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Italian Pages 281 [172] Year 2012
David Ballerini
Edipo re e Medea di Pier Paolo Pasolini:
mito, visione e storia di due sfortune
Ai miei genitori. Chi veramente volesse far conoscere le mitologie, non dovrebbe prima appellarsi a considerazioni e giudizi teorici […]. Neanche delle fonti si dovrebbe parlar molto. Bisognerebbe prendere e bere la pura acqua della sorgente […]. (Kerényi, Prolegomeni… )
Critone, dobbiamo un gallo ad Esculapio: dateglielo e non dimenticatevene! (Platone, Fedone ) INDICE.
Tutte le vie per perdersi. 5 Incontro coi padri. 15 I figli. 30 Un infantile, allucinato, e pragmatico amore per la realtà. 81 La madre. 139 Tutto è santo! Tutto è santo! Tutto è santo! 190 Appendice di commento alla bibliografia. 214 Bibliografia. 216
Tutte le vie per perdersi. Nel 1967, Pier Paolo Pasolini era già oggetto (o, per meglio dire, soggetto) di scandalo e di acceso dibattito, quando, dopo un singolare prologo di freudiana parvenza, un baldo ma spaurito Edipo (nella persona di Franco Citti –uno dei suoi attori feticcio) tentava tutte le vie per perdersi, ma tutte le vie, inevitabilmente, lo risospingevano verso Tebe e verso il compiersi di quel suo amaro [1] destino . Più in dettaglio, come noto, Edipo si allontana disperato dall’oracolo che gli ha appena profetato l’inevitabilità del suo destino (una splendida scena su cui in seguito torneremo molto più distesamente); il sole battente sembra perseguitarlo e percuoterlo dall’alto; il solo pensiero di tornare a Corinto lo sgomenta. Come riemergendo d’un tratto dai propri pensieri e dal proprio dolore, ne scorge l’indicazione incisa su pietra, e fugge dalla parte opposta. Edipo cammina solitario attraverso il deserto (luogo quanto mai simbolico, per chi vuol perdersi), senza una meta precisa, desideroso solo di andare a cercare la sua fortuna in un qualsiasi altro posto, lontano da casa e da coloro che lui vuole ancora credere che siano i suoi genitori. Lungo il suo cammino, prima di incappare fatalmente –per ucciderlo –in Laio, re di Tebe e suo vero padre, fa vari incontri: tra gli [2] altri, il ridente festeggiamento di un matrimonio; la danza di uno sciamano ; una misteriosa e [3] conturbante apparizione femminile . Soprattutto, incontra vari bivi e crocicchi (ben quattro, per la precisione –più un quinto nel luogo dell’uccisione del padre): ogni bivio rappresenta una scelta, ed ogni volta Edipo ostenta di non voler scegliere, e lascia che sia il caso a scegliere per lui: si copre gli occhi, gira più volte su se stesso, imbocca la prima via che gli capita; ogni volta, però, una pietra miliare segnala allo spettatore del film che Edipo, incredibilmente, prende sempre la stessa direzione, cioè verso Tebe: il Caso si è già tramutato in Fato. Come noto, tutta questa parte del film non è stata ripresa dalla tragedia di Sofocle, che da subito incomincia in medias res con Edipo sovrano di Tebe e con la peste che già infuria sulla città, ma
mette in scena (così come avviene per la fanciullezza di Edipo, per la scena dell’oracolo, ecc.) una parte dell’antefatto mitico della tragedia. Al modo in cui Edipo finisce per capitare a Tebe, Sofocle non dedica che pochi versi: Per il ritorno misurai le stelle, la direzione della mia Corinto, e mi sbandavo, lontano, dove non vedessi maturare mai lo scandalo dei miei presagi neri. Passo dopo passo, [4] tocco i luoghi dove dici cadde nella morte il vostro re. Di fronte all’esiguità dell’accenno di Sofocle, tanto più rilevante e carico di novità dovrebbe apparire il trattamento che ne fa Pasolini: rilevante quantitativamente (circa 6 minuti), ma, soprattutto, rilevante stilisticamente, e per molte ragioni, la più evidente delle quali è ovviamente la fortissima iterazione della scena dei bivi. Tanto più, che questa iterazione non è presente nella sceneggiatura, e perciò dovrebbe rappresentare come un “campanello di allarme”, un indizio chiaro e incontrovertibile, e non casuale, di un’avvenuta riflessione e maturazione dell’autore, in corso d’opera, su questa parte del suo lavoro. Tanto più, infine, che questa lunga sequenza è una delle più chiare e importanti indicazioni che abbiamo, per aiutarci ad individuare con esattezza quale tipo di operazione culturale e linguistica Pasolini stesse compiendo con i suoi film mitologici, e in che maniera tali film possano essere inquadrati nel complesso della sua opera. Ma la critica italiana (a riprova dello scarso interesse e comprensione che ha sempre avuto per i film mitologici di Pasolini) ha quasi sempre totalmente ignorato questa traccia. Tentiamo allora, a verifica di una tale affermazione, una prima rapida rassegna dei principali studi critici italiani sull’opera cinematografica di Pasolini. [5] La prima vera monografia italiana sul cinema di Pasolini, la scrive Sergio Arecco nel 1972 : ma in questo testo, anche frugando bene bene tra tutte le arzigogolate e sperticate smanie ermetiche che lo percorrono, sembra non trovarsi alcuna traccia di questa sequenza. Quando invece nel 1974, [6] Sandro Petraglia scrive il primo Castoro Cinema dedicato al nostro autore (testo ben più leggibile e diffuso del precedente di Arecco), finalmente qualche riga viene dedicata alla questione; ma giusto qualche riga: Il prologo è un esempio unico nel cinema di Pasolini […] colma anche certe deficienze strutturali, superandole con la bellezza di alcune intuizioni fulminanti . Un esempio tra i molti: l’impossibilità di eludere il destino viene espressa da un gesto ricorrente di Edipo che si copre gli occhi e gira su se stesso per scegliere una delle strade che gli si offrono ai bivi. Inutilmente. Mentre si allontana dopo aver deciso, la macchina inquadra [7] invariabilmente la scritta Tebe. [corsivo nostro] E si rammenti bene quel riferimento all’intuizione che abbiamo evidenziato (così in tono con l’impostazione tendenzialmente idealistica e contenutistica dello studio di Petraglia), per quando vedremo in dettaglio quanto esso sia inadeguato a spiegare la sequenza in esame. [8] Il bel libro che Lino Micciché pubblica nel 1975 cercando di dare una lettura complessiva e sfaccettata del cinema italiano degli anni ’60 (e che qui trattiamo per l’ampia attenzione che presta a Pasolini in uno specifico capitolo a lui dedicato), decisamente spicca su molti testi coevi per complessità e modernità di approccio, e per la salutare trasversalità delle tematiche trattate. Ovviamente, a ormai quasi trent’anni di distanza da quando fu scritto, non tutti i giudizi e le valutazioni di allora potrebbero oggi parere condivisibili o accettabili; ma certo è che, in un contesto provinciale come quello della critica cinematografica italiana, che ancora oggi stenta ad uscire dalle secche di un approccio puramente monografico e autoriale e di un’analisi ingenuamente contenutistica, bisogna proprio rendere merito a Micciché (soprattutto nella prima e più generale parte del libro) di aver avuto fin da allora il coraggio e l’acume di affrontare anche tematiche
“insolite” come quelle relative ai mestieri del cinema, al cinema di genere e di consumo (anche il più trito), ai rapporti tra il cinema e determinati fenomeni sociali e politici, alla censura, agli ambiti produttivi, distributivi e legislativi, ad un’analisi storico-quantitativa della fruizione, ecc. Ciò che ne risulta è un notevole affresco sociale, economico e culturale di quegli anni; e nonostante Micciché dichiari apertamente, all’inizio del libro, la sua appartenenza politica e la sua non neutralità, questo libro appare, per gli anni in cui fu scritto, insolitamente e felicemente scevro di sovrastrutture e [9] impacci ideologici . Anche il capitolo espressamente dedicato a Pasolini è ricco (come vedremo meglio in seguito) di molte interessanti osservazioni, soprattutto a riguardo di una lettura e sistemazione complessiva dell’opera di Pasolini. Con lucidità, Micciché denuncia senza mezzi termini l’assurdità e l’improprietà di un giudizio puramente ideologico sull’opera pasoliniana (salvo [10] qualche volta indulgere lui stesso, come vedremo, nello stesso errore) ; allo stesso modo, dimostra di avere chiara coscienza dell’intrinseca difficoltà che un’opera tanto vasta e variegata come quella di Pasolini oppone ad un qualsiasi approccio critico complessivo e non banale: Probabilmente è a causa di una produzione talmente vasta ed eterogenea […] che mancano studi complessivi, approfonditi ed esaurienti sulla composita opera di Pasolini, che pure costituisce, per ormai quasi unanime giudizio critico, uno degli episodi più rilevanti della cultura italiana del dopoguerra. […] il documento illustrativo più ricco sulla complessiva opera pasoliniana finisce paradossalmente per essere un volumetto francese del 1970, tutt’altro che specialistico, consistente in una chilometrica conversazione critica di 140 pagine, ricca di spunti e di illuminazioni, tra un giovane [11] critico transalpino, Jean Duflot, e il poeta-saggista-regista-romanziere italiano. Si noti bene il riferimento al «giovane critico transalpino», perché nel 1975 la conoscenza di quel libro brillava come una vera primizia, e, come vedremo più avanti, lo scritto di Duflot è effettivamente un tassello fondamentale per la comprensione del lavoro che Pasolini compie sul mito. Peccato solo che Micciché dimostri, sì, di conoscerlo, ma dimostri anche di non farne alcun uso: di tutte le 20 dense pagine che dedica a Pasolini, solo una scarsa ne dedica ai film mitologici [12] , che se la devono per altro dividere anche con Teorema (1968) e Porcile (1969). A Micciché, i film mitologici di Pasolini si capisce bene che non piacciono, e non si sforza nemmeno tanto di capirli; e così, finendo per l’appunto con l’indulgere lui stesso, in questo caso, in un giudizio ideologico e in un approccio contenutistico, chiude sbrigativamente il discorso: Basti in questa sede rilevare che, talora ricco di alti risultati estetici e sempre imbevuto di colta e a tratti raffinata intensità espressiva, il cinema pasoliniano da Edipo a Medea […] rappresenta […] una vera e propria rinuncia, uno smarrimento vistosamente (ma vanamente) consolato dal ricorso sostanzialmente assolutorio ad astorici Assoluti e, soprattutto, un acritico (e adialettico) cedimento a un’introversione i cui temi di fondo (la Morte e l’Abisso, il Mistero e il Mito) vengono mascherati da una talora affascinante, talvolta grigia maschera antropologica. […] Sembra insomma che […] il cinema di Pasolini abbia dato il meglio di sé […] poco oltre la metà del decennio, senza riuscire [13] neppure esso […] a superare lo scoglio del 1968. Come a dire: dopo Che cosa sono le nuvole (1967), il vuoto. E della lunga sequenza che qui stiamo indagando, ovviamente, neppure un cenno… Due anni dopo Micciché, Adelio Ferrero dedica all’opera cinematografica di Pasolini un libro [14] ormai “classico” e spesso indicato come imprescindibile sull’argomento . La quarta parte del libro si intitola significativamente Il «cinema di poesia» e la riscoperta del mito , e in essa trova posto un capitolo intitolato per l’appunto Riscoperta del mito: Edipo . Anche in questo caso, però, l’attenzione dedicata al lungo viaggio di Edipo verso Tebe, è minima:
Il risultato complessivo, ibrido e composito, alterna sfasature e dissonanze sconcertanti […] a intuizioni e procedimenti di folgorante evidenza poetica: […] il lungo viaggio di Edipo da Corinto a Tebe e la consapevolezza di una irredimibile solitudine, esasperata dai colori accecanti del paesaggio e dai suoni ossessivi degli strumenti a fiato e a percussione; il movimento pazzo e circolare su se stesso: l’esplosione della rabbia e del [15] furore nella sequenza dell’assassinio di Laio […] [corsivo nostro] Si noti, ancora una volta, quel riferimento all’intuizione, che, come al solito, “salva capra e cavoli”, sospingendo l’intera questione verso l’idealistica regione della pura poesia, cioè dove, in definitiva, non è più suscettibile di alcuna discussione e approfondimento. E pensare che proprio Ferrero (come vedremo) poco più oltre il passo summenzionato, fa una citazione che avrebbe ben dovuto metterlo “sul chi vive”… Ormai nel 1979, Antonio Bertini scrive un volume che, almeno a giudicare dal titolo, sembra promettere un approccio più originale rispetto a quello più comunemente monografico sull’autore [16] : promette, ma non mantiene. Si limita infatti a scegliere alcuni testi di Pasolini di argomento linguistico o tecnico-stilistico, e a farne una blanda (e non utilissima) esegesi; metodo, questo, si badi bene, non apertamente dichiarato, e che fa sì che, in definitiva, in un libro del 1979, possa ancora quasi sembrare che Pasolini abbia girato in tutto tre film: Accattone (1961), Mamma Roma (1962) e Il Vangelo secondo Matteo (1964); questo perché se Pasolini fa le sue osservazioni sul suo film X, Bertini si guarda bene dall’avventurarsi da solo ad allargare la riflessione o a fare un confronto col film Y. Inoltre, quella che sarebbe dovuta essere la novità più interessante di questo libro, cioè un’attenzione alla tecnica del film, è in realtà una delle promesse più fortemente disattese; per di più, Bertini fa spesso un uso decisamente improprio della terminologia tecnica, il [17] che fa sospettare che in realtà non conosca neppure tanto bene la materia . Né tralascia di dare il suo contributo a certo biografismo e/o psicologismo che, almeno col senno di poi, sembra francamente arricchire ben poco il dibattito critico: Se è vera l’ipotesi che anche gli scritti teorici sul cinema di Pasolini non rappresentano che un ulteriore travestimento (sotto forma saggistica) delle ossessioni personali del poeta, non si può non includere nella metafora del doppio essere della sceneggiatura [18] anche il discorso sulla diversità sessuale di Pasolini [corsivo dell’autore] In questo contesto, i film mitologici di Pasolini vengono a malapena citati, e quasi esclusivamente per le musiche: il percorso di Edipo verso Tebe, ovviamente, neppure menzionato. [19] Così come non ve n’è traccia nel bel libro pubblicato nel 1991 a cura di Annamaria Cascetta (e tutto dedicato allo studio del recupero in epoca moderna del registro tragico e del modello concreto della tragedia classica), che pure contiene due interventi interessanti proprio sul lavoro di Pasolini. Mentre nel secondo Castoro Cinema dedicato al nostro autore e scritto nel 1994 da [20] Serafino Murri se ne parla sì, ma solo in forma di sinossi del film. [21] Intanto, sempre nel 1994, Guido Paduano, in un suo libro molto denso , rilegge un po’ tutta la tradizione moderna di Edipo, cercando di coniugare un approccio freudiano moderno e non [22] banale con un maggior rigore filologico e letterario: e qui un capitolo su Pasolini non poteva mancare. Da esso si arguisce come Pasolini sia in sostanza partito dalla lettura freudiana della tragedia (con tutto quanto ne consegue in termini di tematiche della rimozione del desiderio, di volontà di non sapere, di senso di colpa, ecc.) ma con alcuni “spostamenti” significativi rispetto all’originale greco:
Lo splendido –e spesso sottovalutato –film di Pier Paolo Pasolini presenta una variazione radicale, nei confronti sia del modello antico, sia della tradizione da esso rampollata, investendo di coinvolgimento libidico anche il parricidio. Nell’incontro al trivio, Edipo consuma un vero piacere del sangue, della crudeltà, ma soprattutto della ribellione e dell’esautorazione; e Laio a sua volta non è certo ucciso casualmente, ma perché riconoscibile come padre, incarnazione e simbolo di quell’autorità che trova [23] un’efficacissima forma visiva nella corona «alta come una torre». […] è tuttavia da notare il fatto, pure più che evidente, che l’acquisizione dell’opposizione freudiana tra padre e figlio è compiuta da Pasolini introducendovi una decisa faziosità a favore del figlio […] Trasportato sul piano generale e simbolico, esso comporterà che non è tanto il figlio a insidiare i possessi del padre, come voleva, nella sua apparenza neutra, l’ottica patriarcale di Freud, quanto piuttosto il padre a voler [24] respingere ed eliminare il figlio, sentendosene insidiato. La trama dell’incesto si svolge invece per vicende e volute più ampie, costituendo il [25] Leitmotiv principale del film Alla fine del racconto [del testimone], un abbraccio violento finisce addirittura, stavolta non nella sceneggiatura ma unicamente nel film, con l’apostrofe maledetta: «madre!» Un altro spostamento del film rispetto alla sceneggiatura suona altresì come un clamoroso spostamento del materiale sofocleo e del carattere neutro che esso possedeva: la tranquillizzazione di Giocasta sul fatto che «quanti uomini non hanno fatto l’amore, in sogno, con la loro madre?», è anticipata fino a precedere il racconto di Edipo, e [26] diviene una scandalosa avance . Però, anche senza voler entrare nel merito della giustezza o meno di queste letture freudiane, leggendo questo capitolo di Paduano dedicato a Pasolini, una grossa limitazione nel metodo di analisi balza subito all’occhio “dell’uomo di cinema”: in tutti questi paragrafi dedicati a un film (non a un testo letterario o teatrale, ma a un film fatto di immagini) ciò che veramente manca è proprio il cinema! Il solido piglio filologico di Paduano (molto salutare nella sua applicazione al freudismo e all’interpretazione dell’originale greco), porta lo studioso –difficile dire quanto consapevolmente –a indagare la sceneggiatura (del resto continuamente citata) molto più che non il film in sé e per sé; e anche nelle rare occasioni in cui si parla del film e non della sceneggiatura, non se ne parla mai nei termini dei suoi specifici mezzi di rappresentazione filmica, ma in termini in realtà contenutistici, legati a ciò vi viene “detto o fatto dentro” dai personaggi, a ciò insomma che può essere in qualche modo pensato in termini di dialogo, di parole, o, perlomeno, di teatrale didascalia –ciò che è, in definitiva, il normale territorio di lavoro di Paduano. E anche in questo caso, comunque, il percorso di Edipo verso Tebe viene liquidato rapidamente, su basi psicologiche: A me sembra che esso [il gesto di scegliere le vie a caso] ponga piuttosto in evidenza lo sradicamento di Edipo, l’infelicità della solitudine, rappresentabile in termini fisici come assenza di un’attrazione magnetica che orienti per lui la forza che lo respinge da [27] Corinto. Insomma, un sentimento. Un qualcosa di non troppo lontano dall’ambito di quella «intuizione» che altri prima di lui (come abbiamo visto) hanno scomodato per liberarsi in fretta di questa sequenza… Nel 1996, un altro filologo e grecista, Massimo Fusillo, prima discepolo e poi collega di Paduano, riparte dalle posizioni del maestro per sviluppare in maniera autonoma lo studio del mito e
[28] della tragedia greca in Pasolini , questa volta non limitandosi al solo Edipo , ma affrontando il tema in maniera globale e organica. Il retroterra culturale di Fusillo è in considerevole parte ovviamente analogo a quello di Paduano, e, di conseguenza, per taluni aspetti, il suo approccio all’argomento è simile a quello del maestro: forte piglio filologico; stessi riferimenti culturali; stessa attenzione alla tradizione moderna che precede Pasolini, e, in particolar modo, alla tradizione freudiana e psicanalitica; una certa propensione, anche qui, a perdere di vista il testo filmico vero e proprio, per considerare invece la sceneggiatura, i contenuti, le intenzioni dell’autore, il suo contesto culturale. Tuttavia, non si può però negare un deciso salto di qualità: la confidenza di Fusillo col linguaggio cinematografico è senz’altro maggiore di quella del maestro, e maggiore è l’attenzione che vi dedica; soprattutto, si rivela molto proficuo il maggior bagaglio specificamente antropologico che impiega nell’affrontare l’opera di Pasolini: ed è proprio per questo che, sullo studio di Fusillo, dovremo tornare più volte. Ma vediamo intanto cosa dice di questo annoso viaggio di Edipo: Cecità e volontà di non sapere sono i nodi semantici che dominano ancora nella sequenza successiva che narra il viaggio di Edipo da Delfi in direzione di Tebe; per ben quattro volte, come un Leitmotiv simbolico, viene ripetuta la scena in cui Edipo, di fronte a una pietra che indica la direzione «Tebe», gira su se stesso coprendosi gli occhi […] recarsi […] a Tebe non è dunque frutto di riflessione lucida, ma di una cieca attrazione […] Questa scena è spesso citata come prova di antiintellettualismo, ma è una lettura che si addice meglio alla versione che era prevista dalla sceneggiatura, dove Edipo sceglie fra le due direzioni, Corinto e Tebe [sic], tirando una monetina. Il girotondo su se stesso con gli occhi coperti della versione filmica sembra invece [29] visualizzare, in modo ossessivo, l’angoscia e la solitudine di Edipo […] Una lettura, dunque, vicina a quella del suo maestro. Che dirne? Che dire, per concludere, alla fine di questa rapida e parziale carrellata critica, di questa e delle altre interpretazioni consimili che abbiamo visto (per tacere dei silenzi colpevoli di altri)? Non necessariamente che siano interpretazioni sbagliate, o del tutto impossibili, anzi: sicuramente queste interpretazioni spesso evidenziano dei livelli di lettura assolutamente legittimi del testo filmico pasoliniano; colgono delle sfumature di senso che sicuramente contribuiscono a creare l’atmosfera generale dell’episodio e che altrettanto sicuramente contribuiscono a orientarne la fruizione da parte dello spettatore. E allora? Il punto è, a nostro avviso, che esse non sono sufficienti; costituiscono in sostanza un’occasione sprecata di indagine critica; un sorvolare distrattamente su una porta che l’autore aveva lasciata [30] socchiusa per penetrare nella sua opera . Questa iterazione, infatti, è un mezzo stilistico forte, una sorta di figura retorica, attraverso cui Pasolini guida la metaforizzazione del tema della trasformazione del Caso in Fato. Ovvero: se Edipo, per finire proprio a Tebe in bocca al suo destino, avesse dovuto una sola volta lanciare una monetina, avrebbe avuto ben il 50% di probabilità di imboccare proprio quella strada; cioè una probabilità molto alta, che avrebbe reso molto debole la contraddizione tra Caso e Fato; e se la contraddizione è debole, allora il Caso non può essere eliminato, scacciato, reso nullo dal suo polo opposto. Invece, nel film abbiamo ben quattro sorteggi, più (non dimentichiamolo) un quinto (tutto implicito) sul luogo dell’uccisione, che qui non è tanto (o non solo) una strettoia quanto un ulteriore bivio: ovvero, non semplicemente cinque sorteggi, ma, retoricamente parlando, un’anafora, un catalogo di sorteggi, qualcosa che evocativamente tende all’infinita ripetizione. In seno a questa infinita ripetizione, le possibilità di finire proprio a Tebe si dimezzano ad ogni sorteggio, e sono perciò scarsissime, infinitesimali: eppure, contro ogni probabilità (ovvero contro l’esistenza del Caso), Edipo va a finire proprio dove il destino vuole, dove vuole il suo Fato; la rappresentazione del Caso si è trasformata in rappresentazione del Fato. Ma allora, a questo punto, pare piuttosto evidente che, ai fini specifici di questa trasformazione del Caso in Fato, non è tanto significativo il metodo del sorteggio (monetina, occhi chiusi, girotondo, morra cinese, ecc…), lo stato d’animo di Edipo, o il suo pianto, quanto piuttosto l’oggetto della (non) scelta: cioè, la strada da percorrere; una strada, un itinerario, che, quanto più lo si vorrebbe libero e non causato, non motivato, casuale, invece è tanto più non libero e fatalmente
determinato. La strada dunque incarna la contraddizione stessa che rende possibile la trasformazione del Caso in Fato; più precisamente, la strada è la metafora stessa di questa trasformazione. Né nell’originale greco, né nella precedente tradizione mitologica si presta molta specifica attenzione ai modi e al percorso che hanno guidato i passi di Edipo dall’oracolo a Tebe; eppure qualcun’altro vi aveva già prestato attenzione prima di Pasolini; un qualcuno di estremamente importante per tutto il secondo novecento italiano: Cesare Pavese.
Incontro coi padri. [31] Come ha fatto una traccia così importante a essere trascurata per così tanto tempo? Eppure è [32] proprio quel che è successo. Dei suoi splendidi Dialoghi con Leucò , Pavese ne dedica ben due a Edipo, il secondo dei quali si intitola, non a caso, proprio La strada : in esso, Edipo dialoga con un mendicante, che, pur riconoscendo l’atrocità del destino dell’eroe ormai vecchio e cieco, non sa trattenersi dal considerare che, in fin dei conti, Edipo (a differenza di sé, che, nella vita, è sempre stato povero e derelitto, eppure non si lamenta tanto), ha pur potuto assaporare almeno qualche vera gloria, gioia e successo. Al che Edipo risponde che non è questo il punto: Edipo sarebbe stato disposto a sobbarcarsi una sorte anche più atroce, purché non fosse stata già scritta, predeterminata, obbligata dal Fato. EDIPO: […] Val la pena di fare una cosa ch’era già come fatta quando ancora non c’eri? [33]
MENDICANTE: […] Mendicare o regnare, che importa? Abbiamo entrambi vissuto. Lascia il resto agli dèi. EDIPO
: Non saprai mai se ciò che hai fatto l’hai voluto… Ma certo la libera [34] strada ha qualcosa di umano, di unicamente umano. […] [corsivo nostro] Ed ecco la metafora della strada: quella stessa metafora che dà il titolo al dialogo di Pavese e che è probabilmente all’origine (non foss’altro che come suggestione) della metafora della strada nel film di Pasolini; quella «libera strada» che per l’appunto Edipo avrebbe voluto, ma che, come ben mostra il film, non ha avuto. Così come pare una chiara reminiscenza pavesiana la nota amplificazione che Pasolini dà del v.1182 della tragedia di Sofocle, trasformato in: EDIPO: Ora tutto è chiaro, voluto, non imposto, dal destino.
[35]
[36] L’affermazione di Pasolini secondo cui questa «misteriosa» frase si troverebbe già in Sofocle , [37] è inesatta (letteralmente, il verso di Sofocle dice: «Ahimé, come tutto è venuto limpido!» ); assai più pertinente è invece la citazione di un passo di Pavese: MENDICANTE: Ma, Edipo, per tutti è così. Vuol dir questo un destino. Certo i tuoi casi sono stati atroci.
EDIPO: No, non capisci, non capisci, non è questo. Vorrei che fossero più atroci ancora. Vorrei essere l’uomo più sozzo e più vile purché quello che ho fatto l’avessi voluto . [38] Non subìto così. […] [corsivi nostri] Certo, si potrebbe obbiettare (e forse anche questo ha contribuito a tenere sommersa questa traccia pavesiana) che Pasolini non amava Pavese: cosa questa che egli stesso ebbe a dichiarare, e di cui [39] resta traccia anche in Descrizioni di descrizioni . Ma, come è noto (e come del resto spesso succede in letteratura), anche Petrarca dava contro a Dante: non per questo ne prescindeva o faceva a meno di utilizzarlo; allora, questa «avversione» per Pavese crediamo che vada interpretata anche, e forse soprattutto, nel senso della frequentazione che comunque essa presuppone, se non anche nel senso di una di quelle avversioni che nascono da troppa vicinanza. Così, infatti, Furio Jesi: «A quei tempi era sempre festa»: si direbbe che Pavese abbia collocato nell’esordio della Bella estate la parola «festa» quale annuncio e chiave dell’esperienza più importante realizzata nel romanzo, e che più tardi quella parola gli sia apparsa come vincolo essenziale della trilogia. [Pare] alludere alla condizione e al simbolo della rigenerazione del tempo storico attraverso il ripristino festivo del tempo del mito. […] si può giungere presto all’ipotesi che quella parola-chiave fosse vincolo della trilogia non come emblema e sintesi delle esperienze più conclusive delle tre storie, ma piuttosto come simbolo di ciò che in esse è perduto; come simbolo, dunque, di una ferita da sanare o di un vuoto da riempire […] L’antica festa conferiva valore all’esperienza collettiva della notte e del sesso, e nel suo ambito si scopriva vera la realtà dei grandi simboli della morte, della terra, della luna, del sangue. Venuta a mancare la festa, le immagini sessuali e notturne sopravvivevano sul limitare dell’esistenza degli uomini come la campagna ai margini della città, e facevano brevi e precarie incursioni nella vita del singolo che ancora possedeva il senso della festività, ma che non poteva più manifestarlo insieme alla sua [40] collettività in feste davvero salvatrici. Non siamo forse vicinissimi a quella stessa perdita e nostalgia del sacro di cui Pasolini ha tanto spesso parlato? E per cui ha combattuto? E intrapreso lo studio del mito? Ecco allora che questa riscoperta traccia pavesiana dimostra la sua massima importanza non come semplice e inerte recupero erudito, ma come importantissima indicazione culturale: la “filiazione” deve anzi essere considerata praticamente diretta –e non solo per i riferimenti testuali fin qui citati (come verificheremo tra poco)… Pare anzi strano che quasi nessuno si sia mai interrogato (se non in anni molto recenti) su quali fossero le basi culturali su cui Pasolini stava lavorando e su cui doveva essersi formato: pare strano –intendiamo dire –perché Pasolini, non foss’altro, parlava di antropologia quando in Italia l’antropologia era praticamente sconosciuta, e quando farsi una cultura al riguardo, anche volendo, era difficile, e pochissimi erano i testi disponibili in italiano. La cosa, insomma, avrebbe dovuto dare nell’occhio; eppure così non è stato. Eppure Pasolini era stato molto “generoso” nel distribuire numerosi e convergenti indizi al riguardo, indizi anche molto più facili di quello che noi abbiamo finora seguito. A cominciare dal (o, meglio, per finire col) succitato Descrizioni di descrizioni : questo volume raccoglie le recensioni che Pasolini scrisse per il settimanale «Tempo» tra il 26 Novembre 1972 e il 24 Gennaio 1975, ed è una vera miniera di informazioni per chiunque si interessi alle letture e alle fonti culturali di Pasolini (per altro, non si deve neppure supporre che siano letture esclusivamente fatte nel periodo di tempo summenzionato –sarebbero veramente troppe –ma si deve anzi supporre che esse siano, almeno in parte, le letture di una vita). Tra i molti autori citati da Pasolini, ve ne sono almeno due di capitale importanza per comprendere il lavoro del Pasolini mitologo: Ernesto De Martino e [41] Mircea Eliade. In un articolo datato 15 Febbraio 1974 , in nome di De Martino, Pasolini delinea molto bene lo “stacco” culturale che lo separa dalla gran parte degli intellettuali italiani, e quindi,
con grande lucidità, suggerisce implicitamente le ragioni dell’incomprensione che lo circonda; vi si parla anche di quelle mutazioni antropologiche (storicamente in atto in quegli anni) che destavano il suo orrore: Ci sono degli intellettuali che non conoscono il significato dell’espressione «cultura popolare»; o non la distinguono dalla «cultura» storica, quella della classe dominante, oppure dànno alla qualifica «popolare» la connotazione tipica della stampa comunista, che vuol dire tutt’altra cosa, e che non viene mai comunque legata alla parola «cultura» (se non in qualche particolare contesto). Non c’è da meravigliarsi che questi nostri intellettuali non conoscano De Martino, né i testi scientifici di etnologia. Tutta la loro foga conoscitiva pare esaurirsi nelle poche letture letterarie e giornalistiche d’obbligo. Linguistica ed etnologia sono accuratamente ignorate. Ma Lévi-Strauss! Ma lo strutturalismo! Non sono stati d’obbligo? Evidentemente se ne è parlato, ma non sono stati letti. […] Nella fattispecie ho detto, in sintesi, questo: il centralismo fascista non è riuscito a nessuna specie di «acculturazione» se non perfettamente formale (cerimonie, divise, motti, canti, adunate, saggi ginnici) dovuta all’imposizione di un «modello culturale» a sua volta perfettamente formale. Le varie «culture popolari», in senso demartiniano, e diciamo pure strutturalistico, sono rimaste intatte: i modelli umani che esse avevano elaborato da secoli […] venivano realizzati perfettamente da chi li viveva, come se (in questo senso) il fascismo non fosse che puro flatus vocis . […] Oggi le cose sono sostanzialmente cambiate: la cultura del Centro sta distruggendo giorno per giorno, a vista d’occhio, le culture eccentriche. Essa ha a sua disposizione mezzi di informazione e di imposizione dei propri modelli come mai nessun potere precedente al mondo. Inoltre essa, anziché eroismo, richiede alle «masse» una pura e semplice disposizione all’edonismo: la felicità (in parte realizzabile) del consumo [42] (superfluo). [43] In un altro articolo raccolto in quel volume , e dedicato alla recensione di due studi antropologici di Alfonso Di Nola (altro nome importante dell’antropologia italiana) e di Paul Arnold, viene di nuovo fuori il nome di De Martino (oltre a quello di Pettazzoni), di nuovo Pasolini si mostra singolarmente aggiornato e sensibile sull’argomento, e di nuovo ci dice qualcos’altro della situazione culturale di quegli anni e, di conseguenza, delle difficoltà che l’antropologia incontrava ad affermarsi in Italia: Tra gli apporti dell’antropologia alla storia delle religioni elencati dal Di Nola, vorrei ricordare al lettore almeno il seguente: l’insegnamento antropologico «ha aiutato a vincere e a vanificare la grave tara etnocentrica e culturocentrica» e, nella fattispecie, la «violenza immorale» (in Italia) del neo-idealismo e del crocianesimo, che portano alla negazione della comprensione «di ogni uomo (non occidentale) come portatore di [44] diversità e di alienità». Ma questa vittoria che, tra le virgolette della citazione da Di Nola, par cosa fatta, probabilmente, nella realtà, “sulla pelle” di Pasolini e per la sua concreta esperienza, era tutt’altro che avvenuta e conclusa: la difficoltà dell’antropologia ad affermarsi, ha il suo più diretto rispecchiamento nella pressoché totale incomprensione che la critica cinematografica riserva ai lavori mitologici di Pasolini . Il quadro culturale complessivo rappresentato brilla per chiusura e provincialismo: e così, ideologi del crocianesimo e del neo-idealismo, e ideologi marxisti, finivano per essere entrambi schierati, nell’ottica di Pasolini sullo stesso fronte, “dall’altra parte della barricata” –erano comunque ideologi che in fin dei conti condividevano un buon bagaglio di presupposti e preconcetti comuni, filosofici e non. Altrove, Pasolini ne lamenta la rigidità e la piattezza di giudizio:
Ogni opera è ambigua. Ma lo dico non in difesa della sua unità; bensì in polemica con la sua unità. Ogni unità è infatti idealistica. […] L’ambiguità dell’arte non è dunque, malgrado le apparenze, un dato negativo in quanto irrazionalistico, e quindi decadentistico e borghese. L’ambiguità dell’arte è un dato positivo, in quanto presuppone nell’opera due momenti diversi, che la lacerano, e ne distruggono l’unità, essa sì irrazionalistica, e quindi, se vogliamo, decadentistica e borghese. […] I soliti moralisti tendono a vedere nell’ambiguità uno scontro tra passato (borghese e piccolo borghese, irrazionalistico e metastorico) e il presente (virilmente concepito come storia e lotta operaia). Cosa che riduce immediatamente un artista (che, nell’incertezza della sua scelta, è sempre colpevole) a capro espiatorio, oltre che a buffone. Infatti lo scontro tra passato e presente è, semmai, uno scontro o tutto storico o tutto metastorico; profondamente drammatico perché i due elementi che si scontrano sono pari e ugualmente da concepire come reali: due forme di “valore” o di “bene”, insomma. Mentre nei nostri moralisti marxisti il passato si connota di disvalore e di male e il presente (o il futuro) si connotano di valore e di bene. Cosa che pone l’arte a un livello moralistico […] Mentre il problema mai affrontato è appunto quello di dissacrare l’innocenza idealistica dell’arte, istituendovi un dualismo lacerante, come quello sociale della lotta di classe, con cui Marx ha sfatato l’innocenza del borghese […], o come quello psicologico dello scontro fra conscio e inconscio, con cui Freud ha sfatato l’innocenza dell’uomo individuale […]. L’estetica marxista non ha inventato nulla di analogo ai dualismi […]. Ha dato il “realismo socialista”, cioè un’ennesima versione [45] edificante dell’arte, vista ancora una volta idealisticamente. Crediamo del resto che, per capire contro quale tipo di temperie culturale Pasolini, anche “a sinistra”, si stesse qui scagliando, possa bastare anche solo una rapida occhiata alle prime pagine del [46] Dissolvimento della ragione , di Guido Aristarco , pubblicato nel 1965, dove tutto è ridotto a Marx, Marx, Marx, e al suo “evangelio” (inteso appunto in quanto tale), e dove tutto ciò che non vi rientra strettamente deve essere considerato «mito» e il mito deve essere dissolto (più o meno come “oppio dei popoli”), e dove persino si trova il coraggio di definire «inutili» le opere di Clair e di Renoir (in quanto non perfettamente inquadrabili ideologicamente), e dove Pasolini viene già chiamato in causa a pag.14 col suo Vangelo secondo Matteo (1964), film forse capace di mettere in crisi qualche comunista generico –dice Aristarco –ma non certo un vero marxista di santi e puri principi… Ma questo è un discorso che ci porterebbe fin troppo lontano, anche se certo servirebbe assai bene a chiarire come l’antropologia non riuscisse a trovare un posto in Italia… Torniamo al “dunque”: se questo è il quadro culturale dell’epoca, dove e come Pasolini poteva essersi formato la sua cultura antropologica? Ebbene, anche nella foresta più oscura brilla un raggio di sole (se ci si consente la metafora), e, nell’intrico del sottobosco italiano, questo raggio di sole brillava per l’appunto nel nome di Pavese e De Martino: il riferimento, ovviamente, va alla cosiddetta “Collana Viola”, o, più precisamente, alla «Collezione di studi religiosi, etnologici e [47] psicologici» della casa Einaudi, che vide la luce nel 1948. Essa fu fortemente voluta da proprio da Pavese (all’epoca capo redattore della Einaudi) che colse al volo lo spunto e la proposta che, già nel 1942, lo stesso De Martino aveva presentato alla casa editrice: seppure con qualche anno di ritardo (da imputarsi alla guerra), la Collana si aprì proprio con l’ormai famosissimo Il mondo [48] magico dello stesso De Martino . La vita della Collana, come noto, fu breve, intensissima, ricca di contraddizioni, fortunata e sfortunata allo stesso tempo: […] nonostante la severa dicitura e la tranquilla, quasi ascetica veste tipografica, suscitò immediato interesse presso un pubblico ben più ampio di quello a cui pareva rivolta, inserendosi per qualche anno –nel secondo dopoguerra –nel vivo del dibattito politico[49] culturale. […] la collana sapeva di «nuovo». Scienze fino ad allora pressoché sconosciute al pubblico medio –quali l’etnologia e la storia delle religioni –o tagli disciplinari
particolari –quali la psicologia religiosa e il folclore inteso come studio dei dislivelli culturali –veicolati dalla collana cominciavano a diffondersi nel nostro pianeta, di soppiatto ma rapidamente come altre «febbri», in un ambiente culturale come quello della «ricostruzione» affamato di novità e fortemente ricettivo. […] Ma fu pure motivo di scandalo, la collana, venendo essa come un’astronave minacciosa a calare nel villaggio italiano, saturo di Realismo e di Idealismo, tutto orientato –ma a parole –verso [50] il sole della Ragione e dell’Avvenire Ma, pur dopo aver preparato, tra il 1945 e il 1948, un numero di testi tale da garantire una certa sopravvivenza per la Collana, “l’idillio” e la proficua collaborazione tra De Martino e Pavese presto si incrinò, e già nel 1949 andò in crisi: passata la grande “apertura” de Il mondo magico , De martino stava operando quello che poi la critica ha chiamato il suo “ritorno a Croce”; gli attacchi (anche di ordine squisitamente politico) da sinistra diventavano sempre più forti; e sempre più difficile diventava per Pavese mantenere quel grado di “apertura” verso forme di pensiero diverse da quelle comunemente accettate; alcuni incidenti di percorso, e il comportamento e le scelte non sempre chiare di De Martino, contribuirono a loro volta. Poi, inaspettata, ci fu la morte di Pavese. La Collana sopravvisse a se stessa ancora per qualche anno, prima di cambiare proprietà nel 1957, e [51] di andarsi poi a spegnere definitivamente negli anni ancora successivi . Intanto, però, erano stati finalmente pubblicati in Italia autori come Jung, Eliade, Reik, Lévi-Bruhl, Kerenyi, ecc. In anni ormai recentissimi, Sandro Bernardi così si esprimerà sulla vicenda della Collana Viola, riportando il discorso più vicino al cinema: E’ noto che l’antropologia culturale non ha mai avuto grande fortuna in Italia. La ragione può essere indicata in quell’alleanza fra marxismo e idealismo che si è stabilita fin dalla fine dell’Ottocento con Labriola e che ha poi caratterizzato tutta la cultura di sinistra, cacciando dall’ambito delle scienze l’antropologia che Croce aveva già battezzato come una non scienza. La sfortunata collana di studi antropologici che Pavese aveva aperta presso Einaudi poco prima di morire […] venne presto chiusa. Solo alcune opere di grande interesse antropologico […] sull’anima e sulla mentalità primitive, sui riti, sui simboli o sulle superstizioni, fecero in tempo a vedere la luce; ad esse attinsero abbondantemente molti registi […] Con il fallimento della collana scomparve ogni tentativo di aprire in Italia un’antropologia che riducesse la cultura occidentale a una fra le tante. […] Questo rifiuto dell’antropologia e della psicoanalisi (anche Jung fu condannato alla medesima oscurità, come molti altri studiosi importanti che vennero regalati alle destre, fra cui Bachofen, Eliade, e tanti altri) chiuse la cultura italiana in un provincialismo, in un’ottica ristretta da pregiudizi idealistici in cui di certe cose e di certi studi considerati «irrazionalisti» non si poteva parlare, sotto pena di essere considerati di [52] destra, mistici, nostalgici e altro.
Ma dicevamo anche di Eliade (autore, guarda caso, pubblicato nella Collana Viola –e tra i più [53] “scomodi”, per l’epoca ): e dicevamo di quanto sia importante che in Descrizioni… si trovi citato, oltre Pavese e De Martino, anche il nome di Mircea Eliade: anticipiamo fin da ora (ma spiegheremo meglio in seguito) che addirittura importantissimo è che, tra i tanti libri di Eliade, qui [54] Pasolini ci testimoni la sua conoscenza proprio di Mito e realtà . Come da più parti è stato fatto notare, questa recensione è piuttosto polemica verso gli usi ideologici a cui pareva (o si sospettava) che Eliade potesse aver piegato le sue stesse teorie antropologiche: Non è raro che uno storico delle religioni sia anche un uomo religioso o «che ama la religione»; non è raro che chi si occupa dei miti ne rimanga sedotto. E’ significativo (Mircea Eliade lo accenna) che i nazionalismi della borghesia ottocentesca si siano fondati su una esaltata ricerca delle origini, e, nella fattispecie, dei miti originari. I ricercatori «scientifici» di tali miti non potevano dunque essere che dalla parte dei miti;
non potevano che contribuire –volontariamente o involontariamente –alla istituzione della nazionalità e del nazionalismo. Il caso limite è il nazismo, con la sua «scienza servile». Mircea Eliade non prende posizione con la necessaria violenza contro tale caso limite. […] E c’è di peggio: Mircea Eliade […] presenta il marxismo come uno dei tanti fenomeni del «revival» ottocentesco e «scientifico» degli antichi miti escatologici e soteriologici, con la loro idea di «cessazione della storia» alla fine della lotta vittoriosa del bene (il proletariato) contro il male (il capitale). E c’è di peggio ancora. Mircea Eliade non presenta col dovuto coraggio e la dovuta chiarezza il cristianesimo come una delle tante religioni del mondo, con gli annessi «mitologemi», i più comuni e usuali […] [55]
Ma anche in questo caso, proprio come per Pavese, questa è una di quelle polemiche che in realtà celano e presuppongono un’assidua frequentazione. Non per nulla, questa recensione diventa anche occasione, per Pasolini, per trattare con acume alcuni dei temi antropologici a lui più cari; e per di più, concludendo, non manca di sottolineare quella che è per lui la grande novità degli studi di Eliade. Non c’è oggettivamente alcun salto di qualità tra i «mitologemi» del cristianesimo e quelli di ogni altra religione contadina. O meglio ciò che differenzia il cristianesimo dalle altre religioni è l’accettazione della storia e della sua unilinearità. Insomma, ciò che il cristianesimo ha di originale è Cristo. Il quale non opera in un tempo mitico o liturgico, ma in un tempo storico. E’ quasi «malgré soi» che egli si ripropone poi – naturalmente –come eroe da riattualizzare attraverso le cerimonie religiose, da imitare rivivendone la realtà ecc. ecc. Insomma, dopo aver accettato la storia, egli viene rimitizzato, e riassorbito nelle abitudini delle vecchie religioni contadine, che puntano più sul suo sacrificio cruento e sulla sua resurrezione, che sulla sua predicazione. Esse infatti hanno e hanno sempre avuto bisogno di un modello assiologico della fecondazione e della rinascita stagionale delle messi. La loro –per usare la formula [56] celebre dello stesso Eliade –è la religione dell’«eterno ritorno». Malgrado tutto, però, il volumetto di Eliade –come tutti gli altri suoi –va letto se non altro da chi voglia conoscere realmente cos’è o cos’è stata una classe popolare in Europa. […] Il conoscere la religione di una gente, non solo per ciò che essa è, ma per ciò che essa è stata, e per ciò che essa è divenuta sovrapponendosi a religioni precedenti, […] è assolutamente necessario per capire il «comportamento» contemporaneo di un individuo in una nazione del Terzo Mondo […]. Ma è altrettanto necessario per capire il reale senso del comportamento delle classi subalterne del mondo occidentale: naturalmente con speciale riferimento alle classi subalterne contadine e sottoproletarie [57] delle zone più arretrate […]. Il discorso di Eliade […] apre territori nuovi alla conoscenza del mondo di un lettore italiano. Lo so, perché nei miei urti polemici e nelle mie discussioni con gli stessi miei colleghi letterati, viene sempre fuori che essi sono sistematicamente privi di nozioni etnologiche e antropologiche […]. L’allargamento del territorio conoscitivo (che implica il confronto diretto con altri modi di essere e di pensare: quelli dei popoli arcaici, che, sia cronologicamente che idealmente, sono contemporanei a noi, perché è chiaro che niente in noi va distrutto e tutto coesiste ) è inebriante. Al limite, è una esperienza (come Mircea Eliade nota) anti-hegeliana . Ma è un’esperienza che va vissuta, con tutti i suoi [58] rischi. [corsivi nostri] [59] Tant’è che, già nella lunga intervista rilasciata a Jean Duflot nel 1969 e pubblicata nel 1970 , Pasolini lasciava ben capire quale importanza avesse rivestito l’incontro con Eliade nel suo
itinerario culturale: come del resto si diceva, Pasolini era sempre stato generoso nel concedere “indizi” rilevanti; bastava fargli le domande giuste; ed è significativo che gliele abbia fatte un critico non italiano… Parlando di questo codice [codice sociolinguistico del popolo, del sottoproletariato], intendevo soprattutto esprimere questa idea: che la cultura impoverisce, semplifica man mano la natura. Più si vive nello stato di natura, più il codice è complesso, e vivo. Nel settecento vi si scorgevano soprattutto le qualità di semplicità, di ingenuità: il mito del «buon selvaggio» non aveva la stessa stratificazione che Lei sembra attribuire alla «barbarie». Comunque, per me, è un concetto che ho fatto mio da molto tempo: la complessità di questo codice è legata al fatto che i suoi dati sono immersi nella natura. Cosa di più complesso, di più oscuro della natura? Da Hegel in poi, la filosofia intenderebbe piuttosto a svilupparsi in opposizione al concetto di natura piuttosto che in sintonia con esso. Prima di lui, Sade impostava tutta la sua etica sull’odio totale dell’inerzia, dell’indifferenza della natura. Infine il marxismo si sviluppa soprattutto in contraddizione sistematica col naturalismo tradizionale. Come situare il suo atteggiamento, attraverso la sua nostalgia per il mito della natura? Hegel! Sade! Il mito! Eh già! Quando parlo della natura bisogna sempre intendere «mito della natura»: mito antihegeliano e antidialettico, perché la natura non conosce i «superamenti». Ogni cosa in essa si giustappone e coesiste (cfr. Le poesie Callas , Ancora sull’orso… ) Perché questo ritorno ai modelli arcaici del mito? Perché la «mitizzazione» della natura implica la «mitizzazione» della vita quale era concepita dall’uomo prima dell’era industriale e tecnologica, all’epoca in cui la nostra civiltà si organizzava intorno ai modi di produzione agraria («l’eterno ritorno», Mircea Eliade). Dando la preferenza al ritorno ai miti piuttosto che all’impegno nell’attualità politica, non volta le spalle ad ogni forma di realismo? Il mio parere preciso, su questo punto, è che è realista solo chi crede nel mito, e [60] viceversa. Il «mitico» non è che l’altra faccia del realismo. In altri passi del libro (che certo non esauriremo qui, visto che è una fonte ricchissima), Pasolini non solo ribadisce tutto il suo interesse per il sacro (un interesse che non è affatto fuori dalla storia attuale), ma delinea ancor più precisamente l’importanza rivestita da Eliade nel suo pensiero: Ciò che Lei esprimeva già in maniera diversa dicendomi che da bambino in poi la natura non ha mai cessato di apparirle «ierofanica».
E’ proprio strano, veda, ero convinto di aver inventato io l’aggettivo, e invece mi sono imbattuto in questa terminologia in un’opera di Mircea Eliade, che tratta della storia dei miti. Nell’ Eterno ritorno, o nell’ Aspetto del mito? Nella Storia delle religioni . Egli dice esattamente la stessa cosa: che la caratteristica delle civiltà contadine, e quindi delle civiltà sacre, è di non trovare la natura «naturale» . Mi pare, sotto questo aspetto, di non aver fatto altro che riscoprire una cosa già [61] conosciuta. E in seguito soggiunge, allargando ma anche ribadendo le sue fonti –ma anche (forse soprattutto) ribaltando quella che è la prospettiva critica “classica”, che vede in Medea uno strascico, una sorta di brutta copia di Edipo- : In Medea, quali sono i nuovi sviluppi che Lei ritiene di avere realizzati, tanto per riprendere l’analisi dell’evoluzione tematica della sua opera, rispetto alle opere precedenti? Ho riprodotto in Medea tutti i miei film precedenti […]. Quanto alla pièce di Euripide, mi sono semplicemente limitato a trarne qualche citazione. Curiosamente, quest’opera poggia su un fondamento «teorico», di storia delle religioni: M. Eliade, Frazer, Lévy[62] Bruhl, opere di etnologia e di antropologia moderne. Ma se questa di Duflot è stata con ogni probabilità la prima opera critica di una certa importanza a riportare con tanta chiarezza e completezza tutte le fonti e le intenzioni di Pasolini, questi comunque, in altre occasioni, aveva già offerto alla comprensione della critica molti altri elementi importanti su cui lavorare. Vorremmo citare, al riguardo, almeno un altro critico straniero, che, già un anno prima di Duflot, [63] aveva posto a Pasolini dei quesiti estremamente interessanti: Jon Halliday . Nel 1968, al momento dell’intervista, Pasolini non aveva ancora iniziato la lavorazione di Medea , ed è forse anche possibile che non avesse neppure ancora completamente chiarito il suo pensiero riguardo a [64] certe questioni ; pur tuttavia, pur non essendo così esplicito come nella successiva intervista del 1969, Pasolini dà alcune risposte estremamente indicative e coerenti con quelle che abbiamo già visto. Frasi come: […] c’entra un particolarissimo fattore psicologico:il mio modo di vedere il mondo, che forse è troppo rispettoso, troppo reverenziale, troppo infantile; io vedo tutto quello che c’è al mondo, gli oggetti non meno della gente e della natura, con una certa venerazione [65] sacrale. […] non sono interessato alla dissacrazione: è una moda che detesto, piccoloborghese. Io voglio riconsacrare le cose per quanto possibile, voglio rimitizzarle [corsivo nostro] [66]
Frasi come queste ricorrono di frequente nel libro di Halliday. Si ha veramente l’impressione, leggendolo, che nel periodo in cui stava rilasciando questa lunga intervista, Pasolini fosse
totalmente focalizzato –oseremmo quasi dire “ossessionato”, se questa parola non avesse una certa connotazione negativa –dalla questione del mito e del sacro. Anche retrospettivamente, interrogato al riguardo dall’intervistatore, Pasolini sembra voler inquadrare anche altre sue precedenti opere nelle categorie antropologiche del mito, del sacro, dell’epos , con forse ancor più forza e nettezza di quanto non fosse propenso a fare in anni precedenti. Si consideri, a titolo di esempio, la rilettura [67] che, in questa sede, Pasolini dà del suo Vangelo… : non a caso, questa rilettura dipende, per ammissione dello stesso regista, dall’aver avuto occasione, dopo anni, di rivedere il film appena un mese prima dell’intervista –e cioè nel pieno della sua riflessione sul mito! –e dalla forte impressione che ne aveva ricevuto: […] Forse non me n’ero reso conto io stesso fino a un mese fa, quando l’ho rivisto a distanza di due o tre anni. […] ma dal punto di vista interiore, non credo di aver mai fatto una cosa più mia, più tagliata addosso a me del Vangelo , per le ragioni che le dicevo prima: la mia tendenza a vedere sempre e in ogni cosa, anche negli oggetti e negli eventi più banali, ripetitivi, semplici, qualcosa di sacrale, mitico, epico. […] anche se non credo alla divinità del Cristo, […] è tuttavia una visione religiosa del mondo […] [68] e perciò per me fare Il Vangelo è stato il culmine del mitico e dell’epico. Nel prosieguo della sua intervista con Halliday, Pasolini dà poi alcuni importanti ragguagli anche sull’Edipo : P. - Volevo fare il film molto liberamente. Quando lo realizzai avevo in mente due obiettivi: primo, presentare una sorta di autobiografia, completamente metaforica e quindi mitizzata: secondo, affrontare sia il problema della psicanalisi sia quello del mito. Ma anziché proiettare il mito sulla psicanalisi, riproiettai la psicanalisi sul mito. Fu [69] questa l’operazione fondamentale in Edipo. [corsivo nostro] H. - Mi spiega perché ha voluto metterlo fuori dalla storia, renderlo astorico, come dice, considerati i due punti enunciati prima: che lei si sente ed è nella storia, e che anche il mito appartiene alla storia? P. - Il mito è, diciamo così, un prodotto della storia umana; ma essendo diventato un mito è diventato un assoluto, non è più caratteristico di questo o di quel periodo storico; piuttosto appartiene, per così dire, a tutta la storia. Forse ho sbagliato a dire che è [70] astorico: è metastorico. Ma del resto, in fin dei conti, le prime avvisaglie di questa lunga e approfondita riflessione antropologica di Pasolini sull’uomo, sul mito, sul sacro, sulla storia, ecc. si erano già avute molto tempo prima, nel 1964: non per nulla, una nota conversazione svoltasi tra il regista e gli allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, era stata pubblicata col titolo significativo di Una [71] visione del mondo epico-religiosa : […] il sottoproletariato, infatti, è solo apparentemente contemporaneo alla nostra storia, le caratteristiche del sottoproletariato sono preistoriche, sono addirittura precristiane, il mondo morale di un sottoproletario non conosce cristianesimo. […] Quello che io intendevo dire nella Rabbia è una cosa un po’ confusa in me, una idea irrazionale ancora, non ben definita, non determinata che è presente in tutta la mia opera di questi anni […]: è l’idea di una nuova preistoria. E cioè i miei sottoproletari vivono ancora nell’antica preistoria, nella vera preistoria, mentre il mondo borghese, il mondo della
tecnologia, il mondo neocapitalistico va verso una nuova preistoria e la somiglianza fra [72] le due preistorie è puramente casuale. […] il sottoproletariato, preso come elemento ancora carico delle caratteristiche antiche dell’uomo antropologicamente inteso, dell’uomo delle civiltà contadine religiose, si contrappone alla borghesia che sta stupidamente andando verso la distruzione attraverso una specie di palingenesi a rovescio che sta iniziandosi con le tecnologie e con la civiltà di massa delle macchine. Ora in fondo i sottoproletari hanno spaventato i borghesi non soltanto perché rappresentano la loro cattiva coscienza, ma anche l’uomo con elementi di tipo religioso, di tipo irrazionale, di tipo integralmente umano. E su questa linea io [73] intendo andare avanti. E, sempre su quella linea volendo restare, se due più due fa quattro, avendo voglia un po’ di scommettere, probabilmente non si sbaglierebbe di molto azzardando a dire che, forse, questa succosa conversazione dovette accadere in un momento ben preciso e molto significativo dell’itinerario intellettuale di Pasolini: cioè esattamente a mezza strada; ovvero in quel punto in cui il nucleo più profondo e originario della poetica pasoliniana, prendendo forma razionale di vero e proprio pensiero antropologico, comincia a svincolarsi e, in qualche modo, ad emanciparsi dalla sua precedente veste ideologica (non certo ripudiata ma sempre più vista come un qualcosa di altro e a sé stante), per acquisire sempre maggiore indipendenza e consapevolezza. E si vede anche bene, di conseguenza, quali profonde e distanti radici (e di che tempra!) avessero i film mitologici di Pasolini. E va pure detto che in realtà, sono moltissimi i luoghi e le occasioni in cui Pasolini, a partire appunto dalla metà degli anni’60, affronta questo genere di tematiche con sempre maggiore convincimento e approfondimento (spesso negli Scritti Corsari ), e non sarebbero esauribili che in uno studio a ciò solo dedicato. Qui ci siamo limitati a prenderne in esame solo i casi più significativi tra quelli di argomento o di occasione prettamente cinematografici, che è il nostro campo. Eppure vi fu chi si sorprese di fronte ai film mitologici di Pasolini, come di fronte a una cosa imbarazzante e senza senso che, da parte di un autore così impegnato, non si sarebbe mai aspettato.
