la “via”) e che, anche per questo, esige il confronto con i sistemi di segni (anche con quelli non-verbali) e impone il compito della “decifrazione”, ben lontano dalla resa e dall'abbandono a una semiosi infinita e indifferente. La quotidianità della vita ormai deve fare i conti con la sua trasposizione nelle spire dei mezzi di comunicazione di massa, dalla carta stampata sensazionale e scandalistica (La restituzione: «Avidi di sport di sesso e di delitto / I lettori spiegazzano i rotocalchi») al video del sapere-da-quiz e della notorietà a buon mercato (Lo specchio e la trottola: «Aguzza l’ingegno azzecca lascia o raddoppia / Ti ha sposato la scienza oh celebre coppia / Sei sorriso esortativo rosea reclame / Popano gli altoparlanti proprio il tuo nome / In copertina se ormai fino all’addome / Ma con gli occhi ti mangiano e nulla rimane»). All’altezza de Lo specchio e la trottola, Cacciatore coglie l’importanza che vanno assumendo nel sistema di produzione i fenomeni della moda, del mar-

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chio “stilistico” e della merce-immagine. Ed ecco che appone a tassello finale di un testo a più voci, significativamente intitolato // travestimento, il sonetto delle Indossatrici (è un sonetto secondo la tradizione italiana, caso anomalo in Cacciatore che predilige la versione anglosassone). Anche in questo caso la “decifrazione” taglia come una lama l'atmosfera fascinosa della sfilata di mode: se questo fascino (il simbolo sublimante) è costituito dalla fusione tra l’abito dello stilista e il corpo dell’indossatrice, il testo provvede a separare questi elementi proprio per affermare poi che in nessuno di essi risiede, in sé, il significato dell’evento: né nelle loro funzioni, siano la vestibilità dell’abito

o la prestazione erotico-sessuale del corpo («Gusti altri il costume il corpo altri goda», è detto esplicitamente). Ciò che conta è la produzione dell’immagine con l’aura sacrale di irraggiungibile modello di quelle che non a caso si chiamano “modelle” («Vestali no certo ma ogni veste è tempio»); e con funzione di sublimazione («All’orda una coccarda e il mondo scopre l’oltre» ... «Restaura il mistero chi mai ne può far senza»). Affatto inquietante è il “messaggio” che se ne trae, di un ingentilimento “civile” del tutto provvisorio e rituale, ma pronto ad esplodere da un momento all’altro: «Impazienti le mani di stringere ordigni / L’evo ignudo che paura non ha ma scienza / Ci applaude e gli artigli si fanno benigni»; dove, appunto, il velo del “travestimento” si solleva per mostrare crudamente la base antropologica “selvaggia” dell’«evo ignudo». Ma, se diciamo che si toglie un travestimento, siamo arrivati nei paraggi del problema dell’ideologia. 3) L’alterazione, che infrange le “idee fisse”, mette a mal partito le ideologie. C'è bisogno però di un supplemento di indagine per vedere fino a che punto e in che senso si possa parlare davvero, qui, di una “critica dell’ideologia” in versi. Certamente la poesia-pensiero di Cacciatore non accetta i modi di vedere le cose consueti e comunemente accetti, e quindi tende ad andare al di là delle apparenze, siano pur

esse seducenti e maliose. Eppure, occorre almeno una importante precisazione: il “discorso a meraviglia”, nel suo prodursi attraverso le immagini e le procedure poetiche non invalida la “falsità” delle ideologie più di quanto non si faccia carico fino in fondo della loro “verità”: da un lato, va a vedere «l’antica cicatrice» che sta «sotto la plastica mi-

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stificatrice» (cfr. La restituzione, p. 126), ma dall’altro lato afferma che «il vero e il vero sono i veri avversari» (ivi, p. 77). Se facessimo giocare la prospettiva di Cacciatore nel dibattito sulla natura e la forma dell’ideologia (o della “falsa coscienza” che è poi, diversa solo di grado, l’ideologia in atto) potremmo ricavarne: che, come nessuno è al riparo dall’alterazione, non c’è un luogo garantito al di fuori dell’ideologia, e altrettanto non c’è un livello di analisi (poniamo, l’economico) che, lui solo, spieghi tutti gli altri e li renda al suo confronto incorporei fantasmi; e che la stessa critica dell’ideologia va intesa come lotta tra ideologie, quindi non tra “vero” e “falso”, ma tra “verità” concorrenti,

le quali esprimono ciascuna interessi diversi, non più o meno reali, piuttosto più o meno funzionali a un interesse generale. Da ciò non deriva, infatti, un generico scetticismo, quanto invece una ricerca delle “basi” profonde delle prese di posizione ideali e culturali, una ricerca che radicalizza, conducendolo alle estreme conseguenze, ogni modo o moto del pensiero. È soprattutto attraverso le voci di personaggi, teatralizzando la poesia, che Cacciatore porta ad escussione i testimoni, sempre sospetti, delle tensioni sociali e linguistiche, li spinge non tanto a confessare, quanto a dar prova dei propri percorsi di senso, e li spinge a ciò con una ironia nient’affatto leggera, piuttosto tagliente fino alla crudeltà. Il monologo, già nella Restituzione e poi maggiormente ne Lo specchio e la trottola, tende a farsi dialogo o forse, ancor più che dialogo (poiché le battute non sono mai del tutto congruenti al ruolo di risposte), con-

trappunto di voci, che si implicano sì, ma si sorpassano e si frappongono, mantenendosi quindi sotto il segno della contraddizione e non di un esito di scontata concordia. Proprio questa mancanza di un oriz-

zonte di pacificazione sicura, fa crescere nel bel mezzo del concertato “polifonico”, che sviluppa dall'interno i propositi delle ideologie e delle false coscienze, una voce allotria di dissenso, che interviene dall’e-

sterno (ma si badi, non dall’esterno di una ragione metafisica: dall’esterno della esclusione dalle egemonie culturali), e produce momenti di forte impatto, di poesia di contrattacco e di esplicito antagonismo. L’antagonismo esplode, ne Lo specchio e la trottola (ad esempio, nella sezione dell’ottavo dialogo, Tutto alle spalle: Ubiubi III) dalla constatazione delle difficoltà del progetto di emancipazione («Del riscatto

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Francesco Muzzioli

umano e in cielo vermiglio / Nana la fatica appare alta») e da un complessivo quadro che, all'attenzione dell’analisi, mostra direzioni di peggioramento («Decifro un panorama il tramonto è enorme»), nel-

l’imporsi di un’epoca che fa spettacolo dei suoi mali incurabili («I tuoi taumaturghi i tuoi falsi allarmi / Epoca in bende a vivaci tinte / Sbandieri e m’imbavagli») e la cui invadente strategia dai variegati aspetti riduce al silenzio le diversità autenticamente oppositive («Spiègale e sì giungeranno ad annodarmi / Dietro la nuca le idee più spinte»), le quali reagiscono in forma di controrigetto deformato e grottesco, che assume più forza proprio dalla stessa violenza della repressione tacitante («Ma largo ora si scagli / Il riso trattenuto che in sarcasmo scoppi»). Ma, in una poetica dell’alterazione, l’antagonismo stesso non può in alcun modo vedersi assicurato un “posto fisso”; dovrà invece adattarsi a seguire le trasformazioni in atto, poiché (come leggiamo ne Lo specchio e la trottola) «Ogni ideologia assume forma nuova». Sarà soprattutto in Ma chi è qui il responsabile? che Cacciatore, sia pur per brevi accenni e per veloci aperture e però con una significativa costan-

za, Verrà a misurarsi — per altro con una certa precocità — con i mutamenti del sistema economico e produttivo, i quali mutamenti, con

l'esaltazione della velocità, della flessibilità, della scomposizione e della comunicazione, sembrerebbero proprio gratificare una filosofia dell’alterazione. Tuttavia, lo stesso titolo complessivo Ma chi è qui il responsabile? mostra una. richiesta non appagata di responsabilità e di cause ben lontana dal tranquillo cullarsi nelle superficiali consonanze con i miti dell’esistente. In vari punti della raccolta, Cacciatore rivaluta davvero l’impoetico dedicandosi a lavorare su lessico e materiali di tipo brutamente economico; valgano ancora i titoli che, come quelli della sezione significativamente denominata La cosa nuda e cruda, vedono implicati i vari generi di lavoro, segno che ormai il lavoro si è sventagliato in una pluralità di modi, di forme e di norme, di cui viene a far parte anche la perdita del lavoro (vedi Senza lavoro, Fuori del lavoro) divenuta, al di là della contingenza congiunturale, un dato di struttura del funzionamento del sistema. Un altro titolo denso di significati è quello della settima parte, // nastro trasportatore, dove il principale ritrovato della fabbrica “fordista”, è assunto da Cacciatore come indice

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di un movimento trascinante, in cui la stabilità stessa di quel modo di produrre viene adesso messa in discussione (e conviene ricordare un suo componimento interno come /! taglio dei ritmi). Che ormai predomini il capitale fittizio nella sua fantasmaticità finanziaria e nella continua metamorfosi favorita dalle comunicazioni “in tempo reale” («C'è chi investe e telefona espliciti / Spostamenti di soldi»; da Fisse dimore e traslochi); e che il lavoro sia ovunque, dovendo essere continuamente reinventato e situandosi anche nelle pieghe della produzione di immaginario («Procede il lavoro confisca ogni tipo / Finca ferrea ghiera e lentiggini»; da // taglio dei ritmi) non sono soltanto spunti tematici qui estrapolati ad arte, ma elementi fondanti della ricerca di Cacciatore, della sua analisi spietata delle situazioni oggettive e dei comportamenti umani, e della sua inesausta allerta dei possibili sprigionamenti dell’energia vitale, con una scrittura che in questa fase si anima anche attraverso una metrica distonica, dai “piedi” variabili. L’irrompere del livello economico-produttivo non provoca nella poesia un semplice lamento dello sfruttamento e dell’alienazione, così

come l’avvertimento delle trasformazioni non dà reazioni di resistenza nostalgica e basta: Cacciatore sembra piuttosto avanti, semmai a sopravanzare la forma-mondo so andando a constatarne i limiti e le chiusure apparentemente fa mostra di dinamismo. Non,

interessato a spingere che ha di fronte, in castatiche anche là dove dunque, a ritrovare un

edenico valore d’uso, ma a mettere il valore di scambio di fronte alle

proprie responsabilità, inquisendolo senza requie se non sia manche-

vole proprio di fronte alla esigenza della scambiabilità e alla circolazione offerta a tutti. Lo si potrebbe riscontrare in vari testi della raccolta del ’74, alcuni dei quali (ad esempio il già citato Taglio dei ritmi) per la loro lunghezza e complessità consigliano un rinvio dell’esame a sedi più ampie e più specifiche; qui mi limiterò a un veloce passaggio su // nodo giusto (dall’ottava e ultima sezione della raccolta): esso esordisce con l'apoteosi del “prodotto” e il suo alonarsi di una nuova “aura” sacrale («In posa sul turbine spicca il Prodotto / Fulgendo da favola odierna...»), anche se subito dopo l'emissione che si propaga dall’“immagine” è decisamente contraddittoria, poiché manifesta e rivela non solo la mancanza di etica della logica del profitto, ma addirittura la pericolosità per il vivente («Emette in silenzio l’immagine strida /

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Orgiastiche e tetre perché qui magari / Vi s’inquina il quoziente / Qual un germe genocida // Sì crimine è il nòcciolo dentro gli affari»). Collocato al centro del testo è il “nodo”, per l'appunto, centrale: «Denaro è energia — va bene — ma vale / Se sprizza di gioia l’univoca spesa»; col che, sul bilico dell’ipotetica, viene messa al condizionale la

validità del benessere consumista. La finanziarizzazione del capitale, va giudicata non a priori, ma commisurando le sollecitazioni del suo continuo rivoluzionamento

e del suo allargamento estensivo, e così

pure la flessibilità e mobilità, con una autentica “sediziosità dell’energia”. Diventa importante — e non trascurabile, come nell’ottica ufficiale dei detentori dei “poteri forti” o nella paranoide supposizione di un valore di scambio totalmente sciolto dall’uso — la sorte del «vigore» umano e la considerazione larga della stessa nozione di produttività, che, se non può tenere fuori il versante ideologico e neppure quello biologico, giunge fino alle conclusive perplessità sul «vortice pravo» del presente, per quanto velocizzato e globalizzato esso sia: «Perplesso il mondo l’ascolta — robusto / Legame vien meno ma truscia o fagotto / Per chi nasce è scientifico / Paradigma il nodo giusto». A dire, se in-

terpretiamo correttamente, che la rottura dei legami tradizionali non esime da porre di nuovo il problema dei rapporti, a partire dalla necessità di ciascuno (quel “fagotto” in cui raccogliere le cose indispensabili); compendiando nell’immagine del “nodo giusto”, oltre al recupero di una tecnica manuale di pronto intervento, la capacità di cogliere con rigore la “questione” di fondo del modello di sviluppo, che l'estetica del fumoso e dell’effimero ci vorrebbe sottrarre. 4) L'individuo molteplice e il valore del collettivo. Alla “restituzione” e al “rimpatrio” Cacciatore conferisce un senso di pienezza dell’essere il cui carattere ha qualcosa dell’estasi e tuttavia è sempre accompagnato da evidentissime componenti interpersonali: da un lato il singolo individuo, nel momento in cui è attraversato dalle “scosse” dell’energia, si scopre internamente molteplice e contraddittorio («E trovi che l’unico è fatto da tanti», dice il Sonetto XIX della Puntura del-

l'assillo); dall’altro lato, nessuna valida esperienza può prescindere dal rapporto con altri, e di conseguenza raggiunge il suo livello massimo solo nel contatto con altri e nella ricerca di una prospettiva comuni-

La “restituzione” sociale

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taria, insomma nell’“essere sociale” (sempre nella Puntura, il Sonetto XVII, intitolato proprio Folla: «Tra àtoni visi uno solo sorride / Accenna a chiamare fa proprio il tuo nome / (...) /Senz’altro è già tempo di frangersi in folla»). Proprio perché insediato nel concreto dell’esperienza e del suo “assillo”, il sismografo della poesia vi vede insieme il punto di partenza e il piano di verifica di qualsiasi trasformazione complessiva. Qui sta anche il punto di divergenza del pensiero di Cacciatore rispetto alla vul-

gata della “dottrina della prassi”, come egli stesso chiarirà nel lungo discorso in prosa di Da/ dire al fare: non soltanto per il fatto che la “dottrina della prassi” si è ufficializzata e sclerotizzata («fatta pedante scienza scolastica anch’essa... divenuta anziana di rugosi compromessi in un futuro già in palma di mano decrepito»), ma più per l’essersi attestata riduttivamente sulle questioni della proprietà economica, sui

«conflitti della ricchezza», come dice Cacciatore (una critica che colpisce giustamente una versione piatta ed ottusa del materialismo, quella che ha assunto troppo spesso un ruolo repressivo e violento, puntellando regimi dittatoriali e giustificando la risoluzione delle contraddizioni manu militari, col che ha messo in mora e rinviato sine die

ogni altra rivoluzione e in tal modo depotenziato, distorto e tradito la propria stessa “spinta propulsiva”). La filosofia dell’alterazione, come non patisce censure di sorta, così non può reggere obiettivi teleologicamente prefissati, né restrizioni alla partecipazione sia pure mascherate con la calata dall’alto del miraggio della bontà dell’uomo. Per queste ragioni, l'istanza che percorre la poesia di Cacciatore è sì una istanza politica, ma non in senso stretto (in quanto una politicità di professione “separata” dai problemi vitali finirebbe per restare assai indietro, quand’anche virata in senso progressivo: «I politici sorridono e fanno un segno / Ma la realtà li fa fuori dal suo disegno», leggiamo nella Restituzione); è, a ben vedere, una istanza civile e democratica che tende a rilevare il positivo nel quantum di compartecipazione e di superamento delle barriere di ceto e di classe. Nel già citato Carme momentaneo, collegato al memorabile 25 luglio 1943, l’«intensità» del tempo-spazio concentrato e fungibile è legata a congiunzioni inusitate che rompono il senso comune e la sua funzione di salvaguardia, tanto da non potere essere ridotte a pure “fi-

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gure” della retorica ma da dover essere lette su un piano più ampio («Ubriachi e sobri in un solo compendio»; e ancor più: «Il poliziotto sottobraccio al cascherino / Cessa la sua funzione è uomo tal e quale»). Non si tratta nemmeno di un comodo interclassismo, per mettere insieme come che sia disparati interessi, quanto piuttosto dell’interesse collettivo che si pone come unico interesse “ragionevole”: e ciò soprattutto attraverso la circolazione del discorso, ovvero di un agire comunicativo che, scontando tutte le sue contraddizioni, tuttavia si pro-

pone come tramite di un “accordo” e di una “intesa” tutti da costruire, nonostante proprio lo strumento-linguaggio, nella sua difficile elaborazione, ne evidenzi la grande e costitutiva problematicità. Lo dice, tra gli altri, un sonetto come La piazza (la cui importanza è sottolineata dalla posizione addirittura fuori testo, prima della stessa introduzione a Lo specchio e la trottola): «Voci — non siamo altro che voci lo senti», esordisce il sonetto, rimarcando la sostanza comunicativa dei mezzi di

socializzazione; lo spazio “centrale” della piazza, spazio della comunità molto più che della massa, è il luogo della loro convergenza, fino a diventare una sorta di orecchio impersonale («L’udito amoroso che nella piazza ha il centro») che raccoglie e rimanda i messaggi a guisa di «eco»; ma, si badi una «perdutamente irta eco», quindi nulla di tranquillo, di scorrevole, di già dato in partenza; infatti, la comunicazione richiede una esperienza “speciale” di uscita all’esterno («Senti fuori stormisce un bosco è l’inaudito»), di straordinaria percezione e consapevolezza, che deriva ancora una volta da una attenzione interpretativa che sposta verso un piano altro le risultanze immediate e ovvie: «Non di alberi la piazza ci parla e di foglie / Brusìo è unanime e per sempre in sé ci accoglie». E questo problema dell’“unanimità”, utopia concreta che si può scorgere al fondo della poesia-pensiero di Cacciatore, è ciò che anima anche le scelte tecniche, anzi ciò che sommuove ogni livello della tecnica: dal ritmo che propone una insistenza incalzante e “assillante”, eppure sempre internamente rotta e periclitante; alla impersonalità del dettato che annulla le possibilità di una facile identificazione e insieme qualsiasi tentazione di fuga nel trascendimento lirico-simbolico e in una fruizione separatamente edonistica; all’allegoria, infine, che

nel suo “esporre” in pubblico oggetti e materiali per discuterne un

La “restituzione” sociale

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possibile nuovo significato, diventa sempre più in Cacciatore il modello di un comportamento che si apre all’incontro intersoggettivo e alla prospettiva di un sistema produttivo di lavoro e di comunicazione collettivamente condiviso e controllato.

EDOARDO CACCIATORE O LA POESIA “RESTITUITA” Giorgio Patrizi

Scrive Gustav R. Hocke nel suo fondamentale I/ manierismo nella letteratura (del 1959, ma tradotto in italiano parzialmente nel ’65), a proposito della cultura del Moderno: «La nostra esperienza storica si è arricchita, la nostra coscienza si è riempita in modo persino inquietante: c'è una ressa, una calca di contenuti. Questa stupefacente accumulazione ha i suoi vantaggi e svantaggi. Per mezzo di essa, è vero, oggi il perfezionamento “evocativo” è maggiore, lo sguardo in esperienze più ricche e molteplici più acuto, la sapienza

estetica (spesso) più sottile, l’autocritica (spesso) più pentrante, la raffinatezza più indiretta, la comunicazione molto più sviluppata, ma proprio perciò è più debole la facoltà spontanea di distinzione della coscienza e la sua capacità di evocare le forme. Proprio perciò ci muoviamo in una necropoli di miti, in un obitorio di dei. Ma il più bello dello spettacolo manieristico del nostro tempo è perciò anche la tendenza alla ricostruzione. Vengono impiegati strumenti acuminati di freddo acciaio. Staremo

a vedere

come

tutto ciò, de-

stato dagli abissi della storia, avrà luogo, avrà luogo altrimenti... che con le mitiche derelitte lettere. Ma noi conosciamo

appena l’alfa-

beto e fino all’esame di maturità manieristico la via è ancora lunga» (in trad. it. Milano 1965, p. 54). In questo scenario, tra cimitero degli dei e opifici di ricostruzione, in questo itinerario che non è altro che una scoperta incessante e solo apparentemente definitiva dell’alfabeto, la poesia novecentesca italiana è andata consumando una sua peculiarissima vicenda di scuole, vie, rotture, tradizioni, mode estetiche e accademiche, rimo-

zioni, prese di potere e conseguenti censure. Con tutte le scansioni che ricordava Hocke: l'accumulo dei materiali affabulatorii ed espressivi, le critiche e le autocritiche più penetranti, le distinzioni della coscienza più deboli, la capacità di elaborare forme più flebile.

Edoardo Cacciatore o la poesia “restituita”

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E ora, nel decennio che conduce alla fine del secolo, forse questo Novecento andrà ripensato, riletto, riformulato, andrà finalmente

colto il lavoro di chi, nell’accumulazione delle voci e dei corpi che è andata riempiendo in modo quasi parossistico le pagine e le menti di questi ultimi anni di letteratura, ha saputo costantemente mantenere viva e lucida la creatività e la consapevolezza del discorso poetico. Troppi lirismi, intimismi, evocatività di grana grossa, pretestuose epifanie occupano le antologie di questi cento anni aperti dal dramma del Moderno —- la perdita della totalità e la scoperta dell’ideologia — e chiusi dal dramma di non riuscire ancora, se non in modi imperfetti e luttuosi, a far rimarginare la ferita provocata da quella perdita, mentre discorsi e scritture hanno tentato in tutti i modi, nel corso

dei decenni,

di assuefare

e risarcire l’individuo

tormentato da quello scacco. Di fronte a questa patetica ma dilaniante ricerca di verità, la lingua della poesia ha battuto i sentieri più diversi ma difficilmente è riuscita a forgiarsi gli strumenti — «acuminati di freddo acciaio» — di una “ricostruzione” paziente e appassionata, utopica e meticolosamente scientifica assieme. Ed è per questo, evidentemente, che quando Hocke deve indicare i testi che attraverso i secoli della storia della poesia italiana testimoniano questa urgenza di un approccio “manieristico” al mondo (nel senso rigoroso che indica il teorico tedesco di una poesia che radicalizza la propria analisi critica dell’esistente in una complessità formale e tematica — “pangrammaticale” — che appartiene alla tradizione dell’*irregolare” anticlassico) ad un solo autore del Novecento italiano fa riferimento: ad Edoardo Cacciatore che, con il rigore di studioso estraneo ai gruppi e alle fazioni, Hocke definisce uno dei più notevoli poeti contemporanei. Cacciatore, manierista, neoretorico, gnomico, è autore di una poesia che, letteralmente, non ha eguali nel nostro Novecento. Per-

ché, al di là di ogni giudizio, è una poesia che non guarda tanto ai

modelli italiani coevi o della tradizione in cui ha le proprie radici la letteratura di questo secolo: Pascoli, D'Annunzio,

il simbolismo ita-

liano. Piuttosto si rivolge ai grandi testimoni della crisi — espressiva e conoscitiva — di cui si è detto, Eliot o Benn, e intende soprattutto

riformulare le forme metriche chiuse, in una grande varietà di mi-

Giorgio Patrizi

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sure e di accenti, verso l’esempio del sonetto elisabettiano, che suggestionò anche Eliot per la duttilità di un metro capace di consentire «la mescolanza sui generis di passione e di pensiero, di sentimento e di raziocinio» (Praz). Cacciatore soffre, nella storia della poesia contemporanea, proprio di quest’unicità, della propria radicale estraneità ai modelli lirici - quello montaliano soprattutto — vigenti nella poesia del secondo dopoguerra. Ma è d’altronde proprio in questa stagione, a ridosso degli eventi bellici di cui conserva e preserva le tracce, che la poesia di Cacciatore esplode con l’originalità di temi e di linguaggio che rimarrà poi caratteristica costante del suo modo di far versi. Ma non va dimenticato che a monte di ogni sua pagina di poesia — per la prima come per la più recente raccolta — c’è un testo di prosa, anche’esso di un’originalità catturante, con le dense riflessioni intessute al filo della memoria e del

racconto. Nella biblioteca di un ideale Novecento “alternativo” rispetto ai canoni della critica ufficiale e dei “valori comuni” dei massmedia, la prosa della /dentificazione intera dovrebbe occupare la posizione privilegiata di un testo testimone della tragedia di un mondo disfatto dalla violenza. La violenza contingente della guerra e quella costante e costituzionale che si annida nell’esperienza quotidiana degli uomini, il “mal comune senza gaudio” rispetto al quale ciò che salva è solo l’esercizio costante di una ragione minuziosamente

analitica,

al limite della tortuosità,

una

forza

raziocinante

capace di smontare l’esperienza e la conoscenza per coglierne i processi complessi e compositi. Ma l’identificazione è soprattutto un avvincente itinerario verso la scoperta della libertà, riconosciuta nel-

la capacità di aderire e rendersi partecipi di quel processo di “alterazione”, secondo una categoria centrale del sistema conoscitivo e speculativo di Cacciatore. In questa prospettiva c’è un ripensamento radicale dei modi in cui la realtà è esperita e razionalizzata: vengono riformulate — appunto sul filo di una trasformazione costante come dinamica immutabile dell’universo, “forza operosa” che, lucrezianamente, dà vita e trasforma le cose — tutte le categorie della percezione della realtà e del linguaggio che ne elabora il senso. Ed assieme a tutto ciò, ad essere riplasmato e ricondotto ad una carica originale è lo stesso discorso narrativo, teso tra la riflessione e la

Edoardo Cacciatore o la poesia “restituita”

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descrizione, in una sensibilissima percezione della realtà. Nell’Identificazione, capitoli come Piazza ad Esedra sono esemplari di una narrativa raziocinante e visionaria che ricorda il Valéry di Monsieur Teste, benché se ne allontani per l’insopprimibile passione per l’esterno, per l’alterità; e in funzione di questa costante esigenza di confrontarsi costantemente col mondo daria: Cacciatore ridisegna anche il problema della soggettività, un “io che non è che un noi”; ne fonda uno

statuto

“plurale”, una

natura

di fascio di

sensazioni in continuo movimento: è un “pensiero del di fuori” questo di Cacciatore, secondo la definizione che Foucault diede di un

altro grande pensatore-scrittore della pluralità, Maurice Blanchot. E in questo sporgersi senza difese al di fuori, Cacciatore riconosce il destino vitale dell’uomo e della sua integrazione in una natura che si trasforma, per trasformarsi, “alterarsi” con essa.

Il linguaggio di straordinaria efficacia che organizza, sorregge e dà senso a tutto questo si nutre del preziosimo della maniera “alta” di certa prosa d’arte, ma rivitalizzata, resa densa da innesti di lessico “basso”, quotidiano, sostanziata da una sorta di esaltazione dei sensi

tradotta verbalmente nel neologismo o nel vocabolo raro e desueto fino a costruire, anche tramite questi, una visionarietà mai evocativa, ma sempre tutt’uno con l’istanza logica e riflessiva. Discende direttamente da queste pagine l’esordio poetico di Cacciatore, già sufficientemente maturo per porsi come un “caso” della

poesia italiana: tra l’altro è caratteristico di Cacciatore un suo modo di “tenere” il proprio registro con continuità attraverso gli anni. L’effetto è quello di un mondo e un linguaggio poetico che esplodono già quasi del tutto strutturati e maturi e che piuttosto trovano articolazioni tematiche e problematiche al proprio interno, riproponendo fedelmente uno stile che nel corso del tempo ha solo acquistato, a tratti, di essenzialità. La restituzione, edita da Vallecchi nel 1955, ripropone la medesima tensione speculativa della prosa del ’51. Con la scansione delle parti della retorica classica — narratio, probatio, exemplum, refutatio ecc. — Cacciatore attraversa l’esperienza del mondo con l’attenzione a coglierne le complicate dinamiche e a ricavarne l’insegnamento per una più radicale conoscenza.

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Giorgio Patrizi

Ecco quindi i percorsi nella città-cosmo: la Roma del dopoguerra, riconoscibile nell’umanità amatissima che il poeta osserva e medita nelle strette euforiche e disforiche della tragedia appena terminata. E qui Cacciatore va scoprendo le verità quotidiane: «Qui tutto è fatto apposta per esserci /Dovunque non mi si offrono che utensili», ma anche l'ammirazione della pluralità delle cose: «L’infinito è l’infinita scelta di cose / Il dolore se non varia è confutabile / Certo la scempia è la più vera delle rose». In questa terzina — della Restituzione — è testimoniato uno dei procedimenti più tipici dell'andamento gnomico del discorso poetico: dall’osservazione più generale e dalla riflessione che ne consegue scaturisce l’immagine icastica che declina nell’episodio singolare l’universalità della legge rilevata. Questa dialettica tra singolare e universale, contingente e costante, tra sentenza e osservazione, costruisce un ritmo che sorregge tutta la riflessione di Cacciatore, anzi la orienta, ne fissa gli orizzonti e le con-

dizioni. È una dialettica di alta tensione emotiva ed intellettuale proprio perché capace di muoversi tra i poli opposti dell’esperienza sentimentale e dell’avventura mentale, del pensiero a cui Cacciatore guarda come attività di decantazione e di distillazione della realtà. Così i distici dedicati a Campo di fiori («Campo di fiori è un mercato parti-

colare...»), così il Carme momentaneo che mette in scena l’intreccio universale di evento storico, vicende individuali, senso di esistenze da

cogliere nei gesti che accompagnano l’evento stesso: «L’intensità che all’istante li unifica / Immediatamente radice e già frutto / Sulla sua buccia guancia ancora senza grinze / Con un lavorio di cesoie e di pinze / La Luna bicorne e il Sole vi scrive tutto»): il significato di questo amoroso ritratto di uomini e di cose è tutto raccolto nella strofa finale del componimento dove il disegno si completa e si risolve: «Ascolta è ritmo di danza non scalpiccìo / Equilibrio in bilico senza tirocinio / ... / E memoria pura quanto vi si scancella / E l’esperienza ti propone la scaltrezza / Passato il momento ecco il momento giusto / La vita sul momento scaccia ogni disgusto / E ingenuità è ancora in questa tenerezza». Lo specchio e la trottola — le immagini nietszchiane di una poesia pitagorica e dionisiaca — sono le insegne della successiva raccolta di Cacciatore, del 1960, uscita anch’essa da Vallecchi. Qui il discorso poetico

Edoardo Cacciatore o la poesia “restituita”

psi:

si è complicato, ha acquistato in articolazione e duttilità: si anima di personaggi della vita quotidiana — i singolari animatori dei media che cantano le loro violenze pubbliche e private — di figure di memoria biblica — lo straordinario Beniamino «dal bordo dell’animo» che scandisce i tempi di una visionaria coniugazione dell’esistenza fino all’estremo.

È molto difficile restituire il senso di una raccolta ricca e complessa come questa in cui l’intreccio tra osservazione, esperienza e pensiero è tutto calato all’interno di un’inesauribile auscultazione delle cose e dei loro nomi. Le parole acquistano ora un rilievo tutto particolare, si raggrumano attorno ai suoni, scandiscono il lento svolgimento del pensiero: e l'estremo che disegna il limite dell’esperienza è colto nel suo accadere, nell’annuncio che lo rende prossimo e quindi umano. Forse il centro di questa raccolta è proprio ne L’imminenza: «Stai per venire ed io ti riconosco / Fra il tumulto dove calmo mi annullo / L’ira per offrirti del senno /... / Stai per venire ed essere il mio plurale...». Qui si gioca la scommessa fondamentale della poesia di Cacciatore, il rischio della sua stessa impossibilità di essere e di dire. Ciò che isola questi testi dal “senso comune” della poesia italiana di questo secolo è anche nella progressiva rinuncia e cancellazione del ruolo poetante ed enunciante dell’io. L’opzione decisamente antilirica trae con sé anche la riduzione e l’indebolimento dell’istanza soggettiva; dall'occhio che osserva la realtà o dalla mente che specula sui fenomeni e sulle dinamiche di essa è breve il passaggio a sciogliere queste pur precarie tracce di soggettività nella costruzione di una pluralità di voci, di discorsi: il plurale come destino e come forza della poesia. Le parole si raccolgono a comporre la scena di una umanità molteplice che parla con le tante lingue possibili e che si prova e si estenua nella continua trasformazione o alterazione. Si realizza quel rapporto difficile con l’alterità che Blanchot ha descritto in dense pagine: «io sperimento l’altro non come rapporto estraneo con un uomo come me, ma come l’uomo nella sua estraneità,

come ciò che sfugge ad ogni forma di identificazione, sia a quella di un sapere impersonale, sia a quella di una mediazione o di una fusione mistica: il fuori o l’ignoto che è sempre già fuori portata, il non visibile contenuto nella parola». E in questo rapporto va riconosciuta la no-

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vità dei versi di Cacciatore: vi si disegnano presenze che fanno giustizia di qualsiasi univocità o soggettivismo e pure si attiva quella tensione gnomica che fornisce, come si è detto, la chiave decisiva del discorso poetico. La sentenziosità viene elaborandosi come una sorta di enunciazione neutra, quasi voce della natura naturans, ragione poetante, decantata riflessione dell’esperienza che si sostanzia dal proprio farsi, dal ritmo interno che agisce e struttura il discorso. Il battente dipanarsi di Andatura — da Ma chi è qui il responsabile?, edito dalla Cooperativa Scrittori nel 1974 — svolge un’altro tema fondamentale dell’universo di pensiero di Cacciatore: il tema dell’esterno come orizzonte continuo su cui si proiettano tutte le esperienze umane e necessario al prodursi di quella dinamica dell’alterazione che, secondo Cacciatore, è la legge che governa l’infinita materia dell’universo, la molteplicità e la contingenza dei corpi. All’esterno e in relazione ad esso Cacciatore riconosce la natura autentica delle cose, del loro divenire, della loro verità che è solo nella trasformazione e nel riconoscersi precarie. La scansione, iterativa fino all’ossessione, dei versi si

organizza attraverso un colloquio che fornisce un’altra cifra peculiare dell’intera produzione di Cacciatore: «Più ne sai e più ignori l’esterno / .../ A difesa tu cita l’esterno / Non seccarmi ch’è Iddio l’esterno /... / Che vuoi chiudere un boccio è l’esterno / .... /Te ne accorgi? che orgia è l’esterno...». La petizione del tu non cede mai a tentazioni liriche o evocative ma ha piuttosto il senso di una pedagogia puntuale, costruita su ammonizioni, insegnamenti, osservazioni, entusiasmi. Che poi il soggetto di tutto ciò non sia riconoscibile in alcuna identità ma piuttosto emerga dall’alterità, dalla pluralità, si definisca non in un’essenza ma piuttosto in un rapporto, è un fatto che ridistribuisce le polarità del testo, evitando ogni centralità dell’io e ristabilendo il carattere di valore al momento stesso del rapporto, del confronto con l’altro. Anche in questo senso, anche per questa paradossale pedagogia, la poesia di Cacciatore è una poesia dell’esterno, tutta tesa a comporre il disegno appassionante di un dinamismo universale in cui tutto si compone e si raccoglie. Le ultimissime prove poetiche di Cacciatore non fanno che testimoniare ulteriormente questa vocazione alla poesia come pensiero che

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rappresenta un apax nella nostra poesia del Novecento. I sonetti della Puntura dell’assillo — editi dalla Società di Poesia nel 1986 — rappresentano una evoluzione importante nella poesia di Cacciatore: qui ogni rapporto con la realtà e con l’esperienza è osservato attraverso il filtro di una meditazione sul pensiero e sugli eventi che ne articolano lo svolgimento. «Il pensiero inscenato dal poemetto — scrive Giuliani introducendo il volume — non è un contemplare e ha poco da vedere col senso comune del riflettere. Non per nulla Cacciatore è di origine siciliana. C'è un modo concreto e visionario di sentire il vivo pensiero, che spesso, scavalcando i secoli, avvicina gli scrittori siciliani e calabre-

si ai loro antenati della Magna Grecia. Empedocle e Tommaso Campanella, Gorgia e Pirandello, Parmenide e Cacciatore, per quanto imparagonabili, hanno in comune un’intelligenza fantastica e sottile dei processi logici e conoscitivi. Artisti e filosofi, nelle loro concezioni la mente è sempre sul punto di delirare, di uscire da sé per invenire una ragione più pregnante».