I figli. A dire il vero, c’era stato qualcuno, tra i critici cinematografici italiani, che aveva da subito individuato il giusto ambito culturale in cui inquadrare il lavoro di Pasolini sul mito, e questi era stato Sergio Arecco, nel suo già citato libro del 1972: già quasi all’inizio di quel testo, infatti, si [74] trovano ben evidenziati i nomi di «Pavese», di «Eliade», e «l’onda mistica dell’eterno ritorno» . Non deve però sorprendere che questa così precoce acquisizione non abbia poi avuto alcuna influenza sulla critica successiva –è del resto difficile stabilire anche solo se abbia avuto una [75] qualche reale incidenza sul prosieguo dello stesso testo di Arecco, tanto è difficile a leggersi… D’altra parte, Micciché (che pare condividere le nostre stesse perplessità sul lavoro di Arecco [77] ), pur sapendo di Duflot (come detto ), palesemente non ne fa uso e non lo mette a frutto. Così, per trovare, qualche critico italiano che si avvantaggi seriamente (per la comprensione dei film mitologici di Pasolini) di questa trama di riferimenti tesi tra il nostro, da un lato, e Pavese ed Eliade dall’altro, bisogna aspettare anni molto più recenti rispetto a quelli dei succitati lavori di Arecco e di Micciché: passeranno così quasi ben 25 anni di vuoto totale, prima che vedano la luce i lavori, nel [78] 1994, di Giuseppe Conti Calabrese (non a caso intitolato Pasolini e il sacro ), e, nel 1996, del già citato Fusillo (La Grecia secondo Pasolini ); e nonostante tutto questo tempo perduto, come si [76]
può vedere, non saranno ancora dei critici cinematografici ad onorarsi di questo tanto atteso recupero, ma due studiosi, guarda caso, non specialisti di cinema… Nel tentativo di accorciare questo colpevole vuoto di 25 anni, si potrebbe anche decidere di considerare, come punto di partenza per il calcolo di questo lasso di tempo, non il 1970 (cioè Medea –secondo e ultimo film propriamente mitologico di Pasolini –e la pubblicazione di Halliday/Stack e di Duflot), e magari nemmeno il quinquennio 1970-1975 (quello degli Scritti Corsari , delle recensioni di Descrizioni di descrizioni , ecc.), ma potremo partire –si diceva –anche solo dal 1979: [79] è in questa data, infatti, che Furio Jesi pubblica il suo noto saggio intitolato Cultura di destra , che è dai più, e piuttosto concordemente, considerato come il testo chiave che aprì la via alla riabilitazione e al recupero alla cultura italiana (e, più specificamente, alla cultura di sinistra) di molti di quegli studiosi di antropologia e psicologia (a suo tempo pubblicati nella “Collana Viola”) [80] che erano stati o completamente emarginati o, quanto meno, «regalati alle destre» , sotto le pesanti accuse di irrazionalismo, antistoricismo, decadentismo, reazionarismo, ecc. (compreso quell’Eliade tanto indispensabile per la comprensione di Pasolini). In questa maniera, il vuoto si “ridurrebbe” (si fa per dire) a soli circa 15 anni. Ma non v’è chi non veda, crediamo, come, anche così facendo, non si riesca assolutamente ad eliminare la netta impressione di avere a che a fare con una “coperta troppo corta”: e da qualsiasi parte la si tiri, si finisce con lo scoprire una parte del letto. Soprattutto se si considera che già intorno al 1950 (cioè 45 anni prima di Conti Calabrese; quasi 30 prima di Jesi; oltre 25 prima dei film mitologici di Pasolini) la pubblicazione di quegli autori nella “Collana Viola” aveva suscitato un vespaio tremendo di polemiche, e se pure non si erano veramente letti, però (come sottolinea lo stesso Pasolini) se ne era parlato moltissimo. […] le discussioni attorno alla linea della collana […] si annodano con una questione più intricata: i rapporti della casa editrice, di Pavese e di de Martino con il Partito comunista. […] Il partito, privo ancora di un’efficiente struttura editoriale, si stava muovendo in più direzioni, ma la casa di punta –dal passato relativamente pulito –che offriva maggiori garanzie sul piano dell’organizzazione e della qualità era già stata individuata nell’Einaudi. […] L’atto che ufficializzò l’alleanza fu, come si sa, la decisione di Togliatti e Platone di affidare all’Einaudi la pubblicazione dell’attesissima edizione delle Opere di Gramsci. Il primo volume uscì nel 1947 e fu un avvenimento, oltre che un giro di vite per entrambe le parti. Si può dire che da quel momento la casa Einaudi conquista un posto egemonico nella cultura nazionale, ma si assume anche responsabilità enormi, apparentemente incompatibili con lo spirito aperto e la curiosità intellettuale dei suoi quadri. Ma a dispetto delle previsioni, si verifica un mezzo miracolo: ne esce una linea culturale probabilmente irripetibile […] Di qui le numerose «aperture» –di cui siamo oggi debitori –alla letteratura della crisi (in quegli anni assimilata al tardo decadentismo) o alle discipline eterodosse […]. Mezzo miracolo che fu lì ad attuarsi puntualmente anche con la collana viola: almeno finché Pavese non crollò. Questo era un terreno più minato degli altri, poiché la collezione faceva salire alla ribalta nomi allora impronunciabili o comunque poco graditi. Giulio Cogni [uno dei prefatori della collana, antropologo di propensioni fasciste e razziali] era niente, rispetto ai «gerarchi» in arrivo: si sapeva che in cantiere fervevano tre libri di Mircea Eliade, ex guardia di ferro in ovattato esilio, e due di Frobenius, altro padre spirituale della Germania segreta; perfino Julius Evola si era autocandidato per la collana viola. Di Jung, di Kerényi, di Aldrich, di Jensen si conosceva il viscerale anticomunismo. Lo stesso Propp non era stato salutato col calore che meritava, per i suoi trascorsi di formalista. […] Ce n’era di che mettere in allarme più di un dirigente del partito (Ambrogio Donatini fu tra i primi a sollevarsi, fiancheggiato in tal occasione da Giolitti e Muscetta). Anche il nome di Pavese non costituisce più una garanzia; il suo proverbiale «disinteresse» per la politica si tinge, per alcuni, di nero qualunquismo. […] Insomma Pavese è ora nel mirino dei sostenitori più intransigenti della politica culturale del
Partito (e ci rimarrà): la «sua» collana subisce la frusta e il freno delle critiche [81] dall’esterno e delle pressioni dall’interno. […] Naturalmente Pavese non è il solo spacciatore di decadenza e di primitivismo ad essere processato: i Moravia, i Levi, sono spesso anche loro chiamati in causa; ma si sanno (e si fanno) difendere; mentre Pavese, ogni giorno che passa, è più solo e più [82] raggomitolato, nonostante il successo. Ma nemmeno de Martino ha vita facile nel Partito (a cui si è appena iscritto) […] Anche dalle schiere crociane sono partiti parecchi strali contro la collana viola. I nervi dei due militanti «scomodi» sono tesi, si sente che può bastare un nulla per far scoppiare la polemica.[…] De Martino non era più lo stesso né poteva esserlo: non solo era passato dalle file del Psi a quelle più compatte e combattive del Pci, ma aveva anche compiuto la svolta a livello speculativo che la critica brevemente definisce «il suo ritorno a Croce». Rinnegando con questa una tesi portante del Mondo magico –la storicità delle categorie –de Martino era costretto anche a rivedere, con occhio più attento, il versante [83] propositivo della collana viola, che andava riesaminato e puntellato. Ma è proprio l’oggetto delle sue ricerche –il magico nel quadro dell’arretratezza culturale –e la comprensione etnologica di esso […] che sembrano esulare dal campo e dagli intendimenti del marxismo che circolava in Italia. Attaccato indirettamente da Togliatti, da Salinari e da Donnini, ed esplicitamente prima da Fortini e poi da Alicata, de Martino si trova costretto a sottolineare la portata «politica» del suo ritorno allo storicismo crociano, e con ciò un travaglio che trapela nei toni accesi dei suoi spunti [84] polemici e autocritici. La pubblicazione di questi autori “proibiti” stava insomma riuscendo a mettere in crisi anche il rapporto tra i due stessi padri della Collana, Pavese e De Martino: la pressione delle polemiche critiche e politiche (come si può ben arguire dal succitato resoconto) doveva essere fortissima, e De Martino (guidato anche –come detto –da alcune sue scelte critiche e politiche contraddittorie) finì sostanzialmente per prendere le distanze e per sconfessare la Collana Viola, pur essendo stato [85] proprio lui (per lo più) ad aver proposti quei titoli (pur non avendoli mai del tutto approvati ), e lasciando così sempre più solo Pavese. Il suicidio di Pavese scosse […] mezza Italia. Evidentemente non de Martino, che a pochi giorni dalla notizia scrisse a Giulio Einaudi, chiedendo alla svelta ragguagli sul futuro della collana. E’ una lettera sgradevole che impietosamente riproduciamo […] per due ragioni: perché rappresenta un giudizio a caldo di de Martino sul gesto e la figura estrema di Pavese, e perché contiene una valutazione estremamente negativa della linea culturale della [collana] […] Il «voltafaccia» è innegabile, ma non va etichettato moralisticamente: è uno dei tributi che de Martino deve pagare per adattarsi alla [86] prospettiva storica che gli offre il socialismo. «Caro Einaudi, dopo la sciagura del povero Pavese vorrei sapere quale sarà per essere, nel tuo pensiero, il destino della collana. Pavese le aveva impresso un indirizzo che non era del tutto di mio gradimento, perché ad ispirare tale indirizzo reagiva la sua troppo immediata simpatia per certe forme di irrazionalismo, scientificamente errate e politicamente sospette, che attraverso l’idoleggiamento del mondo primitivo, del sacro,
del mito, etc., avevano tenuto a battesimo alcuni aspetti dell’involuzione culturale (e politica) della borghesia agonizzante. […] La materia della collana è estremamente pericolosa, perché in essa si riflette, con particolare evidenza, la crisi della cultura borghese, le sue contraddizioni e le sue ultime alcinesche seduzioni. […] vuole vigilanza [87] di controlli e unità di indirizzi […]» Il testo più compiuto e articolato di questa sconfessione è Etnologia e cultura nazionale negli ultimi dieci anni , pubblicato anch’esso su «Società», nel 1953.. E’ qui che il «voltafaccia» di de Martino riguardo alla collana viola assume veste pubblica: Pavese viene indicato come il responsabile sia delle «sviste» che delle scelte operate in quella sede. De Martino dichiara di aver assistito al disastro, ma solo in qualità di «consulente esterno» (mentre a suo tempo aveva ben gradito l’appellativo di «padre putativo» della collezione) e si rammarica di non aver contrastato a dovere la linea seguita da Pavese. [88]
Insomma, quando Pasolini menzionava, con tanta frequenza e generosità, il nome di Eliade (o faceva comunque riferimento ad una certa area culturale), non stava parlando di uno sconosciuto: stava semmai lanciando un sasso in uno stagno che, per così dire, si era appena appena calmato. Magari non lo si era letto, o lo si era letto male, o non lo avevano letto le persone giuste; ma parlato se ne era parlato assai –anche troppo, in un certo senso. Se questo allora è il quadro, è difficile togliersi dalla testa l’impressione che questi frequenti ed espliciti accenni di Pasolini (oltre ad essere una forma di provocazione) fossero anche, e soprattutto, una sorta di “invito alla lettura”: per Eliade e per l’antropologia, certo, ma anche per sé e per la propria opera, in quanto citava degli strumenti culturali, delle chiavi di lettura e di interpretazione, che erano noti (ancorché non realmente conosciuti) e a portata di mano per i suoi interlocutori: in fin dei conti, non stava citando un qualche misterioso, sconosciuto e introvabile pensatore giapponese o congolese o di chissà dove e di che lingua, ma autori importanti, europei, già pubblicati e ampiamente dibattuti (anche se magari non ancora veramente letti) in Italia. Ma questo generoso invito, per quasi 25 anni, cioè fino al 1994, è rimasto sostanzialmente inascoltato. Il primo ad aver fatto il punto della situazione al riguardo, come già si era anticipato, e ad averne tratto le (a volte veramente estreme) conseguenze è stato appunto Conti Calabrese, nel suo libro Pasolini e il sacro . Si tratta di un testo molto particolare: tendenzioso, e, per certi versi, anche discutibile; inoltre, per la sua natura –lo vedremo –di tentativo di comprensione totale della vita e dell’opera di Pasolini, si tratta di uno studio che affronta un “arco” di materiali in teoria vastissimo, ma che in pratica lo percorre “a volo d’uccello” per così dire, cioè in maniera generica, da lontano. E se già, all’interno di questa vasta panoramica, neppure il cinema nel suo complesso occupa una posizione privilegiata, ci si può immaginare come e quanto questo studio di Conti Calabrese possa risultare, in un certo senso, “fuori scala”, poco adatto come strumento per penetrare nello specifico filmico di solo alcune e ben precise pellicole, seppure assai attinenti. In realtà, come vedremo, questo studio di Conti Calabrese si rivelerà in effetti, nel bene e nel male, uno strumento indispensabile per comprendere alcuni aspetti dell’operazione mitologica di Pasolini, e ne faremo molto uso nel prosieguo di questo nostro studio. Prima di procedere oltre, anche affinché il lettore non finisca per trovarsi spiazzato, sarà perciò opportuno approfondire la nostra conoscenza del testo di Conti Calabrese. Questi così esordisce, presentando il proprio lavoro e il proprio punto di vista nell’introduzione del libro: Qui si parla di un poeta. Qui si parla di un poeta e del sacro. E forse in nessun altro poeta come in Pier Paolo Pasolini è possibile rintracciare un legame così profondo, totale ed esplicito con il sacro, da poter affermare che parlare di lui, della sua vita, della sua morte e della sua poesia significa riconoscere lo stesso destino che il sacro ha [89] conosciuto nella nostra epoca.
Che è un’affermazione molto forte, per cominciare; così come molto forte è quella ripetizione, in testa, dell’appellativo «poeta»: una definizione, questa, che, per Pasolini, a confronto con la grande quantità e varietà della sua produzione e del suo impegno, non può che risultare o genericamente elogiativa (il poeta non inteso come artista che padroneggia una sua propria disciplina artistica, ma come generico produttore di cose e pensieri poetici, nobilitatore del prossimo suo) o estremamente riduttiva dell’ambito di operatività di questa indagine (Pasolini esclusivamente nella sua veste di scrittore di versi). Non a caso, quindi, questo è l’incipit di uno studio che, come già accennato, per sua stessa natura, presta ben poca attenzione al concreto fatto linguistico e stilistico delle singole opere: è, insomma, un incipit molto indicativo. Uno studio tanto disattento al dettaglio concreto delle singole opere, che, parlando di Medea (unico film di cui si parli con una certa diffusione), Conti Calabrese non esita a prendere in esame una scena, citando dalla sceneggiatura del film, senza [90] avvertire che poi, nel film, quella stessa scena ha preso tutta un’altra forma . Nulla di che stupirsi, dunque, se questo libro è passato un po’ inosservato dalla critica cinematografica. Eppure è un libro che ha molto da offrire. Andiamo avanti. Probabilmente l’originalità di Pasolini consiste proprio in questo: nell’aver osato nominare il sacro in un momento in cui la cultura italiana […] veniva smarrendone la sacralità. Per “privilegio d’anagrafe” Pasolini ha compreso e ha parlato di quella che è la vera minaccia del nostro tempo: il non avvertire più la mancanza del sacro come [91] mancanza . [corsivo dell’autore] Il suo pensiero poetante si rivolge alla cultura di quella civiltà contadina che per secoli ha mostrato di saper riconoscere, con la preoccupazione della sua perenne fertilità, la sacralità della vita quale donazione originaria. Nella ciclicità, nell’eterno ritorno, nei passaggi di morte e rigenerazione della natura, trasfigurati nei miti cosmogonici, Pasolini scopre un mondo che ha sempre vissuto il sacro come manifestazione presente in assenza e che provoca il riconoscimento della sua mancanza. Da qui lo sforzo della sua poesia di raccogliere, conservare e custodire quanto di questa tradizione esprimeva la ‘passione’ per la vita stupendamente incarnata nella gioia e nella freschezza della corporeità e sessualità del mondo popolare […]. L’appello del sacro può essere visto come l’anteriore e irriducibile nucleo a cui corrisponde e da cui si articola tutta la [92] riflessione pasoliniana […] Ovviamente, non nascondiamo che, anche condividendo questa idea secondo cui alla base di tutta l’opera pasoliniana vi sia questa sorta di fascinazione per la natura, per il sacro, e, di conseguenza, per le classi popolari ancora aperte a questo genere di sentimento –idea che noi stessi appunto condividiamo –può comunque parere un poco tendenzioso sorvolare e ignorare completamente l’aspetto ideologico del pensiero di Pasolini: almeno per circa un decennio, dalla seconda metà degli anni’50 fino alla metà degli anni’60, la componente ideologica è stata infatti, come noto, una componente importante (e spesso sopravvalutata) di Pasolini. Tuttavia, la posizione di Conti Calabrese non può essere considerata scorretta: sia perché va in qualche modo a controbilanciare tutta quella gran messe di opere che, negli anni, hanno voluto considerare l’opera di Pasolini, al contrario, solo da un punto di vista ideologico; sia perché, soprattutto, come abbiamo appena visto, esplicita i suoi intenti con la massima trasparenza, permettendo ai propri lettori di fare tutte le considerazioni del caso –cosa questa che spesso, da parte di critici ideologi, non è stata fatta con la stessa chiarezza e la stessa onestà. Qualche rigo andrà pure speso sul metodo di lavoro che, poco più oltre nell’introduzione del suo libro, Conti Calabrese dichiara di aver seguito: si tratta infatti, anche in questo caso, di dichiarazioni che potrebbero destare qualche perplessità nel lettore più avvertito. E non tanto per l’idea, in sé e per sé, di considerare la morte violenta di Pasolini come un evento che poi “irradia” di senso, a ritroso, la sua vita e la sua opera, come se tale morte fosse cifra, oltre che suggello, di tutta la sua attività precedente: questa, infatti, alla fin fine, è una “tentazione” che anche altri critici (Micciché compreso), in qualche modo, dimostrano di aver provato (anche se magari non assecondato), e che, del resto, tutti coloro che si occupano di Pasolini prima o poi provano, spinti
[93] anche dall’agghiacciante preveggenza di certe sue dichiarazioni , o dal suo patente correre verso la morte e sprezzare il rischio, che si dimostrava (soprattutto) nella chiarezza e nella gravità di certe sue accuse politiche, assai più (volendo scadere nel trito) che non nel tipo di vita personale che conduceva. Piuttosto, a nostro avviso, il vero problema della dichiarazione di metodo di Conti Calabrese (fatto salvo il merito dell’onestà e della trasparenza) potrebbe essere quello di palesare una certa propensione alla petizione di principio e all’applicazione di determinati metodi di analisi al di fuori degli ambiti che gli sarebbero propri. Così, infatti, Conti Calabrese: Capire questo segreto che rende ancora così attuale e viva l’opera pasoliniana, è il compito che ci si è proposti ricercando al suo interno quanto può portare quel segreto alla luce, come una sorgente nascosta che riprenda a sgorgare. Si trattava, cioè, di far [94] parlare ancora Pasolini muovendo da un dialogo con i suoi testi […] In considerazione di questa preliminare scoperta si è proceduto allo studio della vita e dell’opera di Pasolini come se ci si trovasse davanti a un’eccezionale esperienza del sacro che doveva essere indagata e interpretata partendo dalle stesse indicazioni dell’autore. Indicazioni che, pur avendo un carattere generale in quanto riferite alla sua concezione del cinema, possono essere riprese e utilizzate quale ‘metodo’ nel tentativo di svelare il vero percorso poetico ed esistenziale di Pasolini che solo dal momento della [95] sua morte sembra potersi incominciare. Tutta la sua opera è stata, per così dire, ‘visionata’ come una pellicola cinematografica fatta passare alla moviola, da cui sono stati tratti quegli “spezzoni” in cui le parole e le azioni del poeta sono sembrate più eloquenti ed emblematiche rispetto alla nostra interrogazione. Il ‘materiale’ selezionato è stato poi analizzato e riorganizzato allo scopo di interpretarlo, cioè di portarne a termine la ‘traduzione’ in modo da restituire nello stesso tempo il livello che ci è sembrato più profondo ed elevato delle intuizioni pasoliniane. E si è voluta introdurre, vogliamo dichiararlo dall’inizio, una lettura di ispirazione heideggeriana. […] Tuttavia l’opera di traduzione non sarebbe potuta giungere a compimento senza la fondamentale scoperta dell’influenza di Mircea Eliade […] Eliade infatti risulta un [96] punto di riferimento teorico indispensabile per capire Pasolini […] In conclusione con questo lavoro di traduzione dell’opera pasoliniana si è tentata un’operazione che fosse un pensare con Pasolini oltre Pasolini, nel senso di [97] ‘organizzarne’ il pensiero in una comprensione ermeneutica. Così che, poi, quasi alla fine del libro, Conti Calabrese può andare a concludere: In Poesia in forma di rosa , e in particolare nelle «Poesie mondane» e in «Un vita disperata», Pasolini sembra profetizzare la propria morte. Opera tra le più importanti, Poesia in forma di rosa si colloca in un periodo cruciale del suo percorso intellettuale e umano, quando matura la consapevolezza della definitiva affermazione su scala planetaria del neocapitalismo e dell’irreversibilità di tale processo. La “nuova preistoria” [98] […] Ma cosa significa preannunciare la propria morte? Significa attenderla, anticipandola, disponendosi ad essa come ad un sacrificio […]. Pasolini non ha procurato o ‘diretto’ la sua morte, come alcuni sono portati a credere analizzandone le circostanze, si è limitato a predirla preparandosi ad accoglierla
nominandola da lontano. […] ha potuto riceverla come un sacrificio, unico modo per eliminare la differenza tra sé e il sacro […] Pasolini nel seguire i segni lasciati dal sacro nel ritrarsi e riservarsi ne riconosce la ‘morte’ come la sua stessa morte. Poeticamente comprende che il sacro muore nel donarsi, si sottrae nella riserva del continuare a donare. […] Il sacro si nasconde come i semi dispersi in quelle regioni ctonie e inaccessibili ai vivi che sono le profondità della terra. Il suo destino è quello di seppellirsi e, come un seme, lì lo deve seguire il poeta […]: l’inabissarsi nella donazione è il compito che gli spetta. Andare incontro a una morte sacrificale, in una misura eccezionale provoca una meditazione capace di far riconoscere ai suoi contemporanei la perdita del sacro quale smarrimento della consapevolezza che il sacro muore nel donarsi. Come il seme perisce perché possa liberare nuova vita, il poeta ‘deve’ morire in una maniera violenta e mitica [99] in modo da rinnovare negli uomini il senso di tale gratuità. Dal momento della sua morte egli chiede di essere ‘tradotto’ solo da chi sappia accogliere l’estremo evento come l’apertura possibile alla coscienza della perdita del [100] sacro. Tesi affascinante e ardita. Ma è legittimo mescolare così il piano della vita con quello delle opere? E siamo veramente sicuri, nonostante Pasolini stesso sembri più volte autorizzare questo tipo di operazione, che sia legittimo applicare alla vita concreta osservazioni che appartengono piuttosto all’ambito linguistico, filosofico, o estetico? E volendo considerare la vita e l’opera di Pasolini come una «eccezionale esperienza del sacro», non si sta dando già per scontata la validità di tutta una serie di parallelismi tra le teorie di Eliade, l’opera di Pasolini, la sua stessa vita, e la Storia, che, in questo modo, si presuppone debbano “funzionare” e “articolarsi” allo stesso modo? Ecc. Ecc. Insomma, questa lunga premessa sembra sollevare o, per lo meno, adombrare, tutta una serie di questioni che dovrebbero semmai essere l’esito e l’approdo di uno studio, non il suo appoggio e il suo punto di partenza. Tuttavia, alla prova dei fatti, questo metodo si rivela per certi versi fruttuoso (come vedremo), né, del resto, viene poi applicato, nel prosieguo del libro, nella maniera estrema e un po’ avventata che l’introduzione potrebbe far temere. Ma se, per l’intanto, vogliamo rimanere più aderenti ai singoli film, non ci resta che passare oltre, al già citato Fusillo. E’ di tutt’altra pasta, come del resto era prevedibile, l’introduzione che questi scrive, nel 1996, per il proprio libro: molto più ortodossa (nel bene e nel male) e molto più robustamente linguistica e filologica; come rispondendo alla domanda implicita nel titolo del suo studio su Pasolini, così infatti Fusillo tratteggia il proprio approccio alla questione: […] la Grecia secondo Pasolini è una Grecia barbarica perché rifiuta ogni idealizzazione neoclassica: ogni immagine di olimpica freddezza e di equilibrio razionale. Una visione barbarica dell’antico si era già propagata nella cultura europea grazie all’influsso di Nietzsche […]; più però che a questo filone, Pasolini si ispira invece apertamente a due scienze che frequentò molto e che presero sempre più il posto di Marx (mai comunque [101] rinnegato): l’antropologia e la psicanalisi; […] I valori della razionalità e della storia non sono mai abbandonati del tutto; ma, a partire da Le ceneri di Gramsci e ancor più, da Uccellacci e uccellini , geniale apologo sulla crisi dell’ideologia, il suo interesse si concentra sempre più su tutto ciò che si pone al di fuori di questi valori: sul sogno, sul mito, sul sacro, sull’eros fuori dalle norme […] La sua identificazione poetica si orienta perciò verso gli elementi regressivi che negano il principio di realtà, che rifiutano il contratto sociale, che si pongono fuori dalla temporalità lineare del progresso […] Ma è una identificazione controllata: gli elementi “barbarici” vanno sempre e comunque integrati nella dinamica sociale, secondo una metafora-guida tratta da Eschilo, la trasformazione delle Erinni in Eumenidi, vista come
sublimazione della furia ossessiva. Il nemico per eccellenza è il razionalismo pseudoilluminista della società neocapitalista, che si illude di poter rimuovere per [102] sempre questi fenomeni imprescindibili dell’esperienza umana. Con le armi della contaminazione e del pastiche Pasolini vuole dunque ricreare il linguaggio atemporale del mito, un linguaggio primario in cui si inscrive quella civiltà contadina «illimitata» e «transnazionale» oggetto del suo amore più antico. Questo rapporto tra il mito greco e il mondo contadino ruota principalmente intorno al concetto di ciclicità; come vedremo meglio, sia Edipo re che Medea […] sono caratterizzati da un forte senso ciclico […]. Negli Scritti corsari Pasolini teorizza più volte la ciclicità del mondo contadino, che ha assorbito e vanificato la novità del pensiero cristiano, di per sé «unilineare» e non ciclico; […] Sono concezioni ispirate soprattutto da Mircea Eliade, oltre che ovviamente, a monte, dal Ramo d’oro di Frazer; di Eliade viene spesso citato il saggio sull’eterno ritorno, mentre il suo Trattato di storia delle religioni è stato una [103] fonte primaria della Medea . Il mito greco è un tema in cui si condensa un tratto radicato in tutto l’universo multiforme di Pasolini: la ricerca di un linguaggio che potesse cogliere il mistero ontologico del reale, quel mistero che, a differenza dell’enigma, non può essere decodificato dalla ragione. Un linguaggio che non mira alla riproduzione meccanica del reale, ed è dunque assai lontano dal naturalismo […]. La poetica pasoliniana si inserisce in modo assai personale e innovativo nell’ossessiva ricerca di “realismo” che accomuna buona parte della cultura italiana di quegli anni […]. Pasolini si vuole infatti appropriare della poeticità già inscritta nel reale; quella struggente ambiguità delle cose che le parole riducono a mere convenzioni […] Da qui scaturisce l’interesse semiologico per i [104] linguaggi non verbali, e l’idea eretica di una «semiologia della Realtà» […] [105] Delle tre parti in cui è suddiviso il libro di Fusillo, la prima è dedicata all’Edipo ; di questa prima parte, l’ultimo e più lungo capitolo è, non a caso, dedicato alla parte del film direttamente tratta dalla tragedia di Sofocle: questo capitolo è infatti dedicato a quello che si capisce essere il vero interesse di Fusillo, che è di ordine drammaturgico (non si dimentichi del resto la sua originaria [106] formazione di grecista) . A questo riguardo, lo stesso Pasolini aveva rilasciato alcune dichiarazioni estremamente interessanti: […] in Sofocle a piacermi più di ogni altra cosa è stato che la persona cui tocca misurarsi con tutti questi problemi debba essere la più impreparata a sostenere una simile prova, una persona del tutto innocente. […] Edipo […] è uno che non vuole guardare dentro le cose, come tutti gli ingenui, gli innocenti che vivono la loro vita quali prede della vita e delle proprie emozioni. Questa è la cosa di Sofocle che mi ha ispirato [107] di più: il contrasto fra l’ingenuità, l’ignoranza totale e l’obbligo di conoscere. […] nel mio film il parricidio ha più risalto dell’incesto, certo dal punto di vista emotivo se non da quello quantitativo, ma penso che sia abbastanza naturale perché, storicamente parlando, io ero in una situazione di rivalità e di odio verso mio padre e perciò ero più libero nel modo di rappresentare il mio rapporto con lui, mentre l’amore per mia madre è rimasto qualcosa di latente. […] il risentimento del padre verso il figlio era una cosa [108] che sentivo più distintamente che non il rapporto tra il figlio e la madre […] Nella tragedia c’è tutto l’antefatto della vicenda, che il pubblico antico doveva conoscere. Nel film questa parte è quasi passata sotto silenzio; c’è solo qualche strana frase inventata da me, come quella per l’episodio della sfinge e un paio di altre cosette.
Sostanzialmente tutto il resto è sottaciuto. Poi c’è la seconda parte, quella in cui ha luogo tutta l’azione dell’Edipo di Sofocle, dopo la pestilenza e l’arrivo di Creonte, e qui [109] mi sono attenuto con fedeltà al testo di Sofocle. Fusillo, grazie a un meticoloso lavoro di confronto tra il testo della tragedia classica, la sceneggiatura, e il film così come è stato poi in concreto realizzato, arriverà a confermare, in sostanza, l’anti-intellettualismo enunciato nella prima delle succitate dichiarazioni di Pasolini; ma smentisce, almeno in parte, quanto detto nella seconda e nella terza dichiarazione. Anzi: la questione strutturale e quella dell’incesto risultano strettamente intrecciate; e in realtà, all’occhio attento ed esperto di Fusillo, appaiono numerose le variazioni apportate da Pasolini alla struttura del dramma (oltre all’ovvio scioglimento del sistema dei messi o messaggeri, che nella tragedia classica –come noto –consentiva di mantenere fuori dalla scena ciò che non era concretamente rappresentabile). E sia le variazioni strutturali che la tematica dell’incesto appaiono funzionali a quel programmatico anti-intellettualismo; molti sono, inoltre, i validissimi spunti di analisi che, per questa via, Fusillo giunge a delineare. In una celebre lettera indirizzata a Goethe, Schopenhauer reimpiega le due figure mitiche di Edipo e Giocasta per delineare un’opposizione fra due principi cardine dell’animo umano: da una parte l’eroica volontà di conoscere il reale e di misurarsi con esso, e dall’altra il desiderio regressivo di sfuggirgli. Un secolo dopo quest’opposizione è stata riletta da Sandor Ferenczi –uno psicanalista ungherese protagonista della cerchia di Freud –alla luce di due fondamentali categorie freudiane: il principio di realtà e il [110] principio di piacere. In effetti l’Edipo re di Pasolini dà al personaggio Giocasta un rilievo tutto particolare, […] ponendo un accento fortissimo sull’eros incestuoso, tutto a scapito della dimensione pubblica. Giocasta diventa dunque un po’ il fulcro della rilettura pasoliniana di Sofocle […]. Ed è un fulcro che corrisponde abbastanza chiaramente alla lettura di Schopenhauer e al principio di piacere di Freud e Ferenczi, come ci conferma fra l’altro questa dichiarazione del regista: «Scrivendo da pasticheur la sceneggiatura, ho ridistribuito Giocasta nel tempo, anche se essa è un personaggio senza tempo: solo [111] sensualità e volontà di non sapere». […] Giocasta ottiene un rilievo in primo luogo figurativo; a questo proposito Pasolini sfrutta la tecnica cinematografica che Christian Metz chiama inserto diegetico dislocato : all’interno di un dato contesto narrativo viene interpolato un piano che sposta l’immagine in un altro spazio e in un altro contesto. Grazie a una serie di questi inserti noi assistiamo alle reazioni di Giocasta che ascolta l’evolversi degli eventi chiusa nella [112] camera da letto; […] Si tratta anche qui di un vero e proprio Leitmotiv […] Tutte queste immagini di Giocasta, che rompono l’unità scenica per portarci nel talamo dei re di Tebe, non erano previste dalla sceneggiatura […] Gli inserti sullo spazio privato possono fornirci una chiave di lettura per valutare appieno la riscrittura drammaturgica di Sofocle: una riscrittura che riduce infatti il tema del potere, ed esalta invece il fattore dell’eros; a differenza delle riletture di Medea e dell’Orestea , questa di [113] Edipo re non è politica. […] la riscrittura pasoliniana di Sofocle tende a ridurre il processo di ricerca intellettuale e di ricostruzione della verità (il cosiddetto andamento da giallo), e a presentare Edipo e ancor più Giocasta nella rimozione di una realtà incestuosa sempre più chiara, oggetto di un piacere tanto tremendo quanto autentico. Sono perciò eliminate le false piste rassicuranti, come il plurale dei banditi, per mostrare invece più precocemente la verità
rimossa: «il viandante» può essere per Edipo un primo segnale che gli ricorda il delitto commesso al trivio, e per Giocasta un rimando alla profezia che preannunciava la morte [114] di Laio per mano del figlio. Il film riduce invece di molto la lunga progressione verso la verità, operando dei tagli nelle scene con il messaggero e con il servo, e affidando di fatto la rivelazione al dialogo a due tra Edipo e Giocasta. Questo dialogo assume inoltre una forma complessa: si tratta del sintagma narrativo […] che Christian Metz chiama sequenza a episodi; si susseguono infatti quattro sottoscene separate fra loro da segni di interpunzione (uno stacco netto e due dissolvenze in nero) e da una diversa luce (mattino, pomeriggio, crepuscolo, giorno), che riassumono per campioni una più ampia articolazione [115] drammatica. Il terzo momento di questa lunga sequenza contiene l’innovazione più significativa del film rispetto alla sua sceneggiatura e quindi rispetto al modello della tragedia greca […]. In Sofocle, al momento in cui Edipo mostra di temere ancora l’incesto con sua madre, Giocasta risponde con una generalizzazione che denota sfiducia in ogni principio guida del reale, e vi contrappone una sorta di carpe diem: «Che cosa dovrebbe temere l’uomo, che è in balia della sorte e non ha nessuna chiara possibilità di previsione? Il meglio è vivere a caso, come si può. Ma tu non temere le nozze con tua madre: tanti in sogno hanno fatto l’amore con la loro madre! Chi non tiene in nessun conto queste fantasie riesce a vivere meglio degli altri» (vv.977-983)[…] Nella sceneggiatura questa battuta è tradotta fedelmente, e conserva la sua collocazione drammatica […] Nel film invece scompaiono innanzitutto i riferimenti all’instabilità della condizione umana, per cui la battuta assume un tono più diretto e brutale; ma soprattutto essa viene pronunciata dopo che Edipo ha riconosciuto per la prima volta di essere l’assassino di Laio, dunque nel pieno della ricostruzione della verità, in un momento per nulla tranquillizzante ma assolutamente perturbante. «Perché sei così spaventato dall’idea di essere l’amante di tua madre? Quanti uomini non hanno fatto l’amore con la loro madre in sogno, e non sono stati spaventati da questo sogno?» Detta a questo punto, a inizio del terzo episodio della sequenza in cui Edipo e Giocasta scoprono insieme la verità, avvolti da un bluastro effetto crepuscolare in controluce, questa frase suona piuttosto come una provocatoria, scandalosa rivendicazione dell’eros incestuoso. E dopo questa rivendicazione Pasolini non esita a “passare il limite”, a rappresentare una scena di sesso in cui la coscienza dell’incesto è chiara, in cui il [116] vocativo «Madre» si sostituisce al vocativo «Amore» […] Così, dopo tanta dovizia di analisi (noi qui ci siamo limitati a riportare solo alcuni dei passi più significativi), e di dotte citazioni da Metz, Fusillo può andare a concludere su una definizione del senso del film nel suo complesso: Lo scandalo è notoriamente la cifra dell’opera pasoliniana: è la sua disperata provocazione, che utilizza l’eros fuori della norma come una nuova forma di sacro, per colpire la falsa coscienza borghese, il suo vano illuminismo. In Edipo re questo eros assume la forma primaria e deviante dell’incesto: il massimo di trasgressione viene a [117] coincidere con il massimo di autenticità. Ma è anche vero che la rivelazione della verità –l’«obbligo di conoscere» –gioca ancora un ruolo incisivo: la codifica finale dello scandalo, sublimato nella musica nello splendido epilogo, esclude quindi ogni esaltazione anarcoide dell’eros, ogni messaggio dionisiaco. […]
L’Edipo re secondo Pasolini esprime senza dubbio un eros che è nostalgia di una totalità perduta, quella dell’unità con il corpo della madre; […] ma esprime anche tutta la tragicità dell’«obbligo di conoscere», tutta la cupa necessaria violenza del contratto sociale. Non celebra un eden perduto, ma rappresenta un desiderio primario tanto [118] scandaloso quanto autentico e totalizzante. Negli ultimi anni della sua vita Pasolini amplificò il proprio intrinseco radicalismo, utilizzando sempre più il sesso perverso e scandaloso come arma espressiva: Salò da questo punto di vista è un punto di non ritorno, un’opera conclusiva. […] Nel 1967, quando il mito e la sacralità arcaica delle civiltà altre costituivano ancora un modello positivo a cui aggrapparsi, l’eros incestuoso sfuggiva a una scrittura così fosca. Certo non era un messaggio consolatorio, ma era tuttavia ancora profondamente lirico […] [119]
Non mancano neppure alcune notazioni, forse più episodiche ma molto puntuali, di carattere meno [120] narratologico e più specificamente linguistico-stilistico . Il testo di Fusillo però non è sempre altrettanto felice: senza nulla voler togliere alle molte e importanti acquisizioni fin qua elencate (e non sono assolutamente le sole), bisogna pur ammettere che altrove l’analisi di Fusillo, allontanandosi da quell’ambito di narratologia a lui più famigliare, “scricchiola”, soprattutto dove tenta di affrontare più direttamente il testo cinematografico, lo specifico filmico in quanto tale. Ma non solo. Intanto, si vorrà notare che, qua e là, emerge una propensione a un certo contenutismo un po’ di vecchia maniera: ad esempio, come nel fatto stesso di dedicare un capitolo al cosiddetto “complesso [121] di Laio” , che, se da un lato aggiunge una certa intertestualità nel confronto con altre opere, altri autori, altri generi, dall’altro sottrae attenzione a quello che dovrebbe essere l’oggetto specifico di questo studio, cioè il film, il cinema; un’impressione, questa, che è del resto confermata da [122] numerosi altri passi del libro . Senza insomma voler troppo sminuire questo studio di Fusillo, si ha però spesso l’impressione, in realtà, che l’autore si scordi frequentemente di quell’approccio anche linguistico e antropologico che aveva dichiarato nell’introduzione di voler seguire, e che resti in sua vece (forse proprio sulla scia del già citato Paduano) solo una forte tentazione psicologista e freudiana (per quanto evoluta e non banale), “spennellata” qua e là, ma solo in superficie, di facciata, con un’imbiancatura di semiologia (Metz) e narratologia. Ma i nodi vengono soprattutto al pettine, come anticipato, quando Fusillo cerca di intraprendere un’analisi più puntuale del testo cinematografico. Consideriamo l’analisi di Fusillo di due episodi [123] estremamente particolari e significativi del film: l’oracolo e l’uccisione di Laio. L’incontro con la sacerdotessa di Apollo e il viaggio intrapreso da Edipo dopo aver ascoltato l’oracolo sono i momenti in cui Edipo re si avvicina di più ad una forma di «cinema etnografico», dove la passione di Pasolini per i riti arcaici si coniuga con un uso sapiente di comparse indigene. La sceneggiatura prevedeva che la scena si svolgesse all’interno di un santuario […]: nel film invece la Pizia dà i suoi responsi all’aperto, ai [124] piedi di un grosso albero di olivo. La reazione di Edipo è uno dei punti più intensi e interessanti del film […]. Dopo le parole della Pizia un’inquadratura frontale ci mostra Edipo che si lascia alle spalle la sacerdotessa, attorniato da altri pellegrini [Inq.n°23 del nostro decoupage ]; segue subito dopo la stessa inquadratura, con Edipo però assolutamente solo, senza cioè né pellegrini né sacerdoti né la stessa Pizia [Inq.n°24]; quest’immagine solitaria si alterna più volte con immagini di Edipo che cammina tra la folla, sia riprese dalla sua prospettiva, con la
macchina che si muove avanti a lui guardando verso il sole, sia riprese frontalmente, mentre l’eroe cammina verso la macchina coprendosi il volto con le mani. Sono immagini che […] hanno un carattere molto sfumato e irreale, quasi a riprodurre la visione di un uomo in lacrime che guarda verso il sole, secondo quella «soggettiva libera indiretta» teorizzata da Pasolini sulla scia del discorso libero indiretto. Quest’alternanza tra Edipo solo ed Edipo tra i pellegrini sfugge a ogni prospettiva realistica (ed è sfuggita comunque anche all’attenzione della critica): la si può decodificare come una descrizione del suo camminare tra la folla interrotta da inserti simbolici, che rimandano alla sua solitudine di diverso e di “contaminato” (e mi sembra la soluzione migliore) [125]
Una soluzione, questa, in vero, molto ragionevole, eminentemente ragionevole: ma è veramente sufficiente il richiamo al sentimento, al pianto di questo personaggio, alla sua psicologia, insomma, per giustificare un tale montaggio della scena? E siamo proprio sicuri che si possa in buona pace sostenere che le immagini di Edipo solitario siano inserti simbolici in un contesto reale in cui Edipo non è solo? Sarà forse perché roso da tali e tanti dubbi, che Fusillo, subito sotto, aggiunge, tanto per stare nel sicuro: Ma non si può escludere la lettura opposta: Edipo è stato lasciato solo, per paura della contaminazione, ma nel suo cammino rivede l’immagine della folla dei pellegrini (è uno [126] spazio aperto lasciato alla percezione creativa dello spettatore). E certamente se non è l’una, è l’altra, e a far così, in un modo o nell’altro, ci si indovina sempre… Ma siamo poi proprio sicuri di dover scegliere così, tra queste due alternative, semplicisticamente? In realtà, questa scena nasconde molto di più. Ripartiamo dall’inq.n°24: Edipo si allontana dall’albero nella più completa solitudine. E’, questa, la prima inquadratura della scena a presentare l’anomalia della scomparsa delle comparse, ovvero degli altri pellegrini, che noi credevamo ben presenti e in carne ed ossa; per il suo carattere di CL non particolarmente marcato stilisticamente, deve essere ritenuta come una inquadratura di tipo [127] oggettivo . La successiva inq.n°25, un PP di Edipo, sembrerebbe non essere altro che un violento raccordo sull’asse: un’altra inquadratura di natura oggettiva, che non farebbe altro che confermare l’avvenuta sparizione degli altri pellegrini (lo sfondo dell’immagine è infatti completamente sgombro). Ma Edipo si sta palesemente guardando attorno, e la successiva inq.n°26, marcatamente soggettiva (un’incerta carrellata in avanti, realizzata con macchina a spalla), vede la ricomparsa di tutti gli altri pellegrini in attesa del loro turno di fronte all’oracolo. Dunque, queste tre inquadrature (24, 25, 26) costituiscono, da un punto di vista grammaticale, una costruzione (tutto sommato abbastanza classica) di una soggettiva di Edipo: contesto-guardante-guardato. Altre inquadrature successive (30, 32, 35, 38) presentano analoghe marche di soggettività (movimento in avanti e macchina a spalla), e sono perciò interpretabili ancora come soggettive di Edipo: in tutte le soggettive di Edipo sono presenti gli altri pellegrini. Con ciò, sembrerebbe di poter affermare con sicurezza che gli altri pellegrini appartengano alla sua visione soggettiva; ma appartengono anche o solo ad essa? L’inquadrature n°24 da cui siamo partiti (ampio CL oggettivo in cui Edipo appare completamente solo), sembrerebbe stare ad indicare che queste figure –fatte così misteriose e fantasmatiche in questo secondo scorcio di scena –appartengano effettivamente solo e soltanto alla sua soggettività; altre successive inquadrature oggettive, come la n°28, 31, 34 e 37, che inquadrano Edipo sia in PP che in campi più lunghi, mostrando la sua solitudine, sembrano confermare questa tesi. Si badi, per inciso, che se, con ciò, viene pienamente smentita la prima ipotesi di Fusillo (folla degli altri pellegrini reale; solitudine immaginaria), la sua seconda ipotesi (solitudine reale; folla dei pellegrini immaginaria) non ne risulta affatto confermata: tale ipotesi infatti è del tutto gratuita, nella forma in cui è stata formulata, e va addirittura contro il senso stesso dell’episodio (è ad Edipo che viene ingiunto di allontanarsi e non agli altri pellegrini); né, del resto, sarebbe comunque
ipotizzabile, anche nel caso, che si allontanasse la stessa Pizia, come contaminata dal suo stesso profetare, lasciando l’oracolo incustodito: si tratterebbe del resto di un’innovazione totalmente gratuita e fortissima al materiale mitico, che, nel caso, sarebbe stata certo attuata con tutt’altra chiarezza e nettezza (cfr. l’episodio della Sfinge). Ma tutto sommato il limite maggiore di questa ipotesi sta nella sua inadeguatezza. La nostra analisi infatti non può dirsi affatto conclusa. Lo schema che siamo venuti fin qui tracciando, infatti, è contraddetto da tutta un’altra serie di inquadrature: sono inquadrature oggettive che mostrano la presenza concreta di questi pellegrini. Alcune di queste inquadrature sono dei CL come la n°23, da cui Fusillo stesso era partito: come si ricorderà, questa inquadratura mostra il primo allontanarsi di Edipo dall’oracolo verso l’antistante massa dei pellegrini, e precede senza alcuna spiegazione la loro prima e misteriosa scomparsa nell’inq.n°24. Questa inq.n°23 ha carattere di assoluta oggettività, proprio come la successiva n°24. Altre inquadrature di questo tipo si possono trovare sul finale della scena, dalla n°39 in poi, quando Edipo fa per ritornare sui suoi passi verso Corinto, ma poi, disperato, si allontana dalla parte opposta: la piana di fronte all’oracolo è palesemente affollata di bestiame e di persone, e Edipo è uno fra i tanti. L’inq.n°41 (sorta di vero e proprio piano sequenza), che è ancora una soggettiva di Edipo che avanza abbagliato dal sole, ma che va a concludersi sull’elemento concreto della pietra miliare con l’indicazione per Corinto, sembra, in un certo senso, andare a richiudere la divaricazione che la scena dell’oracolo ha aperto nel film tra soggettività e oggettività: da questo punto in poi non vi saranno più dubbi (o ve ne saranno molti meno) che ciò che Edipo vede sia ciò che in effetti è; ma se anche ricuce tale divaricazione, non serve però a spiegarne l’intima contraddizione. Indizi interessanti, però, si possono invece ricavare dai PP di Edipo. I PP di Edipo sono le inq.n°25, 27, 29, 33, 34, 36, 37, e morfologicamente (per così dire) sono tutti quanti identici: la mdp precede Edipo che cammina e si guarda attorno sconvolto. Alcuni di questi PP (n°25, 34, 37) li abbiamo già citati tra le inquadrature oggettive che negano la presenza degli altri pellegrini: lo sfondo dell’inquadratura, per quanto angusto, è visibilmente sgombro e deserto. Tutti e tre questi PP hanno sempre lo scopo di “innescare”, di “lanciare”, una soggettiva, secondo quello stesso tipo di costruzione più o meno classica già vista per le inq.n°24, 25, 26: ad essi infatti seguono, rispettivamente, le già menzionate inquadrature soggettive n°26, 35, 38, ed ogni volta questo meccanismo tende a risospingere le figure dei pellegrini nell’ambito della soggettiva di Edipo, creando un primo livello di modularità e di iterazione all’interno della scena. Nei PP n°27, 29, 33, e 36, però, gli altri pellegrini ci sono eccome! ben presenti sullo sfondo dell’inquadratura: a questo punto, si pone dunque di necessità il problema di come considerare queste inquadrature, che pure, sulla base di una prima e più ovvia ipotesi, abbiamo considerato alla stessa stregua delle altre inquadrature oggettive. Se, infatti, veramente questi PP dovessero essere considerati inquadrature oggettive come quei CL che aprono e chiudono questa seconda metà della scena, allora non ci troveremmo più di fronte neppure a una divaricazione tra soggettività e oggettività, ma di fronte a un vero e proprio guazzabuglio, e tutta la nostra faticosa costruzione andrebbe per aria. Pare però fin troppo superfluo notare come una simile ipotesi non renderebbe per nulla atto del singolare fascino ed efficacia (da tutti unanimamente riscontrata) di questa scena: si tratta insomma di un’ipotesi nulla da un punto di vista critico. E allora? Un ulteriore aiuto può venire dal considerare con più attenzione la disposizione reciproca di queste inquadrature. Se infatti tutti i PP di Edipo sono morfologicamente identici, bisognerà pure notare, però, che non tutti i PP hanno la stessa funzione: se quelli “desertici” innescano e, perciò, anticipano sempre la soggettiva, quelli che lasciano intravedere la presenza degli altri pellegrini la seguono sempre (con la sola e unica eccezione dell’inq.n°29). Dunque, la modularità della scena può così essere precisata: PP Edipo che guarda
Soggettiva di Edipo
Senza comparse
Con comparse
Con comparse
Inq.n°25
Inq.n°26
Inq.n°27
Inq.n°31 (CL) Inq.n°34
Inq.n°32 Inq.n°35
PP Edipo che guarda
Inq.n°33 Inq.n°36
Proviamo ora a confrontare uno qualsiasi di questi PP di Edipo con le comparse con uno qualsiasi dei CL: queste due inquadrature possono essere realmente considerate ugualmente oggettive? Sulla base di una teoria cinematografica classica, in cui soggettività e oggettività vengano radicalmente distinte sulla base dell’articolazione dei pdv e della funzione sintattica delle varie inquadrature, la risposta dovrebbe essere «sì» (nessuna di esse è infatti, a rigore, una soggettiva), ma la vera risposta è «no»: se infatti, come tutto il cinema moderno e postmoderno pare dimostrare (e così tutte le [128] conseguenti teorizzazioni ), la soggettività è un qualcosa di molto più sovversivo e sfuggente, di molto più “liquido” e difficilmente regimentabile; se, dunque, essa ha piuttosto a che fare con la natura stessa dell’immagine cinematografica e con le sue marche stilistiche, allora, a segnare una netta differenza tra i CL e quei PP, ci sono almeno gli occhi di Edipo. O meglio: la presenza degli occhi di Edipo, che è inavvertibile (per la distanza) nelle inquadrature più ampie, ma che è molto forte nei piani ravvicinati. O meglio: lo sventagliare dello sguardo, della visione di Edipo, che si guarda marcatamente attorno, e di cui i suoi occhi si fanno portatori e promotori. E lo sfondo dell’inquadratura (in cui noi riusciamo a intravedere la presenza sfuocata degli altri pellegrini) non fa in fin dei conti parte di quello stesso ambiente, al di qua della mdp, che Edipo sta visibilmente guardando? Non è una propaggine, una zona di incerto confine, di quello stesso fuori campo in cui va teoricamente a collocarsi la sua soggettiva? E allora non è come se la soggettiva di Edipo (con comparse), innescata dal precedente PP (privo di comparse), finisse per tracimare nell’inquadratura successiva, trascinando con sé una parte del suo carico di misteriose figure e dando così origine ad un’inquadratura dalla natura ambigua e composita? Se adesso proviamo a rivedere tutto questo scorcio di scena nel suo giusto ordine cronologico, ecco cosa succede: 23) Edipo si allontana dall’oracolo, e tutto sembra ancora relativamente “normale”. 24) Improvvisamente, gli altri pellegrini (ma anche la Pizia e gli altri sacerdoti) scompaiono e Edipo resta completamente solo: come noi già sappiamo, qualcosa (ma cosa?) li ha fatti spostare; li ha fatti spostare da un livello narrativo ad un altro: ora infatti se ne stanno nascosti, in attesa, in quella soggettiva di Edipo che presto ci sarà mostrata. 25) Edipo, ancora solo, si guarda attorno; 26) nella sua soggettiva, violentemente percossa dal sole, gli altri pellegrini sono ancora tutti lì. Ed ecco: 27) quell’orda di pellegrini, qui sullo sfondo, sfuocati come nella precedente soggettiva, resi come fantasmi, sbiaditi dal controluce, è tracimata da dentro la soggettiva di Edipo ed ha invaso (o quanto meno lambito) questo PP, in cui Edipo, non più solo, continua a guardarsi intorno. Ma nell’inq.n°28 questa anomalia (ma sarebbe forse meglio chiamarla «malia») è già come svaporata al sole: il “contagio” della soggettiva di Edipo non è arrivato fin qua (o forse non è arrivato a coprire un quadro così ampio come questo CL), e perciò Edipo si ritrova a camminare da solo (forse non a caso, nella precedente inq.n°27, Edipo si era passato una mano sugli occhi, come a volersi schiarire la vista). Le successive inq.n°29, 30, 31 e 32 presentano (come già accennato) una costruzione irregolare rispetto alla modularità del resto della scena, e introducono un elemento di [129] variazione . La soggettiva n°32, però, rappresenta anche il punto in cui la scena recupera la sua modularità: 33) è infatti di nuovo un PP “contaminato” innescato da una soggettiva vera e propria: i “fantasmi” sono di nuovo passati da un’inquadratura all’altra, cavalcando la soggettività confusa e diffusa di Edipo. Il passaggio dall’inq.n°33 alla n°34 è molto interessante: in questo caso, infatti, la sparizione dei nostri fantasmatici pellegrini avviene a cavallo di due inquadrature morfologicamente identiche, due PP. Questo stacco mette però in luce un altro livello di modularità all’interno della scena: infatti, anche tra le inq.n°23 e n°24 i pellegrini scomparivano a cavallo di due inquadrature morfologicamente del tutto simili (in quel caso due CL), e ciò si ripeterà a breve ancora una volta. Il PP n°34, infatti, fa anche da preparazione per un’altra soggettiva (n°35), a cui segue di nuovo un PP “contaminato” (n°36) e quindi un PP solitario (n°37), il quale ultimo, a sua volta, rilancia la soggettiva n°38. Si viene così a creare un andamento come “a onda” in cui la soggettività cresce, monta, arriva a deformare i normali confini tra le inquadrature, e poi defluisce, riportandosi via, nella sua risacca, quelle che sono ormai definitivamente diventate misteriose e fantasmatiche presenze.
Ma ormai la scena volge al termine: le inq.n°39 e 40 comportano una brusca oscillazione in questo tipo di andamento; sono infatti inquadrature oggettive e affollate: qualcosa (ma cosa?) ha fatto sì che i pellegrini ritornassero al loro originario livello di realtà e di narrazione; e sarebbe, probabilmente, un cambiamento molto brusco, se non fosse mediato dall’apparente variazione di luogo e di prospettiva, e dalla presenza degli animali al posto delle persone. La successiva soggettiva n°41, con la sua natura di “ponte” (come si è detto) tra le dimensioni della soggettività e dell’oggettività, nella posizione in cui si trova, posposta alle già del tutto oggettive inq.n°39 e 40, sigilla dunque la sequenza attuando una sorta di hysteron proteron . Come è potuta avvenire una simile deformazione del normale andamento narrativo del film? E come mai “funziona”? Fusillo, da un certo punto di vista, non ha torto a chiamare in ballo quella «soggettiva indiretta libera» di pasoliniana teorizzazione: è ovvio, infatti, che lo stato di alterazione psicologica del personaggio Edipo, aiuti a rendere tollerabile per lo spettatore la singolarissima costruzione della scena, ma è anche altrettanto ovvio che questo richiamo non aiuta a risolvere il vero problema: perché questa scena è proprio così? Perché funziona? Cos’è quel qualcosa di tanto potente da consentire agli elementi della narrazione di cambiare la loro natura e di passare impunemente da un livello narrativo all’altro? Ma siccome è ancora troppo presto, anche per noi, per poter dare delle risposte veramente pertinenti, allora, per il momento, ci limiteremo ad accumulare altri quesiti. E noteremo, tanto per cominciare, che questa scena dell’oracolo comincia ad essere interessante ben prima che da quell’inq.n°23 da cui Fusillo comincia il suo esame… E’ ad esempio piuttosto strano che Fusillo non faccia neppure cenno a uno dei fenomeni più vistosi di tutta la scena, cioè il controluce, che di tanto in tanto raggiunge il suo apice quando il sole [130] entra direttamente in macchina e nell’inquadratura, accecando l’obbiettivo : questa della luce in macchina, della luce che sfonda, era infatti un’infrazione fortissima al codice cinematografico classico, fortemente voluta (come noto) dallo stesso Pasolini, che l’aveva anche già codificata (nel [131] 1965) come uno degli stilemi tipici del cinema di poesia (e Pasolini doveva insistere non poco coi recalcitranti operatori per ottenerla). Ma anche volendo tralasciare, per il momento, i casi più estremi di vero e proprio sfondamento, andrà comunque detto che, se non è particolare in sé e per sé [132] l’idea di girare in esterni col sole in controluce (o mezzo controluce) , ben raramente, però, si può osservare un’applicazione altrettanto drastica e ossessiva di questa tecnica: al punto da rendere [133] totalmente incoerente la luce . Consideriamo infatti una tipica e generica situazione di campo e controcampo, in cui due soggetti si fronteggino: come noto, si considera che i due soggetti siano uniti dalla cosiddetta “linea di attenzione”, e che la mdp non scavalchi mai detta linea ma resti sempre dallo stesso lato della scena; in questa maniera, uno dei due soggetti guarderà sempre da sinistra a destra, e l’altro, viceversa, guarderà sempre da destra a sinistra. Secondo la teoria classica, questo incrociarsi o incontrarsi degli sguardi dei due soggetti, da un lato sutura i loro pdv (i due soggetti si guardano reciprocamente), dall’altro, assegnando delle direzioni fisse agli sguardi e ai movimenti, permette di dare alla scena un preciso orientamento spaziale, in modo da non confondere lo spettatore. Abbiamo fatto questa breve e semplicistica premessa, perché, come si può facilmente osservare, Pasolini, soprattutto nella prima parte della scena, osserva abbastanza regolarmente questo tipo di costruzione, anche se in maniera un poco asimmetrica: Edipo, avvicinandosi alla Pizia, guarda e cammina sempre da sinistra a destra; la Pizia, che, classicamente, dovrebbe dunque guardare da destra a sinistra, in realtà guarda [134] piuttosto frontalmente , ma la mdp non arriva mai a scavalcare e l’anomalia non è tale da confondere la posizione reciproca dei personaggi. Se ora torniamo al nostro ipotetico schema generale di due soggetti che si fronteggiano e si guardano, e vi applichiamo il concetto di controluce, ci accorgeremo che, riguardo alla posizione reciproca della fonte di luce rispetto ai nostri soggetti e alla mdp, si danno sostanzialmente tre, e solo tre, possibili casi, che ovviamente si escludono l’un l’altro a vicenda: il sole infatti non può trovarsi contemporaneamente in due diverse posizioni, pena il crollo della continuità fotografica. Caso (A): il sole si trova in controluce rispetto alla mdp quando questa si trova ad inquadrare
contemporaneamente entrambi i soggetti in un master-shot il cui asse di ripresa è grosso modo [135] perpendicolare alla linea di attenzione che li unisce ; in questo caso, quando la mdp, inclinando il proprio asse di ripresa rispetto alla linea di attenzione, andrà a porsi in posizione più frontale rispetto ai due soggetti per inquadrarne i PP, detti PP risulteranno illuminati di taglio. Come però si può facilmente osservare, questo primo caso non è pertinente rispetto alla scena in esame: in essa, non solo non vi è alcun master-shot di quel tipo (Edipo e la Pizia mantengono del resto sempre una certa distanza tra loro), ma, soprattutto, le inquadrature dedicate ai due soggetti non sono, di fatto, illuminate di taglio, né, viceversa, potrebbe una luce di taglio generare i forti controluce e gli sfondamenti che si possono di fatto osservare nel film. Restano dunque solo i due casi simmetrici (B) e (C). Partiamo da (C): il sole si trova alle spalle del secondo soggetto (quello di destra, cioè, in questo caso, la Pizia), per cui il PP di questi sarà in controluce, mentre l’altro soggetto avrà il sole a favore, cioè in faccia. Questo sembra essere senza dubbio il caso nostro: se, infatti, la luce, il sole che sfonda in macchina presuppone di necessità una collocazione dell’inquadratura in controluce, dobbiamo per forza ritenere che la Pizia si trovi in controluce, col sole grosso modo alle sue spalle: lo si vede chiaramente nell’inq.n°21. Ecco che però i conti subito non tornano: se infatti osserviamo con un po’ più di attenzione le adiacenti Inq.n°20 e 22, cioè il controcampo su Edipo inginocchiato di fronte alla Pizia, che sbatte gli occhi come abbagliato (20) e quindi si alza sconsolato e torna indietro (22), ci accorgiamo subito che Edipo non ha affatto il sole in faccia, e non ha, realmente, alcun motivo di sbattere così le palpebre; tutt’altro: caso (B), il sole, viceversa, deve trovarsi alle spalle di Edipo (cioè del primo soggetto, quello a sinistra), perché i suoi PP sono chiaramente ripresi in controluce: il contorno dei capelli brilla di sole, la sua faccia è decisamente in ombra; anche se l’assenza di luce in macchina rende meno smaccata la cosa, al riguardo non vi possono essere dubbi. E di conseguenza, sempre per il caso (B), dovrebbe essere a favore di luce la Pizia. E dunque dov’è il sole? Dietro a Edipo o dietro alla Pizia? Evidentemente è dietro a entrambi; e non solo in questo punto della scena! Consideriamone l’inizio: Inq.n°1) Edipo arriva tra gli altri mendicanti, ed è in controluce; 2) controcampo, Edipo si siede e, seppur nella lontananza, pure l’albero dell’oracolo è in netto controluce. Non solo: per come questa azione è stata montata (cioè con Edipo che non termina il suo movimento sulla prima inquadratura, ma si siede di quinta –per così dire –nell’inquadratura successiva, generando una sorta di semisoggettiva), succede addirittura che Edipo, a cavallo di uno stacco sul movimento (cioè senza alcuna possibile ellisse temporale) si trovi a essere in controluce in entrambe le inquadrature dalle due opposte parti, prima col sole alle spalle inquadrato di fronte, e poi col sole in fronte inquadrato di spalle. Quando nell’inq.n°5, in seguito a una dissolvenza incrociata, Edipo raggiunge la testa della fila dei pellegrini, è ancora inquadrato in evidente controluce, col sole alle spalle; solo che anche l’albero dell’oracolo di fronte a lui è ancora in evidente controluce col sole alle spalle (inq.n°6, soggettiva di Edipo che avanza). Di Edipo di fronte alla Pizia, abbiamo già detto; ma anche quando poi se ne allontana, le anomalie certo non mancano (si vanno anzi ad aggiungere a tutte quelle che abbiamo già visto): 24) CL Edipo si allontana dall’albero (controluce); 25) PP di Edipo che guarda (controluce); 26) soggettiva di Edipo, ed è di nuovo controluce: il sole dovrebbe essere alle spalle di Edipo che guarda (n°25), ma invece lo abbaglia, ce l’ha negli occhi (n°26). Alla fine della scena, alla fine della soggettiva n°41, la pietra miliare di Corinto è in pieno controluce, eppure anche Edipo che sta guardando la pietra (quindi rivolto verso il sole) è in controluce, col sole alle spalle. E crediamo si debba senz’altro ritenere che queste contraddizioni (così palesemente perseguite e non semplicemente accadute) sarebbero state ben più numerose anche in questa seconda metà della scena, se la luce del sole non [136] fosse accidentalmente calata e ammorbidita nel corso stesso delle riprese . Si badi bene che quella che qui si sta sollevando non è una banale questione tecnica di “lana caprina”: il punto non è se possano prodursi lievi discontinuità fotografiche lavorando in esterni; è ovvio che ciò possa accadere, dato che le nubi e il sole, come noto, non aspettano che si batta il ciack (è anzi, questa, la bellezza stessa delle riprese in esterni). Il fatto è che nessun vero professionista del cinema si azzarderebbe mai, se non ci fosse un preciso motivo, a mescolare con tanta libertà controluci e altre inquadrature apertamente ed evidentemente incoerenti; né si può accampare la solita eterna scusa del Pasolini non tecnico: e non solo perché Pasolini, intelligentemente, compensava le sue mancanze circondandosi di ottimi operatori, ma soprattutto perché (come detto) questi sfondamenti della luce Pasolini li aveva lucidamente teorizzati e li
richiedeva espressamente. La questione vera, quella veramente importante, è che nel realizzare questa scena, l’esigenza di avere sempre figure in controluce, sempre schiacciate e percosse del sole (sempre pronto ad entrare nell’obbiettivo e ad accecarci), è stata così pressante da finire per erodere e demolire uno dei più importanti cardini di tutta la convenzione narrativa classica del cinema: cioè, appunto, la continuità fotografica . Sorge allora persino il dubbio che sia cominciato tutto da qui; che sia stata questa luce ad innescare la miccia; che sia stata la forza prepotente di questa luce africana e arcaica a causare tutte le anomalie di questa scena –magari anche quelle legate alla soggettività di Edipo e ai nostri fantasmatici pellegrini : come se fosse stato questo costante controluce, questo sfondare della luce, a perforare per primo le paratie che nel mondo quotidiano, ordinario, della rappresentazione, separano le inquadrature le une dalle altre, e che poi la soggettività di Edipo e la realtà dei pellegrini fossero gocciolate da un’inquadratura all’altra attraverso questi varchi, come in un sistema di vasi comunicanti… C’è un momento in cui la peculiarità greca si distacca dal continente asiatico […] Quel momento […] E’ l’entrare in Zeus, nella chiarità meridiana. […] Nei tragici, dios significa ormai soltanto «divino», in quanto «proprietà di Zeus». Ma in età omerica dios significa innanzi tutto «chiaro», «splendente», «glorioso». […] In Omero ciò che è bello [137] e buono è anche abbacinante. Ma di tutto questo in Fusillo non v’è traccia. Quanto poi alla scena del parricidio, dell’uccisione di Laio, l’impegno che Fusillo dedica a un tentativo di reale analisi del testo filmico si riduce ancor di più: appena una manciata di righe, che in realtà assomigliano piuttosto a una breve elencazione esemplificativa. Come al solito, ciò che realmente interessa a Fusillo è altro: in questo caso, sfruttare il tema del parricidio per chiarire il senso generale dell’operazione pasoliniana, osservandola come in trasparenza sullo sfondo culturale delle precedenti riletture del testo di Sofocle, e delle riletture psicanalitiche freudiane in particolar modo (e, come al solito, in questo campo, le osservazioni di Fusillo sono sempre interessanti e puntuali): Nella tragedia di Sofocle l’uccisione di Laio è priva di ogni investimento problematico […] Per la morale antica, precristiana, si tratta di un atto svuotato da ogni colpevolezza: un banale episodio quotidiano di legittima difesa […] Proprio qui risiede uno dei fulcri semantici del dramma greco: l’assoluta innocenza soggettiva di Edipo, che non poteva divinare che il vecchio da lui ucciso fosse suo padre, coincide pienamente con la sua trasgressione oggettiva del tabù del parricidio […] Nella lunga e ramificata tradizione di drammi dedicati al mito di Edipo dopo Sofocle e prima di Freud, questo nodo viene sempre più problematizzato e patetizzato, dando all’eroe protagonista una responsabilità che intorbida la pura innocenza sofoclea, fermo restando, ovviamente, il suo ignorare [138] l’identità di Laio. Si tratta senz’altro di un effetto dell’etica cristiana […] Grazie all’influsso delle teorie freudiane, nel Novecento si giunge alla rappresentazione diretta del parricidio, non più mediata dal racconto e dal ricordo. […] Dopo più di mezzo secolo la versione di Pasolini non può che risentire degli attacchi che marxismo e psicanalisi avevano sferrato contro l’istituzione della famiglia […]. Se l’ottica di Freud e di Hofmannsthal resta sempre tutta patriarcale, la versione pasoliniana è invece del tutto ribaltata dalla parte del figlio: il parricidio è rappresentato come una pulsione tanto violenta quanto ineliminabile, un rituale liberatorio che demistifica il potere (basta pensare alla risata di Edipo di fronte al gesto di Laio che indossa la corona), e che si giustifica solo e unicamente su base intrinseca. Edipo non uccide Laio per legittima difesa né per alcun altro motivo contingente ed esterno, ma solo perché vede in lui l’incarnazione dell’autorità oppressiva: padre e figlio si odiano al primo sguardo solo perché inconsciamente riconoscono di appartenere a queste due categorie che fondano il [139] patto sociale.
In questa prospettiva critica assumono un senso pregnante alcuni tratti di forma e di figurazione che caratterizzano questa sequenza del parricidio. Innanzitutto l’andamento rituale delle uccisioni a catena, modellato –secondo le dichiarazioni dello stesso autore – su arcaiche pratiche giapponesi (mediate soprattutto dall’amato Mizogouchi): in questo modo il parricidio sembra quasi evocare un rito atavico, l’uccisione del padre primordiale che in Totem e tabù Freud considerava la base filogenetica della nostra civiltà. In secondo luogo è interessante notare che tanto nel secondo combattimento con il soldato quanto, soprattutto, nel colpo decisivo inferto a Laio l’inquadratura è diretta contro il sole, e provoca lo stesso forte effetto di accecamento che ricorre subito dopo il responso di Apollo in cui si predice l’uccisione del padre e il matrimonio con la madre: la luce che abbaglia è figura del non voler vedere e quindi del non voler sapere, che [140] porteranno Edipo nel finale alla cecità effettiva e alla diversità di poeta […] Già questa semplice osservazione della singolare puntualità con cui il fenomeno del controluce e dello sfondamento si ripresenta in tutti i momenti salienti del film, avrebbe forse dovuto spingere, anche da sola, a un più serio approfondimento, non foss’altro perché è il cinema stesso, in fin dei conti, ad esser fatto di luce, e nel cinema i fatti della luce non vanno dunque mai sottovalutati. Notiamo, preliminarmente, che tutti e tre i combattimenti contro la scorta di Laio, e non solo il secondo (curiosa imprecisione), sono fortemente segnati dal controluce e dal sole che sfonda in macchina. Per il resto, anche questa scena, come la precedente, è tutta fortemente segnata da questa insistenza di luce; in questo caso però, per vari motivi, non procederemo a un decoupage e a una conseguente analisi completa di tutta la scena: sia per la sua maggiore lunghezza, che si tradurrebbe in un lavoro piuttosto gravoso anche per il lettore; sia, soprattutto, per non ripeterci, visto che [141] comunque molto si è già detto a riguardo dell’altra scena . E pur tuttavia è proprio sul finire di questa scena che questa misteriosa pressione della luce consegue una delle sue più grandi vittorie; e certo anche Fusillo vi avrebbe dedicato qualche parola in più, se si fosse accorto che, dopo alcuni fenomeni consimili a quelli già osservati nella scena dell’oracolo, qui la forza di attrazione del controluce, della luce che sfonda selvaggia, arriva a causare direttamente lo scavalcamento di campo . Quando infatti Edipo, in PM, sale sul carro da sinistra a destra per uccidere Laio, si trova già in controluce, ma un semplice controluce non è abbastanza per il colpo finale che segna la violazione del tabù; ed ecco che il sole si affaccia prepotente dentro all’inquadratura: ma per far posto al sole, l’inquadratura si è dovuta ribaltare, la mdp ha scavalcato, e ora Edipo non guarda più da sinistra a destra, ma da destra a sinistra. Si tratta, insomma, di un altro durissimo colpo inferto alla continuità narrativa del film: se prima, nella scena dell’oracolo, erano state erose la continuità fotografica e la continuità degli elementi profilmici (cioè la presenza degli altri pellegrini) –e cioè (e non è dir poco) quei meccanismi che danno allo spettatore l’illusione di una continuità narrativa e [142] discorsiva che, come noto, in realtà non esiste ma prende vita solo sullo schermo –ora anche forse l’unico vero e proprio sintagma forte del linguaggio cinematografico (il campo/controcampo) si sfalda; si sfalda il principio stesso della suturazione degli sguardi e dello spazio; la luce ha decisamente spezzato le briglie… Ora, dato che lo studio di Fusillo non dà in realtà alcun aiuto per la comprensione di questi misteriosi fenomeni cinematografici, e dato che quello di Conti-Calabrese, come si è detto, non si occupa affatto dell’analisi dei film, potrebbe sorgere l’idea di rivolgersi, per avere un qualche chiarimento in proposito, a dei testi di più specifica critica cinematografica. Potrebbe cioè sorgere l’idea che, se anche i critici cinematografici hanno lavorato per lo più nella più completa ignoranza della giusta prospettiva culturale in cui collocare il cinema mitologico di Pasolini, forse la critica cinematografica vera e propria, per essere attrezzata con più adeguati strumenti e metodi di analisi, potrebbe essersi rivelata comunque più efficace (rispetto a dei non specialisti come Fusillo o Conti Calabrese) nell’analisi stilistica, linguistica e strutturale di singoli e determinati passi del testo filmico. Verificare questa ipotesi propone però alcuni problemi di metodo storiografico: la bibliografia su Pasolini è infatti sterminata, molto generica e ripetitiva, e sparpagliata su scala mondiale;
sconfortante anche volendosi limitare ad un solo film, pur dovendo ritenere probabile che, nella gran massa, possa senz’altro celarsi anche qualche rara perla. Abbiamo perciò deciso di adottare un metodo empirico, certo discutibile ma, a nostro avviso, in grado di fornire risultati interessanti, per saggiare la bontà dell’ipotesi in oggetto: decidiamo cioè di prendere in considerazione solo quei pochi testi che, in seno alla tradizione critica italiana, possano essere considerati in qualche modo “classici”, intendendo con ciò non i testi migliori o peggiori, più o meno significativi, di una o di un’altra impostazione estetica o connotazione politica, ma semplicemente quelli che, per una ragione o per un’altra, non mancano assolutamente mai nella bibliografia di un qualsiasi studio italiano sul cinema di Pasolini; facciamo questa scelta in considerazione che la relativa ripetitività della critica su Pasolini sottintenda, per così dire, una “vulgata”, un canone critico, di cui questi libri di ampia diffusione sono il presupposto, il fondamento. Tra questi poi, scegliamo ovviamente solo quelli che abbiano un’attinenza diretta con l’Edipo e siano strutturati in maniera tale da presentare al loro interno uno spazio specificamente dedicato all’analisi del film. Potremmo allora iniziare dal già citato Castoro di Petraglia del 1974, tanto più che lo stesso Fusillo rimanda a lui (in una nota a pie’ di pagina) proprio a riguardo della luce in macchina. Petraglia fa una serie di considerazioni generiche che potrebbero attagliarsi almeno a qualche dozzina di diverse riletture di Edipo (cinematografiche e non), e poi, quando finalmente si dedica a considerare le sequenze più significative del film, liquida così il problema che stiamo trattando: […] il senso di morte che pure sovrastava tutto il primo cinema pasoliniano si fa più barbarico ma perde anche di spessore, giacché si configura piuttosto come rito che come ultima realtà. Non è più un fisico trascolorire, uno sfinimento tragico e umano, ma un morire metafisico e nostalgico. Compare una specie di pudore della morte che trova un largo respiro figurativo nella scena dell’omicidio del padre Laio. Una lama di luce inonda l’immagine al momento del colpo mortale e crea un’ombra di compassione pur nella barbarie, anche se Edipo uccide in un rapido succedersi di urla e selvaggi scoppi di [143] violenza incontrollabile. Quanto un simile approccio possa essere riduttivo e inadeguato, lo si può già immaginare da quanto noi siamo venuti scoprendo sinora; quanto sia profondamente sbagliato, lo si potrà invece comprendere appieno nel prosieguo di questo studio. Ma anche provando a spostarci su un altro “classicissimo” studio, come quello di Ferrero del’77, le cose, malauguratamente, non migliorano neanche un po’: questa è anzi tutta l’attenzione che dedica alle scene che stiamo qui cercando di chiarire: Il rapporto tra l’immobilità del mito e il sentimento attuale dell’autore, al quale esso si ripropone come uno sconvolgente incubo a occhi aperti, tocca forse il momento più intenso nella sequenza dell’oracolo dove, intorno all’albero isolato e sperduto nel deserto, un coro di maschere di morte circonda la sacerdotessa che pronuncia il responso. Alla prima reazione, una risata incredula ed empia, segue un silenzio carico di condanna e di terrore: lo sguardo di Edipo si posa sulle folle immobili e assorte, cancellate ai suoi occhi da un velo di sabbia sollevata dal vento, le folle dalle quali egli [144] si sente irrimediabilmente lontano e diviso. Insomma, non si va oltre la sinossi (e neppure tanto precisa). E neppure da uno studio molto più recente come quello di Murri del’94, si riesce a cavare granché di meglio: Della cultura letteraria del regista restano solo i simboli, ormai quasi indecifrabili, della civiltà greca. Tutti gli omicidi che Edipo compie, urlando ferinamente e senza senso, avvengono in controluce, sotto la luce bianca e accecante del sole: da una parte questo rievoca il dettame della tragedia greca secondo il quale l’attimo della morte non può essere rappresentato sulla scena, dall’altra, quello che era il colore rituale della morte presso i greci cioè il bianco. L’oracolo, che prima di profetizzare si ciba di riso, rievoca
l’atto simbolico di ricreare attraverso il comportamento rituale e religioso un contatto primordiale tra la materia e lo spirito. Ma, in entrambi i casi, questi simboli sono [145] espressi senza parole, attraverso la pura immagine. Eppure stiamo parlando di scene che tutti questi studiosi, nessuno escluso, segnalano essere tra le principali e più significative del film. Potremmo andare avanti ancora a lungo con questo genere di esemplificazione; ma forse, proprio per questo, fa più conto di fermarsi qui, e di stabilire un secondo importantissimo punto fermo nella nostra ricerca: prima abbiamo visto come la critica italiana non abbia saputo individuare le giuste fonti culturali e la giusta prospettiva in cui collocare l’operazione mitologica pasoliniana; ora possiamo aggiungere qualcosa di più: nella critica cinematografica italiana ciò che manca è proprio il cinema . Cioè una vera attenzione, e una vera comprensione, per [146] il testo filmico in quanto filmico. Al posto del cinema cosa troviamo? Una serie di considerazioni; talvolta non del tutto prive di un certo interesse, come nel caso appena citato di Murri (in definitiva, i quasi 20 anni trascorsi dalla morte di Pasolini sono pur serviti a qualcosa): Pasolini, con questo film, affronta una volta per tutte la sua ansia autobiografica, il suo personale “complesso di Edipo”; ma l’autobiografismo attraverso il quale il regista riscrive la tragedia è piuttosto il superamento della necessità autobiografica, di quella istanza con cui, tre anni prima, sovrapponeva la figura della Madonna a quella della [147] propria madre nel Vangelo secondo Matteo […] A partire dall’oscuro senso di morte insito nel testo di Sofocle, la vicenda di Edipo diviene l’emblema della “condizione umana” occidentale: quella di una vita resa cieca dalla volontà di non sapere ciò che si è, di ignorare la propria “verità”, quella verità forse terribile, che perfino la marionetta di Otello in Che cosa sono le nuvole? , a suo modo, cercava. […] E’ dunque l’atteggiamento del chiudere gli occhi di fronte alla propria condizione e proseguire il cammino personale fino alla catastrofe ciò che accomuna Edipo all’umanità del Dopostoria in cui Pasolini vive: ma identificando se stesso con Edipo, archetipo di questa umanità cieca, Pasolini prende definitivamente le distanze dalla sua innocenza colpevole, e riconosce che l’epoca dell’innocenza si è conclusa, che un intellettuale “che sa” (come scriverà di sé qualche anno più tardi su un celebre articolo “corsaro”) non può più pretendere di alimentare la speranza attraverso la creazione artistica di un “mondo altro”, ma ha il compito di turbare il mondo, di sviscerare in tutta la sua nudità la crudezza delle relazioni su cui si struttura la società in cui vive. […] Con Edipo re , dunque, Pasolini intraprende quel cammino verso il disvelamento dell’atrocità che, con la parentesi utopistica della trilogia della vita, lo [148] porterà fino alla descrizione della pura violenza di Salò . Ma più spesso sono considerazioni impregnate di densi umori e pregiudizi ideologici, nati in gran parte dal sospetto di un presunto disimpegno di Pasolini. E’ il caso anche di Petraglia: Petraglia che, pur sostenendo di gradire il film da un punto di vista estetico, lascia chiaramente intendere di non gradirlo più di tanto; ma questo sarebbe il meno: Fuori dalla storia, a tu per tu con se stesso. Di conseguenza: autobiografismo, ritorno alle origini del tempo, squisitezza erudita. […] Ed è pervaso da una inquietudine che si fa poesia quando riesce a toccare la materia, mentre dà luogo ai «più orrendi luoghi dell’estetismo borghese» quando veleggia nell’iperuranio dove l’inversione del vero con il fantastico si compiace di uno stantio scandalo formale. Edipo re è del 1967. Pasolini precisa che la narrazione tratta cose dalle quali è ormai lontano. E’ vero, con ogni probabilità. Il che non toglie al film il carattere di
ripensamento e giustificazione personale.
[149]
Questa litania del «fuori dalla storia», dell’«estetismo» (a volte variato in «decadentismo») è come un ritornello nella critica italiana (soprattutto negli anni’70, ma non solo), e possiamo infatti averne subito la riprova ridando un’occhiata anche a Ferrero: Elaborato nella fase più intensa della discussione e della polemica semiologica […], Edipo re propone invece, e non a caso, un discorso privatissimo che ritorna, con ossessiva dolorosa continuità, nell’opera pasoliniana […] Dopo il Cristo del Vangelo , anche Edipo è la metafora di una sofferta e scandalosa «diversità» le cui implicazioni autobiografiche e culturali, di timbro [150] decadentistico, sono fin troppo scoperte. Estraniazione lirico-autobiografica e contemplazione di un mondo arcaico, misterioso e distante, si fondono in una visione ambigua e struggente. […] Il risultato complessivo, ibrido e composito, alterna sfasature e dissonanze sconcertanti […] a intuizioni e [151] procedimenti di folgorante evidenza poetica […] Edipo re , ulteriore conferma della contrazione e chiusura della poetica pasoliniana, […] è molto lontano anche dalla tensione stoica e dubitante che suggeriva i disperati interrogativi dell’Edipo pavesiano […]. L’«enigmaticità» del personaggio non produce la tensione dell’«interrogazione», di cui parlava Vernant, né rimanda, attraverso la scoperta della «sofferenza», al «momento della nascita dell’uomo nella storia [152] europea», splendidamente analizzato da un Propp. Così come avviene per l’uovo e per la gallina nella nota storiella che li riguarda, allo stesso modo, anche in questo caso è difficile dire chi nasca prima: cioè, se sia stata la sostanziale incomprensione del testo filmico a lasciare via libera a tanta fioritura di pregiudizi, o se, al contrario, sia stato proprio quel pregiudizio ideologico a impedire di prestare vera attenzione al testo filmico; sono come le due facce di una stessa medaglia, un connubio scellerato che dà il tono a quella “vulgata” critica sui film mitologici di Pasolini di cui si diceva. Fatto sta, allora, che di certo non sorprende il constatare che, nel 1999, quando Micciché espande [153] e trasforma in un libro di 217 pagine su Pasolini quello che nel suo libro del’75 era solo un capitolo di appena 20 pagine (ancorché dense), non sorprende –dicevamo –che gli unici film a non ricevere quasi neppure un rigo in più di attenzione siano proprio i film mitologici: alle pp.54-55 del nuovo libro, infatti, non fa che ripetere parola per parola quel giudizio negativo che noi abbiamo già [154] citato dal primo libro (anche se qui tale giudizio tende ad allargarsi a indirizzo generale dell’opera pasoliniana), mentre a p.26 –a parte un interessante ma brevissimo accenno sul parallelismo tra Edipo e Accattone , e un altrettanto breve accenno all’Orestiade –non fa che richiamare (e solo per sommi capi) la nota dichiarazione di Pasolini sullo scontro di culture presente in Medea (cosa che poi ripete, tale e quale, anche alle pp.33-34). Ben poco, in definitiva, e anche Fusillo e Conti Calabrese sembrano essere per lui passati invano. Eppure, per altri versi, il libro di Micciché manifesta una consapevolezza critica e metodologica ben superiore a quella, solo mediocre, della “vulgata” critica dei film mitologici; Micciché stesso lo sottolinea, quasi in apertura del suo libro, e rimarca la netta differenza strutturale e di approccio critico del suo studio rispetto tanti altri, non esclusi quelli che abbiamo citato finora: […] da qualche anno a questa parte assistiamo ad una fiorescenza, internazionale, di apporti esegetici, di monografie specialistiche, di profili critici e perfino (anche se molto
più raramente) di analisi delle singole opere: sino a rendere sterminata, e per ciò stesso in qualche modo imperscrutabile, la bibliografia pasoliniana. […] Tuttavia, rileggersi i due volumi Garzanti di «Tutte le poesie», o i due volumi Mondadori di tutti i romanzi e racconti, o rivedersi i ventidue titoli della filmografia pasoliniana e subito dopo produrre una monografia sulla poesia o sulla narrativa o sul cinema di Pasolini […] può anche aggiungere qualche brillante idea alle molte già esistenti in ambito pasolinologico, ma non è accogliere quell’invito allo studio che qualcuno fece il 3 Novembre del’75 […]. Studiare vuole dire, soprattutto, analizzare e produrre strumenti per l’analisi, raffrontare e confrontare filologicamente opere e testi, documentare e verificare opinioni critiche, meditare e riflettere senza la fretta di produrre […]. Soprattutto in un caso di forse apparente evidenza, in realtà di complicata complessità, come quello dell’opera pasoliniana che investe cinque o sei diversi settori specialistici. Proprio a tale proposito, sporadiche e ancora approssimative appaiono le ricostruzioni d’insieme dell’attività pasoliniana: quelle, per intenderci, che non soltanto puntino a un profilo unitario del poeta […], del narratore […] di corposi romanzi, dello sceneggiatore e del regista cinematografico, […] ma riescano altresì a scandire i diversi tempi e il complessivo percorso, come dire l’unità e la dialettica di una presenza intellettuale che è tra le più alte del nostro dopoguerra ma anche fra le più tortuose, e inquiete, e mutevoli […]. Forse sarà per sempre impossibile, ché occorrerebbe un tipo di studioso da noi assente (ma non saprei dire dove abbondi), specialista al contempo di cinema e di teatro, di letteratura e di teoria dell’estetica, di filologia e di filosofia eticopolitica, di semiologia e di sociologia, di giornalismo e di costume. […] Questa così parziale frammentarietà dell’approccio è certamente favorita, si diceva, dal fatto che, pure all’interno degli stessi campi espressivi, l’intervento pasoliniano si è manifestato in modi molto diversi, secondo differenziazioni profonde e, sovente, veri e propri salti: fra i quali appare arduo, quando non impossibile, individuare i momenti di sutura, le fasi di passaggio, le testimonianze d’una graduale transizione che illumini funzionalmente il «prima» e il «dopo» dei singoli momenti della produzione. Diventa così più agevole compilare un «catalogo» delle opere di Pasolini, che una vera e [155] propria ricostruzione critica. Quest’ultima osservazione (ma verrebbe quasi voglia di chiamarla “frecciata”) sugli studi critici fatti a «catalogo» risulta particolarmente azzeccata: la bibliografia pasoliniana è in effetti piuttosto ricca di studi critici sostanzialmente costituiti dalla semplice giustapposizione delle varie analisi dei film di Pasolini; e sarà forse perché (come abbiamo appena avuto modo di dimostrare) la critica cinematografica spesso non ha brillato per acume, ma non è affatto rara l’impressione che dalle analisi dei singoli film stenti molto a crearsi una vera e propria sintesi critica, un quadro d’insieme, il senso di uno svolgimento unitario e organico dell’opera dell’autore. Si ha anzi con una certa frequenza l’impressione che la sistemazione proposta (o anche solo implicitamente suggerita) da questi studi a «catalogo» dei vari film in seno al complesso dell’opera pasoliniana, sia molto più intrinseca alla forma stessa del catalogo che non al quadro critico d’insieme: vale cioè a dire, che la sistemazione del dato film nel quadro d’insieme appare sostanzialmente legata al mero ordine cronologico che dà forma al «catalogo», naturalmente ricalcato sull’ordine cronologico con cui Pasolini ha concretamente realizzato i propri film. Il quadro critico d’insieme si trova così, in realtà, in maniera più o meno esplicita, a essere subordinato all’assurdo compito di giustificare l’ordine cronologico esistente: cioè, in definitiva, a giustificare perché un dato film è stato realizzato proprio dopo quello che lo precede e prima di quello che lo segue; il che è un compito assurdo, in quanto il dato cronologico meramente esistente, proprio perché esistente e dato una volta per tutte, non ha alcun bisogno di essere giustificato, ma, semmai, di essere spiegato. E’ però ovvio che, per una vera spiegazione e per una vera comprensione, occorrerebbe, in virtù di un quadro critico coerente, avere il coraggio anche di emanciparsi dal bruto dato cronologico, per andare a indagare i più veri e profondi rapporti di parentela tra le varie opere, anche se, e quando, questi rapporti dovessero trasgredire o contraddire quel dato cronologico. Ma come è possibile formarsi questo quadro critico coerente e organico in mancanza di una vera comprensione del testo filmico, cioè in mancanza di adeguate fondamenta su cui costruire? E come sarebbe possibile, allora, abbandonare l’orizzonte sicuro della cronologia in mancanza di un qualsiasi altro termine sicuro di orientamento?
Malignamente, si potrebbe rispondere che resta sempre la tentazione, la scorciatoia, dell’ideologia, ma certo è che la questione appare tanto più spinosa proprio per un autore come Pasolini, che, se da un lato presta appunto il fianco (a torto o a ragione) al giudizio ideologico, dall’altro, come acutamente nota lo stesso Micciché, mal si presta ad un approccio puramente cronologico, perché l’evoluzione del suo pensiero è tutt’altro che rettilinea: In realtà, il procedere della produzione pasoliniana non ha luogo per successive scoperte, eliminazioni, cancellazioni e immissioni, ma semmai mediante il successivo sovrapporsi di diversi –e complementari –strati ispirativi che si aggregano reciprocamente, privilegiando ora questo ora quello dei motivi che caratterizzano il [156] complesso (ma sostanzialmente univoco) «mondo poetico» dell’artista. Sorge allora il dubbio che quella mancanza che abbiamo indicato come assenza del cinema nella critica cinematografica possa avere un grave corollario, almeno per quanto riguarda questi film mitologici: cioè che, così come la critica si è rivelata incapace di individuare, comprendere e spiegare gli aspetti più significativi di questi testi filmici, detta critica risulti anche (per diretta conseguenza) sostanzialmente incapace di assegnare a questi film un posto, un ruolo e un senso specifici in seno allo svolgimento del percorso artistico e intellettuale di Pasolini ; un senso, un ruolo e un posto veri e significativi, che non siano solo e semplicemente coincidenti con la loro posizione cronologica, ma che permettano di inserire queste opere in un quadro critico e teorico organico, in modo che la singola opera possa contribuire a far luce sull’insieme e l’insieme sulla singola opera, in un fruttuoso rapporto reciproco. Ora, proprio perché questo secondo lavoro di Micciché non appartiene al genere del «catalogo», ma anzi ne prende le distanze e si dedica specificamente al tentativo di tracciare un quadro teorico e critico organico dell’opera cinematografica di Pasolini, si potrebbe auspicare –per quanto l’esiguità della trattazione dedicata ai suoi film mitologici non lasci, in verità, ben sperare – che almeno questo studio possa riuscire a dare una vera collocazione critica all’Edipo re e a Medea . Proviamo allora a considerare il quadro teorico proposto da Micciché (per altro invariato rispetto al suo precedente libro): Nell’opera cinematografica di Pier Paolo Pasolini […] è possibile individuare almeno quattro periodi, e altrettante scansioni, corrispondenti a diverse emergenze problematiche e poetiche. […] a una attenta lettura delle opere, suddivisioni e periodizzazioni si confondono, si sovrappongono, si intersecano; mentre su ognuna delle scansioni, e su tutte domina, nel duplice senso che ne costituisce il punto di arrivo e il [157] punto di partenza, la composita unità del mondo poetico pasoliniano. Con il che si vede come, per quanto scandita in quattro diverse stagioni, l’ispirazione pasoliniana sia molto compatta e unitaria: essa, lungo le quattro differenti tappe ispirative, va mutando gli strumenti ma non gli obiettivi del proprio luttuoso canto. […] tutti i protagonisti [dei film] pasoliniani muoiono e sono guidati dal senso della morte. [158]
Questa «vita furente (o nolente) (o morente)» che il poeta «svela» nel 1963 come la sua «vera passione» è la primaria (e solo fino a un certo punto segreta) Grundform poetica della produzione artistica pasoliniana che nei film, più ancora che nelle opere letterarie, trova dirette ed esplicite mediazioni espressive. In tal senso […] è lecito un discorso unitario sul cinema pasoliniano […] Così d’altronde acquista ideologica chiarezza e poetica plausibilità il mondo poetico del regista, che altrimenti potrebbe apparire soltanto come un magma informe, caratterizzato da contraddittorie tensioni […] Questo perché, a ben vedere, le altre «forme» ne appaiono la variabile dipendente […] laddove quella ne è la costante primaria, il dato istituzionale, la dimensione
esistenziale, il momento preideologico. Alludiamo ai «motivi» della fuga dal «patto industriale», della ricerca di una palingenesi libidica, della nostalgica attenzione al primitivo e al sacro, della volontà di liberarsi (e liberare la realtà) dai «borghesi sogni destinati / a farne un luogo sempre più irreale» […]. Fasi diverse e successive, s’intende, di una maturazione artistica che procede lungo l’arco di un trentennio, per successive eredità e sovrapposizioni, arricchendo un iniziale stupore lirico in «trauma biologico familiare» e quindi in rivoltosa passione antiautoritaria e poi in «torbido e candido» cercare il sacro e l’antico; per concludersi, con gli ultimi episodi della produzione pasoliniana, nell’identificazione di Eros e Thanatos, cioè con (l’inconscio?) punto di [159] partenza. La morte è in Pasolini non già, o non tanto, il biochimico concludersi dell’esistere biologico, quanto la legge ineludibile dell’esistenza, la pulsione sovrana, la conclusione obbligata e definitiva […] di ogni discorrere e di ogni esistere: e dunque la sola, dominante, tensione della realtà. Una siffatta idea del Thanatos che sovrasta ogni umano operare, è metastorica per definizione poiché non coincide che in un solo momento (l’atto del fisiologico morire) con l’esistere storico. Al tempo stesso l’unico modo di esorcizzare tale incalzante fantasma è quello di inserirlo in un tessuto mitico , facendone [160] l’ultima conclusiva maglia. [corsivi nostri] Il salto di qualità pasoliniano, tuttavia, non consiste tanto nel vedere quell’atto finale di vita che è il morire come il momento in cui quell’«opera» che è la vita raggiunge definitiva compiutezza, nel duplice senso che finisce e che è immodificabile; quanto nell’implicare, oltre a questa dinamica, in qualche modo retroattiva, dall’atto del compimento al processo del compiersi , una dinamica inversa: una dinamica pulsionale del processo verso il proprio compimento, un impulso, dunque, della vita a concludersi nella morte e, implicitamente, a quel vivere per morire che la fisiologia definisce come un processo di invecchiamento progressivo che investe, ad esempio, le cellule fin dalla prima infanzia e che la psicologia definisce come Todstriebe , impulso di morte. Pasolini ne è talmente convinto che fa di questa pulsione –e del corollario relativo, il rifiuto della [161] storia –il motivo centrale della propria opera. Nasce da qui, a nostro avviso, e non importa quanto conscia, l’astrazione metastoricizzante (e sostanzialmente mistica e metafisica) del cinema pasoliniano, nelle sue tre linee fondamentali: quella che da Accattone va fino a La ricotta (1961-63); quella che da Comizi d’amore va fino a La terra vista dalla luna e Che cosa sono le nuvole? , successivi a Uccellacci e uccellini (1964-67); quella che da Edipo Re va fino a Medea (1967-70); lasciando momentaneamente da parte la quarta fase (quella che va da Decameron a Salò o le 120 giornate di Sodoma ), dove […] impera […] [162] l’identificazione sistematica di Eros e Thanatos. D’altronde, a volere andare ancora più indietro, alla giovinezza creativa di Pasolini, ovvero alla sua poesia friulana, è agevole accorgersi che quel lirismo estenuato, con cui il giovane poeta contempla la serenità agreste di un Friuli pastorale e patriarcale, ha un continuo impatto con fanciulli morti, mezzogiorni cimiteriali, rintocchi funerari di [163] campane, passioni sepolte, nuvole nere, ombre grigie e paesi pieni di malinconia. Ma se questo è il quadro teorico; se questa concezione è per sua stessa natura «metastorica» e propendente ad inserirsi organicamente in un «tessuto mitico»; se –come detto –il giudizio che nel primo libro era legato esclusivamente ai film mitologici, qui si allarga a tendenza naturale della concezione e dell’opera pasoliniana; se, in definitiva, per Pasolini pare essere proprio la Storia [164] stessa «l’agente patogeno che conduce alla morte i personaggi» ; se insomma le cose stanno
così, allora non dovrebbero esservi tutti i presupposti per considerare i film mitologici fra le massime risultanze (se non “le” massime in assoluto) dell’opera pasoliniana? Cioè quelle in cui la concezione dell’autore trova la sua più piena e adeguata e compiuta realizzazione? In questo senso, si potrebbe semmai rimproverare a Micciché di aver dato di questi film e della loro posizione in seno all’opera complessiva dell’autore, una definizione in qualche modo tautologica, dal momento che le due paginette che Micciché dedica loro non spiegano sostanzialmente nulla, e perciò la loro perfetta coincidenza con la concezione dell’autore e con l’approdo ultimo del suo pensiero sarebbe asserita ma non dimostrata, non spiegata, non interpretata: mancherebbe cioè, in definitiva, proprio il lavorio conoscitivo della critica in quanto critica. Ma se anche così fosse, tale giudizio tautologico dovrebbe comunque implicare (anche appunto in maniera del tutto implicita, al limite) quel giudizio positivo di valore che si indicava più sopra: quello della raggiunta perfetta compiutezza, dell’approdo definitivo, della totale adeguatezza dell’opera alla concezione che la informa. Come detto e ripetuto, invece, il giudizio che Micciché dà [165] di questi film (e che ribadisce più volte) è decisamente e nettamente negativo . Ma allora questo giudizio di Micciché è dunque in evidente contraddizione con tutta la sua precedente sistemazione teorica! E’ anzi forse proprio per la lucidità e coerenza del suo impianto teorico (non nascosto o dissimulato dal «catalogo»), che questa contraddizione appare in Micciché con maggiore flagranza che in altri. E il motivo di questa così palese contraddizione andrà forse un po’ cercato tra le righe, ma si può facilmente constatare che è del tutto ideologico: in definitiva, siamo semplicemente ritornati al solito pregiudizio del «decadentismo», del «fuori dalla Storia» [166] –un «fuori dalla Storia» che dunque, con singolare schizofrenia, Micciché è in grado di teorizzare lucidamente ma non, poi, di accettare ideologicamente. Anche in questo senso, il caso di Micciché, figura di intellettuale lucido e valente, schierato ma in genere capace di un giudizio non troppo ideologicamente orientato o viziato, è particolarmente significativo, e indicativo di un malumore e di una perplessità che dovettero evidentemente essere piuttosto diffusi di fronte a quello che (a torto) parve allora (e in seguito) sembrare un brusco e immotivato e inaspettato cambio di rotta nell’operato di Pasolini. E quella svolta non avveniva in un momento qualsiasi. Così si esprimeva a questo riguardo lo stesso Micciché nel suo libro sul cinema degli anni’60: Se ho chiuso il panorama con la stagione 1967-1968 è nel convincimento […] che, al di là dei termini strettamente cronologici, tutto, e dunque anche il cinema, operi una svolta [167] attorno al 1968 […] E abbiamo citato lui perché già in argomento, ma avremmo ovviamente potuto citare quasi chiunque altro, perché era sotto agli occhi di tutti che quegli anni stessero costituendo uno spartiacque importante. Ed erano ovviamente anche gli anni in cui esplose in tutta la sua gravità la crisi delle ideologie, e, soprattutto, proprio dell’ideologia marxista: anche in questo senso, le fonti e le [168] citazioni possibili sono praticamente infinite, non esclusi ovviamente lo stesso Micciché o lo stesso Pasolini in più occasioni: […] Qui si trova semmai la radice del problema: in che modo e in che forma nascono i nuovi valori? Quando finiscono gli antichi valori e quando nascono i nuovi? Oggi siamo immersi in un mondo (di transizione) dove gli antichi valori rimangono ancora validi al tempo stesso che si degradano a vista d’occhio. Ed è questo sgomento etico che Lei rispecchia nella fase attuale della sua opera? Credo che se è così insistente la mia nostalgia del sacro, è perché rimango legato agli antichi valori. A volte, ho il sentimento che siamo vittime di un’accelerazione artificiale,
di un oblio ingiustificato, prematuro…
[169]
[…] la società industriale si è formata in totale contraddizione con la società precedente, la civiltà contadina […], la quale possedeva in proprio il senso del sacro. […] La civiltà borghese lo ha perduto. E con che cosa l’ha sostituito, questo sentimento del sacro, dopo la perdita? Con l’ideologia del benessere e del potere. Ecco. Per cui ora viviamo in un momento negativo il cui esito ancora mi sfugge.[…] L’unica cosa che posso dire è che ha avuto inizio una nuova era, diversa dalla precedente così come l’epoca dell’agricoltura è diversa da quella in cui si raccoglievano i prodotti spontanei della [170] terra. Marxisti o no, siamo tutti coinvolti in questa fine di un mondo. La società non ha risolto, più di quanto sia riuscito a Edipo, il mistero della sua esistenza. Io guardo la faccia d’ombra della realtà, perché l’altra non esiste ancora. Alcuni anni fa, pensavo che i valori sarebbero sorti dalla lotta di classe […] Ora, prima sono stato richiamato alla realtà dalle rivoluzioni russa, cinese, poi da quella cubana. Ogni ottimismo beato, incondizionato, mi veniva da allora precluso. Per di più, attualmente, il neocapitalismo sembra seguire la via che coincide con le aspirazioni delle «masse». Così scompare l’ultima speranza in un rinnovamento dei valori attraverso la rivoluzione comunista. [171] Questa speranza è diventata utopia, almeno in me. […] A questo punto del suo itinerario ideologico, cosa significa per Lei il «socialismo»? […] Vorrei risponderle con la massima sincerità che ci vedo uno dei tanti modi per essere attualmente borghese cercando nel contempo di salvare la buona coscienza. […] Il socialismo in quanto ideologia politica non ha altro valore che quello consentitogli dal [172] cieco sviluppo dell’attuale era tecnologica. Tutto qui. Ovviamente, quello che in Pasolini c’è in più (o di diverso), rispetto a tanti altri, è la chiara (e drammatica) coscienza della natura antropologica del mutamento in atto, e, proprio perché antropologico, epocale e probabilmente irreversibile. O meglio: c’era in più, per Pasolini, la possibilità di “leggere” la realtà circostante e la contemporanea congiuntura storica secondo «categorie» di pensiero di ordine antropologico, e perciò di darne una lettura molto diversa da quelle correnti in Italia, dove (come si è visto) pochissimi erano in possesso di quel genere di conoscenze antropologiche e di sensibilità. E a coloro che, ancora, erano in grado di leggere il reale solo e soltanto secondo quelle «categorie» e quelle «forme» che si erano sviluppate in seno alle precedenti e moriture ideologie, che effetto poteva fare quell’apparentemente brusca virata di Pasolini? Cosa potevano cogliere, al di fuori dell’orizzonte ideologico, che non apparisse loro come disimpegno (dall’ideologia), decadentismo (ideologia negativa, regressiva, reazionaria), antistoricismo, ecc.? Da questo punto di vista, quell’Uccellacci e uccellini che Micciché menzionava come una sorta di “punto di non ritorno” nell’opera di Pasolini, appare evidentemente più comprensibile, perché resta ancora al di qua di quello spartiacque, di quel momento di rottura antropologico; ha ancora evidenti addentellati con l’ideologia, che, per quanto in crisi, vi appare ancora quale orizzonte di riferimento: La tematica della «crisi» […] si affaccia in qualche modo, più implicita che esplicita, in molto cinema italiano dei centrali anni Sessanta, e non soltanto nell’ambito del cosiddetto «cinema d’autore» […] è in realtà un fantasma presente in non pochi film italiani successivi al definitivo seppellimento del neorealismo, del quale d’altro canto costituisce l’antitesi ideologico-sentimentale. […] all’indomani della morte di Palmiro Togliatti, sembra che un’epoca, un clima, una strategia siano per sempre tramontati: […] una sorta di estremo, oggettivo e ineluttabile terminus a quo di quella coscienza della
crisi che a metà decennio investe in modo vistoso le vecchie come le nuove generazioni […]. Per questo un film come Uccellacci e uccellini , autocritico e non autoassolutorio, acquista un rilievo particolare: non soltanto il più bel film italiano del 1966 e uno dei più significativi della filmografia pasoliniana, ma anche uno tra i più sintomatici documenti di quella crisi dell’ideologia (più precisamente, di quella crisi dell’ideologia marxista) che il cinema italiano (pur collocandosi genericamente «a sinistra») vive come dato [173] continuamente rimosso. E così –oltre ovviamente agli altri film ideologici del «secondo periodo» –pure i film di quella che Micciché chiama «Trilogia della Borgata» gli appaiono decisamente più accettabili e comprensibili, per quanto assai meno ideologici, perché comunque molto più abbordabili e digeribili con le classiche «categorie» di pensiero della cultura ideologica (e idealista) italiana: quei film, infatti, conservano ancora un seppur minimo rapporto col familiare ambito della Storia («anche se non una [174] vera e propria dialettica» ). Ma ormai, a tanti anni di distanza, quel pregiudizio ideologico che crea il vuoto dopo Uccellacci… non ha più scusanti, e deve necessariamente essere sfatato. Al riguardo, Fusillo è molto chiaro: […] quello che differenzia Pasolini dalla sensibilità decadente […] è l’assenza di ogni nostalgia arcaicistica: la barbarie da lui tanto amata e mitizzata non è un rifugio consolatorio, ma un livello di pensiero vitale che il razionalismo della società borghese tenta di distruggere e di rimuovere, e che la sua opera tenta invece disperatamente di [175] preservare. Ma ancor più chiaro è Conti Calabrese, del cui studio, ora, cominciano ad evidenziarsi i pregi: Dai primi anni Settanta e precisamente dal 1973, Pasolini comincia la collaborazione con il «Corriere della Sera» e il «Mondo», e ivi scrive una serie di articoli fino a pochi giorni prima di morire. E’ l’ormai notissimo periodo degli Scritti corsari , delle Lettere luterane , di Salò o le 120 giornate di Sodoma (e anche dell’Abiura alla trilogia della vita ) dove in un triennio delinea con rabbia e indignazione polemica quello che definisce come un vero e proprio “ordine orrendo”. […] Già gli autori della «Scuola di Francoforte» (che l’autore in parte conosceva) e non solo, avevano condotto una radicale critica alla modernità , nell’ambito di un marxismo critico, individuando in una ragione ridotta a semplice strumento di calcolo una delle origini del processo disgregativo e disumanizzante di una società dominata dal sistema [176] di produzione capitalista. Il valore di scambio si afferma grazie al medium denaro quale valore assoluto, finendo per “contaminare” il mondo vitale di quei ceti popolari sino ad ora rimasto estraneo al ciclo della produzione. Gli oggetti di consumo sostituiscono in breve tempo, mediante la ‘spettralità’ e la fantasmagoria delle merci, lo stupore che la vita riservava a se stessa. Non è più la vita, percepita come dono gratuito, dalla provenienza misteriosa, ad affascinare i sottoproletari pasoliniani, ma gli oggetti della produzione che esercitano su di essi un [177] fascino irresistibile.
Proletari e sottoproletari si trovano di conseguenza ad agire come i borghesi […] Borghesizzazione diventa sinonimo di omologazione: riduzione assoluta di qualsiasi differenza culturale all’ideologia produttivistico-consumista […] Tutto viene ricondotto a categorie economiche , pianificato e valorizzato secondo i principî di investimento, [178] rendimento, profitto, ragione utilitaria. Pasolini si rendeva dunque conto, marxianamente, che il capitalismo si stava affermando in maniera totale e vincente determinando una trasformazione epocale attraverso tre fasi […]: il “genocidio delle culture particolari”; l’“omologazione”; la “mutazione antropologica”.[…] Pasolini non contestava il benessere, il superamento della “miseria” e delle condizioni di vita regresse, come molti intellettuali suoi irritati interlocutori-accusatori gli rimproveravano, ma che certe verità preesistenti, regolanti da sempre i gesti, gli sguardi, i comportamenti e soprattutto gli atteggiamenti di quei corpi [delle classi sottoproletarie], da lui ritenuti ‘eterni’ e meravigliosamente immodificabili, si stavano [179] adeguando a un conformismo degradato e generalizzato. Forse tutto lo scandalo che quegli articoli suscitavano in quasi tutta l’intellettualità italiana scaturiva da un’implicita domanda che Pasolini poneva e alla quale nessuno sapeva rispondere: se il capitale è ormai totale, perché completamente interiorizzato nell’esistenza di tutti, come […] sarà possibile continuare ad essere ancora sensibile all’appello del sacro? […] Il problema che inquieta Pasolini è come in un’epoca così [180] profondamente desacralizzata si possa ancora enunciare il sacro. Quest’ultima affermazione sull’enunciazione del sacro, così com’è posta, da Conti Calabrese, in relazione ad un quadro sociale drammatico, e come esito di una riflessione e di un’analisi tutta costruita su categorie marxiste e francofortesi, potrebbe forse stupire qualcuno, o persino far sorridere; a prima vista potrebbe persino alimentare, piuttosto che smentire, il pregiudizio: ma sarebbe un grossolano e frettoloso errore. Se, infatti, il “male” di cui la società soffre, così come più sopra diagnosticato, è soprattutto un male di ordine antropologico, e se, per di più, gli strumenti ideologici hanno perso la loro efficacia, non v’è assolutamente nulla di strano, né di rinunciatario, né di decadentistico, in effetti, nel tentare di opporre dei “rimedi” antropologici a un “male” antropologico: si tratta anzi, in un certo senso, della soluzione più ovvia e ragionevole. In questo senso, il cinema e l’impegno di Pasolini in quegli anni, non sono stati affatto «fuori dalla Storia»: il «fuori dalla Storia» era semmai l’oggetto, il contenuto specifico di quel disperato tentativo di salvaguardia e di reintegrazione degli antichi valori tentato da Pasolini nei confronti della società, ma non lo era certo il tentativo in quanto tale. Anzi: nella scelta di un ambito di intervento nuovo e di nuovi “strumenti di cura”, più adatti e specifici alla bisogna, Pasolini si dimostrava molto più positivo, paradossalmente progressista e ben dentro la Storia (nonché all’avanguardia del dibattito culturale italiano) di chi, invece, si arroccava su posizioni tradizionali e consolidate ma ormai sfibrate, e, moralisticamente, lo accusava di disimpegno solo perché lo vedeva abbandonare le vecchie e ormai inefficaci linee d’azione; costoro, in definitiva, continuando ad applicare le loro consunte «categorie» interpretative, proiettavano su Pasolini un atteggiamento ideologico che in realtà era il loro, e lo accusavano perciò di una colpa di cui avrebbero invece dovuto accusare se stessi. Con ciò, si badi bene, non si vuol dire che si debba necessariamente essere d’accordo con Pasolini e condividerne il punto di vista, ma solo che certi (frequenti) tipi di accuse e certi pregiudizi, date le premesse, sono assolutamente insostenibili. Si trattava semplicemente di un genere completamente diverso di “impegno”. Onde però non peccare di eccessiva severità (e, in un certo senso, di antistoricismo a nostra volta) verso la critica (per lo meno verso quella più o meno contemporanea a Pasolini), va detto che persino Pasolini stesso mostra talvolta di oscillare di fronte alla novità assoluta del suo pensiero, avvertendo in sé l’istinto (inveterato come un costume sociale) di osservarsi attraverso il vetro opaco e (in
questo caso) ingannatore (perché inadeguato) di quelle stesse vecchie «categorie» interpretative ideologiche: Ci sono luoghi comuni che può tornare utile ripristinare, nella misura in cui la civiltà borghese s’ingegna d’ignorarli perché la disturbano. Ma certo. Mi rendo conto d’altronde che in questa mia nostalgia di un sacro idealizzato e forse mai esistito –dato che il sacro è stato sempre istituzionalizzato, all’inizio, per esempio, dagli sciamani, poi dai preti –che in questa nostalgia, dicevo, c’è qualcosa di [181] sbagliato, di irrazionale, di tradizionalista. Ma Pasolini era invece pienamente “in regola” col suo mandato di intellettuale e artista: Forse tale sentimento è il segno poetico di quello che Jung chiama «inconscio collettivo». Non è vero che il poeta raffigura il sacro facendo ricorso ai più rimossi archetipi?
E’ la spiegazione poetica [sic] della funzione del poeta, mio caro!
[182]
[…] l’artista o lo scrittore, quale che sia, purché sia degno del suo nome, contesta sempre, pur non essendone consapevole. L’opera poetica, in particolare, costituisce sempre un’impresa «contestataria», nella misura in cui, infrangendo il codice, essa innova rispetto ad esso, e al contesto sociale in cui vige tale codice. […] la contestazione esiste in quanto tale, è di natura ontologica. Di conseguenza, affonda le radici nella [183] psicologia, individuale o collettiva, o, se si vuole, in un atteggiamento morale. Per comprendere meglio il senso positivo e propositivo di questo recupero del sacro, facciamo di nuovo ricorso a Conti Calabrese, che con ciò, per altro, dimostra di aver avuto ben presenti le considerazioni che lo stesso Pasolini faceva sulla questione in Una visione del mondo epicoreligiosa (che noi abbiamo già citato alle pp. 28 - 28 di questo nostro studio) e di avervi approfonditamente riflettuto: Pasolini sviluppa il proprio ragionamento a partire dalla centrale importanza che il mito riveste nelle concezioni del mondo e lo vede attento a quelle forme di organizzazione della vita caratteristiche delle comunità agrarie premoderne che traevano dalla trasposizione mitica della natura i principî […] in base ai quali stabilivano la loro [184] fondazione e costituzione. […] l’uomo arcaico all’originaria chiamata del sacro, ricevuta attraverso il linguaggio del mito, ha corrisposto con la creazione di comunità e collettività all’interno delle quali condurre la propria esistenza, costituite e aggregate intorno a riti, culti e leggi, a cui attenersi rigidamente e in grado di guidare ogni attività pratica, anche quella produttiva , [185] verso un permanente riconoscimento della sacralità del sacro.[corsivo nostro] Il suo fine [di Pasolini] è volto al tentativo di “superare” ogni ordine normativo che, nel codificare l’esistenza organizzandola secondo canoni atti a disciplinarne la condotta, la orienta al raggiungimento di determinati scopi, appartenenti al mondo profano, dove la
vita non appare più come il fenomeno carico dello stupore che dispone ad accogliere in [186] ogni istante la ierofania. Probabilmente qui si fonde l’impegno intellettuale del Pasolini “marxista” con l’inquietudine del poeta spinto continuamente a corrispondere a quella anteriorità che vede essere affine a quella descritta nei miti della civiltà arcaico-contadina. E’ il progetto perseguito per buona parte della vita, nel tentativo di trovare una congiunzione tra la sua “passione” poetica e l’“ideologia” abbracciata, ricerca possibile di una ‘sintesi’ che nel rimanere irrimediabilmente incompiuta gli procura ogni volta una originale lacerazione, da cui deriva il doloroso tono polemico, al limite dell’indignazione e dell’invettiva senza possibili compensi, che contraddistinguerà il Pasolini ‘corsaro’. [187]
L’intenzione che Pasolini testimonia […] è insomma di lanciare una sfida al razionalismo della modernità, alla logica del calcolo e dell’utile che l’attività tecnostrumentale impone quale modello da applicare indifferentemente a qualsiasi fenomeno [188] individuale e collettivo. Un’apertura verso quella sfera irrazionale che impegna poeticamente Pasolini nella volontà di portarla alla luce e di mostrarla come un momento integrante dell’uomo, forse in grado di avviarlo su una strada diversa da quella della società universalmente [189] dominata dal capitale. Nella modernità la chiamata del sacro, anche se in maniera ambigua, è ancora percepibile: il problema del suo allontanamento è determinato dall’incapacità dell’uomo contemporaneo di accoglierla, avendone smarrito la sacralità.[…] L’organizzazione è finita col diventare il suo unico interlocutore, in cui credere e operare […]. Il problema che sembra porsi a Pasolini, nel corso della sua riflessione sulla relazione “trasumanar” e “organizzar”, è la ricerca di una possibile loro riconnessione attraverso un nuovo modo [190] di aprirsi alla chiamata del sacro […] Quello che a Pasolini interessa è la rilevanza fenomenologica della manifestazione divina, indipendentemente da qualsiasi confessione, credenza e istituzione religiose, di cui offre una visione quasi affine a quella teorizzata da Rudolf Otto, in particolare laddove lo studioso tedesco individua nel tremendum il predicato che meglio descrive la violenta apparizione della divinità […] «Dio è lo scandalo. Il Cristo se tornasse, sarebbe lo scandalo; lo è stato ai suoi tempi e lo sarebbe oggi. […] toglie i mortali dalla loro falsa sicurezza. E’ il Dio che distrugge la buona coscienza acquisita a poco prezzo […]» La tesi pasoliniana sembra voler provare che se nel mondo di oggi l’individuo in preda all’alienazione vive con una “falsa idea” di sé in modo inautentico, l’esperienza del [191] sacro può indurlo a una profonda crisi rappresentante già una forma di salvezza. […] se il sacro tornasse a risuonare nel mondo sconvolgerebbe l’ordine ‘lineare’ e profano affermatosi mediante l’ideologia borghese e potrebbe finalmente far vedere [192] come la vita dell’uomo sia alienata e inautentica. […] in epoca moderna una potente e violenta manifestazione del sacro rivelerebbe un ‘sapere’, altrimenti inaccessibile, generalmente negato dalla cultura dominante, ma in [193] grado di metterla irrimediabilmente in crisi.
Ovviamente, in questo recupero e riproposizione del sacro i film mitologici giocano un ruolo fondamentale: con ciò, oltre ad aver sfatato una volta per tutte (si spera) i pregiudizi ideologici sulla questione, si potrebbe pensare di aver finalmente trovato anche, contestualmente, un ruolo e una collocazione critica per questi film, sfatando così anche quel corollario che si diceva discendere dalla mancanza di comprensione della critica per il testo filmico. E non sarebbe un’idea tanto sbagliata. Ma forse nemmeno del tutto corretta: per meglio dire, potrebbe essere incompleta, o troppo ovvia se messa in questa forma. Come in una sorta di matematica dimostrazione per assurdo, che però, in questo caso, non va a buon fine e non dimostra l’ipotesi di partenza, il fatto che Micciché, alla fine del suo libro, giunga a una teorizzazione che ha in realtà numerosi punti di contatto con quella di Conti Calabrese, potrebbe essere un primo indizio che ci mette in allarme: Per Adorno […] L’impegno dell’intellettuale e dell’artista, inteso come mera costruzione antitetica all’esistente, è vano. L’«impegno» che consiste semplicemente nel proporre la negazione dell’esistente finisce per riflettere, diceva Adorno, in qualche modo, la barbarie di ciò che esiste. […] Non so se si possa dire per Pasolini […] che la sua grandezza è consistita nella coraggiosa «volontà di respingere ogni invito a rimuovere l’angoscia»; né se il suo rifiuto della Storia (e della Ragione) nascesse dalla «ferma opposizione alla barbarie insita in una razionalità pervertita e folle» […] Ma mi sembra che in tutto l’ultimo Pasolini –e, a ben pensarci, con una progressiva coerenza che va dalle poesie friulane al Salò/Sade , anche se è in quest’ultimo che emerge con tutta evidenza –vi sia, unica e segreta dialettica, quell’autonegazione che è la sola strada «grazie a cui l’arte può riuscire in qualche modo a negare ciò che la nega», senza cadere nei tranelli dell’arte affermativa. E che dunque, proprio a partire dagli episodi finali conclusivi dell’itinerario pasoliniano, si possa riconciliare l’intero apporto di Pasolini alla cultura italiana a lui coeva, e la infondatezza sia delle detrazioni, sia delle esaltazioni tendenti a collocarlo nella «cultura dell’impegno». L’ipotesi, in altri termini, è che Pier Paolo Pasolini sia stato […] un «intellettuale adorniano». E che, come tale, rifiutò non solo l’ordine esistente delle cose ma anche i modi esistenti di opporsi a tale ordine; non contestò soltanto il Dominio, non avversò solo il Potere, ma sovente anche le forme consacrate del Contro-Potere. […] Le sue «verità» erano sempre smisurate, impolitiche, irritanti. Ma era proprio questo che esse si proponevano: mettere in crisi la nostra «misura», la nostra «politica», [194] la nostra «quiete» democratica e intellettuale. Come è infatti possibile, date due ipotesi contraddittorie, arrivare a dimostrare la stessa tesi? Come è possibile che Conti Calabrese (cioè un critico che basa tutto il suo studio sull’importanza del mito e del sacro) e Micciché (cioè un critico che, viceversa, arriva a contraddirsi pur di negare ogni importanza ai lavori del periodo mitologico) possano arrivare a conclusioni tanto simili? Sorge allora il sospetto che vi sia altro e di più in comune tra i due, e che magari questi film mitologici, oggetto della discordia, non giochino esattamente il ruolo che ci stavamo immaginando né nei confronti dell’uno né nei confronti dell’altro: siamo infatti sicuri che il recupero del sacro tratteggiato da Conti Calabrese faccia solo (o principalmente) capo, cinematograficamente, ai film del cosiddetto periodo mitologico? E siamo sicuri, d’altra parte, che Micciché, negando ogni importanza a quegli stessi film, stia al contempo negando ogni importanza al mito e al sacro nel cinema di Pasolini? Ovviamente, la risposta è no in entrambi i casi. Come noto, fin dagli esordi, si è da più parti parlato della sacralità e della miticità del cinema pasoliniano, soprattutto per Accattone ma non solo. Per altro, non è un caso che, nel libro di Micciché sul cinema degli anni’60, il capitolo dedicato a Pasolini sia per l’appunto intitolato «I miti di P.P.P.»; e Micciché, a più riprese, giustamente, non esita a sottolineare evidenti tracce di sacralità [195] e primitivismo nei film della «Trilogia della Borgata» e soprattutto proprio in Accattone . Lo
stesso Conti Calabrese, che dedica ovviamente molta attenzione a Medea , è però molto attento – [196] pure lui –anche ad Accattone . E Ferrero stesso non aveva forse intitolato uno dei capitoli del suo libro «Accattone e la sacralità del mondo sottoproletario»? E che dire di film come Porcile o Teorema ? Gli esempi che si potrebbero fare sono veramente moltissimi; come moltissime erano le dichiarazioni di Pasolini che andavano a confermare (o, più spesso, a sollecitare) questo tipo di osservazioni, che avevano semmai il limite di essere piuttosto generiche: se la cosa era tanto evidente, come è possibile che non sia sorto tra la critica lo stimolo a interrogarsi su cosa realmente significasse «mito» e cosa [197] realmente significasse «sacro» per il cinema? Fatto sta che se questo intento di recupero del sacro e del mito, e questa aura stilistica di sacralità non sono di esclusivo appannaggio dei film mitologici, ma sono invece caratteri molto diffusi nell’opera cinematografica pasoliniana, allora questi film mitologici, Edipo e Medea , si trovano di nuovo a non avere una loro collocazione critica specifica. A meno che non si voglia arrivare a dire che la loro specificità, rispetto agli altri film del regista, sia proprio quella di aver tematizzato esplicitamente il mito, e non un mito qualsiasi, ma due miti importanti, due Miti con la “M” maiuscola. Il che non sarebbe del tutto stupido: stiamo in fin dei conti parlando di un regista che, a quanto pare, ha da sempre saputo trattare del mito e del sacro senza tematizzare esplicitamente questi argomenti; se ora decide di farlo esplicitamente e per di più scegliendo due famosissimi miti tratti dalla più famosa delle mitologie (quella greca), potrebbe esserci un motivo. E’ però altrettanto ovvio che per questa via si rischierebbe di ricadere in tutta una serie di proposizioni tautologiche (come, ad es., che questi film sono mitologici perché parlano del mito: e gli altri allora?), con l’unico risultato di far scadere nella più bieca convenzionalità e vuotezza concetti e termini importanti come «mito», «mitologia», «sacro», ecc. Cosa, questa, che il Pasolini “antropologo” (e forse neppure quello “semiologo”) avrebbe di certo mai accettato. A questo punto, dobbiamo riconoscere di essere di nuovo arrivati a un punto fermo nella nostra ricerca; e, di nuovo, questo punto fermo è un vuoto, un buco, una mancanza nella critica cinematografica: nella critica cinematografica sul cinema mitologico di Pasolini manca una reale collocozione critica di questi film in seno all’opera complessiva del regista . Sia cioè che si adotti una scala di misura e di osservazione ridotta (le singole sequenze all’interno dei singoli film), sia che se ne adotti una più ampia (questi film tra gli altri film), ci ritroviamo di fronte a una stessa sostanziale incomprensione della loro specificità ; e dalla prima discende la seconda, come suo diretto corollario. Allora, a questo punto, dopo aver accumulato tanti interrogativi irrisolti, non resta dunque che provare a dare una qualche risposta…
Un infantile, allucinato, e pragmatico amore per la realtà. E’ facile osservare come in Pasolini la teoresi, pur non andando mai incontro, poi, ad un’applicazione rigida e meccanica, spesso preceda la prassi anche di molto tempo. Se ne accorge bene Micciché, sottolineando come tutto il primo cinema di Pasolini sia stato in qualche modo anticipato e preparato dalla sua precedente attività di narratore: tanto nella scelta dei soggetti di borgata, quanto nell’approccio ideologico ad essi, che si evolve in maniera identica e parallela tra i suoi due romanzi degli anni’50 (Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959)) così come tra i [198] primi due film (Accattone e Mamma Roma ). Se ne accorge Petraglia, che individua gli esiti del tentativo di accedere a un certo tipo di “visibilità” già nella produzione narrativa letteraria degli
[199] anni’50 . E forse (tanto per fare un altro esempio di ambito cinematografico) se ne accorge pure il già citato Bertini, che ha almeno il merito di essere andato a riscoprire, nel Pasolini della fine degli anni’50, una competenza di «stilcritica» cinematografica che avrebbe poi trovato la sua più [200] piena applicazione pratica nel primo cinema del futuro regista Così, nel 1964, quando ancora doveva accingersi a girare quei film ideologici (per dirla con Micciché) del «secondo periodo», che avrebbero dovuto sancire la crisi del suo impegno ideologico e, più in generale, dell’efficacia stessa delle ideologie, Pasolini già iniziava a produrre, in anticipo coi tempi stessi della propria opera, tutta una serie di testi di carattere speculativo e polemico, che, se da un lato tiravano le somme rispetto alle precedenti stagioni del suo lavoro, dall’altro già rappresentavano un rilancio verso il futuro. Sono testi spesso brevi e apparentemente occasionali, ma sempre densissimi e significativi, come (tanto per citarne solo alcuni tra i più importanti e attinenti al nostro discorso) Nuove questioni linguistiche (1964), Dal Laboratorio (Appunti en poète per una linguistica marxista) (1965), Il «cinema di poesia» (1965), La lingua scritta della realtà (1966), Battute sul cinema (1966), Osservazioni sul piano sequenza (1967), Res sunt nomina (1971), Il cinema impopolare (1970), Il codice dei codici (1971), ecc., in gran parte di argomento [201] linguistico o semiologico, e poi confluiti nel volume Empirismo eretico .