Lo stesso Giuliani aveva scritto, nel 1957, a proposito della Restituzione: «È paradossale la passionalità con cui Cacciatore tratta le idee. Nella sua mente ogni pensiero diventa vivo, ma d’una vita pulviscolare, finché non si placa in alcune metafore resistenti, strumenti si direbbe, se a volte non apparissero con una loro irriducibilità ontologica». In questo intreccio tra pensiero e immagine, tra astrazione logica e ontologia delle figure del discorso, tra meditazione e concretezza tattile si deposita il senso più riposto e prezioso della poesia di Cacciatore: l’esito delle sue frequentazioni dei romantici tedeschi — come ancora rileva Giuliani - ma anche dei barocchi e dei poeti mistici, con un’eredità formale che si prolunga fino a certo espressionismo di avanguardie novecentesche — tedesche e russe — e che in Italia non trova sintonie di rilievo, a parte certe illuminanti figurazioni ungarettiane. Come si è detto, proprio da questa unicità occorre partire per rileggere il cammino di Cacciatore: e per cogliere fino in fondo le prospettive aperte nella storia letteraria di questo secolo da una poesia capace di attraversare la tradizione all’insegna di singolarissima prospettiva destrutturante. E quella che indica Filippo Bettini nell’Introduzione ai Graduali (rime del ’54 riproposte dall’editore Manni nell’86): «la scrit-

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Giorgio Patrizi

tura del poeta accetta di destituire il verbo poetico della sua illusione consolatoria di stabilità e di sicurezza, lo preme, lo incalza da presso,

lo scuote e lo rivolge nei suoi spostamenti e nelle sue alterazioni e finalmente giunge a piegarlo all’individuazione dei lati contraddittori, antinomici, oggettivamente irrisolti, della stessa esistenza. Si fa, insomma, poesia non solo di mutamento ma di “ossimori”. E ossimorica si presenta la sua espressione tutte le volte essa incorra in nuclei di ambivalenza, di contraddizione, di concordia discors, che non cancella e

non dissimula ma lascia, di colpo, affiorare dalla scorza protettiva del mondo fenomenico». Ma questa volontà critica e demistificante del “senso comune” e delle sue ideologie si inscrive all’interno di un discorso poetico più ampio e, in qualche modo, positivo, capace cioè di giungere al di là della messa in crisi delle istituzioni letterarie e difendere un possibile ruolo all'attività gnomica della poesia. È quanto dimostra ancora Cacciatore con il suo più recente volume di prose, Carichi pendenti (Lubrina editore, 1990), che certo merita una discussione approfondita. Tre saggi sulla poesia — di epoche e tagli diversi — ripropongono una riflessione sulla natura della scrittura poetica e del suo linguaggio di una non comune densità e forza espressiva. Vogliamo ricordare, in chiusura di

questa nota, il primo di questi tre scritti, Intorno alla poesia e all’uomo moderno, una conferenza tenuta a Monaco nel 1958. È un pò la summa del pensiero di Cacciatore: due sono, scrive, i caratteri della crea-

zione poetica, la sua «toccante immediatezza» e la sua «gradualità». In entrambi questi caratteri si compie la prossimità alla vita — delle cose, delle parole — della poesia e quel movimento che la conduce verso una sempre più completa adesione all’alterazione che regna nell’universo. La crescente riconoscibilità del mondo nella poesia, la possibilità di

quello di specchiarsi, in qualche modo, in questa, è descritta con estrema lucidità e, secondo il solito binomio, passione. Tutte le possibili articolazioni dell’esistere sono ricondotte al moto che le attraversa e le nutre e questo è riconosciuto ugualmente nella poesia, nella specificità del suo statuto discorsivo ed enunciativo. La scandalosità del messaggio poetico è allora proprio nell’«indiscrezione» di cui si parla nel terzo saggio: «se tu, con sgombra mancanza di tatto, invece, ti rifiuti a quegli accomodati trofei, a quei tropi retorici messi in auge dagli

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accreditati detentori di coscienze; se tu fai capire chiaro e tondo,

con tutto il tuo dire e con tutto il tuo fare, che il tuo linguaggio è astruso perché ha fatto scorrere la lingua prensile paro paro, senza mai risputarne gli avanzi più ostici, sopra tutte le astruserie della realtà così prossime talora all’allucinazione, allora ecco questa tua assoluta mancanza di tatto... può far perdere la bussola al cosiddetto consumatore di cultura».

UN CASO PROLUNGATO DI “CENSURA” CRITICA: LINEE E PROPOSTE DI UNA RIVALUTAZIONE ALTERNATIVA

Iolanda Capotondi

L’originalità e la complessità della poesia di Cacciatore, il suo sfuggire a qualsiasi tentativo di inserimento in una precisa corrente

del nostro panorama novecentesco, la difficoltà nel reperimento dei suoi testi, sono i fattori che hanno

contribuito

a far sì che la sua

opera rimanesse a lungo trascurata dalla critica ed esclusa dal dibattito letterario. Per tracciare il quadro della storia della critica su Edoardo Cacciatore, bisogna, infatti, risalire all’ ultimo trentennio, quando, grazie alla

lettura di qualche critico “illuminato”, è stata messa in evidenza la forte carica innovativa e sperimentale del suo linguaggio poetico e il suo carattere fortemente antagonistico nei confronti della tradizione romantico-simbolista.

1. L'inizio del dibattito

Dopo la pubblicazione di alcune poesie (confluite successivamente nei Graduali) sulla rivista «Botteghe Oscure», esce, nel 1955 presso Vallecchi, il poemetto La restituzione ! che, citato da Hocke nel suo testo fondamentale sul Manierismo ? come esempio di poesia “pangrammatica”, grazie al quale definisce Cacciatore «come uno dei più dotati poeti italiani di oggi», colpisce 1’ attenzione di Giuliani, il quale gli dedica il primo saggio critico di un certo respiro 3. 1 EDOARDO CACCIATORE, La restituzione, Firenze, Vallecchi 1955.

? GusTAV RENÉ HOCKE, I! manierismo in letteratura, Milano, Il Saggiatore 1965, pp. 40-41 e 103. ? ALFREDO GIULIANI, La restituzione, in «Il Verri», n. 3, primavera 1957, pp. 87-94, raccolto successivamente in volume, Immagini e maniere, Milano, Feltrinelli 1965, ri-

Un caso prolungato di “censura” critica

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La lettura di Giuliani mette in evidenza due elementi fondamentali

della produzione cacciatoriana, da un lato il carattere “gnomico” di una poesia basata sul pensiero e sulla riflessione, dall’altro la stretta e fertile interrelazione di scambio e osmosi esistente fra opere in versi e opere in prosa. Riguardo quest’ultimo punto, il critico prende in esame la poetica dell’/dentificazione intera * come necessario richiamo per comprendere la Restituzione in quanto sono già presenti le categorie di “meraviglia”e “scarcerazione” (di cui la “ragione” è strumento) e i concetti di “alterazione” e “incipienza”, fino alla “metafora” che «è il punto di incontro, la trasparenza , fra pensiero e realtà». E, scoprendo le radici romantiche di questa poetica (vengono fatti inomi di Novalis e Schelling) definita come «un appassionamento autobiografico risolto in una situazione gnomica», Giuliani mette in luce però il pericolo che corre tale poesia costituito del continuo sfiorare «la dottrina in versi». L’ originalità della visione cacciatoriana, che è insieme «anarchica e pitagorica», risiede, come conclude il critico, nell’ «impulso ritmico», nel «legato» che il poeta gnomico costruisce tra «le immagini vere e proprie e le metafore intellettuali». Prendendo le distanze da Hocke (la collocazione nel “manierismo” è semmai attribuibile «al suo virtuosismo letterario, che è un tipico aspetto della sua opera, ed è cosa diversa dal manierismo») del quale condivide l’individuazione della “stranezza” della poesia di Cacciatore, e, in parte, anche da Giuliani (che ripubblicando il suo saggio in volume aggiunge una frettolosa nota «nella quale sostanzialmente condanna Lo specchio e la trottola»), Stelio Maria Martini dedica al poeta il primo studio ampio e articolato per / contemporanei della Marzorati 5. L’attenta indagine di Martini, seguendo l'itinerario del poeta, da L’identificazione intera alle opere più recenti, si pone un duplice obiettivo: da un lato lo scardinamento di quell’accusa di cerebrapubblicato in «L’ immaginazione», nn. 55-56, luglio-agosto, Lecce, Manni 1988, numero interamente dedicato a Cacciatore. 4 EDOARDO CACCIATORE, L’identificazione intera, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane 1951. 5 STELIO MARIA MARTINI, Edoardo Cacciatore, in IContemporanei, vol. V, Milano, Marzorati 1974, poi in Novecento, vol. X, Milano, Marzorati, 1979.

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lismo che ha determinato il lungo ostracismo del poeta dal milieu letterario 6, dall’ altro l’interpretazione, alla luce dello stretto legame esistente tra le opere in prosa e quelle in versi (per cui le prime costituiscono dei veri e propri “brogliacci” delle seconde), dell'operazione poetica di Cacciatore come «rivelazione del caos attraverso un formale equilibrio che lo mostra in una sua possibile dimensione umana» 7. Il caos e la forma sono gli elementi fondamentali della poesia cacciatoriana e la loro particolare configurazione determina e sostanzia un linguaggio da cui emerge «l’esclusione di quel platonismo proprio della scrittura tradizionale» ed è qui che il poeta mostra la sua forza ed originalità in quanto «l’alterazione stessa presenta una sua tipica implicazione di anfiglossia (Hocke) nella scrittura, per cui questa tende ad essere appunto restituzione di realtà come incipienza» 8. Intorno al concetto di alterazione ruota tutta la poetica di Cacciatore, riguardo alla quale, se è lecito adoperare

termini come

«sortilegio, sortes,

incantesimo, esoterismo, orfismo e pitagorismo, escatologia e soteriologia», questi non possono essere disgiunti dalla scelta di un linguaggio che, colto nella sua materialità, lontano da qualsiasi atteggiamento idealistico e «fatidico di vate», si rivela strumento di conoscenza e possesso della realtà. 2. Gli anni Ottanta: la riscoperta Bisogna attendere gli anni ’80 per assistere ad una riscoperta e rivalutazione di Cacciatore che trova finalmente una prima sistemazione nell’antologia sui contemporanei di Bettini, Lunetta e Muzzioli 9, tra quegli autori che, dando «prova di serietà professionale, di rinno© Stelio Maria Martini sottolinea l'assenza di Cacciatore in tre recenti opere importanti: CESARE VIVALDI, Poesia satirica nell’ Italia d’oggi, Parma, Guanda 1964; Gur-

DO GUGLIELMI e ELIO PAGLIARANI, Manuale di poesia sperimentale, Milano, Mondadori 1966; EDOARDO SANGUINETI, Poesia italiana del Novecento, Torino, Einaudi 1969.

” STELIO MARIA MARTINI, cit., p. 754. S IVI; piane ° FiLiPPo BETTINI, MARIO LUNETTA, FRANCESCO MUZZIOLI, Letteratura degli anni Ottanta, Foggia, Bastogi 1985.

Un caso prolungato di “censura”

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vamento espressivo e di impegno teorico-intellettuale», con la loro opera hanno contribuito a combattere il clima di restaurazione in cui versava la nostra letteratura, accomunati dalla precisa volontà «di destituire l'istituzione letteraria dei suoi tradizionali attributi di purezza e di sacralità e della loro originaria investitura auratica e oracolare» 10, La svolta fondamentale di Cacciatore nella poesia del secondo Novecento, il suo carattere di “poeta-pensatore” e di «precursore dello sperimentalismo letterario», vengono anche sottolineati da un articolo su «Rinascita» dello stesso Bettini !! che, soffermandosi sui perché di quella che viene da lui definita «premeditata avversione» da parte della critica, ne ricerca le ragioni proprio in una «sostanziale incompatibilità» di alcuni momenti salienti della sua poetica con la cultura ufficiale del Novecento: in particolare la sintesi tra poesia e filosofia, il rigore della riflessione metalinguistica, l’invenzione di una forma espressiva assolutamente inedita.

3. Dalla fine al principio: l’uscita de La puntura dell’assillo e /a riscoperta dei Graduali

Il 1986 costituisce un anno fondamentale nella storia della critica su Cacciatore, in quanto la pubblicazione di due sue importanti raccolte di poesia, i Graduali e La puntura dell’assillo, per la precisione la sua prima e la sua ultima raccolta in ordine di tempo, desta un grande interesse tra le posizioni più avanzate del mondo letterario, dando nuovo impulso e vigore al dibattito intorno alla sua opera e richiamando addirittura l’ attenzione di qualche critico fino ad allora “disattento”, disposto in taluni casi a fare professione di autocritica, come Luperini che si pente in un articolo di non aver dato al poeta neppure un posto nel suo Novecento 12. Nella sua incisiva presentazione alla Puntura del10 EriPpo BETTINI, Proposte innovative contro la “restaurazione” degli anni ‘70, in Filippo Bettini, Mario Lunetta, Francesco Muzzioli, cit., pp. 11-24. 1! Filippo BETTINI, Morto tra i vivi, vivo tra i morti, in «Rinascita», sabato 23 febbraio 1985, pp. 16-18. 12 ROMANO LUPERINI, Autocritica del critico, in «Quotidiano», Lecce, domenica 16

e lunedì 17 novembre 1986.

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l’assillo, Giuliani !3, delineando l’«itinerario rigoroso» che a partire dalla Restituzione ha compiuto il poeta, individua due componenti basilari del pensiero di Cacciatore, la concretezza e la visionarietà, che in un quadro generale di rapporti avvicinano lui ed altri scrittori siciliani e calabresi ai loro antenati della Magna Grecia, «Empedocle e Tommaso Campanella, Gorgia e Pirandello, Parmenide e Cacciatore». Sulla peculiarità del pensiero di Cacciatore pone l’accento anche Patrizi !4 attraverso una lettura che ne rivela la cadenza «pitagorica» del ritmo e ne riconduce la matrice alla «filosofia greca classica», al «vitalismo eracliteo» e alla «cosmogonia» dello stesso Pitagora. Il linguaggio della poesia di Cacciatore è soprattutto «linguaggio del pensiero», un pensiero la cui visione è «materica, tattile», come si evince

dall’analisi testuale che il critico dedica a tre sonetti !5 mostrandoci come la poesia si costruisca «retoricamente, secondo gli slanci e le immagini del pensiero». «Scrittura noetica» è il neologismo critico che Bettini usa nell’introduzione ai Graduali *6, in cui, a riprova del co-

stante e fecondo interscambio tra pensiero e poesia, viene preso in esame, come necessario presupposto, il romanzo-saggio L’identificazione intera ‘7. La presenza di temi-chiave già appartenenti al romanzo stabilisce una continuità di racconto che si traduce nei Graduali in una sorta di «musica mentale». Ma la principale novità che il critico individua in questa poesia, «plurima e corale», di «aperto antisoggettivismo», consiste nella presenza dell’“allegoria”, di cui i Graduali (che come poesia “pubblica” rimandano proprio all’etimo filologico del termine, allegorein, ossia significare altro da ciò che si dice, ma in pub-

13 ALFREDO

GIULIANI, Toccando il pensiero, introduzione

a Edoardo Cacciatore,

La puntura dell’assillo, Milano, Società di poesia 1986, pp. 7-9. 14 GIORGIO PATRIZI, Pitagorico il ritmo del pensiero, in «Rinascita», sabato 9 mag-

gio 1987, p. 20.

!° GioRGIO PATRIZI, Edoardo Cacciatore o il pensiero come poesia, in «L'ombra d’Argo», Lecce, n. 4 1985, pp. 89-93. !© Fiippo BETTINI, Introduzione a Edoardo Cacciatore, Graduali, Lecce, Manni 1986.

!7 EDOARDO CACCIATORE, L’identificazione intera, cit.

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blico !8) «ripropongono e sviluppano l’andamento diacronico e frammentario di un “racconto possibile”» 1°. Si tratta dunque di una «voce del pensiero» che per la «ossimorica» compresenza di complessità e semplicità richiama alla mente dell’interprete i nomi di Lucrezio, Teocrito e Pindaro 2°. La tensione razionale, «di pensiero», interna alla

scrittura dei Graduali offre poi a Muzzioli su «Alfabeta» la possibilità «di riprendere il discorso sullo sperimentalismo proprio alle radici» 21. Muzzioli interpreta la poesia del testo alla luce di un «progetto di oltranza» che ne sottende la costruzione. In tal modo si spiegano «la stranezza» e «la profondità» di un’opera in cui la forma e il ritmo concorrono a dar corpo ad una riflessione che «ha raggiunto ormai, come unica occasione del suo dire, la base — direi quasi biologica — dei battiti e itti dell'energia» 22.

4. Itto itto: sediziosità dell’Energia. Nel 1988 la rivista «L’immaginazione» pubblica uno stralcio dell’opera in prosa inedita, /tto itto: sediziosità dell'Energia, e, con l’occasione, dedica l’intero numero a Cacciatore 23, attraverso una raccolta di

interventi e testimonianze che, ripercorrendo quasi per intero l’itinerario del poeta, contribuiscono sensibilmente a ricollocarlo in un ruolo di primo piano all’interno dell’attuale dibattito letterario.

18 L’ allegoria al contrario del simbolo «respinge la lusinga della ritorsione intima e privata e invoca e esige il diritto di esprimere in agorà un allon che sia veramente di altri, con altri, per altri, in altri luoghi». Filippo Bettini, in Id., cit., p. 25.

ZL Ivi" p.20.

2! FRANCESCO MuZZIOLI, Sperimentalismo letterario, in supplemento ad «Alfabeta», n. 94 marzo 1987, pp. V-VI.

2 Hay po: 23 AA.Vv., «L’immaginazione», nn. 55-56, Lecce, Manni 1988 (vi sono inclusi, ol-

tre ai contributi degli autori di cui a seguire trattiamo nel testo, anche due pezzi già editi di Giuliani e Luperini: rispettivamente il saggio sulla Restituzione, cit., e l’articolo sui Graduali, cit.)

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A La puntura dell’ assillo, è dedicata la perspicace e stringente presentazione di Agosti 24, che propone una lettura dell’intera opera cacciatoriana alla luce di un’unica matrice: «la storia di un’iniziazione» la cui meta finale è costituita dalla scoperta dell’«alterazione totale». Utilizzando un modello ricavato dalle recenti ricerche semiotiche francesi 25, il critico spiega, poi, in maniera dettagliata come avviene «l’esperienza espressiva» a partire dall’“alterazione”: all’alterazione dei due Soggetti di Sapere — l'Io e il Mondo - viene «omologata» anche la posizione dell’Enunciatore, il quale demanda ad un’entità esterna la propria enunciazione. Quest’entità, continuamente ricorrente nel testo è il «Ritmo», o, per adoperare «un bellissimo neologismo» del poeta, «itto». Alla poesia dei Graduali sono invece dedicati tre successivi interventi. Nella sua Nota, Patrizi 26 parla di «momento aurorale» per questa scrittura in cui, in «una forma “pura”, semplice, asciutta», viene an-

nunciato quello che in un secondo momento il poeta dirà in maniera complessa, per cui «la tensione viva» delle opere future è già presente qui, «nella ricerca più pacata, ma già rigorosa di un’interrogazione e una risposta reciproche tra pensiero e poesia». Sulla “gradualità” di ricezione dei Graduali si sofferma D’Amely 27, che ne mette in evidenza

il «lungo tempo di sedimentazione», dovuto, in parte, all’esistenza del «progetto forte» su cui è stata costruita. Una “gradualità” che riguarda anche la struttura fondata sull’incessante «dialettica ordine-caos»,

in cui il soggetto del discorso, esulando dalla «tradizione soggettivistica della lirica», è un «io-mente appiattito sulla materia». La studiosa conclude la sua interessante nota, ribadendo il carattere fortemente

dialettico del testo, che consiste proprio «nel suo essere poesia del pensiero e mimesi della materia in atto». Una linea circolare che, però, «non si chiude» è la regola compositiva sottesa ai Graduali, indi-

24 STEFANO AGOSTI, “La puntura dell’assillo”, in «L’immaginazione», cit., pp. 10-11. °° Si tratta del modello eleborato da J. Fontanille, cfr. Stefano Agosti, op. cit., p..10. i

°° GIORGIO PATRIZI, In nota ai “Graduali”, 1, in «L’immaginazione», cit., pp. 11-12. 27 FLORIANA D’AMELY, In nota ai “Graduali”, 2, in «L’immaginazione», cit., p. 12.

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viduata da Carlino ?8 che ci offre, in quest'ottica, una lettura specifica del terzo Tetrastichon, il cui verso, «nel tragitto efferato dal dire al fare

e ritorno» vale come una vera e propria dichiarazione di poetica. A entrambe le opere sopra considerate è poi rivolto lo scritto di Muzzioli 2°, secondo il quale, grazie alla pubblicazione quasi simultanea dei Graduali e de La puntura dell’assillo, si è riusciti a cogliere, alla luce del nesso “poesia-pensiero”, il «giusto valore storico e propositivo» della scrittura poetica del loro autore. Ciò conduce il critico ad aggiungere una terza linea nel panorama dello sperimentalismo italiano del dopoguerra, («le due linee acquisite essendo quelle di “Officina” e del Gruppo ’63»), rappresentata per l’appunto da Cacciatore, linea «parallela ma assolutamente non riducibile alle altre due». In convergenza con tale collocazione e nella più generale prospettiva (anche militante) di una “scrittura materialistica” è infine esaminato da Bettini 30 uno dei “capolavori” cacciatoriani, Lo specchio e la trottola, di cui egli spiega nel corso della sua lettura interpretativa, come la su indicata definizione riesca a rendere appieno l’idea della prepotente «vocazione allegorica e antisimbolistica», all’interno della quale «antico e moderno non si equivalgono, ma, leopardianamente, si fronteggiano e si interrogano». A conclusione dell’intero excursus sull’itinerario poetico dell’autore sono poste due testimonianze particolarmente significative che, rimuovendo gli ultimi ostacoli ad una piena ricezione della sua opera, ne definiscono la posizione nell’oggi e ne sollecitano una opportuna rivalutazione. La poesia di Cacciatore, il cui “caso”, scrive

Malerba 3!, ricorda quello di Dino Campana, merita un «ruolo di primo piano» nel dibattito critico, perchè costituisce, senza dubbio, «uno dei momenti più alti e sapienti della poesia del Novecento». E sulla «densità del suo dire», fuori da ogni enfasi, insiste Zanzotto 3? che ne 28 MARCELLO CARLINO, // cerchio non si chiude, in «L’immaginazione», cit., p. 13.

29 FRANCESCO MUZZIOLI, I ragionamenti della poesia, in «L’immaginazione», cit., LO:

30 FILIPPO BETTINI, “Lo specchio e la trottola”: energia e rifrazione di una scrittura in

divenire, in «L’immaginazione», cit., pp. 8-9. 31 LuIGI MALERBA, Un ruolo di primo piano, in «L’immaginazione», cit., p. 16. 32 ANDREA ZANZOTTO, La densità del suo dire, in «L’immaginazione», cit., p. 16.

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definisce i testi «irreparabili» e incomparabili, «da resistere nel loro porsi e basta». Ma, oltre al numero dell’«Immaginazione», sul finire degli anni Ottanta, il rilancio della figura di Cacciatore và incontro ad un altro momento incisivo che sembra esaudire gli auspici di Zanzotto e Malerba: ci riferiamo alla nota antologia di Cavallo e Lunetta, Poesia italiana della contraddizione 33. Qui Cacciatore viene antologizzato dai due curatori con dieci testi tratti dalle varie opere ed è poi trattato nella sezione finale degli Interventi critici da un ulteriore saggio di Bettini 34 che, sotto il titolo Tendenza e progetto, introduce un insolito accostamento tra la funzione culturale della sua lezione poetica e quella di Edoardo Sanguineti. I due autori, pur diversissimi tra loro, vengono accomunati dalla «matrice “allegorica” della ricerca in versi», dalla «rifondazione “antilirica” di una lingua poetico-narrativa» e, in gene-

rale, dal porsi come «alternativa» (nel rilancio dell’“allegoria” contro il “simbolo”) alla «tradizione classica del Novecento». S. Le indagini degli anni Novanta: studi monografici e dintorni

Negli anni Novanta l’opera di Cacciatore, grazie anche all’iniziativa coraggiosa di alcuni editori che contribuiscono alla sua diffusione 35, è ormai al centro del dibattito letterario; la sua poesia viene finalmente “restituita” al mondo, per dirla con Patrizi 3° che, in un saggio su «Baldus», ripercorre il cammino cacciatoriano, rivolto, al di fuori dei mo-

delli lirici in cui affonda le radici la letteratura di questo secolo, ai «grandi testimoni della crisi — espressiva e conoscitiva —», Eliot o Benn. Il critico mette a fuoco soprattutto il «problema della sogget33 FRANCO CAVALLO-MARIO LUNETTA, Poesia italiana della contraddizione, Roma,

Newton Compton 1989. ** FiLiPPo BETTINI, Tendenza e progetto, in F. CAVALLO-M. LUNETTA, Poesia italiana della contraddizione, cit., pp. 315-328.

Per tale aspetto cfr. FILIPPO BETTINI-FRANCESCO MuZZIOLI, Gruppo ’93, Lecce, Manni 1990, pp. 43-44, 3© GIORGIO PATRIZI, Edoardo Cacciatore o la poesia “restituita”, in «Baldus», n. 0,

settembre 1990, pp. 49-53.

Un caso prolungato di “censura”

critica

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tività», di un «io che non è che un noi» e che come tale attraversa tutti

i testi del poeta, dall’/dentificazione intera al recente volume Carichi pendenti 37. Il tema centrale dell’“esterno”, in relazione al quale il poeta riconosce «la natura autentica delle cose, del loro divenire, della lo-

ro verità», è affrontato anche nell’analisi di una delle opere più trascurate dalla critica, Ma chi è qui il responsabile? 38, in cui la presenza del tu, lungi dal rappresentare un cedimento lirico, assume piuttosto il valore di una «pedagogia puntuale, costruita su ammonizioni, insegnamenti, osservazioni, entusiasmi».

L’uscita del primo libro monografico sul poeta, scritto dalla Del Giudice 39, viene messa in rilievo in un articolo di Guarini ‘° che, de-

finendo la poesia di Cacciatore attraverso la suggestiva immagine di un «intricatissimo bosco» in cui siano disseminate «trappole intellettuali», riconosce alla giovane studiosa il merito di fornire un «utile commento alle sue strane poesie». Lo studio della Del Giudice ci offre una circostanziata analisi condotta secondo un metodo che, sintoma-

ticamente riassunto nel titolo stesso del libro (tratto da un verso di una poesia dei Graduali), diviene paradigma dell’intera poetica cacciatoriana: «l’icona vuota». Infatti tale sintagma rappresenta «il continuo espandersi del pensiero, è lo stemma della metafora, del ragionamento che non sa interruzioni». Percorrendo un itinerario personale, come ella stessa avverte, «senza seguire un preciso ordine che tenga conto di date di composizione o di pubblicazione dei testi», in sintonia con le interpretazioni precedenti di Giuliani, Bettini e Patrizi, la Del Giudice presenta al lettore un puntuale e articolato commento all’intero corpus cacciatoriano. La poetica degli oggetti, l’uso dell’allegoria, lo sfruttamento agli estremi delle potenzialità del segno poetico, la metaforizzazione della realtà, la pratica dell’alterazione, la natura barocca e, per

concludere, il tema dell’estermno sono i motivi intorno ai quali ruota la

37 EDOARDO CACCIATORE, Carichi pendenti, Bergamo, Lubrina 1989.

38 EDOARDO CACCIATORE, Ma chi è qui il responsabile?, Roma, Cooperativa Scrittori 1974. 39 PAOLA DEL GIUDICE, L'icona vuota, Chieti, Solfanelli 1991.

40 RUGGERO GUARINI, C'è una lirica nel bosco, ne «Il Messaggero», 11 marzo 1992.

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lettura di un’opera che, a buon diritto, può essere considerata «come una delle ultime affascinazioni del nostro Novecento in versi». La sintesi della ricerca di Cacciatore è, senza dubbio, rappresentata dalla sua ultima opera in prosa, Itto itto 41, pubblicata da Manni nel 1994, che si pone significativamente, come scrive nell’introduzione Patrizi 42, «alla fine di un secolo che si è interrogato a lungo sulle risorse e sui limiti della parola». In alternativa all’altra via novecentesca in cui

la scelta del silenzio era stata la risposta allo iato esistente tra parola e cose, Cacciatore crea «un’opera lucreziana in cui tutte le lingue sono chiamate a narrare gli eventi di quella “forza operosa” che dà vita all'universo». La prosa di /tto itto, si colloca dunque, paradigmaticamente, al termine di un itinerario poetico, originale ed unico nel nostro Novecento, di cui rappresenta il momento più alto e sintetico, sancendo «l’istanza titanica che anima l’invenzione continua della scrittura,

l'ossessione eroica della ricerca di una parola che con la propria singolarità esprima la singolare bellezza delle cose, amate prima che lAlterazione le disperda».

4! EDOARDO CACCIATORE, Itto itto, Lecce, Manni 1994. 4° GIORGIO PATRIZI, I nomi dell’Alterazione, introduzione a Edoardo Cacciatore, Itto itto, cit., pp. 7-18.

GRADUALI: GENESI ANTILIRICA DI UNA SCRITTURA ALLEGORICA E SPERIMENTALE

Filippo Bettini

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I Graduali, pubblicati in volume soltanto nel 1986, erano usciti in rivista, su due numeri di «Botteghe Oscure», nel biennio 1953-54. Sono quindi da collegare al “romanzo-saggio” del ’51, L’identificazione intera; intrattengono con questo una relazione di aderenza e di interscambio tutt’affatto speciale. La loro elaborazione non viene solo dopo quella dell’/dentificazione, ma nasce dal suo intimo, si decanta oltre la soglia della sua germinale lievitazione in prosa: o, per meglio dire, libera e soddisfa — nel nuovo libro a cui dà vita — il suo impellente bisogno di esplodere e forgiarsi nella misura più densa e perentoria del

Verso. Vi è un fertile meccanismo di osmosi e di intreccio tra pensiero e poesia che informa già da ora la ricerca dell’autore e che la modulerà, anche in seguito, su una puntuale alternanza tra libri teorici e libri poetici (si pensi soltanto al filo rosso che passa tra Ma chi è qui il responsabile? e Dal dire al fare e, più recentemente, tra La puntura del-

l’assillo e Itto itto). E in uniformità ad esso si ritrovano qui una serie di temi-chiave del romanzo. In generale, si accampano i luoghi in nuce di quella che abbiamo, altrove, definito una “scrittura noetica”. Si dà

l'aggancio tra riflessione storica sulla contemporaneità e interpretazione esistenziale della vita, l’investigazione di un paesaggio eterogeneo formato dalla compresenza paritetica di oggetti, situazioni, uomini e pensieri, lo scandaglio problematico dello zoccolo duro di contrasti irriducibili (tra necessità e libertà, tra materia e ragione, esperienza

e parola, tra tempo della storia e tempo della vita). Con particolare riguardo, sembra, alla trasformazione di ogni spicchio di realtà, e della realtà nel suo complesso, nella successione entropica degli eventi: e dello stesso pensiero che indaga quel paesaggio e della stessa parola che dice quei contrasti. «Alterazione» in primo luogo, come recita, appunto il tetrasticon d’apertura:

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«L’amore che due visi fa uno solo Ti dà la scienza della distanza infinita La terza immagine immaginaria attualmente Realtà è sempre in preda all’alterazione».

E in specifico si aggiunga che la cifra di scrittura declina il paradigma della riflessione in atto su una tastiera di risvolti formali che in parte riprende, in parte rielabora ex-novo l'andamento della pur diversa struttura in prosa dell’Identificazione. C'è l’idea di una continuità di racconto che si dipana a patente rifiuto di ogni sorta di totalità orga-

nica e compiuta. Tra l’una e l’altra delle quattro sezioni (Tetrasticha, Pentasticha, Hexasticha ed Heptasticha) e, ancor più, tra i singoli componenti si interpongono blocchi silenziosi, distanze devianti, spazi bianchi. C’è, in più, l’anteposizione della molteplicità dei punti di vista e dei temi trattati all’individualità statica e riduttiva del soggetto poetico: in un congruo passaggio che si verifica dalla versione indiretta dell’«io multiplo» del protagonista in prima persona del romanzo alla metodica «cancellazione dell’io» perpetrata nella sintassi polifonica e impersonale dei Graduali. C'è, ancora, un repertorio sintomatico di

analogie di immagini e stilemi, tra cui spicca l’implicito richiamo del secondo Tetrasticon al tenore dei pochissimi versi presenti nel romanzo. Per essere esatti alla precedente descrizione del mutamento come «frantoio» in cui «va in frantumi anche l’ultima / l’estrema sinopsi» («AI frantoio adorabile detestabile giungo / Le grandi ombre dell’amore si intalpano lungo / Gli orizzonti abbandonati biancore su cui giaccio») fa ora da complemento il ritorno sullo stesso motivo, laddove il comun denominatore dell’«estasi» è inteso come coefficiente di energia vitale e come motore propulsivo di ogni ciclo consecutivo di morte e di rinascita: «Lo scempio di ieri ora è storia dinnanzi A noi un’estasi all’àncora dei muri Una volta a mente il delitto è in gloria Tra bellezza e potenza trinitariamente».

E, infine, badando alla preponderanza del tratto congiuntivo tra schema retorico e motivo dell’«alterazione», nulla può valere meglio a

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glossa dell’operazione condotta che il seguente corollario di poetica esplicita: «L'arte — come tecnica, come artificio — non è che un gioco, a chiusura au-

tomatica, di rapporti formalistici, ritagliati dalla vita — tagliati fuori da tutto il resto. (...) Ma quando hai avuto l’esperienza massima e compenetrativa dell’alterazione tutta, ad ogni cosa tu applichi la forma reale, inintermessa: e tutto è integralmente incitazione ad oltranza che risponde a tutto Co;

Parole dell’Identificazione che sembrano preannunciare, con qualche anno di anticipo, il funzionamento di una struttura, come quella dei Graduali, in cui entro il gioco implosivo e demarcatorio dell’architettura verbale trova modo di spaziare una vocazione filosofica, aperta e asistematica, pronta a captare e a ‘riordinare, nominandolo, il caos

del mondo. Ma, oltre a tutto ciò, vi è anche, nei Graduali, la transizione dal genere della prosa a quello della poesia: e — cosa ancor più importante — non è affatto casuale né secondaria. E allora l’indubitabile parentela di discendenza dal primo libro non sarà da tenersi per pura stilizzazione in versi di un materiale già dato, per detrito meccanico di problematiche speculative, indotte dalla prosa a riversarsi nel mare sonoro

della poesia. Ma la sua probanza sarà, invece, tanto più efficace e persuasiva, se si riconoscerà alla nuova opera la forza di uno sviluppo in progress della meditazione precedente, la capacità di un incremento conoscitivo e rappresentativo nelle modalità peculiari del verso, il merito, insomma, dell’apertura di ulteriori varchi e più avanzate frontiere. Oltre i quali, del resto, tanto per anticipare un tema, sarà la stessa antinomia tra «forma e ordine» della parola (e del pensiero che in essa si specchia) e «contenuto e varietà» dell’esperienza ad essere eletta come polo catalizzante di scavo analitico e di metafora letteraria. E veniamo dunque, come si deve, al libro in questione. 1) Un titolo induttivo e autoreferenziale

Già il titolo, riferendosi all’opera cui appartiene, dice della “gradualità” del suo movimento di genesi e di evoluzione, fa appello ad

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una sottaciuta poiesis che non è solo parto passivo ma cellula produttiva e riproduttiva del pensiero in altro pensiero. Che vi è di più graduale della disposizione del linguaggio nella scansione spazio-temporale dei versi e, a seguire, di tale scansione nell’organismo contestuale

dell’opera (strofi, parti, sezioni)? Il termine Graduali rinvia all’altro e a se stesso: a ciò da cui ha origine e a ciò che, essendo, denota della

propria natura. Ma è accessibile un terzo livello di decifrazione che ad esso compete: questa gradualità non copre solo la dimensione del “prima” e dell’“ora”, ma differisce il messaggio, che porta, alla costruzione del testo, cui è propedeutica. Ad esserne introdotta è la successione di quattro sezioni che si dividono e si susseguono in ragione del progressivo aumento del numero dei versi che ne formano i relativi

componimenti: dai quattro dei Tetrasticha, ai cinque dei Pentasticha, ai sei degli Hexasticha, fino ai sette degli Heptasticha. In tale minimo scatto addizionale si potrebbe banalmente ravvisare l’intero compendio dell’avvertenza istruttiva del titolo. Eppure, nel preannuncio del “verso in più”, che replica il suo intervento supplementare di sezione in sezione, si riverbera un’esigenza più complessa che va ben al di là

dell’espediente tecnico che determina. Si dispiega la spinta conflittuale ad un allargamento virtualmente incessante dell’area del discorso poetico e, al tempo stesso, ad una sua parallela e puntuale e implacabile delimitazione. Si dichiara la volontà di una scrittura che, per esprimetrsi, ha sì bisogno di allogare e riconoscersi nel tracciato di una forma chiusa e codificata, ma che, in pari misura, per attingere linfa dalla materia che la alimenta, avverte la necessità opposta di espandersi, di

ampliare il proprio perimetro, di creare moduli e fasce più ampie che le consentano di non cristallizzarsi e di non perdere o illanguidire il suo diretto contatto con l’universo cangiante del “panta rei”. Perché

anche questo Graduali vuol dire: che a prodursi non è un atto fittiziamente catartico di uscita e di liberazione dal codice, ma un’attività paziente e capillare di variazione e di erosione dei suoi margini: una dilatazione propulsiva e intermittente della superficie geometrica tratteggiata in via preliminare per ospitare e circoscrivere dall’interno il magma iniziale. E, se un termine si dà alla gradualità della crescita, non è per aprioristica coincidenza con il telos del libro, ma per ineludibile sopravvento di un’interruzione (che non è fine), rivolta a garan-

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tire l’equilibrio circolare dei due momenti e la loro mediazione fruitiva. E, se volessimo indicare due estremi emblematici che ricevono lu-

ce dal titolo e ad esso la restituiscono, potremmo osservare che, mentre l'incipit dei primi Tetrasticha è fissato in un punto non determinato dell’evoluzione già in corso del binomio “individuo-mondo”: «Non più dovrai dire come o mi sembra La palma e l’oggetto sono una cosa sola Il brivido che ti corre lungo le membra È il pensiero che il corpo alla mente già invola» (Tetrasticha II)

il sipario dell’ultimo Heptasticon cade sul clinamen di una gestazione ancora attiva, che, a misura del suo impulso, non vuole esaurirsi ma

aspira a protrarsi, oltre l’arresto dell’iter sospeso, nella traiettoria imprevedibile del viaggio erratico e dello spostamento inintermesso: «(...) La felicità che inventò questo viaggio Scrutano nell’eterno le dolcezze empie E su in alto quei fiori aforisma ad un saggio Dove un calabrone porta il peso di un raggio». (Heptasticha VI) Sicché di verso in verso, a crescere, l'espansione del dire, incremen-

tando il già detto, rinnova sempre un inizio diverso. 2) Retorica e forma di una struttura a due facce Ma andiamo, oltre. Dal “titolo” alla “struttura”, il riscontro è im-

mediato e coerente. Sull’ambivalenza procedurale della direzione costruttiva dischiusa e contesa dall’opposizione “dentro-fuori” è imbastito tutto l’ordito retorico ed espressivo del testo. Ed ogni suo costituente e livello, mentre fa la prima apparizione in forme destinate ad essere proseguite e integrate nelle due maggiori raccolte della Restituzione e dello Specchio e la trottola, istituisce fin da ora una “costante” che ne qualifica l’intera portata: tanto più ottempera intenzionalmente al suo presupposto di partenza, quanto più si rivela, di fatto, trami-