Stimolato soprattutto (ma non solo) dalla lettura dei lavori di Christian Metz sul cinema e [202] dall’incontro con la linguistica saussuriana , Pasolini, con questi suoi lavori, si lanciava dunque avventurosamente, anima e corpo, nella “mischia” semiologica: si impegnava cioè in un campo che non gli era proprio (o che non lo era stato fino ad allora), e che (allora ancor più di oggi) si presentava invece come strettamente riservato agli “addetti ai lavori”; non mancava, a questo riguardo, di scusarsi e di mettere le mani avanti, ammettendo apertamente di non potersi considerare, in definitiva, altro che un dilettante (molto evoluto, sì, ma pur sempre dilettante) in ambito semiologico, una voce “clandestina” con pochi diritti a far parte del “coro”: pure non si peritava affatto di sostenere tesi e posizioni assai scomode ed estreme, anche in aperto contrasto e polemica con quelle generalmente sostenute dalla semiologia “ufficiale” (sollevando ogni volta interi vespai di critiche e di dissensi), e di imprimere da subito alla materia una forte e personalissima coloritura filosofica. Prende così corpo, negli anni tra il’64 e il’72, un quadro teorico complesso e magmatico, che si sviluppa lungo alcune direttrici –o direzioni di indagine, che dir si voglia –distinte ma perfettamente parallele, attraverso le quali Pasolini (con metodo semiologico-linguistico) si trova ad indagare (e a tentare di descrivere) il Reale (e il cinema come parte importante di esso) a vari livelli differenziati; e a ciascuno (o quasi) di questi livelli si trova a individuare, in seno al Reale, come un’opposizione, uno scontro/incontro, tra due poli, due polarità, per così dire, o fasi, o aspetti del campo di indagine: in vari casi, uno dei due poli –lo si capisce bene –corrisponde (almeno per metafora) all’ambito della Storia - Borghesia - Alienazione - “Ordine orrendo” - Mutamento antropologico - Perdita del Sacro - ecc., mentre l’altro, viceversa, corrisponde all’ambito opposto del Mito – Preistoria – Sottoproletariato - Civiltà arcaica contadina - Presenza del Sacro - ecc.; stabilendo così (almeno tendenzialmente) un secondo ordine di coerenza e parallelismo (trasversale al primo) all’interno del quadro teorico complessivo. Pasolini stesso, del resto, aveva altrove esplicitamente formulato questa nuova forma binaria del suo pensiero (che andava a sostituire quella ternaria –e ideologica –della dialettica marxista hegeliana), lasciando chiaramente intendere come questa nuova forma di pensiero avesse essa stessa le sue radici nel mito: Hegel! Sade! Il mito! Eh già! Quando parlo della natura bisogna sempre intendere «mito della natura»: mito antihegeliano e antidialettico, perché la natura non conosce i [203] «superamenti». Ogni cosa in essa si giustappone e coesiste […]
In quanto «storicista» […], capisco che la storia è una evoluzione, un continuo superamento dei dati; sono altrettanto consapevole però che tali dati non vengono mai [204] eliminati, ma sono permanenti. Sarà irrazionale, ma è così. In «Medea» […] la situazione «tesi» (mondo barbarico mitico-realistico) e la situazione «antitesi» (mondo moderno laico-manieristico) non ottengono in alcun modo […] di pervenire a una sintesi: restando pure «opposizioni». E ciò è chiaramente teorizzato dal Centauro. […] E non solo dalle sue parole, ma anche dalla sua doppia contemporanea [205] apparizione fisica. Da cosa nasce la «speranza», quella della prassi marxista e quella della pragmatica borghese? Nasce da una comune matrice: Hegel. Io sono contro Hegel (esistenzialmente –empirismo eretico). Tesi? Antitesi? Sintesi? Mi sembra troppo comodo. La mia [206] dialettica non [è] più ternaria ma binaria. Ci sono solo opposizioni, inconciliabili. Per altro, all’epoca in cui i saggi in questione furono scritti, semiologia e linguistica non erano propriamente “pane di tutti i giorni” neppure per molti critici cinematografici italiani: ciò nonostante, fin da subito, quasi tutti quelli che si trovarono a scrivere sul cinema di Pasolini (con la tarda e singolare eccezione di Murri) si sentirono in dovere –giustamente –di prendere in considerazione questi testi, al fine di una migliore e più approfondita comprensione dell’opera cinematografica dell’autore. A questo scopo, molti presero le mosse da quello che sarebbe presto diventato il più famoso, in ambito cinematografico, tra i saggi di Pasolini, cioè il succitato Il «cinema di poesia» . Si tratta, in effetti, di uno snodo fondamentale del percorso teorico di Pasolini; e si tratta, anche, di un testo diviso in due, dotato di una doppia anima, per così dire: una, la prima, di carattere [207] prevalentemente teorico-linguistico , e un’altra, la seconda, per espressa affermazione dello [208] stesso Pasolini, di carattere prevalentemente teorico-stilistico . Nella prima parte del saggio, infatti, Pasolini cerca di delineare quelle premesse linguistiche su cui costruirà poi, nella seconda parte, la distinzione stilistica tra cinema di prosa e cinema di poesia; Pasolini comincia domandandosi in sostanza (anche se ancora non applica esplicitamente questo tipo di terminologia al cinema) quale sia quella langue cinematografica su cui possono fondare la loro esistenza quelle singole paroles che sono i film; ovvero quali siano gli «archetipi» di questo tipo di espressione artistica: […] mentre i linguaggi letterari fondano le loro invenzioni poetiche su una base istituzionale di lingua strumentale, possesso comune di tutti i parlanti, i linguaggi cinematografici sembrano non fondarsi su nulla: non hanno, come base reale, nessuna lingua comunicativa. Quindi […] la comunicazione cinematografica sarebbe arbitraria e aberrante, senza precedenti strumentali effettivi, di cui tutti siano normalmente utenti. […] Se questo ragionamento fosse giusto, come pare, il cinema non potrebbe fisicamente esserci […]. Invece, il cinema comunica. Vuol dire che anch’esso si fonda su un [209] patrimonio di segni comune. Ma allora bisogna subito aggiungere che il destinatario del prodotto cinematografico è anche abituato a «leggere» visivamente la realtà, ad avere cioè un colloquio strumentale con la realtà che lo circonda in quanto ambiente di una collettività: che si esprime appunto anche con la pura e semplice presenza ottica dei suoi atti e delle sue abitudini […], e insomma oggetti e cose che si presentano cariche di significati e quindi «parlano» brutalmente con la loro stessa presenza.
Ma c’è di più […]: ossia c’è tutto un mondo, nell’uomo, che si esprime con prevalenza attraverso immagini significanti (vogliamo inventare, per analogia, il termine im-segni?): si tratta del mondo della memoria e dei sogni . Ogni sforzo ricostruttore della memoria è un «seguito di im-segni», ossia, in modo primordiale, una sequenza cinematografica. […] E così ogni sogno è un seguito di imsegni, che hanno tutte le caratteristiche delle sequenze cinematografiche: inquadrature di primi piani, di campi lunghi, di dettagli, ecc. ecc. Insomma, c’è tutto un complesso mondo di immagini significative […] che prefigura e si propone come fondamento «strumentale» della comunicazione cinematografica. E allora bisognerà subito fare, ai margini, un’osservazione: mentre la comunicazione strumentale che è alle basi della comunicazione poetica o filosofica è già estremamente elaborata, è insomma un sistema reale e storicamente complesso e maturo –la comunicazione visiva che è alla base del linguaggio cinematografico è, al contrario, estremamente rozza, quasi animale […], sono fatti quasi pre-umani, o ai limiti dell’umano: comunque pre-grammaticali e addirittura pre-morfologici […]. Lo strumento linguistico su cui si impianta il cinema è dunque di tipo irrazionalistico : e questo spiega la profonda qualità onirica del cinema, e anche la sua assoluta e [210] imprescindibile concretezza, diciamo, oggettuale. [tutti i corsivi sono dell’autore] Insomma –anche al di là dello scopo contingente per cui queste considerazioni venivano fatte, cioè la tesi da dimostrare nella seconda parte del saggio –Pasolini stava legando il cinema “mani e piedi” alla realtà –e non a una realtà qualsiasi e non con nodi qualsiasi –sulla base di una linea teorica e filosofica che non iniziava qui e che qui non sarebbe finita, ma sarebbe andata incontro ad altri [211] notevoli sviluppi . A nostro avviso, è però possibile osservare, nella critica successiva, nonostante l’evidente importanza di questa prima parte, una certa propensione se non proprio a sorvolarla completamente, quanto meno a riassumerla di fretta (magari senza nemmeno sottolineare la natura bifida di questo testo), dimostrando così un interesse nettamente prevalente per la parte successiva (che è in effetti una delle letture più frequentate in assoluto da parte di chi si interessa alla figura di Pasolini) Questa tendenza è a suo modo significativa. Mentre negli ambiti specialistici e accademici fu in realtà concessa, all’epoca, ben poca considerazione (polemiche a parte) alle teorie e agli interessi semiologici di Pasolini –come se non si fosse trattato d’altro che di uno sfizio passeggero, un hobby sofisticato, o del capriccio di un artista –furono invece, piuttosto, i critici cinematografici (anche quelli non ferratissimi di semiologia) a essere più lungimiranti e ad interessarsi a questi testi, intuendo che in essi potevano forse celarsi molti più motivi di interesse, al di là del freddo (e approssimativo?) tecnicismo semiologico –magari aiutati, in questa apertura, anche dal loro non essere essi stessi dei “veri” semiologi. In realtà, in non pochi casi, non si trattava di vera lungimiranza, in quanto, al di là della buona intuizione iniziale, non c’era un approccio ragionato, coerente e motivato, ma semplicemente un tentativo di banalizzazione, per riportare il discorso su un piano stilistico, più consueto e abbordabile. Pasolini, ovviamente, non era affatto contento che il discorso venisse così sminuito: DOMANDA: […] abbiamo il sospetto che la sua grammatica […] nasca da un’esigenza stilistica… RISPOSTA: Voi siete matti. E’ molto spiacevole, sapete, per un autore, sentirsi sempre considerare come una «bestia da stile». […] Ciò è disumano. E’ vero che, studiando un autore, bisognerà cercare pure un’unità! Tuttavia ciò non va fatto in modo elementare, e con l’aria compiaciuta e ammiccante con cui un impiegato di banca dice male o bene di un suo collega […].
Anzi, ve lo dico in faccia: mi offende molto che tutto quello che faccio e dico venga ricondotto a spiegare il mio stile. E’ un modo di esorcizzarmi, e forse di darmi dello stupido […]. Sia dunque chiaro che: I miei tentativi di trarre una nozione linguistica di cinema dai vari films […] non è affatto una proliferazione del mio fare estetico, ossia della mia «poetica» cinematografica. […] I caratteri della mia ricerca grammaticale sul cinema hanno semmai un rapporto profondo e complesso […] col mio modo di vedere la realtà, col mio modo di interpretare la realtà, ossia col mio rapporto con la realtà. […] Ecco, a questo punto si può individuare il rapporto della mia nozione grammaticale del cinema con quella che è […] la mia filosofia, o il mio modo di vivere: che non mi sembra altro, poi, che un allucinato, infantile e pragmatico amore per la realtà. Religioso in quanto si fonda in qualche modo, per analogia, con una sorta di immenso feticismo sessuale. Il mondo non sembra essere, per me, che un insieme di padri e di madri, verso cui ho un trasporto totale, fatto di rispetto venerante, e di bisogno di violare tale rispetto venerante attraverso dissacrazioni anche violente e scandalose. […] DOMANDA: Ma allora, forse, avevamo ragione. Ciò che presiede alla sua poetica letterario-cinematografica, cioè il suo amore sentimentale, religioso e pragmatico per la realtà, presiede anche alla sua linguistica e alla sua grammatica del cinema. RISPOSTA: Sì, a questo punto accetto che si annodino i fili della mia unità. Ma solo, [212] appunto, quaggiù, a questo livello. La teoria del cinema di poesia (teoria stilistica –sarà bene rammentarlo) si presta appunto, a nostro avviso, alla tentazione di operare una di queste “scorciatoie” critiche di carattere stilistico. Ma vediamo in che senso. Pasolini, dopo aver dato le succitate premesse sul carattere «irrazionalistico» degli archetipi su cui si fonda il cinema, così prosegue: Tutto questo dovrebbe, in conclusione, far pensare che la lingua del cinema sia fondamentalmente una «lingua di poesia». Invece, storicamente, in concreto, dopo alcuni tentativi, subito troncati, all’epoca delle origini, la tradizione cinematografica che si è formata sembra essere quella di una «lingua della prosa», o almeno di una «lingua della prosa narrativa». […] si tratta di una prosa particolare e surrettizia: perché l’elemento fondamentalmente irrazionalistico del cinema è ineliminabile. La realtà è che il cinema nel momento stesso in cui si è posto come «tecnica» o «genere» nuovo d’espressione, si è posto anche come nuova tecnica o genere di spettacolo d’evasione: con una quantità di consumatori inimmaginabile per tutte le altre forme espressive. Questo ha voluto dire che esso ha subito una violentazione del resto abbastanza prevedibile e inevitabile. Ossia: tutti i suoi elementi irrazionalistici, onirici, elementari e barbarici, sono stati tenuti sotto il livello della coscienza: sono stati cioè sfruttati come elemento inconscio di urto e di persuasione: e sopra questo «monstrum» ipnotico che è sempre un film, è stata costruita rapidamente quella convenzione narrativa che ha fornito materia di inutili e pseudo-critici paragoni col teatro e il romanzo. Tale convenzione narrativa appartiene indubbiamente, per analogia, alla lingua della comunicazione prosastica: ma con tale lingua essa ha in comune solo l’aspetto esteriore –i procedimenti logici e illustrativi – mentre manca di un elemento sostanziale della «lingua della prosa»: la razionalità. Il suo fondamento è quel sotto-film mitico e infantile, che, per la natura stessa del cinema, [213] scorre sotto ogni film […] Quel tanto di poeticamente metaforico che è clamorosamente possibile nel cinema, è sempre in stretta osmosi con l’altra natura, quella strettamente comunicativa della prosa. Che è poi quella che è prevalsa nella breve tradizione della storia del cinema,
abbracciando in una sola convenzione linguistica i film d’arte e i film d’evasione, i capolavori e i feuilletons. E tuttavia tutta la tendenza dell’ultimo cinema, da Rossellini eletto a Socrate, alla «nouvelle vague», alla produzione di questi anni, di questi mesi […], è verso un «cinema di poesia». La domanda che si pone è questa, come è teoricamente spiegabile e praticamente possibile, nel cinema, la «lingua della poesia»? Vorrei rispondere a questa domanda fuori dall’ambito strettamente cinematografico […] Trasformerò dunque momentaneamente la domanda: «E’ possibile nel cinema una “lingua della poesia”?», nella domanda «E’ possibile nel cinema la [214] tecnica del discorso libero indiretto?» Ci permettiamo, a questo punto, di togliere momentaneamente la parola all’autore e di riassumere con parole nostre, sia perché questa parte della dimostrazione pasoliniana è piuttosto lunga, sia perché, a nostro avviso, essa ha destato un notevole numero di equivoci e malintesi Dopo aver detto cosa per lui è il «discorso libero indiretto», e cosa è il «monologo interiore», e dopo aver istituito una corrispondenza tra «discorso diretto» (in letteratura quello che viene messo «tra virgolette») e la soggettiva (nel cinema), Pasolini conia, per analogia con la letteratura, il concetto di «soggettiva libera indiretta», forma che sta a metà strada, per così dire, tra il monologo [215] interiore e il discorso libero indiretto vero e proprio : Quando uno scrittore «rivive il discorso» di un suo personaggio, si immerge nella sua psicologia, ma anche nella sua lingua: il discorso libero indiretto è dunque sempre linguisticamente differenziato, rispetto alla lingua dello scrittore. […] Ma la realtà della possibile «lingua istituzionale cinematografica», come abbiamo visto, non c’è; o è infinita; […] la lingua [cinematografica] è per forza interdialettale e internazionale: perché gli occhi sono uguali in tutto il mondo. Non vi si possono prendere in considerazione, perché non ci sono, delle lingue speciali, dei sublinguaggi, dei gerghi: delle differenziazioni sociali, insomma.[…] Praticamente dunque […], la differenza che un regista può cogliere tra sé e un personaggio, è psicologica e sociale. Ma non linguistica . […] La sua operazione non può essere linguistica ma stilistica . […] La caratteristica fondamentale, dunque, della «soggettiva libera indiretta» è di non essere linguistica, ma stilistica. E può essere dunque definita un monologo interiore privo dell’elemento concettuale e filosofico astratto esplicito. Questo, almeno teoricamente, fa sì che la «soggettiva libera indiretta» nel cinema implichi una possibilità stilistica molto articolata; liberi, anzi, le possibilità espressive compresse dalla tradizionale convenzione narrativa, in una specie di ritorno alle origini: fino a ritrovare nei mezzi tecnici del cinema l’originaria qualità onirica, barbarica, irregolare, aggressiva, visionaria. Insomma è la «soggettiva libera indiretta» a instaurare una possibile tradizione di «lingua tecnica della poesia» nel cinema. [corsivo [216] dell’autore] Di qui a identificare questa «soggettiva libera indiretta» con la motivazione strumentale che attua o causa il «cinema di poesia», o a identificarla col «cinema di poesia» in quanto tale –per molti critici, esegeti, o volgarizzatori di Pasolini –il passo è stato breve: breve ma errato. La «soggettiva libera indiretta» non è né la “causa” né il “mezzo” dell’“effetto” «cinema di poesia»; «soggettiva libera indiretta» e «cinema di poesia» non sono, men che meno, due “insiemi” coincidenti; essa è solo una delle possibilità insite nel «cinema di poesia», un possibile espediente narrativo per rendere accettabile un film di «poesia» in seno ad una tradizione strettamente di «prosa»; è, per di più, un
espediente pretestuoso che corrisponde al livello della «convenzione narrativa», mentre la sostanza del «cinema di poesia» corrisponde invece ad una “liberazione” del «sotto-film». In altri passi del saggio, Pasolini è molto chiaro al riguardo: «Il cinema di poesia» –come si presenta a qualche anno dalla sua nascita –ha dunque in comune la caratteristica di produrre film dalla doppia natura. Il film che si vede e si accepisce normalmente è una «soggettiva libera indiretta», magari irregolare e approssimativa –molto libera, insomma: dovuta al fatto che l’autore si vale dello «stato d’animo psicologico dominante del film» –che è quello di un protagonista malato, non normale –per farne una continua mimesis –che gli consente molta libertà stilistica anomala e provocatoria. Sotto tale film, scorre l’altro film –quello che l’autore avrebbe fatto anche senza il pretesto della mimesis visiva del suo protagonista: un film totalmente e liberamente di [217] carattere espressivo-espressionistico.[corsivi dell’autore] Si noti pure, per restare in argomento, che Pasolini, non senza astuzia retorica e sofistica, inizia tutto il discorso dando per assiomaticamente certa una cosa che poi così certa, forse, non era e non è: «Che tuttavia anche al cinema sia possibile un discorso libero indiretto è certo: chiamiamola [218] “soggettiva libera indiretta”» . Forse, invece, non si sbaglierebbe di molto, azzardando l’idea che la certezza apparentemente assiomatica di questo assunto sia invece una certezza tutta empirica, nata da un’osservazione semplicemente contingente, e, tutto sommato, anche facile, ovvia ed evidente: e cioè che, di fatto, tra le infinite strade possibili, più o meno coscientemente, la gran parte degli autori che avevano in anni recenti tentato di realizzare un cinema fortemente rilevato da un punto di vista stilistico, avevano adottato, per rendere più accettabile, più accessibile, più comunemente “digeribile” il loro cinema, proprio quell’espediente indicato più sopra. La presenza importante, in questi film, di un personaggio anomalo (malato, alterato, nevrotico, alienato, ecc.) porta poi naturalmente lo spettatore ad attribuire l’anormalità della visione all’anormalità del personaggio; cioè a “sentire”, in qualche modo, che tutto il film sia visto e raccontato nell’ottica di questo personaggio, magari anche quelle scene, quelle sequenze, quelle inquadrature che, strettamente parlando, non sono girate dal suo punto di vista, e cioè che non sono sue soggettive. Eccoci di nuovo imbattuti (come nelle scene che abbiamo analizzato dell’Edipo… ) in una soggettività che tracima dalle proprie inquadrature e dal proprio giusto livello narrativo per contaminare di sé, di marche stilistiche, tutto ciò che le sta intorno, tutto un film. Ma, effettivamente, se la soggettività di un personaggio esce dai giusti limiti della propria soggettiva, è proprio come se, per metafora o per analogia, la lingua e lo stile di un personaggio letterario tracimassero fuori dalle «virgolette» delle sue battute, del suo discorso diretto: ecco nata l’idea, tutta empirica, della «soggettiva libera indiretta». Ma perché Pasolini tenta di far passare per deduttivo un ragionamento che invece, con ogni probabilità, ha origini induttive? Intanto, però, senza stare a perder tanto tempo nel cercare risposte, l’esegeta frettoloso aveva a disposizione questo catalogo degli stilemi utilizzati dal cinema di poesia: Tale tradizione tecnico-stilistica nascente si fonda sull’insieme di quegli stilemi cinematografici, che si sono formati quasi naturalmente in funzione degli eccessi psicologici anomali dei protagonisti scelti pretestualmente: o meglio in funzione di una visione sostanzialmente formalistica del mondo […]. Esprimere tale visione interiore richiede necessariamente una lingua speciale, coi suoi stilismi e i suoi tecnicismi compresenti all’ispirazione, che, essendo appunto formalistica, ha in essi insieme il suo strumento e il suo oggetto. […] La prima caratteristica di questi segni costituenti una tradizione del cinema di poesia, consiste in quel fenomeno che normalmente e banalmente vien definito dagli addetti ai lavori con la frase: «Far sentire la macchina.» […] Ma allora bisogna pur dirlo: nei grandi poemi cinematografici, da Charlot, a Mizoguchi, a Bergman, la caratteristica generale e comune era che «non si sentiva la
macchina»: non erano girati, cioè, secondo un canone di «lingua del cinema di poesia». La loro poesia era altrove che nel linguaggio in quanto tecnica del linguaggio. […] Questo significa che non erano poesie, ma racconti: il cinema classico è stato ed è narrativo:la sua lingua è quella della prosa. La poesia vi è interna: come mettiamo nei racconti di Checov o di Melville. […] [Nel «cinema di poesia», al contrario,] La macchina, dunque, si sente, per delle buone ragioni: l’alternarsi di obbiettivi diversi, un 25 o un 300 sulla stessa faccia, lo sperpero dello zum, coi suoi obbiettivi altissimi, che stanno addosso alle cose dilatandole come pani troppo lievitati, i controluce continui e fintamente casuali con i loro barbagli in macchina, i movimenti di macchina a mano, le carrellate esasperate, i montaggi sbagliati per ragioni espressive, gli attacchi irritanti, le immobilità interminabili su una stessa immagine ecc. ecc., tutto questo codice tecnico è nato quasi per insofferenza alle regole, per un bisogno di libertà irregolare e provocatoria […] ma è divenuto subito canone, patrimonio linguistico e prosodico, che interessa [219] contemporaneamente tutte le cinematografie mondiali. Detto fatto: c’è voluto poco ad accorgersi che molti di questi stilemi li aveva utilizzati anche lo stesso Pasolini, e che anzi li avrebbe usati ancor di più nei suoi film successivi, e così il cinema di Pasolini è subito diventato, né più né meno, «cinema di poesia». Intendiamoci: chi dicesse che il cinema di Pasolini è un «cinema di poesia» (facendo specificamente riferimento a questa sua teorizzazione) direbbe, naturalmente, una cosa sostanzialmente giusta (lo stesso Pasolini, in fin dei conti, con le sue continue manifestazioni di amore per la tecnica, sembra francamente invitare a questo); tuttavia, a nostro avviso, a dirlo così, facendo semplicemente “due più due”, si rischia più di creare dei malintesi che non di aiutare a capire o spiegare realmente qualcosa. Infatti, passando per questa “via breve” e qui fermandosi, il «cinema di poesia» finisce facilmente col diventare un grande calderone indifferenziato, in cui Pasolini, Antonioni, Godard, Rossellini, ecc. diventano come le proverbiali vacche (metaforiche e non) che nella notte sono tutte nere. Non solo finirebbero col cadere le differenze tra Pasolini e altri autori, ma anche tra l’uno e l’altro dei suoi film: anche Uccellacci… presenta alcuni degli stilemi sopra elencati: è allora un film di poesia allo stesso modo di Medea ? Ma non era stato lo stesso Pasolini, in seguito, a definirlo come un «poemetto scritto nella lingua della prosa»? E allora quanti stilemi servono a fare un film di poesia? E tra i tanti stilemi poetici a disposizione, perché nelle scene dell’Edipo… che abbiamo analizzate ce ne sono certi (ad es. i barbagli di luce in macchina) e non certi altri, visto che in questa breve elencazione sono messi tutti sullo stesso piano? Ma c’è di più: l’apparentemente facile invito di Pasolini andrebbe accolto con una certa prudenza anche, e forse soprattutto, perché è lo stesso Pasolini a dire molto chiaramente che per lui il «cinema di poesia» è un frutto maturo della borghesia, anzi, di più, del neocapitalismo, di quel neocapitalismo che è all’origine dell’«ordine orrendo»: Insomma, in un quadro generale, la formazione di una tradizione di «lingua della poesia del cinema», si pone come spia di una forte e generale ripresa del formalismo, quale [220] produzione media e tipica dello sviluppo culturale del neocapitalismo. Quantomeno, una contraddizione irrisolta (o forse solo velata o apparente) serpeggia dunque per le pagine di questo saggio: visto che questa borghesia o neo-borghesia che, col «cinema di poesia», tende a riportare in superficie (assieme al sotto-film) la vera natura del cinema, è quella stessa borghesia che mistifica il cinema creando la «convenzione narrativa», per fare del cinema un mezzo d’intrattenimento e d’evasione di massa, e poterlo così inserire nel ciclo industriale di consumo e produzione; visto che altrove, subendo nondimeno il consueto fascino della tecnica, Pasolini [221] ammette l’«esercizio di stile come ispirazione […] sinceramente poetica» , oppure ammette che, per questa via, si «riattribuisce ai poeti una funzione tardo-umanistica: il mito e la coscienza [222] tecnica della forma» . E poi c’è la questione della «soggettiva libera indiretta», che tanta parte
gioca in questo saggio e in questa teoria: tra i due estremi del monologo interiore e del discorso libero indiretto vero e proprio, la «soggettiva libera indiretta» corrisponde proprio alla forma tipicamente borghese, impropria e pretestuosa, del discorso libero indiretto letterario: Nella letteratura borghese, priva di coscienza di classe (cioè identificante se stessa con l’intera umanità), spesse volte il «libero indiretto» è un pretesto: l’autore si costituisce un personaggio, magari parlante una lingua inventata, per esprimere una propria particolare interpretazione del mondo. E’ in questo «indiretto» pretestuale –ora per ragioni buone ora per ragioni cattive –che si può avere una narrativa scritta con forti [223] quantitativi presi dalla «lingua della poesia». Non che Pasolini fosse così ingenuo da immaginarsi emancipato, per sola forza di buona volontà, dalla sua origine borghese, ma pare anche strano immaginare che Pasolini pensasse di auto-inserirsi, per forza di teoria, proprio nell’avanguardia dell’orribile neocapitalismo. Per capire dunque davvero quanto Pasolini sia dentro al «cinema di poesia» e quanto fuori, bisognerà considerare questo saggio come una fase ancora interlocutoria della sua teoria , indagarne le linee meno esplicite, e provare a dare piena attenzione anche a quei testi che spesso i critici cinematografici citano più per dovere di cronaca o per astratto interesse, che non per la precisa convinzione che possano aver avuto un’influenza diretta e ben delineabile sulla concreta opera cinematografica successiva di Pasolini [224] . Un aiuto, in questo senso, ci viene da un inciso piuttosto sibillino e molto meno chiaro di quel che sembra, che chiude un passo che noi abbiamo in verità già citato, ma in una forma tendenziosamente abbreviata; ecco il passo nella sua interezza: Insomma, in un quadro generale, la formazione di una tradizione di «lingua della poesia del cinema», si pone come spia di una forte e generale ripresa del formalismo, quale produzione media e tipica dello sviluppo culturale del neocapitalismo. (Naturalmente c’è la riserva, dovuta al mio moralismo di marxista, di una possibile alternativa: ossia di un rinnovamento di quel mandato dello scrittore che in questo momento si presenta [225] come scaduto) Esattamente, in cosa consiste questa «riserva»? Nella possibilità che la diagnosi fatta di questo orribile neocapitalismo sia almeno in parte sbagliata, e che perciò questa recente tradizione («media e tipica dello sviluppo culturale del neocapitalismo») porti in realtà in sé i germi di un reale rinnovamento (valido persino da un’ottica marxista) del mandato artistico? O invece che da fuori del neocapitalismo, e più precisamente dal seno del marxismo (nonostante si sappia in quale crisi agonizzasse il marxismo agli occhi di Pasolini in quegli anni), possa venire un’alternativa altra e diversa per il rinnovamento del mandato dello scrittore, tale da poter contrastare la più recente tradizione neo-borghese? E si tratterebbe allora forse dello stesso Pasolini? E poi perché improvvisamente si viene a parlare di mandato dello «scrittore», e non genericamente dell’artista, o dell’autore cinematografico? Certo, questo termine di «scrittore» potrebbe semplicemente far capo alla forma mentis di Pasolini, o esser stato indotto dall’analogia letteraria che aveva precedentemente guidato la definizione della «soggettiva libera indiretta»; ma fatto sta che Pasolini aveva già parlato di questa crisi del mandato dello scrittore, in un suo precedente scritto anch’esso poi confluito in Empirismo… e che, non a caso, apre il libro: si tratta delle Nuove questioni linguistiche , cioè di un testo di argomento puramente linguistico che apparentemente non ha nulla a che vedere col cinema, ma che in realtà non solo è il vero punto iniziale di svolta del pensiero pasoliniano, ma anche la vera base teorica su cui poi si svilupperà il «cinema di poesia». Nelle Nuove questioni… , l’attenta osservazione che Pasolini andava dedicando al fenomeno di quel mutamento antropologico a cui abbiamo più volte fatto riferimento, prendeva per la prima volta una veste e un’impostazione nettamente linguistiche. Se prima –dice Pasolini –alla lingua dialettale, orale, “vera”, delle classi sottoproletarie e contadine, si opponeva una lingua nazionale borghese che però veramente nazionale non riusciva a essere (e che anzi nella sua storica schizofrenia di lingua letteraria versus lingua parlata dimostrava tutta la sua inadeguatezza –oltre a
[226] dare molti problemi ai romanzieri italiani) , oggi il neocapitalismo, con quel mutamento [227] antropologico o «rivoluzione interna» che ha prodotto, sta partorendo una nuova lingua nata [228] in «osmosi col linguaggio tecnologico della civiltà altamente industrializzata» , realmente nazionale ed egemonica, ma non meno alienata: caratterizzata anzi da una «strumentalità brutale», è [229] una lingua in cui «la comunicazione prevale su ogni possibile espressività» ; ed è soprattutto una lingua, nel quadro sociale che siamo venuti sin qua tratteggiando, in grado di fagocitare e annientare tutto il resto: La completa industrializzazione dell’Italia del Nord, a livello ormai chiaramente europeo, e il tipo di rapporti di tale industrializzazione col Mezzogiorno, ha creato una classe sociale realmente egemonica, e come tale realmente unificatrice della nostra società. Voglio dire che mentre la grande e piccola borghesia di tipo paleoindustriale e commerciale non è mai riuscita a identificare se stessa con l’intera società italiana […], la nascente tecnocrazia del Nord si identifica egemonicamente con l’intera nazione, ed [230] elabora quindi un nuovo tipo di cultura e di lingua effettivamente nazionali. Si potrebbe dire, insomma, che centri creatori e unificatori di linguaggio, non siano più [231] le università, ma le aziende . Oggi, è dunque per un fatto storico d’una importanza in qualche modo superiore a quella dell’unità italiana del 1870 e della susseguente unificazione statale-burocratica, che ci troviamo in una diacronia linguistica in atto, assolutamente senza precedenti: la nuova stratificazione linguistica, la lingua tecnico-scientifica, non si allinea secondo la tradizione con tutte le stratificazioni precedenti, ma si presenta come omologatrice delle altre stratificazioni linguistiche e addirittura come modificatrice all’interno dei linguaggi . Ora, «il principio dell’omologazione» sta evidentemente in una nuova forma sociale della lingua –in una cultura tecnica anziché umanistica –e il «principio della modifica» sta nell’escatologia linguistica, ossia nella tendenza alla strumentalizzazione e alla comunicazione. E questo per esigenze sempre più profonde di quelle linguistiche, [232] ossia politico-economiche. E quindi il fine della lingua rientrerà nel ciclo produzione-consumo, imprimendo all’italiano quella spinta rivoluzionaria che sarà appunto il prevalere del fine [233] comunicativo su quello espressivo. Perciò, in qualche modo, con qualche titubanza, e non senza emozione, mi sento autorizzato ad annunciare, che è nato l’italiano come lingua nazionale . [tutti i corsivi [234] sono dell’autore] E’ in questo contesto, avendo dimostrato come, stante questa nuova situazione sociale, debbano ormai considerarsi nulli tutti i vari tentativi compiuti dai romanzieri italiani negli anni’50 di creare [235] una vera lingua media parlata nazionale per via letteraria , che Pasolini affronta quel problema del mandato dello scrittore:
E’ chiaro che dopo la presa di coscienza della reale rivoluzione linguistica dell’italiano, la funzione delle avanguardie è terminata. E solo attraverso un approfondimento di tale coscienza, uno scrittore potrà trovare la sua funzione, postulare un «rinnovamento del mandato». Anzitutto egli potrà impostare nei giusti termini la predizione, apocalittica, che nel futuro non ci sarà più richiesta di poesia […]. Per un letterato italiano […] la questione si pone in modo […] radicale:l’imparare l’abc di una lingua, con tutto ciò che questo implica: prima di tutto non temere la concorrenza del linguaggio tecnologico, ma l’impararlo, l’appropriarsene, il diventare «scienziato» […] In seno a questa nuova realtà linguistica, il fine della lotta del letterato sarà l’espressività linguistica, che viene radicalmente a coincidere con la libertà dell’uomo rispetto alla meccanizzazione. E non sarà la sua una lotta arida e velleitaria, se egli [236] possiederà come proprio problema la lingua del nuovo tipo di civiltà. E Pasolini un po’ «scienziato» si stava facendo, con questa sua attività teoretica. Ora, nel brano citato, il termine «linguaggio tecnologico» va ovviamente riferito, quanto alla lettera, alla nuova koinè nata per «osmosi» coi linguaggi tecnici che è l’argomento del saggio in questione; ma operando una certa forzatura, quasi in termini di lapsus freudiano o di doppio senso, questa lingua tecnologica di cui il letterato deve imparare «l’abc », pensando alla concreta storia artistica di Pasolini, fa tanto pensare al cinema! Al cinema: tra i linguaggi artistici quello tecnico per eccellenza, quello che con la modernità industriale c’è nato, la Settima arte, l’arte specifica del XX secolo, quel linguaggio di cui, per l’appunto, proprio il letterato Pasolini aveva dovuto imparare l’abc . Una forzatura, questa, certo –si diceva –ma quanto ingiustificata o immotivata? Il parallelo tra la mistificante «convenzione narrativa» del film creata dal cinema come industria di intrattenimento di massa, e la nuova koinè nazionale tecnica, è fin troppo facile da istituire: entrambi nati da quello stesso sviluppo neocapitalistico; entrambi brutalmente finalizzati alla comunicazione; entrambi forgiati sulle esigenze dei nuovi cicli di produzione e consumo. Anzi: vorremmo addirittura spingerci a dire che se non si prendono bene in considerazione i saggi linguistici della prima parte di Empirismo… , non è possibile comprendere tutte le implicazioni – sociali, antropologiche e linguistiche –implicite nella suddivisione, interna al film, tra «convenzione narrativa» e «sotto-film». E magari sarà pure significativo che anche in questo primo saggio il concetto di discorso libero indiretto giochi una parte importante. A questo proposito, sorge subito una domanda: il «sotto-film», allora, a cosa corrisponderebbe su questo piano linguistico? La prima risposta che potrebbe sorgere spontanea è: al dialetto, che, ovviamente, per il Pasolini poeta dialettale e romanziere delle borgate aveva carattere di verità e di valore esistenziale e artistico. Ma è proprio la trattazione del discorso libero indiretto contenuta in questo primo saggio a smentire questa possibilità: Si dà il caso […] che qualche volta l’autore borghese «riviva» completamente il discorso parlato del suo personaggio, e questo personaggio appartenga alla classe operaia o contadina: comunque sublinguistica e dialettale. […] Insomma il discorso libero indiretto in una pagina scritta implica un’incursione verso le lingue basse, la koinè fortemente dialettizzata e i dialetti: a fare carico di materiali sublinguistici. […] Il discorso libero indiretto era solo un mezzo, prima, di conoscere e poi di far conoscere, un mondo psicologico e sociale sconosciuto alla nazione. L’allargamento contenutistico era un effetto della poetica del realismo, e quindi dell’impegno sociale, l’allargamento linguistico era un contributo a una possibile lingua nazionale attraverso l’operazione letteraria . Oggi quel tipo di impegno appare retorico e inadeguato, e insieme appare illusoria l’ambizione di creare attraverso la letteratura (come del resto per tanti secoli si è creduto) i presupposti di una lingua nazionale.
Si tratta insomma del riconoscimento di una crisi –e di una crisi molto grave –nel senso che […] l’operazione linguistica che ha come base il discorso libero indiretto e la contaminazione, si rivela improvvisamente come superata, per un imprevisto stingimento dei dialetti come problema linguistico e quindi come problema sociale. [237] [corsivi dell’autore] Si noti, per inciso, che la successiva teoria falsamente deduttiva della «soggettiva libera indiretta» serve anche a superare, nel cinema, lo stallo provocato (o individuato –a seconda del punto di vista), in letteratura, dalla presente teoria: mentre il procedimento del discorso libero indiretto perde di validità con la morte delle lingue particolari e dei dialetti causata dalla devastante potenza omologatrice e divoratrice del mutamento antropologico, la «soggettiva libera indiretta», essendo un procedimento di natura necessariamente stilistica e non linguistica (come abbiamo visto), ne resta del tutto indenne e non perde mai di validità. Cosa, questa, che da un lato può magari retroattivamente giustificare il fatto di aver prolungato sensibilmente questo scavo nel materiale linguistico delle borgate, cambiando mezzo espressivo, oltre la soglia degli anni’50 (si confronti anche quanto detto con Micciché riguardo al rapporto tra i due romanzi e i primi due film di Pasolini), quando già ormai, invece, i letterari «Riccetti e i Tommasi si muovono remoti come in [238] un’urna greca» ; dall’altro, questo concetto nuovo di «soggettiva indiretta libera» (rinnovato, sì, ma a che prezzo! –Non se ne dimentichi la radice pretestuosa e borghese) può far “da ponte”, per così dire, e giustificare, razionalizzare ed esplicitare un certo significativo riaggiustamento nell’orizzonte di interesse dell’autore: [Nel cinema] non ci sono delle lingue speciali, dei sublinguaggi, dei gerghi: delle differenziazioni sociali, insomma. O se ci sono, come poi in realtà ci sono, sono totalmente al di fuori di ogni possibilità di catalogazione e d’uso. Ché, effettivamente, lo «sguardo» di un contadino –magari addirittura di un paese o di una regione in condizioni preistoriche di sottosviluppo –abbraccia un altro tipo di realtà, che lo sguardo, dato a quella stessa realtà, di un borghese colto: i due vedono in concreto «serie diverse» di cose, non solo, ma anche una cosa in se stessa risulta diversa nei due «sguardi». Tuttavia, tutto ciò non è istituzionalizzabile, è puramente induttivo. [239]
Con tutto ciò, tuttavia, notiamo di non aver ancora trovato risposta alla nostra domanda: a cosa corrisponde il «sotto-film»? Per farlo, conviene spostare la nostra attenzione su un altro snodo fondamentale del percorso teorico di Pasolini, quello costituito dal noto saggio Dal Laboratorio (Appunti en poète per una linguistica marxista) , anch’esso di argomento linguistico, successivo alle Nuove questioni… e grosso modo contemporaneo a Il «cinema di poesia» . Quivi, Pasolini individua un aspetto orale, puramente parlato, della lingua, come «categoria distinta da ogni “langue” e da [240] ogni “parole”, una specie di ipo, o meta struttura di ogni struttura linguistica» : A me sembra –e in Italia viviamo radicalmente questo dramma –che tra lingua orale e lingua grafica ci sia l’urto che c’è tra due strutture diverse e in opposizione . Certi fenomeni non solo linguistici si attuano e si comprendono solo considerando la lingua orale come una lingua a sé , che solo casualmente e episodicamente diviene anche [241] scritta. Ogni lingua è un insieme di tante lingue, che hanno in comune delle astrazioni, come il lessico e la grammatica. Le distinzioni più comuni sono: lingua della struttura e lingua della sovrastruttura (che è la distinzione principe del marxismo) e «langue» e «parole» (che è la distinzione principe dello strutturalismo, della linguistica sociologica). La distinzione principe che io vorrei proporre è: lingua orale e lingua orale-grafica […].
Praticamente una lingua d’uso si distingue così: dalla langue orale-grafica in giù, e dalla langue orale-grafica in su. In giù si trova la lingua puramente orale e nient’altro che orale. In su si trovano le lingue della cultura, le infinite «paroles» (che tuttavia non sono mai […] solo scritte e nient’altro che scritte : continuano sempre a essere anche orali). Questo fantasma della vocalità –che appartiene, al limite, a un diverso momento umano della civiltà, a un’altra cultura –persistendo accanto alla oralità-graficità, ne sdoppia continuamente la natura: rappresenta continuamente un suo momento storico [242] arcaico, e insieme la sua necessità vitale e il suo tipo. […] la «langue» si presenta sempre come la lingua di una civiltà, di una cultura, sia pure anche estremamente primitiva. De Saussure, opponendo «langue» a «parole», pareva dunque avere in mente le istituzioni o sistemi linguistici dei gruppi umani civili, o comunque già umani: al di qua dello stadio della pura fonazione animale –che sopravvive poi nella storia come interiezione o invenzione stranamente analogica con certi sentimenti inconsci o animali, «la lingua dei riflessi condizionati». Il momento puramente orale della lingua corrisponde a un momento filosofico dell’uomo: è insieme storico (le comunità umane preistoriche) e assoluto (la categoria della preistoria che permane nel nostro inconscio) (donde la necessità della congiunzione, a questo punto, [243] della linguistica con la psicanalisi, con l’etnologia e l’antropologia […]). […] non c’è segno, per quanto arbitrario, che, senza soluzione di continuità, attraverso decine di millenni, non sia riconducibile al grido, cioè all’espressione linguistica orale [244] biologicamente necessaria […] Ogni segno avrebbe dunque questa origine necessaria, divenuta arbitraria in seguito, nel momento in cui la lingua puramente fonica (il grido della bestia e delle necessità fisiche, degli istinti) comincia a diventare potenzialmente una lingua anche grafica, cioè la [245] lingua di una cultura […] [tutti i corsivi sono dell’autore] In questo modo, la teoria della «fase orale» della lingua diventa un passaggio fondamentale anche per il percorso di avvicinamento e di accostamento tra l’ambito linguistico e quello antropologico : varcando d’un sol passo tutto lo spazio lasciato necessariamente vuoto dallo strutturalismo (sorta di [246] “HIC SUNT LEONES” della linguistica strutturalista ), per cui la lingua finisce per essere sì ben scomposta e analizzata ma anche disincarnata, privata di corpo e svuotata di «valori», Pasolini risospinge all’indietro l’origine della lingua fino a riagganciarla all’origine corporea, naturale, animale dell’uomo; la risospinge fino a un tempo-limite remoto e atavico, di ambito squisitamente antropologico: proprio come il mito in Eliade, la «lingua orale» («continuo-statico, implicante [247] origini isogenetiche, e contenuto come un tutto nel tempo, non nella storia» ) ha origine in un illo tempore , e, proprio perché sta in qualche modo al di fuori della consunzione del tempo e non ne è compromessa, ha carattere di necessità e, perciò stesso, di verità: Ogni mito, indipendentemente dalla sua natura, enuncia un avvenimento che avvenne in illo tempore e per questo costituisce un precedente esemplare […]. Ogni rituale, ogni azione che abbia un senso, eseguiti dagli uomini, ripetono un archetipo mitico […]. Il che significa che, congiuntamente ad altre esperienze magico-religiose, il mito reintegra l’uomo in un’epoca a-temporale che è, di fatto, un illud tempus , cioè un tempo aurorale, «paradisiaco», oltre la storia. […] chi «imita» un modello mitico o soltanto ascolta ritualmente (partecipandovi) la recitazione di un mito, è sottratto al divenire profano e [248] ritrova il Grande Tempo.
Nell’origine della specie, Pasolini metteva così a diretto contatto l’un con l’altro, quasi senza alcuna soluzione di continuità, il “Fuori” col “Dentro”, la Realtà, la Natura, ovvero ciò che per definizione “sta fuori”, con la capacità di senso e di linguaggio, ovvero con una delle attività più specificamente e intrinsecamente e interiormente umane. In questa maniera, Pasolini da un lato si poneva in linea con tutte quelle teorie psicanalitiche che vedono nell’inconscio (magari collettivo) un punto di contatto, di “passaggio”, tra l’individuo e il contesto o Realtà, e magari con quanti tentavano di [249] darne una descrizione linguistica . Dall’altro lato, creava così le premesse teoriche di base per contaminare di linguisticità tutto il Reale: il suo impegno ideologico-antropologico avrebbe così potuto armarsi delle armi del linguaggio – da sempre le armi migliori e più potenti di ogni artista – ma facendo in modo di rimanere il più possibile a stretto contatto con la sua tanto amata Realtà. [250] Insomma, scomparsi o scomparendo ormai i dialetti (suo tradizionale “territorio di caccia”) , Pasolini reagisce radicalizzando e allargando a dismisura, quasi all’infinito, quell’area linguistica dell’oralità che per lui è evidentemente sempre stata il vero serbatoio della poeticità, della verità e della necessità ontologiche, come un minatore che vada a scavare sempre più in profondità la vena d’oro che lo ha reso ricco –al limite, fino a perdersi nelle viscere della terra. Ma questa teoria, di ambito linguistico verbale, Pasolini, la tira fuori solo nel’65, in un certo senso “fuori tempo massimo”, quando cioè la sua attività cinematografica è ormai da tempo di gran lunga prevalente su quella letteraria, e, tutto sommato, non solo sotto il profilo quantitativo. Perché? E perché, un poco a sorpresa, questo saggio tutto incentrato sulle lingue «orali-grafiche», si conclude su una riflessione assai significativa di ambito invece cinematografico? D’altra parte: il «segno» del linguaggio del cinema è arbitrario? […] Ebbene, tutto si può dire di un «segno» del cinema, fuori che sia «arbitrario». […] Il «segno» cinematografico, così come si presenta alla nostra esperienza, cioè come «segno» stilistico, di una «parole» fondata su una ipotetica langue potenziale , non offre aspetti di arbitrarietà: esso è in funzione diretta del «significato» […]: se io voglio denotare un cavallo che corre, dò l’immagine fotografica di un cavallo che corre […]. Tra im-segno, o immagine cinematografica significante, e significato, c’è uno stretto legame di necessità. Anzi, il significato («cavallo» […]) è il segno di se stesso.[corsivo [251] dell’autore] Il fatto è, a nostro avviso, che non è ragionevolmente possibile fare arte con la sola «oralità». Non è possibile fare arte senza chiudere il materiale «orale» in un testo. Non è possibile fare un testo e procacciarsi un rapporto di fruizione di questo testo da parte di un pubblico senza trasformare questa «oralità» in una «oralità-graficità». Ora, il precedente assetto dell’italiano medio come lingua «orale-grafica», pur con tutto il suo squallore e la sua «impraticabilità» artistica, con tutte le sue mancanze, i suoi difetti e le sue divisioni interne, aveva per lo meno il pregio di lasciare un qualche spazio ad una autentica rielaborazione artistica (per tramite di quel pescaggio che è il discorso libero indiretto) di materiali naturalmente poetici «orali» in ambito «grafico» letterario. Ma adesso, stante il quadro antropologico e sociolinguistico fin qua tratteggiato, quali spazi di manovra sono ancora disponibili? Adesso, che il discorso libero indiretto non è più possibile; adesso, che l’unico materiale «orale» ancora “vergine” va pescato così in profondità che questa operazione somiglia piuttosto ad una operazione matematica di passaggio al limite del meno infinito; adesso, che tutto ciò che viene portato in superficie tende quasi inevitabilmente a cadere nel campo gravitazionale della lingua neo-borghese realmente egemonica; come è possibile, concretamente, afferrare questo fantasma dell’«oralità»? E, soprattutto, come è possibile trasformarlo artisticamente in un testo «(orale-)grafico» senza snaturarne la poeticità? L’unico modo per risolvere questi problemi una volta per tutte, sarebbe quello di trovare una lingua la cui «fase scritta» godesse delle stesse caratteristiche di verità e necessità ontologiche della sua «fase orale»… Quale sia questa particolarissima lingua (o, almeno, quale fosse per Pasolini) è facile a dirsi: si tratta ovviamente del cinema. Così come, ormai, è facile dire (per rispondere a quella domanda che ci stiamo ponendo con insistenza già da alcune pagine) che il «sotto-film» corrisponde, almeno a una prima approssimazione, a questa «fase orale» della lingua: entrambi fanno evidentemente capo all’ambito, alla polarità, del Mito-Fuori dalla Storia-Verità-ecc. Ma attenzione: questa risposta non è ancora sufficiente: si tratta ancora solo di un parallelo, di un’analogia, di una metafora. E’ una
risposta che potrebbe essere sufficiente ad un livello puramente poetico, ma che, a quel livello, sarebbe pressoché del tutto inutile: a livello poetico, la decisione di “passare” al cinema, Pasolini l’aveva già presa da tempo; era già pienamente operante. Da un simile sforzo e da una simile concentrazione teorica, Pasolini si aspetta evidentemente qualcosa di più: qualcosa che oltre a giustificare o a chiarire il già fatto, possa servire di rilancio verso il futuro, operare un salto di qualità nel discorso: magari per riuscire ad andare anche oltre quel «cinema di poesia», per tanti versi a sé congeniale ma ancora forse troppo borghese. Allora converrebbe forse modificare la nostra domanda sul «sotto-film» nella domanda: come si può far sì che la «fase grafica» del cinema, ossia i singoli testi “scritti”, “grafici” del cinema, ossia, concretamente, i singoli film, godano delle stesse caratteristiche di verità e di necessità della sua «fase orale»? Perché ciò sia possibile è necessario verificare che il cinema sia una lingua dotata di alcune caratteristiche particolari, che la differenzino dalle lingue «orali-grafiche» vere e proprie, ossia verbali. Ma, ancor prima di questo, in via preliminare, perché sia lecito applicare utilmente al cinema quanto acquisito per tramite della teoria della «fase orale» delle lingue verbali, è soprattutto necessario provare che il cinema sia una lingua: e questo, all’altezza de Il «cinema di poesia» , nonostante Pasolini avesse già accumulato tutte le necessarie premesse, non è ancora avvenuto e non è possibile che avvenga, perché in questo testo, da un punto di vista strettamente semiologico, Pasolini è ancora allineato alla posizione del capostipite Metz, il quale nega, appunto, che il cinema sia una lingua vera e propria: per esserlo, dovrebbe godere della cosiddetta «doppia articolazione» (condizione necessaria), e, se ne godesse e fosse dunque una lingua vera e propria (ipotesi), sarebbe passibile di una vera e propria grammatica (tesi di verifica); ma Metz nega tutti questi punti, e Pasolini, per adesso, lo segue: […] il cinema a una vera e propria normatività grammaticale non potrà mai pervenire, se [252] non, per così dire, a una grammatica stilistica […] Solo con un testo successivo (e quasi altrettanto famoso), La lingua scritta della realtà , Pasolini si deciderà a fare il grande passo, a trarre tutte le conseguenze e ad allontanarsi definitivamente dall’ortodossia semiologica. E si tratta ancora una volta di un testo dalla natura composita, e ancora una volta, forse, questa natura composita non è stata sufficientemente evidenziata dalla critica successiva. Per cercare di essere più chiari possibile, non andremo in ordine, ma ripercorreremo il ragionamento di Pasolini a partire dalla fine: e alla fine (paragrafi IV e V) troviamo appunto il mutato punto di vista di Pasolini sulla possibilità di dare una grammatica del cinema, e dunque un [253] rapido e provvisorio abbozzo di questa grammatica , e la verifica del suo funzionamento su due esempi scelti ad hoc : L’indifferenziazione delle varie «paroles» cinematografiche è stato un fatto […] fino a oggi. Ma da qualche anno tale differenziazione sta attuandosi. Si stanno delineando almeno una «lingua della prosa» […] e una «lingua della poesia». E’ appunto la possibilità di parlare grammaticalmente con assoluta indifferenza, con gli stessi identici termini, di due prodotti su cui invece il discorso stilistico deve ricorrere a definizioni diverse –a proposito insomma di due fatti così differenziati come il cinema di prosa e il cinema di poesia –che mi sembra confermata [sic] la validità della mia tesi di una «langue» cinematografica come codice codificabile al di là della concreta presenza dei diversi tipi di messaggi cinematografici. Voglio prendere due piccoli excerpta da un film di prosa e da un film di poesia: e analizzarli. Vedremo che l’analisi stilistica può ricorrere a parole e termini diversi e opposti, mentre l’analisi grammaticale ricorre alla stessa identica terminologia . [254] [corsivo dell’autore] Come si può constatare, anche nella scrittura stessa di Pasolini (oltre che nella collocazione di questo brano in conclusione del saggio) si avverte il senso preciso di una riprova, di una sorta di conclusiva “matematica prova del 9”: questo carattere specifico dell’esperimento grammaticale
pasoliniano può essere ovviamente in gran parte imputato al fatto di dover contestare un’ortodossia già consolidata; tuttavia, ci teniamo ad evidenziarlo comunque, se non altro perché si potrebbe essere indotti a credere che questa conclusiva dimostrazione sia il fine ultimo di tutta la trattazione: sulla base dei nostri riscontri, invece, è chiaro che questa dimostrazione grammaticale è solo un passaggio intermedio, strumentale. A monte, come preannunciato, nella prima metà del saggio, c’è la premessa indispensabile per la definizione di una vera e propria langue cinematografica e di una conseguente grammatica: cioè l’individuazione di una «doppia articolazione», in tutto simile a quella delle lingue verbali: La tesi esposta in queste pagine è che esista una vera e propria «langue» audiovisiva del cinema, e che si può, di conseguenza, descriverne o abbozzarne una grammatica […]. Dunque il mio rozzo schema grammaticale nasce, per crisi e negativamente, dalla lettura dello splendido saggio di Christian Metz [Le cinéma: langue ou langage? In «Communications» n°4] che, definendo il cinema linguaggio, e non lingua, crede possibile farne una descrizione semiologica, e non una grammatica. […] Metz ricorre a Martinet […] per dimostrare che il cinema non può essere una lingua. Infatti Martinet dice che non può esserci lingua là dove non si presenti il fenomeno della «doppia articolazione». Ma io ho da fare a questo due obbiezioni: prima, e principale, che […] è necessario allargare e magari rivoluzionare la nostra nozione di lingua, e essere pronti ad accettare magari anche l’esistenza scandalosa di una lingua senza doppia articolazione ; seconda, che non è vero, poi, che questa seconda articolazione nel cinema non ci sia. Una forma di seconda articolazione si ha anche nel cinema: e questo è [255] il punto, credo, più rilevante della mia relazione. Non è vero che l’unità minima del cinema sia l’immagine, quando per immagine si intenda quel «colpo d’occhio» che è l’inquadratura: o insomma ciò che si vede con gli occhi attraverso l’obiettivo. Tutti –Metz e io compresi, abbiamo sempre creduto questo. Invece: l’unità minima della lingua cinematografica sono i vari oggetti reali che compongono una inquadratura .[…] Possiamo chiamare tutti gli oggetti, forme o atti della realtà permanenti dentro l’immagine cinematografica, col nome di «cinèmi», per analogia appunto a «fonemi». [256]
Scandaloso dal punto di vista linguistico. Perché nella lingua che sto usando con l’inquadrare quest’«uomo che parla» –la lingua del cinema –la realtà, nei suoi oggetti e [257] forme reali particolari, permane, è un momento stesso di quella lingua . Metz parla di una «impressione di realtà» come caratteristica della comunicazione cinematografica. Io non direi che si tratta di una «impressione di realtà», ma di «realtà» [258] tout court […]. [tutti i corsivi sono dell’autore] Da dove viene questa definizione del «cinèma», così semiologicamente forte e avventata? Da dove viene quell’ultima affermazione di intransigente (e apparentemente insostenibile) Realismo con la “R” maiuscola? Pasolini non lo dice, ma, sotto sotto, c’è la potente intuizione di quel «cavallo che corre» che, come abbiamo visto, portando d’improvviso il discorso sul cinema, si stagliava prepotente sul finire della precedente dissertazione di Pasolini sulla «fase orale» della lingua: quel cavallo che era totalmente privo di arbitrarietà proprio come avviene nella più pura «oralità»; quel cavallo che era «segno di se stesso» e che si auto-rappresentava nell’immagine cinematografica, e che, a furia di correre, si è qui trasformato, in questo testo, in quell’«uomo che parla» che funge da esempio di cinèma. E nella presenza celata di questo cavallo è già implicito il vero cuore pulsante di
questa dissertazione, che, come ogni cuore, sta al centro del discorso (al paragrafo III), e che altro non è, ovviamente, che l’applicazione al cinema della dicotomia «orale/scritta» della lingua: E’ ben noto che quella che noi chiamiamo lingua, in genere, è composta da una lingua orale e da una lingua scritta. Sono due fatti ben diversi: la prima è naturale, e vorrei dire, esistenziale. […] Al contrario della lingua scritta, la lingua orale ci riconduce senza soluzione di continuità storica alle origini, al momento in cui tale lingua orale non era che «grido», o lingua delle necessità biologiche, o meglio ancora, dei riflessi condizionati. C’è un momento, permanente, della lingua orale che resta tale. La lingua orale è così un «continuo statico», come la natura –al di fuori cioè della evoluzione storica. C’è un momento della nostra comunicazione orale che è dunque puramente naturale. La lingua scritta è una convenzione che fissa tale lingua orale, e sostituisce il canale bocca-orecchio, col canale riproduzione grafica-occhio. Ebbene, anche il «cinèma» può pretendere a una simile dicotomia […]. Per farmi comprendere devo riferirmi all’enunciazione […] che esiste prima di tutto un linguaggio [259] dell’azione […]. Le lingue scritto-parlate non sono che un’integrazione di questo linguaggio primo: le prime informazioni di un uomo io le ho dal linguaggio della sua fisionomia, del suo comportamento, del suo costume, della sua ritualità, della sua tecnica corporale, della sua azione, e anche, infine, dalla sua lingua scritto-parlata. E’ così che del resto la realtà [260] è riprodotta dal cinema. Anche il massimo di distacco della lingua da tale agire umano –ossia il momento puramente espressivo della lingua –la poesia –non è a sua volta che una nuova forma di azione: se nel momento in cui il lettore l’ascolta o la legge, insomma la percepisce, la libera di nuovo dalla convenzione linguistica e la ricrea come dinamica di sentimenti, di affetti di passioni, di idee: la riduce a entità audiovisiva, cioè riproduzione della realtà, [261] azione –e così il cerchio si chiude. In realtà noi il cinema lo facciamo vivendo, cioè esistendo praticamente, cioè agendo. L’intera vita, nel complesso delle sue azioni, è un cinema naturale e vivente: in ciò, è linguisticamente l’equivalente della lingua orale nel suo momento naturale o biologico. Vivendo, dunque, noi ci rappresentiamo, e assistiamo alla rappresentazione altrui. La realtà del mondo umano non è che questa rappresentazione doppia, in cui siamo attori e insieme spettatori […] E come noi, linguisticamente, pensiamo […] così abbiamo anche la possibilità, interna a noi, di abbozzare un monologo cinematografico: i processi dei sogni e della memoria […]. Quando noi ricordiamo, proiettiamo dentro la nostra testa, delle piccole, interrotte, contorte o lucide sequenze di un film. Ora tali archetipi di riproduzione del linguaggio dell’azione, o tout court della realtà (che è sempre azione), si sono concretati in un mezzo meccanico e comune, il cinematografo. Esso non è dunque che il momento «scritto» di una lingua naturale e totale, che è l’agire nella realtà . Insomma il possibile e non meglio definito «linguaggio dell’azione» ha trovato un mezzo di riproduzione meccanica, simile alla convenzione della lingua scritta rispetto alla lingua orale. [tutti i corsivi sono [262] dell’autore] Ovviamente, anche dietro a queste definizioni della Realtà come «linguaggio dell’azione» agisce, sottaciuta come nel caso del «cavallo», una precedente intuizione, qui formalizzata e incasellata in
una teoria più o meno organica e coerente: ed è quella che si può leggere alla base delle premesse linguistiche che aprono la prima parte de Il «cinema di poesia» : la capacità umana, comune, di “leggere audiovisivamente” la realtà allo stesso modo in cui viene letto e compreso un film; ovvero, la naturalità degli archetipi (sia interiori che esteriori) su cui si regge la comunicazione cinematografica, e quindi, viceversa, la disponibilità del reale a lasciarsi leggere audiovisivamente, il suo presentarsi già come linguaggio. Lo stesso inespresso e inconscio Codice della Realtà che ognuno di noi ha dentro di sé, e che gli fa riconoscere la realtà (per es. ciò che dice una faccia vista per un attimo per strada), è lo stesso che gli fa riconoscere la realtà nel cinema (la stessa faccia [263] «riprodotta» di uno che passa per strada). Ora, che si passi per la teoria della «fase orale» della lingua per dare dignità teorica a questa soggiacente e potentissima intuizione, o che si passi tramite la paradossale definizione del «cinèma» come segno che coincide col significato stesso che esso rappresenta, si può giungere, da due diverse direzioni, a convergere sullo stesso punto: Questo permanere, attraverso la riproduzione meccanica, della realtà nella lingua del cinema –anziché divenire, come nella lingua scritto-parlata, meramente simbolica –dà a tale lingua una costituzione del tutto particolare. La lingua scritto-parlata non è un calco e non è una nomenclatura: tuttavia credo si possa dire, senza orrore dei linguisti, che essa, nei suoi modi morfologici, grammaticali e sintattici, è per così dire parallela alla realtà che esprime. Ossia, la catena grammaticale dei significanti è parallela alla serie dei significati. La sua linearità è la linearità attraverso cui percepiamo la realtà stessa. Un grafico dei modi grammaticali della lingua scritto-parlata potrebbe essere dunque una linea orizzontale , parallela alla linea della realtà […]. Invece: il grafico dei modi grammaticali della lingua del cinema potrebbe essere una linea verticale: una linea, cioè, che pesca nel Significando, lo assume continuamente, incorporandolo in sé attraverso la sua immanenza nella riproduzione [264] meccanica audiovisiva. Esprimendomi attraverso la lingua del cinema –che altro non è, ripeto, che il momento scritto della lingua della realtà –io resto sempre nell’ambito della realtà: non interrompo la sua continuità attraverso l’adozione di quel sistema simbolico e arbitrario che è il sistema dei linsegni [segni linguistici verbali]. Che per «riprodurre la realtà attraverso la [265] sua evocazione», deve per forza interromperla. Eccoci giunti al punto, all’ultimo anello della dimostrazione: ecco formalizzata quella particolarità della lingua cinema che fa sì che essa (per il tramite del sotto-film) conservi gli stessi caratteri di verità e di necessità della «fase orale» (la Realtà) anche quando è «scritta»; ecco recuperato alla concreta attività artistica un ambito linguistico non mistificato; ed è, per di più, l’ambito linguistico capace di maggior efficacia sopra al reale, perché fatto con la realtà stessa : cinema e realtà, come due vasi comunicanti, si riversano l’uno nell’altra, finendo con l’assumere entrambi [266] contemporaneamente gli stessi caratteri di realtà e linguisticità . Non possiamo sfuggire alla violenza esercitata su di noi da una società che, assumendo la tecnica a sua filosofia, tende a diventare sempre più rigidamente pragmatica, a identificare le parole con le cose e le azioni, a riconoscere come «lingue per eccellenza» le «lingue delle infrastrutture» ecc. Non si può insomma ignorare il fenomeno di una
specie di esautoramento della parola, legato al deperimento delle lingue umanistiche [267] delle élites, che sono state, finora, le lingue-guida. Dal grande poema d’azione di Lenin, alla piccola pagina di prosa di un impiegato della Fiat o di un ministero, la vita si sta indubbiamente allontanando dai classici ideali umanistici e si sta perdendo nel pragma. Il cinematografo (con le altre tecniche audiovisive) pare essere la lingua scritta di questo pragma . Ma è forse anche la sua [268] salvezza, appunto perché lo esprime […] Gli stessi procedimenti rivoluzionari che la lingua scritta ha portato rispetto alla lingua parlata, il cinema porterà rispetto alla realtà. Il linguaggio della realtà, fin che era naturale, era fuori dalla nostra coscienza: ora che ci appare «scritto» attraverso il cinema, non può non richiedere una coscienza. Il linguaggio scritto della realtà, ci farà sapere prima di tutto che cos’è il linguaggio della realtà; e finirà infine col modificare il nostro pensiero su di essa, facendo dei nostri [269] rapporti fisici, almeno, con la realtà, dei rapporti culturali. Raggiunto lo scopo (la possibilità per il cinema «poetico» di conservare quei caratteri anche se e quando «scritto»), il discorso potrebbe immaginarsi concluso, se non fosse che Pasolini si lascia cadere dalla penna un paio di paragrafetti che, ripartendo da questi risultati, aprono d’improvviso un ulteriore orizzonte vastissimo: lo fa quasi sottotono, quasi come di sfuggita, forse prevedendo il botto tremendo che quei paragrafetti avrebbero fatto piombando su carta (stampata), e cercando così, forse, di dissimularli un poco: Non è chi non veda, a questo punto, come la semiologia del linguaggio dell’azione umana […] verrebbe poi a essere la più concreta delle filosofie possibili. E non è chi non veda, in conseguenza, quanto di comune avrebbe una simile filosofia, dovuta a una descrizione semiologica, con la fenomenologia: con il metodo di Husserl, magari lungo [270] la linea esistenzialistica sartriana. Quello che occorre fare dunque, è la semiologia del linguaggio dell’azione o tout court della realtà. Ossia allargare talmente l’orizzonte della semiologia e della linguistica da perdere la testa al solo pensiero o da sorridere con ironia, com’è giusto che gli addetti ai lavori facciano. Ma ho detto fin da principio che questa ricerca linguistica del cinema, mi importa, più che in se stessa, per le implicazioni filosofiche che richiede (magari anche se io le vedo non in quanto filosofo, ma in quanto poeta impaziente del suo [271] specifico lavoro…). Ecco che, quasi senza nemmeno accorgercene, dando dietro –naso a terra come segugi –alle tracce e alle orme abbandonate da Pasolini nei testi di Empirismo… , abbiamo finito per percorrere tutto un cerchio e per richiuderlo, nello stesso verso (diacronico) in cui lo aveva percorso lo stesso Pasolini: siamo infatti andati a rifinire contro quella stessa “visione del mondo”, «rapporto con la realtà», «filosofia» che Pasolini, in quell’intervista che abbiamo citato quasi all’inizio del capitolo (pp. 85 86 ), aveva dovuto ammettere che presiedeva tanto «alla sua poetica letterario-cinematografica» quanto «alla sua linguistica e alla sua grammatica del cinema»: «un allucinato, infantile e pragmatico amore per la realtà». Facendo come abbiamo fatto, per questo lungo giro, ci siamo però tornati, crediamo, secondo la raccomandazione di Pasolini, senza “facilonerie”, al giusto «livello»; ed abbiamo così riscoperto questa visione del mondo rivestita di un vestito tutto nuovo: quello della linguistica e della semiologia. Del resto, perché no? Se semiologia e linguistica si erano rivelate tanto utili a Pasolini per chiarire alla propria coscienza teorica come poter giungere a ritrovare un ambito di attività artistica ancora suscettibile di un vero impatto sul reale, di un vero “impegno”
artistico, e, quindi, per spiegarsi per quale motivo la sua poetica già da tempo l’avesse portato ad abbracciare il cinema; se per giunta quest’ordine di riflessioni lo aveva portato a dire che la sua amata realtà poteva essere espressa in forma di linguaggio; perché allora non applicare quegli stessi strumenti di indagine (semiologia e linguistica) alla realtà tutta intera, di cui il cinema (perfetto banco di prova per tutti i motivi di cui si è detto) non risultava essere che l’analogo rispecchiamento «scritto» e autocosciente? Per certi versi, il percorso che abbiamo tracciato potrà forse apparire un po’ strano: da un punto di vista ideale, una “visione del mondo” dovrebbe stare in cima, all’inizio, e tutto il resto discendere da essa; da un punto di vista ideale, la teoria dovrebbe forse sempre seguire questo percorso logico e deduttivo dall’alto verso il basso, dagli assiomi verso i corollari, dal generale verso il particolare, dal complesso della “visione del mondo”, appunto, verso le sue ricadute o applicazioni in singoli ambiti settoriali. Mentre noi abbiamo sostanzialmente fatto il percorso inverso. In realtà, come certamente il lettore più avvertito ben saprà, non sempre la teoria segue questa via, perché la teoria è anch’essa un qualcosa di diverso, per così dire, dall’“idea pura”, dall’“intuizione originaria”: anche la teoria è un qualcosa che si costruisce, e, talvolta, può risultare più conveniente partire dal particolare, magari da quegli ambiti in cui è più saldo, sicuro e consolidato l’uso di quegli strumenti di analisi che si intende impiegare, e poi di lì risalire pian piano verso l’origine. Del resto, è questo che succede in Empirismo… : a riprova di questa nostra affermazione, facciamo infatti notare che, a rigore, tutta la parte più strettamente grammaticale de La lingua scritta… non sarebbe strettamente necessaria per arrivare all’approdo finale di una Semiologia della Realtà esemplificata su una [272] Semiologia del Cinema . In fin dei conti, quella di Metz era già, comunque, per ammissione dello stesso Pasolini e come riconosciuto da tutti, una descrizione semiologica del cinema: l’ambito di intervento della semiologia, come noto, è più ampio di quello della linguistica vera e propria, e Metz negava soltanto la possibilità di una grammatica (cioè di una lingua), e non la possibilità di una descrizione semiologica. Avendo dunque già “dimostrata” ne Il «cinema di poesia» , tramite l’individuazione degli archetipi della comunicazione cinematografica, l’analogia esistente tra la decifrabilità del cinema e la decifrabilità della realtà, Pasolini avrebbe potuto impostare direttamente, passando per questa “via breve”, tutto il discorso sulla liguisticizzazione della realtà e dunque sull’opportunità di creare un Semiologia Generale della Realtà come indagine filosofica (anche se magari, così, la realtà avrebbe finito per essere “solo” un linguaggio e non una lingua vera e propria). Ma questo a Pasolini non sarebbe mai potuto bastare; in questa maniera, Pasolini non avrebbe guadagnato nulla dal “tradurre” la sua visione antropologica del mondo in una visione linguistica del mondo, perché Pasolini (come lui stesso, abbiamo visto, sottolineava) non è un «filosofo», ma un «poeta impaziente»: e, come tale, vuole soprattutto che alla sua visione del mondo possano legarsi una grammatica e una lingua: una grammatica e una lingua appunto perché lui è uno scrittore, e, come ogni scrittore, vuole scrivere; e siccome è uno scrittore “impegnato”, vuole, se possibile, una grammatica che gli permetta di tenere in pugno non solo la lingua (sua arma specifica), ma la realtà stessa su cui vorrebbe intervenire. Per questo è obbligato a passare per la “via lunga” della teoria della «fase orale» della lingua, della doppia articolazione, della definizione del «cinèma», della verifica della possibilità di una grammatica. Il percorso, trasversale ai vari testi che compongono Empirismo… , che siamo venuti fin qui componendo, sarebbe dunque un percorso perfettamente coerente col carattere di “impegno” di tutta l’opera pasoliniana. Non è in fin dei conti questo il senso ultimo del concetto di «mandato» dell’artista? «Mandato», al limite, non tanto legato, o non esclusivamente, ad un impegno di tipo sociale, culturale, politico o ideologico; ma di sicuro legato alla capacità di “incidere”. E potremmo forse presumere, almeno come ipotesi provvisoria, che, ai suoi occhi, questo rappresentassero linguistica e semiologia: strumenti di una più affilata chirurgia; capaci di un maggiore “possesso”, di un maggior grado di manipolazione del reale e del linguaggio; che rappresentassero gli strumenti critici più aggiornati, più avanzati, più [273] evoluti . Fatto sta, che sulla questione della Semiologia Generale della Realtà tornò molto spesso e in svariate occasioni, continuando a sviluppare il discorso: Ho detto […] che il Cinema è simile alla «Langue» mentre i Films corrispondono alle «Paroles»: in un ambito di stretta osservanza saussuriana, questo significa che solo i
Films (come solo le Paroles) esistono, in pratica e in concreto, mentre il Cinema (come la Langue) non esiste: è semplicemente una deduzione astratta e normalizzatrice che parte dall’esistenza concreta degli infiniti Films (come Paroles). Ora –e qui è l’idea nuova per cui ho scritto questa postilla –mentre la Langue dedotta per astrazione dalle Paroles è sempre un fatto linguistico, anche se esiste come pura ipotesi e successiva decodificazione, il Cinema dedotto dai vari Films non è più un fatto cinematografico. LA LANGUE DEI FILMS (CIOE’ IL CINEMA) E’ LA REALTA’ [274] STESSA! [corsivo dell’autore] Insomma la realtà (spiata dal cinema) è un «insieme» la cui struttura è la struttura di un linguaggio. La mia ambizione sarebbe quella di fare uno studio organico –raccogliendo [275] tutte le sparse fila della semiologia –sulla realtà come linguaggio […] […] la Semiologia, è vero, ha preso in considerazione i più impensati aspetti del linguaggio della Realtà: ma mai la Realtà stessa come linguaggio. La Semiologia cioè […] non ha ancora compiuto il passo che la porterebbe a essere Filosofia in quanto [276] descrizione della Realtà come linguaggio. In attesa di tracciare almeno degli appunti di questa mia «Semiologia Generale», vorrei qui limitarmi, ancora, a osservare come tale Semiologia Generale sarebbe, insieme, la Semiologia del Linguaggio della Realtà, e la Semiologia del Linguaggio del Cinema. [277]
Oltre che dell’impostazione teorica generale della questione, Pasolini, in tutta la serie di interventi teorici successivi a La lingua scritta… , si occupò, come noto, anche di precisare vari corollari e vari aspetti secondari e/o conseguenti del suo sistema: tra questi, pur se solo per sommi capi, bisognerà citare almeno l’indagine delle differenze tra film e cinema (e cioè paroles e langue ) e la questione del «mistero del Cifratore». Le differenze tra film e cinema furono indagate principalmente sotto l’aspetto della dimensione temporale, e, cosa che destò una certa sorpresa, sotto l’aspetto esistenziale (qui ci limitiamo a una breve e sommaria citazione, ma, come vedremo, Micciché si è occupato della questione con molto profitto): […] il cinema (o meglio la tecnica audiovisiva) è sostanzialmente un infinito pianosequenza, come è appunto la realtà ai nostri occhi e alle nostre orecchie […] (un infinito piano-sequenza soggettivo che finisce con la fine della nostra vita): e questo pianosequenza, poi, non è altro che la riproduzione […] del linguaggio della realtà: in altre parole è la riproduzione del presente. Ma dal momento in cui interviene il montaggio, cioè quando si passa dal cinema al film (che sono due cose molto diverse, come la «langue» è diversa dalla «parole»), succede che il presente diventa passato […]: un passato che, per ragioni immanenti al mezzo cinematografico, e non per scelta estetica, ha sempre i modi del presente (è cioè un presente storico ). Allora qui devo dire che cosa io penso della morte […]. Ho detto varie volte […] che la realtà […] è un linguaggio […]. Tale linguaggio […] coincide, per quanto riguarda l’uomo, con l’azione umana. […] Ma questa sua azione manca di unità, ossia di senso, finché essa non è compiuta . […] E’ dunque assolutamente necessario morire, perché, finché siamo vivi, manchiamo di senso , e il linguaggio della nostra vita […] è intraducibile: un caos di possibilità […]. La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita : ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi […], e li mette in successione, facendo del nostro presente, infinito, instabile, incerto […], un passato […].
Il montaggio opera dunque sul materiale del film […] quello che la morte opera [278] sulla vita. [corsivi dell’autore] La questione del «mistero del Cifratore» rimanda direttamente all’arcano del mistero ontologico del reale, e costò a Pasolini non poche accuse di misticismo; d’altra parte, era l’idea stessa di un Codice della Realtà a implicare direttamente il problema dell’origine di questo Codice: Se c’è una decifrazione della realtà ci deve essere a fortiori una cifrazione; se c’è un decifratore, un cifratore. […] Resta, ripeto, il mistero del Cifratore. Un cattolico direbbe Dio, che attraverso la polisemia infinita di un’infinità di «cose come parole» […] si [279] esprime. Come detto, queste tesi di Pasolini suscitarono molte polemiche: studiosi e semiologi importanti come lo stesso Metz, come Garroni, Bettetini e Eco (tanto per citare qualche nome noto) non [280] mancarono di manifestare il loro dissenso , talvolta arrivando anche a tacciare Pasolini di ingenuità. Una delle polemiche più lunghe si innescò proprio con Eco, e proseguì a cavallo di varie pubblicazioni e vari interventi da ambo le parti: la riportiamo qui brevemente sia come esempio del dissenso e dello scetticismo che circondava Pasolini, sia perché con essa andò appunto intrecciandosi e sviluppandosi il discorso di Pasolini sul «mistero del Cifratore»: Queste osservazioni liquiderebbero anche l’idea di Pasolini di un cinema come semiologia della realtà, e la sua persuasione che i segni elementari del linguaggio cinematografico siano gli oggetti reali riprodotti sullo schermo (persuasione, ora lo sappiamo, di singolare ingenuità semiologica e che contrasta con le più elementari finalità della semiologia, che è di ridurre eventualmente i fatti di natura a fenomeni di [281] cultura, e non di ricondurre i fatti di cultura a fenomeni di natura). [corsivo nostro] Queste “accuse” furon mosse da Eco nel 1967. Pasolini gli rispose in un successivo testo del 1971, [282] Il codice dei codici , facendo appunto ricorso, non senza una buona dose d’ironia, provocatoriamente, quasi per assurdo, a quell’idea di un Cifratore Universale a cui era recentemente giunto: Caro Eco, le cose stanno esattamente al contrario di come tu le interpreti. Che io sia ingenuo, non c’è dubbio: e anzi, poiché non sono […] un piccolo-borghese –non ho paura dell’ingenuità: sono felice di essere un ingenuo […]. Ma non era certamente questo che tu volevi dire: hai detto «ingenuità» come eufemismo per «sprovvedutezza». Sarei disposto ad accettare anche la sprovvedutezza (che c’è), ma non in questo caso. Perché tutte le mie caotiche pagine su questo argomento (codice del cinema uguale codice della realtà, nell’ambito di una Semiologia Generale) tendono a portare la Semiologia alla definitiva culturalizzazione della natura (ho ripetuto sette o otto volte che una Semiologia Generale della realtà sarebbe una filosofia che interpreta la realtà come linguaggio). Io vorrei cioè che si andasse fino in fondo. Non vorrei arrestarmi sul ciglio dell’abisso su cui tu ti fermi. Non vorrei cioè che avesse nessun valore nessun dogma: mentre in te restano, inconsapevolmente, consacrati almeno due dogmi: il dogma della semiologia così com’è, e il dogma del laicismo. [283] [corsivo dell’autore] Tu analizzi una serie potenzialmente infinita di codici conoscitivi: le cui unità prime e più semplici sono talvolta le ultime e più complesse di un codice, come dire, sottostante. Varie volte sembri pervenire all’analisi del più SOTTOSTANTE di tutti i codici. E li ti
fermi. Si ha dunque l’impressione che il tuo libro sia scritto sul ciglio di un burrone. Oltre quel ciglio tu non ti sporgi. Lo sfiori e torni indietro […]. Questo codice, il più SOTTOSTANTE di tutti, è quello che riguarda la percezione sensoriale, che tu demandi alla psicologia, credo, o non so a quale scienza specifica, presentandolo così nel tuo [284] libro come un dato di fatto, da approfondirsi e mettere in discussione in altra sede. Supponiamo dunque, per absurdum […] che esista un Dio. […] Se il Dio delle Confessioni esistesse […] la natura non cesserebbe di essere «natura» ossia tautologia autorivelantesi, in fondo a quell’abisso in cui tu lasci sprofondati i nostri rapporti sensoriali con essa? […] Ora, poiché è seccante parlare di Dio tra persone laiche, limitiamoci almeno a chiamare Dio, Brama, e abbreviamolo in B. L’esistenza di B. (di carattere vedico-spinoziano) fa dell’affermazione «la realtà è un linguaggio» un’affermazione non più apodittica e immotivata, ma, in qualche modo sensata e funzionale: «la realtà è il linguaggio di B.» Con chi parla B.? Mettiamo con Umberto Eco. […] Mettiamo che, in questo momento, B. parli con Eco, usando come segno, un segno ultimo, i capelli di Jerry Malanga. Ma che differenza c’è tra i capelli di Jerry Malanga e gli occhi di Umberto Eco? Essi non sono che due organismi della realtà, la quale è un continuum senza alcuna soluzione di continuità: […] appartengono dunque allo stesso Corpo, la fisicità del Reale, dell’Esistente, dell’Essere; […] non si può dire che si tratti di un dialogo, ma di [285] un monologo che il Corpo infinito della Realtà fa con se stesso. Ciò non naturalizza i codici della cultura (letteratura, cinema, linguistica), ma, al contrario, culturalizza la natura: facendo dell’intero vivere un parlare . [corsivo nostro] [286]
In seguito, Eco dovette in qualche modo riconoscere almeno la tesi pasoliniana della [287] culturalizzazione della natura , ma solo molti anni più tardi, soprattutto ad iniziare da Gilles [288] Deleuze , si è incominciata ad avere una piena rivalutazione del valore filosofico delle proposizioni pasoliniane. Soffermiamoci però ancora un poco su quest’ultima e grandiosa immagine pasoliniana, che fa «dell’intero vivere un parlare»: essa chiude la polemica con Eco; chiude anche, sostanzialmente, Empirismo eretico ; rappresenta un vertice, l’apice più vertiginoso della “trascrizione” sotto specie teorico-linguistica della “visione del mondo” di Pasolini; e aggiungiamo anche, e tra breve dimostreremo ancor meglio, che questa vetta teorica e poetica è anche uno dei luoghi in cui emerge con maggior chiarezza la radice antropologica della teoria pasoliniana, nonché forse il nostro miglior appiglio per aiutarci a comprendere meglio i suoi film mitologici alla luce delle sue elaborazioni teoriche. Se, in questa nostra affermazione, abbiamo ragione; e se abbiamo avuto una qualche ragione nel percorso teorico che abbiamo fin qui tracciato e nel reciproco intrecciarsi di antropologia, linguistica e semiologia del cinema che abbiamo individuato; se tutto questo è vero, è allora abbastanza ovvio che l’approccio puramente semiologico dei puri semiologi (di per sé ineccepibile) è per noi di scarso interesse: giuste o sbagliate che si vogliano considerare le teorie di Pasolini, il discorso, in quel caso, nascerebbe e morirebbe in seno alla semiologia, mentre il nostro studio, invece, ha come fine la comprensione del cinema mitologico di Pasolini, e solo a questo scopo (e non per il gusto di sviscerare Empirismo… ) ci siamo concessi questa lunga cavalcata teorica. Se ci aspettiamo un aiuto, dunque, per la dimostrazione della nostra tesi, ce lo aspettiamo semmai dai critici cinematografici: da chi, cioè, quando ha trattato la teoria pasoliniana, in un verso o in un altro, lo ha fatto senz’altro per gettare luce sulla sua opera cinematografica, visto che quello (e non altro) era lo scopo del suo lavoro critico. Già Petraglia, nel Castoro del’74, dedicava un intero capitoletto alla questione, partendo dalla giustissima osservazione (ma qui ancora generica) secondo cui il modo di fare film di Pasolini apparirebbe mutato in seguito a questo periodo di intense riflessioni:
Uccellacci e uccellini è il punto fermo su una esperienza che può ormai considerarsi conclusa. Si è tentato di mostrare come esso risponda a una personale contraddizione ideologica e umana. Ma si è volutamente tralasciato un ulteriore aspetto, decisivo, il quale consente di penetrare in una crisi che coinvolge l’intero passato dell’autore: la progressiva perdita del fondo dialettale come asse linguistico portante, terreno sicuro che ora si sta sgretolando. Anzi, è lo stesso Pasolini a metterlo in crisi con la famosa conferenza «Nuove questioni linguistiche» («Rinascita», n.51, 1964), dove lo scrittore ipotizza la nascita di una nuova koinè nazionale venuta a sostituire i vecchi dialetti espressivi con i fini strumentali della comunicazione. Da questo momento Pasolini inizia una lunga serie di elaborazioni teoriche anche sulla natura del linguaggio cinematografico […] che parzialmente rendono ragione della nuova fase iniziata all’incirca intorno agli anni ’66/67. E’ infatti da questo periodo che il cinema pasoliniano abbandona il vecchio sentiero e comincia a lavorare sul materiale filmico in maniera totalmente rinnovata, più decisamente sperimentale. Comunque è la conferenza [289] del’64 il nodo cruciale della svolta. Sulla base di una premessa di questo tipo, ci si aspetterebbe dunque che, in concreto, la trattazione della teoria pasoliniana fosse precisamente finalizzata alla migliore comprensione delle sue opere cinematografiche, o, quantomeno, di singoli brani di esse. Il capitolo in questione, invece, sta nella trattazione di Petraglia come una grossa parentesi, aperta ma presto richiusa, autosufficiente e tutto sommato irrelata rispetto alla trattazione dei singoli film: ai fini di quella comprensione critica che è lo scopo finale del lavoro di Petraglia in quanto critico cinematografico, dunque, l’importanza delle teorizzazioni di Pasolini è bensì suggerita, ma completamente assente in concreto (o, tutt’al più, molto generica). Da questo punto di vista, nella successiva tradizione critica sul cinema mitologico di Pasolini, Petraglia apre la via maestra: quella, sostanzialmente, della “volgarizzazione”, della parafrasi, del sunto della teoresi pasoliniana in una sintesi più maneggevole, sia perché più ridotta come dimensioni, sia perché non più così problematica (in quanto “pigiata a forza” in un rapido quadro sincronico e sistematico, da cui sono scomparse le molte sfumature, le ambiguità, le incoerenze, le tracce del difficoltoso percorso segnato dal pensiero di Pasolini). Ovviamente, un simile approccio nasconde un atteggiamento, per così dire, da “dovere di ufficio”: l’attività teoretica pasoliniana è stata un fenomeno troppo intenso, vistoso e macroscopico perché possa essere passata sotto silenzio al lettore (soprattutto al lettore di un’opera come quella di Petraglia, che –come molte altre che seguiranno –intende dare una rappresentazione complessiva del Pasolini uomo di cinema); ma, evidentemente, il critico non ritiene indispensabile (o, per lo meno, così utile) questa teoresi ai fini del proprio lavoro conoscitivo sui film. Altre caratteristiche della trattazione di Petraglia (e di altri suoi “successori”) tradiscono, a nostro avviso, questa impostazione di fondo da “volgarizzazione”: ad es., il procedere grosso modo testo per testo, più o meno strettamente nell’ordine cronologico in cui Pasolini li ha pubblicati, senza andare a caccia delle reali connessioni che si agitano tra una [290] tematica e l’altra brulicando sul fondo . E’ sintomatica di questo atteggiamento (lo vedremo) anche la progressiva esclusione dal “canone” dei testi che non si può non menzionare, di quei saggi di argomento propriamente linguistico (ora nella prima parte di Empirismo… ) che noi invece abbiamo dimostrato essere anelli fondamentali della catena, indispensabili per una reale comprensione delle teorie di Pasolini. Petraglia (come visto), con una felice intuizione, prende ancora in considerazione almeno le Nuove questioni …, ma, in considerazione di quanto detto sino ad ora, appare francamente piuttosto riduttiva l’idea di ricondurre l’importanza e la sostanza di questa «svolta» alla perdita del «fondo dialettale come asse linguistico portante»: non che si tratti di un’osservazione propriamente sbagliata –dato che la perdita del dialetto può effettivamente essere interpretata come perdita delle prerogative dell’«oralità» –ma certo, in questa forma, appare riduttiva, e, anzi, “sospetta”: sospetta di banale contenutismo, ovvero che la felice intuizione iniziale venga poi sminuita all’ovvia osservazione che, da un certo punto in poi, i soggetti principali dei film di Pasolini non sono più le “consuete” borgate dialettali. Dopo il brano che abbiamo citato, Petraglia tenta di parafrasare i
[291] successivi principali lavori teorici di Pasolini sul cinema , cercando appunto di legarli e di fonderli, come abbiamo anticipato, in un discorso unitario e continuo, ma l’approccio puramente sincronico di certo non lo aiuta: smarriti così in molti casi i reali nessi tra le varie nozioni presentate, il discorso ricostruito appare “facile”, fasullo; non solo inutile per la comprensione dei film, ma anche tale da non rendere assolutamente merito di un testo complesso come Empirismo… Un altro consistente passo falso, in proposito, è consistito nel non prendere in considerazione la teoria della «fase orale» delle lingue orali-grafiche: la felice intuizione che, con le Nuove questioni… , aveva portato Petraglia a legare strettamente teoria linguistica e teoria semiologicocinematografica, in questo caso non si ripete, col risultato che la teoria del cinema come lingua [292] scritta della realtà sembra spuntata all’improvviso come dal nulla . Non mancano così altre evidenti forzature: ad es., la soggettiva indiretta libera , con completa inversione dei termini, tende ad apparire in Petraglia non come l’espediente pretestuoso che (come abbiamo visto) rende accettabile l’approccio stilistico-linguistico del cinema poetico in seno ad una tradizione invece prosastica, ma come strumento (causa/mezzo) che genera o attua il cinema poetico. Alla fine, sulla base dell’aureo principio secondo cui «non c’è momento in cui Pasolini dimentichi di essere poeta» [293] (vale a dire nemmeno quando fa il teorico), l’«esorcismo» paventato da Pasolini si è pienamente compiuto, perché l’unità dell’autore Pasolini, poeta e grammatico, è stata riconquistata troppo a buon mercato. Ferrero, a suo tempo, spingendosi subito oltre la considerazione puramente semiologica, fu uno dei pochi a manifestare una netta presa di posizione “a favore” della teoresi pasoliniana: Questi interventi, con le analisi e le esemplificazioni spesso puntigliose che li accompagnavano, suscitarono vivaci polemiche e aspre confutazioni. […] Non è escluso ci faccia velo il nostro scarso interesse per questi modi di porre la questione, ma siamo convinti che il discorso sia più complesso e che l’accanita applicazione di Pasolini a quest’ordine di problemi, con un «gergo» solo formalmente accademico e da addetto ai lavori, non nasca da una «vocazione» scoperta improvvisamente […], e rimandi invece ad alcuni nodi e ricorsi della cultura e della poetica pasoliniane nella fase di transizione e di crisi in cui avviene, tra l’altro e non a caso, anche l’accostamento al cinema. C’è, come sottofondo, l’antica e persistente radice anticapitalistica che si presenta ora, esplicitamente, come «impegno» di «demistificare l’“innocenza della tecnica”», rifiutando di subirne il «mistero» e il dominio: «Bisogna ideologizzare, bisogna deontologizzare. Le tecniche audiovisive sono gran parte ormai del nostro mondo, ossia del mondo del neocapitalismo tecnico che va avanti, e la cui tendenza è rendere le sue tecniche, appunto, aideologiche e ontologiche; renderle tacite e irrelate; renderle abitudini; renderle forme religiose. Noi siamo degli umanisti laici, o, almeno, dei platonici non misologi, dobbiamo batterci, dunque, per demistificare l’“innocenza della tecnica”, fino all’ultimo sangue». Ma c’è anche un atteggiamento più complesso […]: […] infatti, all’interno di una crisi profonda, e personalmente sofferta ed esasperata, dell’ideologia e della cultura degli anni’50, il cinema, «lingua scritta della realtà», sembra all’autore uno strumento insostituibile di identificazione, di presa di possesso , a un livello fisico immediato e tangibile , di una «realtà» altrimenti incerta e sfuggente: «Esprimendomi attraverso la lingua del cinema –che altro non è, ripeto, che il momento scritto della lingua della realtà –io resto sempre nell’ambito della realtà […] Ed è proprio questo impulso, questo «amore feticistico per le “cose” del mondo», che era stato avvertito, nella sua inarcatura «positiva», da uno dei critici più acuti dell’autore quando osservava: «Pasolini pone in sostanza il problema di un superamento del vecchio “impegno”, attraverso una presa di coscienza di quei fatti nuovi (e in particolare di quei fermenti di “rivolta” antiborghese spesso non compresi o respinti dai movimenti organizzati che al marxismo esplicitamente si richiamano), e vede nel cinema la sola
possibilità di realizzare pienamente le “necessità espressive” che quegli stessi fatti portano con sé, giacché appunto “la realtà è un linguaggio” e “il cinema è la lingua [294] scritta di tale realtà come linguaggio”» Questi paragrafi che abbiamo appena citato, per di più, fanno parte di un capitolo intitolato Il «cinema di poesia» e la riscoperta del mito , e precedono direttamente il capitolo successivo, non a caso intitolato Riscoperta del mito:Edipo re . Eppure, come abbiamo in parte già visto –e come vedremo ancor meglio più avanti –la comprensione di Ferrero per il cinema mitologico di Pasolini è pressoché nulla; non solo: anche il legame, implicitamente suggerito anche dai titoli dei capitoli, tra la frenetica produzione teoretica di Pasolini di quegli anni e i successivi film mitologici –che Ferrero sembrerebbe qui aver ben intuito –si riduce di fatto a nulla; così che il capitolo su Edipo… si apre non a caso in aperta contraddizione col precedente: «Elaborato nella fase più intensa della discussione e della polemica semiologica, con le relative sortite in pubblico, Edipo re propone [295] invece, e non a caso, un discorso privatissimo […]» . Come possono essere finite in nulla tante buone intuizioni? Probabilmente, a nostro avviso, il “difetto” va di nuovo ascritto al metodo critico utilizzato da Ferrero per affrontare la produzione teorica di Pasolini, che è, in buona sostanza, quello stesso metodo di “volgarizzazione” già impiegato da Petraglia, il quale metodo, anche in questo caso, non manca di mostrarsi tanto apparentemente ovvio e scontato, quanto, in realtà, del tutto inadeguato ad affrontare la complessità e l’intertestualità della teoresi pasoliniana. Del resto, l’aver ormai completamente escluso dal discorso, dal “canone” obbligato, quei testi di argomento linguistico (Nuove questioni… comprese, a differenza di Petraglia) che in realtà costituiscono le basi delle successive teorizzazioni cinematografiche, non era certo cosa che aiutasse una reale comprensione della questione, e molti nessi restano irrelati nella ricapitolazione di Ferrero; in questa maniera, le teorie di Pasolini perdono ogni capacità di gettare luce sulle future opere dell’autore: tutto ciò che ne rimane, agli occhi di Ferrero, è una sorta di “commiato” dagli anni’50 (a dir poco insolito e complicatissimo e dispendioso, aggiungiamo noi): Ma che altro sono, queste accorate conclusioni «teoriche», se non un diverso modo di dire, o meglio, di dire a un altro livello quel congedo dagli anni’50, di volta in volta disperato e elegiaco, sarcastico o struggente, ma ormai definitivamente consumato? [296]
Che si tratti proprio di una questione di metodo (sbagliato, inadeguato, troppo rigido e troppo a maglie larghe per riuscire a incasellare il fitto e sotterraneo brulichio della teoresi pasoliniana), lo dimostrerebbe anche il fatto che tale metodo di “volgarizzazione” continui sempre a generare gli stessi problemi anche a molti anni di distanza da Ferrero, in epoca molto più vicina alla nostra, nonostante la maggiore decantazione e la maggiore prospettiva storica concesse dal molto tempo trascorso, come quando anche Antonio Costa, nel 1993, affronta la questione in un suo libro dalla [297] natura molto composita . Anche proprio in virtù di questa particolare natura dello studio di Costa, ci prenderemo la libertà di esaminarlo percorrendolo a ritroso, dalle tesi verso le ipotesi, sicuri del fatto che questo approccio ci permetterà di evidenziare meglio alcune caratteristiche di questo testo. Partiamo dunque dall’ultima delle quattro parti in cui si suddivide il capitolo dedicato a Pasolini: in questa, passando [298] attraverso uno stretto paragone con la teoria di Bazin , Costa si occupa principalmente di analizzare «la fine dell’illusione ontologica» di Pasolini, lo «scacco» del suo «realismo ontologico», e il suo conseguente passaggio a «uno scorato nominalismo», teorizzato in vari scritti dell’epoca (Tetis (1973) e Abiura dalla «Trilogia della vita» (1975)), e concretamente incarnato da Salò… [299] . E’, questa, forse la parte più interessante e più viva dello studio di Costa, e meriterebbe ben altra attenzione, ma trattandosi di argomenti già al di fuori dell’interesse specifico di questo nostro
studio (comunque finalizzato alla comprensione dei film mitologici) ci limiteremo a trarne solo alcuni spunti di partenza. Consideriamo l’inizio di questa quarta parte: La «disperata vitalità» del cinema pasoliniano trova conferma nella Trilogia […]. Ma Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972) e Il fiore delle mille e una notte (1974) sono viaggi non solo in un passato dominato dalla pura gioia del racconto, sono anche una sorta di itinerario archeologico alla ricerca dei luoghi dove ancora abita (o abitava) la «corporalità popolare». Il viaggio di Pasolini diventa un viaggio a ritroso nel tempo alla ricerca di un corpo non ancora contaminato dall’«omologazione culturale». […] Non a caso, Pasolini liquiderà frettolosamente con L’abiura dalla «Trilogia della vita» questa stagione del suo cinema, quasi avesse attraverso quest’esperienza portato a esaurimento il nucleo teorico sul quale aveva fondato la sua teoria e la sua pratica del «cinema di poesia» e della «lingua scritta della realtà». Sono l’«abiura» e l’esperienza di Salò o Le 120 giornate di Sodoma a segnare la crisi definitiva del «realismo ontologico» che stava alla base della semiologia pasoliniana e l’approdo a un integrale nominalismo. [300]
All’interno di questo breve brano, sono già incluse tutte le premesse indispensabili al successivo corso della trattazione: in particolar modo, la proposizione che pone il «realismo ontologico» alla base della teoria semiologica pasoliniana, e che articola quest’ultima nelle tematiche principali del «cinema di poesia» e della «lingua scritta della realtà» (non a caso coincidenti coi due testi rimasti nel “canone” ristretto di Costa). Si noti anche che, in tale schematicità, i film della «Trilogia» vengono assimilati al «cinema di poesia» senza alcuna ulteriore specificazione o distinzione rispetto ai film del precedente periodo (quello compreso tra Edipo… e Medea ), che qui restano del tutto inespressi come un presupposto implicito e scontato. Nell’attuale “ricucitura” del libro di Costa, questo schema non può che fare un diretto riferimento alle precedenti sezioni del capitolo su Pasolini: lì, dunque, dovremo cercare sia le auspicabili premesse al succinto schema teorico qui tratteggiato, sia la fisionomia specifica dei film dei due diversi periodi. Per lo meno a quest’ultimo fine, in effetti, la precedente sezione terza del capitolo implicitamente provvede: infatti, così come nella quarta sezione (che abbiamo appena finito di prendere in considerazione), la teoresi pasoliniana veniva impiegata da Costa per parlare dei film dalla «Trilogia» in poi, in questa terza sezione la teoria viene impiegata appunto per parlare, invece, dei film del periodo precedente, compresi quelli mitologici che a noi interessano. Notiamo anche, però, che pure questa terza sezione, in maniera del tutto simile alla quarta, fa riferimento, per quanto riguarda invece la teoria pasoliniana in quanto tale, ad un’analisi che è già stata fatta altrove, e che ancora una volta viene solo richiamata brevemente in premessa: La semiologia del cinema di Pasolini sembra avere quindi lo scopo di affermare la possibilità di una «lingua della poesia» del cinema, senza tuttavia negare, anzi esaltando al massimo, il carattere puramente mimetico, riproduttivo dei suoi elementi costitutivi, [301] da cui deriva la «scandalosa» forza eversiva e antistituzionale di questa «lingua». Curiosamente (ma in realtà neanche tanto), rispetto all’effettivo “canone” considerato da Costa, e rispetto alla duplicità di tematiche indicata nello schema di apertura di quella parte quarta da cui siamo partiti, qui (come si può osservare), tutta la linea teorica che fa capo alla «lingua scritta della realtà» è molto meno presente, anzi quasi assente, neppure chiamata col “suo nome”; e questo a tutto vantaggio dell’altra linea, quella del «cinema di poesia». E’ infatti questo l’unico aspetto di tutta la teoresi pasoliniana che qui ora interessa veramente a Costa ai fini del suo discorso su i film che ora va a prendere in esame. Per essere più precisi, a Costa il «cinema di poesia» non serve tanto per l’analisi vera e propria dei film: in questo senso, infatti, si limita a una banale e sommaria ripetizione e rivisitazione della questione del pensiero pasoliniano strutturato per «opposizioni inconciliabili», cosa che del resto, come abbiamo visto, era stata dichiarata a suo tempo dallo stesso [302] Pasolini e che dunque non costituisce una gran novità . Come anticipato, Costa applica questa lettura a quattro film (cinque contando anche gli Appunti per un’Orestiade… ): Edipo re , Teorema ,
Porcile e Medea ; e la nozione di «cinema di poesia», o, per essere più precisi, di «lingua della poesia nel cinema», gli torna utile perché, in via preliminare, Costa vuole dimostrare come questi film costituiscano un gruppo intrinsecamente omogeneo e coerente, e non siano stati raggruppati su basi puramente cronologiche o di comodo. Costa, infatti, che con questo libro si occupa di indagare i rapporti tra letteratura e cinema, parte dal presupposto che tutti e quattro (o cinque) questi film prendono spunto da un’opera letteraria teatrale: ma questo, di per sé, non è sufficiente, perché mentre Edipo… e Medea prendono spunto da opere tragiche classiche, Teorema e Porcile prendono spunto da opere teatrali dello stesso Pasolini, e, come noto, la teorizzazione fatta da Pasolini della propria scrittura teatrale è, apparentemente, in aperta e totale contraddizione con la propria teoria cinematografica e, di più, con la propria prassi di «cinema di poesia». Era dunque necessario per Costa trovare un terreno comune su cui far convergere prassi teatrale e prassi cinematografica, per poterne dimostrare una qualche unità di fondo; a questo scopo Costa fa, effettivamente, alcune delle considerazioni più stimolanti di questa terza sezione: Sono appunto i film realizzati da Pasolini subito prima e subito dopo la realizzazione del Manifesto per un nuovo teatro che consentono una comparazione tra l’esperienza teatrale e quella cinematografica. Si tratta di un gruppo di film ispirati a tragedie classiche […] o legati all’esperienza della scrittura «teatrale», essa stessa riconducibile al modello tragico […]. E’ vero che Pasolini ha negato in più occasioni la possibilità di stabilire analogie o convergenze tra cinema e teatro. E tuttavia, è legittimo porre il problema della relazione tra la «scrittura tragica» e il cinema, non solo per la coincidenza cronologica, oltre che tematica, delle due pratiche, ma anche per la fin troppo vistosa (e quindi sospetta) contraddizione che sembra emergere tra le relative teorizzazioni. Il recupero della parola che Pasolini attua nella sua esperienza drammaturgica va inteso come recupero della parola poetica , nella forma particolare della parola tragica . Cioè, ancora una volta, di un linguaggio precostituito […]. Ritorna quindi, anche in questo caso, l’atteggiamento mimetico-riproduttivo verso un linguaggio preesistente […] quale risposta a una «crisi linguistica» […]. Alla luce di tutto questo, la poesia risulta essere l’elemento in comune tra la semiologia pasoliniana (tesa a individuare i fondamenti tecnici della «lingua della poesia» del cinema) e la scrittura tragica (risultato di un calco mimetico di quella che possiamo chiamare per analogia una precostituita «lingua della poesia» del teatro). C’è da chiedersi come mai Pasolini teorizzi il carattere pre-grammaticale del segno cinematografico e lo metta alla base della «poesia» del cinema e, nello stesso tempo, condanni il teatro del Gesto e dell’Urlo, per lo stesso carattere pre-grammaticale […]. […] questa contraddizione […] va interpretata alla luce delle differenze strutturali tra i due media che Pasolini aveva più volte teorizzato, ma soprattutto dei due diversi significati da lui attribuiti all’esperienza teatrale e a quella cinematografica. [i corsivi [303] sono dell’autore] Non contro queste interessanti considerazioni, ma contro le conseguenze che a Costa pare di doverne trarre, diciamo subito che nel prosieguo di questo nostro studio avremo modo di notare come Edipo… e Medea non siano affatto omologhi a Teorema e Porcile , né per intenti né per natura, ma costituiscano un “gruppo” a sé stante. Non solo: La scelta stessa di collocare [in Edipo… ] in epoca contemporanea il prologo e l’epilogo, impostati su figurazioni e tonalità così marcatamente diverse, anziché rinforzare l’idea di una possibilità di attualizzazione e di riscrittura del mito, lo collocano in una dimensione atemporale. Il mito si fa tanto più lontano e indecifrabile quanto più l’autore lo «lavora». Le contaminazioni tra classicità e barbarie, tra grecità e Terzo Mondo non [304] danno nuovo spessore al mito, ma lo bloccano in una fissità fuori del tempo.
Tuttavia [in Medea ] quello che conta è che la prevalenza del «frammento» esprime ormai l’impossibilità del mito a riproporsi nella sua integrità (a essere recuperato e rivissuto): lo possiamo cogliere solo confusamente, attraverso fugaci illuminazioni che [305] ne confermano la lontananza e l’oscurità. Affermazioni di questo tipo, alla fine del presente studio (se non già ora), risulteranno puntualmente e capillarmente smentite e insostenibili: per ora chiediamo al lettore di crederci anche solo sulla fiducia; più avanti daremo tutte le dimostrazioni del caso. Ma se veramente abbiamo ragione, viene da chiedersi come sia stato possibile giungere a una tale travisazione della teorizzazione pasoliniana e di quella prassi che ne è l’esito. Non dimentichiamo, allora, che le premesse iniziali (che abbiamo citato) di questa terza sezione, con la consueta forma concisa e schematica del rinvio, del “promemoria”, facevano riferimento ad una conoscenza, ad un’analisi già nota, per il lettore, delle teorizzazioni di Pasolini: già nota, in questa attuale “ricucitura”, perché riportata nelle prime due sezioni del capitolo, intitolata l’una a Il «cinema di poesia» , la seconda a La lingua scritta della realtà : ed è questo il luogo (incriminato) della “volgarizzazione”. Non a caso, quei testi linguistici che (come abbiamo più volte ripetuto) sarebbero indispensabili alla comprensione di certi passaggi delle teorie di Pasolini, pure in queste prime due sezioni sono completamente ignorati: Metz, una volta constatata l’espressività «naturale» degli elementi costitutivi del linguaggio cinematografico, aveva concentrato la sua attenzione sull’organizzazione sintagmatica di essi, cioè sui codici della narrativa filmica, non riuscendo (o non potendo) individuare un codice sottostante. Pasolini, invece, si arresta a questo livello in quanto ritiene di aver individuato qui la poesia del cinema; poesia che, anzi, viene [306] programmaticamente messa in contrapposizione alla narratività filmica. Contrapponendo in modo netto, senza sfumature, un mondo pre-grammaticale, premorfologico a quello astratto e convenzionale della lingua, Pasolini appare deciso a ricondurre il problema, enunciato in termini apparentemente semiologici, entro la sfera della sua sperimentazione stilistica, le cui origini risalgono alle giovanili esperienze friulane. […] Pasolini diede della sua esperienza poetica friulana un’interpretazione in termini di ritorno («regresso») a una realtà fisica, materica verrebbe da dire, più vicina alla sostanza di un puro e semplice esistere. […] Una medesima ansia di immedesimazione nella materialità, nella fisicità dell’espressione e del gesto si riscontra nelle prove pittoriche giovanili. […] Analoghe considerazioni possono essere fatte per l’impiego del dialetto nei romanzi romaneschi. […] Né in modo diverso va interpretato l’accostamento di Pasolini al cinema, come compimento e realizzazione di una scelta, per usare le parole di [307] Siciliano, del «segno-oggetto» in opposizione al «segno-parola». Pasolini, forzando non poco il concetto di discorso libero indiretto ed equivocando sulla stessa nozione di soggettiva, arriva a individuare le caratteristiche linguistico-stilistiche della poesia del cinema in tutti quei procedimenti che permettono una prevalenza delle istanze lirico-soggettive su quelle propriamente narrative che costituiscono l’aspetto istituzionale, codificato, convenzionale della lingua del cinema. Come il dialetto nei riguardi della lingua ufficiale, come il segno-oggetto nei riguardi del segno-parola, la «poesia» del cinema diventa forza eversiva, atto trasgressivo verso l’istituzione, verso la [308] convenzione linguistico-narrativa.
Oltre a quanto abbiamo qui citato (che sono i passi in cui si condensa il pensiero di Costa sull’argomento), resta de Il «cinema di poesia» soltanto un rapido e succinto riassunto (riassunto, come al solito, nettamente sbilanciato “a favore” della seconda parte del testo di Pasolini), cui per altro Costa aggiunge la seguente e chiarificatrice indicazione: «Saranno, però, sufficienti alcune citazioni della sua esposizione per rendersi conto che si tratta di dichiarazioni di poetica piuttosto [309] che di una trattazione semiotica […].» Ma è veramente sufficiente che una teoria sia utile ai fini di chi la scrive (ma quale teoria non nasce con dei fini e non è “interessata”?), o anche solo che sia “in linea” con le posizioni e la poetica del suo autore (e come potrebbe mai non esserlo?), perché si possa dire che essa non è una teoria ma “solo” ed esclusivamente una poetica? E’ sufficiente che una teoria non sia propriamente “esatta” (ma quale teoria, al di fuori del dominio numerico, è propriamente “esatta”?), ma che sia anche solo un sistema di pensiero filosofico, per quanto coerente e significativo, per essere “ridotta” al rango di poetica? Chi piuttosto pare ostinatamente intento a dissolvere la teoria pasoliniana in una poetica assai meno problematica e più facile e gestibile, è proprio Costa, che, non a caso, come si può facilmente constatare, non riesce in questa maniera a rendere minimamente atto dei movimenti e dei rapporti interni della teoresi pasoliniana. Ma questo cosa vuol dire? Che le sue conclusioni (quelle citate appena più sopra) siano del tutto sbagliate e da respingere in pieno? No, affatto. Il punto non è che siano erronee, ma piuttosto che, a oltre vent’anni dalla composizione del corpus teorico pasoliniano, esse sono banali, sono degli stereotipi, dei luoghi comuni: sono i luoghi comuni della “vulgata” pasoliniana, di quella “vulgata” che si è andata depositando in oltre vent’anni di “volgarizzazioni”; e se lo scarso grado di specificità e di pregnanza connaturato allo stereotipo, al luogo comune, è comunque bastevole e sufficiente ai fini di una data trattazione, allora non fa conto neppure di parlarne: è veramente sufficiente richiamare, a mo’ di promemoria quella “vulgata” che è (o dovrebbe essere) patrimonio più o meno comune di un certo pubblico di lettori. Ma qui Costa, sottobanco, sembra tentare invece la carta di una cortocircuitazione logica viziosa: usa quei luoghi comuni per spiegare quella stessa teoria che, al contrario, dovrebbe essere richiamata per spiegare e giustificare quei luoghi comuni medesimi che la volgarizzano; insomma, qui, in Costa, la “vulgata” serve paradossalmente a giustificare la “volgarizzazione”! Lo studio che ne deriva è, ovviamente, uno studio che genera un aumento di conoscenza pari a zero. Non è un caso che poi, trattando de La lingua scritta… , nella seconda sezione del capitolo, non si arrivi da nessuna parte: Sulla stessa linea de Il «cinema di poesia» si muove anche la seconda relazione che, l’anno successivo (1966), Pasolini legge a Pesaro, soprattutto per quanto riguarda l’affermazione di un realismo originario, costitutivo, del cinema e per l’interesse ancora una volta portato sulla possibilità di una dimensione lirica, soggettiva in opposizione ai [310] convenzionali usi narrativi. Come si può facilmente osservare, qui, in inizio della seconda sezione del capitolo, Costa sta già preparando quello schiacciamento della linea teorica de La lingua scritta… su quella de Il «cinema di poesia» che sarà poi pienamente operativa (come abbiamo visto poche pagine fa) nella terza sezione: d’altra parte, «Sulla stessa linea de…» è un’espressione che rende assai male la complessità di rapporti che, come abbiamo avuto modo a suo tempo di dimostrare, lega in realtà questi due testi della teoria pasoliniana. Quindi prosegue: Si tratta sicuramente del suo tentativo più organico di applicazione al cinema del modello della linguistica che costituirà il punto di riferimento essenziale anche per i suoi [311] successivi interventi in materia. [corsivo nostro] Ora, dei molti epiteti che si sarebbero potuti scegliere per questo testo, «organico» è significativo perché è uno dei meno adatti: La lingua scritta… manifesta bensì una finzione di organicità, ma solo una finzione –probabilmente intentata da Pasolini a tutto uso e consumo del proprio “pubblico”
[312] accademico . Come abbiamo già abbondantemente chiarito a suo luogo, i due percorsi teorici –quello più propriamente linguistico (doppia articolazione, grammatica, ecc.) e quello più propriamente semiologico e filosofico –sono in realtà compresenti e convergenti ma anche distinti; l’epiteto «organico» allora non può che apparirci sospetto: sospetto che queste articolazioni interne siano rimaste per Costa del tutto celate dietro al velo della “vulgata”. Del resto, e dunque non a caso, Costa fraintende conseguentemente anche lo scopo che la definizione della grammatica aveva in seno al reale sviluppo del pensiero di Pasolini, cioè (come abbiamo visto) quello di definitiva riprova, contro Metz, che la doppia articolazione proposta funzionasse davvero e che il cinema fosse [313] davvero una lingua . Non è dunque solo per una ragione di spazio, se poi Costa è costretto a dare, di questo saggio di Pasolini, solo una rapidissima rielencazione per punti, dove tutte le principali nozioni che vi compaiono sono affastellate così, indistintamente alla pari, come nella vetrina di un rigattiere: essendosi accontentato di stringere in pugno solo un’organicità di superficie (cioè un pugno di mosche), Costa non avrebbe potuto in nessun caso ricostruire i reali rapporti che le legano e il reale percorso del pensiero teoretico di Pasolini. Si arriva al punto che la grande apertura dell’idea pasoliniana della Semiologia Generale della Realtà come filosofia, non vi viene neppure menzionata… Per nostra fortuna, altri critici abbandonarono assai prima questo vicolo cieco della “volgarizzazione”, della sistematicità “ad ogni costo”, superficiale e inconcludente; magari, al limite, anche a costo di ridurre il loro personale “canone” a uno solo dei tanti testi teorici di Pasolini, ma affrontandolo finalmente con un tipo di approccio più adeguato e proficuo, capace di penetrare nelle pieghe del discorso, e di trarne un reale arricchimento per la comprensione dei singoli film. Che è ciò che fece Micciché già nel’75, lavorando sul saggio intitolato Osservazioni sul [314] piano-sequenza : a partire dalla teoria (che noi stessi abbiamo già brevemente citato) del cinema come piano-sequenza infinito, e dai relativi corollari sul ruolo del montaggio e sui rapporti di similitudine tra questo e la morte, Micciché fa una serie di interessanti osservazioni: In una delle sue conversazioni semiologiche sul cinema risalente al 1967 (e ripubblicata [in] «Empirismo eretico» [già citata in questo studio alle pp. 85 - 86 ]), Pasolini rifiuta con cordiale sdegno la domanda di un intervistatore il quale esprime il sospetto che gli sforzi pasoliniani per una definizione semiologica del cinema siano gli epifenomeni di una esigenza stilistica […]. Ma, e sia detto con la minore «disumanità» possibile, le teorizzazioni pasoliniane a proposito del cinema come «lingua scritta dell’azione» e della realtà come «cinema in natura», illuminano sul mondo poetico dell’artista assai più di quanto non attestino il rigore scientifico del suo approccio semiologico. Qualche mese dopo […], Pasolini parte dal «piano sequenza» nel cinema e giunge a dire cosa egli pensa della morte. […] E subito aggiunge, con una conclusione apparentemente sconnessa: «Il montaggio opera dunque sul materiale del film […] quello che la morte opera sulla vita». Ora, […] ci si accorge agevolmente come Pasolini sia vicino (esistenzialmente) all’affermazione sartriana secondo cui l’uomo, alla propria morte, non è che la somma dei propri atti e (cinematograficamente) a quella cocteauiana secondo cui il cinema documenta «la morte al lavoro». E facilmente ci si accorge, altresì, quale antica radice abbia in Pasolini quella ferale «disperata vitalità» […] «vita furente (o nolente)(o morente)» che il poeta «svela» nel 1963 come la sua «vera passione» […] primaria […] grundform poetica della produzione artistica pasoliniana [315] […]. Ora, un simile giudizio sullo scarso rigore scientifico della semiologia pasoliniana è forse fin troppo rigido: figlio, forse, di un sotterraneo dogma positivistico della scientificità, o figlio dell’incapacità di riconoscere alla filosofia per lo meno un grado intermedio di legittimità tra la dichiarazione [316] unilaterale di poetica e la Scienza esatta con la “S” maiuscola . Ma, ciò detto, resta soprattutto il fatto che è proprio per tramite di queste osservazioni, suggerite appunto da una significativa
considerazione delle riflessioni teoriche di Pasolini, che Micciché è potuto giungere a quello che è tutt’oggi uno dei più interessanti e significativi tentativi (lo abbiamo visto) di sistemazione globale dell’opera pasoliniana. Peccato solo che Micciché non dedichi altrettanta attenzione ad altri aspetti importanti della teoria pasoliniana: è infatti anche per questo motivo che i film mitologici di Pasolini non riescono a trovare una vera collocazione nel suo quadro critico. Anche quando nel 1999 Micciché tornerà sull’argomento Pasolini, mantenendo invariata (come detto) l’impostazione critica di base, si occuperà solo di questo aspetto della teoria pasoliniana, aggiungendo per altro alcune ulteriori osservazioni molto interessanti: La realtà è che manca qualcosa, qualcosa di niente affatto trascurabile, al discorso pasoliniano sulla morte, al montaggio fulmineo che essa compie della vita e il senso che essa le dà, discorso dal quale sono partito: ed è che la morte trasforma un soggetto in un oggetto […]. Accade così che, nel «rimontarne» la vita e nel darle un «senso», finiscano per prevalere, quasi inevitabilmente, le regole della «grammatica» e della «sintassi» esistenziali dominanti: il «senso» che così acquisisce un «vissuto», lungi dall’essere quello che avrebbe in qualche modo voluto chi lo visse, è consono, o quanto meno tende ad esserlo, con la «sensatezza» (intesa come capacità di leggere un «senso») dei sopravviventi e del loro esistente «ideologico», «morale» ed «esistenziale». In altri termini la Morte compie, sì, «un fulmineo montaggio della nostra vita» […] ma quel «montaggio», quella «scelta», quella «descrizione» non appartengono più al senso, imperscrutabile e infinito, che la vita ha per noi bensì a quello scrutabile e finito che la nostra vita ha per gli altri. La morte razionalizza, a suo modo, quell’irrazionale che è [317] stata la nostra esistenza. Ma in questo “contributo alla chiusura del Senso” offerto, da chi “guarda”, per la trasformazione della soggettività in oggettività, il parallelismo tra cinema e vita inizialmente indicato da Pasolini [318] non avrebbe dovuto semmai trovare un rafforzamento e una ulteriore conferma ? Più interessante per noi, e più utile ai nostri scopi, è l’intervento di Fusillo: non solo la maggiore prospettiva storica concessa dal lungo tempo trascorso gli permette di guardare ormai con un certo salutare distacco alle passate polemiche semiologiche, ma la più moderna e smaliziata trasversalità del suo approccio, gli permettono una veduta assai ampia della teoresi pasoliniana, senza però ricadere nelle “secche” della sistematicità e della sincronicità volgari. Soprattutto –ciò che per noi è più significativo –non esiterà a inserire organicamente la trattazione delle teorie di Pasolini nel capitolo del suo libro dedicato a Medea : [Medea ] segna l’approdo di una costante profondamente radicata in tutto l’universo pasoliniano, che possiamo sintetizzare con la formula della sfiducia nel logos. Tanto nel Pasolini poeta in friulano […], quanto nel Pasolini narratore in romanesco il dialetto è infatti valorizzato […] perché più lontano dalla prigione simbolica del linguaggio, e più vicino alla sacralità della comunicazione arcaica. Questo rifiuto tendenziale del codice linguistico diventa radicale nell’attività di regista cinematografico, che si orienta sempre più in una direzione non verbale, antiletteraria: del cinema lo attraevano […] la fisicità onirica, la violenza espressiva, il carattere pregrammaticale, visionario, irregolare, aggressivo, barbarico. […] Negli stessi anni in cui Christian Metz dava inizio alle ricerche semiologiche sul cinema, partendo dall’idea di un linguaggio senza lingua, Pasolini giunge a conclusioni [319] simili [sic ], estremizzate però nella tesi un po’ provocatoria che la lingua del cinema è la Realtà stessa, in quanto lo spettatore decodifica le immagini filmiche con gli stessi parametri con cui decodifica la realtà. Fu facile per Umberto Eco attaccare l’ingenuità semiologica di questa posizione […], e inserire poi Pasolini nella schiera delle «metafisiche pansemiotiche», assieme a Platone e allo Pseudo Dionigi l’areopagita. E più di una volta le teorie pasoliniane sono state accusate di scarsa scientificità: di essere solo le riflessioni poetiche di un artista (il che fra l’altro non è
certo una colpa). Dopo la crisi che ha colpito lo strutturalismo e la semiotica, e le loro ambizioni illuministiche a essere scienze esatte –ambizioni guardate con scetticismo da Pasolini […] –si è creato invece un terreno fertile per la rivalutazione delle teorie pasoliniane: Gilles Deleuze, ad esempio, ha ripreso il concetto di «soggettiva libera indiretta», mentre Naomi Greene ha tracciato paralleli con Jakobson, i formalisti russi […] e con Bacthin […], e Antonio Costa con le teorie di Bazin. Fino a giungere alla vera e propria riabilitazione con un articolo di Giuliana Bruno, che ha istituito vari paralleli con altri teorici (lo stesso Eco, Metz, Lacan, Peirce) e ha insistito sui temi del corpo e della passione, e con il libro di Maurizio Viano, che ha dato una lettura assai [320] meno ingenua della definizione del cinema come «lingua scritta della realtà» […] Qui comunque ci interessa solo constatare come la “sfiducia nel logos”, che serpeggia in tutto Pasolini e che ha in Medea il suo punto culminante, trovi negli scritti sul cinema di Empirismo eretico anche una sua espressione teorica. Il punto di partenza è un dato su cui hanno insistito da sempre i teorici del cinema, anche se da angolazioni diverse: l’effetto di realtà come tratto distintivo del linguaggio cinematografico […]. Pasolini non fa che estremizzare questo tratto, per farlo corrispondere a quello che, secondo una sua nota affermazione, è il nucleo centrale di tutta la sua poetica: «un infantile, allucinato, e pragmatico amore per la realtà», un’ansia di possesso totale che caratterizza la sua opera come il suo vissuto. In questa esaltazione feticistica della realtà […], che potrebbe sembrare un residuo neorealista, c’è invece un’idea decadentista (pascoliana): la poesia è una sostanza che c’è già nel reale, prima di ogni espressione artistica. La novità pasoliniana è la convinzione che il cinema, proprio perché arte giovane, poco codificata e codificabile, possa ancor più della poesia giungere al mistero ontologico delle cose: per amore di questa tesi Pasolini giunse talvolta a sminuire il carattere retorico del linguaggio filmico. Per questo motivo il suo espressionismo poetico termina quando inizia l’attività cinematografica, cioè con la stesura della Religione del mio tempo (lo ha dimostrato Walter Siti […]): il cinema rappresenta infatti una forma più diretta di espressionismo, una violenza edipica maggiore sui codici […] Quanto sostenuto finora potrebbe ancora far pensare a un realismo meccanico: ma Pasolini distingueva tra il continuum del cinema, equiparabile al flusso esistenziale, al lungo piano sequenza che è la vita, e la strutturazione del film, con i suoi «ritmemi», e con la sua finitezza che rimanda alla morte. D’altronde tutta la sua poetica è assai lontana da ogni forma di naturalismo: la realtà gli appare misteriosa, sacra, ambigua, ma mai naturale. Anzi, per Pasolini l’alienazione ha inizio proprio quando il barbaro comincia a considerare naturale la realtà, e a contemplarla secondo un’ottica spaziotemporale creatrice di illusione. Il cinema non sfugge certo a quest’ottica spaziotemporale, o, per dirla in termini psicanalitici, sta sempre e comunque dalla parte del secondario; ma, soprattutto se si libera da una certa convenzionalità narrativa, può recuperare, grazie alla sua maggiore immediatezza corporea, una visione sacra e barbarica del mondo. Gli scritti sul cinema danno quindi una veste teorica a quella nostalgia per lo stadio libidinale preedipico, pregrammaticale, prerazionale, che abbiamo già riscontrato nell’Edipo re ; una regressività che supera quindi il sostrato decadente e pascoliano, creando un’opposizione fra verbale e visivo, in cui il secondo termine possiede tutti i [321] tratti positivi dell’autenticità esistenziale […]. Come si può vedere, Fusillo riesce, per questa via, ad assegnare all’impresa teorica pasoliniana un senso molto più pregnante e più organico al resto dell’opera del nostro autore. Eppure, per l’ennesima volta, ormai sul finire di questa nostra succinta ma faticosa rassegna critica, dobbiamo riconoscere che ciò a cui maggiormente non siamo ancora riusciti a rendere merito e giustizia, è, ancora, proprio quella grandiosa visione sacrale di Pasolini che tendeva a fare «dell’intero vivere un parlare» da cui abbiamo preso le mosse. Per gettare maggiore luce sulla questione, non resta che ricorrere ancora una volta al non specialista Conti Calabrese:
Perché poi [Pasolini] scelga di addentrarsi in una materia [la semiologia] fino a quel momento sconosciuta, tanto da attirarsi ammonimenti e critiche di “sprovvedutezza” e “ingenuità” dagli specialisti, è un quesito che può trovare risposta nella suggestione da lui avvertita nel passare da autore a teorico del cinema. Il fascino si concentra nella possibilità di inaugurare, mediante quella che chiama “semiologia generale della realtà”, [322] una “filosofia” in grado di interpretare la realtà come linguaggio. Pasolini pur ricorrendo a una terminologia semiologica sembra convertire e piegare questa ad altri scopi […]. Il linguaggio detto “dell’azione”, ossia la realtà, si muove in un dialogo incessante con se stesso […]. E non a caso proprio a questo livello tale linguaggio è analogo alla lingua orale, nel senso di presentarsi con una struttura permanentemente legata –in un rapporto di continuità –a quelle primigenie figure archetipiche che collegano l’inconscio o l’“anima” alla complessità della materia articolata nelle molteplici forme della vita. La “lingua dell’azione” appare come un primordiale sistema di segni, estremamente variegato, ma già codificato in un preciso codice riconducibile a quelle fasi d’indistinzione uomo-natura che da sempre permette di decifrare quel continuo parlare che è la realtà. Convinzione di Pasolini è che questo linguaggio può finalmente essere studiato semiologicamente facendo ricorso alla cinematografia capace, tramite i singoli film, di [323] inverarlo e descriverlo con una grammatica e una sintassi proprie. Questo significa che la “lingua audiovisiva” col raffigurare la vita nella chiara e netta differenza delle sue forme ne mostra il rinviarsi al proprio mistero […] In tal modo Pasolini ritiene di essere sempre in mezzo alle cose, agli uomini, a ciò che lo interessa di più nella vita, cioè la vita stessa. Ma lo è in modo particolare o almeno […] lo è a un livello che, pur trattenendolo in una relazione di continuità con la realtà, gli consente tuttavia di esserne cosciente: […] «Il cinema infatti riproducendo la realtà, ne evidenzia la sua espressività, che ci poteva essere sfuggita. Ne, fa insomma, una semiologia [324] naturale.» Per risalire alle ragioni principali che spingono Pasolini non solo a dedicarsi alla cinematografia, ma anche a farsene teorico, bisogna leggere tra le pieghe del discorso l’esigenza di perseguire un linguaggio e quindi un pensiero che nel trattenerlo in un rapporto di continuità con la realtà lo guidi anche a viverla e a esperirla come ciò che in ogni istante può disvelarne il mistero: il sacro che nel darsi in quanto unità di presenza e assenza potrebbe essere inteso da una coscienza di nuovo aperta ad accoglierlo. Mosso da tale intenzione Pasolini pensa di ricorrere alla “semiologia della realtà” come a un moderno codice di comunicazione che per modalità di creazione e di fruizione si propone con le identiche caratteristiche del linguaggio del mito, o meglio lo riattualizza quale forma espressiva del sacro. I suoi saggi di cinema devono quindi essere studiati come testi da cui emerge il tentativo di elaborare concettualmente quella che altrimenti sarebbe rimasta solo un potente intuizione poetica. Alla volontà di dimostrare quanto il cinema sia la lingua scritta della realtà, consegue l’intenzione di un pensiero poetante in grado di rendere alla coscienza il senso della perdita del sacro. L’obiettivo di Pasolini è di proporre il linguaggio in quanto realtà come una ierofania, prospettiva secondo cui il cinema dovrebbe assumere le identiche caratteristiche del mito e cioè descrivere le varie forme tramite cui il sacro si manifesta nel mondo. E’ evidente allora che dalla eliadiana concezione del mito Pasolini trae alimento nell’esposizione di quella che sarebbe dovuta diventare una “semiologia generale della
realtà”. Il progetto rimane incompiuto, ma è possibile rintracciarne la struttura [325] enucleandone gli elementi riconducibili proprio alle teorie di Eliade. Abbastanza curiosamente, Conti Calabrese, per solito sempre così ben informato sui rapporti tra Pasolini ed Eliade, tralascia di menzionare, a sostegno di questa sua interpretazione della teoria pasoliniana, una prova, un tassello fondamentale –sorta di vera e propria “chiave di volta” dell’intero sistema –la cui importanza è tale da poter finalmente gettare piena luce non solo su quella grandiosa visione conclusiva che fa «dell’intero vivere un parlare», ma su tutta quanta la riflessione di Pasolini; tale cioè da riuscire a chiarire e giustificare definitivamente come Pasolini sia potuto arrivare a tramutare il proprio interesse / impegno socio-antropologico legato alle tematiche della perdita del sacro e dell’«ordine orrendo», in un interesse / impegno linguisticosemiologico tutto impregnato di mito (se è giusta la tesi di Conti Calabrese), e passibile di concreto impegno e di concrete realizzazioni in un ambito di magistero artistico in cui enunciare vuol dire concretamente realizzare un testo e farlo interagire con un pubblico. Quest’ultimo tassello era, ed è, sotto gli occhi di tutti, ma nessuno, per quanto ne sappiamo, lo ha mai citato: si è perso come un oggetto troppo noto su una scrivania ingombra di carte, davanti agli occhi e tuttavia invisibile. Questo tassello altro non è che un brano di quel Mito e realtà di Eliade di cui abbiamo parlato quasi all’inizio di questo studio, e di cui si era anticipato che era cosa importantissima che la recensione contenuta in Descrizioni di descrizioni ne dimostrasse l’approfondita conoscenza da parte di Pasolini: L’uomo delle società in cui il mito è cosa vivente, vive in un mondo «aperto», anche se «cifrato» e misterioso. Il Mondo «parla» all’uomo e, per comprendere questo linguaggio, basta conoscere i miti e decifrare i simboli. […] Il Mondo non è più una massa opaca di oggetti arbitrariamente gettati assieme, ma un Cosmo vivente, articolato e significativo. In ultima analisi, il Mondo si rivela come linguaggio . [corsivo [326] dell’autore] A questo punto, allora, parafrasando Pasolini, potremmo dire che il cinema è la ierofania scritta di una realtà sacra e perciò sensata . Naturalmente, a rigore, la pubblicazione di Descrizioni… è un termine post quem troppo alto (1979) rispetto alla compilazione del corpus teorico di Empirismo… , e resta un po’ troppo alto anche se andiamo a considerare la data di pubblicazione dei singoli articoli (che inizia dal 1972). Ovviamente, però, in quei tre anni che corrono tra il’72 e il’75 Pasolini recensisce anche libri che ha letto in anni precedenti, e, del resto, come abbiamo visto nell’intervista fattagli da Duflot, Pasolini non solo cita Eliade come una delle principali fonti per Medea , ma lascia intendere (come farà anche in Descrizioni… ) un’ampia familiarità con questo autore: cita anche espressamente un titolo, Storia delle religioni , che è con ogni probabilità una citazione accorciata dell’esatto titolo del Trattato di storia delle religioni . Ora, si dà il caso che nell’opera di Eliade si trovino molti brani analoghi e paralleli a quello che noi abbiamo appena citato, e che si fermano appena un passo prima di questo, prima cioè di esplicitare completamente il darsi come linguaggio della realtà sacra: è nostra convinzione che Pasolini sarebbe potuto arrivare ad analoghe conclusioni anche partendo da uno qualsiasi di questi altri brani di Eliade e passando per le proprie riflessioni di ordine linguistico e antropologico; nel qual caso –nel peggiore dei casi –il brano che noi abbiamo appena citato sarebbe come minimo la prova di una straordinaria affinità di pensiero. Così infatti si esprimeva Eliade in altri passi della sua vasta opera: Naturalmente questo simbolismo acquatico non è manifestato in nessun luogo in modo concreto, non ha «sostegno», è formato da un insieme di simboli interdipendenti e [327] integrabili in un sistema; nondimeno è reale. L’integrazione di una ierofania nel simbolismo in essa implicito è un’esperienza autentica della mentalità arcaica, e tutti quelli che partecipano a tale mentalità vedono realmente il sistema simbolico in qualsiasi sostegno materiale. [corsivo dell’autore] [328]
Da questo punto di vista, il simbolismo si presenta come un «linguaggio» […]
[329]
Abbiamo di conseguenza il diritto di parlare di una «logica del simbolo», nel senso che i simboli […] sono sempre coerenti e sistematici. Questa logica del simbolo oltrepassa il campo della storia delle religioni propriamente detta e prende posto fra i problemi della [330] filosofia. Quel che potremmo chiamare il pensiero simbolico permette all’uomo di circolare liberamente attraverso tutti i livelli del reale. […] E vi è di più: l’esperienza magicoreligiosa permette la trasformazione dell’uomo stesso in simbolo. […] L’uomo non sente più di essere un frammento impermeabile, è invece un Cosmo vivo, aperto a tutti gli altri Cosmi vivi che lo circondano. Le esperienze macrocosmiche non sono più esterne per [331] lui […] [corsivi dell’autore] Dal momento che ci si pone dal punto di vista dell’uomo religioso appartenente alle società arcaiche, si constata che il Mondo esiste perché è stato creato dagli dèi , e che l’esistenza del Mondo “ha” un significato, che il Mondo non è muto né opaco, non è una cosa inerte, senza scopo e senza senso. Per l’uomo religioso il Cosmo “vive” e “parla”. [332]
E se già più volte, in questo stesso capitolo, abbiamo avuto modo di rimarcare come il realismo di Pasolini fosse tutt’altro che un realismo ingenuo, varrà ancora la pena di osservare come questa affinità e/o discendenza da Eliade valga in effetti anche a spiegare perché la teoria di Pasolini prenda la forma proprio di un realismo: […] per i “primitivi”, così come per l’uomo di tutte le società premoderne, il sacro equivale a potenza e, in fin dei conti, alla realtà per eccellenza. Il sacro è saturo d’essere. […] L’opposizione sacro-profano si traduce spesso in un’opposizione tra reale e irreale (o pseudoreale). […] E’ quindi naturale che l’uomo religioso desideri [333] profondamente essere, partecipare alla realtà , riempirsi di potenza.