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te, a dir poco, sconvolgente di novità e di rottura nella poesia italiana degli ultimi quarantanni. Intanto, è di per sé eloquente la scelta della retorica come intelaiatura e organizzazione formale del discorso. Essa coordina e disciplina un tipo di poesia che — come ben sa chi conosce Cacciatore — amerà frequentare e alternare, più tardi, generi espressivi della più varia estrazione: dal dialogo filosofico all’epigramma greco, dal carme latino al sonetto elisabettiano, attinti da strati sommersi e fecondi di un’e-

redità classica “altra” e distante da quella consacrata dalla tradizione ufficiale (anche novecentesca). Il suo impiego, quindi, non costituisce un dato sorprendente e neppure marginale. E tanto meno può costituirlo, se si considera che la sua importanza, oltre a significare il rigetto di qualsiasi tentazione evocativa e sentimentale, risiede nell’equivalente di un ben congegnato e calibrato apparato spaziale, offerto all’espressione verbale per misurare e fissare in immagine l’alterazione temporale delle cose, degli eventi e dell’esistenza umana nel ritmo cadenzato delle loro circostanze di incontro e di conflitto. Quasi che essa stia a rimarcare e ostendere l’artificio della parola come unico strumento di conoscenza relativa del reale e di commutazione poetica del suo trascorrere centrifugo e multiforme. Ma - anche al di là dello schema retorico ed entro il recinto che ne demarca l’ambito di pertinenza — quella che soprattutto s'impone è l’atipicità ardua e trasgressiva dei procedimenti adottati. A partire dal “metro”, l’attenzione corre, in primo luogo, al genere di verso usato dall’autore. Verso rarissimo (pressoché inesistente) nella nostra poesia di ieri e di oggi, dotato di un suo interno vigore materico, quasi duro, ostico al primo impatto, il “tridecasillabo” è adibito ad un uso così insistente e regolare da confessare subito le ragioni a cui è dovuto il suo privilegiamento. Basta leggere e ascoltare (interiormente) versi come «Sazi di storia a digiuno di avvenire Si ricacciano ormai nella cronaca cieca Stomaco e Sesso i due vecchi protagonisti Ostentano soli una lugubre baldoria». (Tetrasticha VI)

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vie,

per avvedersi di come la funzione che esso è chiamato ad adempiere sia quella di convertire in soprasegmento il percorso di esplicazione del pensiero in parola: il contrasto, espresso nei versi, tra storia e biologia non si dissolve in canto, in dolcezza evasiva di suono, ma — quasi come pietra che esca dal marmo e si stagli in mente — sprigiona un movimento ritmico che si modella secondo le sue interne necessità, onde

si evidenzia — per energia icastica dei singoli termini e per dilatazione del loro asse sintagmatico — la stupenda immagine mentale della scissione dolorosa tra una condizione di vita ridotta a fisicità animale e un incedere storico privo di prospettive e ormai degenerato nel buio groviglio della stasi. E, in generale, il “tridecasillabo” vanta due requisiti che paiono confarsi perfettamente alla matrice intellettuale e speculativa dei significati che unisce e separa. Per un verso, la sua lunghezza, difficilmente scorporabile nella misura stabile di due metri minori (come avviene, perlopiù, per versi superiori all’endecasillabo che hanno goduto di una certa fortuna) dà largo sfogo al respiro noetico della frase, insofferente e refrattaria alle maglie costrittive del verso classico. Per l’altro, è la sua intrinseca composizione ritmica — mai fissa ma variante a seconda del procedere della sintassi (come se la sua articolazione fosse imposta da una catena di enjambements, operanti non solo da verso a verso ma da sequenza a sequenza all’interno dello stesso verso) — ad escludere ogni specie di melodia e di cantabilità e a emanare una qualità di “musica mentale” che non cerca l’appoggio surrettizio del suono ma che ne partorisce l’avvento dal profondo, seguendo esclusivamente la cadenza e l’accento di un ragionamento che chiama la parola e si fa poesia. E vano sarebbe andare a rintracciare, nel suo andamento, una qualche sfumatura di “musica soggettiva dell’io” o di “musica oggettiva delle cose”, secondo due rami esemplari della tradizione poetica del Novecento italiano: in esso prevale e si distende una “musica impersonale e interpersonale”, che è, insieme, dell’io e delle cose, che sorge dall’attraversamento analitico del loro rapporto, che non è mai monodica ma sempre plurima e corale. Persino lo “scandaloso” ripristino della rima — che sembrerebbe più pesare sul còté della costrizione formale, a diffida dell’ingannevole catarsi novecentesca — coopera ad enucleare, con il suo battito saltuario e diradato epperò epifanico e penetrante, le volute di una trama concettuale e

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rappresentativa che, come gli oggetti della sua rappresentazione, si evolve e si modifica nell’atto del suo esprimersi. Rima che non s’innalza ancora alle soluzioni più ardite e mature dei due libri successivi, ove sarà addirittura un lessico inusitato di gerundi, avverbi, pronomi, neo-

logismi e arcaismi ad innescare una consonanza più crescente e diffusa. Ma già adesso, nella semplicità elementare delle sue occasioni, essa mostra un’inclinazione quasi ossessiva a voler risolvere in suono solo l’idea del senso che incarna, senza alludere né rimandare per suggestione eufonica ad alcun piano evocativo e simbolico che la sopravanzi né la sottenda. E, a buona ragione, il suo intervento si riveste, in più d’un caso, d’una valenza metaletteraria: come quando, ad esempio, serve a sottolineare, con inflessione apodittica, la differenza costituti-

va tra parole e cose, tra pensare e agire: «Le parole fanno colletta di ogni fatto L’orecchio è un vassoio sonoramente offerto Sedotta sùbito da un meretricio certo La mente al prologo applaude l’ultimo atto». (Tetrasticha IX) o come laddove è finalizzato a scandire la raffigurazione della momentanea parafasia del linguaggio e della stessa scrittura dinanzi alla voracità incalzante del pensiero nel circuito comunicativo delle sensazioni e delle idee: «Tra lingua e labbra appare la lacuna Gli oggetti stanno ordinati dentro scansìe A posto le idee su mezzi di fortuna Sono realtà effettuali sono utopìe Gesti e la mente li aduna in cibo di arpìe». (Pentasticha X)

Per tornare all’assunto della nostra indagine, non vorremmo suscitare l'impressione di un eccessivo indugio sui dati formali, ma, invero, ci pare estremamente opportuno individuare e mettere a fuoco la ricchezza e consistenza delle motivazioni che ne sono alla base e che ne fanno altrettanti cardini di un’operazione — ripetiamo

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ancora una volta — nuovissima e dirompente nella tradizione espressiva (e non solo) della nostra poesia. E ci siano, allora, concesse altre due osservazioni. Se “metro” e “rima” definiscono la movenza di proliferazione di un narratum argomentativo che si autoimpone, di continuo, limiti, pause e punti fermi per poi infrangerli, ad assecondarla e potenziarla concorrono anche due ulteriori fattori che esulano propriamente dalla sfera del suono e del metro. Man mano che procede la lettura da testo a testo, si constata facilmente come al contrappunto tra misura del verso e funzione della rima faccia puntuale riscontro il legame non meno decisivo che si stabilisce tra costruzione della sintassi e estensione del testo. E veniamo qui a una mossa essenziale e, per certi versi, sconcertante del linguaggio di Cacciatore: tra una parte e l’altra del discorso è interamente abolita la punteggiatura. In apparenza, a trarne vantaggio dovrebbe essere la progressione combinatoria delle parole e di ciò che esse, senza vincoli prestabiliti, vogliono dire; ma — solo che

la lettura sia stata ultimata — essa appare immancabilmente contraddetta e rattenuta dalla repentina chiusura del testo e dalla conseguente contrazione del suo spazio interno di articolazione e di sviluppo. Si verificano due fenomeni diacronicamente disposti in modo solidale e reattivo. In un primo tempo, si apre il varco alla libertà del discorso e della sua interpretazione. Dinanzi all’azzeramento della grafia sintattica, alla successione ininterrotta di unità lessicali che attendono di essere allacciate e distinte, il lettore si trova nella condizione attiva di ricostruire, dal continuum, i segmenti frastici del discretum e, così facen-

do, di ripercorrere il viaggio a ritroso del processo intellettivo e crea-

tivo che li ha generati e in essi si è impresso. Egli, per così dire, è chiamato a ristabilire l’ordine del senso e ad impadronirsi criticamente del dispositivo dell’opera. E la parabola decodificatoria in cui dovrà inarcarsi più si discosterà da qualsiasi ricezione passiva di significati già esteriormente formalizzati, più sarà in grado di cogliere e disvelare tutta l'ambiguità delle valenze semantiche e dei loro risvolti immaginativi e metaforici. Facciamo un esempio che serva di chiarimento e di verifica. Al cospetto di un componimento come il potente XIV Pentasticon:

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«Immagine memorabile ad ora ad ora No - anche tu sei cosa inevitabilmente S’issava interminabile eppure rotondo Un sole contagia al traffico cittadino Brulla nostalgia del caos dal profondo».

la lettura, volendo, potrà scegliere tra due /ectiones: o quella “metaforica” del riferimento dell’espressione «s’issava» a «immagine memorabile» o quella “descrittiva” della sua associazione al termine «un sole»; o potrà ancora optare, e a maggior fondamento, per una terza, più duttile e comprensiva, che attribuisca il verbo a entrambi i soggetti: con il risultato di ricongiungere — per via di associazioni mentali e di relativa ellissi sintattica — nella liaison di un unico circolo i due estremi della dinamica bipolare tra la dimensione mnemonica e quella visiva. Ma, quale che sia la chiave prescelta, il lettore, in un secondo momen-

to, non potrà fare a meno di accorgersi di essersi dovuto muovere in un sentiero breve e circoscritto, lungo un arco di durata stretto e condizionato dalle coordinate del testo, e di essere pervenuto alla sua con-

clusione sotto la guida di una macchina segnica tanto più esigente e volitiva quanto più sinteticamente espressa e concentrata. Il fatto è che, come l’opera di Cacciatore non vuol essere un’“opera aperta”, così la libertà della sua esegesi non è incondizionata; e tutt'intorno si ergono precisi argini con cui l’una e l’altra sono, di volta in volta, obbligate a confrontarsi e fare i conti. Da un lato, la delimitazione spaziale (che qui reca il segno della brevità e del frammento denso) trac-

cia un solco invalicabile che mette al riparo il campo della significazione dal rischio di veder ipotecata la propria fisionomia: la quale, semmai, esce non indebolita ma estesa e rafforzata dall’avvicendamen-

to delle diverse ipotesi. Dall’altro, alla brevità dello spazio si affianca, in appoggio, la costante tonalità perentoria ed epigrammatica che plasma la sigla finale dei singoli testi, conferendo spesso ad essi un timbro gnomico e sentenzioso. E così, per tornare al Pentasticon prima citato e per chiudere l'esempio, vale la pena notare che l’incipiente descrittività del distico conclusivo («Un sole contagia al traffico cittadino / Brulla nostalgia del caos dal profondo») si tramuta immediatamente nell’intellettualità pregnante di un’asserzione concisa che — attraverso

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la doppia metafora dell'equazione tra caos delle origini e civiltà urbana e della figura del sole come tramite naturale del loro legame nostalgico — getta luce sui versi precedenti e arriva a illuminare sia il referente storico-naturale dell’astrazione iniziale sia l’aggancio di contiguità metonimica con lo scorcio di paesaggio, proprio nel punto esatto in cui ne fa precipitare i rispettivi significati nella chiusa risoluta del-

l’ultimo verso. Per trarre, dunque, una conclusione provvisoria, diciamo che ogni componente dell’impalcatura formale e ogni relazione reciproca in essa operante obbediscono a quel movimento simultaneo di “apertura” e di “chiusura” che si segnalava fin dall’inizio come duplicazione e specificazione del più generale nesso contraddittorio di avvicinamento e di distacco tra letteratura e mondo. E tutte le caratteristiche che siamo venuti fin qui elencando nei Graduali — il suo respiro filosofico, la mobilità dialettica del suo impianto, il vigoroso sperimentalismo linguistico — lasciano trasparire uno spessore semantico-conoscitivo che si effonde in tutte le zone del libro e che, irrorandone l’humus vitale, ne

amalgama il tessuto per impulso coesivo e forza trainante. Ma, se è così, diviene opportuno chiedersi: qual è il motivo conduttore del libro? Quali i temi agglutinanti in cui si condensa, di passo in passo, il suo immaginario poetico? Dove risiede il contenuto specifico dello scarto

in cui ha luogo, rispetto all’/dentificazione, il suo incremento di rappresentazione e concezione del reale? 3) Cancellazione dell’“io” e coralità dei soggetti come cifra allegorica di una poetica dell’alterazione globale Come si diceva ad apertura, la filosofia di Cacciatore riposa su una premessa materialistica — e direi radicalmente materialistica — che consiste nella negazione di qualsiasi entità spiritualistica e trascendente e nell’affermazione dell’essenza caduca e proteiforme di ogni manifestazione della realtà, vista nel suo inarrestabile flusso di rivolgimenti e di metamorfosi. Ora le implicazioni teoriche del suo contenuto, nell’attimo in cui si traducono dal collettore della prosa a quello della poesia, si estendono giocoforza — e non solo in sede enunciativa ma nell’effettualità della prassi — anche alla sfera del segno verbale. Proprio per

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la preminenza che acquista la forma della parola nel trapasso dal piano della contiguità spazio-temporale a quello della similarità e della discontinuità, essa diviene il luogo in cui si rappresenta la mobilità trasformativa dello stesso linguaggio nel divenire istantaneo dell’esperienza e del pensiero. Non solo i referenti chiamati in causa dal segno, ma il segno in quanto tale è concepito ed espresso nella transitorietà dei momenti in cui si esplica e si riproduce il fenomeno globale dell'alterazione. Prendiamo a testimone un altro brano che ci funga da luce e da supporto. È il Il Heptasticon: «Quando mai il mondo esterno così ci parve Certo nel silenzio sonoro della luce Non avanzavi tu — la tua grazia di cigno Di festa in festa di agonìa in agonìa Che una volontà oltre l’amore conduce L’altra congiunge — la vera realtà che induce Gesto e gesto in un discorso a meraviglia».

Bene, questo «discorso a meraviglia», che trae origine da una concomitanza di gesti diversi e collettivi dinanzi all’immagine luminosa di un universo liberato di sovrastrutture e sentito nel pulsare della vita, altro non è che il continuo e necessario mutamento della parola (e della sua forma e dei suoi significati), che non può mai appagarsi di se stessa ma che è portata ad aderire e a schiudersi alle situazioni sempre nuove e agli enigmi sempre diversi dell’universo di cui si sente parte. E, poiché essa è contemporaneamente signans e signatum, il valore più autentico della sua connotazione non sta tanto nelle espressioni particolari e e fenomeniche della sua presenza, quanto piuttosto nelle relazioni sotterranee del suo “divenire altro da sé”, nella prefigurazione consapevole di un senso limitrofo che guarda e appetisce. In questo

risiede il primo tratto saliente dell’impostazione allegorica e antisimbolista della poesia cacciatoriana. Dell’allegoria, infatti, i Graduali ripropongono e sviluppano l’andamento diacronico e frammentario di un “racconto possibile” che vive e si dipana solo grazie all’esplorazione analitico-espressiva delle singole porzioni di realtà isolate e coperte dai suoi frammenti. Non vi si allude alla totalità inattingibile di un sim-

Graduali: genesi antilirica di una scrittura allegorica e sperimentale

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bolo aurorale e primigenio, né si trascende all’evocazione verticale di un’ipostasi assoluta, magicamente riposta e rivelata nella parola detta (secondo destino rituale dell’uso poetico del simbolo e delle sue riduzioni post e neo simboliste). Ma si registra, al contrario, un’inesauribile dialettica oppositiva tra termini “astratti” e “concreti”, a un dialogo tensivo in cui gli uni e gli altri, anziché pretendere di soverchiarsi a vicenda, si incontrano e si misurano per differenze e per contrasti. Le categorie “interiori e psicologiche” dell’amore, della gioia, della paura, dell’ansia e della follia; le nozioni “fisiche” della fame, del sesso, del corpo; i concetti “estetici” della bellezza, della grazia e della rassomiglianza; quelli “storici” dello sviluppo sociale, del costume, dell'economia, del succedersi delle generazioni; le verità “filosofiche”

del pensiero, della conoscenza e del senso e i motivi “metalinguistici” della parola e della lingua si accoppiano e collidono, di brano in brano, con un paesaggio plurimo e composito, non antropocentrico ma gerarchicamente appianato, che ora si identifica con il frangente attimale di presenze umane («Nei meriggi brevi una luce di rame / Sui visi umani sull’asfalto ha timbri arditi / Intensità di idoli di sopravvissuti / la gioia maligna nasconde e gli appetiti» Tetrasticha IV), ora si distende nel movimento inatteso di figure animali («Piumoso il silenzio ed ecco già l’urlo / Piomba giù sùbito e si architetta a loggia / A mente è il corpo in cui non sei più chiuso / Pensiero che si attarda in te e fuori affrettano / Ori obliqui dove voli appena poggiano», Pentasticha IV), ora si raccoglie e si ispessisce nella scagliosità materica di oggetti e parti anatomiche variamente disseminate (ove aggettano elementi che richiamano l’idea della divisione, come quelli del «muro» e della «facciata», o che fanno pensare alla parzialità e incompletezza degli esseri, come

quelli della «mano»,

del «viso» e del «collo»); ora, infine, si

estroverte nel dialogo diretto di comportamenti sociali e situazioni intersoggettive («La voce ferroviaria ammonisce dall’alto / “Più avanti signori! Troveranno posto!”! Che furia che impeto e che vecchia storia / La monotonia delle generazioni», Tetrasticha XIX). E la compenetrazione avviene non perché l’autore sia, in qualche modo, convinto della corrispondenza tra res e verba, ma precisamente per la ragione contraria: per la persuasione di un incolmabile scarto di alterità e di distanza tra le prime e le seconde, per la consapevolezza che, quan-

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tunque aggredito e attraversato, il vuoto della loro frattura è destinato a riaffaciarsi senza fine. E allora la scrittura del poeta accetta di destituire il verbo poetico della sua illusione consolatoria di stabilità e di sicurezza, lo preme, lo incalza da presso, lo scuote e lo rivolge nei suoi spostamenti e nelle sue alterazioni e finalmente giunge a piegarlo all’individuazione dei lati contraddittori, antinomici, oggettivamente irrisolti, della stessa esistenza. Si fa, insomma, poesia non solo di mu-

tamento ma di “ossimori”. E ossimorica si presenta la sua espressione tutte le volte che essa incorre in nuclei di ambivalenza, di contraddizione, di concordia discors, che non cancella e non dissimula ma lascia,

di colpo, affiorare dalla scorza protettiva del mondo fenomenico. E può rivolgersi al paesaggio esterno per cogliere la duplice anima delle

sue possibili configurazioni o per corroborare le facoltà sinestetiche della sua variabile percezione; e può addentrarsi nel teatro della cronaca e della storia per lacerare il velo delle apparenze e del senso comune e catturarne l’antitesi del sottostante valore; e può, di nuovo,

farsi portatrice della legge suprema da cui ogni ossimoro discende: l’equivalenza dell’uguale al diverso sotto il segno del divenire («Di causa in causa di occaso in occaso / Le medesime cose sono altre cose» Tetrasticha XX). E proprio dall’approfondimento consequenziale di questo atteggiamento di relativismo gnoseologico e demistificante, imperniato sul rinvenimento delle diversità e delle opposizioni del mondo

empirico e sulla concezione dinamica del loro stesso rapporto di convergenza e di urto con il farsi della coscienza e del linguaggio, scaturisce il secondo motivo essenziale dell’ideologia letteraria di Cacciatore e della sua complementare impostazione allegorica. Mi riferisco all'aperto “antisoggettivismo”, all’indefettibile cancellazione dell’“io”, alla creazione e diffusione di quella straordinaria coralità di voci, e di figure e di punti di vista che popola ovunque l’universo poetico dei suoi versi. Si noti bene: non vi è, esclusa una sola eccezione, compo-

nimento dei Graduali in cui l’autore parli in prima persona. La voce è perlopiù rimessa alla determinatezza lucida e impersonale della terza persona: è “voce assente”, priva di soggetto, perché voce del pensiero che sgorga dall’esperienza del molteplice e che a questo ritorna, che compendia in sé le individualità plurali dell’io, degli altri e delle cose, che si estrinseca oltre la sfera chiusa dell’intimità interiore e che si ir-

Graduali: genesi antilirica di una scrittura allegorica e sperimentale

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raggia e si disloca in tutti i punti in cui si consuma e si rinnova l’incontro tra chi la pronuncia e chi la riceve. È la voce che parla a sé per far luce sul modo in cui parlare agli altri: laddove, dichiarandosi compagna dello «sguardo», della «volontà» e della «vita», postula un’implicita identità tra bellezza e pensiero: «Il viso la voce la volontà la vita Irripetibilmente è quanto t’identifica Trepida minuziosa carne — la bellezza Non è ornamento astratto è ciò che unifica». (Tetrasticha XXXVI)

o, introducendo il discrimine tra vita e morte, tra il silenzio del nulla

e l’eloquio dell’essere e dell’esistere, si offre come funzione mobile di ricerca e di interrogazione di una verità che non ha mai fine: «Poiché la verità è incipienza continua Làsciati dar del pazzo tu resta all’inizio Sempre i cimiteri nella corsa del treno Annunziano la vicinanza della vita». (Tetrasticha XVII)

E, anche allorché, come nel componimento appena citato, la parola è momentaneamente riappropriata dall’“io scrivente”, che si rivolge ad un generico “tu” o, al contrario, è da lui ceduta a squarci improvvisi di esclamazioni implicite e di discorso diretto, la propagazione della sua risonanza si permea subito di un afflato interpersonale, teso non già a restringere e particolarizzare ma ad accrescere e fomentare la polifonia di un dialogo scambievole e paritetico. E specialmente significativo ci sembra il fatto che proprio nell’unico componimento in cui compare l’aborrito pronome “io”: «Bizzarri proprio loro i visi i luoghi soliti Eccomi qui è certo — e vado errando altrove Guastafeste la verità non dirla odi L’inaudito e godi in ogni addio un inizio Non è cenere sparso in un campo di rose». (Pentasticha VI)

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Filippo Bettini

la sua dimensione non solo si interseca e si alterna a quella degli altri (le persone plurali dei «visi», dei «luoghi soliti», e quella singolare della «verità» e della «cenere») e del “tu” interlocutorio (nel modo imperativo: «non dirla», «odi», «godi») — ancora una volta in un gioco collettivo delle parti e delle loro reciproche sostituzioni —, ma si manifesta persino nell’unica ed esclusiva versione del viaggio, dello spostamento erratico, dell’instabilità senza posa (dove il «vado errando altrove» significa anche uscita dal sito immobile e vincolante del proprio “io”), richiamando la necessità di un completo ma mai definitivo “darsi” — come dice l’ultimo dei Tetrasticha — all’«importanza di intendere quel sussurro». Ma quel che più conta rilevare è che tale plurivocità dell’universo concreto e figurato dei Graduali imprime ancor maggior energia all’i-

spirazione allegorica e antisimbolica della scrittura e giunge, infine, a risolversi interamente in essa. Proprio perché tesa a cancellare la supremazia tirannica del soggetto scrittorio e a far largo — senza alcuna illusione neonaturalistica di obiettività e di certezza — alle molteplici corde di un mondo che si altera, la poesia di Cacciatore è anche poesia “pubblica” e “corale”. Né più né meno di quanto lo è l’“allegoria”, correttamente intesa, che, al contrario del simbolo, trae vita esclusi-

vamente dalla pluralità dei frammenti consecutivi che ne compongono il mosaico e che — come vuole il suo etimo filologico (significare altro da ciò che si dice, ma in pubblico) — respinge la lusinga della ritorsione intima e privata e esige il diritto di esprimere in agorà un allon che sia veramente di altri, per altri, in altri luoghi. E pubblica è, appunto, la poesia dei Graduali, che batte in breccia — già all’altezza dei primi anni Cinquanta — ogni falsa dicotomia tra linea ermetica e linea civile, tra genere lirico e genere narrativo, nella misura in cui non riconosce né parzialità né univocità di generi, di temi e di linguaggio ed, essendo selettiva ed inclusiva insieme, mette in gioco tutto: dall’individualità di chi scrive al suo ricevente, dal paesaggio della natura all’evolversi della storia, dalla riflessione etica e speculativa alla stessa parola che poeticamente la rende. Poesia che, in rispondenza alla sua peculiarità di “ossimoro”,

è, insieme, complessa e semplice: di una “complessità”

che, per spessore problematico, e per penetranza investigativa, fa pensare all’epos filosofico dell'immenso Lucrezio (così rimosso, quasi

Graduali: genesi antilirica di una scrittura allegorica e sperimentale

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“straniero”, dai pur notevoli interessi di una poesia come quella degli allora contemporanei Montale, Saba, Ungaretti) e, al tempo stesso, di una “semplicità” disarmante che, nelle sue più distese e incantate espressioni, rivà alla grazia trasparente e cristallina del pur lontano Teocrito (chiamando, forse, in campo una sottile analogia con il nostro Penna, tuttavia troppo naif e lieve al confronto), ma anche - bisogna aggiungere di una “luminosità” e di uno “slancio”, che rievocano, in più di un caso, il tono smagliante, il nitore formale, la libertà

inventiva dei salti poetici di Pindaro. Una poesia, comunque, che, nella sua inconfondibile e spregiudicata modernità, parla dell’oggi e chiede di esser valorizzata e intesa, anche nelle opportunità materiali dell’hic et nunc — attraverso la pagina ma oltre la pagina —: non solo letta in privato ma pronunciata e discussa in pubblico: sempre pronta a diventare foné e produzione di senso e di pensiero in chi l’ascolta e la rivive. Poesia, infine, che, sul

terreno dell’appropriazione altrui a cui si dona, riesce a restituire al reale le ragioni di significazione e di impulso che da esso riceve, connettendo, così, il tema dell’alterazione, con cui esordiscono i Graduali,

a quello della restituzione, con cui principia, quasi in raccordo, il successivo e omonimo libro nella dedica che reca: «Vera / Che tutto sia senza senso anzi vuol dire / Le ombre che siamo chiedono consistenza / Potenza rampante o allucinazione / Chi parla di evadere anzi restiture».

IL CERCHIO NON SI CHIUDE: NOTE IN MARGINE AD UN FRAMMENTO DEI GRADUALI Marcello Carlino

«Non più dovrai dire come o mi sembra La palma e l’oggetto sono una cosa sola Il brivido che ti corre lungo le membra È il pensiero che il corpo alla mente già invola» così il terzo Tetrastichon dei Graduali, che del secondo rilancia, per ef-

fetto di volontaria rifrazione, la memoria di un’ «estasi» («A noi un’estasi all’àncora dei muri») e la densità semantica di un «trinitariamente» («Tra bellezza e potenza trinitariamente»). L’estasi “si altera”, qui, nel «brivido»; e, quanto al «trinitariamente», non sfuggirà di certo che l’avverbio individua, per la scrittura di Cacciatore, una regola compositiva, dovendosi precisare, tuttavia, che «la regola vige per farsi, dopo ogni arresto funzionale, sostituzione. E rifarsi poi, infine, restituzione» (non si ammettono, per contro, e sintomaticamente, «riparazioni»). E dunque, come al termine di un processo dialettico, che è “trini-

tario”, «La palma e l’oggetto sono una cosa sola» (enunciato che notifica la sintesi avvenuta e che si offre, nel mentre, da certificazione, e

da giustificazione, dell’enunciato del primo verso). Ma il processo è taciuto, intermesso, alterato: il «sono», proferito in un presente assolu-

to, e con la perentorietà asseverativa che distingue un dettato sapienziale (ne veniva dato annuncio dallo stile alto, e prescrittivo, e dal ritmo nettamente scandito, con quattro accenti forti, dell’endecasillabo iniziale), ha cancellato la temporalità di un “divengono”, di cui non re-

stano che le tracce disperse, impresse nell’incipit. «Non più dovrai dire come 0 mi sembra» scrive in controluce un “prima”, indefinito ma certamente durativo (per riverbero dalla locuzione avverbiale «non più»), che ha scontato la distanza (quasi di antitesi da tesi) dell’«oggetto» dalla «palma» (di un anonimo, collettivo soggetto conoscente), e cioè

Il cerchio non si chiude: note in margine ad un frammento dei Graduali

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le angustie e le tortuosità, che pongono in forse il raggiungimento della meta e ostacolano la possibilità di conseguirla del tutto, del percorso che porta dalla conoscenza (attraverso le astrazioni del linguaggio) ad una interazione piena con l’ “altro”, anzi ad una “ri-unione” per una identificazione intera con gli oggetti e gli altri soggetti dell’esperienza (dove identificazione intera, per Cacciatore, è dischiudimento delle clausole, mobilizzazione delle sussistenze, accensione di contatto per una ininterruzione di rapporti); e di essa distanza è misura il tentativo (una lunga sequenza di pur commendevoli tentativi) di accorciarla con i tiranti di proposizioni comparative («come»), di ridurla con lo strumento di assimilazioni analogiche per approssimazione («mi sembra»): insomma con conati di riconoscimento di parziali somiglianze tra differenze. Le differenze, d’un colpo, risultano colmate, abolite. L’identifica-

zione si chiama in quel «sono» (chiave di volta di un dodecasillabo — il respiro metrico sta intanto “gradualmente” crescendo — perfettamente bimembre, così che intona il suo isomorfismo alla sintesi noti-

ficata con nitida pronuncia), relegando ogni distinzione in un al di qua ormai inoperante, e da dimenticare; e, dismettendo la necessità della

similitudine, impugnando l’efficacia di relata analogici, mentre si presenta in forma ostensivo-definitoria, l’identificazione sancisce in uno

stile sentenzioso (contiguo a quello ingiuntivo) l’inattualità e l’insufficienza del dire. Del dire rispetto al fare, se appunto, in contrasto con il «Non più dovrai dire», ovvero con i verba, è la «cosa», la res, che te-

saurizza l’unità in atto, materializza la “ri-unione” («sono una cosa sola» è calco classico, è traduzione di unum sunt; ma la «cosa» è materia

informe, è creta la più manipolabile per il modellato multiforme e mai finito dell’alterazione, è impasto materiale senza clausole private di appartenenza; e la «cosa», qui, per ciò stesso, non è da ritenersi immune da implicazioni con la prassi: la filosofia di Cacciatore, del resto, ne rende continua testimonianza, riservandole uno spazio di chiaro ri-

lievo). L’identificazione si realizza, e si presenta, interamente nel fare, che

emancipa allora dall’obbligo di dire per analogie e similitudini, elementi sui quali riposa “istituzionalmente” il linguaggio (in specie il lin-

Marcello Carlino

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guaggio letterario) e che segnano la distanza dalle cose e tra le cose, per quanto s’industrino a, o illudano di, colmarla.

Se il dire «come 0 mi sembra» non contraddice il cercare in altro “la tua direzione e il tuo senso”, e può voler significare un andare verso il “rimpatrio”, nell'avventura sapienziale tracciata dal discorso del testo è solo il fare, al di là della lingua, dentro la concreta esperienza del vivere, che consegue l’obiettivo, che attinge la «cosa» di una identificazione intera (smascherando, nel mentre, i limiti e le lacune del lin-

guaggio, lo scarto differenziale tra res e verba). E il fare è toccare con mano; coincide col con-tatto (fisico, materiale: il contatto per antonomasia, quello della «palma» con l’ «oggetto») e innesca e sprigiona «Il brivido che ti corre lungo le membra» (un brivido di immedesimazione, materia pelle a pelle con materia; un brivido “erotico” di conjunctio). L’impulso materiale originatosi da quel «corre», un impulso sensoriale, rimette in circolo la categoria della temporalità e, per essa, il principio, l'enzima dell’alterazione, sicché il «brivido» è il «pensiero» (per la comune matrice materiale: nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu) e, insieme, diviene «pensiero» (e il quod prius, infatti, è tale che ristabilisce il corso del tempo, indicando l’evenienza di un’alterazione). Ma il divenirlo sulla linea dal concreto e dal puntuale all’astratto e al generale (un cammino reso necessario dalla volontà di estendere l’identificazione intera oltre la particolarità e la singolarità dell'esperienza), mentre concede, in forza trinitaria di sintesi, un or-

ganico assemblaggio delle parti, o membra disjecta, nel «corpo» (tra «membra» e «corpo» c’è sinonimia per sineddoche, ma si dà anche “gradazione”, e climax, di omogeneità e di compiutezza: e dunque «brivido» sta a «membra», come il «pensiero» sta al «corpo»), costa pure una perdita e domanda in cambio un furto. Ad essere rubato con destrezza e rapidità (nel quarto verso — cresciuto intanto di una unità sillabica rispetto al tridecasillabo del verso precedente e, a differenza di quello, che non ne conta nemmeno una,

provvisto dello scivolo scorre e rinforza su un i giochi, nel prismatico appena ricomposto in

di una sequela di sinalefi —, l’impulso dinamico battente ritmo dattilico; e culmina , riaprendo polisenso di «invola») è proprio quel «corpo» unità. Fatto proprio dal «pensiero», che se ne

Il cerchio non si chiude: note in margine ad un frammento dei Graduali

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impadronisce e lo intrattiene in una sorta di scambio metabolico, pensandolo come fonte e materia prima e fuoco del pensare, affrancato dall’ipoteca giugulatoria delle facoltà ordinatrici e razionali che la convenzione attribuisce alla «mente» (finché il «pensiero» si risolve in un’estasi del «corpo» e con essa coincide); oppure (il verso finale è di ardua interpretazione, tanto vi si intasano i significati e tanta è la complessità concettuale dei lessemi adoperati, secondo richiede una poesia di inquieta tensione noetica) rimosso e cancellato dalla «mente», di guisa che il «pensiero» pensa se stesso, è «pensiero» puro e tracima in estasi del «pensiero», comunque il «corpo» sopporta un taglio, un’espulsione: è sottratto «alla mente», e dalla mente si dissocia, quasi parte che è staccata da altra parte e fuoriesce dal tutto di una identificazione intera, così come, in sincrono, il «pensiero» è “dis-tratto” dalla

«mente», appare altra cosa dalla «mente» (existànai, donde ékstasis e poi estasi — qui del «corpo» o del «pensiero» — si suole tradurre con “star fuori dalla mente”). E il taglio recide il contatto (il fare intanto è stato “sostituito” dall’avventura dei sensi e dell’intelletto che si inizia da «Il brivido che ti corre lungo le membra», un brivido che è annuncio di un’estasi che si dà nella sua gamma di implicazioni intensivo-estensive) altera, divide e frammenta, pour cause, la «cosa sola».

Il «pensiero», causa agente del taglio, slarga la differenza di «corpo» e «mente». E autorizza a tornare, di differenza in differenza, cru-

delmente, dal fare al «dire» (è “restituito” come linguaggio): al “prima” di ogni identificazione (della «palma» e dell’«oggetto» come tutt'uno). Il terzo Tetrastichon piega circolarmente la sua linea di strutturazione semantica (è un’altra regola compositiva dei Graduali), non così, però, che il cerchio si chiuda. Si “restituisce” il «dire», ma intanto, al

fuoco dell’incipit, è bruciato irrimediabilmente (e non si ammettono “riparazioni”) un uso corrivo, medicamentoso,

mistificante (liaisons

analogiche per immediatezza, et similia), come se il «dire» avesse in sé il talento taumaturgico e recasse il dono di unificare e identificare il molteplice (le stesse illusorie proprietà del simbolo) e di riparare i guasti delle differenze e delle contraddizioni, come se il «dire» sovrastasse il fare e potesse esautorarlo candidandosi ad “illimitata” esperienza. E prima, riconosciuto l’“arresto funzionale” e il limite del «di-

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Marcello Carlino

re», si è dato «corpo» al fare, ma il movimento intensivo-estensivo della conoscenza ha riaperto la “clausola di sussistenza”, ha dilacerato la «cosa sola», ha riattivato l’“ininterruzione dell’alterazione” fino a re-

stituire il «dire», epperò sollecitandogli forme altre dal «come o mi sembra». Che queste forme non possano che modellarsi sulla “enormità discorsiva”, o sulla “filologia inaudita” di una “continuità metamorfica”,

non è materia di cui tratta il terzo Tetrastichon; qui piuttosto, nel tragitto “efferato” dal «dire» al fare e ritorno, si danno in atto i prolegomeni della poetica di Cacciatore e si scorgono le prime, importanti mosse di una poesia segnata in profondità dall’alterazione.