La manifestazione del sacro fonda ontologicamente il Mondo.
[334]
E’ comunque su queste basi che Conti Calabrese può così svolgere le proprie riflessioni: Si può dire che la morte/montaggio compie una concreta trasposizione di quel pragma della vita, la realtà in quanto linguaggio, in una unità semantica che può così dotarsi di un proprio senso, altrimenti inesprimibile per le eventuali e continue modificazioni cui andrebbe incontro se non conoscesse alcuna fine. […] La morte nell’operare una rapida sintesi della vita passata ne diviene luce retroattiva, […] trasceglie i punti essenziali facendone degli atti mitici o morali fuori dal tempo. E’ questo il modo grazie a cui una vita diventa una storia. Non c’è da aggiungere altro per verificare come Pasolini pensi alla tecnica cinematografica quale possibile riproposizione in epoca moderna del linguaggio del mito, che si rende esplicita quando nel parlarne ricorre a parole quali “esempio” o “storia esemplare” per indicare il fine che con i film la cinematografia realizza. I termini sono ripresi dall’Eliade […]. Inoltre è possibile riconoscere nella stessa relazione tra
cinema e film una decisiva somiglianza con quella esistente tra mito e racconto mitico: come non esiste il mito in astratto, ma solo dal momento in cui si fa racconto mitico, così non esiste il cinema ma il film in quanto concreta espressione di un linguaggio narrante. […] Pasolini lo percepisce nitidamente durante le riprese dei suoi film: «quando giro un film, mi immergo in uno stato di fascinazione davanti a un oggetto, a una cosa, un viso, gli sguardi, un paesaggio, come se si trattasse di un congegno in cui stesse per esplodere il sacro… Parlo del sacro, cosa dopo cosa, oggetto dopo oggetto, immagine dopo immagine». […] Dedicandosi alla realizzazione di film Pasolini compone dei miti della realtà. [335] [corsivo nostro] Pasolini ritiene di rendere cosciente l’uomo del suo inevitabile corrispondere alla chiamata del sacro, malgrado ne abbia dimenticato la fonte. Con il provare l’esistenza di un “codice dei codici” […] chiarisce che la realtà, cioè il sacro, si manifesta sempre come linguaggio in quelle che sono anche le azioni dell’uomo. Con il ricorso alla lingua del cinema/mito l’intenzione pasoliniana non è tanto quella di risacralizzare la realtà (essa è già sacra in sé), ma di dare coscienza che la perdita del sacro è determinata dall’avere smarrito la sua sacralità. […] Solo così per Pasolini sarebbe possibile uscire da quell’oblio in cui l’uomo moderno sembra essere precipitato e che lo mantiene nell’illusione di vivere e pensare sempre in funzione di una semplice presenza che sia il futuro, il fine o altro, a cui finisce per sottomettersi nel pensare d’“impadronirsene”. In un certo senso si può dire che la “semiologia generale della realtà” di cui parla Pasolini, e che gli consente di scoprire il “linguaggio primo”, realizza nei suoi film la produzione di miti, con i quali è riuscito a tradurre il venire in presenza del sacro tramite l’“ur codice”, che mostra il suo rivelarsi e ritirarsi in quella lingua scritta della realtà quale è il cinema. Pasolini ha potuto mostrare che il sacro con il “codice dei codici” non solo appella l’uomo ma reclama la sua risposta; ingiunge che il suo dire originario sia ri[336] detto con parole umane, ossia culturali. Ebbene, se ora noi provassimo a ricucire insieme tutti i buoni suggerimenti che si possono trarre dagli interventi critici fin qua esaminati, e dalla nostra personale rilettura delle teorie di Pasolini, ci accorgeremmo di essere infine giunti (quasi senza neppure rendercene conto) a dare una risposta a quel quesito con cui avevamo chiuso il precedente capitolo di questo nostro studio, e cioè: qual è la reale collocazione dei film mitologici in seno all’insieme dell’opera cinematografica di Pasolini? Ma certo sarebbe una cosa a dir poco avventata il tentare già una risposta a un quesito così importante, senza prima aver dato neppure un’occhiata all’altra opera fondamentale di Pasolini sul mito, e cioè Medea : Il film dedicato da Pier Paolo Pasolini al mito di Medea provocò, alla sua comparsa nel 1970, una serie di reazioni negative in una certa critica militante, ossessionata dal dogma dell’impegno civile: si parlò quindi di involuzione estetizzante, di gusto arcaicistico, di tentazione spettacolare, invocando i nomi di D’Annunzio e di Cocteau. In realtà Medea rappresenta, con coerenza assoluta, il punto di arrivo dell’itinerario [337] antico di Pasolini […].
La madre.
In verità, giudizi su Medea così positivi come quello di Fusillo citato in chiusura del precedente capitolo, sono (purtroppo) piuttosto rari; non è mancato neppure chi si è espresso in maniera diametralmente opposta, come Ferrero: […] perché poi se c’è un film innocuo e inoffensivo è proprio questo [Medea ], confezionato con tutte le carte in regola, a cominciare dalla solleticante, se pur rovinosa nei risultati, combinazione Pasolini-Callas. Medea , lo volesse o no l’autore, è un tipico prodotto di consumo […] raggelato in un apparato scenografico-spettacolare inerte e [338] compiaciuto. [corsivo nostro] Ovviamente, tra Fusillo e il «tipico prodotto di consumo» di Ferrero, non sono mancati gradi intermedi di giudizio: qui però non staremo ad elencarli uno a uno, perché tanto non otterremmo altro che di riprodurre i noiosi cataloghi già visti trattando dell’Edipo re , sostanzialmente tutti sempre all’insegna delle solite accuse di «disimpegno», «decadentismo», ecc.; in questo caso, per di più, col sottinteso diffuso che Medea non sia sostanzialmente altro che la brutta copia di Edipo re [339] . Una certa notevole concordanza di opinioni si può però osservare anche tra quei “pochi” che hanno invece apprezzato il film: quasi un altro vero e proprio canone interpretativo. Ovviamente, a cominciare –o, meglio, per finire –da Fusillo: Nella letteratura occidentale la figura di Medea è sempre stata, pur fra mille varianti, un paradigma della potenza distruttrice di eros, legata intimamente all’emarginazione sociale. […] i poeti antichi e moderni hanno in genere utilizzato tre motivazioni base […]: 1) il carattere soprannaturale del personaggio, che crea una distanza dall’universo del destinatario (Medea demonica); 2) il conflitto fra civiltà occidentale e civiltà orientale (Medea barbara); 3) la violenza del sentimento amoroso (Medea innamorata). […] La Medea di Pasolini si inquadra nella seconda tipologia, che valorizza il conflitto [340] di culture […] […] Medea e Giasone sono infatti due personaggi simbolici, che rappresentano da una parte una cultura primitiva, magica e sacrale, dall’altra una cultura moderna, razionalistica e borghese (vista comunque nel suo formarsi); a questa bipolarità culturale se ne sovrappone una psicanalitica tra Es ed Ego (Pasolini affermava fra l’altro di aver concepito Giasone e Medea come un unico personaggio), e una politica tra Occidente e [341] Terzo Mondo […] […] a livello psichico, l’errore di Giasone consiste nel rimuovere l’istanza dell’Es, e nel non riconoscere l’amore per Medea, non identificandosi quindi con la sua condizione di donna emarginata, sradicata dal suo contesto culturale; a livello antropologico, l’errore della società razionalistica rappresentata da Giasone consiste nell’eliminare il sacro [342] dalla nuova dinamica sociale. Medea secondo Pier Paolo Pasolini è la storia di un conflitto irrisolvibile, visto alla sua nascita in un mondo primitivo e primordiale: Giasone non è ancora un eroe tutto moderno, ma un ragazzo incosciente […]: è il razionalismo borghese (rappresentato soprattutto dal Centauro e da Creonte) che lo spinge a rimuovere l’amore per Medea. Tutta la curva drammaturgica del film vuole visualizzare l’assurdità di questa rimozione, senza sfociare nella morte, ma ribadendo solo il punto di non ritorno a cui porta l’abbandono del mitico, cioè del barbarico: un abbandono che Medea compie per amore di Giasone, per essere poi sfruttata e abbandonata a sua volta […]. Dal conflitto fra cultura arcaica e cultura moderna Pasolini non vuole far trionfare la prima,
irrimediabilmente perdente, né demonizzare la seconda, ma solo mostrare l’unilateralità ingenua di una società che crede di aver superato il sacro, di aver controllato le passioni. […] E’ la fase in cui, forse, si sarebbe potuto ancora conciliare i due poli, a differenza che nell’oggi: Medea racconta dunque l’origine mitica dell’alienazione borghese, [343] tragicamente ineluttabile. Prima di Fusillo, già qualche altro studioso aveva espresso un giudizio sostanzialmente positivo (o, comunque, non negativo e liquidatorio) giungendo a conclusioni molto simili: ad es., il già più volte [344] citato Murri . L’idea del film, al quale Pasolini lavorava già da qualche anno, è di non narrare la storia di Medea attraverso gli eventi della tragedia, ma di tradurre in immagini le “Visioni della Medea”(questo era il titolo provvisorio del film), frutto della dilacerazione della protagonista di fronte al rapporto irrisolto tra passato e presente: passato e presente che [345] coincidono con due epoche distinte, con due differenti fasi della civiltà. Ecc… E prima di Murri, tanto per fare ancora qualche altro esempio, potremmo citare anche i brevi saggi [346] [347] di Giorgio Simonelli e di Pier Cesare Rivoltella , entrambi contenuti in un volume curato da Annamaria Cascetta. Rivoltella, in particolare, nel corso di un’analisi assai pignola della prima parte del film (l’antecedente mitico), giunge a conclusioni di questo genere: Ad un primo livello, sul piano psicologico-narrativo , la diegesi si regge sulla dialettica del binomio Medea-Giasone, del loro diverso modo di sentire, di atteggiarsi, di «approcciare» l’esistenza […] Questo confronto dal livello individuale si apre ad includere e significare l’orizzonte più ampio, socio-etnologico , delle relazioni tra civiltà diverse: da una parte la realtà ancestrale, pregna di ritualità e di religiosità, delle comunità meno evolute, dall’altra la realtà evoluta e culturalmente avanzata delle società civilizzate. […] Infine, sul piano filosofico e religioso , l’analisi etnografica […] cede il passo al confronto tra istanze astratte che aprono la riflessione sulla condizione della nostra contemporaneità, in cui la ragione ha sostituito la natura, la ritualità ha ceduto il passo al calcolo dell’utile, l’orizzonte del sacro si è eclissato. [tutti i corsivi sono dell’autore] [348]
La crisi della cultura moderna diventa, allora, l’orizzonte ultimo di comprensione dell’opera. In tale contesto, l’uomo moderno vive una radicale scissione tra il suo ineliminabile sostrato filogenetico, quello simbolico, irrazionale e religioso del mondo [349] mitico, e l’esigenza indotta di un prevaricare della ragione su questi valori. Del resto, non c’è da stupirsi di questa ampia comunanza di vedute, dal momento che si fonda su solide basi: tutte queste considerazioni, infatti, come noto, non fanno che chiosare e ampliare le dichiarazioni fatte al riguardo dallo stesso Pasolini e da noi già citate all’inizio del precedente capitolo (cfr. pp. 82 - 83 ): In «Medea» […] la situazione «tesi» (mondo barbarico mitico-realistico) e la situazione «antitesi» (mondo moderno laico-manieristico) non ottengono in alcun modo […] di pervenire a una sintesi: restando pure «opposizioni». E ciò è chiaramente teorizzato dal Centauro. […] E non solo dalle sue parole, ma anche dalla sua doppia contemporanea [350] apparizione fisica.
Da cosa nasce la «speranza», quella della prassi marxista e quella della pragmatica borghese? Nasce da una comune matrice: Hegel. Io sono contro Hegel (esistenzialmente –empirismo eretico). Tesi? Antitesi? Sintesi? Mi sembra troppo comodo. La mia [351] dialettica non [è] più ternaria ma binaria. Ci sono solo opposizioni, inconciliabili. Pasolini, d’altra parte, aveva svolto queste considerazioni anche all’interno del film stesso. Così come già abbiamo fatto per l’Edipo… , proviamo dunque ancora una volta ad affrontare il testo filmico seguendo la falsariga di Fusillo, che deve pur sempre essere considerato come un testo di riferimento per il cinema mitologico di Pasolini, e che, nel bene e nel male, rappresenta anche il vertice e (per ciò stesso) l’esito ultimo e più significativo di un certo tipo di approccio critico: Una scena di taglio programmatico chiarisce allo spettatore della Medea pasoliniana questa impostazione bipolare. In un film dominato da una poetica del silenzio […], si trovano parti in cui la parola (ma non il dialogo) gioca un ruolo vitale: ed è una parola teorica, ideologica. Nella principale cesura del plot –il passaggio cioè dalla sezione dedicata al viaggio degli Argonauti alla sezione che si svolge a Corinto –Giasone reincontra, all’esterno della reggia, il Centauro da cui era stato educato, e che all’inizio del film era comparso prima metà uomo e metà cavallo, poi in forma interamente umana. […] a questo punto lo spettatore scopre, assieme al personaggio [Giasone], che entrambi i Centauri sono presenti, impersonati dallo stesso attore, Laurent Terzieff, con una soluzione del tutto antinaturalistica. Giasone chiede allora se si tratta di una visione, e gli risponde il Centauro umano: «Se lo è, sei tu che la produci: noi due siamo infatti dentro di te»; «ma io ho conosciuto un solo Centauro…», replica Giasone; il Centauro precisa allora: «No, ne hai conosciuti due: uno sacro, quando eri bambino, uno sconsacrato quando sei diventato adulto. Ma ciò che è sacro si conserva accanto alla sua nuova forma sconsacrata. Ed eccoci qua, uno accanto all’altro!». Alla domanda sulla funzione del vecchio Centauro, conosciuto da bambino, viene data una risposta assai pregnante: «Esso non parla, naturalmente, perché la sua logica è così diversa dalla nostra che non si potrebbe intendere… Ma posso parlare io per lui. E’ sotto il suo segno che tu –al di fuori dei tuoi calcoli e della tua interpretazione –in realtà ami Medea.» «Io amo Medea?» «Sì. E inoltre hai pietà di lei, e comprendi la sua… catastrofe spirituale… il suo disorientamento di donna antica in un mondo che non crede in nulla di ciò in cui lei ha sempre creduto… la poverina ha avuto una conversione alla rovescia, e non si è più [352] ripresa…» Si tratta dunque di una scena che, al centro del film, ne svela il nucleo assiologico […]. In una intervista con Sergio Arecco, il regista dichiara la sua sfiducia in ogni forma di sintesi hegeliana, e il suo credere a polarità binarie […]. Medea è l’esempio più radicale di questa sua tendenza, dato che è un film tutto basato sulla figura retorica dell’antitesi, tanto a livello espressivo, nell’organizzazione del racconto, tanto a livello semantico, [353] come conflitto fra mondi. E fin qui nulla da ridire: tutto questo lavoro di chiosatura appare assolutamente condivisibile; ed ha per lo meno il pregio (non piccolo), rispetto a quanto sostenuto da altri, di non presentare il lavoro mitologico di Pasolini come un’operazione improvvisa e inspiegabile, priva di senno e fuori dalla storia. Una certa inquietudine potrebbe invece sorgere, semmai, qualora si notasse che molto spesso
–per dirla in soldoni –tutte queste considerazioni (quelle sullo scontro di civiltà, sulle opposizioni inconciliabili, ecc.) non si trovano, anche fisicamente, solo all’inizio o solo alla fine di questi studi, ma sia alla fine che all’inizio; ovvero, per dir meglio, non si presentano o come considerazioni preliminari o come tesi da verificare, ma come entrambe le cose contemporaneamente. Ma questo, ancora, al di là di un certo timore di tautologia, potrebbe anche essere accettabile: del resto, non si suole forse dire che il vero viaggio è solo quello che alla fine porta a ritornare da dove si è partiti? La profonda verità di questa saggezza popolare sul viaggio si basa però su un assunto non esplicitato ma fondamentale, e cioè che si torni indietro diversi da come si era partiti: stringendo in pugno il Santo Graal, arricchiti dal tesoro di un drago, o anche solo molto più saggi ed esperti di prima. Vale a dire, fuor di metafora, che questo approccio potrebbe anche esser valido, a patto che, nel corso di questo processo circolare, l’analisi o l’interpretazione del testo riuscissero veramente ad “aggredire” il testo in questione, a reagire con esso e a provocare così un reale accrescimento di conoscenza. In caso contrario, come potremmo considerare ben risolto un problema di cui si dia, sì, la soluzione corretta, ma col procedimento sbagliato, al limite quasi “a caso”, con un procedimento che non abbia nulla a che vedere col problema stesso? Se ora noi andiamo ad analizzare il corpo centrale di questi studi su Medea che stiamo citando, ci accorgeremo purtroppo che proprio questo è ciò che è successo. Prendiamo il saggio di Simonelli, ad es.: si tratta di uno studio molto interessante e molto valido nelle sue linee generali; si tratta anche di uno studio molto ad ampio raggio, pur nelle ridotte dimensioni, ed è perciò naturale che non vi sia molto spazio per approfondire il discorso sui singoli film; pur tuttavia, Simonelli dedica quasi un intera pagina all’approfondimento di Medea ; ed è quando si tratta di ritrovare concretamente nel testo filmico quelle opposizioni e quelle polarità inconciliabili di cui si parlava, che Simonelli si esprime così: […] a Giasone, frutto dell’educazione razionalistica e pragmatica del Centauro e simbolo degli errori del mondo capitalistico […], si contrappone una Medea barbarica e primitiva che rappresenta il senso del sacro e dell’autentico ancora presente in quella società; alle immagini di Corinto realizzate con freddo manierismo si contrappongono quelle proprie del cinema di poesia che illustrano la terra di Medea […] [corsivo [354] nostro] Lasciamo per ora perdere tutte le critiche che abbiamo mosso nel precedente capitolo alla monolicità del concetto di «cinema di poesia», così come viene interpretato dalla vulgata critica su Pasolini; in ogni caso, ci pare evidente che non si possa più usare un’espresione come «cinema di poesia» prescindendo dalla teorizzazione di Pasolini, tanto più se proprio di Pasolini si sta parlando: vale a dire che, dopo Pasolini, a meno di non specificare diversamente, non si può più usare l’espressione «cinema di poesia» come una generica metafora; questa espressione ha infatti assunto un significato “tecnico” preciso. Se dunque la seconda parte del film, secondo Simonelli, si contrappone alla prima; e se la prima parte del film si caratterizza come «cinema di poesia»; allora la seconda parte del film, che sia o non sia «fredda» e «manieristica», deve per forza essere attribuita a un «cinema di prosa». Ma la seconda parte del film è proprio quella che ne contiene il fenomeno più clamoroso e caratteristico, cioè l’arcinota “doppia vendetta” di Medea: considerando come la teoria pasoliniana definisce il «cinema di prosa», nato dalle esigenza di un’industria di consumo, è veramente legittimo –o anche solo minimamente ragionevole –attribuire a questo cinema di prosa una cosa virulenta e perturbante come la doppia vendetta di Medea? Del resto, questa doppia vendetta di Medea crea non pochi problemi anche a Rivoltella, e soprattutto uno: e cioè che (per sbarazzarsene?) quasi non la cita nemmeno! Eppure lo studio di Rivoltella è tutto costruito sulla forma di un’analisi testuale pignola e apparentemente scientifica o pseudo-scientifica, in cui a una raccolta di dati ed osservazioni empiriche oggettive, fa seguito l’elaborazione di leggi e principi di ordine più generale; ma la scienza è un’amante gelosa e possessiva: se la si abbraccia, va abbracciata intera. Allora, è mai possibile, per via scientifica o pseudo-scientifica, arrivare a conclusioni generali su un dato oggetto di studio (in questo caso il film
Medea ) –cosa che Rivoltella non si esime dal fare –escludendone però dall’analisi e dall’osservazione scientifica proprio l’elemento più macroscopico e caratteristico, cioè appunto la famosa doppia vendetta e tutta quella seconda parte del film che la contiene? Sono veramente conclusioni generalmente valide e condivisibili quelle che si possono trarre per questa via? Siccome abbiamo già visto che, paradossalmente, lo sono davvero, più che mai sorge il sospetto che quelle conclusioni vengano direttamente da Pasolini, e magari anche da un ascolto attento dei dialoghi del film, ma non certo dal lavoro di analisi, che anzi è un corpo estraneo, pura accademia. Anche a p.270 (che noi abbiamo già citato) dello studio di Rivoltella, laddove si enucleano i tre livelli di lettura simbolica che saranno utilizzati per l’interpretazione del testo (interpretazione che, per altro, e non a caso, si limita poi sostanzialmente a ricapitolare questi tre livelli), anche lì –si diceva –è facile capire come quei tre livelli di lettura non abbiano in realtà alcun rapporto intrinseco con tutto l’accumulo di osservazioni empiriche che li precede: vengono infatti da fuori dell’analisi, da Pasolini. Purtroppo però Pasolini non sempre è stato altrettanto chiaro e esplicito nelle sue indicazioni: in particolare, un passo fondamentale della sua intervista con Jon Halliday potrebbe, a una lettura affrettata, prestarsi a malintesi; il brano si riferisce all’Edipo… , non direttamente a Medea , ma crediamo (dopo tutto quello che siamo venuti dimostrando) che gli si possa tranquillamente attribuire una valenza generale: H.- Nel Prologo ha deliberatamente scelto di girare una scena nelle quale il padre dice al bambino: «Mi stai rubando l’amore di mia moglie». Questo mi sembra un po’ estraneo alla concezione freudiana del mito. In quanto così facendo costruisce delle buone ragioni perché il bambino odii il padre. P.- Volevo fare il film liberamente. Quando lo realizzai avevo in mente due obiettivi: primo, presentare una sorta di autobiografia, completamente metaforica e quindi mitizzata; secondo, affrontare sia il problema della psicanalisi sia quello del mito. Ma anziché proiettare il mito sulla psicanalisi, riproiettai la psicanalisi sul mito . Fu questa [355] l’operazione fondamentale in Edipo . [corsivi nostri] Ma Rivoltella e Fusillo, non diversamente da come, prima di loro, Costa aveva parlato senza [356] esitazione (lo abbiamo visto) di «impossibilità del mito a riproporsi» , ignorano completamente questa chiara dichiarazione di intenti di Pasolini, e si indirizzano invece in direzione opposta, sia perché forse apparentemente più ovvia, sia perché forse –si sa –non sempre bisogna fidarsi di quello che gli autori dicono della propria opera. Ecco che allora Rivoltella parla senza [357] esitazione di applicazione delle «categorie marxiane» alle tematiche antropologiche –quando noi abbiamo invece ben visto come, semmai, Pasolini stesse proprio cercando degli strumenti alternativi alle categorie marxiane –e Fusillo parla invece di «riscrittura della tragedia […] secondo [358] la smitizzazione freudiana di Totem e tabù » : così i nomi di Eliade, Frazer e Levy-Bruhl, che pure Fusillo cita spesso e con oculatezza, finiscono con non essere altro, in realtà, che fonti per i contenuti del film. L’erroneità di queste posizioni risalta poi, come al solito, quando si tratta di [359] andare concretamente a verificare sul testo filmico la loro consistenza . Infatti, negata ogni più autentica possibilità di mito, resta il problema di dove andare a pescare, nel testo filmico, queste opposizioni binarie (che stando a Pasolini avrebbero invece dovuto essere squisitamente mitiche), e di come ricollegarle al quadro d’insieme fornito da Pasolini. Simonelli (lo abbiamo già detto), impedito del resto dal pochissimo spazio che aveva a disposizione, aveva pensato bene di giocare sul parallelismo (meramente metaforico a questo livello) tra cinema di poesia e mito per stabilire un’opposizione, dentro al film, tra la prima e la seconda parte, tra cinema di poesia e cinema di prosa. Fusillo pure pensa a qualcosa del genere, ma va a restringere la “scala”, il “metro” di questa opposizione:
La peculiarità più vistosa della Medea di Pasolini è la ripetizione quasi letterale di un lungo tratto del film, che corrisponde fra l’altro a una serie di momenti pregnanti della tragedia di Euripide (Medea che espone al coro il suo progetto di vendetta; il dialogo fra Giasone e Medea del IV episodio, con la finta riconciliazione; la morte della rivale Glauce narrata dal messaggero). Si tratta di un grosso scarto rispetto alle convenzioni del film narrativo, che prevedono una visione immaginaria continua, una continuità ricercata strenuamente […]. Il cinema è infatti un’arte che attualizza […]; il suo significante è inoltre vincolato alla materialità dello schermo e alla temporalità del presente, che rendono difficile rappresenare il passato e il futuro, o introdurre un discorso ipotetico: ogni evento finisce per essere presentato […] hic et nunc . Nella Medea invece è come se fossero fornite allo spettatore due varianti dello stesso evento [360] […] Le due versioni della prima [sic] vendetta di Medea che si giustappongono nel film rappresentano così le polarità base di tutta la Medea pasoliniana: magico/razionale; mitico/realistico, che si riflettono anche nei due scioglimenti: uccisione per [361] magia/suicidio. Fino a questo punto il discorso di Fusillo, salvo qualche imprecisione, sarebbe sostanzialmente condivisibile: anche in questo caso, del resto, non fa altro che amplificare e chiosare (per sua stessa ammissione) un’indicazione presente nella sceneggiatura stessa di Pasolini: «la scena si ripete [362] uguale. Solo tutto accade in modo più realistico» . I problemi sorgono, come anticipato, quando si passa da un piano puramente metaforico o contenutistico, a un piano più decisamente stilistico o formale, e dalla parola scritta alla pellicola filmata: Da un lato abbiamo dunque la variante mitica, onirica, che si formalizza con uno stile di ripresa poetico e magico (l’ubiquità del sintagma alternato; l’identità della sovrimpressione), attraverso simboli visivi e uditivi (il pesaggio colchico, il sole, il fuoco, la musica), mentre la parola, ritualizzata e poco referenziale, gioca un ruolo minore rispetto alla comunicazione emotiva. Dall’altro abbiamo la variante razionale, “realistica”, dominata dal logos denotativo, dal dialogo e dalla dinamica interiore, e [363] raccontata in una forma più spoglia, prosastica . [corsivi nostri] I due termini che abbiamo voluto evidenziare nei corsivi (poetico e prosastica ), segnano il passaggio (o, meglio, l’approdo, visto che qui siamo alle conclusioni) del discorso di Fusillo dal piano metaforico a quello concretamente linguistico: come del resto abbiamo già avuto modo di dire, questi due termini –dopo Pasolini e su Pasolini –sono termini tecnici a tutti gli effetti, ed è Fusillo stesso ad arrivare addirittura a parlare, al riguardo, di una «duplice forma di ricezione» del [364] nucleo del plot : e, poiché anche «ricezione» è una parola che sottende un significato piuttosto preciso nella teoria del cinema, si vede bene come, anche per questa via, si debba intendere una ben concreta diversità di costruzione tra le due vendette di Medea… Nulla di strano, perciò, che Fusillo dedichi molto spazio ad una pignola analisi testuale di questa parte del film, volta appunto a dimostrare come la prima vendetta sia stata realizzata secondo i dettami del «cinema di poesia» e l’altra secondo quelli del «cinema di prosa»: come giusto, la veridicità di un’affermazione di un autore sulla propria opera (in questo caso quella sul maggior realismo della seconda vendetta) non può essere data per scontata, ma va verificata criticamente sul testo. L’analisi stilistica di Fusillo si appunta in particolar modo su due episodi della doppia narrazione della vendetta: il momento in cui Medea affida ai figli i suoi doni per Glauce (in seguito alla sua falsa riconciliazione con Giasone), e quindi la consegna a Glauce di quei doni mortali; Fusillo sintetizza le differenze tra le due versioni in questo modo:
[…] viene dunque ripresa la vendetta di Medea già raccontata nella visione: il dialogo si ripete in forma assolutamente letterale, il che costituisce certo una soluzione ardita. Proprio questa identità narrativa di fondo spinge lo spettatore a cogliere le varianti che sono soprattutto di ordine stilistico e figurativo: nella sequenza in cui Medea affida ai figli i doni per Glauce la macchina da presa è molto meno mobile, è quasi sempre fissa su Medea, rinunciando quindi all’ubiquità magica del cinema, mentre i due bambini non vengono inghirlandati, come succedeva invece nella visione; la sequenza che riprende il tragitto verso la reggia di Corinto non è più così ludica e ricca di movimento […]. La variante stilistica più netta è comunque il sintagma alternato che rappresenta la vestizione di Glauce: mentre nella visione di Medea l’alternanza era […] fra esterno e interno, con un ritmo quasi ossessivo, qui è invece ridotta a un unico stacco, e coinvolge solo l’interno della reggia, alternando la stanza di Glauce e la stanza di Creonte. Grazie a questo diverso stile di ripresa la vestizione perde il carattere di ritualità magica enfatizzata dalla musica […]: infatti non è più opera collettiva delle donne intorno a [365] Glauce, […] ma un movimento individuale della ragazza. Ma queste osservazioni si rivelano molto approssimative e vacillanti già ad un esame superficiale del testo filmico. Come la supposta maggiore «fissità» (e, più precisamente, fissità su Medea) della seconda versione della scena dell’affidamento dei doni: una fissità che –lo si capisce facilmente – Fusillo legge come maggior regolarità, e, quindi, come maggior prosaicità, rispetto alla prima versione. Ebbene, questa annotazione di Fusillo è, a dir poco, singolarmente strana, se si considera, ad es., che il PP di Medea ritorna ben 10 volte nella prima versione di questa scena, sempre esattamente uguale a se stesso, e spesso con un’insistenza e con delle durate tali da ostentare l’assenza dallo schermo dei suoi interlocutori, di cui ci aspetteremmo, quanto meno, un piano d’ascolto. E’ invece proprio nella seconda versione che, in un certo senso, questa fissità di Medea viene a mancare: i PP di Medea sono “solo” 7, e sono molto meno insistenti, lasciando più spazio e alternandosi con molta più naturalezza con i vari piani d’ascolto degli altri personaggi. Non solo: mentre nella prima versione, come detto, i PP di Medea sono tutti uguali, nella seconda no, e questo è un dato della massima rilevanza; consideriamo infatti il sesto PP di Medea, in cui questa dice a Giasone di non preoccuparsi, perché le donne sono creature deboli e facili alle lacrime (inq.n°23 –contando a cominciare da quando Medea si affaccia alla finestra per chiamare i figli): questo PP viene subito dopo due inquadrature più larghe e contrapposte (una ripresa dalla parte della finestra, una dalla porta), che rappresentano Giasone che va ad inginocchiarsi davanti ai figli per rassicurarli, e poi si rialza per rivolgersi a Medea; queste due inquadrature più ampie, mostrando contemporaneamente tutti i personaggi presenti sulla scena, agiscono da veri e propri piccoli master-shot , consentendo allo spettatore di riorientarsi nello spazio (inq.n°21 e 22); ed ecco che il sesto PP di Medea sopraggiunge con un improvviso e violentissimo scavalcamento di campo: Medea non guarda a destra macchina, come dovrebbe, ma a sinistra, e lo sfondo dell’inquadratura alle sue spalle (a causa di uno spostamento del tutto inopinato e inatteso della mdp) è completamente cambiato, ed è del tutto uniforme e privo di qualsiasi appiglio che possa aiutare lo spettatore a riorientarsi. E questo non è il solo stacco del tutto irregolare che coinvolga Medea in questa seconda versione della scena. L’inq.n°9 è già di per sé un’inquadratura estremamente irregolare: in un certo senso, si tratterebbe ancora una volta di un’inquadratura più ampia, una sorta di piccolo master-shot che ci mostra Medea consegnare i suoi doni prima a un figlio e poi all’altro; ma il pdv è estremamente anomalo, seminascosto dietro alle nuche dei figli, oscillante, inquieto e fortemente soggettivo, con Medea che spesso va ad impallarsi dietro ad altri personaggi o scompare nell’ombra, senza che la mdp dia minimamente segno di preoccuparsene. Ed è proprio nel momento in cui depone il secondo fagotto nelle mani dei figli, che un violentissimo e malcelato taglio del montaggio (inq.n°10, primo PP di Medea) la scaraventa improvvisamente vari passi più indietro, in un’altra posizione e in un altro punto della stanza, all’inizio del suo monologo e con già alle spalle quell’arco della finestra che abbiamo già visto riempire lo sfondo di tutti i PP della prima versione della scena, e che poi, come detto, qui sparirà col sesto PP.
Nella prima versione della scena, i PP di Medea hanno un comportamento completamente diverso. In quella, infatti, per quanto lo sguardo di Medea sia un po’incerto e tenda talvolta a passare da un lato all’altro della mdp quando lo sposta da un figlio all’altro, gli scavalcamenti di campo più forti e violenti riguardano sempre gli altri personaggi, come, ad es., tanto per citarne uno dei più violenti, quello tra le inq.n°24 e 25 (sempre contando da quando Medea si affaccia alla finestra): Giasone, inquadrato in PP, che sta andando a inginocchiarsi davanti ai suoi figli, fa per uscire f.c. sulla destra dell’inquadratura, ma nell’inquadratura successiva si inginocchia muovendosi da destra verso sinistra! Per non parlare poi della curiosa tendenza che hanno tutti i personaggi a guardare sempre a destra macchina anche quando non dovrebbero, e delle molte altre irregoalrità che si potrebbero citare. In un simile contesto di sregolatezza, i PP di Medea, pur anche con una qualche incertezza, ma sempre identici e sempre con quell’arco alle spalle (che tanto aiuta ad orientarsi), assumono veramente un carattere di fissità, di fulcro, di motore immobile della scena: Medea è molto di più il fulcro della scena qui nella “visione”, nella dimensione che più le [366] appartiene, che non nella successiva “realtà” . Ma allora cosa può aver ingannato Fusillo al punto da fargli completamente invertire i termini del discorso? In entrambe le versioni della scena, le inquadrature fisse sono predominanti, ma in nessuna delle due i movimenti di macchina sono del tutto assenti: sono però sempre dei movimenti di panoramica subordinati ai movimenti scenici degli attori, e perciò, in quanto tali, non molto rilevanti da un punto di vista stilistico. Anche la panoramica verticale (inq.n°16) che, nella prima versione, segue il pedagogo che rientra nella stanza coi fiori e si china a terra per intrecciarli, sarebbe, a rigore, un movimeno di macchina subordinato; ma non lo è fino in fondo: ad un certo punto, infatti, per un attimo, l’inquadratura si lascia sfuggire il suo soggetto; per un attimo, prima di andarlo a ritrovare più giù in basso, diventa un’inquadratura libera e indipendente, a cui, inoltre, le oscillazioni dovute alla ripresa a spalla aggiungono ulteriori marche di soggettività, pur non potendosi definire la soggettiva di nessuno. Tutto ciò rende questo movimento di macchina particolarmente vistoso: è stato sicuramente questo ad attirare l’attenzione di Fusillo. Ma per particolare (e magari anche significativa) che sia questa inquadratura, possiamo veramente dire che essa sia sufficiente, dopo tutto quello che siamo venuti finora dicendo, per asserire che solo questa prima versione della scena appartenga al «cinema di poesia» mentre quella succesiva sia in «prosa»? Evidentemente no. Ed è abbastanza facile smontare questa tesi anche per quanto riguarda la successiva scena della consegna dei doni; a cominciare dal presunto carattere «magico» del «sintagma alternato» della vestizione di Glauce nella prima versione in opposizione alla maggiore [367] linearità della seconda : e ciò o perché l’assegnare un dato senso a un dato sintagma in quanto tale è una questione di “lana caprina” (tant’è che lo stesso Fusillo, altrove, assegna a questo [368] sintagma tutto un altro significato ), o perché è un’affermazione del tutto tautologica in quanto tutto il cinema è magico e ubiquitario o non lo è affatto; e quelli che Fusillo definisce elementi «ludici» (i PP ridenti di Giasone e dei suoi figli, i girotondi, ecc.) sono chiaramente presenti in entrambe le versioni. Per l’analisi sarebbe stato probabilmente assai più utile il porsi alcune serie domande a riguardo di certe inquadrature in movimento che ritraggono (come si può arguire dalla sceneggiatura) alcuni dei preparativi per i festeggiamenti delle imminenti nozze di Glauce e Giasone, e sottolineare come siano presenti in entrambe le versioni della scena: donne che intrecciano corone di fiori e accendono fuochi, bambini che mangiano dei cocomeri, ecc. Il carattere tutto soggettivo e memoriale, ostinato ed erratico di queste inquadrature è molto forte; l’oscillazione dovuta alla ripresa a spalla e la mancanza di una qualsiasi sonorità direttamente riconducibile a ciò che viene mostrato, le rende più soggettive ancora: le fanno tanto somigliare a quel lunghissimo, informe e infinito piano sequenza che Pasolini teorizzò essere il cinema, ovvero le fanno somigliare a un festoso e colorato “filmato Zapruder”, sedimentazione grezza e non ancora univocizzata della memoria di un osservatore possibile. La seconda versione della consegna dei doni, dove queste inquadrature si trovano prima dell’ingresso di Giasone e dei suoi figli nella reggia, chiarirebbe che esse sono le loro soggettive sulla festa che li circonda. Ma, come detto, queste inquadrature ci sono
anche nella prima versione della scena: non prima dell’ingresso nella reggia, ma dopo, alternate appunto alla vestizione di Glauce. In questo caso, l’osservatore non viene enunciato, ma il carattere tutto soggettivo di queste inquadrature porta naturalmente lo spettatore a doverle o volerle attribuire a “qualcuno”: a chi? Chi è dunque che sta guardando? L’attribuzione di questo sguardo a Giasone e ai suoi figli può sorgere abbastanza spontanea, e nascondere un po’, così, l’irregolarità della costruzione; poi, come detto, la seconda versione della scena, a posteriori, sembra confermare questa ipotesi. Ma allora chi sta osservando, in quella prima versione, Giasone e i suoi figli fare il girotondo all’uscita dalla reggia, dove essi stessi vengono osservati da quel medesimo erratico sguardo? E, sempre in quella prima versione, da dove viene, da dove appare, improvvisamente, tutto quel popolo festante, che non è presente quando Giasone arriva alla reggia e non è presente più quando poi ne escono il re Creonte e sua figlia Glauce? Che sia quello stesso popolo di fantasmi che apparivano e sparivano attorno all’oracolo di Delfi nell’Edipo re ? Ma neppure fatte queste sottili, ma dovute, distinzioni ci sentiremmo di poter affermare che la seconda versione della scena sia costruita, in opposizione alla prima, secondo il canone del «cinema di prosa»: ci sembrano piuttosto complici segrete di un meccanismo più ampio che le ingloba entrambe (e su cui torneremo più avanti…). Analogo discorso sulle polarità inconciliabli, Fusillo lo fa a riguardo della prima parte del film, cioè a riguardo di tutto l’antefatto mitico (come noto, aggiunto alla tragedia da Pasolini proprio come già aveva fatto per l’Edipo re ): Il film inizia dunque presentando due mondi in antitesi, con un prologo che è come un macrosintagma parallelo, perché giustappone due serie simboliche di eventi, l’educazione di Giasone e il rito officiato da Medea, senza esplicare alcun rapporto cronologico di simultaneità […]. Il mondo di Giasone è dominato dalla parola, desacralizzato […], pragmatico, e con una temporalità lineare, orientata verso il progresso, cioè verso la maturazione razionalistica che dovrebbe portare il giovane eroe greco a riappropriarsi del potere; di Medea non viene invece rappresentata nessuna evoluzione; l’antinaturalismo di Pasolini non si è preoccupato affatto di rendere verosimile il passaggio dall’adolescentte che si innamora di Giasone in Colchide alla donna che agisce a Corinto: Maria Callas compare sin dall’inizio nella sua piena sacralità di sacerdotessa […]. Il mondo della Colchide è infatti immerso in un’atemporalità mitica, o, meglio, in una temporalità ciclica, che rinnova ogni anno i riti di fecondazione della terra; è un mondo dominato dal sacro, che racchiude in sé anche la violenza, esorcizzandola dalla comunità, e che si esprime non con la parola razionale e [369] didattica del Centauro, ma con il grido rituale […] L’antitesi che scaturisce da questi primi due sintagmi che rappresentano i due mondi di Giasone e Medea, parallela all’antitesi fra le due morti di Glauce, diventa particolarmente incisiva nel momento in cui i due mondi vengono a contatto per la [370] prima volta. Ancora una volta, si tratta di considerazioni assolutamente intelligenti, pertinenti e condivisibili –e qui non ne abbiamo citato (per ovvie ragioni di spazio) che una minima parte. E ancora una volta, dunque, non andrà discusso, in sé e per sé, il parallelismo esplicitato tra le due vendette di Medea e i due mondi rappresentati nell’antefatto della tragedia, che è –ripetiamolo –una constatazione assolutamente corretta e sensata, e di cui, ormai, conosciamo bene l’origine; ma dovremo piuttosto cercare di capire se, almeno qui, questa antitesi, secondo la supposizione iniziale di Fusillo, si concretizzi in un’opposizione tra «cinema di prosa» e «cinema di poesia», oppure se questa [371] imposazione dell’analisi debba essere, a questo punto, definitivamente scartata. In realtà, è abbastanza facile verificare come anche l’educazione di Giasone sia rappresentata secondi i modi di un «cinema di poesia» e non di «prosa» come vorrebbe Fusillo. Per nostra maggiore rapidità, proviamo ad es. a prenderne in considerazione un brano di particolare evidenza
stilistica, come quello, famosissimo, in cui il Centauro proclama a un Giasone ormai tredicenne che «Tutto è santo! Tutto è santo! Tutto è santo!». Le anomalie di questa scena sono numerosissime: notiamo, tanto per cominciare, che questa scena si apre e si chiude con due lunghi e ampi totali, su cui il Centauro svolge una parte consistente del suo discorso. Due master-shot , come secondo norma? No, visto che queste due inquadrature mancano entrambe di adempiere proprio a quello che sarebbe il compito principale di un master-shot , cioè collocare reciprocamente nello spazio i personaggi: il primo di questi due Totali, infatti, inquadra il Centauro, ma dove si trova, esattamente, Giasone? Il Totale successivo è su Giasone, ma questa volta è il Centauro ad essere assente: dove si trova, allora, esattamente, il Centauro? Eppure il piano sonoro della voce del Centauro, sempre omogeneo anche quando questi è fuori campo, e la successiva costruzione in campo e controcampo dei PP dei due personaggi, vorrebbero farci credere che essi sono vicini: ma noi sappiamo che non è possibile. E che dire della falsa soggettiva di Giasone sul granchio? E di chi è lo sguardo che osserva Giasone, nel totale di cui si è detto, così marcato di soggettività, da dietro l’erba e i cespugli,? Non certo del Centauro, che sovrasta di parecchio le piante. Ed è anche facile verificare come questo strano andamento narrativo non muti nemmeno quando Giasone diventa adulto e il Centauro assume forma umana: quale logica «prosastica», infatti, potrebbe mai giustificare i due totali, simili ma diversi, che ritagliano le sagome di Giasone e del Centauro contro il crepuscolo del mare, mentre questi ipotizza la futura spedizione di Giasone alla conquista del vello d’oro? Forse allora l’identificazione, compiuta da Fusillo, della forte verbalità dell’educazione di Giasone con il logos e, di qui, col mondo della razionalità e del «cinema di prosa» è stata troppo affrettata: non ci ha forse insegnato Pasolini stesso a riconoscere molte sfumature diverse e molti diversi livelli dentro al mondo della verbalità? E la parola, in fin dei conti, non è mai stata solo logos : [Il significato originario della parola «mito»] venne esposto da Walter F. Otto mediante un’accurata interpretazione dei testi più rilevanti, ossia di certi passi dell’Odissea . «Mito» è per lui «la parola che indica ciò che è effettivo, ma di preferenza ciò che è realmente accaduto nel passato». E’ «la parola del dato di fatto». Ma proprio questo [372] «come sono andate le cose» fu più volte obliterato. Tale parola poteva diventare pericolosa a causa di una proprietà che essa possedeva già nel suo uso originario: era […] «la parola autorevole». Voleva essere udita e creduta [373] senza prove […] Ovviamente, a tutto quanto siamo venuti ora dicendo sulla rappresentazione del mondo di Giasone, si potrebbe anche obiettare che poi, più avanti, da quando gli Argonauti iniziano le loro razzie e la loro avventura nella Colchide, la rappresentazione delle loro imprese sia effettivamente, tendenzialmente, più “normale”, più “narrativa”; è vero: anzi, probabilmente è proprio per questo motivo (come vedremo meglio più avanti) che Pasolini ha tagliato via dal film molte delle scene sulle loro gesta che erano previste invece dalla sceneggiatura… D’altra parte, si sa: le cose non sono mai tutte bianche o tutte nere, esistono le sfumature; e allora varrà la pena di osservare che, se è per questo, la splendida e arcinota scena del sacrificio umano officiato da Medea, viceversa, andrebbe annoverata tra le scene più decisamente e “linearmente” narrative di tutto il film: narrativa magari, al limite, di una narratività documentaristica, degrata, ma pur sempre narrativa… Ciò, naturalmente, se non fosse, ancora una volta, per la prepotente e perturbante soggettività che la pervade tutta e che la fa tendere come una pelle di tamburo prossima alla lacerazione, mettendo continuamente in crisi la stabilità della rappresentazione. Chi è che sta guardando? In onore di chi gli indigeni saltano e [374] danzano e si autorappresentano contro il sole calante? Insomma, per concludere questa lunga disamina del testo di Fusillo, dovremo constatare per la seconda volta (proprio come nel caso dell’Edipo… ), che i migliori contributi di questo studioso e il suo più autentico interesse non vanno tanto alla comprensione del testo filmico in quanto filmico, ma piuttosto (coerentemente con la sua formazione di grecista) verso la riscrittura drammaturgica
del modello tragico e verso la sua collocazione in seno alla tradizione (letteraria) che precede l’opera pasoliniana: [La scena fra Medea e Creonte] ricalca il primo episodio della tragedia di Euripide (vv.271-356); il testo drammatico è seguito in forma abbastanza fedele, con gli abituali sfoltimenti […], ma presenta poi un’aggiunta significativa: «E dirti la verità: non è per odio contro di te, né per sospetto per la tua diversità di barbara, arrivata nella nostra città coi segni di un’altra razza, che ho paura… Ma è per amore di mia figlia: che si sente colpevole verso di te, e, sapendo il tuo dolore, prova un dolore che non dà pace. Tanto che, per lei, queste nozze sono ragione di lutto, anziché di felicità. E’ perché tu, senza colpa, non la opprima con la tua presenza, che io voglio, disumanamente, cacciarti dalla mia terra.» Quest’interpolazione al testo greco chiarisce l’orientamento generale della riscrittura pasoliniana: il dramma di Creonte e di sua figlia diventa dramma borghese, psicologico, dominato dal senso di colpa (nella sceneggiatura a proposito di Glauce si parla [375] esplicitamente di «nevrosi») Euripide è stato l’innovatore della tragedia greca grazie a un inedito intellettualismo, che non esclude affatto comunque una crisi del logos e un’esplorazione della passionalità. Pasolini cerca però di risalire più indietro rispetto a questo stadio problematico, per recuperare un’arcaicità eschilea, o, ancor più, per risalire alle radici antropologiche della tragedia greca; perciò o ritualizza il testo euripideo per renderlo più arcaico, come nella visione, oppure lo modernizza con delle aggiunte psicologiche, come nella parte [376] realistica. Certo però che se, arrivati a questo punto, dopo tutta questa lunga scorribanda critica, tutto il nostro “bottino” consistesse semplicemente nel poter affermare con certezza che Medea non è un film mezzo di «poesia» e mezzo di «prosa», ma tutto quanto di «poesia», be’, non ci avremmo fatto poi un gran guadagno. In fin dei conti non staremmo facendo altro, infatti, che replicare quel consueto errore metodologico che consiste nel ricorrere al concetto di «cinema di poesia» non quale noi abbiamo dimostrato (testi alla mano) essere veramente, ma quale esso è stato via via appiattito e vulgato, e cioè come se fosse un concetto dato una volta per tutte, in sé conclusivo, capace di reali possibilità definitorie e classificatorie, schiacciato e appiattito in una sincronicità comoda ma anche, in realtà, vuota e puramente divulgativa: ma il concetto di «cinema di poesia» che così ne deriva è solo un’amalgama o, meglio, un’accozzaglia, di luci, suoni, colori, sfuocature e sgrammaticature varie ed eventuali, che può contenere in sé talmente tante cose che dire che Medea è un film di «poesia» rischia facilmente, per questa via, di essere una proposizione banale o ingenua. Ma noi ormai sappiamo invece che il «cinema di poesia» era per Pasolini tutt’altro: non teoresi pura e disinteressata, ma finalizzata (e talvolta piegata) a una ben precisa prassi estetica, che era anche (come abbiamo visto) un impegno antropologico e una visione del mondo; non concetto in sé concluso e vero strumento tassonomico, ma, semmai, un momento, un nodo problematico in un processo di pensiero, in un work in progress che era già tutto volto al superamento di se stesso ; c’era insomma, nel gesto teoretico di Pasolini, l’aver colto una “scinitilla”, un barlume di speranza, nella prassi cinematografica che lo circondava, e il volerla alimentare e far crescere nella propria opera; oltre, come detto, c’era il traguardo del cinema come ierofania scritta della realtà , del film come mito in grado di riportare lo spettatore in presenza del sacro…. Non è quindi un caso che, negli anni subito successivi a Il cinema di poesia (che sono poi proprio gli anni in cui realizzava questi suoi film mitologici), lo stesso Pasolini abbia sentito la necessità di “correggere il tiro”, e di prendere le distanze da tutta una certa cinematografia, che sicuramente molti esegeti frettolosi non avrebbero esitato, pur con tutti i distinguo del caso, ad accostare a lui in nome di una presunta comune appartenenza al «cinema di poesia».