IL DISCORSO DI CONTINUITÀ METAMORFICA DELLA RESTITUZIONE Marcello Carlino

Se mai un testo è d’obbligo che stia a fronte della Restituzione, dacché lo implica in un rapporto di attiva e coinvolta necessità e può collaborare a dichiararne tensioni progettuali e urgenze e slanci conoscitivi, cahier di un itinerario di formazione e regesto di una poetica esplicita che attende di mettersi in opera e di inverarsi, questo è, sempre di Cacciatore, L’identificazione intera, di cui si può dire, con un gioco di parole nient’affatto esornativo, che giunge “a restituzione” nel libro uscito per i tipi di Vallecchi nel 1955. Il paesaggio rappresentato nell’arduo ma illuminante baedeker intellettuale inscrive quattro linee d’orizzonte, che si svolgono l'una dal-

l’altra e l’una dall’altra ricevono impulso e definizione, rinforzo e spessore, risultandone, a visione ultimata, un ricchissimo e inesauribile in-

treccio che movimenta e prolunga, e articola in una complessa dinamica di interazione delle parti, l’intero paesaggio: la prima consiste nella “declinazione” del simbolo, la seconda nel principio di «alterazione», la terza nella logica e nella prassi della «ininterruzione», la

quarta appunto nella «restituzione». Il termine “declinazione”, che pure non è in uso nella /Identificazione intera, appare forse il più idoneo ad indicare un insieme di funzioni calcolate dalla teoresi di Cacciatore per essere fatte valere nella scrittura letteraria e segnatamente in quella poetica: i simboli declinano (tanto porta a concludere il viaggio dell’esperienza e della conoscenza, che prepara e accompagna il viaggio testuale), nel senso che è stolido e improvvido luogo comune pensarli eterni, immuni dal lavorio del tempo, dalla rovina e dalla mutazione. E se anche una analisi attenta e serrata, mossa da una volontà di vaglio e di specificazione («Sommuovevo il caleidoscopio e lucidamente traguardavo»), si mostra capace di distinguere il grano dal loglio, il durevole dal caduco, ciò che è in predicato di autenticità vera e acutamente captante da ciò che è

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| spoglia inerte e sterile simulacro («Alcune immagini, ritenute onorevoli ed esemplari, a quel rigore iperboreo perdevano sostegno, immiserivano. E Verano essenze, invece, o tracce di contemplazione, con-

fuse e inosservate tra l’ovvia moltitudine, o sepolte senza rimpianto e memoria alcuna, che ora d’improvviso s’isolavano nello sguardo e quasi impaurivano: spiegandosi preziosi simboli. Ora potevo comprendere ciò ch’era giunto a perenne vita, e ciò ch’era soltanto simulacro di avida elocuzione»), la distinzione tuttavia non ha per metro di misura la pienezza naturale e la compostezza formale del “tradotto” in sequenza di immagini («Ma altre traduzioni simboliche conobbi — non frequenti, discontinue — che, sebbene efficaci all’estremo della loro forma evidentemente intesa ad un definitivo snaturamento, non attiravano

però l’attenzione per rinserrarla, non l’illudevano e annullavano nell’intrigo cattivante di caduche o scadute esperienze, sivvero l’affascinavano ma per inalzare e trasportare, in una serie di sospensioni vivide e tuttavia assolte, il complesso della mente»), e nemmeno, a maggior ragione, motivo di damnatio, l’“artificialità” della provenienza e della fabbricazione («E mi accorsi, però, che queste suggestioni, questi simboli d’artifizio, pur sotto un aspetto consentito o allusivo, indipendentemente si sollevavano e dischiudevano a libertà, al di sopra del nesso strettamente storico che sempre è per rimanere al soldo della vita»), o infine, da auspicare e benedire, il credersi in salvo dall’onda rapinosa e dissolutoria della trasformazione, e l’ostinato rifiutarsi all’essere per

morire, della totalità autoistante — e armoniosamente organica — della edificazione simbolica («Se anche, per voglia di sperimentazione, non ricusarono di entrare nelle condizioni apparenti di sopruso, di dissoluzione, e di violenza, fu per provare precisamente la discontinua e distante esaltazione di tutti i partecipanti dell’esperienza mondana, nel

loro segreto anzi più animosi di disperata armonia; e per ritrovare di volta in volta, e nell’insieme, la stessa aspirazione a rompere l’inganno del falso cerchio naturale, il cui orlo non è poi duro come l’accettazione di ogni gesto. Unicamente queste perfette fatture; questi simboli, non desunti grezzamente

dalla discordia in natura, ma

tuttavia

obiettivamente costruiti ad intenzione per identificarvi tutta la propria esperienza impossessata di spirito conoscitivo; solo questi simboli mi parvero ricchi di penetranti suggestioni, e degni appunto di essere

Il discorso di continuità metamorfica della Restituzione

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considerati in sè e studiati fuori di sè, ed imitati operativamente»). È invece la carica di «spirito conoscitivo» che vi è depositata (e l’impulso che imprimono e trasmettono al dispiegarsi della «conoscenza in piena forza») il fattore decisivo. I simboli, quali la tradizione ci consegna e l’esperienza li rinviene, sono strutture di interpretazione della realtà e non possono non andare incontro ad un «desiderio irresistibile di nuove interpretazioni», che bussa alla loro porta, li «percuote» e che è tale da eccedere smisuratamente (al punto da diromperle) la solidità, l’immobilità e la durata eternamente sottratta alla dialettica della storia e della conoscenza, che la convenzione estetica e letteraria attri-

buisce ad essi come caratteri di identificazione. Il simbolo perciò “si declina”, ovvero si flette come nel discorso una parola — sostantivo, aggettivo o pronome — secondo il numero, il genere e il caso: ne consegue che in effetti è commutato in segno («Io ero ricercatore di simboli

— cioè di segni semplicemente scavati dallo spirito») e che diviene (per un qualcosa che è infinitamente in fieri) «adempimento» volto all’«Inaudito» (che è quanto l’arte deve scovare e mostrare e che «non se ne sta solo intensivamente in se stesso — com'è dei simboli — ma si estende a poco a poco, fuoresce, invade tutto il resto, tutte le altre cose: tutto il sensibile e l’intelligibile — il comprensibile»): in definitiva, in una di quelle affermazioni che hanno valore di bilancio e di programmazione, «Vidi che, in realtà, non si trattava dunque ormai di simboli: piuttosto, di adempimenti non pure intensivi ma altresì estensivi di un conoscere operativo che dei sensi mantiene il suggerimento morfologico solo al fine di farne una continuità metamorfica». La diatesi del simbolo, e le due accezioni del “declinare” che lo ri-

guardano, hanno origine, giustificazione e sostegno nella «alterazione», che è in primo luogo legge costitutiva e intrinseca, oggettiva sostanza della realtà: «Sapevo poi il fascino interno alla realtà, la sua attrazione e il suo grave pericolo, vale a dire, il suo alterarsi inevitabile». Una siffatta «verità elementarissima», però, è più della semplice registrazione di un divenire, di noi e delle cose, che ci trascina e ci espro-

pria con la sua corrente vorticosa e irresistibile. Cercare un'isola dove

consistere, azionando sistemi d’arresto, è quanto l’uomo ha fatto e fa

mentre naviga nel fiume del panta rei. Trovare appiglio e sistemazione nelle «clausole di rapporti», come in un «alcunché sempremai distinto

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e spiccato, largamente circondato da calma e occasionalmente investito di agitazione», riposarsi sulle «sussistenze ingenue» delle «clausole di rapporti» riducendo l’estensione, comprimendo e infine consegnando alla monotonia e alla coazione a ripetere il genitivo del sintagma, è prassi consueta che la psicologia e la storia umane hanno sistematicamente reiterato: «E l’uomo, dunque, nella sua propria clausola, si sente incluso e perciò accettato, introdotto, messo a posto realmente, inserito in un testo, se non intelligibilmente connesso in tutte le sue sezioni, almeno affermato e confermato». È prassi, nondimeno, che

non può spengere del tutto il «delirio», e cioè il desiderio di «riunirsi, oltrepassando il fascino e gli avvertimenti di quella insopprimibile monotonia, alle innovazioni, all'accoglimento apparentemente disperato e dissociato di tutti i possibili rapporti, che si ravvisano e compongono tutti nella gratuità rigorosamente perfetta di quel rapporto esemplare e liberatore»; né le eventuali elaborazioni surrogatorie («E accade allora che egli cerchi questo “delirio”, oscuramente, nelle stesse entità inerenti, nelle suggestioni più immediatamente realistiche: si tratti d’iconismo religioso e simili, o di feticismo sessuale») bastano alla sete di libertà e al bisogno di una «individuazione propria» («Ma tutto questo, poi, si dimostra solo evasione precaria: modi immediati e illusori per distrarsi momentaneamente dalla individuazione propria, e sentirsi libero — in una libertà subito deficiente. Argani di carico ed eliche di movimento che girino a vuoto»). È una prassi, per giunta, che, per chiamarsi fuori dalla dinamica di una pluralità di rapporti in divenire, rischia di convalidare, in una con i rapporti dati e la loro logica sociale, la realtà quale è, anche se «non tutta la realtà è agli uomini ugualmente accettevole», ovvero rischia di accettare che la realtà, in una sorta

di circolarità eternamente ritornante, divenga quel che è (un rischio uguale, a partire da presupposti contrari, a quello largamente presente nelle filosofie — e si pensi a Bergson —- e nelle ideologie che assecondano passivamente e assolutizzano il divenire). L’inevitabile «alterazione», dunque, ha da essere, ed è giusto che sia, essendo al contempo “realistica” sostanza della realtà, modo di una conoscenza operativa “non realistica”, attivo strumento di pensiero e di azione per modificare (non per riparare) la realtà, per intervenire radicalmente sui suoi aspetti meno «accettevoli» o tutt’affatto inaccettevoli: «E perciò è ne-

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cessaria all'uomo la libertà, cioè la possibilità di mutamento. E perciò, prima di tutto, è necessario mettere a disposizione di tutti gli uomini, senza distinzioni, una pluralità di conclusioni reali perchè essi possano effettivamente, e favorevolmente secondo la loro diversa impronta, introdursi e aggiungersi e congiungersi e ricongiungersi sempre a quel necessario mutamento, muovendosi sempre d’una volta in altra». Interna alla realtà e ai suoi processi e ad essa esterna, e di essa straniamento, dentro e fuori come ciò che non si lascia imprigionare nelle gabbie di un meccanicismo cieco, subìto e riflesso, ma intende incidere

sul divenire e dargli indirizzo, l’alterazione profilata da Cacciatore è una e bina. Di un motto dell’/dentificazione intera, «Ad oltranza, tutto

è in preda all’alterazione», è l’espressione modale la chiave di volta e l’indice di una tensione utopica. Attraverso di essa si sottolinea la tenace, debordante volontà di alterazione: di aprire la «clausola» (dell’io, delle cose) ad una rete diffusa di rapporti, di uscire dal «riserbo» (che è forma passiva e inconcludente di rapporto), di «trattar d’altro» per porgerlo ad una realtà, una realtà altra dalla realtà in cui siamo rinchiusi, di identificazione intera. Che questa volontà si trasponga in una volontà di «ininterruzione», così da rendere infinitamente pervie e modificabili le clausole dei rapporti di cui siamo contraenti (così da rimettere in moto le «sussistenze ingenue» sulle quali ci accade di riposare), e che nella specificità della letteratura si debba, per ottemperare ad un disegno di «ininterruzione», dar corso a un’altra «filologia»,

è necessaria sequenza di connessioni solidali e interdipendenti. Ed ecco, pronte a riversarsi nel testo poetico, l’«enormità discorsiva», lo

«slancio dattilico», l’«intensione di tutte le tensività participiali» delegata al participio futuro: «l’Enormità discorsiva... alfine erompe dal riserbo interno per dare libertà allo slancio dattilico, per estrarsi a meraviglia dall’interruzione continua, per dare àmbito alla volontà di segni e disserrarla dalla sua angina» (più avanti: «E allora mi venne in mente, e compresi, che il mondo operativo veramente umano non può aver giustizia che da quella filologia dell’Enormità discorsiva, la quale si vale ad arte dell’inevitabile Participio futuro per liberare l’uomo narrativamente ed esplicitamente dal suo carcere fantastico e nominativo: carcere in cui la tensività che gli è propria, e che potenzialmente egli si ritrova sempre in “riserbo”, viene sviata in avidità di successo»).

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Infine, «l’interruzione» («la sua frammentazione e segmentazione in natura, e in società la sua cristallizzazione»), se è «la peculiarità dell’uomo», ed è il senso prevalente della sua storia e della sua risposta

all’alterarsi della realtà (affinché sia fatta divenire quel che è), è pure un «male per cui egli ha bisogno di cura pubblicamente, cioè di cultura». E la cultura non potrà essere «allucinazione angelica — congettura immobile ed appagata, astratta noncuranza che si adempie in formalità identica e senza forze di variazioni effettive»: dovrà essere riscatto delle cose dalla «interruzione loro», alterazione e restituzione

della «realtà di cose» come «ininterruzione di rapporti che dovunque segnalano le probabilità di una inarrestabile riuscita». Restituzione, e cioè ripulsa della «cristallofillia», rottura delle «anguste strutture sedimentarie», ritrovamento e «scarceramento» di quanto è stato «segregato» e impedito e sottratto al movimento intensivo ed estensivo dell’alterazione (così il passato quando è ritenuto esperienza defunta e non più “riconducibile”, non più occasione e luogo di incipienza), «varco per riunirsi alle innovazioni»: poiché «l’alterazione non si muove a senso unico, rigidamente in linea retta da un fumoso passato ad un futuro generico, ma va in tutti i sensi del campo comprensivo» e poiché, insomma, «artista realmente vero è colui che nel noto — nel-

l’arcinoto e nell’ovvio — sa farti scorgere il nuovo e udire l’inaudito», sa farti leggere l’alterazione come possibilità di libertà e spazio (per un «rimpatrio») di identificazione intera. Ora, riversandosi nel racconto in versi di Cacciatore al quale conferisce il titolo, la restituzione non si alloga solo in una stanza, vasta e

centrale ma comunque perimetrata e monofunzionale, di contenuto; non è unicamente teorema “filosofico”, per quanto articolato e impegnativo, che viene enunciato e che si dà, nei modi propri e specifici della poesia, alla dimostrazione: è anche e soprattutto il luogo da cui si parla, e quindi l’origine, l’impronta e la logica del discorso. La struttura del libro e la sua ratio compositiva sono gli effetti di una restituzione. E restituita, in tutti i suoi capitoli, per giunta designati in lingua latina, la forma della argomentazione come è definita e sistemata dalla retorica scolastica tradizionale: e se, per un’operazione siffatta, è stata richiamata la lezione di Quintiliano, piuttosto ad

Aristotele, e cioè al fondatore, sembra conveniente risalire. Per altro

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nella complessione intera della Restituzione si ravvisano con facilità elementi e caratteri dei tre generi aristotelici del discorso di parte: il genus iudiciale, il genus deliberativum, il genus demonstrativum. Più che sostare, per ratificare l’insieme, sulle partiture di una strut-

turazione così eseguita, è utile indicarne subito il senso e il valore. Cacciatore riporta alla luce una modalità di gestione del testo che risultava (e risulta tuttora) bandita dai territori di dominio del letterario e dell’estetico, e più che mai da quelli della poesia, per senso comune ristretta al mansionario di liriche intuizioni ed effusioni, e convenzio-

nalmente ritenuta refrattaria, anzi alternativa a qualunque disposizione argomentativa, intenzionale e pure preterintenzionale (e qui invece l’intenzionalità c’è tutta, se i titoli delle parti parlano letteralmente — e metaforicamente — latino, ed è riesumata la trattatistica classica del-

l’argomentazione, riattivandosi la sua prima autorevolissima fonte: se la retorica, un vero diavolo per l’acqua santa del linguaggio poetico della tradizione recente, vi è insomma riabilitata perfino con provocatoria ostentazione). Ma riammettere una tale pratica discorsiva, condannata ad un ostracismo secolare, significa per intanto occupare e marcare con segni inconfondibili l’area di una poesia di pensiero, e di «conoscenza operativa», in quel torno di tempo (e anche in questi nostri anni) pressoché deserta: un’area però, e insieme un «varco per riunirsi alle innovazioni», dove la poesia non millanta virtù inusitate e talentuosamente epifaniche e non si riserva, perciò, corsie preferenziali per il pensiero, eleggendosi in ultimo a dimora di un equivoco e fu-

moso (tanto vuoto, quanto tronfio e spocchioso) pensiero poetante: un’area invece dove il lessico e soprattutto la sintassi del discorso filosofico entrano in rapporto con le forme e le figure della poesia (non a caso è conservata, anzi restituita ad una agonistica funzione costruttiva, la rima, uno degli elementi tradizionalmente più peculiari e distintivi del linguaggio poetico: e anche da ciò si potrebbe ricavare notizia del dantismo di Cacciatore), e il rapporto è fatto di dialogo, e di confronto, e pure di contenzioso. Che è poi, il contenzioso, un denominatore comune dei genera iudiciale, deliberativum e demonstrativum del discorso di parte, essendovi implicata una controversia e, a fini di

persuasione o di illustrazione epidittica, occorrendovi discutere e confutare la tesi di parte avversa: la Refutatio, capitolo penultimo della Re-

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stituzione, riveste, per tanto, una funzione basilare: e, mentre presenta

le cose, o clausole, che permangono rinserrate in un rapporto inerte e «monotono», profila lo scenario seguente al loro aprirsi e sciamare, prestando voce a quelle e a questo (e la voce è doppia, scandita ogni volta dal tondo e dal corsivo, che tuttavia con insistenza si scambiano

i ruoli) e inscrivendo il contenzioso dentro il testo, nella dinamica di un procedere analitico e di un fermo di immagine serratamente e stridentemente in concorso, prima che la ripulsa di quanto fa divieto ad una identificazione intera chiami a giudice, esortandolo a schierarsi a favore (e, di più, ad abbracciare senz’altro la causa), un tu anonimo e collettivo. Per il che, nel conformarsi a un discorso di parte, la poesia si dichiara appunto di parte, non parte per il tutto ma parte in relazione e in contraddittorio con altre parti; e sceglie la sua posizione e la argomenta e la difende, ritenendo così insufficiente il solo mostrare, e cioè la forza ostensiva che le viene convenzionalmente attribuita. E per il che, nella istruttoria dibattimentale in cui si vuole coinvolta, non

soltanto la poesia abiura la fede nella lirica, ma l’io e il tu non hanno tessere private di riconoscimento (che servano da lasciapassare per universali umani), esercitando piuttosto funzioni pubbliche in un processo che ha le cose e i concetti al suo centro. Quel «conduciti e riconduciti» che Cacciatore pronunciava nella Identificazione intera vale in definitiva da esortazione per la stessa struttura discorsiva restituita nella Restituzione, che la accoglie e la mette in pratica intensivamente; e di fatto essa costituisce un terreno di impianto di una notevole serie di rapporti e di innesti concrescenti:

la poesia si fa racconto (Narratio è il titolo di un capitolo del libro), epperò, vista la materia filosofica di cui si nutre e la logica argomentativa che lo sorregge, racconto di un’esperienza conoscitiva nel suo prodursi e nel suo protendersi (e la conoscenza in Cacciatore è sempre pensata in strettissimo legame con la prassi), non racconto del mito come dentro la poesia-racconto ufficialmente consacrata nella letteratura italiana del Novecento (e ciò sebbene Pavese non possa dirsi del tutto assente dallo sfondo della Restituzione). E si apre nel mentre, per l’alto gradiente di oralità rintracciabile nella forma del discorso argomentativo e suasorio, alla drammatizzazione teatrale (è possibile ascoltare dalle pagine del testo recitativi, oratori; nella Refutatio sem-

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bra levarsi di quando in quando la voce del coro). E conosce le modulazioni dello gnomico, del didascalico, del parenetico ponendosi, con la sua complessa allure poematica, nel vivo di un incrocio fitto di generi letterari, per lo più dismessi e da restituire. E vero che il Prooemium e l’Epilogus hanno l’apparenza di una cornice che chiude esigilla il discorso; ma è tanta l’oltranza di questa restituzione di struttura, e tanta la sua enormità se commisurata al gusto letterario degli anni Cinquanta in Italia, arbitrato dall’ermetismo e dal neorealismo (mentre, proprio in contemporanea all’uscita della Restituzione, lo sperimentalismo officinesco debutta con i suoi esercizi teorici e pratici, prevalentemente nel segno della moderazione e della temperanza; una eventuale sintonia con l’esperienza di Cacciatore andrebbe cercata, quando si ritenesse di farlo, in un comune riferimento

all’area della poesia vociana, che nel libro vallecchiano del 1955 si esprime, ben più radicalmente, in una restituzione, volontaria o meno, della poesia filosofica, tesa e inquieta, di Rebora; e avrebbe di sicuro un buon esito cercarvi affinità con clausole e stilemi, metri e ritmi dei

Frammenti lirici); è tanta, si diceva, quella enormità, da rompere gli argini, da rendersi «enormità discorsiva». Il profilo e l’assetto chiusi del discorso della Restituzione funzionano in realtà come motori a compressione (così anche la rima battente) che producono energia per una costante fuoruscita e la liberano per una ostinata «ininterruzione». La terza parte del testo, Excessus, reca nel suo nome una chiara indicazione di lavoro scrittorio: l’oltrepassamento, l'eccedenza, la dismisura

valgono al di là del momento funzionale dell’apparato del testo specificamente individuato (ciò che segue alla Narratio e ne dilata la materia in una sorta di divagazione, prima di raccogliersi e di prestare altri indizi alla Probatio, che è situata al centro dell’argomentazione): e l’«ininterruzione» movimenta l’intero discorso, favorendo traduzioni

di materiali da una sezione all’altra e violandone sistematicamente i confini (la restituzione qui forza e apre i generi aristotelici del discorso di parte, li mette in tensione e li fa altri da quelli che sono stati: ne altera violentemente la forma e ne disturba parossisticamente, con una sequela di spinte e di controspinte, di fessurazioni e di riavvolgimenti, di diastoli e di sistoli — e di ritorni — l'ordine lineare), ma anche dichiarandosi indisponibile a finire e, insomma, non esaurita (anzi for-

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te di un riserva ulteriore di vitalità che attende ancora di impiegarsi) al termine del viaggio testuale. «Ininterruzione» insomma, quella della Restituzione, come discorso

di «continuità metamorfica», come incontro (non rimozione) delle interruzioni (nei fenomeni esperiti e nelle procedure argomentative) e loro ripetuta riapertura ad un ventaglio di rapporti: né orazio soluta, a paragone della quale esibisce un tasso di gran lunga più alto di com-

plicazione a fini di conoscenza, né davvero incline ad appianare le interruzioni riassorbendole e sublimandole in un parallelismo fonico che è ininterruzione, al dunque falsa e mendace, nella stasi e nel sempreuguale (Cacciatore è alieno del tutto dall’illusione di una miracolosa totalizzazione armonica, o conciliazione dei contrari, che l’opinio com-

munis rivendica alla poesia; ed anzi lavora per sfatarla dacché è anch’essa, sotto mentite spoglie, una «interruzione», una clausola di rapporto a bassissimo indice di vitalità pratico-conoscitiva; e, essendo ri-

cusato per intero, già nella premessa gnoseologica, il principio di equivalenza, non può valere per la sua opera la semplice tecnica di uno spostamento del principio di equivalenza dall’asse della selezione a quello della combinazione), né confondibile (a meno di ingiustificate generalizzazioni) con il flusso ininterrotto voluto per la scrittura dal surrealismo (poiché in Cacciatore il soggetto è dato per proiettarsi al di fuori, per estrovertersi nelle relazioni, non per introflettersi e per essere parlato dall’altro che è in lui, e che ne custodirebbe unica e intera la verità; e non rinuncia all’esercizio della conoscenza e della dialettica e della differenza, e non depone gli strumenti intensivo-esten-

sivi della ragione: poiché l’utopia non è riassorbita e stemperata e assimilata nel presente della scrittura automatica — così che il cerchio si chiude in una assolutizzazione della parola — ma è coniugata al futuro dal voler dire della perifrastica attiva e dalla incipienza inesausta del discorso della poesia, che vi esprime siffattamente la sua “sediziosità” utopica e pure la sua parzialità e il suo relativismo, e dunque l’essere “In funzione”, non l’essere la stessa cosa dell’utopia, di cui rilancia in

tal modo la promessa e l’impegno di eccedere la clausola della verbalità), la «continuità metamorfica» del discorso di Cacciatore comporta una sollecitazione robustamente sistematica e una vitalizzazione del linguaggio, che viene scosso, costrutto dopo costrutto, dalla sua quiete

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conoscitiva e stanato dal domicilio conosciuto delle forme nel quale ha trovato riparo e riposo. Le gibbosità plurilinguistiche, che fanno accidentato il territorio del testo, ne sono un primo epifenomeno: il gergo filosofico e quello della retorica della argomentazione, che reca con sé reperti di antichistica, accostano smodati il linguaggio dell’esperienza comune, che è di già aperto ai tecnicismi, al vocabolario della scienza,

alle parole delle lingue straniere o locali, e che si accende al fuoco della metafora, sul quale soffiano insieme arcaismi, lemmi rari o di mar-

chio letterario (per lo più scelto tra i non particolarmente accetti alla tradizione), e pure l’idioletto di neologismi, di deverbali e di denominali appositamente forgiati. Un secondo epifenomeno, forse il più rilevante, consiste in una pronunciata “inquietudine” sintattica: la sintassi costantemente sconvolge l’ordine lineare della enunciazione (quello consueto, di norma, da manuale dell’arte dello scrivere) cam-

biando di posto i fattori, lasciandone alcuni bilicanti nella frase (e dunque disponibili ad una pluralità di legami funzionali e di rapporti semantici), inseguendo, ma per registrarsi e regolarsi sulla loro base, ben al di là di ogni divertissement, gli impulsi costruttivi del suono (e, per esempio, battendo versi ciascuno composto da parole con la stessa iniziale, così da ingenerare relazioni di senso forzate e «inaudite»; in questo medesimo quadro progettuale stanno le ricorrenze anaforiche e omofoniche, mentre sono occasioni di dislocamento, di variazione e di

interferenza delle funzioni nella sintagmatica del testo, le frequenti strutture chiastiche, chiamate al compito di rilanciare il movimento della scrittura lungo ulteriori, anche contrastanti, direzioni del «campo comprensivo»). Produce tangibili effetti di anamorfosi il dismorfismo sintattico della Restituzione; tendendosi, inarcandosi, prolungandosi e svariando, rinforzata dal ritmo che contemporaneamente impronta e innerva, presa nel vortice indotto dall’incontro di correnti giambico-anapestiche (il dire gnomico e parenetico) e di correnti di «slancio dattilico» (la fuoruscita dalle clausole e la rideterminazione delle intepretazioni, l’apertura all’altro), la sintassi definisce immagini e figure e vi inscrive, visibili da altri scorci, e presto messe a fuoco dalla variazione di prospettiva, una catena di immagini aggiunte. E così ininterrottamente: la «continuità metamorfica» della Restituzione, ha, per questo, somi-

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glianze con il barocco; epperò, per riferire del barocco di Cacciatore, serve l’architettura, quella severamente tesa e costruttivamente inquieta, carica di rigoroso fervore gnoseologico, di Borromini. La «continuità metamorfica», o ininterruzione della discontinuità, è il farsi atto letterario dell’alterazione. Che è dunque, come si è visto,

il procedere ad oltranza dell’enormità discorsiva della scrittura: di una scrittura la quale, proprio perché cosiffatta e spesa in “eccesso”, e non solo perché lucrezianamente rappresenta il divenire delle cose in uno sciamare congiuntivo e disgiuntivo degli atomi, ha una spiccata identità materialistica. E che è, nel mentre, per voler schiudere spiragli di apertura di rapporti e di innovazione, e coniugarsi sul participio futuro (tempo infinitivo e incoativo), rimozione delle interruzioni (e pure delle ininterruzioni come «clausole» di sussistenza), smontaggio e disinfestazione delle consistenze, dei luoghi comuni, dei deliberati ideo-

logici. Sotto la pressione di un’energia cinetica costante e inesauribile, si dischiude, nella Restituzione, un panorama mosso, filante su escursioni

vertiginose: con le cose e le idee che si tallonano e dispiegano in controcanto; con il concreto degli ambienti e delle figure che trapassa, precipitando, nell’astratto di allestimenti mentali; con l’alta definizione delle immagini che si sporge sul limite dell’aniconico; con la totalità che scoppia in frammenti; con il passato che rimonta sul presente, lo incalza e gli domanda un altro futuro; con le affermazioni che soggiacciono ad un nuovo giudizio istruttorio ed espongono il fianco alla contraddizione; con l’uguale che è reso ad oltranza diverso; con il nome che è schiodato dalle sue gabbie paradigmatiche mentre l’enormità di-

scorsiva, analitica e speculativa (e intensivamente gnomica), governata da un io fattosi voce pubblica, converte la logica del nominare in quella del leggere. Di questo panorama, di concatenata e inesausta variabilità, una proiezione stratigrafica particolarmente efficace appare la città. Il dedalo delle vie e delle piazze, il sommerso delle preesistenze e il visibile dei monumenti, la storia «viva di fantasmi» e le statue che «tendono

gli arti distrutti», archeologia il cui futuro «è presente a ben altro», la moltitudine dei reclusi e dei marginali che vengono restituiti e la solitudine della folla, i personaggi del potere berciati e accompagnati da

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un responsorio dissonante, gli interni che travasano negli esterni e gli spazi interamente sdoganati, e in tutto (come immanente) un pensiero che ricusa ogni clausola o pausa di conservazione, che è movimento e alterazione: Roma è composta come in una architettura straordinaria, di «morfologia inaudita», sulle pagine della Restituzione. Dove la poesia è civile, e politica, non tanto per le singole scene, o quadri di rappresentazione, quanto per la legge dell’alterazione che ad essi è sottesa e che torna a dire, tenacemente e smisuratamente, un “voler al-

tro”, che porta ad incontrare gli altri («sono gli altri le tue direzioni e il tuo senso») e che, nelle forme participiali future in cui si riassume (le forme di un futuro che ci si impegna a costruire, che si partecipa a realizzare), instilla una volontà di liberazione e di riscatto: il volere, cioè,

che tutto venga a redenzione e a salvezza. Appartiene all'ordine della necessità, in un tale sistema di discorso poetico, che la metafora (l’equivalente di un transito che si asseconda e si sospinge) abbia un ruolo decisivo e non possa essere ridotta, per ciÒ stesso, a figura ornamentale, o di evasione, o di delibazione lirica;

che le sia affidato un compito propulsivo di conoscenza e di intrepretazione, di alterazione; che, anche quando abbia lineamenti già visti

(ungarettiani, per esempio), sia mutata di funzione e diventi subito altro. Ed è altrettanto necessario che la metafora sia continuata, che sta-

ni la realtà dall’effigie in cui è pur provvisoriamente riparata, che declini il simbolo in segno e ne presti i frammenti all'adempimento dell’allegoria. La poesia di pensiero della Restituzione è allegorica: è metafora continuata che non cede e non smette, che non si acconcia a

tropo retorico e non si lascia cullare dal principio dell’equivalenza, ma sostiene piuttosto «un desiderio irresistibile di nuove interpretazioni» e asseconda e rinforza una volontà di «conoscenza in piena forza». Sostanzia, insomma,

l’enormità discorsiva dell’ininterruzione, la quale

eccede pour cause i confini di un libro e non può che annunciare un seguito di «continuità metamorfica». «Ognuno ha in mano il suo specchio e la sua trottola»: recita, non l’Epilogus della Restituzione, nell’incipit di una delle sue ultime caso, a quartine.

LO SPECCHIO E LA TROTTOLA: energia e rifrazione del movimento della materia nella sperimentazione “noetica” del linguaggio Filippo Bettini

Lo specchio e la trottola, uscito per i tipi della Vallecchi nel 1961, è un testo che, pur tra silenzi, rimozioni e cautele d’altra natura, ha fatto

storia nella letteratura italiana degli ultimi vent'anni. La sua clamorosa e prorompente ricchezza di soluzioni sperimentali e persino spregiudicate, così estranee e impermeabili alla dominante tradizione classica del nostro Novecento e, insieme, sorrette e vivificate da un’irre-

sistibile attitudine alla riflessione teorica e filosofica e da un recupero granitico e sempre originalissimo di forme e generi dell’antica poesia greca (Pindaro) e latina (Lucrezio e Orazio) e dell’indicazione centrale della suprema lezione dantesca di un «realismo poetico contemporaneo», allegorico e antievocativo, e, ancora, di spunti e suggestioni della severa «sonettistica» elisabettiana (tutti elementi e matrici irriducibili e contrastanti al modello simbolistico e post-simbolistico della nostra più diffusa poesia novecentesca) è certamente all’origine della

luminosa stagione avanguardistica degli anni Sessanta, ne è un precedente essenziale e irremovibile, ma purtuttavia, per la vastità delle sue

implicazioni e per la forza cogente del suo ambivalente rapporto tra «passato» e «presente», non si riconosce in un asse di parentela diretta, evade dal percorso obbligato di una paternità genealogica (in cui pure è coinvolta), fa resistenza ad esser univocamente ricondotta a qualsivoglia autore o corrente della nostra contemporaneità. Ciò che la poesia di Cacciatore mette in crisi (venendo da lontano) e supera nei termini di un’alternativa (immergendosi nella più accesa incandescenza del presente) non è un filone letterario più o meno settorialmente limitato, per quanto egemone, ma un'intera linea dell’episteme poetica, variamente corretta, integrata e metamorfosata nel corso dei

secoli: è la storia trionfante del «petrarchismo», della «lirica» come genere auratico e sacrale, di un’idea e di una pratica della poesia del-

Lo specchio e la trottola

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l’«equilibrio formale» e della «sublimazione affettiva e sentimentale». E ad essa la scrittura noetica e sperimentale di Cacciatore pare contrapporsi non in chiave di negazione frontale ma per via, sicura e determinata, di un percorso autonomo e altro: da un lato, ignorandone obblighi di omaggio e di sudditanza — su un crinale di vuoto e di deserto ov’è rischio la povertà del già dato e scommessa il costruire —; dall’altro attestandosi caparbiamente su un regime «alto» e non subalterno, attraverso il rifiuto degli equivalenti ripieghi del «basso», della parodia e della dissacrazione e la corrispondente scelta di una solennità perentoria e problematica a cui rispondono nome ed essenza dell’alterità stessa. Dicendo questo, acquista corpo la legittima impressione che il provvisorio distanziamento dall’originario termine di partenza (Lo specchio e la trottola) nasconda il tacito assunto che, in pro’ di simili argomenti digressivi, di altro non possa trattarsi che di un capolavoro. E, a suffragarla a viso aperto, oseremo oltre e affermeremo che questo è il punto, e tale pure il nostro convincimento. Un capolavoro, aggiungeremo, di quelli un po’ rari e speciali, perché -- tanto per stabilire un istruttivo raffronto —, a differenza delle grandi opere montaliane, nasce da un’operazione che non poggia sul sicuro, che non si pone quale

sintesi progressiva e dissolutiva delle più avanzate esperienze della poetica «simbolistica», ma si radica sul terreno arso di una grande storia sommersa e lo feconda e lo fa germogliare a nuova vita, districandosi, tra sentieri impervi, come interrogazione del mondo, del tempo e della storia — fuori del regno sovrano dell’autarchia letteraria e dell'illusione capitale della sua catarsi simbolica — e come apertura generosa, ininterrotta e consapevole al flusso dei loro eventi e delle loro trasformazioni. Tra i diversi motivi di cui conviene parlare, vi è sicu-

ramente il tema della specularità cinetica a cui è riconducibile la corrispondenza in atto tra i contenuti del pensiero e i significati delle loro forme poetiche. A farla da padrone è già da ora un punto di vista su cui si è sempre più intensamente venuta polarizzando, negli ultimi tempi, la riflessione filosofica dell’autore: l’idea anticontemplativa e pragmatico-materialistica di un’«energia» che non è solo causa e principio dell’alterazione incessante delle cose e dell’esistere (a cui il poeta è chiamato a guardare e ad aderire fuori di ogni dogma e pregiudizio

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e soprattutto oltre il limite della sua secolare appartenenza alla «separazione» dell’istituzione letteraria quale hortus conclusus), ma che appartiene anche, e fino in fondo, alla forza intellettuale ed espressiva della parola poetica, nel preciso momento in cui essa si avvita e si ritorce su di sé e giunge, così, a rifrangere l’immagine del mondo, decodificandone, sempre, in progress la natura molteplice e contraddittoria. Ecco allora esplicato uno dei possibili sensi sottostanti alla superficie apparentemente criptica del titolo del libro: la «trottola» come ritorsione dell’energia nel linguaggio del pensiero e lo «specchio» come rifrazione processuale dell'immagine che tale linguaggio offre e restituisce della realtà esterna in costante divenire. In forza dell’inesauribile impulso che li attraversa e li muove, i due termini finiscono, a ben

vedere, per coincidere; e la loro identità dà luogo a una connotazione «energetica» della scrittura, che esorbita da ogni a priori, che non accetta mai né la stabilità permanente della «forma» né quella inversa dell’«informe», ma che avoca a sé regole, strutture e procedimenti, de-

stinati ad essere sistematicamente traditi, infranti, superati. Vi è qui, più che in qualunque altro libro, un bisogno di «chiusura» che sgorga dalla necessità di dire e rappresentare l’estensione e il movimento vir-

tualmente illimitati del molteplice storico e naturale (e non a caso, precise e riconoscibili sono le ascendenze culturali dell’articolazione retorica della struttura divisa in più parti e delle forme dei generi adibiti e prescelti), ma vi è anche, contemporaneamente, un altrettanto veemente bisogno di «apertura» che contraddice la chiusura del limite, che sposta e sconvolge, di volta in volta, le linee del perimetro inizialmente tracciato, che adegua e rinnova senza posa — anche a costo di soluzioni arditissime e impensabili — la natura e la forma del segno alla

novità dei fenomeni irrompenti e della loro simultanea appercezione mentale e sensoriale. Tra il «piano dell’espressione» e quello dei «significati» si radicalizza una relazione di frizione e di contrappunto, che, già emergente nei Graduali e poi ulteriormente sviluppata nella Restituzione, acquista ora il piglio e l'evidenza di un consapevole ossimoro. Il distico sapienziale del sonetto elisabettiano, il genere antico del «carme» o della «canzone libera» (variamente rielaborata), la presenza costante della «rima» e la struttura fissa del «metro» (un «tri-

Lo specchio e la trottola

127

decasillabo» raramente alternato a metri minori), persino la norma capovolta dell'assenza metodica di punteggiatura si fanno «figure significanti» della rappresentazione sintetica di un mondo composito, orizzontale e policorde, sempre vincolato alla contemporaneità storica del suo «essere in divenire», ove uomini, oggetti, idee, situazioni e animali

si mescolano e si alternano nei bagliori fuggevoli di un prisma iridescente, senza gerarchie predeterminate di valori e senza remore di ostacolo o di sosta al procedere del loro svolgimento e delle loro combinazioni. E anche all’interno del solo «piano dell’espressione» si ripropone la medesima dinamica di correlazione e di contrasto. Si prenda il caso emblematico della «rima» che, a scandalo dei contemporanei, Cacciatore riprende e impiega in maniera impertinente e quasi ossessiva, a disfida dell’illusoria libertà della lirica novecentesca. Bene, essa si insedia, a diritto, tra le sperimentazioni ritmiche più inedite, sconcertanti e produttive che si possano mai concepire: non solo scaturisce dalla consonanza di lessemi tra loro violentemente eterogenei (in cui, in luogo delle tradizionali entità degli aggettivi e dei sostantivi, sono soprattutto le clausole degli avverbi, delle proposizioni, dei pronomi e persino dei «gerundi» verbali ad innescare la trama dei paral-

lelismi sonori), ma entra anche in patente collisione con l’ordine della sintassi, che, priva di giunture grafiche, richiede il continuo contributo del lettore nell’eguagliare il ritmo ai significati. Sicché quella figura per antonomasia depositaria della «forma chiusa» che è la rima diventa nello Specchio e la trottola una formidabile valvola di apertura al movimento di conoscenza e di investigazione percorso dal pensiero, di cui essa assorbe e scandisce ritmi, progressioni e svolte nei battiti pulsanti del linguaggio. E alla luce di ciò ben si capisce come la cifra dominante della poetica cacciatoriana sia riposta in una sorta di «metalinguaggio» ben lontano, nel suo vigore, dalle finalità autoreferenziali di un discorso puramente endoletterario e assai prossimo, invece, nella sua più autentica scaturigine, alla dialettica reciproca di una inintermessa riformulazione della res in verba e dei verba in intelligentia, in comprensione e approfondimento dell’unità contestuale del loro rapporto. Si ponga mente ai versi finali di Una voce e fa testo (che non a

caso apre la raccolta) e alla perentorietà lapidaria delle definizioni che

Filippo Bettini

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descrivono il funzionamento della scrittura e dei suoi attributi gnoseologici e comportamentali: «Avere in sé l’alito d’altri ancora valido La pietra invidia questo alla carne vorace Empie provarne le balze ad una ad una In pace annettersi l’adagio sostenuto Il silenzio ove sfuma di strage e fa testo».