[…] l’eccessiva trasgressione del codice finisce per crearne una specie di rimpianto : le restaurazioni si fondano sempre su un fatto reale, che è appunto il rimpianto generale di un codice troppo malamente e «estremisticamente» violato. La restaurazione del cinema in atto oggi in Italia […] e in tutto il mondo, si deve a un rimpianto del codice; oppure a una codificazione degli «estremismi» infrazionistici […]. […] Ogni volontario che cerchi una morte significativa «come esibizione», deve recarsi sulla linea del fuoco, appositamente: non ci sono altri luoghi dove egli possa attuare rigorosamente il suo programma. Solo la morte dell’eroe è uno spettacolo; e solo essa è utile. I registi-martiri dunque, per autodecisione, si trovano sempre, stilisticamente, sulla linea del fuoco: ossia sul fronte delle trasgressioni linguistiche. […] Ma ci sono dei registi che, trascinati dall’impeto eroico, o dall’incitamento e dall’applauso dei «pochi» […] si spingono oltre il fronte delle trasgressioni. Superano la linea del fuoco, e si trovano dall’altra parte, in territorio nemico; quivi, automaticamente, vengono chiusi in una sacca, o per continuare più brillantemente la metafora, ammassati in un lager, che essi poi, come succede, trasformano altrettanto automaticamente in un ghetto. Là dove tutto è diventato trasgresione non c’è più pericolo: il momento della lotta, quello in cui si muore, è al fronte. […] e il nemico è sparito: sta combattendo altrove. Bisogna dunque (estremisticamente o no) obbligare se stessi a non andare troppo avanti, interrompere lo slancio vittorioso verso il martirio; e ritornare continuamente indietro, sulla linea del fuoco; solo nell’attimo in cui si combatte […], solo nell’attimo in cui si è a tu per tu con la regola da infrangere, e Marte è ancipite, sotto l’ombra di Tanatos, si può sfiorare la rivelazione della verità, o della totalità, o insomma di [377] qualcosa di concreto […] [corsivo dell’autore] Il New American Cinema –di cui avevo preventivamente tanta stima, dato il mio amore per la Nuova Sinistra –visto qui a Roma, mi ha molto deluso. […] Ma a parte questo mio giudizio di valore, che può certamente essere sbagliato, vorrei osservare come sia tutto un equivoco l’idea attraverso cui gli autori del New Cinema si illudono di distruggere il tempo convenzionale. […] Dicevo più sopra come la morte operi una rapida sintesi della vita passata, e la luce retroattiva che essa rimanda su tale vita ne trasceglie i punti essenziali, facendone degli atti mitici o morali fuori dal tempo. Ecco, questo è il modo con cui una vita diventa una storia . Quanto a me, io continuo a credere nel cinema che racconta, ossia nella convenzione per cui il montaggio trasceglie, dai piani-sequenza infiniti che si possono girare, i tratti significativi e valevoli. Ma sono anche stato il primo a parlare esplicitamente di «cinema di poesia». Parlando però di cinema di poesia, io intendevo sempre parlare di poesia [378] narrativa . [corsivo nostro] In verità, «Poesia» e «narrazione», all’altezza de Il cinema di poesia , erano due polarità apparentemente ancora del tutto antitetiche: lì, infatti, «narrazione» faceva chiaramente coppia con [379] «prosa»; anzi, vi si parlava espressamente di «prosa narrativa» . Ora, queste due polarità, trovano qui, in questa espressione di «poesia narrativa», un momento di sintesi, di compromesso; a suggellare questa unione è un sacrificio cruento: non solo qello dei figli di Medea, di Glauce e di Creonte, ma anche quello del New American Cinema, immolato insieme a molto altro cinema che, invece, se il «cinema di poesia» fosse rimasto (o fosse mai veramente stato) quello vulgato, avrebbe dovuto godere di ogni più pieno diritto di cittadinanza poetica. Ma se è dunque in nome di questa nuova e inusitata unione che Pasolini, a un certo punto, si sente in diritto di tracciare una distinzione netta tra quella che ormai è diventata la sua idea e la sua prassi di «cinema di poesia», e quella di (o
degli) altri, possiamo allora facilmente immaginarci che, parallelamente, Pasolini non ritenga più (o, al limite, non abbia mai in realtà ritenuto) applicabili al proprio «cinema di poesia» tutta una serie di caratteristiche che aveva invece riscontrato come specifiche di quei film, «poetici» sì, ma anche (non dimentichiamolo) «neocapitalistici», che aveva in quegli anni osservato fiorire e moltiplicarsi in tutte le principali cinematografie mondiali, e che avevano costituito la base “sperimentale”, empirica, delle sue prime osservazioni e teorizzazioni al riguardo . E ovviamente, data la natura specifica di questa nuova sintesi, stiamo pensando a tutte quelle caratteristiche del «cinema di poesia» che avrebbero dovuto riguardare il complesso rapporto intercorrente tra sottofilm e struttura narrativa: di fronte a questa nuova sintesi della «poesia narrativa», possiamo infatti veramente credere che Pasolini intendesse realizzare dei film profondamente e interiormente divisi in due? Dalla «doppia natura»? La cui superficiale narratività sarebbe sostanzialmente secondaria e «pretestuosa», così come «pretestuose» risulterebbero sia l’argomento del film che la psicologia malata, alterata, alienata del personaggio protagonista? A questo punto –è evidente –serve un’ulteriore chiarificazione: magari una chiarificazione che ci aiuti a capire, una volta per tutte, cosa realmente è “sacro” e cosa realmente è “mito” per il cinema (o, perlomeno, cosa erano e cosa sono per il cinema di Pasolini). E dato che –guardacaso –le forme più tradizionali di poesia narrativa sono per l’appunto l’epica e la tragedia, magari è proprio nell’Edipo… e in Medea che dobbiamo cercare le nostre risposte. Ma invertendo completamente e diametralmente il metodo critico fin qua adottato. Non concludendo col dire che un certo film è di «poesia» (come se ciò servisse a gettare una qualche luce sul film), ma invece partendo da lì per usare il film, cioè l’esito artistico, per gettare una qualche luce sul «cinema di poesia» ; il che, a questo punto, non sarebbe, semplicemente, un gettare luce su un concetto, ma un gettare luce su uno svolgimento, su un processo, su un’operazione –e di qui, in definitiva, anche sul film stesso, che di quell’operazione è parte sì conclusiva ma integrante, e non un frutto distaccato e disincarnato. Ed è questo un approccio critico che si rivela particolarmente fruttuoso proprio per il cinema, arte fatta sì di eterea e incorporea luce, ma anche di una materialità opaca, greve e vischiosa, densa quasi come il bronzo fuso o l’argilla, e pronta a impigliare la mano dell’artefice così come a ricevere e a trattenere in sé molteplici impronte e molteplici tracce: così, nel cinema, la diacronia del processo creativo reale, sotto la superficie apparentemente calma della sincronia del prodotto estetico finito, autosufficiente, totalmente individuato, riaffiora e sbuca fuori continuamente da ogni parte; così, nonostante l’apparente onnipotenza e asetticità del montaggio e delle altre tecniche coinvolte nella costruzione del prodotto, ogni immagine riporta, in forma di piccole (o meno piccole) asperità, rilevanze e incongruenze, la traccia di ciò che si è mantenuto e di ciò che si è improvvisamente (o ponderatemente) mutato passando dal soggetto alla sceneggiatura; di ciò che la scelta del regista (o l’imponderabilità del caso e delle cose) ha fatto mutare in ripresa rispetto alla sceneggiatura; e infine (ultimo strato geologico sovrapposto a tutti quelli che stanno più sotto) di ciò che è stato cambiato, rispetto al piano originario, solo quando ormai il film era già al montaggio, e le immagini, ormai già girate con un altro scopo, a volte si prestano di più e a volte meno alla mutata destinazione che gli si vuole imporre. Questi continui slittamenti tra ciò che si capisce essere l’“idea” del film e il film come è realmente, e dei vari elementi che lo costituiscono reciprocamente tra di loro, costituiscono insomma uno spessore che può (e deve) essere scavato con gli attrezzi di una sorta di “filologia” o [380] “geologia” filmica . Proviamo dunque a ripartire da quegli insoliti totali che, poche pagine più sopra, abbiamo evidenziato in seno all’educazione di Giasone: quelli che inquadrano il Centauro e Giasone, quando questi ha 13 anni; quelli, subito successivi, del dialogo vespertino in cui il Centauro ipotizza la futura spedizione degli Argonauti; o ancora, per ultimo, quello (ancora serale) che chiude questa prima e lunga fase dell’educazione di Giasone, in cui il Centauro (f.c. per tutta la lunga durata di questo totale –ma sempre vicino come piano sonoro) smentisce l’insegnamento di morte e rinascita che l’uomo antico ha tratto dalla vita dei semi. Come detto, queste inquadrature innescano tutta una serie di anomalie «poetiche»: ora, poiché queste inquadrature si trovano raggruppate proprio in apertura di film, in una serie di scene che enunciano la gran parte del nucleo tematico del film, possiamo presumere con una certa tranquillità che le anomalie che ad esse si accompagnano, siano significative, e che possano aiutarci a capire qualcosa di più di questa «poesia narrativa» che stiamo indagando. Naturalmente, a un certo livello, finché si resta in superficie, il problema è di facile [381] soluzione: basta poco, infatti, per accorgersi del carattere arcaico, ieratico, iconico di questa
prima parte del film; per questo, è sufficiente un minimo di sensibilità. Tanto più che, avendo già dimostrato la sostanziale omogeneità «poetica» del film, certe considerazioni fatte (a ragione) da Fusillo a riguardo della Colchide, potrebbero già essere tranquillamente estese anche a questo e a [382] molti altri passi del film , determinando così per questa via il carattere specifico di questa «poesia narrativa»: Il mondo della Colchide è infatti immerso in un’atemporalità mitica , o, meglio, in una temporalità ciclica , che rinnova ogni anno i riti di fecondazione della terra; è un mondo [383] dominato dal sacro […] [corsivi nostri] […] un sintagma a graffa –un movimento acronologico che affianca scene appartenenti alla stessa categoria di fatti, senza organizzarle in serie come nel sintagma parallelo – […] raffigura la vita quotidiana della Colchide nei suoi ritmi solenni di società agraria, dipingendo soprattutto il lavoro collettivo delle donne che cantano in coro. Pasolini ricorre anche in questo caso a una forma narrativa acronologica , che non implica quindi una successione lineare: ancora una volta alla Colchide viene associata una temporalità [384] ciclica e rituale. [corsivo nostro] Sennonché, si rischia per questa via di rimanere ancora troppo sul generico, e di arrestarsi a quel livello metaforico del discorso che già, in primis , non era parso sufficiente (come detto) allo stesso Pasolini nelle sue riflessioni sul lignuaggio e sul mito, e che, di fatto, non è bastato alla critica, in tutti questi anni, per decidersi ad affrontare il testo filmico con maggior concretezza; insomma, invece di ottenere una risposta, rischieremmo di ritrovarci con una domanda in più, dopo quelle sul sacro e sul mito, da soddisfare: cos’è realmente “atemporalità” per il cinema? E’ invece Pasolini stesso a suggerirci un approccio utile e proficuo a queste anomalie del racconto dell’educazione di Giasone, e ad aiutarci a capire quanto concretamente debba essere intesa tutta questa questione della «poesia narrativa» e della temporalità mitica: come essa sia una faccenda tutt’altro che solo metaforica, e come riguardi non solo la macro ma anche la microstruttura e le singole inquadrature del film. A un certo punto, infatti, ormai quasi alla fine delle sue riflessioni semiologiche, Pasolini, con un colpo di scena non da poco, ci dice che probabilmente la vera natura del cinema non è neanche «audio-visiva», bensì «spazio-temporale»: L’ipotesi è che il cinema, come linguaggio d’arte –o almeno verificato e sperimentato solo in quanto tale –sia una lingua spazio-temporale, e non audio-visiva –se non a una prima e materiale analisi. Il materiale audio-visivo non sarebbe quindi altro che materiale fisico, sensoriale, che fa da corpo a una lingua spazio-temporale altrimenti puramente «spirituale» o astratta. [385] [corsivo dell’autore] L’inquadratura è dunque una inclusione : fisio-psicologica, audio-visiva, spaziotemporale. Le giunte che l’attaccano all’inquadratura precedente e alla seguente, pongono in rapporto tale «inclusione» con le altre «inclusioni», attraverso un’«esclusione» fisiopsicologica, audio-visiva, e spazio-temporale, implicata nella giunta stessa. Le giunte si danno solo nei films (paroles); nel cinema (langue) non esistono, come non esistono nella realtà, e come non esistono nell’immaginazione […] Il film è un seguito di «inclusioni» e di «esclusioni» fisio-psicologiche, audio-visive e spazio-temporali, che obbediscono a una necessità di sintesi.
Il cinema e la realtà sono invece delle continuità senza né esclusioni né inclusioni […]. L’illusione di tale continuità come successività (che è l’illusione principe dei nostri sensi) deve essere però mantenuta nel film, perché esso possa essere non dico compreso, ma concepito. Malgrado le giunte che la rendono «tratto incluso», l’inquadratura, sia all’interno di se stessa, sia in rapporto alle altre inquadrature, deve obbedire alle regole della successività; essa deve scorrere come la realtà e il cinema […]. [corsivi dell’autore] [386]
Altrove, però, sembra sostenere alcune tesi diametralmente opposte: Ogni opera d’arte è metalinguistica (Jakobson). Varia solo il grado di coscienza metalinguistica tra autore e autore. Attraverso il sovvertimento del rapporto tra contiguità e similarità del discorso, l’autore ottiene l’infrazione al codice che fa del suo messaggio –agli occhi del destinatario –un’«attesa delusa». Più la coscienza metalinguistica dell’autore è forte […], più i rapporti di contiguità e similarità sono sconvolti, e più, quindi, l’attesa del destinatario è coscientemente delusa. Un regista operante oggi –non solo sa, ma vuole a tutti i costi –deludere questa attesa. Il luogo in cui egli compie gli atti necessari a tale delusione […] è il montaggio. [387]
In tal senso il cinema non è più naturalistico, perché MAI, IN PRATICA, CIOE’ NEI VARI FILMS , il suo tempo è quello della realtà. Esso cioè non è irreale, come la realtà, che è fondata su un’illusione: ossia sul passare di qualcosa che non c’è, il tempo. Il cinema è fondato, al contrario, sull’abolizione del tempo come continuità, e quindi sulla sua trasformazione in realtà significativa e morale, sempre […] [corsivo dell’autore] [388]
Il film si ritroverebbe così teso e conteso tra le opposte necessità di «scorrere» e, contemporaneamente, di non «scorrere»; sono due necessità però –si badi bene –di ordine sensibilmente diverso: semiologica e filosofica l’una, sì, ma anche, in fin dei conti, grossolanamente [389] concreta e materiale ; squisitamente estetica l’altra, legata all’imperativo morale ultimo del fare arte, cioè alla volontà-necessità di riplasmare la materialità del mezzo artistico. Ma ciò che a noi ora interessa soprattutto sottolineare, è che se questa seconda istanza, considerata in questa prospettiva e allo stremo delle sue conseguenze, tenderebbe al caso limite di un cinema che non «scorre» affatto (impossibile e a malapena concepibile), all’estremo opposto troviamo invece una “nostra vecchia conoscenza”, tutt’altro che puramente teorica: non un assurdo “cinema che «scorre» completamente” (cosa che veramente non vorrebbe dir nulla), ma piuttosto quel cinema che (in ogni senso, dal più sottile al più banale) «scorre» di più ed è più immerso nella continuità e successività; che è, anzi, fatto apposta per «scorrere» e per non «deludere»; e cioè quello dei «principi logici e [390] illustrativi» , quello della «convenzione narrativa»: il cinema di «prosa» insomma. Ma se è dunque tra questi due opposti estremi e in questo senso che la «poesia narrativa» opera la sua sintesi come compromesso dello «scorrere» “meno” e del sottrarsi (almeno in parte) al giogo della continuità come successività, allora dovremmo chiederci in che maniera questi totali e queste anomalie «poetiche» che stiamo trattando facciano «scorrere» meno il film. Al riguardo, potremmo tentare una triplice ipotesi. In prima istanza, potremmo dire che questi totali si trovino, per così dire, fuori posizione, e che in questa maniera interrompano o ostacolino
l’ordine “normale” e il normale fluire delle immagini (e, coseguentemente, della narrazione) così come sarebbe previsto dal canone del “grado zero” prosastico. E’ in fin dei conti questo il risultato della breve analisi che abbiamo compiuto, poche pagine più sopra, della scena in cui Giasone ha 13 anni: come detto, infatti, questi totali risultano fuori luogo sia da un punto di vista spaziale, nel senso che separano Giasone e il Centauro con uno spazio e una distanza che invece il piano sonoro e i successivi P.P. in campo e controcampo vorrebbero negare; sia da un punto di vista temporale, se come tempo di riferimento prendiamo quello della narrazione ovvero l’ordine in cui le inquadrature si susseguono l’una dopo l’altra in rapporto all’azione e alla narrazione: infatti, subito dopo la scena dei 13 anni, come abbiamo già più volte sottolineato, i due successivi totali serotini appaiono completamente fuori luogo mentre il Centauro enuncia un nucleo tematico fondamentale per il film come (nientemeno) che la riconquista del Vello d’Oro. In base ai procedimenti «logici e illustrativi» della prosa, infatti, in una situazione come questa, in cui vengono passate da un personaggio allo spettatore delle informazioni fondamentali per la comprensione del film, la m.d.p. dovrebbe stare molto più addosso al personaggio (solitamente in P.P.), per permettere (o, meglio, costringere) lo spettatore a focalizzare la propria attenzione sull’azione. In questi totali pasoliniani, invece, il personaggio che parla è lontano, lontano sia dallo sguardo che, di conseguenza, dall’attenzione: il paradigma di leggibilità dell’azione che qui viene violato è uno dei fondamenti del cinema classico narrativo. Ed è per questo tipo di “interruzioni” (intese sia dal punto di vista spaziale che temporale) che molti studiosi, come detto, hanno giustamente potuto parlare di iconismo, di stasi narrative, ecc. In seconda istanza, potremmo allora aggiungere che questa violazione è anche di ordine gerarchico, oltreché funzionale: là dove il personaggio è importante e dovrebbe trovarsi, per così dire, al centro della scena, in posizione di netta preminenza, il personaggio è invece in secondo piano; anzi, ancor più lontano, appena percettibile o addirittura assente del tutto, come in quell’ultimo totale in cui la voce f.c. del Centauro nega l’insegnamento del seme. Al suo posto, mentre il personaggio si fa indietro, lo spazio, l’ambiente, la natura che lo circondano si fanno avanti; azione e sfondo tendono, se non a scambiarsi completamente di posto, quantomeno a parificarsi; il personaggio tende a essere “riassorbito” dalla natura che lo circonda. Ma allora, in terza istanza, allontanati sia il personaggio che l’azione e la narrazione, potremmo aggiungere che questi totali, piuttosto che seguire una storia, ci costringono a continuare a guardare un ambiente che in realtà ci pare di conoscere già bene, che anzi abbiamo già visto e rivisto, e che perciò, in teoria, non dovremmo aver bisogno di guardare ancora: si tratterebbe dunque di un guardare apparentemente del tutto gratuito e senza scopo. Da più parti –e giustamente –è stato notato e sottolineato quanto il monologo del Centauro sia perfettamente continuo (e omogeneo come piano sonoro) attraverso queste scene: in realtà –ora possiamo ben dirlo –questa continuità è del tutto apparente, superficiale. Anzi: quanto più tenta di apparire solida e concreta, tanto più, invece, non fa altro che cercare di dissimulare il continuo sbandamento della visione, che, privata dei suoi centri, deviata dai suoi binari consueti, si attarda, si fa svagata, errabonda. Ma dunque cosa sta succedendo alla rappresentazione del film? E cosa vuol dire questo guardare ? Il cinema narrativo è un’architettura di punti di vista, in cui il narratore (e con lui lo spettatore) si sposta continuamente per trovarsi sempre al centro della situazione o, meglio, nel punto chiave necessario a sapere o a non sapere, a mostrare o a non mostrare, a dire o a non dire, a vedere o a non vedere, in quel percorso che è il racconto. Ma certe volte il racconto si ferma, anche per brevi momenti, e ci lascia in compagnia di noi stessi e della cinepresa, che prende tempo –o lo perde, che è la stessa cosa –e rimane come incantata a guardare, a volte addirittura perde di vista la storia. […] sono momenti di vacanza narrativa, di sospensione in cui l’autore «prende tempo e cerca di aprirsi [391] all’universo» Sandro Bernardi, ben consapevole dell’importanza assoluta che questa questione può rivestire per il cinema, ne ha fatto il centro delle sue riflessioni: un filo conduttore che attraversa tutte le sue opere [392] più importanti, almeno a partire dal suo imprescindibile libro su Kubrick fino alla sua più
recente pubblicazione sul paesaggio nel cinema. Erede di quel filone di studi sul cinema «sottile ma costante che sottolinea il carattere selvaggio di questa esperienza, la sua forza sovversiva ed [393] anarchica» , Bernardi riconosce, nello sguardo ancor prima che nel cinema vero e proprio, due movimenti opposti e complementari, il guardare e il vedere , che sono due cose completamente diverse; del resto, come precisa Bernardi, la storia della distinzione di queste due diverse istanze è antica, molto più antica del cinema: affonda le sue radici nella storia dell’arte classica, passa per i commentatori arabi di aristotele, la si ritrova in Pedro Caldéron de la Barca, in Poussin, in Cézanne [394] [395] , in Rilke (che definisce il concetto di «Apertura») , nelle avanguardie degli anni ’20, [396] così come nelle riflessioni di Ejzenstejn sul paesaggio . Non ultimo, potremmo dire che si ritrovi, in un certo senso, anche in Kant: Se vogliamo chiamare sensibilità la recettività del nostro animo nel ricevere le rappresentazioni, in quanto ne venga in qualche modo colpito, daremo invece il nome di intelletto alla capacità di produrre spontaneamente rappresentazioni […]. Nessuna di queste due facoltà è da anteporsi all’altra. Senza sensibilità, nessun oggetto ci verrebbe dato e senza intelletto nessun oggetto verrebbe pensato. I pensieri senza contenuto sono [397] vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche. Ed è proprio in virtù di questa natura bifida e ambigua dello sguardo che sono possibili certe singolari “schizofrenie” della rappresentazione cinematografica: Guardare e vedere , dunque, sono due modi di rapportarsi all’oggetto, il primo senza finalità pratiche, dissipato, sì, ma anche scopritore di aspetti inconsueti; il secondo inteso invece ad una definizione dell’oggetto, a una sua collocazione dentro gli stereotipi della conoscenza, dell’utilità. Due atteggiamenti complementari poiché, se [398] guardare non basta […], tuttavia vedere non soddisfa. Ma non basta. E’ il conflitto dentro l’immagine stessa, fra stereotipo e apertura di senso, che produce la sua forza. Spesso sarà un conflitto fra fotografia e diegesi , altre volte fra schema e schematismo , o fra ciò che si vede e ciò che si riconosce, fra «le perçu et le [399] nommé » La configurazione enunciativa è quella che consente la significazione e […] la mancanza di significazione renderebbe il film inguardabile. Ma è proprio dalla lotta o dal compromesso di quese due istanze, enunciazione e percezione , che si sviluppa la forza del cinema, in quanto contraddizione in termini: discorso costruito con le cose . [400]
Un film ispirato a una concezione totale della visibilità non sarebbe possibile, o per lo meno sarebbe inguardabile, perché privo di leggibilità (e la leggibilità è una delle condizioni fondamentali della visione). Non vedremmo nulla. Rimarrebbe un flusso di stimoli indefiniti, inconsistenti. Il cinema puro, che cerca di fondarssi sui soli schemi concettuali, geometrici o ritmici, è inguardabile, come parimenti un cinema di soli colori [401] e luci senza forme. […] enunciazione e percezione si confrontano in un continuo movimento di chiusura e apertura di senso . Enunciazione
(modelli) «––––––––––––––––––––––(schemi) VISIONE –––––––––––––––––––––––—» (resti) (visibilità) Percezione Enunciazione e percezione si sviluppano in collaborazione e conflitto. Da una parte abbiamo una relazione significante , in cui lo spettatore è destinatario; dall’altra una relazione sensibile , in cui lo spettatore è soggetto della visione. Queste due funzioni sono associate, perché anche la percezione è strutturante e, d’altra parte, anche l’enunciazione è visiva, quindi percettiva. Ma sono anche opposte, perché la percezione non chiude l’enunciato su dei significati o su dei modelli interpretativi, ma ne costituisce il lato aperto. Nondimeno, come risulta dal segmento, esse hanno sempre costituzionalmente una parte in comune, che è sia enunciazione sia percezione. Questa parte in comune è la visione come attività duplice, iconica e diegetica, ovvero è il diegetico nella sua relazione con l’iconico [tutti i corsivi sono dell’autore] [402]
Insomma, la dicotomia tra guardare e vedere genera l’altra, tra percezione ed enunciazione , che è la dicotomia base del cinema: è grazie alla nostra facoltà di guardare che il visbile si manifesta a noi attraverso la percezione ; è grazie alla nostra facoltà di vedere che ciò che è dicibile si manifesta a noi tramite l’enunciazione . Ora, in un contesto di «poesia» quale è quello che stiamo analizzando, non sorprenderà dunque il riscontrare una preminenza (o, quantomeno, una netta evidenza) del guardare e, perciò, della percezione sopra la narrazione, ovvero sopra l’enunciazione : infatti, il parallelismo che è possibile istituire tra le coppie guardare/vedere, percezione/enunciazione e sottofilm/convenzione narrativa è evidente; anzi, è proprio grazie a questo parallelismo che Bernardi, a seguito di un’elaborata serie di riflessioni sul paesaggio, può a un certo punto tornare a parlare di questa dicotomia in termini di Mito e Storia: «Storia e Mito […] sono in sostanza i due piani [403] dell’esperienza, quello narrato e quello guardato» . La caratterizzazione che Pasolini dà del sotto-film, la sua chiara appartenenza all’ambito mitico (di cui si è detto) costituisce infatti l’elemento mediatore, la moneta di scambio, che permette a Bernardi di applicare la proprietà transitiva dell’uguaglianza, e di passare direttamente dal guardare al Mito. Analogamente, è l’appartenenza della convenzione narrativa all’ambito dell’«ordine orrendo», del neocapitalismo che l’ha prodotta e generata (e, quindi, a un’epoca storica precisa e determinata) che permette a Bernardi di passare dal narrare (e cioè dal vedere e dall’enunciare ) alla Storia. Ed è per questa via che anche noi, partiti dai concetti della teoresi pasoliniana, possiamo arrivare a dire che il luogo specifico dove si attua la sintesi della «poesia narrativa» deve dunque trovarsi nel rapporto tra l’enunciazione e la percezione , cioè proprio nel cuore del film. E tuttavia, però, dovremmo stare piuttosto attenti e precisare meglio, e dire –semmai –che quel luogo specifico è nel rapporto che si instaura tra la percezione e l’enunciazione del film dopo che da quest’ultima sono stati “sottratti” quei «procedimenti logici e illustrativi» che sono propri della «convenzione narrativa», e che erano serviti a trasformare il cinema in una «prosa». Infatti il parallelismo instaurato tra percezione /enunciazione e sotto-film/convenzione narrativa è, sì, calzante, ma non è preciso: si tratta appunto solo di un parallelismo e non di un’uguaglianza perfetta; e dunque, perciò, la sottrazione della «convenzione narrativa» dall’enunciazione lascia un [404] “resto”, una “differenza” che forse potremmo così (grossolanamente) schematizzare : –––Cinema Poesia–––––––-|––––––Cinema Prosa––––— ––––Sotto-film––––––––-|––––-Convenzione narrativa––– ––––Percezione––––|––––––––––Enunciazione–––––
|—Resto—| Questo nostro voler insistere nel sottolineare la permanenza di un resto di enunciazione nel sottofilm, potrà forse apparire banale al lettore più avvertito: non solo perché Bernardi (e in fin dei conti lo stesso Pasolini) ci ha avvertito che nessuna delle due componenti può essere totalmente eliminata a vantaggio dell’altra; non solo perché, come noto, anche solo la foto di un sasso in qualche modo enuncia (enuncia «questo sasso è stato»); ma anche, molto più banalmente, per la semplice constatazione empirica che il film di Pasolini è comunque comprensibile. E non solo è comprensibile: a modo suo, è anche palesemente narrativo; e il narrare è cosa più specifica che non il “semplice” enunciare, dato che non tutto ciò che enuncia narra, ma tutto ciò che narra (a maggior ragione) sicuramente enuncia. E poi –per essere onesti –ci sarebbe anche il parallelo (istituito da Pasolini stesso) tra il sotto-film e la fase orale della lingua a rendere superflua questa precisazione: infatti, a differenza della pura visibilità (come dice Bernardi) o dell’ipotetico film che non «scorre» (come dice Pasolini), la lingua orale, nonostante affondi le sue radici in illo tempore e nell’origine biologica della specie, conserva una sua comprensibilità. Eppure, banale o non banale, in un certo senso la questione è tutta qui: infatti, nel momento in cui Pasolini accosta l’aggettivo «narrativo» al termine «poesia», ci sembra non solo richiamare l’attenzione su questo resto di enunciazione, ma sembra anche volerci dire qualcosa di più e di più specifico: sembra volerci dire che proprio quel resto è narrativo oltre che enunciativo; ed è anzi in virtù della narratività specifica di quel resto che Pasolini traccia la linea di demarcazione tra sé e, ad es., il New American Cinema e altri, la cui “colpa”, rispetto al fine di riportare il sacro e il mito nella società moderna, sarebbe proprio quella di non aver saputo conservare o rintracciare quella specifica narratività. E non è tutto: se lo schema di Bernardi che abbiamo più sopra riportato è giusto, allora le caratteristiche di quel resto diventano particolarmente interessanti per la teoria del cinema in generale (anche cioè a prescindere dallo specifico discorso pasoliniano), perché, vista la sua posizione per così dire “centrale”, si troverebbe a coincidere (o quantomeno a sovrapporsi) con ciò che più propriamente è «Visione», zona di passaggio e di confluenza tra percezione e enunciazione, patto luciferino che attua il film. [405] Se dunque già l’atto del guardare (secondo la prospettiva di Bernardi e di Rilke ) è di per sé un atto mitico, atavico, selvaggio, primordiale, che riavvicina l’uomo alla sua origine animale e naturale, lo sguardo riporta sì il mito e il sacro all’uomo moderno, ma lo fa attraverso e con la complicità di una struttura narrativa altrettanto mitica . In che senso dunque possono essere attribuiti a questa specifica narratività quei caratteri di miticità e atemporalità che molti (Fusillo compreso) hanno avvertito ed evidenziato ma mai realmente approfondito? Ripartendo ancora una volta da quella triplice ipotesi che avevamo fatto a riguardo delle prime inquadrature del film, potremmo constatare come quei ripetuti totali dell’educazione di Giasone, obbligandoci (come detto) a continuare a guardare e riguardare da vari punti di vista un ambiente già noto, introducano fin da subito nel film un duplice principio di ripetizione e variazione : il che è cosa non da poco, se si considera che, di fatto, da sempre, è solo per tramite di questo doppio principio –e cioè per tramite di un infinito gioco di varianti –che l’uomo esperisce il Mito attraverso i singoli racconti mitici; e sono moltissimi i passi che, da varie angolazioni, sia in Eliade che in tanti altri antropologi e storici delle religioni (noti e non noti a Pasolini), concordano e convergono in questa direzione: La recitazione [rituale del mito] non è necessariamente stereotipa. Talvolta le varianti si allontanano sensibilmente dal prototipo. [Le ricerche di etnologi e folkloristi sulle varianti mitiche] hanno messo in luce il ruolo degli individui creatori nell’elaborazione e nella trasmissione dei miti. Molto probabilmente questo ruolo era ancor più importante nel passato, quando la «creatività poetica», come si direbbe oggi, era connessa e dipendente da un’attività estatica. […] Sono gli specialisti dell’estasi, coloro che hanno familiarità con universi fantastici, che nutrono, accrescono ed elaborano i motivi mitologici tradizionali. […] I vari specialisti del sacro, dagli sciamani fino ai bardi, hanno finito per imporre nelle rispettive collettività almeno alcune delle loro visioni e immagini. […] I rapporti tra gli schemi tradizionali e le valorizzazioni individuali innovatrici non sono rigidi: sotto la spinta di una forte personalità religiosa il canovaccio
tradizionale finisce per modificarsi. […] Nelle società arcaiche, come ovunque altrove, la cultura si costituisce e si rinnova grazie alle esperienze creatrici di alcuni individui. [406]
Ma c’è di più: fino a questo punto, infatti, il processo delle varianti mitiche così descritto e inquadrato, sarebbe perfettamente sovrapponibile al meccanismo artistico che in letteratura (e, in definitiva, in ogni altra arte) porta alla progressiva consunzione e alla continua rielaborazione delle forme letterarie e delle tematiche trattate, con la conseguente formazione di tradizioni formali e di [407] topoi letterari -del resto, che ci sia una stretta parentela tra mitologia e poiesi , non è certo un segreto… [408] Parentela, ma non identità : la dinamica del sacro, nel caso del mito, aggiunge un qualcosa di completamente particolare a questo processo di continua variazione. In letteratura, in genere, la variazione avviene sempre nella storia ed è storicizzata, diacronica. Inoltre –soprattutto –potremmo dire che, in letteratura (quando è solo letteratura), questo doppio principio di ripetizione e variazione sta, in qualche modo, attorno ai racconti e non dentro : ammesso, ad es., che si diano due racconti diversi (di uno o più autori), e magari contraddittori, su uno stesso personaggio, questi due racconti possono essere entrambi validi solo in due spazio-tempi diversi, sia che con ciò si voglia fare riferimento allo spazio-tempo del personaggio (eventi avvenuti in momenti diversi della vita del personaggio), sia che si faccia riferimento allo spazio-tempo del lettore in cui avviene la fruizione dell’opera letteraria (è valido il racconto “A” durante la lettura di “A”; è valido “B” durante la lettura di “B”); oppure, non si pone neppure il problema, in nome del carattere di finzione e di virtualità dell’opera letteraria. Ma per il mito è diverso: per il mito variazione e ripetizione non possono che essere anche dentro , interne , perché il «mito» (come detto) è ciò che «è accaduto davvero», la «parola autorevole»: Sia la mitologia sia il culto sono testimonianze del mito, ma la mitologia lo è in senso più immediato, rimanendo nella tradizione della parola originaria, che essa intende [409] conservare in una maniera paradossale: in infinite variazioni. Tra i racconti della mitologia […] non vi è coerenza. Se la filosofia e la scienza devono presentare, anche a uno stadio primitivo, una loro coerenza […], al contrario una mitologia dotata di coerenza interna non è più una mitologia primaria, al massimo è una mitologia già sistematizzata, una dottrina sugli dèi […]: essa è divenuta ormai teologia. [410]
La ripetizione è, per un dio, segno maestoso, il sigillo della necessità.
[411]
La ripetizione di un evento mitico, con il suo gioco di varianti, avverte che qualcosa di remoto ci fa cenno. Non esiste evento mitico isolato come non esiste una parola isolata. [412] Il mito, come il linguaggio, si dà intero in ciascuno dei suoi frammenti.
Appena lo si afferra, il mito si espande in un ventaglio dai molti spicchi.
[413]
Il fatto è, in realtà, che sia della ciclicità del Tempo Sacro che dell’atemporalità del mito, è possibile concretamente fare esperienza, per la loro stessa natura, solo attraverso questo gioco di variazione e ripetizione :
Ogni mito, indipendentemente dalla sua natura, enuncia un avvenimento che avvenne in illo tempore e per questo costituisce un precedente esemplare […]. Ogni rituale, ogni azione che abbia un senso, eseguiti dagli uomini, ripetono un archetipo mitico […]. Chi compie un rito qualsiasi, trascende il tempo e lo spazio profano; allo stesso modo, chi «imita» un modello mitico o soltanto ascolta ritualmente (partecipandovi) la recitazione [414] di un mito, è sottratto al divenire profano e ritrova il Grande Tempo. Il tempo mitico delle origini è un tempo «forte», perché è stato trasfigurato dalla presenza attiva, creatrice degli Esseri Soprannaturali. Recitando i miti, si reintegra questo tempo favoloso e, di conseguenza, si diventa «contemporanei» degli avvenimenti evocati, si partecipa alla presenza degli Dei o degli Eroi. In maniera sommaria, si potrebbe dire che, «vivendo» i miti, si esce dal tempo profano, cronologico e ci si immette in un tempo qualitativamente differente, un tempo «sacro», nello stesso tempo primordiale e indefinitamente recuperabile. […] Non si tratta di una commemorazione degli avvenimenti mitici, ma della loro ripetizione. I personaggi del mito sono resi [415] presenti, si diviene loro contemporanei. Ne consegue che il Tempo sacro è indefinitamente ricuperabile, indefinitamente ripetibile. Sotto un certo aspetto si potrebbe dire che esso non “trascorre”, che non costituisce una “durata” irreversibile. E’ un Tempo ontologico per eccellenza, “parmenideo”: sempre uguale a se stesso, non muta né si esaurisce. Ad ogni festa periodica, ritroviamo lo stesso Tempo sacro […] L’uomo religioso vive quindi in due diverse specie di Tempo, la più importante delle quali, il Tempo sacro, ha l’aspetto paradossale di un Tempo circolare, reversibile e ricuperabile, una specie di eterno presente mitico reintegrato periodicamente attraverso i [416] riti. [corsivi dell’autore] Del resto, non avevamo forse già avvertito come, in quegli anomali Totali dell’educazione di Giasone, il personaggio finisse con l’essere riassorbito dalla natura che lo circonda? Il ciclo periodico è assolutamente astorico: il tempo della storia è lineare, non conosce il ritorno. La natura invece lo conosce e lo mostra con la massima chiarezza nel «percorso ciclico» delle stelle, attraverso il ritorno dei suoi «periodi»: le stagioni, le fasi lunari, i [417] diversi momenti della giornata. James Hillman, notissimo psicanalista che si è occupato a lungo della natura mitologica della psiche umana, identificando nella figura e nella presenza viva di Pan il presupposto essenziale per il mantenimento di un vivo e salutare rapporto con la natura (e con l’aspetto totalmente naturale dell’uomo stesso), parla di questa condizione di compenetrazione di uomo e natura come di «natura dentro di noi»: In quanto Dio di tutta la natura, Pan personifica per la nostra coscienza ciò che è completamente o soltanto naturale, il comportamento nel suo corso massimamente naturale. Il comportamento il cui corso è naturale è, in un certo senso, divino; è un comportamento che trascende il giogo umano degli scopi: è interamente impersonale, [418] oggettivo, inesorabile. Per afferrare Pan come natura dobbiamo prima essere afferrati dalla natura, sia “là fuori” in una campagna deserta che parla con suoni e non con parole, sia “dentro di noi” […] [419]
Ecco che allora, in definitiva, ciò che qui viene concretamente tematizzato nelle immagini, in questa compenetrazione di uomo e natura, è il presupposto stesso di quella condizione di «apertura» reciproca tra uomo antico e Mondo, teorizzata da Eliade, che permetterebbe al Mondo di riverlarsi come linguaggio e all’uomo di intenderlo come tale, e da cui avrebbe preso spunto (come abbiamo [420] ben visto) tutta la riflessione semiologica di Pasolini . Condizione di apertura che è poi, in definitiva, con perfetta convenientia tra contenuto e forma, l’argomento stesso degli insegnamenti che il Centauro (almeno finché conserva la sua forma sacra) impartisce a Giasone in questa rappresentazione della fanciullezza dell’eroe; condizione che non potrebbe essere concretamente esperita al di fuori di questo tipo di Tempo e dell’infinito gioco di variazione e ripetizione che gli è proprio, secondo l’esempio concreto dell’Anno e del ciclo vegetale –che altro non sarebbe, poi, che quel supremo insegnamento “del seme” che Pasolini esprime qui per bocca del Centauro (e che poi dichiarerà di aver ripreso, quasi letteralmente, da Eliade) –o secondo (perché no?) l’altro esempio concreto per noi possibile, che è quello rappresentato dalle inquadrature stesse che stiamo trattando… Insomma, citando Mircea Eliade (Trattato di storia delle religioni , Einaudi): «Quel che l’uomo ha visto nei cereali, quel che l’uomo ha imparato da questo contatto, quel che l’uomo ha inteso dall’esempio dei semi, che perdono la loro forma sottoterra, tutto questo rappresenta la lezione decisiva». La lezione, cioè, che ha determinato per circa [421] una dozzina di millenni la storia (e la religione) umana. E non è solo questo punto del film, né solo la microstruttura, a risentire di questa ciclicità e di questo duplice principio di ripetizione e variazione : riconsideriamo la doppia vendetta di Medea: Il rapporto privilegiato fra il cinema e l’immaginario, e in particolare fra il cinema e il sogno, è stato messo a fuoco da diverse angolazioni teoriche […]. Va detto però che proprio il parallelismo intrinseco film/sogno rende difficile la realizzazione delle sequenze oniriche, spesso poco credibili […]; il sogno è infatti difficile da caratterizzare, perché il flusso filmico possiede appunto i tratti di una visione immaginaria […]. Anche qui in Medea solo le brevi scene con il sole e con le donne sono immediatamente codificabili come visione, mentre nelle altre più lunghe unità narrative (soprattutto nella morte di Glauce) finisce per dominare l’effetto di realtà tipico del linguaggio cinematografico […]. Lo spettatore, soprattutto se alla prima visione del film, non decodifica infatti tutto il lungo segmento che abbiamo appena analizzato come visione (le sovrimpressioni possono anche sfuggire, e non sono numerose), e resta quindi sorpreso nel rivedere in vita il personaggio di Glauce dopo averne visto la morte (l’ho verificato di persona su un campione piuttosto largo) […] [422]
Insomma, a causa delle suddette difficoltà di differenziazione, la prima vendetta di Medea sarebbe per Fusillo una visione “venuta male”; e, tutto sommato, non avrebbe neanche tutti i torti: effettivamente, quelle sovraimpressioni del volto di Medea che dovrebbero chiarire allo spettatore la natura di sogno, di visione, di ciò che sta osservando, non chiariscono nulla, sono poco numerose e tendono a passare inosservate. O meglio: non avrebbe tutti i torti se si trattasse effettivamente di una visione; ma quale che fosse stata in partenza la natura originaria di queste sequenze, dopo tutto quello che siamo venuti fin qua dicendo, la nostra ipotesi è invece che, a livello di film realizzato, non si possa ormai più parlare di una visione “venuta più o meno bene o male”, quanto semmai di una vera e propria variante mitica, “truccata” da visione per dissimulare la terribile alterità dell’anomalia . Le sovraimpressioni sono chiaramente “posticce”, di recupero, verosimilmente non [423] ancora previste non dico in fase di sceneggiatura, ma neppure in fase di ripresa ; e, soprattutto, sono deboli rispetto alla forza dirompente con cui il Tempo sacro di questa storia, di fatto, si dipana sullo schermo per ben due volte di seguito senza alcun ritegno. Rispetto al terso nitore del razionalismo e della narrazione euripidea, la differenza non potrebbe essere maggiore: la tragedia di
Euripide è una narrazione che si svolge in maniera logica, lineare e consequenziale, e che contiene in sé tutto ciò che è necessario alla sua fruizione da parte dello spettatore; costruita su una struttura di climax rigoroso e progressivo, la catena delle cause e degli effetti con conosce stasi o eccezioni, parte dall’imminenza delle nozze, si innesca con l’ordine dell’esilio impartito da Creonte a Medea, passa per il famoso dialogo fra Medea e il coro (vv.764-823 alla fine dell’episodio di Egeo), in cui Medea formula il suo atroce piano, per concludersi, infine, attraverso la falsa riconciliazione con Giasone, con l’effettiva consumazione della vendetta. Ma la differenza è sostanziale anche rispetto alla sceneggiatura stessa del film: nonostante in essa sia già presente l’idea della doppia vendetta, la scenggiatura è ancora, in un certo senso, più vicina all’originale greco che non alla pellicola. Come noto, se si prescinde dall’antefatto mitico, la maggiore innovazione apportata da Pasolini alla traccia originaria di Euripide era consistita, in sede di sceneggiatura, proprio nell’aggiunta delle visioni di Medea, tanto che da quelle visioni il film doveva addirittura, in un primo tempo, prendere il titolo: si trattava delle scene da 70 a 76 (cioè il primo sogno di Medea, contenente, oltre al succitato dialogo fra Medea e il coro, una gran varietà di immagini metaforiche, quasi tutte poi escluse dal film) e poi delle scene da 81 a 86 (cioè il secondo sogno, sostanzialmente rimasto invariato nel film, e coincidente con la prima occorrenza della vendetta di Medea, quella più caratterizzata in senso fantastico). Ora, rispetto a quello schema di massima che abbiamo appena più sopra abbozzato (imminenza delle nozze, ordine dell’esilio, discorso di Medea, falsa riconciliazione, consumazione della vendetta), il fatto che nella sceneggiatura il discorso di Medea sia stato spostato dal piano narrativo della realtà a quello della sua visione soggettiva, e il fatto che la vendetta sia stata raddoppiata sognandola, non provocano in effetti nessuna alterazione né all’ordine degli eventi né alla linearità della narrazione: da un lato, infatti, passando da un livello narrativo ad un altro (spostamento di ordine “verticale”), questi eventi sono magari mutati di grado, ma non di posto né di funzionalità (spostamento di ordine “orizzontale”); dall’altro, è in fin dei conti intrinseco alla natura stessa di sogno di questi interventi di Pasolini di non poter influire sul piano (narrativo) della realtà. Così, in parole povere, il sogno della vendetta non può influire e di fatto non influisce su nessun altro dei personaggi della tragedia né sull’evolversi successivo degli eventi; il fatto che il coro e la nutrice non siano più a conoscenza, al livello della realtà, dei piani di vendetta di Medea (in quanto Medea ha solo sognato di dirglielo), non fa alcuna differenza rispetto al fatto che la nutrice sia poi comunque mandata a chiamare Giasone e che si proceda quindi con la falsa riconciliazione tra lui e Medea. Insomma, nella sceneggiatura, le visioni sono ancora “solo” visioni. E quindi, la linearità ascendente del climax euripideo è integralmente preservata; non vi è un sola azione o un solo evento che non sia rimasto ben preparato e preceduto dalla sua giusta motivazione come nell’originale. Ed è per l’appunto proprio la sceneggiatura a costituire il principale appoggio e la principale argomentazione per chi, anche nel film, vuole interpretare la prima occorrenza della vendetta di Medea secondo il modello teorico narrativo della visione; ma nel film le cose sono ormai mutate profondamente, e quel modello teorico non è più applicabile: non a caso, ciò che è solo errore o anomalia non meglio precisata, se valutato secondo il modello della visione soggettiva, del sogno, diventa, se si cambia prospettiva, l’emergenza specifica e significativa di un improvviso ergersi e di un diverso scorrere del Tempo. Si osservi, a questo riguardo, che, nonostante Pasolini non abbia poi realizzato (o abbia realizzato e poi escluso in fase di montaggio –chissà…) la gran parte del primo sogno (finendo col ridurre drasticamente anche quel famoso discorso di Medea che figurava ancora intero in sceneggiatura), avrebbe comunque avuto materiale più che a sufficienza, se avesse voluto, per montare il film secondo il progetto originario: si sarebbe solo avuto un primo sogno più corto, senza alcuna ripercussione sul procedere della narrazione. Pasolini, invece, con un intervento che deve essere a questo punto considerato pienamente consapevole, decide di fare tutt’altro: posticipa violentemente la presentazione del dolore di Glauce e l’ordine dell’esilio da parte di Creonte; anticipa l’incontro col centauro; e, soprattutto, anticipa il secondo sogno, fondendolo col primo. A questo punto cosa succede? Nel film la funzione del brano [il già menzionato dialogo tra Medea e il coro] è profondamente trasformata; innanzitutto c’è una differenza nella posizione sintagmatica: mentre lo spettatore di Euripide conosce a questo punto già tutti i nodi del dramma, lo spettatore di Pasolini ha assistito solo alla scena della danza maschile spiata da Medea, e non sa ancora nulla […] del progetto di matrimonio fra Giasone e Glauce, che viene
menzionato proprio qui per la prima volta. Pasolini ha inoltre eliminato dal brano tutti i riferimenti concreti all’uccisione sia della sposa che dei bambini […]. Se si osserva che Medea e le donne ripetono più volte, come un ritornello di preghiera, il verso […] «O Dio, o giustizia cara a Dio, o luce del Sole» […] si capisce che nella riscrittura pasoliniana dominano le funzioni emotiva e poetica del linguaggio, a scapito di quella referenziale. Quello che in Euripide è uno scambio comunicativo orientato verso l’azione, diventa qui un momento di ritualità magica […], non espone lucidamente un piano di vendetta, ma ne esprime solo il desiderio: la connotazione domina insomma [424] sulla denotazione. Ma c’è di più, molto di più: e, tanto per cominciare, dovremmo rilevare l’incongruenza estrema delle battute conclusive che la nutrice rivolge a Medea: NUTRICE: Poiché ci hai rivelato le tue intenzioni, noi vorremmo esserti utile… consigliandoti di ricordare le più sante leggi umane. MEDEA: ormai mi è impossibile agire diversamente. Voi non potete approvarmi solamente perché non avete sofferto tutti i mali che ho sofferto io. NUTRICE: Ma chi ti darà il coraggio di fare ciò che hai in mente? Chi ti darà questo coraggio? MEDEA: Troverò questo coraggio: pensando che egli ne sarà reso infelice. NUTRICE: Ma tu non lo sarai di meno, povera donna disperata! MEDEA: Basta. Nutrice, basta: ecc… Queste battute, che ricalcano assai da vicino l’originale greco, sarebbero pienamente giustificate se, come in Euripide, Medea effettivamente dichiarasse i suoi atroci intenti; ma nel film risultano totalmente immotivate, incongrue; totalmente fuori misura rispetto all’espressione di un generico «desiderio» di vendetta. Per altro, per quanto questo dialogo avvenga in movimento, e quindi Medea e la nutrice siano ciascuna seguita avanti e indietro da un carrello, si tratta pur sempre, alla fin fine, di un dialogo in campo e controcampo, ed è in genere abbastanza facile, con questo tipo di costruzione, mettere, togliere, accorciare o spostare intere battute: l’incongruenza non può dunque essere casuale. Ma appena pochi minuti più avanti nel corso del film, nella scena che abbiamo già, per altri versi, analizzato, quando Medea affida ai suoi figli i doni per Glauce, di stranezze ce ne sono anche di più: non solo –e non tanto, al limite –l’accenno all’oscuro presentimento che improvvisamente la coglie, che in Euripide (e ancora nella sceneggiatura) poteva essere interpretato dallo spettatore come un preciso richiamo all’incombere imminente del fato, e che nel film, invece, risulta ridotto al rango di [425] oscura e generica allusione ; quanto soprattutto il fatto che, ormai sul finire della scena, Medea dica chiaramente: «Ma tu promettimi, promettimi di pregare la sposa perché convinca il Re suo padre a non voler bandire i nostri figli!» –un’allusione generica anche questa? Evidentemente no. Si tratta, anche in questo caso, di una frase che non avrebbe sollevato alcun problema, se questo secondo sogno di Medea fosse rimasto “al suo posto”: perché l’ordine dell’esilio sarebbe già avvenuto nella realtà, e ora lei potrebbe ricordarsene in sogno. E allora, se la prospettiva con cui queste immagini sono state spostate dal loro posto a qui fosse veramente rimasta quella della “semplice” visione, in un film che è tutto ellissi, perché non elidere in montaggio anche questa frase? –sarebbe stata cosa assai semplice… e vantaggiosa, dato che, nella prospettiva della
“visione”, questa frase suona come un’anticipazione indebita, come un passaggio di informazioni galeotto e clandestino da un tempo a un altro e dal piano narrativo della realtà a quello del sogno soggettivo di Medea, la quale non può aver sognato ciò che non è ancora avvenuto –nemmeno, in questo caso, per forza di magia. In quella prospettiva, si tratterebbe insomma di una grossolana svista, di una metalessi del tutto ingiustificata, che non avrebbe neppure i pregi della famosa [426] «Rosebud» di Welles , in quanto qui non serve né a mettere in moto la narrazione né a caratterizzare in alcun modo l’atmosfera della scena. Eppure Pasolini non l’ha tolta. Forse, appunto, perché tutta questa sezione del film, nello spostarsi, ha anche in realtà cambiato natura: è diventata –come si diceva poche pagine più su –una vera e propria variante mitica , una delle più vistose e virulente manifestazioni di questo fenomeno che la storia del cinema ricordi: allora, forse, quella frase sta lì come uno spillo a infilzare il sogno nella realtà, segno prepotente, sfregio sul volto lineare della narrazione, che pretende e presuppone che l’ordine dell’esilio abbia già avuto luogo sullo stesso piano narrativo, in un Tempo che deve essere già stato, che sarà ancora (come vedremo di lì a poco nel film), che, in definitiva, semplicemente è ; come è e sarà di nuovo la vendetta stessa di Medea. Del resto, tutta quanta la narrazione pasoliniana di questo dramma sembra proprio aver perso, rispetto all’originale greco, la capacità di camminare in linea retta mettendo un piede avanti all’altro. Non è un casoche la fanciullezza e l’educazione di Giasone siano state rappresentate attraverso una serie di fortissime ellissi che ci mostrano stadi successivi giustapposti: in questo modo non viene mai mostrata alcuna evoluzione in atto. Allo stesso modo, di colpo, senza alcuna spiegazione, ci si presentano allo sguardo la nave Argo (una zattera) e la compagnia degli Argonauti: nella sceneggiatura invece la preparazione della spedizione degli Argonauti veniva narrata con cura. E ancora: dopo pochi minuti dall’inizio del film, facciamo conoscenza con Medea, ma il suo nome lo conosciamo solo nel pieno del secondo tempo. Del resto, anche l’aiuto che Medea offre a Giasone appare del tutto immotivato allo spettatore: in effetti se si confronta tutta la prima parte del film (il cosiddetto antefatto mitico) con la sceneggiatura, si vede che sono state tolte moltissime scene narrative provocando forti ellissi; altre scene, ad es. quelle in cui Medea sta ad ascoltare i canti delle donne al lavoro, maturando il suo amore per Giasone, sono state rese assolutamente ottuse, opache, chiuse alla lettura, e perciò prive del loro valore e della loro funzione nella catena delle motivazioni e dei nessi di causa-effetto della narrazione. La scomparsa dell’episodio di Egeo, in sé e per sé, ha indubbiamente poca rilevanza e poche ricadute a livello strutturale, ma a suo modo pare indicativa: così come Medea non si preoccupa più veramente del suo futuro, e quindi della sua fine, il film (se ci si passa la metafora) non si preoccupa di avere un finale vero e proprio, un finale in senso forte. Questo stato di cose, d’altra parte, non deve sorprendere più di tanto, se, come abbiamo or ora dimostrato, la struttura narrativa del film dipende direttamente dalle caratteristiche del Tempo Sacro, e dal suo modo di manifestarsi ; anzi: nella descrizione del Tempo Sacro che, poche pagine più sopra, abbiamo citato da Eliade, c’è una frase particolarmente significativa al riguardo –e che lì non avevamo voluto sottolineare per non mettere subito “troppa carne al fuoco”–: «Sotto un certo [427] aspetto si potrebbe dire che esso non “trascorre”» ; per di più, la somiglianza di questa espressione con quella usata da Pasolini per l’inquadratura, che deve «scorrere» e non «scorrere», suona ai nostri orecchi come un campanello d’allarme, e ci suggerisce di approfondire ulteriormente la questione. E in effetti, la riflessione di Pasolini sullo «scorrere» delle inquadrature sembra essere intimamente e strettamente legata a una riflessione a più ampio raggio sulla natura del tempo. A giudicare da quei tardi brani di Empirismo eretico che abbiamo a suo tempo citati, infatti, si direbbe che nel paradosso-compromesso della «poesia narrativa», oltre allo scontro tra le due opposte esigenze del dover «scorrere» e del dover non «scorrere» (di cui ormai già tanto si è detto), agisca anche un’altra inconciliabile opposizione: quella di dover, da un lato, «obbedire alle regole della successività», per cercare di ricreare, come nella realtà vissuta, l’illusione della «continuità come [428] successività (che è l’illusione principe dei nostri sensi)» ; dall’altro, di non poterlo (e doverlo)
mai fare completamente, in quanto comunque «mai, in pratica, cioè nei vari films» il tempo del cinema è lo stesso tempo della realtà; di conseguenza, il cinema «non è irreale, come la realtà, che è fondata su un’illusione: ossia sul passare di qualcosa che non c’è, il tempo. Il cinema al contrario è fondato sull’abolizione del tempo come continuità e quindi nella sua trasformazione in realtà [429] significativa e morale» . A giudicare da questi brani, pare non esserci possibilità di dubbio: quando Pasolini parla di «successività», sembra proprio intendere «successività temporale»; gli epiteti e le locuzioni stesse che usa, sembrano confermare questa ipotesi: quando dice che la realtà è basata sull’illusione del tempo, e poi che la successività è «l’illusione principe dei nostri sensi», sembra proprio parlare del Tempo come forma a priori della conoscenza, rifacendosi a una tradizione filosofica che, a grandi linee –lo diciamo sperando di non destare troppo orrore nei veri filosofi –nasce con Kant (il quale trova così una prima vera soluzione a un problema che era già secolare) e poi, passando per le mani di Schopenhauer, si tinge dei colori dell’illusione, della gabbia, del “velo di Maya”. Il che, però, se veramente Pasolini intendeva «successività temporale» quando parlava di «successività» –se cioè veramente intendeva dire che fosse l’illusione della successività temporale a fondare quella della continuità –sarebbe a dir poco piuttosto strano, almeno parlando di cinema: i termini scelti da Pasolini per affrontare il discorso sotto la specie temporale, infatti, sarebbero a dir poco ambigui, e si prestano al bisticcio. Intanto, perché (come si è avuto anche già modo di accennare) nel cinema –o almeno nei singoli film –la successività temporale c’è, c’è di suo; rispetto al sistema “Realtà” in cui –giocoforza –siamo immersi, la successività temporale nel cinema non è né più né meno reale o «irreale» o, tanto meno, illusoria; è CONCRETA, semplicemente c’è: una fuga ininterrotta di perforazioni e fotogrammi, metri e metri di pellicola, una sequela ininterrotta di aperture e chiusure di lampada. In questo senso, in quanto concreta, è di per sé completamente inutile, ottusa, totalmente priva di significato. Solo e semplicemente un dato di fatto. Un presupposto tecnico bruto –condizione necessaria –che però rende possibile il mezzo cinema. Dunque, non sarebbe mai possibile, restando dentro il cinema, evadere dalla continuità frenando o annullando la corsa sfrenata dei fotogrammi… Semmai, nel cinema, per eccellenza arte della realtà sbocconcellata a piccoli morsi –uno qua, uno là; uno prima, uno dopo –la continuità –quella sì! –è veramente un’illusione (l’illusione principe! ), tenuta in piedi (e non senza fatica), sia in sede di ripresa che di montaggio, dal rispetto di tutta una serie di sofisticati accorgimenti e di pratiche tecniche e organizzative che prendono il nome, in inglese, di continuity , e, in italiano, di edizione . Alla realizzazione e alla conservazione di questa “grande truffa” che è la continuità del cinema (o, meglio, dei singoli film) sono obbligati a collaborare tutti i reparti della troupe, con un gran lavorio: si va dalla manipolazione del profilmico (scene, costumi, trucchi, attrezzeria), alla manipolazione di elementi assai più impalpabili (continuità fotografica, regolamentazione dello scavalcamento di campo), ecc…; il cinema si è dovuto persino inventare un’intera categoria professionale (lo si dice con tutto il dovuto rispetto per il loro impagabile lavoro) specificamente incaricata e responsabile del successo di questa truffa: quella dei segretari di edizione. Insomma, se la successività è una concretezza che c’è, la continuità è un’illusione che ci va messa, e che non ha nulla a che vedere con la fuga frettolosa dei fotogrammi. A questo punto il lettore potrebbe anche pensare che qui, giocando proprio sull’omonimia e sul bisticcio, si stia in realtà parlando di un’altra continuità, (surrettiziamente inserita nel discorso) rispetto a quella continuità temporale, così squisitamente filosofica, di cui parla Pasolini in Empirismo Eretico , ma le cose non stanno affatto così. Il fatto è che quella continuità temporale che prima, a livello di langue , di cinema, poteva darsi in forma pura, incontaminata, completa, rientra, nel passaggio al film, tra le maglie di quell’altra continuità, quella “pragmatica” di cui si è appena detto, che è poi di fatto l’unica continuità veramente esperibile dopo che il montaggio ha intaccato gli infiniti piani sequenza della langue cinema. Non è anzi un caso che il discorso pasoliniano sul Tempo assuma tutta un’altra chiarezza –questa è la nostra ipotesi –se con «successività» temporale si intende non propriamente il mero succedersi dei momenti, cioè quell’imbuto della nostra coscienza che ci obbliga a metterli in fila indiana, uno dietro l’altro, come i fotogrammi della pellicola, ma si intendesse piuttosto l’intenzionalità insita in questo succedersi –nulla illude o inganna senza l’apporto di un’intenzionalità, propria o altrui –ovvero i rapporti e i vari legami che si