Con intenzionalità progettuale, mentre vengono esplicitamente ribaditi i requisiti «antilirici» del genere di poesia perseguito (la partecipazione alla vitalità del commercio dei sensi, il dischiudimento della voce poetante alla pluralità dei soggetti esterni, l’attraversamento profano delle difficoltà e degli incidenti del percorso plurilineare e contraddittorio della vita e della storia), si disegna, in filigrana, il prospetto di un’operazione segnica che parte dallo sforzo di mantenere in vita la materialità irriducibile dell’esistere, si svolge attraverso la verifica e la cattura dei suoi cangianti fenomeni di entropia e di conflitto e si conclude provvisoriamente con la rielaborazione dei dati del vissuto in un'immagine verbale, sempre segnata dalle ferite e dagli strappi del suo accidentato iter di passaggio dal caos alla forma, dal silenzio alla parola. All’autore è perfettamente presente l’antifysis dell’artificio verbale, la stretta dipendenza della nascita del testo dalla morte di quella porzione di vita che lo precede e lo fonda. «Il silenzio ove sfuma di strage e fa testo» vuol dire che non vi è finzione poetica che non sorga sulle ceneri dell’esperienza e sul preliminare distanziamento del suo impulso vitale. Ma qui più che mai occorre stare allerta e scansare facili suggestioni di pericolose /iaisons. Se la finzione poetica di Cacciatore non vuole dissimulare l’endemico principio di sostituzione simbolica alla parola dell’oggetto ma viceversa lo consapevolizza e lo ostenta, non è per una qualche improbabile parentela con un’ideologia letteraria della pura negazione, con quella visione, ad esempio, tanto cara a Bataille, della scrittura come «crimine», ma perché essa,

così facendo, vuole ergersi ad oggettivazione allegorica dello stesso simbolo; vuol dare corpo, sangue e consistenza tangibile allo stesso flatum vocis. La certezza negativa convive, in ulteriore e progressiva variante di conjunctio oppositorum, con quella costruttiva di un processo

Lo specchio e la trottola

129

di alterazione a cui non si sottrae neppure la parola e in cui, anzi, la parola medesima, trasformandosi senza fine, rinnova e propaga l’esperienza originaria in altra e nuova esperienza, fino a scoprirsi parte integrante e costitutiva, «specchio» e «trottola», della più universale esperienza in divenire. La «voracità della carne», la sfida alla prova dell’impervio e delle «empie balze», la rigenerazione del deserto e della «strage» in improvvisa fecondità di testo, la commutazione ciclica del silenzio in parola sono elementi, marchi, iscrizioni che non si di-

leguano nel refoulement dello schermo evocativo ma che restano impressi e conficcati, a lettere di fuoco, nel tessuto di ogni stilema, di ogni frase, di ogni passaggio intertestuale. Ed è per tale ragione che il «metalinguaggio» — attitudine della poesia a parlare di sé, dei propri referenti e delle proprie strutture — guadagna in Cacciatore assai più di quel che per statuto gli dovrebbe competere: non è solo «linguaggio di secondo grado», ma si fa addirittura «Erlebnis di secondo grado», potenziata e moltiplicata all'ennesima potenza. Sappiamo che a Cacciatore probabilmente non aggrada l’attribuzione di un termine come quello di «scrittura materialistica», a noi carissimo. Ma, poiché è un bene — come si sa — che non sempre si dia identità di vedute e di terminologia tra autore e critico, non scorgiamo francamente quale migliore definizione possa attagliarsi a rendere idea della vocazione allegorica e antisimbolistica della sua scrittura (dove antico e moderno non si equivalgono, ma, leopardianamente, si fronteggiano e si interrogano), del potenziale esplosivo della sua sperimentazione linguistico-espressiva, della profondità mordente e demistificante del suo spessore concettuale e investigativo, di quell’inclinazione filosofica che lo situa, non solo in Italia ma in Europa, tra i

maggiori, ancorché sporadici, rappresentanti della «poesia-pensiero». Sì, Cacciatore (e in particolare Lo specchio e la trottola sul versante poetico) appartiene fino in fondo alla prospettiva di una «scrittura materialistica», ne è sicuramente una delle più alte espressioni, uno

dei principali presupposti: motivo e condizione, anche, per cui essa è

potuta nascere e configurarsi nel presente.

LA POETICA DI CACCIATORE: DAGLI ESORDI A LO SPECCHIO E LA TROTTOLA Gustav René Hocke

Edoardo Cacciatore, nato nel 1912, ha pubblicato (presso Vallecchi, Firenze) una raccolta poetica dal titolo Lo specchio e la trottola. La struttura architettonica di quest'opera poetica, che ha come tema una definizione della natura dell’uomo moderno, deriva dalla triplice struttura della teologia morale: libido sentiendi, libido sciendi e libido dominandi, per quanto nei loro aspetti contemporanei. In questo poe-

ma “concreto” si uniscono inoltre i più antichi e i più nuovi principi formali della lirica. Vi si rinvengono così le più preziose tradizioni europee, vivaci quanto il provocatorio mezzo di espressione dell’odierna lirica esoterica di indubbio valore. Il poeta appartiene perciò alla schiera dei più promettenti — relativamente rari — autentici outsider per così dire tradizionalisti della letteratura italiana di oggi. Egli si colloca ad un tempo nel sistema di valori passati e moderni dell’Europa. Sotto la dittatura fascista lo si sarebbe cercato invano tra i cori degli elogiatori o tra gli scrittori “d’evasione” non impegnati e appartati. Ciò spiega il suo lungo silenzio: aveva 35 anni quando si risolse per la prima volta ad affidarsi a un editore. Diviene dunque chiaro anche il singolare carattere duplice delle sue opere: vitalità elementare e adiaforica distanza dal mondo, critica aggressiva e saggia serenità. Il suo primo libro, uno psicogramma sagace e piuttosto meditativo, apparve nel 1951 a Napoli con il significativo titolo L’identificazione intera. La sua tematica è l’indagine del valore vincolante di ciò che all’incirca Thomas Mann denominò come «idee umane», nel mezzo del-

le moderne «montagne di polvere». Esso si fonda sull’annotazione e l'osservazione delle «esperienze», come scrive lo stesso Cacciatore, anche dei dati non apparenti nell'economia della coscienza di una personalità che rimanda continuamente a se stessa. In tal modo, la realtà

viene riconquistata, al di là di tutte le forme esclusivamente realistiche e al di sopra di tutte le pseudo-realtà delle esperienze di massa, in que-

La poetica di Cacciatore: dagli esordi a Lo specchio e la trottola

131

sta maniera tanto critico-intelligente quanto poetico-visionaria, in primo luogo per l’autore stesso, ricercante e registrante. L’esito di una siffatta autolimitazione, di un procedimento mediante il quale il mondo viene riflesso soltanto nella coscienza di un /o fortemente critico posto al di sopra di tutti gli idola fori e per cui inoltre ciò che è falso, mendace, stupido e vuoto appare con grande chiarezza, accanto al vero, fecondo, rimanda a Joyce, a Proust, ma anche a Plotino. Esso ha

tratti moderno-alessandrini, per cui l’estremo soggettivismo di Plotino viene qui per così dire indotto al proprio dispiegamento linguistico attraverso la “sostanza” del mondo e dell’uomo contemporanei. Elementi satirici, odori, colori, elementi sensibili d’ogni sorta vengono fissati con mano sicura e sapiente nel flusso di coscienza. In tal modo in questo libro sopravvive un’affascinante unità di astrazione e sensualità. Essa è rimasta sempre per la produzione ulteriore di Cacciatore — insieme alla consapevole ricezione dei retaggi spirituali dell'Europa — come incentivo, determinazione e rappresentazione dell’ideale per un’opera-modello fortemente equilibrata, sempre impegnativa ed esemplare. Questa imponente opera prima soffre tuttavia di lungaggini piuttosto lambiccate. Essa non trovò né in Italia né all’estero l’eco dovuta — nella stessa Italia probabilmente perché non faceva alcuna concessione al gusto neoepicureo e pseudo-realistico o pseudo-idealistico largamente diffuso; le congreghe, i partiti e le redazioni tennero lontano il suo autore. Quattro anni dopo, nel 1955, apparve la prima raccolta poetica di Cacciatore, La restituzione, non una “raccolta” di materiali sparsi e ca-

suali, ma piuttosto una suite lirica rigorosamente ordinata, un poema articolato architettonicamente in sette tempora. Con questo libro, Cacciatore si pose al vertice della più esigente generazione di mezzo del suo paese. Dopo la notissima triade della lirica italiana, Carducci, Pascoli e D'Annunzio, la poesia e addirittura la stessa lingua della tradizione italiana sembravano esaurite. Entrarono quindi in scena gli oggi indiscussi innovatori, quei poeti che avevano aderito alla “irregolare” rivoluzione anticlassica europea: Ungaretti e Montale. (Quasimodo è essenzialmente un epigono semplificante di questi due). Certamente ad essi seguì una serie di poeti dal timbro linguistico inconfondibilmente

nuovo,

come

Saba, Palazzeschi,

Cardarelli,

ai quali

132

Gustav René Hocke

mancò tuttavia la ricerca di un nuovo ordo estetico europeo, verso il quale Cacciatore si era, sin dai primordi, sempre e instancabilmente adoperato, tramite il confronto con la letteratura universale, nel suo

impenetrabile eremo di Piazza di Spagna, divenuto intanto punto d’incontro di poeti europei e americani estremamente anticonformisti e al contempo tradizionalisti nei modi più diversi. Tale consapevole coscienza poetica, congiunta con un’estrema sensibilità, spiritualità e forza dell’esperienza, si manifesta anche nei dialoghi che Cacciatore tiene con i suoi amici, Robert Graves, Jorge Guillén, Jean Claude

Ibert, Ingeborg Bachmann e altri. Non va tuttavia dimenticata Vera Cacciatore, amministratrice del noto Keats-Institute, i cui racconti ri-

scossero successo anche oltre i confini dell’Italia. Le sue conoscenze della produzione classica, romantica e moderna della lirica. inglese costituirono sempre energie catalizzatrici per questo cosmopolita luogo di scambio romano, in Piazza di Spagna. Come si può caratterizzare la nuova situazione, come si delineò dopo la comparsa della Restituzione di Cacciatore nell’attuale parco dei divertimenti da publicity pseudo-americano di Roma? Ungaretti e Montale avevano rinnovato il mezzo espressivo della poesia italiana; divennero immediatamente, in una cultura letteraria come quella italiana, tesa sempre ai legami intellettual-mondani, modelli da imitare. Perciò, dal punto di vista storico-letterario, con la Restituzione ebbe luogo innanzi tutto una “restituzione”, un “ripristino” del lavoro so-

stanziale e formale della poesia nel senso di una nuova universalità. L’intera sfera dei problemi fondamentali dell’essere e dell’uomo ridivengono pertanto il punto di partenza dell’esperienza poetica; dalla fine del classico essa era stata ridotta spesso a una più o meno sensibile registrazione di semplici frammenti di mondo, non di rado a un’autoafflizione sentimentale. Per cui si raccoglievano nell’io esperienziale e pensante soltanto frammenti dei fenomeni e della coscienza, per tacere delle ideologie aggressive. Si mescolavano materie prime e derivati, senza disporre di una elementare formazione per così dire estetico-chimica, analogamente ai bambini nei loro laboratori domestici. La critica, in particolar modo nell’Europa centrale, era divenuta incer-

ta: si emettevano cambiali in bianco agli pseudo-sperimentatori per il loro possibile futuro come geni universali. Si sentì allora che il rigore

La poetica di Cacciatore: dagli esordi a Lo specchio e la trottola

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classico di una bellezza persino contraddittoria ridiventava realtà con la Restituzione di Cacciatore;. tuttavia veniva promosso tutt’altro che un nuovo culto della pruderie classicistica e di una eleganza troppo solenne. A modo suo, Cacciatore mostrò piuttosto coraggio. In poesia il rigore classico, la rigueur di Paul Valéry, deve congiungersi con la bellezza del paradossale, il certo con l’incerto, la freddezza concettistica con una forza del-sentimento ancora collegata con l’assoluto. La pre-meditazione costruttiva nel senso di un accerchiamento dell’indicibile è propria anche degli elementi sostanziali della più matura raccolta, Lo specchio e la trottola, di cui non ignoriamo che specchio e trottola appartengono ai simboli di una esoterica intelligente ma non ebbra. Già la struttura esteriore, la suddivisione nelle tre “categorie” fondamentali della teologia morale, dimostra che l’etisia tematica o persino l’incontrollabilità tematica della lirica pseudo-astratta degli epigoni può essere evitata. La realizzazione formale non conosce limiti: le più antiche e le più nuove forme del verso e della strofa si alternano con i più stravaganti esiti sperimentali dell’alchimia lirica contemporanea. Resta così determinante un tema, un discorso, una elo-

cutio, una parola concreta indirizzata a un interlocutore sensibile: l'e-

terno dramma del desiderio, sia pure nelle sue forme più moderne, nella sua aggressiva varietà contemporanea. Ognuno oggi può apparire in questo specchio come una trottola sbattuta e ognuno può provare davanti ad esso uno stupore salutare. Ognuno vi può godere della maestria del riflesso di questo essere insensato sollecitato in modo spesso demoniaco, dunque di uno splendido gioco di forme, di un’abilità linguistica affascinante. Essa è propria sin da Callimaco e Orazio dei caratteri essenziali della letteratura mediterranea. Ruotare, ruotare su se stessi, per mezzo di altri, da sé, per se stessi o per altri, nel

riflesso infinito di due specchi contrapposti — motivo pandemoniaco dell’uomo moderno, del soggettivismo moderno. Ci troviamo di fronte al ritorno in chiave contemporanea del problema degli Eleati: la relazione tra il moto insensato e l’essere logico ed eterno. L'enigma del moto, del divenire dell’umanità viene contrapposto al mistero dell’impassibilità dell’essere. Zenone, il discepolo di Parmenide, che il tiran-

no di Elea fece pestare a morte in un mortaio, perché si era staccato la lingua per non tradire i suoi complici nella congiura, affermava che

Gustav René Hocke

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ogni freccia che vola è immobile, poiché in ogni istante del suo volo essa è ferma sempre in un singolo punto. Per Cacciatore lo specchio diviene simbolo dell’ultrarelatività dell’essere, la trottola della relati-

vità del movimento. La poesia riceve così una qualità mitosofica, se non addirittura teologica. Tuttavia è tipico del suo carattere specificamente europeo il fatto di non perdere ciò che si può e si deve pronunciare chiaramente: il sensibile, la satira, l’invettiva, lo scherno, l’ironia, la preghiera, la ras-

segnazione e una nuova pienezza nella serenità della contemplazione. La trottola: felicità del moto e certezza del dover morire, mentre nello

specchio il presagio che questo correre all’impazzata e questo presto fiacco rallentare abbia un senso sia eterodosso che ortodosso. Un concetto pagano e cristiano! La fine della trottola è triste, ma non del tut-

to “tragica” come credono coloro che preferiscono scommettere sulla non esistenza di dio piuttosto che sulla sua esistenza forse invece decisiva nell’oscurità degli ultimi riflessi non riconoscibili con gli occhi. La trottola è di conseguenza certamente una schiava; nello specchio dell’assoluto diviene tuttavia sovrana,

padrona,

maestà.

Le prende

un’ebbrezza pentecostale. Morendo sa che nello specchio ha trovato l’immensità. Edoardo Cacciatore ha introdotto la sua disfonica sinfonia lirica sul tema dell’“assurda” doppia esistenza dell’uomo con un saggio sul problema della «poesia e dell’uomo moderno». Anche tale scritto discorsivo può competere con i trattati letterari o artistici di valore, come quelli che nel nostro secolo ci hanno donato tra gli altri Paul Valéry, Apollinaire, Paul Klee e Gottfried Benn. (Traduzione di Massimiliano Manganelli)

HOCKE LETTORE DI CACCIATORE

Massimiliano Manganelli

Lo scritto di Gustav René Hocke qui proposto fu pubblicato nel 1960 sulla rivista «Merkur» come introduzione ad alcune poesie di Cacciatore tradotte dallo stesso Hocke. Non si tratta tuttavia del primo intervento del critico belga sulla produzione di Edoardo Cacciatore: l’anno prima, nel 1959, il nome del poeta italiano era comparso più volte nel volume // manierismo nella letteratura, nel quale veniva qualificato come «uno dei più dotati poeti italiani d’oggi»: egli è anzi l’unico autore del Novecento italiano, insieme a Ungaretti, a essere inserito nella piccola antologia di «“concetti” europei» che chiude il libro. La preoccupazione di assegnare alla scrittura di Cacciatore una dimensione “europea” sembra essere uno dei principali intenti del di-

scorso critico di Hocke. Il poeta italiano viene infatti equiparato a nomi ben più noti della letteratura continentale: Valéry, Joyce, Benn, quelli che, in senso lato, si possono definire come i “classici” del Novecento. Su questa valenza “classica” della poesia di Cacciatore sarà il

caso di tornare tra breve. Se la categoria del manierismo — pur essendo, nella lettura di Hocke, quasi atemporale — trae origine dalla nascita del moderno (a partire dal tardo Cinquecento) e dal suo incontro-scontro con la classicità, si può facilmente comprendere perché Hocke abbia introdotto il nome dello scrittore italiano nel suo studio. Nella poesia di Cacciatore sono infatti rintracciabili tutti gli elementi peculiari del manierismo: ripresa e deformazione del classico, concettismo, sperimentazione formale. Hocke parla infatti di «tratti moderno-alessandrini», di una scrittura che si confronta apertamente con la tradizione, che tende a

un ordo in chiave europea. I caratteri essenziali di questa moderna classicità sono principalmente due: il ricorso a forme chiuse ed estremamente elaborate e il recupero dell’attività poetica come esperienza della totalità. Per il pri-

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Massimiliano Manganelli

mo dato, Hocke chiama in causa, per analogia, la rigueur di Valéry e rileva la forte tensione all’unità di astrazione e sensualità. Lo specchio

e la trottola ha in effetti una struttura, che giustamente Hocke definisce «architettonica», volta all’«accerchiamento dell’indicibile», vale

a dire al tentativo di fissare la molteplice esperienza dell’uomo moderno nella determinazione di una forma. Per tale ragione il critico, con un tono espressamente polemico, tende a evidenziare la non casualità del lavoro di Cacciatore e a distinguere quest’ultimo da altri scrittori moderni, pseudo-sperimentatori privi di rigore e alla ricerca di una scrittura semplicemente “d’effetto”. È il caso, menzionato proprio nel volume sul manierismo, di D'Annunzio,

la cui poesia superficiale è

contrapposta a quella di Cacciatore, «strana quanto profonda». Va tuttavia sottolineato che la “classicità” di Cacciatore è una classicità dialettica, in grado cioè di introiettare ed elaborare tutte le conquiste della modernità, di utilizzare strumenti formali e filosofici tradizionali,

ma-anche di crearne di nuovi, magari ancor più perfezionati. A tale proposito, il critico belga parla di una «bellezza persino contraddittoria», paradossale: l’incontro tra il concetto classico di bellezza e quello tutto moderno di contraddizione genera un ossimoro che viene a confermare quella duplicità della scrittura di Cacciatore più volte ribadita da Hocke. La problematica che sta alla base della raccolta del 1960 (ma forse non soltanto di quella) è, secondo Hocke, la definizione della natura dell’uomo moderno, tematica quanto mai impegnativa e ardua che il poeta “osa” affrontare già nel saggio introduttivo al libro. Questa sfida risulta avvincente, poiché restituisce alla poesia la sua dimensione totale, la sua «nuova universalità». Se la scrittura si propone come un confronto con l’essere e le sue categorie, essa si configura allora come attività filosofica, se non proprio teologica. In ciò si delinea uno dei meriti maggiori del critico, vale a dire l’aver individuato nella poesiapensiero il fulcro del lavoro di Cacciatore, capace di misurarsi con la totalità dell’esperienza umana, sia pure in termini spiritualistico-irrazionalistici, secondo la lettura di Hocke, caratterizzata, quest’ultima,

dai toni di un’adesione entusiastica e pressoché empatica al testo. Ci si trova davanti a una poesia doppiamente speculativa: da un lato, essa riflette sul mondo e sull’uomo, dall’altro medita su se stessa, sui propri

Hocke lettore di Cacciatore

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procedimenti formali e sulla propria collocazione storica. Le categorie filosofiche evocate da Hocke sono disparate: dal soggettivismo di Plotino al problema dell’essere degli Eleati, fino alla teologia morale; le radici di questa scrittura affondano in una tradizione filosofico-letteraria tutta mediterranea. Per Hocke l'originalità dell’opera di Cacciatore non è esclusivamente un dato formale, ma soprattutto il segno che la scrittura può ancora istituirsi come spazio dell’autenticità in un mondo irrimediabilmente dominato dall’inautentico: di qui la frequenza del prefisso pseudo per designare e denunciare la falsità di certe sperimentazioni o di certe categorie di pensiero. La presenza stessa del lavoro di Cacciatore costituisce pertanto, quasi fisiologicamente, un atto d’accusa contro il conformismo ideologico-letterario e la cieca faciloneria della critica. In conclusione, sembra di potere identificare con chiarezza il punto nodale della lettura di Hocke in un risarcimento: la volontà di negare con forza la presunta estraneità di Cacciatore ai processi della modernità e di restituirgli al contrario, tramite il confronto con una tradizione di vastissima portata, il posto che gli compete nella storia letteraria d’Europa.

CACCIATORE E LA NUOVA «LEZIONE DELLE COSE»: DAL DIRE AL FARE E MA CHI E QUI IL RESPONSABILE? Stelio Maria Martini

Dal dire al fare cioè: la lezione delle cose è la seconda delle opere in prosa di Cacciatore e (non meno di come ne La restituzione e ne Lo specchio e la trottola sono possibili riscontri puntuali di luoghi de L’;dentificazione intera) anche le composizioni del successivo Ma chi è qui il responsabile? hanno le loro radici in questa lezione delle cose. Diciamo subito che il clima in cui questo saggio respira, più che orfico ed escatologico, è decisamente soteriologico. La condizione generale dell’uomo d’oggi, inteso come «fac-simile comunemente andante», lo vede consumatore di cose le quali, lungi dal produrre reificazione e mercificazione dell’uomo stesso, si offrono ad una lezione-let-

tura che può consentire all’uomo stesso di penetrarle e, attraverso esse, penetrare finalmente il meccanismo della storia in vista di una definitiva liberazione. Il motivo critico della civiltà dei consumi, già

rilevato in Cacciatore, trova in questo una giustificazione ed un esito assolutamente inaspettati. Nell’atteggiamento odierno degli uomini emerge una particolare attenzione rivolta allo spazio a preferenza che al tempo, e tale preferenza si rivela prevalenza obiettiva, come si può desumere dagli stessi criteri di valutazione correnti: sta di fatto che ciò che un tempo era conosciuto come “esercizio interiore”, e che fondava soprattutto su un tipo di conoscenza tanto più profonda quanto maggiore il tempo nel quale era stata contratta, è stato oggi sostituito dall’“addestramento operativo”, nel quale lo spazio conta di più. Lo spazio ha finito per riempirsi di cose, prodotte sì dall'uomo, ma che gli forniscono a loro volta una lezione, che è l’oggetto di questo «sopraluogo delle energie oggi emergenti di fatto», cioè «riaccertamento dei valori fiduciari» che l’autore compie in quest'opera. Le cose pare non siano più la traduzione concreta di idee, come si pensava, se non altro perché appaiono oggi suscettibili di perfezionamenti tali per cui si presentano come la perfettibilità dell’uomo stesso. Ecco allora che le cose

142

Stelio Maria Martini

sono come «depositi di energia» per il cui tramite l’uomo finalmente oggi riesce ad «entrare nella realtà»; «...sotto l’influenza combinata della macchina e di un surriscaldamento del pensiero, assistiamo a una formidabile espansione di potenze inoccupate». Questo appare il punto centrale della riflessione dell’autore, il quale vede in ciò una positiva funzione egemonica esercitata dalla detta energia sull'uomo; funzione che se per un verso, perché di origine anch’essa umana, si motiva assai più profondamente che non dall’avidità e dalla sete di guadagno, dall’altro lato non sa (né può) rinunziare a quella tipica componente della realtà che Cacciatore, come sappiamo, chiama «coefficiente di efferatezza». Se l’uomo ha perduto il senso dell’eternità come quello stesso della sua dimensione storica (sintomi: la fine di ogni paideia, di ogni esemplarità, di ogni unicità, e da proprietario l’uomo è diventato utente di oggetti sostituibili ex novo, non più da riparare) e della «razionalià assoluta di tutto» (sfuggitasene per la «tendenza del tempo»), la filosofia è stata rimpiazzata dalla «inchiesta sulla prassi» e l’uomo, che era buono, è stato oggi rimpiazzato da quello buono a qualche cosa, e se qui è questione di pragmatismo, si tratterà pur sempre di un pragmatismo escatologico. Un siffatto ingresso nella realtà comporta, da parte dell’uomo, essersi finalmente immesso in “correnti” di energia che sono le correnti stesse della salvazione della specie: passando dal dire al fare è il “demonismo” umano medesimo che lavora ormai da sé a questo «rimpatrio» reale, mosso, sollecitato e portato in regalo proprio da queste cose infinitamente

perfettibili. (Crediamo che demonismo umano non significhi altro che attività orientata in un determinato senso né troviamo motivo che contraddica tale interpretazione). Ora quest'uomo utente sta per venire in possesso di ulteriori poteri di conoscenza e ciò è provato dal fatto che oggi, per la prima volta da quando esiste l’uomo, le cose ne toccano il morale secondo modalità inaudite: ecco intanto oggi l'«Epifania delle cose» che si manifesta come un vero «Acquazzone delle Immagini», venuto ad abbattersi su questo che siamo; si può supporre qualcosa dietro l’Acquazzone e dietro il Nubifragio, ma l’indicibile e l’indescrivibile sono già presenti nelle correnti in cui siamo ormai immessi, nelle quali ci accompagnano, con gli articoli di fantasia tanto comuni, la frustrazione dei desideri quale nostro personale scotto da pagare; con gli

Cacciatore e la nuova «lezione delle cose»

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articoli di pratica quotidiana implicanti la crudeltà autofaga della vita, l'eccitazione alla secrezione di energia terapeutica. «Divers indices me paraissent constituer une preuve scientifique sérieuse que, en conformité avec la loi universelle de centro-complexité, le groupe zoologique humain — loin de dériver biologiquement, par individualisme déchaîné, vers un état de granulation croissante, ou en-

core de s’orienter, au moyen de l’astro-nautique, vers une échappée à la mort par éxpansion sidérale, ou tout simplement, de décliner vers une catastrophe ou la sénescence — se dirige en réalité, par arrange-

ment et convergence planétaires des toutes les réflexions élémentaires terrestres, vers un point critique collectif et superieur; point au de là

du quel (justement parce qu’il est critique) nous ne pouvons rien voir» (P. Theilard de Chardin, Le phénoméne humain, Paris, 1955).

Suddivisa in otto parti, Ma chi è qui il responsabile? (1974), ostenta ancora una volta un luogo comune, una di quelle domande “qualunquiste”, da “uomo della strada” o addirittura da “cittadino che protesta”; opera ricca ed articolata, sempre molto varia nel metro e nell’as-

setto compositivo di ciascun poema. Più del saggio che la precede, presentato dall’autore come «ideario sviscerato», quest'opera ci pare il momento

di verifica e di accertamento, il «manuale ancora di prove

consultabili ed insieme un’impugnatura valida per l’esperienze da doversi vivere», come l’autore presentava Dal dire al fare. Qui tutta l’attenzione è rivolta all’esterno, meta di quella partenza nel cui clima si apre il libro. Le cose, gli oggetti del nostro quotidiano hanno finito col porsi, nel loro insieme, come un enorme squarcio nel fianco di una

realtà in passato impenetrabile, inaspettato varco ad invaderla. Per Cacciatore l’occasione non è da mancare, confortato in ciò anche dalle

voci della folla. Subito si manifestano alcuni presentimenti, vere premonizioni, oscuramente provenienti dall’immediato futuro della specie. Il presente, inoltre, e la nuda cosa quotidiana lasciano incombere pesantemente il senso dell’irrea/tà, che altre volte chiedeva una restituzione,

ed oggi invece come non mai, per uno spiccatissimo senso dell’astare altrui, fa sentire gli altri come estranei in cui sei il trascurabile fatto, mentre ciascuno è immesso su un nastro trasportatore sul quale l’alterazione confonderà i singoli trascurabili destini. «In sede ufficiale» si fa affidamento su un propagandato nichilismo: «oggi gli uomini sono

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Stelio Maria Martini

se non Collaborazionisti del Nulla», ma ciò non è che l’accorto cini-

smo del potere, altra componente del coefficiente di crudeltà della storia. L'esterno ormai non è più negli oggetti prodotti, essi sono solo l’esistente: «Tra pesi e misure al suo limite / Civiltà e buriana di feretri». L'esterno è ormai «la creatura via via», meta reale del rimpatrio, revoca in dubbio del dato esistente, restituzione del caos. Forse per quest’opera va lasciata all’utente una maggiore indipendenza che altrove nella consultazione delle prove circa il modo di impugnare la verifica dell’esperienza. Forse è il momento di fare i conti con l’ipotetico ottimismo di Cacciatore: che ottimismo è, codesto, che si fonda sul

rimpatrio della creatura nelle sabbie mobili di una infinita alterazione? Non è forse, piuttosto, una fastosa impassibilità fondata su una scommessa posta in dispregio dell’efferato prezzo del quotidiano, paga dell’infinito destino di una specie ormai avvertita dell’ignota destinazione? Nei cinque presentimenti (pubblicati fin dal 1969 sotto il titolo Tutti i poteri) che costituiscono la terza parte dell’opera, si dice: siamo stati visitati da una Befana la quale ci ha colmato di giocattoli dalla strana potenza. La nostra pronta dimestichezza con essi ci induce immediatamente ad un gioco frenetico e scatenato, grazie al quale siamo entrati in un’era di sorprese senza fine, in cui siamo inondati da un getto incessante di conoscenza attiva che ci giustappone a noi stessi, ilari per aver scoperto finalmente il principio stesso della sopravvivenza, che tuttavia, insieme, chiede d'essere anche strage. Il motivo critico

della civiltà dei consumi si fa più scoperto: «...sì esiste / La sete anzi perché con più gusto si beva», ma è bilanciato da altro motivo destituito di ogni ironia: «ce n’è a libito non pro capite è il consumo». Ancora: «L’in te ipsum redi clinica schizofrenica» è ancor esso critico, ma: «Là in testa è il traguardo in quell’amena réclame», alla luce di quel che sappiamo sull’importanza degli articoli di fantasia e sull’Acquazzone delle immagini, assume valore di premonizione del nulla. Ma è solo una citazione, mentre il presentimento emerge ‘oscuramente dalla lettura delle quarantacinque composizioni attraverso la trasparenza consentita dalla consueta anfiglossia: «Uranio e sterminio dentro i presenti in pace / Stanno a sentenze d’altri tempi appare placca / D’ottone in cui non c'è onomastico trapelo / Spunta un apice nuovo alla base si spacca / Brillano guizzi in partenza e l’appello piace».

Cacciatore e la nuova «lezione delle cose»

Oppure: tura del mattine me pure

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«Milioni e milioni di semplici siamo / Taglio fu prima poi supotere / Trapezio poi non antropocentrico spazio / Quante sorsero e parvero sere?». Le citazioni, più che esemplari, cohanno titolo (asperità e scabrezza tipiche, protratto enigma)

per risultare, vorremmo

fossero qui considerate emblematiche, così

come viene assunto l’Hector virgiliano (Aen. II, vv. 270 e segg.), che però qui appare mutato in meglio è non più squalente nella barba grazie agli immortali princìpi dell’89; e come è assunta un’eco lontana del Vexilla regis nel verso 12 di pagina 27, perché pur sempre la storia chiede d’essere anche strage. A tale riguardo è innegabile in questa opera una consapevolezza nuova che si ricava in più luoghi, misurata ma intensa, di fronte alla quale non sappiamo pensare ad altro che al silenzioso giuristizio che precedé l’entrata degli alleati nei campi di sterminio nazisti. Altre volte torna una intonazione gnomica, esemplare nel testo che segue, che è un punto nodale del libro: «L’Irrealtà — o anima mortale sàppilo Perversa non è macchinazione o atroce Dell’Oggi Nostro ligi anzi gli occhi bàdale Mentre l’attrito urti sul torto declivio Svolto in ovvio quotidiano Controfigura Dell’eterno è svelta e attorno si affaccia eccola Brivido entro te risulta e qui risalto Insolito dà alle cose d’uso a cui sfugge». (La controfigura dell'eterno)

Evidentemente esiste una responsabilità perché l’irrealtà diserti unicamente le cose d’uso. Forse da qualche parte s’è voluto che fossero esse le uniche reali? Nel penetrare per esse la realtà siamo presi dall’angoscia di aver percorso un circuito chiuso ed essere dunque tornati al punto di partenza, scambiato per punto di arrivo, perché quel che era parso salvazione s’è poi rivelato condanna. I duecentocinquanta versi di Andatura, tutti terminanti con la parola esterno, ci pare vogliano costituirsi prova di un fuori che è come il convergere di tutti i mo-

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tivi possibili verso un luogo che, data la sua ubiquità, finisce col somigliare troppo sia a tutte le cose come al loro rovescio: «La ragione è il rapporto più esterno L’idea pura è pregna d’esterno Nello scroto surplus ha l’esterno Nus o essenza tu assodi l’esterno Rompi in rantoli e sbavi all’esterno Il suicida si butta all’esterno Nell’amore il tuo amore è l'esterno L’affar nostro si officia all’esterno Dove giri gestisci l’esterno... Te ne accorgi? che orgia è l’esterno...»

Aggiungeremo solo che, in quest’opera, il ricorso dell’autore a parole di suo conio o a modificazioni di altre parole esistenti, acquista maggior peso e incidenza che nelle precedenti, segno ancora più netto della perdurante e/normità discorsiva, per cui l'accostamento e la successione delle parole è quasi sempre casuale o comunque arbitrario, fino all’estrema libertà dell’assunzione di parole assolutamente inedite e di mere onomatopee. Ma ciò non impedisce affatto, anzi rafforza, la scommessa del riconoscersi all’interno di un sistema chiuso quale sorprendentemente finisce per rivelarsi, in forza della stessa arbitrarietà ed e/normità che lo sottendono, quello verbale. Parimenti registreremo la novità che in questo volume costituisce l’adozione, in aggiunta al punto fermo (unico segno d’interpunzione usato finora nei versi) delle virgolette, del trattino di distacco, del punto interrogativo; fenomeni che interpretiamo come sintomi di approfondita confidenza con la materia, la quale appare aver così reclamato ulteriori interventi morfologici e grafici. Ci pare infine che dall'esame, sia pure rapido, di questa fase dell’opera di Cacciatore esca confermata la nostra opinione sul tipo di operazione che egli è venuto conducendo: incantamento e sortilegio, sortes, orfismo e pitagorismo, escatologia e soteriologia sono termini che meglio di altri si addicono ai fini dell’autore, il cui immane sforzo ha dato fondo a quello spessore di aderenza nel mondo che sono le parole.

LO “SPERIMENTALISMO COMPIUTO” DE LA PUNTURA DELL’ASSILLO Francesco Muzzioli

La nozione di sperimentalismo non è mai stata intesa come meccanica trasposizione in campo letterario delle procedure scientifiche, a indicare una mera funzione dimostrativa del testo o un controllo assoluto sui suoi modi ed effetti, che li riducesse in termini calcolabili.

Così come è apparsa negli anni Cinquanta (nei saggi pasoliniani di «Officina») e così come poi è stata dibattuta nell’ambito del Gruppo °63 (avendo, in alcuni casi, addirittura la meglio sul termine avanguardia); così come, infine, appare ancora oggi fungibile in alternativa ai miti romanticheggianti dell’incommensurabile ispirazione poetica oppure dell’appiattimento su di un vissuto terra-terra, la nozione di sperimentalismo sembra piuttosto rinviare alla ricerca impregiudicata, all’attenzione inventiva, e alla messa in mora, non già delle condizioni esterne, come sarebbe in un semplice trasferimento del modello scien-

tifico, quanto piuttosto propriamente delle condizioni istituzionali, delle pratiche scontate e consolidate (potremmo aggiungere: delle stereotipate regole di mercato che tolgono alle scritture più recenti slancio e spirito d’avventura). Insomma lo sperimentalismo in letteratura ha a che vedere, più che con l’esattezza di una misura e di un computo, con l’esplorazione di soluzioni incognite; e in questo si incontra con l’avanguardia, nozione che anch'essa contiene qualcosa di “esplorativo”, rimandando nel suo stesso significato letterale (più ancora che al distanziamento dal “grosso” dell’esercito, cioè al mito del “nuovo” in sé e per sé), alla infiltrazione insidiosa e problematica in un territorio avverso. Che uno sperimentalismo siffattamente “in ricerca” sia confacente alle operazioni poetiche di Edoardo Cacciatore e in particolare alla sua raccolta La puntura dell’assillo (1986), è quanto proverò a verificare qui. Partendo magari da una risposta alle obiezioni che affermassero l'opposto, cioè la non pertinenza dello sperimentalismo in primo

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luogo nella poetica dell’autore e in secondo luogo nello specifico contesto della Puntura. Obiezione la prima che potrebbe avvalersi a buon diritto, in particolare, di una conferenza di Cacciatore (ora raccolta

nei Carichi pendenti, 1989) che tocca il tema e vi riflette a lungo sopra. Conferenza dal curioso titolo de // matematico cleptomane, ma dal sottotitolo, L’Esperienza totale e la parzialità degli esperimenti, in cui — a tacere della maiuscola che spetta a uno solo dei due termini — subito si staglia la superiorità dell’“Esperienza” sull’“esperimento”, almeno di quanto il “totale” la vince sul “parziale”. La data della conferenza è il 1969; e quindi essa può suonare da risposta a tutti gli sperimentalismi allora già quotati, da quelli officineschi a quelli neoavanguardistici. Ma occorre guardare a fondo nella polemica di Cacciatore con lo sperimentalismo («Sperimentalismo... Quanti delitti in tuo nome!», egli scrive); anche perché in un autore come lui, tanto propenso al valore conoscitivo e alla pregnanza filosofica e di pensiero, è ovvio che non è in questione — come sarebbe in una requisitoria di tipo neocrociano — la partecipazione dell’intelletto all’opera di poesia. E, infatti, è proprio il contrario: a un certo “esperimento” letterario viene imputato non un eccesso, ma una carenza «di carica noetica e morale»; in

altre parole, è parziale lo sperimentalismo che si ferma troppo presto, che si accontenta del procedimento e si limita ad applicare e ripetere Il suo ritrovato. E molto chiaro, Cacciatore (e deroga preventivamente dalle successive tentazioni postmoderne al panlinguismo), quando dice che, mentre un «poeta dell’esperimento» parte dal “linguaggio” e si attacca ad esso, il «poeta dell’Esperienza totale» parte dal “corpo” e «il linguaggio allora non è che una prolungazione, e un allargamento, del proprio corpo in infinitum». Anche se, nel corso dell’analisi, potrebbe trovare appigli una posizione tradizionalista che veda l’accesso all'“Esperienza totale” come prerogativa del grande artista di ogni epoca (a detrimento delle tendenze di “rottura”), rimane assai significativo l’ultimo paragrafo, dedicato al Finnegans Wake di Joyce, dove non equivocamente lo sperimentalismo (addirittura «il libro più catastroficamente sperimentatore e sperimentale») guadagna senso e compimento: «L'esperimento — scrive a quel punto Cacciatore —, via via che si secerne, è interamente x

risucchiato e assimilato in quella

Lo “sperimentalismo compiuto” de La puntura dell’assillo

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complessa spirale di funzioni che è l’Esperienza». Con il che l’esperimento letterario, definitivamente strappato al piccolo cabotaggio formalista (e a un’idea della tecnica come valore autonomo), recupera le sue “cariche” alternative e le potenzia: e allora, voglio dire, la polemica di Cacciatore (che sia o no rivolta agli sperimentatori AUDI contemporanei) ci aiuta davvero a procedere nella direzione di uno “sperimentalismo compiuto”, dotato di grande forza e carica antagonista.

Tuttavia (ribatte adesso il secondo ordine di obiezioni), proprio La puntura dell’assilloè il testo meno sperimentale di Cacciatore. Questo è vero ma, appunto, soltanto sul piano squisitamente formale: sul piano squisitamente formale, e in confronto alla ricchezza di soluzioni — che so — de Lo specchio e la trottola, la Puntura è tutta giocata su di un’unica impostazione strofica e metrica, di tipo apparentemente non innovativo. Si tratta, infatti, di una catena di sonetti (sonetti “elisabettiani”, e quindi deroganti dalla tradizione autoctona; ma pur sempre una forma fortemente “canonizzata”, e regolare nel ricorrere delle rime), con un verso lungo costante (senario doppio, e quindi derogante dalla misura orecchiabile dell’endecasillabo, ma pur sempre più comune e meno “dissonante” di altri versi lunghi cacciatoriani). Naturalmente, una risposta a questa obiezione dovrà attraversare l’intero testo; ma intanto sarà possibile rifarsi all'argomento precedente: infatti, se per Cacciatore lo “sperimentalismo compiuto” si basa sulla ripulsa della “separabilità del procedimento”, sarebbe un ben cattivo modo di cominciare a verificarne la realizzazione, il partire proprio da procedimenti resecati e astratti dalla complessiva produzione di senso. Partiamo, invece, da una domanda che coinvolga il senso del testo

nel suo insieme. La puntura dell’assillo è un libro di piccole dimensioni, cosa insolita per Cacciatore: già altre volte egli aveva presentato sonetti o catene di sonetti (La restituzione ne contiene una di ventuno componimenti, intitolati alle lettere dell’alfabeto; di sonetti Lo spec-

chio e la trottola ne allinea venti; vari se ne trovano sparsi in Ma chi è qui il responsabile?), ma sempre come parte interna a un’opera multiforme e più ampia. Come mai questa volta i sonetti (sia pure portati al numero di cinquantuno) sono ritenuti in grado di reggere da soli il peso di un volume? Dal poeta della “Esperienza totale” non ci si può attendere qualcosa di monco: perciò la risposta dovrà essere cercata nel-

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la capacità di concentrazione; cioè nella presenza, in breve spazio, di un progetto soddisfacente l’interezza. Di fatto, sebbene snella, la ca-

tena di «cinquanta ed un sonetto» sopporta in pieno il peso e la responsabilità del volume: essa si costituisce addirittura come summa, sintetica eppure esaustiva, del pensiero e della visione del mondo dell’autore, che vi assiepa e fa muovere tutte le sue tematiche principali. A partire dall’avvisamento dell’«Energia» nel suo incessante e imprendibile movimento in divenire («L’urgente Energia che in là già si sposta») e che lascia dai suoi cascami formarsi la realtà («Realtà sempre sdrucciola sembra che stia / Perfetta sugli attimi va l'Energia»), si sviluppa la concezione dell’“alterazione” che tocca ogni tipo di materia, da quella inorganica («s’àltera e in fretta / L’ossigeno semplice è putrido azoto») a quella organica e umana («Ti svisi ed àlteri sempre altrimenti»), nella quale il pensiero reagisce ai colpi e alle “scosse” dell’energia e risponde al suo “assillo” («Pensare è sorreggere i transili schianti / Secondo l’assillo che punge ove smania»), sia adattandosi nelle more o pause e negli spazi di mediazione al modo del “Senso Comune” («Fanciullo prodigio il Senso Comune / Gli assurdi apparecchia in provvidi agi»), sia proiettandosi più decisamente nella precarietà del mondo “Esterno” («L’Esterno da fermo già varia e si spiazza») e della collettività sociale («sei multipla folla»), in quell’approssimare l’energia e “restituirne” l’azione che è il momento di maggiore pienezza vitale o “pleroforia” («È pleroforia il vivere adesso»), risentito nella stessa “percussività” ritmata («Ne fa un continuo di battiti immenso»; «dà meraviglia / L'insieme degli itti») del discorso proprio della poesia. Naturalmente questo riassunto schematico — che non fa rina alla ricchezza e alle sfumature della filosofia in versi di Cacciatore — serve solo a rendere intuibile la presenza, nella Puntura, di una problematica generale che è quella su cui l’autore insiste fin dalle prime opere (e, forse, ancor prima; come sarà possibile appurare solo quando verranno raccolti e saranno consultabili l’epistolario e l’archivio manoscritto). Ma non c’è bisogno di ricerche filologiche o di dati computerizzati (che pure sarebbero utilissimi e auspicabili) per rendersi conto della costanza di certi temi, che attraversano i testi cacciatoriani

da L'’identificazione intera («Ad oltranza, tutto è in preda all’alterazio-

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ne»), dai Graduali («Realtà è sempre in preda all’alterazione») e dalla Restituzione («Amici tutto è in preda all’alterazione») fino alla Puntura dell’assillo. Nel cui tessuto, del resto, non mancano di comparire cita-

zioni esplicite dall'opera precedente, a testimonianza di una intenzio-

ne di bilancio e consuntivo; ivi compreso il titolo. Per la verità il titolo,

quella puntura dell’assillo, è addirittura una citazione “esterna”, ripresa da un classico moderno come Giovanni Pascoli. Ebbene sì, proprio Pascoli, rimasto nella tradizione (e lì consacrato) con una maschera patetica che parrebbe quanto mai lontana dal piglio filosofico e dalla vitalità inesausta del nostro Cacciatore. Eppure, dal Pascoli più leopardiano del Ciocco, è prelevata la «puntura dell’eterno assillo» che muove il pianeta terra nella sua «corsa vertiginosa» nel cosmo; è prelevata, come si vede, previa l’espunzione dell’aggettivo “eterno” e dunque a scanso di qualsiasi rassicurazione metafisica (con deroga da Pascoli, quindi). Ma la ripresa passa, per giunta, attraverso l’autocitazione, perché l’espressione era già stata assimilata nel contesto di Ma chi è qui il responsabile? (precisamente, per chi volesse rintracciarla, a p. 211: «Chi immune risulta? ripunge l’assillo»). E se un tassello testuale sparso assurge ora alla dignità rappresentativa del titolo, inversamente titoli di altre opere vengono qui fusi e risemantizzati nel continuum poetico: troviamo così «In più il pensiero conduci dal dire / al fare», e Dal dire al fare è il titolo di un lungo saggio pubblicato nel 1967; e troviamo per ben due volte la formula iterativa «itto itto», che è il titolo del voluminoso scritto teorico, uscito nel 1994 ma elaborato

da Cacciatore in parallelo alla Puntura. Proprio Itto itto è necessario tenere a fronte per comprendere a fondo il progetto de La puntura dell’assillo. I due libri infatti sembrano spartirsi i ruoli: e tanto la Puntura si contrae, concisa ed ellittica, quan-

to inversamente /tto itto rinverdisce i fasti del trattato ingente, per altro non alieno dal disseminarsi in una serie pressoché infinita di po-

stille (o, come li chiama l’autore, di Rinforzi). Dire che Itto itto sta a La puntura dell’assillo come L’identificazione intera stava ai Graduali e alla Restituzione, e cioè come versione in prosa di pensiero dispiegato ma altrettanto “discorso a meraviglia” equivalente del pensiero concentrato nei versi, è ovvietà fin troppo scontata, date le coincidenze: né sarebbe corretto assumere Itto itto soltanto come poetica esplicita e testo

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di soccorso per la lettura delle poesie. La cosa più utile è un confronto alla pari: e l’importanza di /tto itto, destinato probabilmente ad affermarsi come massimo vertice della riflessioné di Cacciatore, non mi pare intaccata dal rilevamento delle consonanze con La puntura dell’assillo. Consonanze profonde e d’insieme, certamente, ma che possono

essere subito riscontrate in una fitta intertestualità di rimandi e di imprestiti reciproci che — in attesa, anche in questo caso di doverose ricerche e magari della compilazione di una concordanza se non proprio di un completo lessico cacciatoriano — siamo già in grado di esemplificare ampiamente. Non si tratta solo degli agenti principali, quali l’“Energia” o l’alterazione, ma ricorrono locuzioni particolari come il «saliscendi ilare» (titolo del sonetto VIII) che si imparenta al titolo di un paragrafo di /tto itto: «L’Energia è saliscendi ilare» (parte I, par. IV). «Un parlatorio a denti stretti» è nello stesso tempo titolazione del sonetto che apre la Puntura e del paragrafo XVIII della parte I di /tto itto. E ancora il già citato “Senso Comune”, visto come «fanciullo prodigio» è pure in /tto itto (nel titolo del par. LXI della parte 1). Termini assai particolari, come “buriana”, “gibigianna”, “scilacche”, o il verbo

“brieggiare” circolano liberamente tra i due testi. E si potrebbe continuare davvero molto a lungo. Basti pensare che, se «itto itto» è formula implicata nel testo della Puntura, non meno l’«assillo» è implicato nel testo di /tto itto (dove si parla del «pungimento e puntualità d’assillo», precisamente a p. 59). Ma lasciamo qualcosa da fare, e non da poco, alle future ricerche. Per il momento e per quanto mi riguarda, ritengo prioritario intervenire sul modo di configurarsi di questa scrittura poetica di Cacciatore che è, anche rispetto alla sua elaborazione precedente, estremamente sintetica. Non però, si badi bene, piattamente riassuntiva. Se il

pensiero cacciatoriano non è mai stato passibile di schema o di sistematizzazione forzata, qui meno che mai. I ristretti spazi della sintesi non inducono minimamente a una riduzione della complessità. Una ragione vince su tutte: la scrittura che afferma e ribadisce le qualità vitali dell’energia, e insieme i suoi caratteri trascinanti di ritmo e di urto,

non può limitarsi o soddisfarsi nell’essere una mera enunciazione del “tema” dell’energia; deve e vuole essere energia in atto, e quindi non esita a sottoporre se stessa per prima alla puntura di un assillo che non

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desiste dal riaprire continuamente i giochi. La ripartizione in sonetti non vale e non può valere a resecare la materia e a disporla in caselle; certo, in ogni singolo sonetto la materia del pensiero e della poesia tende a coagularsi attorno a qualche tematica e a concentrarsi verso un qualche tentativo di identificazione e di definizione: tuttavia tale movimento tendenziale non attinge né prevede punti d’arrivo e stasi definitive più di quanto, all’inverso, non accerti e promuova un continuo e inesausto rilancio, un vero e proprio soprammercato, dei suoi stati e delle acquisizioni raggiunte, perciò sempre provvisorie. Da un lato, in ciascun sonetto può facilmente rintracciarsi un andamento circolare che dallo spazio d’avvio dei primi versi e spesso già dal titolo, perviene poi alla coppia finale dei versi tra loro rimati come ad un punto di compendio, una “forca caudina” in cui il senso è messo alle strette e obbligato ad esporsi. Come attestati di questo processo: il sonetto III che s’intitola Fulmineità del linguaggio, e inizia con «Zonzeggia il linguaggio...» e conclude riprendendo sia il motivo del fulmine che quello del movimento dispersivo («Va il fulmine ormai che fu così spiccio / Su sillabe a zonzo non dà raccapriccio»); il sonetto XVI, che presenta nel titolo L’atroce maniglia e nel primo verso «i gatti che gemono...» e li ripresenta al termine («Si chiamano i gatti ed insistono — sosta / L’atroce maniglia e vuoteggia in risposta»); e ancora (ma i casi sarebbero tantissimi) il sonetto XXXVI, Combini, che si apre con «Scilacca scilacca Energia dispensa», ribadendo infine «Scilacche ha Energia il capo noi chino / Spostiamo matricole a farne un combino». Ma questa circolarità non induce chiusura, come del resto si rileva dal fatto che ogni tematica, anche quella indicata nel titolo, evade da qualunque confine parziale per circolare in modo extravagante e irregolare per tutto il testo. In più, altrettanto rimarcato del rapporto tra avvio e termine del sonetto si dimostra il rapporto tra la fine del sonetto e l’inizio di quello successivo ad indicare esattamente un processo di riapertura della pratica scrittoria. Tra i molti esempi che si potrebbero trarre, valgano quelli dei sonetti XVII-XIX (l'uno termina: «Ostenta un profilo che va difilato / Si spiccica l’attimo senza più iato»; l’altro incalza: «In faccia stampato non ha quel che fece / Da fermo moltiplica i vari profili» — dove si noti il raggiungimento della identità nel “profilo”, subito esploso nella molteplicità del plurale “profili”); e dei

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sonetti XLVI-XLVII (al «pensare è l’esatta misura» nel finale dell’uno, risponde «Pensare è allegria» in avvio dell’altro — dove si noti il ribaltarsi immediato dell’ordine in disordine, del “rigore” nell’“estro”). Questa riapertura della fine in un inizio che avvia nuove possibilità viene esplicitamente promulgata da Cacciatore in alcuni punti chiave de La puntura dell’assillo. Già nel sonetto VI: «Aritmesi incede bensì a precipizio / Via via ricapitola fine ed inizio»; e forse ancor di più nel finale del sonetto IX, che afferma la non conclusività di ogni arrivo: «Ma tappa è illusoria raminga una crepa / S’inghiotte il traguardo che fu diversivo». Di fronte all’attività incessante dell’energia, qualsiasi tappa o sosta o stato o meta (Di meta in meta è V’eloquente titolo del sonetto XIII) è da ritenersi appunto “illusoria”, un “diversivo” rispetto al movimento che prosegue. Lo esprime con forza anche il sonetto dedicato al mare (XXVII), con quegli «itti frementi» che determinano il ritmo contraddittorio di una «smossa sequenza» senza termine: «Sì il centro elargisce arcicolma accoglienza / Ma accoglie ed augura buona partenza». Altrettanto ogni nucleo tematico non sta lì come un dato sostanziale ma piuttosto al modo di un nodo di smistamento dinamico. Il principio di “alterazione” deve attivarsi su tutti i piani e i livelli del discorso poetico. La scommessa di Cacciatore, ne La puntura dell’assillo, consiste proprio in questo: nell’assumere una forma regolare, ma agitando al suo interno ogni possibile elemento di tensione, per la verità utilizzando sempre procedimenti rinvenibili nella tradizione, però condotti a una tale esorbitanza quantitativa e potenziamento qualitativo da costituire per sovrapposizione esiti imprevisti e decisamente “fuori” dalla mediazione moderata di cui la tradizione è latrice. Vediamolo, procedendo di livello in livello (anche a costo di correre il rischio di una qualche scolasticità: perché, se non è corretto separare del tutto gli ordini operativi, una distinzione relativa ci sarà utile a capire la ricchezza e la vastità dell’intervento di Cacciatore sul linguaggio). Per cominciare, sul piano della testura fonico-sonora, si è subito col-

piti dalla complessità diffusa delle ripetizioni e dei rimandi. Non si tratta solo delle rime, anche se certo la ripresa della rima è dispiegata e globale (e altre ricerche future potranno ben riguardare il sistema delle rime ne La puntura dell’assillo, e ancora meglio, in toto, il rimario

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cacciatoriano). Un fenomeno che si può notare, per l’intanto, è che spesso tra le sette rime del sonetto ve ne sono alcune di suono prossimo e simile: prendiamo il II che inizia con “dillo”/fassillo” e termina con “scintilla” e ancora “assilla”; oppure il XLVII che all’alternanza “eto”/“ito” (“divieto”/“abolito”/“lieto”/ “trito”) fa seguire nella coppia finale ancora “eto” (“inquieto”/ “divieto”). Sembra insomma che Cacciatore non voglia predeterminare in assoluto la differenza dei moduli rimanti, ma che lasci emergere i suoi nuclei sonori dall'andamento testuale, in omaggio del resto alla processualità dell’esperienza poetica. Basti pensare che l’autore, in sede di dichiarazione (ed esattamente nel fondamentale intervento Intorno alla poesia e all'uomo moderno, collocato davanti a Lo specchio e la trottola), ha attribuito alla rima una funzione esattamente contraria al prevedibile parallelismo, e — paradossalmente, ma non tanto — contraria anche all’idea di una precisa ed ermetica “chiusura” della forma: «Le rime, questi acustici ingegni ed

inganni ottici, questi congegni di ardito contatto, hanno poi una funzione di apertura. Scattano al modo di cerniere, e le forme chiuse,

dentro cui è stato messo in serbo un senso preciso, si aprono infinitamente verso proiezioni accrescitive» (ora ripreso in Carichi pendenti, pi35): Ma, oltre alle rime, assistiamo al moltiplicarsi di collegamenti sva-

riati, che possono porsi ovunque, anche all’interno (all’interno della parola e all’interno del verso: «L’arsura attizzata intrattiene la mente / Centellina assiomi bizzarri li sente», sonetto XII; con miei corsivi, co-

me sotto); ma che divengono maggiormente significativi in quanto riproducono quella dialettica che indicavo tra ciclicità conclusiva (inizio-fine) e riapertura (fine-inizio): ecco accade allora che la somiglianza del suono colleghi la prima e l’ultima parola del verso («E rete stradale ramifica mete», sonetto XIII); oppure che un gruppo si reduplichi quasi a rejet nel passaggio al verso seguente («La voce si torce divincola strappa/applausi...», sonetto XVI). Per virtù della sinteticità del testo, anche le sonorità vengono gettate in una promiscua vicinanza, da cui sortono avvicinamenti e rimbalzi da paronomasia, che fungono da efficacissime e folgoranti formule. Tali la «noetica naca» (sonetto XX), la «ilare collera» (sonetto XXII), la «urgente Energia» (sonetto XXVI), il «nitrito nutrito» (sonetto XL), e molti altri, comprendendo

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in questa rubrica anche il bisticcio tra “immune” e “immane” («Ma immune la Mneme ora è immane...», sonetto XXXIV), distanziato e però di grande forza proprio perché riguardante lo svolgersi dello stato della memoria, riprodotto nel cambiamento della lettera. Questi interventi — lo si tenga ben presente — si accendono nel contesto di una ricerca complessiva di ritmo che, così come può fare ricorso all’accentazione delle parole (ad esempio, nel sonetto L, l’infilata delle sdrucciole: «È iride tremula su transile bolla»), ugualmente si attesta sull’insistenza sonora dell’allitterazione («A sagoma astratta di soma sei senza» , sonetto VIII; «È inoltro nel migma intrinseco in-

triso» , sonetto XXXV); fino a veri e propri versi-scioglilingua che tendono il risalto onomatopeico al limite della pronunciabilità («A schiocchi su sé a gloglotta l’aorta», sonetto XXXII). È la sinteticità, ancora, che a livello sintattico determina una costruzione compatta e audace, sorretta dalle risorse dell’ellissi e dell’intarsio, e tanto più resa polisensa dall’eliminazione della punteggiatura

(ridotta prevalentemente al trattino di interruzione). A livello dell’analisi sintattica, si possono innanzitutto rilevare fenomeni di posposizione: del soggetto rispetto al predicato, del verbo rispetto al complemento, della subordinata rispetto alla principale, che fungono pure da accentuatori dell’ambiguità semantica. Esempi: «Nel vento si squassano palme...» (sonetto XXII); «Matricole inerti spostiamo...» (sonetto

XXXVI); «Ritorta su sé l’Energia già pensi». Significativa diventa l’inversione soprattutto nei casi in cui sopravviene su una definizione in corso: «ustorio ecco è specchio...» (sonetto XI); «volubile è giostra»

(sonetto XVII); «Pedissequo è l’urto» (sonetto XXXVIII); «Amabile è l'incubo» (sonetto XLIX): qui, in particolare, determinando proprio nella sede del risultato conoscitivo uno scambio di posizioni e uno scarto sorprendente. In modo non dissimile agisce l’enjambement che, oltre a poter.essere messo in conto della dinamica della riapertura, produce, assai sovente, una deviazione piuttosto forte rispetto alle attese di senso predisposte. Quando viene rimandato accapo un importante elemento esplicativo, il rincalzo dell’inarcatura non vale solamente da raccorciamento ritmico, ma costringe la decodifica a mutare il piano delle sue ipotesi. Prendiamo il sonetto XIX: «Ottieni e ridai agli altri una spinta

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/ Retrograda...» e vediamo come un tratto assai importante qual è la direzione del movimento (che non va in avanti, come si sarebbe potuto credere, ma precisamente al contrario) viene tenuta in serbo per dare incentivo al ripensamento. E prendiamo anche il sonetto XLVII: «...l’atroce divieto / di uscire da sé resta lì — abolito / non è...», dove, se

il primo enjambement contiene una importante specificazione del divieto, colpisce ancor più il secondo che inverte il senso dato (è per giunta una negazione di una negazione e quindi fa tornare al prima, al

“restare lì” del divieto); e il sonetto LI: «Trattenga di sfioro lo svelto passante / Che sei...» (e abbiamo, qui, l'aggiunta dell’identità attribuita a un polo dell’enunciazione). Scarto e sorpresa si fanno consistenti, di nuovo, se ad essere “rigettato” al verso sotto è un elemento che vira il contesto in senso metaforico. Così «la sparsa zizzania / dei sensi» (subito al sonetto I) ci sposta dalla visione prativa all’ambito della sensibilità umana; o «innalzi una scala / armonica» (sonetto XXV) ci dispensa dall’arrampicata su pioli per avviarci invece a una considerazione musicale. Sintassi della distorsione, ma soprattutto — per via della necessità di concentrare — sintassi del “sottinteso”, che pone spesso di fronte ad ambiguità interpretative. Come leggere, ad esempio, la parte finale del sonetto XXXII in cui l’assillo che tiene in movimento i pensieri trova a corrispettivo, per laconica apposizione, una corsa di cani? «Si muove l’assillo e difatti i pensieri /Che fermi credevi perché ci si giovi / Realtà ora insegnuono — nulla i levreri...»: certo, i levrieri corrono con prorompente energia, tuttavia non è facile decidere se la costruzione ellittica preveda semplicemente l’omissione di un parallelo “inseguono” (i pensieri inseguono la realtà, mentre i levrieri al contrario corrono dietro al nulla), oppure vi si trovi un più complesso confronto (rispetto alla velocità con cui il pensiero insegue la realtà i levrieri sono nulla). Entrambe le ipotesi sono probabili e concorrono ad un aumento di spessore linguistico. Con queste notazioni si è già intaccato il livello semantico, nel quale ha da accamparsi, non c’è dubbio, la considerazione delle scelte lessicali compiute da Cacciatore. Qui non se ne può dare che un rapidissimo conto (il lessico cacciatoriano essendo, come detto, altra monu-

mentale opera da promuovere a parte). Ma, pur rapidissimamente, va

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segnalata l'estrema varietà dei codici e dei registri di provenienza delle parole, nonché il recupero inventivo compiuto in questo contesto poetico. Quanto al ventaglio plurilinguistico, si va dalle culture classiche nei termini di origine greca (assai importanti, come “aritmesi”, “metabole”, “pleroforia”, “migma”, quest’ultimo preferito al più corrente “magma”, e più precisamente riferibile allo strato profondo, misto di solido e liquido, della metamorfosi delle rocce) e di origine latina (soprattutto in attributi, ma di valore centrale per l’attività dell’energia: “transile”, “flussipede”, “ubiquitario”). Di origine latina è anche un altro termine di grande importanza come “itto” (da “ictus”), il quale però appare filtrato dall'ambito medico (al pari di “embolo”, “infartuare” ed altri). Scegliendo verso il basso dei registri lessicali, troviamo un buon numero di presenze provenienti dal linguaggio tecnico, artigianale-industriale

(‘“cote”, “fresa”,

“martellinare”,

‘“addentellare”,

“calettare”). Per giungere al settore delle parole dialettali (“a ramengo”, “scavizzolare”, “strafalaria”, compresa la “gibigianna” già adottata da Rebora); delle insorgenze onomatopeiche (“scilacca”, “gloglottare”); dei vocaboli tratti dall’uso parlato (‘“uffa”, “trallerallera”). Né va dimenticato il settore relativo alla creatività. Non che Cacciatore inventi le parole; malgrado la stima per il Joyce estremo, qui non ci sono parole-valigia o macedonia: ma i termini rari o del tutto nuovi Cacciatore li ottiene utilizzando nuclei preesistenti, con lo spostamento delle funzioni, tipico il fenomeno dei verbi derivati da sostantivi (quali “zonzeggiare”, “vuoteggiare”, “brieggiare”: tutti con moto iterativo). Non ci si stupisce di rinvenire anche lo spostamento contrario, cioè di particelle sostantivate, in particolare avverbi; anche

se qui non c’è neologismo ma solo una originale risemantizzazione del linguaggio. Abbiamo: «procrastina ogni frattanto» (sonetto XXVI); «febbribile è il senza» (anche titolo del sonetto XXXI); fino a un verso come «Pensare ad agire è l’esatto suvvia» (sonetto XLIX), dove, se intendo bene, l’innesto del pensiero nell’azione assume il valore di un movimento di esortazione (è un “suvvia”), il quale stesso in quel momento si sta muovendo dal suo uso consueto (come se non bastasse, nel verso successivo a essere sostantivata è persino una lettera: «Hai dietro le spalle la vu di una scia»). Ma in generale si può dire che la risemantizzazione è la sorte di

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ogni parola: da dovunque provengano, nobili o plebei, tutti i termini diventano unità di un discorso che li traspone nel teatro dell’allegoria. E per questo che, né l’ottica stilcritica che si attestasse sul rilevamento della deviazione dalla norma, né l’impostazione strutturalista che calcolasse le connotazioni o i “semi secondari” per verificare correnti di significato (o “isotopie” che dir si vogliano greimasianamente), potrebbero operare su un testo del genere senza perdere contatto dal piano decisivo della enunciazione e della sua forma-pensiero. E quindi necessario affrontare il problema del “teatro allegorico” che la poesia di Cacciatore mette in scena, oppure, in altre parole, della sua dialettica. Abbiamo già dato indicazione, delineando per sommi capi il pensiero cacciatoriano, dei principali attanti: l'Energia anzitutto («Realtà sempre sdrucciola sembra che stia / Perfetta sugli attimi va l'Energia», sonetto XXVII; «A strappo i suoi gesti realtà non razzìa / Inzeppa le scosse che dà l'Energia», sonetto XLI), ma anche la Mneme («Immune è la Mneme ben più che l’amianto», sonetto XXXIV), o il Senso Comune, che abbiamo visto apparentare a un brillante «fanciullo prodigio». Facoltà o qualità concettualizzate sono spesso elevate a soggetti dalla lettera maiuscola, proprio quella richiesta dalla tradizione dell’allegoria (ma anche con la minuscola ne circolano in gran numero: il linguaggio, i sensi, gli itti, l’assillo, l’aritmesi, la realtà, l’ozio, l’intelletto, ecc. ecc.).

Se l’allegoria si rilancia nel romanzo medioevale come personificazione delle forze psichiche e del loro contrasto, nella tarda modernità propria di Cacciatore essa ha compiuto un bel tragitto che la strappa del tutto da una pura illustrazione dell’interiorità: come non è possibile determinare quanto dell’energia sia all’interno e quanto all’esterno (tanto più che l’Esterno — a sua volta in maiuscola — compare tra gli attanti principali), e non per nulla il sonetto conclusivo (il LI) sfrutta l’assenza di punteggiatura per sottolineare questa ambiguità («Briéggia entro te l'Energia là fuori / Così percussoria...»), così gli attanti condensati dal lavoro mentale della teoria si intrecciano e si interconnettono con persone e oggetti e “occasioni” dell’esperienza; e tanto meno diventa possibile ordinarli in qualche ben connesso “quadrato

semiotico”. Il soggetto umano non è soltanto la scena entro cui dibattono impulsi ed istanze, ma è egli stesso sulla scena, oggettivato tra es-

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se. Né è di secondaria importanza che non si tratti mai di prima persona: o “tu” interlocutorio, o “noi” collettivo, o “si” impersonale, l’i-

dentità si disperde nei movimenti della materia; è, al massimo e per l’appunto, un “chi” ipotetico, riempito precisamente dall’esecutore. momentaneo di una determinata azione. Così, ad esempio: «Chi pensa ha l’assillo...» (sonetto I); «Chi gode ad avere già esclama...» (sonetto XXXIII). La prevalenza del “tu” può essere, a sua volta, indicativa: proprio perché il “tu” assembra una duplice funzione e non si può mai dire con certezza se figuri da alter-ego oppure se chiami in causa il lettore, ciò attiva con ulteriore evidenza la dialettica interno/esterno.

Tutti quanti i soggetti-attanti (astratti o concreti che siano) sono poi coinvolti nella dinamica dell’“alterazione”. Ciò vuol dire che il senso si concentra sulla predicazione e sulla relazione attiva tra le entità messe in gioco. Il verbo (ovviamente al presente, tempo del divenire in

atto) imprime al tessuto poetico l’assillo del moto, della frenesia, del cambiamento, del radunarsi e disperdersi, dell’essere trascinati (con

una certa frequenza compare il termine “preda”), del ricevere colpi e strattonate (nei modi di una discontinuità ineludibile: “a stratto”, “a rotta di collo”, “a precipizio”; e “d’acchito”, “a sprazzi”, “isso fatto”).

Ora, l’azione conduce nella concretezza: essa smaga e demistifica V’iperuranica serenità delle idee, perché anche dove magari lavori di consolidamento, non di meno le contamina e le coniuga e, esponendole a rischio di qualche “nastro scorrevole” o “giostra”, le mette in agitazione se non proprio alla frusta. Astratto/concreto,

sensi/intelletto,

interno/esterno,

pausa/movi-

mento (o, come abbiamo già rilevato: fine/inizio): ecco già un buon numero di coppie dialettiche che si affrontano senza conciliazione, ne La puntura dell’assillo. Si potrebbe aggiungere anche: definizione/trasformazione. Infatti, la poesia-pensiero di Cacciatore è mossa da un furore definitorio tendente a predicare l’essere (basta pensare che l’intera sequenza si apre con una definizione del pensiero stesso: «Pen-

sare è sorreggere i transili schianti» , sonetto I), in modo da conseguire alcuni fondamentali nodi conoscitivi. Su questo aspetto l’inventario sarebbe amplissimo, e casi assai numerosi sono di momenti definitori situati in quei punti nevralgici del tessuto poetico che sono l’abbrivio e il distico finale dei sonetti (in abbrivio: «Cascame è realtà...», sonetto

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XXXVIII; «Sentire alla lunga è esperienza assai vieta», sonetto XLIV; nel distico finale: «Sgomento è buriana la più strafalaria», sonetto XXII; «Potere è solfeggio in comune...», sonetto XXIII; «Pensare è

adorabile coito d’amore», sonetto L). Ora, la dichiarazione dell’essere può venire interpretata, certamente, nel quadro anti-retorico del rifiuto del paragone con la copula («Non più dovrai dire come o mi sembra», si leggeva già nei Graduali) tendente a stabilire il rapporto pienamente coinvolto della identificazione intera dei due termini; ma altrettanto certamente entra qui in campo una questione centrale: predicare l'essere vuol dire immergerlo nell’“alterazione” («Ti àlteri e agisci altrimenti è la legge / Dell’Essere...», sonetto XXI); in Cacciatore, non tanto di “essere” si parla, quanto propriamente di “essere per essere” (come “futuro anteriore”: «Tu fosti e contrai futuro anteriore», sonetto L). Se una cosa è un’altra, ciò significa che diventa, si modifica, si trasforma. Allora sarà normale l’uso del verbo “essere”

nel senso di “divenire” («...s’àltera e in fretta / L’ossigeno semplice è putrido azoto», sonetto XVI); nonché il connettersi della definizione con la trasformazione siglata soprattutto dall’attività del “fare”, che intervenendo su altro o su se stesso (secondo le varianti “farne”, “farsi”) pone l’universo poetico cacciatoriano sotto il segno del diuturno e incessante lavoro («Ne fa un continuo di battiti immenso /... / L’assillo in silenzio si fa parlatorio», sonetto I; «Il più renitente si fa ubiquitario», sonetto XIV; «Sussulto si fa quasi bocca che morde», sonetto

XXVI). In questo succedersi di metamorfosi, se è vero che Cacciatore assume spesso il tono poetico dell’euforia vitale, dell’espansione e della pienezza “pleroforica”, non meno presenti, e dialetticamente, sono le istanze critiche: l’attestazione dell’essere si stampa a detrimento del negativo, delle ipotesi scartate («Non sei ormai più una scaglia / Sei battito al colmo...», sonetto II; «Non va alla deriva volubile è giostra»,

sonetto XVII); si staglia sulla svalutazione dell’apparenza («Sì estro ti sembra è rigore...», sonetto II; «...sembra razione / A peso ed invece è zampillo in piena», sonetto XL), e soprattutto sull’annullamento della credenza con uno svelamento strettamente imparentato alla critica

dell’ideologia, come possiamo rilevare soprattutto dal sonetto XXXII:

«Si tiene per fermo che l’oggi è un sito / Tenuto a podere per dare i suoi frutti / Quel luogo già scorre... / ... /...i pensieri /Che fermi credevi

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perché ci si giovi /Realtà ora inseguono...» (dove l’attacco a ciò che è “fermo” sfrutta l’ambivalenza linguistica per mettere in scacco la staticità dell’opinione). La funzione critica può venire assolta nei modi dell’eccezione avversativa («Realtà è cemento è asfalto ma sdrucciola», sonetto IX; «In corpo ci sei ma non avvantaggi», sonetto XXXVII), oppure in quelli dell’accrescimento debordante («Nel gran visibilio sei più che scintilla», sonetto II; «Sussurro è più vero che tu rammentassi»,

sonetto

XLVI); ma certamente una forte efficacia di stacco possiede l’opposizione dell’“invece” che leva alla radice il significato acquisito, volgendolo verso la soluzione alternativa («Si ruota a tre quarti e l’effetto ora è invece / Di cote al lavoro che umida affili», sonetto XIX; «Sta lì

imbandita realtà e invece / È nastro scorrevole...», sonetto XXXII). L’“alterazione” è tale da poter rovesciare nel contrario, e in questo senso arrivano ad agire sia l’“essere diveniente” («Eppure il più tragico a un tratto ora è gaio», sonetto XI), che il “fare” («Di pianto fa sùbito riso...», sonetto VII). Non a caso la dialettica allegorica di Cacciatore (in questo collimando con l’allegoria “moderna” e la sua specie benjaminiana) si esplica infine decisamente nella contraddizione che, rimarcata a livello di figure retoriche dall’ossimoro, appare dappertutto nella diffusa e pervasiva tensione interna dei procedimenti, dei membri, degli attanti teorici. L’ossimoro, dicevo, come

punta d’ice-

berg: sia esso portato dal verbo («Fa sì che il suo buio a un tratto si accenda», sonetto IV; «Quel nulla agghiacciante anzi più t'accalora», so-

netto XXXIV), oppure dall’aggettivo nel cortocircuito più ristretto possibile che dà origine a formule di straordinaria incisività: da «esitante splendore» (IX) a «Granatico è il dubbio» (XI), dalla «ilare collera» (XXII) all’«Asciutto acquazzone» (XXV), fino ad «Amabile è l'incubo» (XLIX).

In un impianto poetico in continuo movimento, animato dalla fondamentale cooperazione di “estro” e “rigore”, dove i procedimenti tecnici sono dispiegati al punto da “fare il pieno” di tecnica e nello stesso tempo superare ogni poetica dell’artificio o del virtuosismo fini a se stessi, strappando l’organizzazione dei segni alla previsione codificata di superficie e invece puntando al fondo sul “risveglio” della vitalità e della facoltà conoscitiva, Cacciatore conduce all’estremo, nella

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Puntura dell’assillo, la sua lotta allo speculare. Lotta allo speculare in un duplice senso: sia al pensiero come esercizio scorporato, isolato e non attivo; sia al fissarsi dell’identità nello specchio di una immagine immobile. Ogni specchio è preso nel vortice di una trottola. Di ciò può essere riportato, a mo’ di conclusione, un importante esempio. Si tratta del sonetto XI, intitolato // reciproco, dove appunto è in questione la reciprocità della «scena specchiata» dove le «immagini rendono il paio», ma non riescono a resistere alla «pista labente» dell’alterazione che, passando per la contraddizione degli ossimori (oltre al già citato «Granitico è il dubbio», segue: «Schiaccianti le prove si alzano incerte»), perviene infine alla divergenza («L’identica storia al contrario diverte») e alla diffrazione del “rispecchiamento” stesso (nel distico finale: «Cerchiamo il reciproco a prova salvezza / Ma ustorio ecco è specchio in barlumi si spezza»). Né tali frammenti, nella Puntura dell’assillo, danno agio a una “deriva” assoluta e senza appigli abbandonata alla casualità misticheggiante, ma sono “preda” dello “sperimentalismo compiuto”, ovvero della ritmica intermittente e percussoria della vitalità dialettica nonché della problematica e complessa costruzione conoscitiva dell’allegoria.

EDOARDO CACCIATORE O IL PENSIERO COME POESIA Giorgio Patrizi

La poesia di Edoardo Cacciatore matura un’esperienza di trenta anni di lavoro sul linguaggio e sulla costruzione di valori logico-speculativi a partire dalle cadenze foniche, ritmiche e lessicali del verso.

La straordinaria originalità di una versificazone che si pone come esperienza unica e inquietante nella tradizione italiana novecentesca rimandando a matrici culturali extranazionali, riconduce ogni possibile approccio analitico alla verifica dell’assunto teorico che è alla genesi di esso. C'è un’attitudine speculativo-discorsiva nella costruzione del testo di Cacciatore che supporta con una ricca, barocca, organizzazione fonica la ferrea articolazione del procedimento riflessivo. Il piano semantico di queste composizioni, si vuol dire, mai può disgiungersi da quello formale, nè da quello di una connotazione del testo all’interno di una tradizione del genere, del metro e del ritmo. I tre livelli si intrecciano funzionalmente, valorizzandosi a vicenda e riceomponendo il complesso di un’esperienza letteraria capace di esulare totalmente dai modelli lirici o parenetici del nostro Novecento. I testi di La puntura dell’assillo, oltre a ribadire la singolarità del discorso poetico, radicalizzano la volontà di collocare la tecnica di versificazione all’interno di un procedimento discorsivo che aggredisce, scompone, analizza alcuni nodi fondamentali di una tematica ontologico-esistenziale. Nelle volute centripete di questo discorso — dove si è detto, i passaggi logici si puntellano sui forti legami assonantici delle sequenze ritmiche o sulla serrata consequenzialità della catena grammaticale, dai nessi nitidi, di scansione classica — si muove la riflessione

sul tema del pensiero, intesa nella sua particolare e complessa realtà fisiologica. I vari sonetti si offrono come momenti diversi di tale riflessione,

permettendo anche di cogliere modi e fasi distinte dell’approccio al te-

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ma. Sarà opportuno definirle, distinguendo i vari piani su cui si costruisce la complessa semiotica del testo: a) Livello del genere metrico. È difficile trovare esempi, nella moderna poesia italiana, vicini alla rigorosa organizzazione strofica approntata da Cacciatore (salvo forse certe esperienze, da un versante completamente diverso, dei sonetti di Zanzotto nel Galateo in bosco). Dalla disposizione delle rime in serie alternata, secondo la sequenza classica del sonetto, alla misura del verso in doppio senario con ictus sempre in quinta, ottava e undicesima posizione, si tende alla finalizzazione ritmica delle strutture grammaticali che o scandiscono il verso in una perentorietà sentenziale («Pensare è sorreggere i transili schianti») o legano versi successivi con forti enjambements, ad accelerarne assieme il ritmo del discorso logico e di quello poetico («. . . la sparsa zizzania / Dei sensi è d’accordo si scansa e il suo aiuto / Respinge in distanza . . .»). La struttura del sonetto, con le dodici sillabe del verso scandite nella forte caratterizzazione ritmica dei due emistichi, si

completa, sul piano fonico e su quello logico, con la clausola della coda che blocca il fluire del discorso in una epigrafe capace di fissare in un’immagine deputata (il «parlatorio», la «scia», il «futuro anteriore») l'esito della riflessione precedentemente svolta. Una struttura classica insomma, che non attinge però, nel suo rigore, alla tradizione della nostra poesia lirica, quanto piuttosto alla potenzialità, sentenziale e speculativa — oltre che lirica —, del sonetto eli-

sabettiano, alla sua particolare complessità di strutture semantiche e ritmiche.

b) Il livello dell’organizzazione fonica. Fu Alfredo Giuliani, nel fondamentale saggio del ’57, dedicato alla raccolta La restituzione, ad evi-

denziare come «l’impulso ritmico» dei versi di Cacciatore sia quello che regola «la struttura sintattica, il tempo e le variazioni di tono di questa poesia» e come dunque l’impianto discorsivo si fonda e cresca

sulle cadenze degli ictus. AI rilievo, già avanzato, del particolare trascorrere del pensiero go la catena del doppio senario che seziona il verso, precisando, l’emistichio, un particolare momento della riflessione («Secondo sillo che punge ove smania / Il tatto vi avoca e lo modula in tanti

lunnell’as/ Ri-

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.

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battiti espansi...»), va aggiunta l’osservazione della catena delle assonanze — nel primo sonetto, ad esempio, costruita soprattutto da sibilanti o dentali — che sancisce una linearità sonora costruita su episodi di ripresa, di espansione, di enfatizzazione di timbri caratterizzanti. In un processo di semantizzazione di questi dati fonico-ritmici emerge la possibilità di isolare pressoché ad ogni verso parole-chiavi per lo più in posizione forte, che evidenziano nuclei tematici di preciso valore all’interno dell’articolazione discorsiva; ad esempio, ancora nel primo sonetto: sorreggere, assillo, modula, zizzania, accordo, distanza, assillo, suoni, battiti, denti, consenso, accetti. O an-

cora, nel penultimo sonetto: energia, ostacolo, spasmo, dappertutto, illusione, somatica, ecc.

In tal modo la ricchezza sapienziale del testo, il suo porsi come luogo di domanda e risposta attorno ad alcuni temi centrali della riflessione filosofica — il pensiero, la conoscenza, il rapporto soggetto-0ggetto e soggetto-altro, l'energia vitale — appare strutturarsi nella sonorità accesa, nel chiaroscuro timbrico di immagini che si schiudono e si fissano come clausole ritmiche e sentenze definitive («Quell’io che ti turba a volte e fa ossesso / È iride tremula su transile bolla»).

c) Il livello logico-discorsivo. È quello che rivela, nei componimenti di Cacciatore, la cifra peculiare di una poesia che, prima di porsi in chiave metalinguistica, o, solo raramente, lirica denuncia una natura

radicalmente speculativa. C'è una derivazione costante, verificabile fin dalle prime raccolte, delle prove poetiche di Cacciatore da complessi testi di prosa che sviluppano analiticamente e con una straordinaria ricchezza di immagini riflessioni disincantate sui temi, topici in Cacciatore, della conoscenza della realtà e del flusso esistenziale colto nell’articolarsi continuo e cangiante delle cose. La formazione culturale di Cacciatore appare vastissima, legata come è a filoni inusitati della cultura occidentale — come quello della poesia mistica — o attingente, attraversati fenomenologia ed esistenzialismo, ai grandi temi della filosofia greca classica, al vitalismo eracliteo o alla cosmogonia pitagorica. Tutto ciò si concentra, stratificandosi,

nello spessore linguistico rivelato da un lessico che Cacciatore costrui-

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sce ex novo, strumento specifico della sua meditazione, della ricchezza

d’immagini e di suoni attraverso cui essa si costruisce e si svolge. Anche nell’organizzazione di un vasto apparato terminologico che consenta rigore dello svolgimento logico e felicità espressiva, si fa ricorso a parole-cardini, magari assunte in un modo inconsueto, fuori dall’accezione tradizionale (come assillo, ritorsione, transile, energia) che permette la rielaborazione straniata di concetti di analisi e di definizione totalmente nuovi. Tale ricchezza lessicale, che rende soprattutto denso e allusivo il materiale verbale, ed elusivo rispetto ai valori per esso vigenti nel linguaggio quotidiano, è tutta votata a perorare il rigore di uno svolgimento logico ferreo che muove a definire, per tutto l’arco della presente raccolta di Cacciatore, l’origine, la natura, il processo dell’atto di

pensare. A questa fondamentale azione — la «puntura dell’assillo» che, provocatoriamente, dà titolo alla raccolta — sono dedicati i 51 sonetti cau-

dati, attraverso cui sono inseguite tutte le diramazioni del tema, a partire dalla fisiologia interna dell’atto: una splendida visione materica, tattile, del pensiero è quella che ci dà Cacciatore, alla ricerca della misteriosa trasformazione della pura energia mentale in fisicità implacabile, a volte violenta.

Nei sonetti della Puntura dell’assillo il pensiero è una sorta di battito della mente che si trasforma, interiormente, in un senso che ordina,

via via, a partire da sè, tutti gli altri possibili approcci fisici alla realtà. E l’immovbilità del corpo, che può accompagnare il pensiero — l’immobilità della lingua e della parola («La lingua lei tace ed i denti più stretti /Che mai or esigono esatto consenso») — contrasta con l’energia che via via cresce e si accumula nel silenzio. In La vu di una scia, la poesia di Cacciatore si schiude alla realtà esterna, conducendo il processo mentale dalla pura riflessione alla considerazione di un dimorare del pensiero nella concretezza dell’azione, che quando manca - la situazione emblematica del carcere come esclusione dell’agire è ritratta con innesto di linguaggio basso («Se stai in un braccetto del tutto tagliato / Dal mondo...») — toglie senso allo stesso atto di pensare. Mentre la possibilità dell’agire ha la gioio-

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sità pur drammatica di una energia che lascia alle spalle tutto, con la bellezza festosa di una scia. Futuro anteriore, infine, fornisce la cifra di un’acquisizione di co-

scienza del pensare, tesa tra l’evento a venire e quello già avvenuto, racchiusa in una progressione ordinata ed inarrestabile («Rimuovi per ordine ostacoli e vai»), che nasce dal decisivo gesto dell’energia vitale che si rivolge su se stessa e distacca il soggetto da ogni possibile passività nella fruizione del mondo. Il pensiero — che rende il vivere «pleroforia» e la soggettività pluralità — permette l’ubiquità di un rapporto tra l’io pensante e l’esterno, che conduce ad una ricca e variegata appropriazione di questo da parte di quello. La difficoltà del testo di Cacciatore è proporzionale a quella della materia indagata ed interrogata: ma il trascorrere della riflessione in annotazioni ed immagini esemplari si carica via via del senso di un’irreversibile processo di scoperta della verità, tanto più salda e compatta quanto più emerge nella necessità di una concatenazione di suoni e di ritmi. In questo senso, tutta la costruzione linguistica di Cacciatore mostra un’estrema abilità retorica: un’analisi, tutta da fare, del linguaggio poetico di questi sonetti condotta attraverso le figure retoriche classiche, dell’inventio, dell’elocutio e della dispositio, renderebbe conto

dell’alta capacità suasoria del discorso in atto. Il lettore è introdotto, dal lessico composito e straniato, in un universo linguistico dove tesi di grande rilievo speculativo — tesi, appunto, che intendono dimostrare cosa sia e come funzioni il pensiero — vengono svolte e sostenute dall’articolazione logica della riflessione e dalla grammaticalizzazione di essa; la persuasione è raggiunta attraverso la verifica della consequenzialità del senso del discorso sul piano semantico e su quello fonico-ritmico. L’esperienza del linguaggio, qui tesa a recuperare i più diversi livelli di espressività, è l’esperienza dello spazio di una ragione non regolata da ordini cartesiani, ma piuttosto, come si è già detto altrove, da equilibri pitagorici. Il linguaggio della poesia è, per Cacciatore, linguaggio del pensiero: e viceversa, il discorso poetico si struttura secondo le «figure» delle operazioni della mente. È possibile parlare di queste perché la parola

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è forgiata, resa duttile, amplificata da una sorta di primigenia dinamica generativa del verso. La poesia si costruisce, retoricamente, secondo gli slanci e le immagini del pensiero. Il testo di Cacciatore scopre la “verità” ineludibile di un pensiero che si fa parola, suono e ritmo; e di

un ritmo che si scopre movimento essenziale per il gesto fondamentale di un’interrogazione sul mondo, sul linguaggio e sullo stesso interrogare. ;

ITTO ITTO: SCRITTURA E FILOSOFIA NELL’ULTIMA OPERA DI EDOARDO CACCIATORE * Cecilia Bello

Annunciata ed attesa da tempo, la pubblicazione di /tto itto ha segnato, nella riflessione rigorosa e incessante di Cacciatore, uno dei momenti di più alta pregnanza speculativa: un impegno teorico arduo che ha solidamente aperto la sua ricerca sull’orizzonte dell’universo, della materia che lo sostanzia, dell'Energia che lo informa e lo muove. Punto d’approdo di un lungo itinerario filosofico e letterario, ritmato negli anni su una corrispondenza puntualmente dialettica tra opere in

prosa ed opere in versi, quest’ultimo corpo vivo - mole prosastica in piena, impetuosa e permeante quanto il trattato d’esordio, L’identificazione intera — si misura con il pulsare dell’Energia in natura e sot-

topone a riflessione ogni moto che essa determina. «Battito battito l'Energia transita: per andare a rimbattersi. Secondo la spasi seriale dell’irruente arìtmesi, che vi s'invertebra e dinoccola, l’Energia, mentre per forza si agita dibattendosi, e scuotendosi si scrolla, di balzo

ecco si scaglia. E transita motivatamente. Per andare a rimbattersi. Con suscettibilità compitiva: appunto appunto» (/tto itto, p. 21).

In Itto itto la prosa cacciatoriana scandisce il ritmo vitale del cosmo, segue i battiti implacabili dell'Energia «transile» e «l’andatura ritorsiva del pensiero»; afferma la «cadescenza della realtà» e disvela l'AI-

terazione «metastatica» che nulla lascia di immutato, giungendo a costruire un’opera che ha la vastità di un trattato ed il respiro di un poema fisico. Il racconto della «metabole cosmica» segue un disegno narrativo di vaste dimensioni, che impone alla scrittura di dilatare il proprio spazio, rendendo fruibile l'impianto noetico che le è sotteso. Itto ito rac* I numeri di pagina senza altra indicazione sono riferiti a Itto itto.

Itto itto: scrittura e filosofia nell’ultima opera di Edoardo Cacciatore

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conta e della natura e dell’indagine intellettuale che vi s’inoltra, scandita, sulla pagina, in stazioni brevi, tese ad una sinteticità progrediente, argomentative dapprima, icastiche e sentenziose al termine del lungo ed impervio itinerario. Delle quattro parti in cui l’opera è divisa — L’arìtmesi inscansabile, L’Esterno, Transilità dell’Energia e veicolaria ri-

torsione del Pensiero, Rinforzi in disponibilità dell'Energia medesima — l’ultima procede quasi per epigrammi, stigmatizzando temi e concetti fondamentali delle prime tre sezioni. E rinnovando, ancora, quella predilezione alla sentenza gnomica — pressoché sconosciuta al nostro Novecento — che è stata cifra stilistica di forte impatto iconico e morale della scrittura cacciatoriana, prosastica e poetica. L’originalità di questo imponente testo, singolarmente viva nella tensione gnoseologica che lo sostiene, nel taglio strutturale e nell’approccio linguistico al nucleo dell’indagine, conferma la distanza che sempre Cacciatore ha osservato, nella prosa argomentativa come nella scrittura poetica, da ogni lirismo intimista o contemplativo. Una distanza che a lungo l’ufficialità delle lettere gli ha fatto scontare con una serrata esclusione dal mercato e dall’accademia. Ma, a dispetto di qualsiasi silenzio, l’attività poetica e teorica di Cacciatore — perché di entrambe, ad una, bisogna parlare — ha conosciuto uno sviluppo costante, scandito da testi di poesia e di riflessione filosofica in successione alterna e in dialogo incessante tra loro. Le fitte tessiture di rimandi che esistevano tra i versi dei Graduali e la prosa de L’identificazione intera e, parimenti, tra Dal dire al fare e Ma chi è qui il responsabile?, si ripropongono ora tra La puntura dell’assillo ed Itto itto, incredibilmente ampliate, in quest’ultima opera, da una sottostante filigrana di richiami all'intero corpus cacciatoriano. Vengono così a collidere e a cercare un'articolazione dialettica tra loro temi, allegorie, stilemi privilegiati da Cacciatore nella sua ricerca speculativa e letteraria. Se «la puntura appunto straziante, la snervante acutezza dello stimolo, l’assillo rombante dell’Energia» (p. 135) inviano apertamente, e in senso globale, alla raccolta di sonetti più vicina ad Itto itto, nel testo

compaiono, disseminati — quasi ad essere inavvertibili —, frammenti di immagini consuete nella scrittura cacciatoriana e dense d’anni di speculazione. I «perversi coni» (p. 118), il «cono di cuneo a trottola» (p.

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196) rievocano il giocattolo che, già emblema del divenire incessante ne Lo specchio e la trottola, anche nei Carichi pendenti (p. 84) aveva espresso il dinamismo inarrestabile dell’Alterazione: «l’Alterazione, sì, è, a spire terribili, sì, proprio quell’antichissimo trastullo dell’infanzia ignara. Sì, giusto, la trottola: ripido cono perverso». I giochi di rinvii, echi, rifrazioni, che Cacciatore disegna tra le proprie opere, sono gravidi di conseguenze sul piano della teoria e della

sperimentazione letteraria. Investendo la scrittura di un compito critico e conoscitivo e rendendola fertile terreno d’inchiesta teorica ed esperienziale, Cacciatore ha oltrepassato la tradizionale separatezza di ambiti tra prosa e poesia: le ha messe in rapporto dialogico, e, scettico di fronte alla presunta purezza della lirica, ha mutuato dall’una all’altra motivi e prospettive di sguardo. È riuscito a forzarnei confini agendo dall’interno: ne ha paradossalmente messo in evidenza le peculiarità stilistiche ed espressive investendo di carica innovativa la rima, le forme metriche chiuse, l’Ars Rethorica recuperate in funzione

provocatoria. L’interscambio logico-argomentativo che Cacciatore ha creato tra prosa e poesia le ha rese strumenti di pari efficacia, ugualmente destinati a svelamenti impietosi e luoghi, entrambi, di progressiva maturazione speculativa. Questa dinamica di comunicazione instaurata da Cacciatore tra i due generi letterari si conferma, anche in Itto itto, viva ed intensa. Nella IV parte del trattato, in uno dei Rinforzi in disponibilità del-

l’Energia medesima, che con essenzialità aforistica condensano osservazioni sulla «vivescenza», sull’«Abbienza della realtà», sull’opportunismo del «Senso Comune», sono presenti due figure, «Stomaco e Sesso

— i due facinorosi manutengoli della Necessità sottintesa in tutto —» (p. 415), a cui era già stato dedicato il VI Tetrastichon dei Graduali: «Sazi di storia a digiuno di avvenire Si ricacciano ormai nella cronaca cieca Stomaco e Sesso i due vecchi protagonisti Ostentano soli una lugubre baldoria».

Tetrastichon scaturito, a sua volta, da un passo de L’identificazione

intera (p. 336) che anche aveva i medesimi «Protagonisti»: «Stomaco e Sesso». A riprova, questo, non solo di un interesse analitico sempre at-

Itto itto: scrittura e filosofia nell’ultima opera di Edoardo Cacciatore

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tento agli aspetti fisici dell’orizzonte empirico, ma anche della effettiva reciprocità semantica ed espressiva della prosa e della poesia cacciatoriana. Dalle pagine di /tto itto, che sono voce disperatamente matura del lavoro di indagine di Cacciatore, si levano echi di suoi antichi versi, a

ribattere con pervicacia concetti fondamentali della sua materica cosmologia: «espansivamente zampillerà, lo zodiaco dell’ardire cosmico» (p. 126) ed «avviene che zampilla da ogni zero uno zodiaco» (p. 329) rimandano immediatamente a La restituzione, come varianti, mi-

nime, del verso d’esordio del II componimento della Probatio: «Zampilla uno zodiaco da ogni zero». Semplici scaglie di testo, quindi, sono in grado di creare tra le opere intime e sottili connessioni, significative perché mediate da soluzioni retorico-stilistiche tangibili nel corpo stesso delle scelte lessicali e metaforiche. E su questi indizi è tessuta quella trama di continui, autointerrogantisi, approfondimenti dei nuclei basilari della riflessione cacciatoriana che danno al suo interesse speculativo la forza e la coerenza di una ricerca inintermessa sul piano della parola e del pensiero. Di antica data sono i temi che per anni, poi, Cacciatore ha sottoposto ad analisi assidua, via via più stringente. Alcuni dei suoi princi-

pali assunti — più tardi nuovamente affrontati in /tto itto, e studiati, ancora, da molteplici angoli prospettici - appaiono già nell’architettura de L’identificazione intera: al «Discorso a Meraviglia» ed all’«Alterazione» sono intitolate due delle sei sezioni che lo compongono. Ricorrono, i medesimi argomenti, perché più acuto si faccia lo sguardo indagatore, in obbedienza ad un bisogno di conoscenza che procede, sottoponendosi a verifica, per approssimazioni ed accrescimenti graduali, insaziabile nelle sue ragioni più profonde. Dall’«interminabile lezione delle cose» (p. 53), Cacciatore desume l’assurdità di un sapere fondato su dogmi: in un universo in cui «ogni cosa non sta mai ferma

un istante: sempre sta per essere un’altra cosa» (Carichi pendenti, p. 26), non è dato fissare assolutezze, né credere in verità rivelate o attinte

attraverso estasi mistico-iniziatiche. La sua scrittura e la sua stessa riflessione non si sottraggono al divenire, rivelano un lavorìo senza posa: non possono che dipanarsi inarrestabilmente, spinte da ribattenti appulsi.

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A muovere Cacciatore lungo sentieri impervi e non pretracciati è stata, fin dall’inizio, una pulsione noetica consapevolmente lontana

dall’accademia: una vocazione alla realtà così imperativa da spingerlo ad un tentativo di attraversamento e di comprensione di essa che non

si fermasse di fronte a nessuna contraddizione, ma che anzi di attriti e

di «ruvidità» andasse in cerca. La scelta di esaminare opposte polarità è sostenuta da una passione filosofica che ha un’origine scientifico-letteraria empedoclea e lucreziana, evidente nel proposito di dar ragione

asé e agli altri di un cosmo scosso da pulsazioni («itti») vitali, investito dal «rimescolìo metabolico» (p. 50) dell’Alterazione e contemporaneamente nel rifiuto opposto — fin dalla stesura de L’identificazione in-

tera (p. 304) — all’insidia dell’astrattezza che rischia di additare nulla più che la «mera omogeneità trascendentale». E perciò anche Itto itto, al pari delle opere precedenti, è una immersione nella fisicità della materia, una ricerca condotta nel vivo delle

sue asperità. È un’indagine sulla natura e sulle sue forze — creative o distruttive che siano —, un poema che nei suoi formulari avanza ipotesi e letture del mondo e dei suoi fenomeni, come il Poema fisico e lustrale di Empedocle o il De Rerum Natura di Lucrezio. Sensibilissimo è lo sguardo di Cacciatore quando segue i cadenzati e geometrici ictus dell'Energia, i «frequentativi palpiti per cui dà in fremiti» (p. 32), il suo «perpendicolare percotìo» (p. 170), il suo «rintocco aritmeticamente sgnaccato a nerbo infiammatorio, a suppurativo ascesso, a fermento in concozione intollerabile, a percussivo ululo,

a foga incitante, a penetrante assillo di rombo» (p. 28). Nell’ordine cosmico cercato e studiato in /tto itto l’Energia assolve un ruolo prima-

rio, focale: «è il centro di tutto» (p. 372); e la sua autonomia sa avere, a volte, tutto l’impeto e la crudezza di un principio vitale: «inferisce, percuote, vibra, picchia, taglia, sarchia, trita, devasta, svuota» (p. 70). Poiché l'Energia è la forza prima dell’universo, basta a sé e a quanto la circonda: «è auturga lei: il suo insurretturo rovello smaniosamente lavora in proprio. Non ha affatto bisogno, nel suo scotìo, di collaborazioni accessorie» (p. 360). Il vigore dell’Energia è inesausto ed incessante è il ritmo delle nerbate che infligge: il suo dinamismo non ha attimi d’indugio, le uniche

Itto itto: scrittura e filosofia nell’ultima opera di Edoardo Cacciatore

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soste che conosce sono «i battiti di rimbalzo [che] si posano per spostarsi dov'è più intenso il sussulto che allevia e allegra» (p. 357). Sia l'Energia che i mutamenti provocati dall’ Alterazione pervadono e dominano tutto, e gli uomini, che di quelle forze sono prede, appaiono a Cacciatore nella loro limitatezza di «clausole antròpine», soggetti comunemente ad una condizione servile, resa ancora più opaca, a volte, dal comodo-adeguamento ai dettami del buon senso: «Siamo tutti quanti coercitivamente sotto il basto dell’inerenza reale, siamo vastasi irrimediabilmente consegnati in quella cagionevolezza che a un certo punto avrà la sua scadenza puntuale nell’indaffaratissima concia delAlterazione» (p. 286).

Ma il «vastaso», servo portatore di peso, ha per sé la possibilità di circoscrivere il servaggio che lo avvilisce e lo opprime, e che diviene, nel dettato aspro e fortemente espressivo di Cacciatore, un «servitricio passivante». Condizione indispensabile è che riesca a sottrarsi ai favori del Senso Comune che con la sua saggezza spicciola si comporta come un sensale avido e ambiguo, tessendo reti di Ovvietà. Il pensiero, in quanto apertura e protensione all’Esterno, in quanto negazione di qualsiasi inerte ed intimistico ripiegamento, può dare scacco alla ordinaria assennatezza. E naturalmente, nella misura in cui incede con-

tro false e rassicuranti certezze, «pensare è, per forza, scomodo» (p. 299): separa dalle comodità seduttivamente offerte dal buon senso o dal Senno di poi, dà la coscienza della morsa, del reticolo di coerci-

zioni in cui si è stretti: «chi comincia a riflettere è proprio colui che più anzi avverte di trovarsi nel crampo della passivazione sua» (p. 290). Una analoga possibilità di oltrepassare parvenze consolanti, Cacciatore aveva allegoricamente espresso ne L’identificazione intera, attraver-

so il racconto del singolarissimo sogno di un facchino quotidianamente stremato dalla inane fatica di trasportare bagagli altrui. La sostanza di quell’allegoria affermava la possibilità di trapassare persone ed 0g-

getti senza prescindere dalla materia, per giungere a riconoscere la «cadescenza», «il preterito e l’omesso», e per ammettere l'evidenza di rovine e di rifiuti dovunque realmente esistono rifiuti e rovine. Lo

sguardo di quel facchino, che una notte sogna di svolgere il proprio lavoro in una stazione ferroviaria a poco a poco meno consueta, si posa

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su forme di fisicità straniata e palpabile, a prima vista distorte, a ben guardare private della patina di banalità che usualmente le offusca. Egli vede, girandosi intorno, scalette esterne che prendono a muoversi come «pigre bisce», «gente con cappelli di terra ripugnanti», vagoni colmi di ciarpame ammucchiato alla rinfusa in cui uomini rovistano con metodica calma e vagoni, ancora, straripanti di gente assiepata, «ritta in piedi, impalata» con i corpi «chiusi, scomparsi dentro bottiglie di un giallo jodato, strettissime e allungate come quelle tradizionalmente in uso per i vini passiti» (pp. 173-174). Rispetto a quel facchino, in /tto itto, il vastaso gravato dal proprio basto è figura più rarefatta, in certo modo stilizzata, così come la riflessione speculativa ha finito ora per imporsi a tutto campo nel testo, senza i motivi autobiografici a cui era intrecciata ne L’identificazione intera. In un senso decantata, in un altro estesa a comprendere intellettualmente la materia mutante dell’universo, la ricerca cacciatoriana

continua a procedere serrata, a detrimento dell’assennatezza comune che mira a guardarsi da sorprese e da rischi, in posizione antitetica a quella degli «uomini di buonsenso» che si negano alla meraviglia della ragione e «dicono, affermano, credono di essere ben addentro la realtà, ma in realtà sono appena posati sulla sua superficie, come anofeli sul pelo dell’acqua» (L’identificazione intera, pp. 169-170). Smascherata l’ambiguità del Senso Comune, Cacciatore non esita a mostrare l’«opaco cascame» della realtà, ci mette di fronte all’ Alterazione che tutto traveste e involve, e che è processo fisico d’infinita metamorfosi, così come fisico è l’incedere del pensiero. L’attraversamento delle cose, la liberazione dalla saggezza mediocre e senza lumi nulla hanno di trascendente. Se il pensiero in sé «sfugge alla muffa ed alla cancrena dell’Alterazione» (p. 549), altrettanto non è dato a chi pensa, «chi pensa non è in salvo per niente (...) è pur sempre nella presa dell’Alterazione» (p. 297). L'esperienza non lascia spiragli a fughe metafisiche, assicura, per contro, la realtà del moto vitale, la sua onnipresenza

e la sua indeclinabilità. Questo universo, pulsante di dinamismo e di materia, non prende avvìo da una parola divina, non è stato il Verbo

a farsi Carne: «in principio non fu il Logos. L’Energia, bensì, lei proprio, è lei invece a primeggiare tuttavia. Continuatamente. Battito su battito» (p. 303).

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Cacciatore professa così la propria fiducia nella realtà di un cosmo empiricamente e razionalmente percorribile, per spiegare il quale non occorrono teologie né mitologie. Del resto, per quanto prioritaria ed inarrestabile, neanche l'Energia è riconosciuta come forza sovrannaturale o come temibile divinità, non le sono necessari invocazioni ed

inni: «l'Energia non richiede proprio nulla all’energumeno. Non pretende offerte, ineensamenti, suppliche, sacrifici, scongiuri in comune,

adorazioni rituali, riconoscimenti delle proprie mende, e senso di mancamento in genere» (p. 466). Contano, per Cacciatore, la forza

«attivante» che possiede il dinamismo percussivo dell’Energia e la responsabilità del pensiero che di quella forza scruta il moto. Itto itto non è soltanto il racconto di un’indagine dell’intelletto, è la celebrazione, anche, dei meccanismi stessi dell’attività speculativa, del rigore e della laicità su cui si fonda. Costruendo una cosmogonia, Cac-

ciatore è riuscito a mostrare il farsi parola del pensiero, il suo prendere corpo in espressioni dense, materiche, il suo consistere nella scrittura. E laddove il pensiero afferra «la grande lezione dell’Energia spasmogena» (p. 213), anche le parole di quegli spasmi assorbono il ritmo, l’im-. pulso. E si fanno battenti, percussive, replicate come colpi in doppia battuta: «stratta stratta», «scilacca scilacca», «stigma stigma». Echi

dell’anadiplosi che dà il titolo all’opera, sferzano la lettera del testo con la forza dei battiti dell’Energia. Il forte indice di sperimentalità che da sempre è proprio della scrittura cacciatoriana investe le strutture basilari del sistema testuale,

muovendo dai duplici livelli retorico-sintattico e morfologico-lessicale per arrivare ad una radicale innovazione espressiva. La coesione strettissima del dettato letterario e della sostanza del pensiero passa, in /tto itto, attraverso la sequenza delle arcate sintattiche che, diverse nel disegno, nell’estensione, nella complessità e ric-

chezza retorica, si succedono giustapponendo momenti descrittivi o

esplicativi a momenti gnomici. Entro un tessuto sintatticamente disteso ed articolato, come può essere quello di un trattato, spesso fanno irruzione sentenze lapidarie, coaguli di senso icastici e vigorosi. Lo spessore linguistico e l’architettura sintattica di /tto itto mettono alla porta, «una volta per tutte, i cieli tetri ed iniqui dell’astrattezza»

(p. 508): la materia della speculazione, il dinamismo che corre nell’u-

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niverso, la scansione «metrica» che danno gli ictus dell'Energia, invadono e permeano l’ordito della scrittura. Tanto è forte «la dipodìa del battito che si rimbatte» (p. 95), da fare dell’impulso ritmico la vera sintassi del testo, un impulso ossessivamente realizzato da percussioni, cadenze, iterazioni. Ed è ancora la retorica, di cui Cacciatore si è co-

stantemente servito in maniera estensiva quanto provocatoria, ad essere chiamata, anche in /tto itto, a giocare un ruolo prioritario, a farsi

soluzione straniante. Allitterazioni, paragrammi, paronomasie e poliptoti («è al quadrato ogni fibra vibrante su cui si tende. Una quadrica quadrettatura ai quattro venti. E si può far quadrato issofatto...», p. 275; «sconciate in squallide sacche svuotate di tutto», p. 25; «inaspettato incignarsi in cui venne ad inaugurarsi», p. 30) creano lunghi archi di legato ritmico che traducono, con replicazioni foniche quasi ossessive, la perentorietà del battito dell'Energia. Così è anche per gli omoteleuti (a volte anche aspri: «attizza, aizza, indirizza», p. 280) che non possono non rievocare l’uso nuovo e polemico che della rima Cacciatore ha sempre fatto. La vitalità del cosmo e l’incontenibile transilità dell'Energia sono ragione di un’opera che sembra sfidare le proprie possibilità di estensione, crescendo incessantemente ed accogliendo in sé la multiforme e proliferante varietà dell’esistente, resa retoricamente attraverso l’accumulazione di predicati o di attributi: «...si scrudisce, si umetterà, si lubrifica, si ammorbidirà» (p. 110); «la vivescenza è umida, molle, morbida, soffice, tenera, delicata, languente» (p. 339).

La letterarietà che la prosa cacciatoriana rivela, appare tutta al servizio dell’indagine speculativa, tesa ad un’appropriazione conoscitiva del reale, cercata anche attraverso la scrittura e sostenuta da una sen-

sibilità «prensile». Il materiale verbale riflette nella sua fisicità la vocazione alla ricerca e l’istanza speculativa che sono i principali moventi dell’attività di Cacciatore. I termini anatomici e medici, frequentissimi in /tto itto, danno la misura di una possibile e da Cacciatore auspicata comunione tra studi teorici e prassi esperienziale: quanto riguarda fisiologicamente l’uo-

mo, il suo corpo, ed i processi biologici e patologici — quindi dinamici ed alterativi — a cui questo va incontro, sembra assicurare concretezza d’esame ed aderenza alla realtà.

E si succedono, nel testo, «circostanze amniotiche» (p. 71), «sfin-

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teri» (p. 249), «gangli» (p. 389), «epiglottidi» (p. 91), «colostri» (p. 35), «borborigmi» (p. 419), «flogosi» (p. 118), «eczemi» (p. 456), «enfiature tumorali» (p. 140), «infarti» (p. 71). Anche parte dei grecismi e dei latinismi, che tanto frequentemente ricorrono, si rivelano come termini tecnici già usati in antichi trattati di medicina, dagli scritti di Galeno a quelli di Ippocrate, da Cornelio Celso a Celio Aureliano. Del resto è dello stesso Cacciatore un’indicazione a questo proposito chiarificatrice: «Non mi sono mai tenuto discosto da qualche buon trattato di semeiotica medica: lì, la scienza dei sintomi, dei segni accusativi, diventa sùbito, detto

fatto, e drammaticamente teoria, sì certo, ma come impiego immediato della conoscenza stessa. Una gnosi da incorporarsela, quasi fosse appunto una pillola» (Carichi pendenti, p. 89).

E perché la scrittura possa registrare quei sintomi ed assorbire i brani di realtà che fruga, e perché, soprattutto, la conoscenza sia sostanza realmente assimilabile, di cui intridere la pagina, Cacciatore opera con determinazione sul linguaggio, attingendo metodo e lessico da più di una scienza. L’aritmetica, la geometria, gli stessi termini tecnici della grammatica e della sintassi offrono a Cacciatore una pluralità di soluzioni per definire lo spazio ed il ritmo interni sia al cosmo

che al testo. L’Energia è matematica «architettura di appulsi» (p. 41), la sua ineluttabilità è «perpendicolarità incombente» (p. 62), le sue spinte e le sue battute «hanno per base la base di un triangolo sicu-

ramente inscritto in una ellissi» (p. 95), la sua irruenza va ad «asportare il perimetro dell’Istantaneità» (p. 64); l'Energia ansima, smania irrequietamente, «irregistrabilmente ma rigorosamente sussultano le ascisse di ogni punto e i coseni di ogni raggio» (p. 54). In questo spazio pitagoricamente misurato da «perimetri, cateti, ipotenuse» (p. 82), l'Energia sembra declinarsi «eteroclita» (p. 55), i suoi colpi inferti «numeratamente» (p. 36) creano un rombo di «timbri monosillabici»

(p. 83); la sua spontaneità è «acatalettica (...), dattilicamente riesce a slanciarsi» (p. 125). L'intervento nel corpo della parola e delle strutture formali del linguaggio rivela, pur nella radicalità del suo carattere sperimentale, un’ascendenza classica rara nel Novecento letterario italiano. La ric-

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chezza lessicale cacciatoriana molto deve, oltre che ai differenti e numerosi linguaggi scientifici o tecnici, alla capacità ed alla originalità con cui Cacciatore, attingendo etimologicamente al latino ed al greco, dà vita ad un linguaggio denso, impervio, ‘a volte addirittura «astruso perché ha fatto scorrere la lingua prensile paro paro, senza mai risputarne gli avanzi più ostici, sopra tutte le astruserie della realtà» (Carichi pendenti, p. 96). Un linguaggio che conferisce alla scrittura la forza di assumere su di sé, senza riserve, il portato della speculazione filosofica dell’autore, e che si offre, nella sua retorica complessità, piuttosto alla rimuginazione che alla riflessione del lettore. Asperità e scabrosità vengono accolte nella tessitura linguistica cacciatoriana come dati fisici d’esperienza: grecismi e latinismi, accanto a parole rare, neologismi o neoformazioni, espressioni popolari e regionali incarnano, nella loro singolare convivenza, contraddizioni ed aporie del reale. «È lui, il linguaggio, l’unico ad averci fatto il palato a questa realtà, anche quando sembra sgradevole, ributtante. E nel momento in cui il gusto, e l’Intelletto stesso, non vorrebbero averci a che fare. Giusto allora il lin-

guaggio si rifiuta di patteggiare, di dosarsi il suo tastame, di ridurlo alla convenienza soltanto di certi tocchi» (Carichi pendenti, p. 95).

La forza cinetica dell’Energia, la pluralità di forme insita nel cosmo e la metamorfosi a cui le obbliga l’Alterazione si concretano in un’invenzione continua della lingua, in una sperimentazione di morfologie condotta da Cacciatore con grande sapienza etimologica e con profon-

da sensibilità ritmica. Il tessuto lessicale è multiforme: è screziato da neoformazioni come «forforeggiare» (p. 134), «polpastrellabile» (p. 199), «gelatinosamente cucchiaiabile» (p. 447); è scandito da deverbali ino reiterati con frequenza ossessiva a rendere infinito il dinamismo dell’Energia: «tartassìo» (p. 23), «snaccherìo» (p. 103), «rodìo» (p. 106), «martellinìo» (p. 122), «spicinìo» (p. 313), «snottolìo» (p. 493); è amplificato da numerosi avverbi che plasticamente inarcano le frasi: «neramente» (p. 41), «pulsuosamente» (p. 57), «staffilatamente» (p. 85), «nonnullamente» (p. 108), «spiroidalmente» (p. 293). La vivacità linguistica del trattato, letterariamente alta — per suo assunto mutevolissima e dinamica anche in quelle che possono apparire

Itto itto: scrittura e filosofia nell’ultima opera di Edoardo Cacciatore

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formule gnomiche o sapienziali — rende ragione delle migrazioni, dei rimescolii, degli spossessamenti, dei travasi di forme e sostanze che impone l’Alterazione. Polivalenza semantica dei lessemi e variazione dei respiri sintattici fanno di Itto itto un organismo testuale di straordinaria vitalità espressiva, «pulsatile» e «metastatico». L’opera cresce grazie ad una scrittura multifocale che “sediziosamente” coniuga elementi eterogenei e che esprime «l’alterarsi immisericorde di tutto». La prosa di /tto itto sembra avere — quanto l’Energia — «la sedizione in corpo» (p. 78) ed essere «rivoluzionaria costituzionalmente» (p. 88). Assillante, incontenibile. Impietosi sono i battiti dell'Energia ed impietose, anche, la speculazione e la scrittura cacciatoriane. Pungolato da un’urgenza euristica, il pensiero si protende all’Esterno, e vi s’inoltra, senza arretrare di fronte al rovello «insurrettivo» dell'Energia, ma anzi, da quello imparando a trarre vigore per estendere il suo esame, per seguire i molteplici moti delle cose. Cacciatore è straordinaria figura di vitalissimo rimuginatore: la complessità e, talvolta, l’enigmaticità dei suoi testi sono cariche delle

vigili ed intricate trame del pensiero, dei balzi che esso può compiere, stimolato, com’è, a seguire metamorficamente i percorsi dell’Altera-

zione e gli «itti» dell'Energia. Isolato solo per forza di rimozione accademica, Cacciatore è rimasto negli anni pensatore “sedizioso”; la sua posizione è stata eccentrica e ben poco rassicurante. E l’impeto rivoluzionario e sovversivo che Cacciatore riconosce all'Energia e all’Alterazione ha pervaso quest’ultimo testo nella sua interezza, e si è tradotto nella “sediziosità” enigmatica di una scrittura di qualità classica e di tendenza sperimentale, nelle sue stesse ragioni legata, per inusitato connubio, all’esercizio rigoroso della ricerca filosofica.

I NOMI DELL’ALTERAZIONE

Giorgio Patrizi

Itto itto rappresenta un vero e proprio “caso” all’interno di quel nodo problematico che comunque costituisce l’intera opera di Cacciatore. Grande opera della maturità, summa estrema di una scrittura che cerca nelle proprie ragioni le ragioni del mondo e dell’esistere, /tto itto esibisce una prosa che costituisce la sintesi del lavoro di anni attorno alla significatività della parola, alla sua vertiginosa capacità di far parlare tutto e di tutto; opera magmatica, fluviale, che coniuga il ferro di un pensiero rigoroso che riflette su se stesso con il colore delle emozioni di un'avventura che guarda costantemente oltre, per cogliere le tracce di quel movimento inappagato che il linguaggio deve registrare come il sostrato della vita stessa. Significativa opera della fine di un secolo che si è interrogato a lungo sulle risorse e sui limiti della parola; risposta inquietante all’altra prospettiva che ha caratterizzato il Novecento, quella che veniva descritta, al suo schiudersi, nel 1901, dalla Let-

tera di Lord Chandos di Hofmannsthal, dove l'inadeguatezza dei linguaggi all'espressione delle cose e della vita era sancita dalla rinuncia alla parola, dalla scelta, sofferta e meditata, del silenzio. Qui la visione è ribaltata, i valori rovesciati: la dimensione, pur drammatica, di un

universo colto nel suo movimento inarrestabile è resa dall’onnivoro ottimismo di una lingua che, crescendo su se stessa, costruisce sempre nuove forme, nuove modalità espressive, rinverdisce i suoi significati più originari. All’opposto di ogni ascetismo e di ogni rifiuto, di ogni rinuncia del mondo nella parola, Cacciatore costruisce un’opera lucreziana in cui tutte le lingue sono chiamate a narrare gli eventi di quella «forza operosa» che dà vita all’universo. Un’opera del genere richiede un approccio di lucida partecipazione: di non indifferenza verso la radicalità delle scelte che sostanziano il percorso dell’opera, di attenzione al riconoscerne le fonti e i modelli che la legittimano, assieme alla sconcertante originalità. Proviamo allora a ripercorrere le fasi argomentative di questo singolare poème en

I nomi dell’Alterazione

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prose, scandito in quattro sezioni in cui si dipana il filo del racconto di una sorta di cosmogonia dal “realismo astratto”, che da un lato mette in contatto con la dinamica essenziale dello stesso Esistere (l’incipit annuncia la forza ardua del dettato: «Battito battito l'Energia transita»), dall’altro fornisce la chiave per l’interpretazione dei più vari problemi del quotidiano, dal sociale al politico, dall’erotico al religioso,

dalla conoscenza all’etica, alla metafisica: un modello di comprensione che si articola sui livelli variegati in cui l’«Energia» si dispiega, momentaneamente coagulandosi. La prima sezione del trattato gnoseologico che è Ifto itto, è dedicata alla definizione del tema fondamentale: il riconoscimento nell’Energia del.motore che anima l’intero universo e la descrizione dei modi in cui essa, agendo, va via via costruendo le forme della realtà, occasionali e

precari accorpamenti nati da una pausa occasionale del moto. Di qui l’«Arìtmesi inscansabile» nella prima parte, con l’analisi di alcuni dei

movimenti più importanti di questa dinamica: «L’Energia si lascia lo sfacelo alle spalle», «L’Energia è saliscendi ilare», «E intanto per forza addentelliamo la sdrucciolevolezza». Quindi le grandi figure — retoriche — di questa gnoseologia, come il «Discorso a Meraviglia», che rende credibili e affascinanti le cose: «Dall’inesorabile monosillabismo di tanti battiti inferti di battuta in battuta, di sillaba in sillaba, di colon in colon, di orbita in orbita, con pertinace impeto si va sporgendo, in effetti, fuori in un ellittico Discorso a Meraviglia. E si articola per giunture mobilmente traccianti.»; l’«Acquazzone delle immagini» che deriva dalle pause creative dell’Energia e che investe e coinvolge l’individuo; la «Smania» dell’Energia: «E, quand’anche in se stessa, retta

(...) irrequietamente smania l’Energia. Irregistrabilmente ma rigorosamente sussultano le ascisse di ogni punto e i coseni di ogni raggio. E nell’attimo in cui mutilano nettamente, attivamente suturano. Ad ol-

tranza, nel premer che va facendo sopra questo numerico strascichìo

(...) itto itto viene ad estrarne, l’Energia, un incendio sincerissimo: irradiantesi battito battito»; VAlterazione, dinamica che presiede alla tra-

sformazione delle cose, «il ritmo a cui andrà adeguandosi ogni senso possibile l’onnivaga Alterazione»; il «Senso Comune», «godereccio all'impronta e praticante senza tanti scrupoli», che consente il riconoscimento delle cose stesse («L’Energia va da culmine a culmine: terra

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terra il Senso Comune tira a rateizzarla»); ed ancora l’Intelletto, e le

«Piuccheperfette Stanze» dove agisce l’esperienza della realtà: «In quelle stanze della frequenza frenica non accade mai nulla di sensazionale e d’inaspettato che possa giunger a fare colpo di scena. Nulla di solleticante e pruriginoso ... sempre tra categoriche pareti scorrevoli precisamente e che a dovere si danno un cambio che non fa affatto

senso alcuno. E questo e quello soltanto sarà stato quanto è superstite delle spinte dell’Alterazione che da quelle stanze si è ritratta per acquattarsi e svaporare...»; «L’Energia in quelle Distanti Stanze si fa Intelletto che scolma la ponderosità di quanto pratica». La seconda parte di /tto itto è dedicata alla natura e al ruolo, nella

definizione delle cose, dell’«Esterno», spazio in cui l Energia si dipana e che, a sua volta, urge su di noi; quell’Esterno che «quasi niente fosse si scrolla di dosso l’Essere affardellato». «La clausibilità delle clausole carcerate nella realtà, labescente nonché in preda dell’Alterazione, non aspira che riuscire all’Esterno. L’Esterno non è se non l'Energia transitante che non lascia traccia perché si è disfatta di quel surplus affardellato e scadente»; «E ci travolge l’Esterno, con la sua istanza scansoria, mentre ancora oltre e oltre è sempre in atto di altrimenti sostanziarsi». La terza parte è dedicata al rapporto tra Energia e Pensiero («Transilità dell'Energia e veicolaria ritorsione del pensiero»), vale a dire tra il movimento assoluto e incostante e la “ritorsione” del processo mentale che tenta di fermare il movimento per fissarlo e renderlo oggetto. Il Sensorio Centralizzato è il protagonista di questo controllo e organizzazione della realtà attraverso i sensi, realtà che appare come la “comoda” prigione della dinamica vitale («Bighellona la vita s’incarcera nella reclusoria durizia della Realtà»), colta da quell’atto pietistico verso gli oggetti costituito dal pensiero, che si sforza di fermarli per dar loro un nome e un senso. La parte quarta è occupata da una sorta di sintesi aforistica del vastissimo materiale argomentativo precedentemente presentato: la costituiscono i Rinforzi in disponibilità dell’Energia medesima, corollari di approfondimento del “pensiero dell’Alterazione”, quasi un omaggio, attraverso una riscrittura spesso aforistica, priva certo della creatività lessicale delle prime tre parti, ma carica di una tensione che si raffred-

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da in formule sapienziali di grande efficacia, spesso allineate in una serie argomentativa, come nel “rinforzo” 553: «A noi ci tocca ormai non già la Trascendenza ma l’Oltranza. La Trascendenza era allora, sì, un

punto fermo inamovibile. L’Oltranza è adesso una serie di punti mo-

bili forniti di una attrazione continua verso l’innovatività. Pensatore,

in effetti, è soltanto colui che avrà provato, nella propria mente — in quelle distanti Stanze della nostra elaboratività frenica — il raccapriccio della realtà». I temi che attraversa il dettato di /tto itto sono quelli di una cosmologia decifrata inseguendo il filo della trasformazione (l’“alterazione”) di un principio vitale (1’“Energia”) che avvolge cose ed individui e a cui occorre guardare per fondare una realtà fatta non di parvenze o di fenomeni o di inautenticità da smascherare, ma piuttosto di momenti di arresto del moto, di condensazioni degli “atomi” in materia, che l’esercizio intellettuale scopre provvista di senso e legittimazione e il “Senso Comune” riconosce come entità non problematica, familiare e rassicurante. L’ambizioso progetto che è alla base del libro spinge la scrittura ad una tensione ubriacante perché si fa portatrice di una sintesi estrema, tesa a accumulare in alcune “figure” della paradossale narrazione — narrazione di eventi che fondano la sostanza e la fenomenologia dell’esistere — una serie infinita di morfologie della vita quotidiana. È così che Itto itto, è qualcosa di più e di meno di un trattato filosofico: all’argomentazione logica sostituisce la tensione del racconto, ma d’altronde completa la messa in scena immaginosa con il rigore di una consequenzialità necessitante, di una argomentazione che raccoglie le stesse più profonde motivazioni dell’essere. È attraverso queste combinazioni, questi innesti che amplificano la vitalità del discorso, la sua

capacità espressiva e rappresentativa, che Cacciatore va costruendo le tessere del suo mosaico, in cui si disegna un ritratto dell’universo vertiginosamente cangiante, capace di registrare e ricostruire tutti i passaggi attraverso cui l’Energia, la dinamica primordiale dell’esistere, assume le forme degli oggetti più quotidiani, a partire dai volti di uomini che si incontrano, che lavorano, pensano, amano, si organizzano in so-

cietà. Non c’è un piano del vivere che non venga letto e spiegato alla

luce della forza inesausta e inarrestabile che Itto itto rappresenta, la

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sola che dia conto esaurientemente della morfologia delle cose che popolano il reale. È un’acquisizione conoscitiva scoprire via via la drammaticità o l’affettuosità o la fredda consequenzialità con cui si relazionano eventi, oggetti, individui: l’occhio narrante che segue le trasformazioni dell’Energia ha per tutto la propria chiave di lettura, all’interno di un sistema che “tiene” proporzionalmente alla precipitosa proliferazione di particolari, dettagli, parti di un tutto: è l'universo stesso, sempre sul punto di una crisi di organicità. Evidentemente lo sforzo elaborativo di una simile trattazione non poteva che affidarsi ad un linguaggio di assoluta eccezione: con un lessico che non ha pari nella nostra letteratura novecentesca, nemmeno nel filone dell’espressivismo, che pure tanta parte ha avuto nella fondazione di un canone linguistico antilirico, di fortissima “letterarietà”;

con una sintassi di abile costruzione retorica, capace di strutturare un serrato ritmo interno e di organizzarsi in periodi complessi fino all’impervio. La schedatura dei neologismi, degli idiotismi, dei dialettalismi, degli arcaismi, delle singolari accezioni che Cacciatore attribuisce a lessemi del parlato quotidiano, conduce a disegnare una lingua via via elaborata in una radicale distanza dalla lingua media: è un particolare “gergo” ossimorico dello straniamento e della precisione scientifica, dell'ironia e della solennità, quello che unisce, in periodi di grande complessità, parole desuete e parole derivate dal dialetto, neoplasìe e arcaismi e soprattutto un vocabolario costruito su una memoria della lingua greca pervasiva e mitopoietica. Il repertorio s’arricchisce di pagina in pagina: dialettalismi come “sdutto”, “vastaso”; grecismi come “mulsura”, “antròpino”, “migmi”, “ololigone”; arcaicismi come “soppedanee”, “sizigiale”, “duràcine”; idioletti come “ito”, “lallo”, “conco-

zione”, “gloglotta”, “annicchiandosi”. Una creatività linguistica votata all’eccesso, all’oltranza, dissipa qualsiasi canone di economia comunicativa ed espressiva del linguaggio per esaltare le risorse apparentemente infinite della parola. Da un lato si verifica, accentuato, ciò che

Filippo Bettini scriveva ad introduzione dei Graduali (Manni 1986, p. 20): la parola, in Cacciatore, « diviene il luogo in cui si rappresenta la mobilità trasformativa dello stesso linguaggio nel divenire istantaneo dell’esperienza e del pensiero. Non solo i referenti chiamati in causa

I nomi dell’Alterazione

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dal segno, ma il segno in quanto tale è concepito ed espresso nella transitorietà dei momenti in cui si esplica il fenomeno globale dell’Alterazione». O, per dirla con le parole di Paola Del Giudice, la scrittura

cacciatoriana «è il luogo in cui il repertorio lessicale viene dilatato ... in cui è estratto l’esprit del nome ... i suoi [del nome] elementi costitutivi interagendo tra di loro creano un campo di forze in continuo fermento, mentre l’attenzione del lettore rimbalza dalle cose alle parole» (L'icona vuota, Solfanelli 1991, p. 24). La distanza di una pagina così elaborata dal linguaggio “comune” sancisce il piano astratto ma determinato in cui si colloca e agisce la riflessione: il mondo del pensiero e della trasformazione, della conoscenza e dell’emozione è narrato da

una prosa che vuole inseguire nelle pieghe più riposte l’“alterazione”, la trasformazione della materia e dei suoi molteplici esiti. Allora è proprio la complessità della parola a porgersi come strumento indispensabile per una simile quéte: non soltanto per il dinamismo che raccoglie e rappresenta nella sua medesima composizione — non soltanto, quindi, per la qualità intrinseca della forma — ma anche per la capacità descrittiva e analitica che una parola del genere possiede, per le possibilità di conoscenza che essa produce. La lingua di Cacciatore giunge con Itto itto al culmine del paradosso per cui ciò che è tanto più distante dal linguaggio medio, in effetti consente un alto grado di consapevolezza della realtà, a tutti i suoi livelli. Ma non è soltanto la costruzione lessicale, morfologica del linguaggio di Cacciatore a presentarsi come un momento eccezionalmente produttivo di senso: anche il suo stile, la retorica della sua narrazione, l'oscillazione tra fluente continuità del raccontare e arresto riflessivo,

clausola ostensiva del farsi stesso del discorso. «E, lì lì, vige. Vige, perciò: fino a consolidarsi. Fino a indurirsi di conseguenza.»; «AIl’Esterno della nostra boccheggiante vuotaggine in razioni dentro cui appena appena gloglotta, e quasi si gingilla annicchiandosi appena appena, ecco l’Energia ansima. Ansima, ululo ululo, inauditamente: quand’anche, afona geometria. E, quand’anche in se stessa, retta retta (falda

falda, e spalto spalto compattissimi), irrequietamente smania l’Energia»: dove la tecnica della ripetizione da un lato produce un arresto nel fluire «ondivago» della narrazione, dall’altro riproduce, sia nel senso che nel suono, l’insistenza ritmica del movimento energico che

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scandisce l’“Alterazione”, dunque rappresentando compiutamente i due movimenti — lo scorrere e l’arrestarsi — che presiedono la vita dell'Energia e lo stesso modo in cui, da essa, si produce la realtà. Dunque questi “sfaldamenti” da cui hanno origine le cose — come i clinamina lucreziani - hanno una duplice matrice, materiale e linguistica: sono esiti di una dinamica universale e di un movimento del linguaggio in cui è in campo la tensione conoscitiva e quella emotiva, la volontà di raccontare il mondo e l’esigenza di soffermarsi ad esclamarne la meraviglia. «Discorso a Meraviglia», chiama Cacciatore l’affabulazione che scaturisce dalla realtà sottrattasi momentaneamente all’Alterazione ed è il discorso attraverso cui l’individuo esprime le proprie emo-

zioni sul mondo, sugli altri, sulle cose. Tutta la poesia di Cacciatore, finora, aveva messo in scena questo «Discorso a Meraviglia», le infinite esperienze nel reale scandite dalle «acutezze» di un barocco teso alla “scientificità”: e dietro a questa poesia c’era l’esperienza di un’opera aurorale, quella da cui aveva preso le mosse l’avventura scrittoria di Cacciatore, L’identificazione intera, memoria-saggio-racconto d’e-

sordio, nel 1951. L’identificazione già proponeva temi sviluppati poi da Cacciatore, negli anni Sessanta e Settanta nelle sue poesie: il “mito” dell’ Alterazione — come grande chiave di interpretazione del cosmo — progressivamente si delineava attraverso una fenomenologia storica, un’allegoria complessa di eventi e personaggi. Emergeva la dialettica tra l'Energia e quello spazio distinto non da essa, ma da ciò che essa produce che è l’Esterno, dato fondamentale per accostarsi alla lette-

ratura di Cacciatore. L’Esterno — non l’Interno di una tradizione spiritualistica coniugata nella logica solipsistica del redire in te ipsum — è

il polo di quel confronto-scontro da cui nascono tutte le cose, individui compresi. Il sistema di pensiero — oltre che l’ universo immaginativo — di Cacciatore si disegna nel rifiuto di una nozione centripeta e assolutizzante dell’Essere: la sua è piuttosto una visione radicalmente laica che individua la matrice dell’esistere nella trasformazione e nel confronto con l’altro. Lì, nell’Esterno che preme sulla realtà del soggetto formandola e invadendola, è la matrice del nostro modo di stare al

mondo e di conoscerlo. «Questo pensiero che si tiene lontano da qualsiasi soggettività per farne sorgere come dall’esterno i limiti, enunciarne la fine, farne scin-

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tillare la dispersione e non raccoglierne che l’invincibile assenza, e che al tempo stesso si tiene sulla soglia di ogni positività, non tanto per afferrarne il fondamento e la giustificazione, ma per ritrovare lo spazio dove essa si dispiega, il vuoto che le serve da luogo, la distanza nella quale essa si costituisce e dove sfuggono, non appena osservate, le sue certezze immediate — questo pensiero, in rapporto all’interiorità della nostra riflessione filosofica e in rapporto alla positività del nostro sapere, costituisce quello che potremmo chiamare in una parola “il pensiero del di fuori”». Scrivendo di Maurice Blanchot, in un saggio del ‘66, Michel Foucault così descriveva l’eterodossia di un pensiero tutto teso a cogliere la sostanza del reale nella relazione dell’Essere con l'Altro, nella prospettiva nietzschiana della ripetizione e della differenza. La radicalità del pensiero di Blanchot e Foucault è nel rifiuto dei miti pseudoumanistici di una identità soggettiva “forte”, omogenea, compatta, nella messa in crisi di una centralità, appunto del soggetto, che la storia del pensiero occidentale ha spesso ribadito in termini autoritari. Cacciatore recupera da un lato questo dissenso verso la cultura dell’individuo come possessore di una identità-verità, dall’altro lo vivifica — da scrittore — con una attenzione alle cose e alla vita che si presenta come una fame onnivora di realtà. Proprio nel momento della massima astrazione di un pensiero che sembra irridere alla natura del “materiale” come mero cascame dell’Energia, proprio in quel momento di questo “materiale” si coglie il fascino, la bellezza, la dolcezza. Per questo /tto itto è, in fin dei conti, un’opera di ricerca drammatica di una verità sul mondo, ma anche una riconciliazione con le

cose che questo mondo popolano, con i linguaggi che di queste cose — e dei loro movimenti — parlano, con gli eventi dell’esistenza. Itto itto ha alle spalle un itinerario letterario di singolare rigore e pregnanza nel nostro Novecento: ne rappresenta la sintesi più completa per la capacità di sistematizzare temi e stilemi che avevano caratterizzato versi e prose di Cacciatore. Sancisce, enfatizzandola con la sua mole, l’istanza titanica che anima l’invenzione continua della serit-

tura, l’ossessione eroica della ricerca di una parola che con la propria

singolarità esprima la singolare bellezza delle cose, amate prima che

l’Alterazione le disperda.

IL PARTITO PRESO DELLE PAROLE

Giorgio Patrizi

Esistono testi il cui destino è quello di perdersi nel mare dell’intertestualità. Sono scritture scandalose, provocatorie, irriducibili al compromesso che, nell’istante in cui si scontrano con la tradizione o con

l’ideologia, provocano deflagrazioni, rigetti e dunque processi di rimo-

zione, di occultamento, di silenzioso assorbimento, nel tentativo di di-

sinnescarne la portata dirompente. L’opera di Edoardo Cacciatore è stata condannata, nel Novecento italiano, a questo percorso, pagando con una vera e propria damnatio capitis la sconcertante singolarità del testo. Sarebbe difficile rintracciare il nome di Cacciatore nelle più diffuse antologie di poesia italiana. Ad accostarlo, a studiare, analizzare i suoi testi sembrano essere proprio coloro che avevano attraversato l’avventura della neo-avanguardia degli anni Sessanta senza conoscere come e quanto, dietro quell’esperienza, ci fosse l’acutissima presa di coscienza del linguaggio di La restituzione (del ’55) o de Lo specchio e la trottola (del ’60). A chi poi frequentava la teoria e la critica letteraria fuori d’Italia, il nome di Cacciatore ritornava, di anno in anno, da recensioni, traduzioni, antologie. Con un fenomeno — per nulla isolato, d’altronde, nella nostra cultura — di “ritorno del rimosso”, alla coscienza della poesia italiana era restituito, dall’esterno, un testo che, magari

assunto ed interiorizzato da diversi poeti contemporanei, era però mi-

sconosciuto, appunto rimosso. Ed allora Cacciatore, tradotto in tedesco dalla rivista «Merkur» negli anni Cinquanta, o recensito dal «Times Literary Supplement» come una pietra miliare del Novecento italiano, o tradotto nell’antologia Altro polo edita in Australia (Sidney 1980) dedicata ai più importanti poeti italiani contemporanei, finisce per diventare una sorta di cattiva coscienza della nostra poesia, denun-

ciando, con la sonorità barocca e col ritmo pitagorico dei propri versi,

con il rigore di un umanesimo laico e materialista, la rimozione subita. Contro questa damnatio memoriae, per il recupero di un'esperienza

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importantissima del nostro Novecento, capace di fondare una poesia gnomica attraverso l’amplificazione del linguaggio, occorre una lettura che segua il filo razionale del pensiero cacciatoriano e del “discorso” che da questo nasce. Potrebbe apparire singolare che una pratica poetica così legata ed attenta alle dinamiche linguistiche abbia il proprio momento germinale in un grosso volume speculativo e narrativo assieme, L’identificazione intera (1951), se non si tenesse conto della singolarità del testo che svolge una meditazione sull’uomo e sul mondo attraverso una sorta di racconto onirico-biografico, in cui i temi capitali della morte, della ragione, della realtà, della libertà, appaiono condensati in immagini, eventi di estrema densità problematica. Cacciatore raccoglie in questo libro la sfida che la realtà lancia al linguaggio e all’individuo e, a sua volta, rilancia una nuova sfida alle istituzioni del linguaggio e della cultura. La sfida raccolta è quella della possibilità di comprendere il reale e riconoscervi l’identità totale dell’uomo. Ciò può essere ottenuto, secondo Cacciatore, attraversando i fe-

nomeni della realtà con la consapevolezza dell’alterazione del soggetto e delle cose. È questo il valore centrale attorno a cui Cacciatore realizza la propria costruzione intellettuale. Coscienza dell’alterazione come processo conoscitivo e come strumento di auto-coscienza. Metro del tempo e dello spazio, misura del divenire. Il linguaggio, di conseguenza, si definisce come sede dell’“identificazione” e specchio dell’“alterazione”. La sfida che Cacciatore intende a propria volta lanciare, è quella di un linguaggio che si organizza aderendo perfettamente a questa costruzione logica, anzi facendosi già momento deputato dell’alterazione. Il lessico appare selezionato secondo criteri di sonorità e di distanza dal quotidiano, la sintassi è tesa e calibrata secondo una retorica meditativa e sentenziale. Appare evidente come la sfida si definisca nella possibilità di riformulare l’espressività del linguaggio a partire da una istanza razionale e morale: è questa istanza che produce il senso attorno a cui si coagulano le immagini e da essa tutta la dinamica della scrittura muove, si carica d’intensità. Qui nasce quella «metafora continua di cui l’uomo ha nutritivamente bisogno»; soluzione provvisoria di un itinerario intellettuale che conduce invece lungo il flusso della «ragione nei suoi infiniti rapporti», dunque dialettizzando la sintesi

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metaforica in una catena ascendente di conoscenze, il cui fine è la più ampia coscienza possibile della realtà. Da un idealismo corretto di bergsonismo e da una sensibilità pitagorica all’equilibrio della natura e dell’universo, a Cacciatore deriva quel pathos costante che anima i versi e che rende di ricchezza inusitata i meccanismi linguistici in atto. La restituzione, secondo momento di questa lettura ed interpretazione del mondo, organizza tutti i materiali logico-riflessivi del volume precedente attorno al progetto di una “retorica della realtà”. La coesività del discorso, ancora una volta, appare evidentissima; non raccolta di

versi ma poemetto, La restituzione è scandita in sette tempi, corrispondenti ad altrettante scansioni del cursus oratorio classico. Anche qui, se il disegno complessivo appare quello del processo di “restituzione” della realtà al suo senso veritiero ed originale, l’articolazione è ricchissima di eventi che progressivamente tendono ad incidere una “natura” che dura ad aprirsi, aldilà dei fenomeni, all’esperienza radicale del soggetto. È così che ad ogni sezione corrisponde un livello, gradualmente più profondo, di comprensione delle cose. Muovendo programmaticamente dal quotidiano, alla cui automaticità si intende sottarre il linguaggio («Parole che durano in linguaggio connesso / Nuove perché non più al soldo della vita / Felicemente morfologia inaudita») si compie un attraversamento degli spazi esistenziali (la città, la storia, il mondo come fonte esperienziale). La scoperta del reale come connessione di fenomeni che si rimandano l’un l’altro specularmente riconduce al soggetto conoscitivo, spettatore di una spettacolarità diffusa, come alla sola coscienza capace di dare senso alle cose. L’alterazione soggettiva attraverso cui passa l’approccio al mondo è il riconoscimento del divenire incessante che solo può “restituire” la realtà materiale originaria, e non quella apparente o ideologica. E la visione restitutiva passa — e non può darsi altrimenti — nella parola, luogo della verità giudicante e giudicata. Il linguaggio di Cacciatore si sostanzia di spessa corporeità («Corre corre il sangue ma in noi un’altra gara / L’intimità già esterna in storia si stanzia / Controluce la tua mano innocente impara / A macchiare di sangue adulto anche l’infanzia») e, al tempo stesso, è capace di strutturare la propria visionarietà in costruzioni acrostiche, come quella nota «Zampilla uno zodiaco da ogni zero», dove la successione alfabetica, invertita, organizza versi in

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rima baciata, in ognuno dei quali le parole iniziano con la stessa lettera.

Questa rigida architettura, che può ingabbiare endecasillabi cantati o rime aspre e rare (come la terzina finale del componimento in cardo/bugiardolazzardo), è una delle espressioni più tipiche del lavoro di Cacciatore sulla parola e soprattutto sulla coscienza di essa. Il lessico è estremamente composito e attinge al discorso quotidiano («Parlaci di ieri, raccontaci la gita») come alla tradizione “alta” («inganno inane e inavvertito»), la sintassi si organizza attraverso una singolare discorsività che ricuce le immagini di ogni verso, assemblando i ritmi specifici di ciascuna di esse («L’amore non più a caso ecco ridiscende / Per orecchi ha il mare la luce per fronte / Gradino gradino il desiderio lo prende / Ogni cavo di mano svuota in orizzonte»). Ma l'elemento più caratteristico e, in qualche modo, più originale del lavoro linguistico di Cacciatore è l’uso della rima che, costantemente, fornisce l’intelaiaturadi maggiore solidità al fluire levitante delle parole. Cacciatore dispone le proprie rime secondo quelle aggregazioni che assicurano più intense assonanze e maggiore ritmicità (rime baciate o incatenate). Le rime, poi, si contraddistinguono per la straordinaria varietà delle parole che le formano: sono rime rare, realizzate con forme verbali (gerundi, infiniti), con parole quotidiane o ricercate (illune/fune, arpioni/limoni, fermaglio/risveglio/tiglio). Spesso rimandano a forme strofiche tradizionali (sonetti, ottave, stanze), ma

per lo più intessono un andamento colloquiale che da esse assume solennità sapienziale. Scriveva Giuliani, in un saggio del ’57, poi ripubblicato in Immagini e maniere, che la cadenza dei versi de La restituzione «è trocaica o dattilica, cioè il ritmo è ascendente nel primo emistichio e discendente nel secondo». Quindi «i cola, non le sillabe, co-

stituiscono le unità ritmiche» e «se si vuole comprendere la struttura sintattica, il tempo e le variazioni di tono di questa poesia, bisogna adeguarsi all’impulso ritmico». Questa annotazione ci fornisce la chiave per definire il rapporto che, nella versificazione di Cacciatore, s’instaura tra il livello fonico-ritmico e il livello logico-semantico. Non è attribuibile un maggiore grado di significazione ad un livello piuttosto che ad un altro. Entrambi acquistano senso soltanto attraverso una reciproca amplificazione dei campi semantici. La struttura logico-refe-

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renziale acquista evidenza materica e suggestione visionaria attraverso la ricchezza delle aggregazioni linguistiche; queste guadagnano spessore sapienziale dal senso filosofico che le attraversa. Ne Lo specchio e la trottola (1960) questa omogeneità della scrittura, oltre a riproporsi nell’architettura dei versi che ripercorrono la dinamica dell’affettività umana — dedicando sezioni alla libido sentiendi,

e dominandi e una all’innamoramento - si definisce nel saggio introduttivo, Intorno alla poesia e all'uomo moderno, in cui il processo straniante del linguaggio poetico è ridefinito come acquisizione di una verità seconda delle cose perdute nell’automatismo del quotidiano. Lontano dunque da qualsiasi dettato sentimentale, Cacciatore riafferma l’assoluta necessità della “forma” come il modo, contingente ma irrevocabile, in cui il linguaggio parla, «il kairòs, il tempo giusto, il momento proprio per introdursi, con i sensi e l’intelletto ad una, in quella disposizione di totale abbraccio comprensivo (...) contrappeso di eterno equilibrio alla fuggevolezza fenomenica». La poesia, con gli strumenti di Apollo e Dioniso (appunto lo specchio e la trottola) ripercorre la strada dell’uomo, dalla perdita dell’Essere alla scoperta dell’Esistere. La lezione delle cose, come suona il sottotitolo del saggio Dal dire al fare (1967) che riprende la linea teorico-riflessiva dell’opera di Cacciatore, è quella di porsi alla fruizione del soggetto come testimonianza di una signoria del reale perduta per sempre. Ma da questa condizione — che è poi quella del Moderno — deriva la dinamica del flusso vitale ininterrotto, del flusso dell’esistenza: «L'uomo moderno

accoglie in sè un incremento che lo tartassa e lo sospinge fuori di sè e lo sorpassa». La perdita dell’identità si tramuta nella ricchezza del cangiare e del rinnovarsi e «in questo nubifargio alla fine, anche le cose più strettamente funzionali acquistano quel tanto di supremamente gratuito fuori e, dentro, di innamoramento straziante». La poesia allora, lavoro del linguaggio e sul linguaggio, si profila come unica possibile voce della restituzione delle cose ad un senso, attraverso la morte

al mondo quotidiano, all’ideologia del consumo. La raccolta Ma chi è qui il responsabile?, in questo disegno conoscitivo-espressivo, replica ed arricchisce i meccanismi dell’interpretazione e del giudizio: versi duttilissimi ripropongono ora un registro propositivo («Pienezza qui graffia ad oltranza / (...) Rifiuta l’idillio ed

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avanza»), ora gnomico («Che immane disegno / Riassumo / Anche la nostalgia / E m’impegno / Di confondermi col fumo»), ora con reattiva partecipazione al mondo («Evita la visione / L’irrealtà che ha nevralgie

/Tremano le cose spie /D’un mondo che ci oppone»). Il dispendio del linguaggio— dissipazione di una parola che lievita, si gonfia, si coagula, si scioglie — scorre con ilpathos di una sete di conoscenza e di una tensione al giudizio. Quanto più lo sforzo della versificazione s’ingabbia in rigide geometrie — ma geometrie pitagoriche, s'è detto, mai cartesiane — tanto più l’asprezza del verso, la fatica del linguaggio piegano ad espressività inaudite le parole quotidiane. Lo scandalo dei versi di Cacciatore è proprio in questa forza irreversibile che essi acquistano nella dinamica testuale, esempio non esorcizzabile dell’assoluta crudeltà — in senso artaudiano — della parola letteraria. La sua necessità totale, a rischio della perdita di senso; il suo destino di rinuncia al mondo fissato e definito, per ricercarne il senso nel mutamento instancabile. Questa sorte della scrittura, che Cacciatore esibisce e porta a compimento, è contraddizione insopportabile all’istituzione letteraria e all’ideologia. Nei Graduali, testi del ’53-°54 raccolti in volume nell’ ’87, quattro sezioni scandiscono i componimenti dal numero di versi sempre cre. scente, da quattro a sette; il verso lungo (12 013 sillabe), ora libero ora ritmato in rime alterne, assicura un continuum discorsivo alla figura che rappresenta il processo centrale del mondo intellettuale e percettivo di Cacciatore, l’“alterazione”, come si è detto. Cogliere l’alterazione come modo dinamico dell’esistere vuol dire anche rinvenire la chiave della possibilità di comprendere il reale e riconoscervi all’interno l’identità totale dell’individuo. Ciò può essere ottenuto, secondo Cacciatore, attraverso i fenomeni della realtà con la consapevolezza dell’alterazione che subisce il soggetto; la poesia diviene allora la scena su cui “accade” la rappresentazione allegorica del mondo: allegoria come costruzione del senso delle cose e come elaborazione del senso del linguaggio. I SI sonetti della Puntura dell’assillo offrono una struttura più rigida ad un tema più complesso, al limite della significabilità: la rappresentazione della natura e dei meccanismi del pensiero è costretta nel verso lungo fissato nel ritmo battente del doppio senario. Emerge da que-

. Il partito preso delle parole

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sti testi tutta la complessa formazione di Cacciatore, legata a filoni inusitati della cultura occidentale — come quello della poesia mistica — oppure risalenti, attraverso fenomenologia ed esistenzialismo, ai grandi temi della filosofia greca classica, al vitalismo eracliteo o alla cosmogonia pitagorica. Tutto ciò si concentra stratificandosi, nello spessore linguistico rivelato da un lessico estremamente ricco, ora “alto” ora costruito ex novo, strumento specifico della meditazione, molteplicità d’immagini e di suoni verso cui essa si dipana. Caratteristica l’organizzazione di un simile apparato verbale che ruota attorno ad alcune parole cardini, usate in modo straniato rispetto all’uso quotidiano e spesso fuori da accezioni tradizionali — come assillo, energia, transile — che

consentono la formulazione di concetti analitici totalmente nuovi. Ogni sonetto enuncia e descrive un modo, un “gesto” del pensiero nel suo rapporto con le cose e con i soggetti pensanti. La ricchezza di tali articolazioni si modella sull’esigenza di restituire verbalmente le diverse fasi di processi cognitivi ed intellettivi; esigenza che a sua volta necessita di un’amplificazione del lessico del tutto particolare, che, oltre all’uso specifico di alcuni termini di cui si è detto, è nutrito da ricordi dialettali, neologismi, parole colte e rare. Insomma una costruzione testuale di alta complessità in cui si saldano, in una ferrea corrispondenza, le dinamiche del linguaggio e quelle del pensiero, come nella rapida e perentoria sintesi di questa quartina: «Pensare è sorreggere i transili schianti / Secondo l’assillo che punge ove smania / Il tatto vi avoca e lo modula in tanti / Ribattiti espansi la sparsa zizzania». AI bricolage di citazioni di tanta poesia postmoderna o all’uso indebitamente filosofico di testi letterari tanto diffuso in alcune aree dell'estetica, risponde “un pensiero in forma di poesia” che, come tale, non cessa di svolgersi, di arricchirsi, di amplificarsi. Cacciatore è sen-

z’altro una delle voci più importanti del Novecento italiano: definire quanto gli debbano le riflessini teoriche e i testi più rappresentativi della poesia di questo secolo è un’operazione complessa che, oltre a rispondere ad una istanza di rigore filologico, è un dovuto atto di risarcimento.

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ao di tanpre presso la Tipolitografia Porziuncola in S. Maria degli Angeli — Assisi (Pg) nel mese di gennaio 1997

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L'opera di Edoardo Cacciatore, ingiustamente tenuta ai margini della letteratura ufficiale, si impone oggi come una delle più strabilianti e coinvolgenti esperienze di scrittura poetica, inventiva e rigorosa in grado ugualmente

alto, satura di “sapere” filosofico e linguistico e nel contempo al passo con le trasformazioni del mondo. In questo libro collettivo, un gruppo di studiosi esplora i contorni e le articolazioni di questa poesia-pensiero, dando piena “restituzione” del suo valore estetico e culturale, in

polemica con i profili consueti cento letterario.

del Nove-