instaurano da un anello all’altro di questa catena, più che gli anelli in sé e per sé, e quindi tutti quei meccanismi di motivazione, causa-effetto e finalizzazione che mantengono tesa e dritta questa catena nella sua corsa, e che sono poi i modi, le malie, gli artifici in base a cui il Tempo, in ultima analisi, nasconde la propria insensatezza, le proprie disuguaglianze e intemperanze, i suoi vuoti e i suoi pieni, le proprie collere e i propri languori, in cambio del miraggio, o della fata morgana, di una strada semplice e diritta, di un traguardo unico e prossimo, appena più in là dell’ultimo orizzonte. Se volessimo per un attimo ritornare all’altra metafora, quella dello «scorrere», potremmo dire che nella successività come intenzionalità si manifesta l’aspetto del voler scorrere che è la componente teleologica implicita nello «scorrere» stesso. Lo stesso inganno, finalizzato e finalistico, dell’apparente e omogenea continuità profana del tempo, si cela dunque nella continuità cinematografica, che vorrebbe convincerci, con gli stessi meccanismi e gli stessi stratagemmi, che quel cane che salta dalla finestra è lo stesso che prima afferrava al volo il bastone; che quel mazzo di chiavi è sempre rimasto nella tasca sinistra di quella giacca, anche quando chi la indossa era fuori campo; che questa stanza e questa parete di fondo si trovano davvero dentro alla casa che abbiamo visto da fuori appena prima; che quel personaggio è effettivamente a destra dell’altro; che la pallottola che ora ha colpito è partita dalla pistola che prima ha sparato; che è ancora notte –quella notte –e sono passati solo pochi minuti; che, in definitiva, ogni film sia un insieme coerente e coeso, continuo , che anzi abbia un inizio e vada verso una fine (e magari per la via più breve), e non che sia quello che è in realtà: un pieno di vuoti, tutto un salto e un’ellisse, una strada contorta e piena di buche da scavalcare, in cui sarebbe facile inciampare e cadere, se non fosse per l’appiglio di quei rapporti di intenzionalità che si tendono da un punto all’altro del testo. La continuità, sotto la specie di questa successività, è dunque molto più di quel che comunemente si dice o si crede: è l’arma più forte e l’emblema stesso della narrazione, la rete che questa getta per pescare nelle profondità del sotto-film, e che impedisce al pescato di scivolare via e di fuggire. L’ora di Pan era sempre il meriggio […]. Questi sono i momenti in cui il tempo si arresta , in cui l’ordinata processione di momenti si disgrega […]. In questi momenti il tempo viene percorso da qualcosa di straordinario, qualcosa che è oltre l’ordine abituale […]. Questo è il momento in cui il momento stesso conta, dove il momento è separato da prima e dopo, senza legge, diventa una qualità, una costellazione delle forze nell’aria, senza continuità e perciò senza relazione con lo «…squallido tempo / Che prima e dopo si stende». Tale è l’irrelatezza di Pan, e dell’aspetto spontaneo della natura. E’ semplicemente così com’è, là dove si trova; non il risultato di eventi, non con un occhio al loro esito [430] […]. [corsivi nostri] Ma così descritta e individuata, questa «irrelatezza» mitica del Tempo “toccato” dalla presenza del Dio e perciò reso sacro, fuori dalla «continuità» e dalla vicenda degli «esiti», e quindi, in definitiva, fuori da quella nostra successività come intenzionalità , non si attaglierebbe forse altrettanto bene a come, concretamente, abbiamo verificato che le prime inquadrature del film “non scorrono”? Non si attaglierebbe perfettamente a quella triplice ipotesi che avevamo formulato a riguardo dei Totali dell’educazione di Giasone? A come abbiamo visto che intaccano e fanno incespicare l’ordine normale del “grado zero” della «convenzione narrativa» prosastica, sia da un punto di vista spaziotemporale che da un punto di vista funzionale? A come ne incrinano la normale gerarchizzazione dei vari elementi dell’inquadratura, a come ne dilatano enormemente il senso a scapito della leggibilità? In una parola, a come vanno ad erodere alla base tutta la logica del decoupage ? Nella negazione di tutti quei paradigmi che sono finalizzati alla leggibilità del film, si finisce col negare il carattere finalistico e utilitaristico stesso della «convenzione narrativa», cioè, appunto, il suo carattere di successività intenzionale che vuole darsi come continuità rasserenante e disimpegnata : perché se nel farsi del film erano stati il lavoro e l’intento di molte persone a farsi carico della “truffa” della continuità, nel film fatto e compiuto la continuità è a carico dell’Enunciazione del film, della sua narrazione; è a carico di quegli stessi «procedimenti logici e illustrativi» del cinema prosastico (ormai già così tante volte chiamati in causa) che, negli anni, ne
hanno generato anche i paradigmi di leggibilità e gerarchizzazione, e che hanno sottaciuto con frode la natura di monstrum del cinema. Alla fin fine, dunque, i “meccanismi” che obbligano il Tempo a marciare in linea retta, che lo obbligano a essere Storia piuttosto che Tempo Sacro, che gli impediscono di ripiegarsi su se stesso e riavvolgersi in un circolo virtuoso seguendo l’esempio della Natura, sono gli stessi “meccanismi” che costruiscono la continuità cinematografica, che tengono in piedi la finzione dell’apparente continuità temporale del film, che obbligano il film a essere una storia lineare modellata sull’esempio della Storia: evidentemente, possiamo allora forse concludere che nel cinema si costituisce come categoria dell’utile narrativo quella ossessiva categoria dell’utile che abbiamo più volte accennato essere la caratteristica peculiare, alienante e monopolizzante, dell’era neocapitalistica come «ordine orrendo», che santifica la produzione e il consumo piuttosto che il Sacro; che è il principale discrimine tra il riattuarsi del Tempo Sacro e la durata profana del tempo dedicato al lavoro; tra quella condizione di «natura dentro di noi» che è presupposta da un autentico contatto col Sacro, e l’approccio moderno, utilitaristico e razziatore, verso una natura morta e sconsacrata: Un grido percorse la tarda antichità: «Pan, il grande, è morto!» narra Plutarco nel Tramonto degli oracoli […]. Una cosa fu annunciata: la natura era stata privata della sua voce creativa. Essa non era più una forza indipendente e vivente di generatività. Ciò che aveva avuto anima, la perdette; o andò perduta la connessione psichica con la natura. […] La natura cessò di parlarci –oppure non fummo più capaci di udirla. […] Le pietre divennero soltanto pietre –gli alberi, alberi; le cose, i luoghi e gli animali non erano più questo Dio o quello, ma diventarono “simboli” o si disse che “appartenevano” a questo o a quel Dio. Quando Pan è vivo allora anche la natura lo è, ed è colma di Dei […] Ogni cosa che veniva mangiata, odorata, calpestata o spiata era una presenza sensuale dotata di rilevanza archetipica. Una volta che Pan è morto, la natura può essere controllata dalla volontà del nuovo Dio, l’uomo , modellato ad immagine di Prometeo o Ercole, che [431] crea da essa e l’inquina senza alcun turbamento morale . [corsivi nostri] Con tutto questo, non pensiamo certo di aver esaurito l’argomento mito, né tanto meno di essere riusciti ad imbrigliarlo in una “facile” ricetta di cinema, fatta e finita e data una volta per tutte: sarebbe veramente un’idea ingenua e presuntuosa. Pensiamo però di poter dire, e veramente a ragion veduta, che se, come dice Pasolini, il cinema è una lingua spazio-temporale, allora lo è sulla [432] base di uno Spazio e di un Tempo Sacri, di cui manifesta tutte le caratteristiche , e non sulla base di quello spazio-tempo profano a cui la civiltà tecnica e scientifica dell’«ordine orrendo» ci ha abituato a pensare dandolo per scontato; nella concreta manifestazione Sacra di questo Spazio e di questo Tempo, e nella fuoriuscita dalla categoria dell’utile (concretamente realizzata sul piano narrativo del film) come condizione sine qua non per il recupero di un autentico e non alienato rapporto col sacro, il cinema di Pasolini ottempera realmente all’obbiettivo preposto di essere la ierofania scritta di una realtà sacra ; insomma, si tratta realmente, in una parola, di un racconto che, dal sotto-film alla struttura narrativa, dai più sottili elementi micro-strutturali ai più ampi capitoli della macro-struttura, procede per modi mitici; si tratta di un racconto mitico . In questo senso, anche le domande (più volte ripetute) su cosa realmente sia «mito» e su cosa sia «sacro» per il cinema, si può forse dire che abbiano finalmente ricevuto una risposta quanto più concreta [433] possibile. Per inciso, anche quella dinamica delle polarità, delle opposizioni inconciliabili, di cui molti (come si è visto) hanno pensato di dover andare a caccia di una giustificazione cercando, nel testo, un presunto alternarsi di brani di «cinema di poesia» e di «cinema di prosa», è anche quella, né più né meno, una dinamica effettivamente del tutto interna, intrinseca, all’ambito mitico e archetipico, proprio come Pasolini aveva sempre insistito a dire: Nel corso dei secoli è stata continuamente avanzata l’idea di una fondamentale polarità del ritmo organico. Una sola e medesima idea archetipica circa il ritmo della vita
naturale è presente in quelle coppie chiamate in tempi diversi e da diversi teorici: accessus / recessus, attrazione / repulsione, Lust / Unlust, diastole / sistole, introversione [434] / estroversione, coazione / inibizione, fusione / separazione, tutto / nulla, ecc. La polarità «libertà-mancanza di libertà» contraddistingue la struttura di base della [435] mitologia. Per altro –e sia detto ancora per inciso –anche le opposizioni interne al testo che “tradizionalmente” sono state individuate nell’Edipo re , risultano, a una più attenta analisi, non dico errate ma malintese; e sempre per lo stesso motivo, e cioè che per aver disconosciuto la dimensione autenticamente mitica di questo film, si è conseguentemente sentita l’esigenza di andare a cercare altrove la loro natura e la loro ragion d’essere: […] il corpo centrale del film racconta l’intera storia di Edipo servendosi di un’ambientazione primitiva agli antipodi del neoclassico; con un eclettismo provocatorio vengono affiancati e contaminati elementi provenienti da varie culture «barbariche» […] per dare un quadro ctonio, desertico, ricco di implicazioni simboliche. Questo racconto mitico viene poi incastonato in una cornice di ambientazione moderna, creando così un fascinoso contrappunto tra mito e storia : dal livello ontogenetico, cioè dall’esperienza personale di Pasolini, si passa a quello filogenetico, al livello psichico universale che coinvolge tutti gli spettatori. […] la cornice moderna […] offre comunque allo spettatore un quadro ideologico e [436] interpretativo ispirato soprattutto a Freud. [corsivo nostro] […] l’interpretazione freudiana condiziona non solo la sua lettura creativa di Edipo re […], ma anche la rappresentazione della propria esperienza familiare. Pasolini ha dichiarato spesso che questo film è il suo film più autobiografico: oltre a raccontare il mito, oltre a rifare Sofocle […], egli voleva rappresentare il proprio complesso di Edipo. E questo avviene nello splendido prologo […] che è stato spesso considerato [437] un’esposizione da manuale delle teorie freudiane. Ma allora tra tutte queste condivisibili considerazioni, ne manca almeno una, fondamentale (e tanto più a maggior ragione dopo tutte le analisi che abbiamo svolto nel corso di questo capitolo): e cioè che è veramente difficile non notare la nettissima somiglianza che lega, ad ogni livello del testo filmico, questo prologo “moderno” di Edipo re a sequenze che noi abbiamo dimostrato essere emblematiche di una modalità mitica di rappresentazione, come ad es. quella dell’educazione di Giasone. Eviteremo, a questo punto, di addentrarci nei dettagli di altre faticose e puntigliose analisi, ma come non notare lo stesso senso di guardar si e riguardar si attorno; come non notare la stessa soggettività svagata e apparentemente senza soggetto, di cui a volte si fa carico Edipo bambino (come nelle scene dei giochi sul prato) ma di cui altre volte sembra veramente impossibile rintracciare l’origine (chi si sta affacciando dietro alla ringhiera mentre nasce il bambino?); oppure, come non parlare di come anche in queste scene le inquadrature e il tempo “non scorrano” (e noi ora conosciamo tutte le implicazioni di questa metafora), di come si ribellino nella maniera che sappiamo all’ordine normale della «convenzione narrativa» (così i molti totali; così il famosissimo P.P. di Giocasta sul prato mentre allatta il bambino); anzi, per tanti versi, queste scene, coi loro silenzi, con la loro ieraticità, col loro sfuggire alle regole prosastiche della denotazione, somigliano forse addirittura ancor più alla Colchide che non all’infanzia di Giasone… Del resto, come abbiamo già avuto modo di ricordare, Pasolini l’aveva detto: «anziché proiettare il mito sulla psicanalisi, [438] riproiettai la psicanalisi sul mito» –ora sappiamo quanto concretamente Pasolini intendesse questa riconsegna al suo originario ambito mitico di questo mitologema che il novecento aveva tinteggiato di toni psicanalitici. Non è allora più possibile parlare, per queste sequenze, in termini solo di «ontogenesi» individuale, e quindi storica, di un singolo individuo a sua volta
necessariamente storico: quello che qui viene rappresentato è semmai un mito di infanzia, o [439] l’infanzia come mito , per cui sia l’istanza ontogenetica che quella filogenetica risultano [440] entrambe riassorbite nella dimensione mitica . Ora, però, siamo forse anche finalmente in grado di dare, a questi film mitologici, una collocazione critica in seno al complesso dell’opera pasoliniana, colmando così una delle più grosse lacune critiche che avevamo individuato nei primi capitoli di questo studio. Stante allora che questi film si raccontano secondo le modalità del mito, per cominciare, potremmo provare a chiederci in quanti modi il mito può essere raccontato. Come noto, il mito, all’inizio, semplicemente è . In questo illo tempore , che, almeno da un punto di vista logico, viene sempre prima di qualsiasi altra cosa, il mito è , nel senso che sono presenti e operanti gli Dei che gli danno vita: in questo senso il racconto del mito non si è ancora distaccato dal mito, in quanto il mito è ancora nel suo primo accadere. In un secondo tempo, subito successivo, c’è il racconto di quello che è avvenuto, un racconto mitico : questo racconto, che è anche per sua stessa natura un racconto rituale (anche secondo la prospettiva indicata da Eliade per il recupero del Tempo Sacro), è anche riviviscenza diretta, è il racconto effettuato da chi vive ancora vicino al tempo del mito, ed è in grado di fruirlo, comprenderlo, riviverlo in maniera naturale, diretta, senza il [441] bisogno di alcun filtro culturale o di un recupero puramente erudito, in quanto questo mito costituisce il suo bagaglio culturale e ideologico “naturale”, e il suo naturale sistema di riferimento, attinto direttamente, per così dire, al seno materno insieme al latte e alla propria lingua natale. La mitologia, come la testa recisa di Orfeo, continua a cantare anche dopo la sua morte, anche a lunga distanza dal tempo della sua morte. Nel periodo della sua vita, il popolo cui essa era familiare, non soltanto cantava insieme con essa, come con una specie di musica: la viveva anche. […] essa era per quel popolo, suo portatore, forma di [442] espressione, di pensiero, di vita. I film mitologici di Pasolini, in realtà, non sono però accostabili a questa situazione, a questo stadio del racconto del mito, neppure per analogia: per quanto infatti procedano per modalità mitiche di racconto –lo abbiamo ben appurato –mancano di una caratteristica fondamentale, cioè l’immediata fruibilità del sistema simbolico e culturale in cui si inquadrano. A questo stadio del racconto, dovremmo semmai accostare un film come Accattone : in un film di questo tipo, infatti, le modalità mitiche del racconto e della rappresentazione emergono da un quadro di riferimento e da un sistema simbolico che sono apparentemente moderni, fatti con cose moderne, contemporanee allo spettatore e perciò da lui immediatamente fruibili. In questa prospettiva, dunque, potremmo [443] definire Accattone come un racconto mitico , ovvero come un film mitico . In uno stadio ancora successivo del racconto del mito, troviamo quello che potremmo definire come racconto mitologico . Questo è lo stadio in cui il mito tende a scivolare dentro la letteratura, dentro la poesia epica o tragica; oppure, per altri versi, dentro quella che Kerényi (lo abbiamo visto parlando dei principi di variazione e ripetizione ) ha definito come «mitologia sistematizzata», non [444] più «primaria», ormai solo «teologia» . In questo stadio, il racconto degli avvenimenti mitici avviene in un contesto comunicativo in cui non è più possibile la sua comprensione “naturale”, diretta e immediata, e serve invece un filtro culturale: magari perché il mito in questione è stato [445] recuperato in forma colta e mediata, erudita ; oppure perché non è più comunque l’unico sistema culturale del fruitore, quello “naturale”, “materno”: ci sono magari altri sistemi culturali e simbolici concorrenti che stanno emergendo e che hanno già cominciato a riplasmarne la forma [446] mentis . Sono molte le situazione storiche concrete che potremmo assimilare a questo stadio: ad es., la lettura che i nostri giovani fanno a scuola (quando la fanno) dei molti miti greci come poesia, letteratura; e probabilmente si avviava verso questo stadio anche la Grecia classica, che
aveva già iniziato ad aggredire e a dissolvere la propria tradizione mitica arcaica. Cinematograficamente, a questa situazione potremmo forse accostare il genere del cosiddetto peplum , o i moderni gladiatori, ma probabilmente nessun film di Pasolini. A questo punto, in questa nostra brevissima e semplicistica “storia” del racconto del mito (una storia comunque più logica che cronologica –ci teniamo a precisarlo), si presenta un bivio. Da un lato, per via sempre più colta ed erudita, questa storia continua a camminare sulla via diritta, e la fruizione del mito cessa di essere (comunque, in qualche modo) affabulatoria, narrativa, e diventa studio antropologico, più o meno moderno: a partire dall’evemerismo e dalle letture allegoriche, fino ad arrivare all’antropologia vera e propria, alla psicologia, allo strutturalismo, ecc. Dall’altro lato, invece, pur se sempre per via erudita, il percorso comincia a piegare per parte, comincia impercettibilmente (poi in maniera sempre più decisa) a tornare nella direzione da cui era partito: e allora abbiamo quello che potremmo definire, con un brutto termine tecnicistico, un racconto metamitologico . Lungo questo secondo ramo del percorso, il racconto del mito non rinuncia alla consapevolezza portata dall’antropologia, dalla filologia e dagli altri studi –anzi riparte proprio da lì –ma neppure rinuncia a conservare un forma narrativa e affabulatoria: e allora usa quella consapevolezza antropologica per cercare di recuperare e reinserire nel racconto mitologico “decaduto” a letteratura ed erudizione, quelle specifiche modalità mitiche di racconto che magari erano andate perdute quando i vari mitologemi erano scivolati fuori dall’ambito del sacro verso [447] quello della pura letterarietà . Ovviamente, nel momento in cui i vari simboli, storie, mitologemi tendono a ricongiungersi in maniera organica a quelle modalità di racconto e di rappresentazione del mito che originariamente gli erano proprie, questa tipologia tenderebbe a riunirsi con quella del racconto mitico vero e proprio e a chiudere il cerchio. Tuttavia, queste due tipologie non devono essere confuse almeno per due importanti ragioni: la prima è che, per la definizione stessa che ne abbiamo dato, e per come è venuto generandosi, un racconto metamitologico si trova nella paradossale situazione di condividere tutte le caratteristiche dell’autentico racconto mitico , ma di non poter essere compreso in maniera diretta, non mediata, “naturale”, in quanto il soggetto del racconto, recuperato per via antropologicamente colta, pur così rivivificato, non appartiene al sistema culturale e simbolico “naturale” dominante, e può essere compreso solo da chi sia in possesso del necessario bagaglio culturale. In questo preciso senso, la scelta di lavorare su dei miti classici piuttosto che su dei materiali di partenza (apparentemente) moderni fa la differenza –una differenza non estrinseca né secondaria –fra un film come Accattone e dei film come Edipo re o Medea , che sono a tutti gli effetti dei film meta-mitologici . Quel che per questa via il racconto del mito perde in fatto di “unversalità”, viene però, in un certo senso, risarcito sotto tutt’altro aspetto, per cui la differenza tra racconto mitico e racconto metamitologico non deve essere tanto pensata in termini di differenza di valore o di “efficacia” comunicativa, quanto piuttosto in termini di sostanziale differenza qualitativa tra i due diversi tipi di operazione: sempre per il tipo particolare di genesi che ha, il racconto meta-mitologico , oltre a protendersi verso il ri-essere organicamente mito, presenta infatti anche la caratteristica, per così dire, di essere mito del mito; “studio” sul mito in cui alle “forme” interpretative dell’antropologia sono state sostituite quelle del mito stesso; riflessione sul mito condotta col mito –insomma, in una parola, introduce nel racconto una fortissima componente autoreferenziale, metadiscorsiva. Anche da questo punto di vista, perciò, il fatto che Edipo re e Medea possano essere considerati l’epifenomeno, la manifestazione finale e esteriore di una corposa attività teoretica sull’argomento che sta a monte (pensiamo ovviamente soprattutto a Empirismo Eretico , i cui rapporti con questi due film sono, come abbiamo visto, veramente organici) è una discriminante assolutamente significativa e non estrinseca, rispetto ad altri film di Pasolini variamente attinenti all’ambito mitico o antropologico. Si tratta anzi di una delle caratteristiche più spiccate di questi due film. Proprio da questo punto di vista, la presenza in entrambi di un soggetto apertamente e squisitamente mitologico, ottempera infatti a tutti i canoni dell’esperimento in vitro , in piena conformità a quanto prescritto dal metodo scientifico sperimentale moderno per l’applicazione e verifica pratica di una teoria: è cosa ben nota che per condurre un esperimento che sia scientifico è necessario porsi nelle condizioni ottimali per isolare ed osservare il fenomeno che si intende studiare: a questo scopo è necessario scegliere un soggetto ottimale, univoco e non equivocabile (un Mito con la “M” maiuscola, non la
miticità “moderna” e non istituzionale di Accattone ), ed è necessario riprodurre il fenomeno in circostanze ottimali per l’osservazione, al limite anche molto diverse da quelle riscontrabili in natura o comunque nell’ambiente che ci circonda (l’epoca barbarica e preistorica di Medea e non le [448] borgate di Roma) , in modo che il fenomeno possa essere osservato, per così dire allo stato [449] puro . Ciò che fino a quel punto era stato fatto da Pasolini in forma più o meno irriflessa per via di poetica, da questo punto in poi viene perseguito e approfondito per tramite di un’attività teoretica e sperimentale perfettamente consapevole : un’attività teoretica portata avanti e rivestita coi mezzi forniti dalla semiologia e dalla linguistica (come abbiamo visto), e che viene impiegata da Pasolini in un’esplorazione capillare e sistematica delle possibilità di intervento artisticoantropologico offerte dall’apparato cinematografico. Questa rigorosa verifica doveva essere per Pasolini ormai un qualcosa di indispensabile, e di non eludibile e non rinviabile, sotto l’urto pressante e l’incalzare di quel «mutamento antropologico» che, come una valanga, diventava sempre più grande e più veloce; e ciò anche a costo di una minore leggibilità e trasparenza della propria opera, cosa questa che, apparentemente, potrebbe parere contraddittoria rispetto all’intento di una concreta capacità di intervento antropologico e alla vocazione naturalmente universalistica del mito: Se Lei intende per «masse» quello che viene definito nel contesto della cultura di massa attuale, sono piuttosto pessimista sulle loro possibilità di accedere alla mia opera. Nell’attuale situazione, il contatto con le masse non può essere stabilito tramite prodotti genuinamente culturali, prodotti d’arte. Queste masse sono condizionate ad essere ricettive ai prodotti di serie; la serie essendo appunto il modello tecnico della ripetizione, della volgarizzazione, lo strumento per eccellenza del condizionamento. [450]
Io cerco di creare un linguaggio che metta in crisi l’uomo medio, lo spettatore medio, nei suoi rapporti con il linguaggio dei mass-media, […] perché è proprio all’interno di questo quadro che mi viene concesso di innovare, ed è tramite questo codice istituito che fraternizzo con gli altri; quel che più m’importa nell’istituzione è il codice che rende possibile la fraternità. Qualsiasi istituzione costituisce un terreno di possibili scambi; […] il codice, soprattutto il codice linguistico, è la forma esterna indispensabile a questa [451] fraternità umana che provo sempre in me come qualche cosa che ho perduto. Se posso dare attualmente l’impressione di ricercare un linguaggio ermetico e prezioso, apparentemente aristocratico, è proprio perché considero la tirannia dei mass-media [452] come una forma di dittatura cui mi rifiuto di fare la minima concessione. Del resto, c’era molto in gioco: in un secolo ormai privo di poesia –laddove la poesia era stata sempre, storicamente, il medium d’elezione portatore e comunicatore del mito e di tutti quei valori capaci di regolare una società non alienata e non mistificata –il cinema, moderna caverna platonica, luogo in cui i sogni di ogni spettatore, così come i più fantasiosi mostri e i più impalpabili fantasmi, potevano essere proiettati sullo schermo e condivisi con gli altri in un ancestrale rito di massa; luogo in cui la gente (allora più che oggi) confluiva a milioni per adorarvi star e altre numinose figure fatte di luce; luogo in cui è possibile guardare la Realtà come è davvero al di fuori dell’«ordine orrendo», cioè sacra e non monopolizzata dalla categoria dell’utile –il cinema poteva ben diventare (e di fatto era) il mito operante e «vivente» (per dirla con Eliade) del XX secolo . Allora fin dove poteva spingersi l’efficacia di questo mezzo? Fin dove poteva o valeva la pena di spingere il braccio di ferro tra autore e sistema, per riuscire ad utilizzare la naturale poeticità di questo mezzo contro la sua fittizia convenzionalità narrativa e perciò contro lo stesso sistema che lo produceva? Come si può ben comprendere, trattandosi appunto di un mezzo di comunicazione di massa, la questione è tutt’altro che astratta e teorica, bensì assai concreta e di ampia scala, anche quando e se ridotta ad [453] operazione «impopolare» .
L’avvento delle tecniche audiovisive, come lingue, o quanto meno, come linguaggi espressivi, o d’arte, mette in crisi l’idea che probabilmente ognuno di noi, per abitudine, aveva di una identificazione tra poesia –o messaggio –e lingua. Probabilmente invece […] ogni poesia è translinguistica. E’ un’azione «deposta» in un sistema di simboli, come in un veicolo, che ridiviene azione nel destinatario, non essendo quei simboli che [454] dei campanelli di Pavlov. [corsivi dell’autore] Quale, dunque, il senso ultimo da assegnare a questa complessa operazione mito-semiologica, teorica e pratica insieme? Quello di chiusura di una stagione e di un tipo di operazione di cui si vuol trarre tutte le somme? Quello di apertura di una stagione tutta nuova, grazie all’appropriamento sistematico e consapevole di tutte quelle potenzialità del cinema che fino ad allora erano state sfruttate solo in maniera parziale e occasionale? Quello di una verifica, in corso d’opera, in condizioni per così dire d’emergenza, che almeno questo nuovo mezzo espressivo fosse abbastanza “potente” per poter opporre un’adeguata difesa contro il montante «ordine orrendo»? Probabilmente, come abbiamo già avuto modo di accennare, tutte queste cose insieme, e magari altre ancora. Certo, a un dato punto qualcosa cambia: forse l’operazione si esaurisce naturalmente. O forse l’operazione fallisce, anche se non fallisce artisticamente. Di fatto, a quanto pare, l’espressione della sacralità del linguaggio (sacralità del reale che si esprime come linguaggio), pur non superata sul piano teorico, non è più sufficiente a Pasolini sul concreto piano dell’impegno artistico: e sarà dunque la stagione della «Trilogia della Vita», in cui Pasolini manifesterà la necessità di andare a ritroso, a ricercarsi quei caratteri di verità e di necessità della «fase orale», ancora più indietro, fin nella mera corporalità e sessualità dei corpi sottoproletari primitivi; fotografarli, riprodurli, sperare che almeno essi abbiano ancora la forza di incidere sul reale, o salvarli almeno per la memoria, prima che l’«ordine orrendo» riesca a portarne a compimento il totale sterminio. Poi, come noto, Pasolini abbandonerà (anzi: abiurerà) anche questa “strategia” e sarà allora la volta di Salò… , ma questa è già tutta un’altra storia.
Tutto è santo! Tutto è santo! Tutto è santo!
Come noto, Delfi, per il mondo dell’antica Grecia, non era un oracolo: era l’ oracolo. Allo stesso modo, Apollo, a cui il santuario di Delfi e la Pizia erano consacrati, non era un dio profetico, era il dio della divinazione e della profezia. E se era anche il dio dell’arte, lo era per le stesse identiche ragioni. Per di più, se, come abbiamo visto, il significato originario di dios (classicamente, «divino» in quanto «proprietà di Zeus») era in Omero «chiaro», «splendente», «glorioso», come tratto peculiare e distintivo della grecità rispetto alla sfondo asiatico, per cui «in Omero ciò che è bello e [455] buono è anche abbacinante» , va anche detto che in realtà Zeus, nel suo almeno parziale ozio [456] di dio uranico supremo , aveva di fatto e sostanzialmente ceduto il dominio della luce [457] abbacinante proprio ad Apollo: non per nulla, come noto, era detto il «Radioso» . Ma allora perché stupirsi se proprio nella scena in cui Edipo ottiene il responso dell’oracolo di Delfi, la luce appare così violenta, densa e prevaricante? Per altro, se ogni mitologia, ogni dio, è sempre origine [458] (nel senso che parla delle «origini» ed è, al contempo, «originario») , la luce è indubbiamente l’«origine», l’archè , del cinema: in un certo senso, potremmo dire che il cinema sta nell’occhio di Apollo. Sapiente è chi getta luce nell’oscurità, chi scioglie i nodi, chi manifesta l’ignoto, chi [459] precisa l’incerto. […] Apollo simboleggia questo occhio penetrante […]
Altri popoli conobbero, esaltarono la divinazione, ma nessun popolo la innalzò a simbolo decisivo […], come ciò accadde presso i Greci. […] Divinazione implica conoscenza del futuro e manifestazione, comunicazione di tale conoscenza. Ciò avviene attraverso la parola del dio, attraverso l’oracolo. Nella parola si manifesta all’uomo la sapienza del dio, e la forma, l’ordine, il nesso in cui si presentano le parole rivela che [460] non si tratta di parole umane, bensì di parole divine. Nel tracciare il concetto di apollineo, Nietzsche ha considerato il signore delle arti, il dio luminoso, dello splendore solare, aspetti autentici di Apollo, ma parziali, unilaterali. Altri aspetti del dio allargano la sua significazione […]. Anzitutto un elemento di terribilità, di ferocia. L’etimologia stessa di Apollo, secondo i Greci, suggerisce il significato di «colui che distrugge totalmente». In questa figura il dio viene presentato all’inizio dell’Iliade , dove le sue frecce portano la malattia e la morte nel campo degli Achei. Non una morte immediata, diretta, ma una morte attraverso la malattia. L’attributo del dio, l’arco, arma asiatica, allude a un’azione indiretta, mediata, differita. Qui si tocca l’aspetto della crudeltà […]: la distruzione, la violenza differita è tipica di Apollo. E difatti, fra gli epiteti di Apollo, troviamo quello di «colui che colpisce di [461] lontano» e di «colui che agisce da lontano». L’arco e le frecce del dio si rivolgono contro il mondo umano attraverso il tessuto delle parole e dei pensieri. Il segno del passaggio dalla sfera divina a quella umana è l’oscurità del responso, il punto cioè in cui la parola, manifestandosi come enigmatica, tradisce la sua provenienza da un mondo sconosciuto. Questa ambiguità è un’allusione alla frattura metafisica, manifesta l’eterogeneità tra la sapienza divina e la sua [462] espressione in parole. Qui si accentua il distacco dalla prospettiva di Nietzsche: non soltanto l’esaltazione, l’ebbrezza sono segni di Apollo, prima ancora che di Dioniso, ma inoltre i caratteri dell’espressione apollinea, «senza riso, né ornamento, né unguento», sembrano addirittura antitetici a quelli postulati da Nietzsche. […] Nell’Apollo di Nietzsche c’è una sfumatura decorativa, cioè gioia, ornamento, profumo, l’antitesi appunto di quanto Eraclito attribuisce all’espressione del dio. Eppure è vero che Apollo è anche il dio dell’arte. Ciò che è sfuggito a Nietzsche è la doppiezza della natura di Apollo, suggerita dai caratteri già ricordati di violenza differita, di dio che colpisce da lontano. Come il mito di Dioniso sbranato dai Titani […], così la doppiezza intrinseca alla natura di Apollo testimonia parallelamente, e in una raffigurazione più avvolgente, una frattura metafisica fra il mondo degli uomini e quello degli dèi. La parola è il tramite: essa viene dall’esaltazione e dalla follia, è il punto in cui la misteriosa e distaccata sfera divina entra in comunicazione con quella umana […], portando in tale sfera eterogenea la molteplice azione di Apollo, da un lato come parola oracolare, con la carica di ostilità di una dura predizione […], e d’altro lato come manifestazione e trasfigurazione gioconda, che si impone alle immagini terrestri e le intesse nella magia dell’arte. Questo proiettarsi della parola di Apollo sul nostro mondo è rappresentato dal mito greco con due simboli, con due attributi del dio: l’arco, [463] a designare la sua azione ostile, e la lira, a designare la sua azione benigna. Dunque le opere dell’arco e della lira, la morte e la bellezza, provengono da uno stesso [464] dio, esprimono una stessa natura divina […] Del resto, non aveva forse avvertito, Pasolini, che per fare un film (per fare arte) bisogna morire? Questo nesso tra opera di morte e opera di bellezza, tra opera crudele del dio della divinazione e
opera benigna del dio dell’arte, si comprende forse più facilmente se si considera che non solo «la forma, l’ordine, il nesso» del responso sono misteriosi, «enigmatici» –e in ciò del tutto assimilabili a quei brani di Pasolini sfuggiti alle strette maglie della continuità cinematografica (proprio come quello dell’oracolo in Edipo… ) che abbiamo per l’appunto visto rispondere a una logica sacrale – ma che, come noto, storicamente, erano per lo più responsi in versi: avevano cioè tutti i caratteri propri dell’oggetto estetico . Dunque, in un certo senso, se le «opere dell’arco e della lira» finiscono sostanzialmente, in realtà, per coincidere, potremmo dire che veramente non vi sia contraddizione tra morte e bellezza, e che se Apollo è dio crudele della divinazione tanto quanto dio benigno dell’arte, lo sia appunto in quanto sia il responso dell’oracolo che l’oggetto estetico si generano, “emergono”, in maniera del tutto analoga, da quella medesima «frattura metafisica» che si manifesta nella natura divina di Apollo. Ma se ogni oracolo è anche un oggetto estetico, potremmo lecitamente sostenere, viceversa, che ogni oggetto estetico (o, meglio, ogni oggetto considerato esteticamente) condivida la sorte e la natura dell’oracolo? Di certo, intanto, potremmo se non altro sostenere che, almeno da un punto di vista antropologico, ogni oggetto in assoluto sia generato da un’“emersione” dal divino:
La manifestazione del sacro fonda ontologicamente il Mondo.
[465]
Ecco perché il mito si identifica con l’ontologia: parla solo di cose reali , di ciò che è realmente accaduto, di ciò che si è manifestato totalmente. […] Tutto quanto è stato fatto dagli dèi o dagli Avi, tutto quanto narrano i miti riguardo alla loro attività creatrice, appartiene alla sfera sacra e, quindi, fa parte dell’Essere . […] D’altra parte, ogni cosa creata essendo opera degli dèi, quindi irruzione del sacro, rappresenta allo stesso modo un’irruzione di energia creatrice nel Mondo. Ogni creazione è uno scoppio di pienezza. Gli dèi creano per eccesso di potenza, per sovrabbondanza di energia. La creazione avviene per un eccesso di sostanze [466] ontologiche. Come molti ricorderanno, il protagonista de La macchina del tempo di H.G. Wells, riesce, per un soffio, a recuperare la sua macchina del tempo e a sfuggire dalle grinfie dei Morlock; fugge in avanti fino all’agghiacciante visione di un mondo morente, quindi, allo stremo delle forze, inverte la rotta e fa ritorno. Mentre racconta la sua incredibile storia agli amici convitati, i due fiori bianchi che Weena, la minuta e gentile fanciulla del futuro, gli ha messo nella tasca, sono sul tavolino, sotto gli occhi di tutti; quando infine ripartirà di nuovo, e per sempre, portando via con sé il segreto della sua macchina, solo quei due strani fiori bianchi, che chiudono il libro, rimarranno a testimoniare della sua impresa: And I have by me, for my comfort, two strange white flowers –shrivelled now, and brown and flat and brittle –to witness that even when mind and strength had gone, [467] gratitude and a mutual tenderness still lived on in the heart of man. Questi due fiori sembrano star lì ad attestare la verità del racconto con la semplice evidenza della loro presenza muta. Essi non parlano, non dicono nulla, in realtà: sono appunto solo una testimonianza muta, e dunque apparentemente inerte e incapace di aggiungere alcunché al racconto; al contrario delle parole, invece, proprio perché tacciono non possono essere contraffatti. I convitati li osservano senza riuscire a riconoscerli: quanto alla lettera, ciò avviene perché quei fiori sono effettivamente sconosciuti, vengono da un futuro remoto, e sono perciò assolutamente unici: essi sono, per così dire, appena “emersi” nella loro realtà. Ma potremmo aggiungere che essi non sono intesi anche perché è nella loro natura di “oggetti”, di “cose” completamente naturali, estranee agli usi, alle manipolazioni e alle fabbricazioni dell’uomo –e cioè che è nella loro natura di oggetti sommamente estetici –di non aver nessun significato o di averne addirittura troppi. Paradossalmente (ma non tanto), a testimoniare del futuro dell’uomo è stata eletta una cosa completamente estranea e
asignificante, e che pur sembrando capace di farsi carico di ogni auspicio e di ogni più ampia interpretazione, non rimanda in realtà che a se stessa. Oggetti di questo genere, sono in effetti abbastanza frequenti sia in letteratura che al cinema: basti pensare, ancora, alla famosa slitta/parola «Rosebud» di Quarto potere di O.Welles (1941), nucleo oscuro, nocciolo impenetrabile della storia di Kane, residuo rimasto non letto nonostante le varie letture e testimonianze sulla vita di Kane riportate nel film; ma anche, insieme a tutte le cose accumulate nella casa castello, metafora della [468] «generosità del testo», della sua eccedenza di senso ; per non parlare, poi, del famosissimo [469] monolito nero di Kubrick . Questi “oggetti testimonio” sono tanto frequenti e significativi che Bernardi, prendendo spunto dalla loro presenza, ha potuto sviluppare quella che lui chiama un’«estetica dei resti »: […] la funzione simbolica si costituisce nel cinema a partire da certi resti figurativi, che non si lasciano ridurre alla semplice funzione di immagini-segno, ma che in certo qual modo rappresentano soltanto se stessi. […] E’ chiaro che questi resti non sono sempre necessariamente gli stessi, perché ogni modello interpretativo, anzi ogni analisi spiega certe cose e ne lascia fuori altre, che magari possono venire raccolte e analizzate da altri modelli di lettura, i quali a loro volta hanno, o avranno, i loro specifici resti . […] Potremmo così individuare le linee portanti di un’estetica che, pur non escludendo i vari modelli di lettura e le varie discipline (semiotica, strutturalismo, psicoanalisi…), non coincida con nessuna di esse in particolare, e rimanga marginale, si costituisca sempre come linea di confine rispetto a ogni schematizzazione teorica. […] Se il visto è ciò che l’analisi ha descritto, interpretato, il visibile è il campo sempre aperto dell’esperienza, il lato oggettuale, cosale, dell’opera, ciò che rimane da analizzare dopo l’analisi. Infatti il coefficiente estetico di un film sarebbe sempre quel (molto) che si può vedere rispetto a quel (poco) che si è visto […]. E l’estetica, intesa in questo senso, potrebbe anche costituire la base della relazione sempre in movimento, sempre diversa ma ripetuta, che [470] ha il film con il suo spettatore esterno. Possiamo forse chiarirci meglio questo concetto ricordando che comunemente significato e senso vengono omologati nella teoria semiotica. Nell’estetica, invece, […] è bene che rimangano distinti: il senso non è il significato comunicato dal testo, ma è la [471] sua consistenza sensibile , la sua oggettualità che si offre alla percezione […] Nell’esperienza estetica quindi il senso è la percezione, è la sua forma temporale […]. L’opera non ha come senso ciò che dice, ma parla in primo luogo di sé. Sviluppa quindi un conflitto fra la significazione intesa in senso semiotico e la significazione intesa in senso estetico. Questo riguarda l’arte in generale, per cui anche nel cinema, inteso come oggetto estetico, ciò che il film significa è sovvertito dal senso, ovvero dalle [472] immagini in se stesse . Non si esce mai dalla rappresentazione. Si tratta piuttosto della differenza, che qui si presenta in modo folgorante, fra le due funzioni dell’immagine, quella di significare e [473] quella di mostrarsi […] La traduzione di un individuum in un discorso lo riduce, lo impoverisce, ma la dimensione estetica risarcisce questa singolarità dell’esperienza reale. La forza del simbolico consiste appunto nella segnalazione della funzione autonoma del vedere, in cui le immagini, per un breve momento, non si nascondono più dietro il loro significato. Si apre il cosiddetto buco della deissi . Esso sottrae le cose al discorso, spalanca il linguaggio sulla visione. Appaiono immagini destinate a scomparire prima di essere
comprese. Qui l’enunciazione, il discorso tace , si limita alla pura deissi […] («ecco… [474] guarda…»). […] la funzione simbolica è un ritorno verso la «materia del significante», a partire dal costrutto linguistico. Il simbolo ha, da questo punto di vista, come due facce: con una guarda verso il significato, con l’altra verso le cose. Si trova così sulla frontiera del [475] discorso, nel punto oscuro in cui il discorso sfiora le cose di cui parla . Questo «simbolismo» delle immagini si distingue dal costrutto simbolico su cui nasce, si oppone ad esso: il simbolo infatti emerge quando ci allontaniamo dalle operazioni finalizzate alla significazione e «passiamo dagli scopi all’assenza di scopo», all’opera come cosa da fruire e da godere sensibilmente per se stessa. In sostanza, attraverso il simbolico, l’opera già significa se stessa, e il discorso si offre alla percezione, diventa [476] una cosa come le altre, una verbal icon . L’eterno inganno delle immagini cinematografiche consisterebbe allora nel fatto che esse promettono un significato, mentre in effetti ci danno molto di più? In questo caso la deissi sarebbe veramente un buco, ma non un buco nero, vuoto, [477] sebbene un buco pieno: un buco pieno di senso . [tutti i corsivi sono dell’autore] Ma l’origine di questi “oggetti testimonio” o «resti» è nel mito: nel mito, molto spesso, in seguito al manifestarsi di quella «frattura metafisica» di cui si è parlato, ovvero in seguito al manifestarsi di un nume, resta infatti, a testimonianza di quanto avvenuto, un oggetto, una cosa: la trasformazione di Dafne in Alloro e di Siringa nell’omonimo strumento, cioè tutti quei casi in cui, per sfuggire all’abbraccio (manifestazione) di un dio, una ninfa ha accettato di farsi cosa rinunciando alla propria individualità significante, possono essere citati a esempio; e naturalmente, poiché (come è stato [478] giustamente osservato) «il Radioso non è uso fallire i suoi colpi» anche casi più subdoli e [479] ambigui, come quello di Iacinto, andranno debitamente considerati ; e ancora a maggior ragione andranno citate tutte quelle spoglie che restano dopo l’uccisione di un mostro da parte di un dio o di un eroe (e non dimentichiamo, al riguardo, che proprio il santuario di Delfi ha origine dall’uccisione di Pitone da parte di Apollo): verrebbe anzi quasi il sospetto che, tra dio e mostro, esista un’alleanza segreta, un patto nascosto o, quantomeno, un’affinità di fondo, il cui vero fine sia proprio la produzione di un resto, di un testimonio… E quando è un oggetto, una cosa, a restare come testimonio dell’azione di un Dio, possiamo esser sicuri che quella manifestazione del dio aveva come fine una produzione (o, meglio, “emersione”) di senso . Allo stesso modo di un fiotto di nera lava, emersa sbuffando dalle profondità della terra e solidificatasi in un grumo informe di riccioli e bolle, prima che lo scultore lo prenda e vi riconosca e vi ricavi una forma; così quell’emersione di «sostanza ontologica» in eccesso, fintanto (e in tanto e in quanto) che non viene riconosciuta, categorizzata, riassorbita nel giro della categoria dell’utile, in una parola vista , può essere immaginata come una pura oggettualità, una mera cosalità, cioè come un ancora pieno di senso e vuoto di significato , una percepibilità che, per la sua “giovinezza”, per la sua persistente e relativa vicinanza al mondo divino che l’ha generata, è ancora intatta e ancora per nulla enunciata . Ma la teoria di Bernardi, così come ci permette di capire in che senso l’emersione dal sacro, dal nume, sia un’emersione dalla parte della percezione , e in che modo il passaggio ontologico attraverso quella «frattura metafisica» si prolunghi e si rispecchi nel passaggio estetico tra percezione ed enunciazione , ha anche il pregio di permetterci di contemplare il “percorso inverso”: quello di un oggetto che recuperando la sua dimensione simbolica, torna a significare se stesso, tende a recuperare la sua dote iniziale di senso , e dunque, per ciò stesso, si riavvicina alla sua “giovinezza”, a essere un “grumo di lava”, alla sua emersione, e cioè «originarietà», contemplata nel mito. E poiché virtualmente ogni cosa è suscettibile di essere nata per la manifestazione di un dio, dato che in fin dei conti il mondo intero è opera degli dèi, possiamo ben dire che ogni oggetto,
quando è considerato da un punto di vista estetico, tende a rammentare la propria origine divina . Ma se l’oracolo è quell’oggetto che per sua stessa natura rivela al massimo grado e con la massima evidenza la propria origine divina, possiamo anche dire che veramente ogni oggetto, se e in quanto esteticamente inteso, condivide la sorte e la natura dell’oracolo . E lì c’è Apollo… Si poteva del resto mai immaginare che l’«occhio penetrante» di Apollo, dio della luce, dell’arte e del cinema, potesse non avere un rapporto più che privilegiato con tutta la fisiologia del guardare e con l’apertura e chiusura di senso che ne deriva? E non è forse vero che nella luce si manifesta naturalmente il manifestarsi , alla stessa maniera in cui, ad es., secondo Eliade, «il Cielo [480] rivela direttamente, “naturalmente”, l’infinita distanza, la trascendenza del dio» ? Allora, se anche molti sono gli dèi che possono emettere oracoli e profezie, provocando un «passaggio», una “emersione” attraverso quella «frattura metafisica» verso la sfera umana; se molti sono gli dèi che praticano arti; se tutti gli dei si manifestano e sono soggetti di epifanie; il cinema sembra permetterci di affermare, a riguardo, qualcosa di più e di diverso su Apollo: Apollo non sarebbe allora “semplicemente” un dio che si manifesta, ma il dio della manifestazione e dell’emersione in quanto tali, e dunque quello la cui epifania è l’ epifania in quanto tale, e dunque non un dio attraverso cui si manifesta la «frattura metafisica» in quanto dio, ma piuttosto il dio preposto a quella frattura, quello in cui la frattura si manifesta in quanto tale, in tutta la sua tremenda alterità. Nulla di cui stupirsi, dunque, se l’espressione di questo dio, secondo Eraclito, è «senza unguento», se Apollo manifesta agli uomini l’annientante «frattura metafisica» che li separa dagli dèi “così com’è”, in quanto tale, con totale indifferenza, senza nemmeno il balsamo e il lenimento di una possibile compartecipazione mistica dell’uomo col dio, come invece si degna per altro di fare [481] Dioniso, suo stretto parente e per altri versi dio ben più selvaggio di lui . Allora, forse, la crudele lontananza da cui Apollo colpisce è anche soprattutto una lontananza metafisica… Nei Dialoghi con Leucò di Pavese, il racconto della nascita Asclepio, figlio illustre di Apollo, ci si [482] presenta, al riguardo, come un caso singolarmente emblematico : ERMETE Il Dio [Apollo] ti chiede di allevare questo figlio [Asclepio], Chirone. Già sai della morte della bella Corònide. L’ha strappato il Dio dalle fiamme e dal grembo di lei con le mani immortali […] CHIRONE Bimbetto, era meglio se restavi nel fuoco. Tu non hai nulla di tua madre se non la triste forma umana. Tu sei figliolo di una luce abbacinante ma crudele, e dovrai vivere in un mondo di ombra esangue e angosciosa, di carne corrotta, di sospiri e di febbri –tutto ti viene dal Radioso. La stessa luce che ti ha fatto frugherà il mondo, implacabile, e dappertutto ti mostrerà la tristezza, la piaga, la viltà delle cose. Su di te veglieranno i serpenti. ERMETE […]
Certo il mondo di ieri è scaduto se anche i serpenti son passati alla Luce.
CHIRONE Enodio, dalla tua Làrissa quante volte hai veduto dopo una notte di vento la montagna dell’Olimpo stagliare nel cielo? ERMETE
Non solo la vedo, ma a volte ci salgo.
CHIRONE
Un tempo, anche noi si galoppava fin lassù di costa in costa.
ERMETE
Ebbene, dovresti tornarci.
CHIRONE
Amico, Corònide c’è tornata.
ERMETE
Che vuoi dire con questo?
CHIRONE Voglio dire che quella è la morte. Là ci sono i padroni. Non più padroni come Crono il vecchio, o l’antico suo padre, o noi stessi nei giorni che ci accadeva di pensarci e la nostra allegria non sapeva più confini e balzavamo tra le cose come cose ch’eravamo. […] Chi poteva morire a quel tempo? […] ERMETE Ora so perché è morta, lei che se ne andò alle pendici del monte e fu donna e amò il Dio col suo amore tanto che ne ebbe questo figlio. Tu dici che il Dio
fu spietato. Ma puoi dire che lei, Corònide, abbia lasciato dietro a sé nel pantano la voglia bestiale, l’informe furore sanguigno che l’aveva generata? CHIRONE
Certo che no. E con questo?
ERMETE Gli dèi nuovi della Tessaglia che molto sorridono, soltanto di una cosa non possono ridere: credi a me che ho veduto il destino. Ogni volta che il caos trabocca alla luce, alla loro luce, devon trafiggere e distruggere e rifare. Per questo [483] Corònide è morta. Mnemosine, madre delle Muse, ed Esiodo, sommo poeta, danno vita, ancora in Pavese, ad alcune altre pagine di argomento squisitamente apollineo: quivi, la «vita», la natura di Mnemosine, e quindi delle Muse, e quindi, indirettamente, di ciò che appartiene ad Apollo, viene legata all’atto del guardare , e questo, a sua volta –come noi già sappiamo che deve essere –ad una certa maniera di “non scorrere” del tempo: il dio della frattura, che irrompe nell’ordine del quotidiano e lo interrompe, diventa cinematograficamente il dio della frattura come discontinuità, come non successività . Ma c’è di più: questo dialogo lascia intendere, a nostro avviso, che la dialettica del guardare e del vedere , non sia in realtà sufficiente a rendere interamente conto del simbolico e dell’emersione del senso come li siamo venuti fin qua descrivendo; del resto, già il fatto che la frattura manifestata da Apollo e dagli altri dèi sia stata ripetutamente definita come «metafisica», avrebbe dovuto metterci in guardia: anche tra percezione ed enunciazione , o tra guardare e vedere si può dire vi sia una frattura, ma si può dire che essa stessa sia «metafisica»? MNEMOSINE Lascia stare gli dèi. Io esistevo che non c’erano dèi. Puoi parlare, con me. Tutto mi dicono gli uomini. Adoraci pure se vuoi, ma dimmi come t’immagini ch’io viva. ESIODO MNEMOSINE ESIODO
Come posso saperlo? Nessuna dea mi ha degnato del suo letto. Sciocco, il mondo ha stagioni, e quel tempo è finito. Io conosco soltanto la campagna che ho lavorato.
MNEMOSINE Sei superbo, pastore. Hai la superbia del mortale. Ma sarà tuo destino sapere altre cose. Dimmi perché quando mi parli ti credi contento? ESIODO Qui posso risponderti. Le cose che tu dici non hanno in sé quel fastidio di ciò che avviene tutti i giorni. Tu dài nomi alle cose che le fanno diverse, inaudite, eppure care e familiari come una voce che da tempo taceva. O come il vedersi improvviso in uno specchio d’acqua, che ci fa dire «Chi è quest’uomo?» MNEMOSINE Mio caro, ti è mai accaduto di vedere una pianta, un sasso, un gesto, e provare la stessa passione? ESIODO MNEMOSINE ESIODO
Mi è accaduto. E hai trovato il perché? E’ solo un attimo, Melete. Come posso fermarlo?
MNEMOSINE Non ti sei chiesto perché un attimo, simile a tanti del passato, debba farti d’un tratto felice, felice come un dio? Tu guardavi l’ulivo, l’ulivo sul viottolo che hai percorso ogni giorno per anni, e viene il giorno che il fastidio ti lascia, e tu carezzi il vecchio tronco con lo sguardo, quasi fosse un amico ritrovato e ti dicesse proprio la sola parola che il tuo cuore attendeva. Altre volte è l’occhiata di un passante qualunque. Altre volte la pioggia che insiste da giorni. O lo strido strepitoso di un uccello. O una nube che diresti di aver già veduto. Per un attimo il tempo si ferma, e la cosa banale te la senti nel cuore come se il prima e il dopo non esistessero più. Non ti sei chiesto il suo perché? ESIODO MNEMOSINE ESIODO
Tu stessa lo dici. Quell’attimo ha reso la cosa un ricordo, un modello. Non puoi pensarla un’esistenza tutta fatta di questi attimi? Posso pensarla sì.
MNEMOSINE
Dunque sai come vivo.
[484]
Quel “di più” a cui prima si faceva riferimento, e a cui Pavese si riferisce qui parlando di «ricordo» e di «modello», è, naturalmente, la dimensione dell’archetipico: L’«uomo universale» non esiste in realtà. Esistono soltanto uomini storici, e tuttavia […] non «meramente storici». […] definiremo «archetipico» tutto ciò che, partendo dall’elemento storico, perviene all’ambito universalmente umano e che all’aspetto [485] storico dell’uomo ne contrappone un altro: quello «astorico». L’«universalmente umano» è un assurdo, un’astrazione, non è nulla. Ciò cui si allude in tal modo è però storicamente presente nel singolo individuo concreto […]. E continuerà sempre a concretizzarsi in tutti gli uomini, finché l’umanità avrà una storia. Se consideriamo questo fenomeno a partire da una prospettiva storica, ci troviamo di fronte al continuo emergere dell’elemento astorico, che però non si trova in alcun luogo, perché ciò che accade rientra esclusivamente nella storia: si tratta dunque di un [486] emergere –e, in questa direzione, di un arrivare –per così dire dal nulla. «Archetipico» deriva dall’aggettivo greco a r c e t u p o z , mentre il sostantivo greco corrispondente è a r c e t u p o n . Carl Gustav Jung ha reintrodotto questo concetto nella storia della cultura europea sotto forma di «archetipo» (Archetypus ). Il suo uso terminologico –e cioè l’uso di questo sostantivo non più greco –va inteso a partire dalle premesse culturali di questo grande psicologo, così come il termine «numinoso» [487] (numinos ) va inteso a partire da quelle di Rudolf Otto. Per designare sia l’ambito psichico sia quello mitico, Jung introdusse […] il termine «archetipo» per indicarne la fonte comune. […] Solo la ripresa, da parte di Jung, del vocabolo greco aggiunse il riferimento all’uomo, che esso non possedeva né presso i neoplatonici né in origine: un riferimento agli elementi comuni che si possono riscontrare in ogni singolo uomo concreto, non però come astrazione, come elemento comune derivato, bensì come qualcosa che s’imprima realmente (wirklich ) e in maniera efficace (wirkend ). In ogni singolo uomo risulta esserci una zona di confine in cui egli «passa» (hinüberreicht )… anzitutto da ciò che è storico, coniato secondo uno stile, nell’astorico di cui egli riceve egualmente l’«impronta». […] per definirla, possiamo servirci della [488] parola «archetipico». L’elemento archetipico non è comune soltanto agli esseri umani. Unisce anche gli dèi agli uomini. Gli dèi «hanno bisogno» degli uomini, posto che vogliano diventare «storici»: nel «rapporto» con gli uomini accade anche questo. Nel rapporto risulta evidente che essi possiedono l’elemento archetipico non in una concretezza semplicemente attinta dagli uomini, bensì in un’altra maniera ancora, con una chiarezza [489] maggiore, più tipica, più impressionante, più incisiva. […] l’elemento archetipico potrebbe essere concepito anche per le epifanie dell’Essere in immagini e quella zona limite come una sfera del formarsi di figure che passano [490] dall’essere all’esistere.
Questo elemento archetipico comune tra dèi ed uomini, potrebbe dunque essere considerato come la dimensione possibile attraverso cui si attua il «passaggio», l’emersione dalla sfera divina a quella umana, e Apollo, essendo il dio preposto alla frattura e alla manifestazione, potrebbe essere di conseguenza considerato come il dio degli archetipi in quanto manifestazioni della dimensione archetipica. Da questo punto di vista, potremmo aggiungere che l’oggetto testimonio, o l’oracolo, che dell’ordine simbolico delle cose sono (come abbiamo visto) le archè , non solo provengono dalla dimensione archetipica, ma tendono a tornarvi: se infatti il simbolo ha «come due facce» (e, [491] come detto, «con una guarda verso il significato, con l’altra verso le cose» ), il simbolo [492] archetipico è quello in cui la tensione tra queste due polarità è massimamente realizzata : in quanto oggetto in cui la testimonianza e la vicinanza al divino si danno in un grado più alto, ma pure in quanto, contemporaneamente, elemento comunque manifestato storicamente e umanamente nel modo più universale possibile, il simbolo archetipico è indubbiamente «il concreto più universale ». Ma questa di «concreto più universale» è in Kerényi, non a caso, una delle definizioni che si [493] possono dare del racconto mitico : ma allora il mito non solo condivide tutte le caratteristiche dell’elemento archetipico (e questo, tutto sommato, per ragioni abbastanza ovvie), ma anche tutte le caratteristiche dell’oggetto testimonio: dunque non solo certi miti raccontano l’emersione di oggetti, ma il mito intero è esso stesso oggetto , testimonianza del divino, in un senso assai più pregnante e letterale di quanto la sua classica e canonica definizione di racconto delle gesta degli dèi e degli eroi non lasci a prima vista immaginare… Il fenomeno originario del mito è un’elaborazione della realtà. Ma non un’elaborazione conclusa! L’elaborazione accade. In tal modo essa è il mito come fenomeno originario. All’essenza del mito approdiamo solo se sappiamo che il mito è l’elaborazione a esso peculiare, non conclusa, della realtà . Se fosse concluso, il mito sarebbe morto e, ancora una volta, non sarebbe il mito di cui ora stiamo parlando. Un’altra differenza tra mito genuino e mito non genuino è costituita dal fatto che in quest’ultimo domina l’intenzione, l’orientamento verso una certa meta, mentre l’accadere del mito genuino è [494] pensabile solo come il fluire di una fonte, solo come evento spontaneo. Altro si potrebbe ancora dire sul fenomeno del mito genuino e originario, del mito nella condizione di elaborazione dell’essere, durante l’accadere […]. Affiorano ora gli interrogativi sul «quando?», «dove?» e «come?» dell’evento. La risposta al «quando?» è: «in un tempo passato» e «continuamente», senza che però si possa calcolare in quale preciso momento né sapere se ci sarà «ancora una volta». La risposta al «dove?» può solo essere: l’evento dà forma alla sua dimensione –in cui accade e mentre accade – prima delle dimensioni misurabili. […] L’elaborazione dell’essere richiede una sua dimensione specifica che non può venire pensata come separata dall’essere stesso, e neppure svuotata […] La dimensione del mito è il mito in quanto dimensione […]. Ciò che è uscito dalla dimensione del mito può mantenere ancora attorno a sé quella dimensione, così come la parola di un poeta, un’opera d’arte o un movimento di danza possiedono sempre una propria dimensione supplementare, non misurabile, che è tuttavia percepibile. […] La terza domanda è relativa al «come» accade l’evento. L’unica risposta possibile è: nell’immediatezza che è data nella relazione tra l’essere e l’uomo, dell’uomo verso l’essere, che non gli viene mediato in primo luogo dai suoi sensi e dal suo pensiero. Nell’accadere del mito diventa umano ciò che è a misura d’essere, e a misura d’essere ciò che è umano. Per designare ciò che accade in tale immediatezza in maniera sia pure umana, ma commisurata all’essere, è appropriato l’aggettivo greco archétypos , «archetipico» […]. Non si vuole parlare in questo caso di archetipi che esistono in sé e per sé, né, quale dimensione per la loro esistenza, dell’inconscio collettivo della psicologia junghiana. L’elaborazione dell’essere nella dimensione a esso peculiare è l’elemento più estremo a cui si spinge il nostro pensiero e cui si è fatto allusione, sia pur in maniera inadeguata, [495] con le parole «elaborazione» e «dimensione». [tutti i corsivi sono dell’autore]
Questo aspetto “negativo”, di limite di pensabilità, dell’archetipo era del resto già presente anche nella concezione originaria, più clinica e psicologica, di Jung: Il principio metodologico da cui parte la psicologia per trattare i prodotti dell’inconscio, va formulato in questi termini: fatti di natura archetipica rivelano processi dell’inconscio collettivo . Essi non si riferiscono quindi a qualcosa di cosciente o a qualcosa che una volta è stato cosciente, bensì all’essenzialmente inconscio . Quindi, in ultima analisi, non si può nemmeno definire a che cosa si riferiscano. Ogni interpretazione rimane al «come se…». L’ultimo significato può esser circoscritto, non descritto. […] Ciò che un contenuto archetipico sempre esprime è, anzi tutto, una similitudine . Se esso parla del sole, identificandolo con il leone, con il re, con l’oro custodito dai dragoni, o con la vitalità o la salute degli uomini, esso non è l’uno né l’altro, bensì un terzo ignoto che può venir espresso più o meno adeguatamente per mezzo di tutte quelle similitudini, ma che –a eterno dispetto dell’intelletto –rimane fatalmente ignoto e [496] indefinibile. Ma Chirone, parlando con Ermete della nascita di Asclepio, accennava anche a un tempo e a un ordine del mondo diverso, prima degli dèi Olimpici; anche Mnemosine –lo abbiamo visto – accennava a Esiodo un qualcosa di simile: «Lascia stare gli dèi. Io esistevo che non c’erano dèi.». Per il pensiero mitologico, l’idea delle generazioni successive degli dèi non costituisce un problema: è noto che gli Olimpici sono stati gli ultimi dèi a venire al mondo. Tuttavia, se ci si pensa bene, questa espressione costituisce un piccolo paradosso o un piccolo enigma: come si può venire prima di un qualcosa che è già origine e che, per definizione, è fuori dal tempo? Ovviamente, si può rispondere che questo “prima” sia di ordine logico: ma anche così il paradosso non scomparirebbe (come si può precedere l’«origine»?), e poi, per altro, non sarebbe esattamente questo, alla lettera, [497] quel che Mnemosine e il mito raccontano… In tutti i modi, stando a quel che gli stessi dèi, nel mito e in Pavese, dicono di sé, sembra abbastanza chiaro che gli dèi non si trovino, per così dire, “dall’altra parte” rispetto agli uomini, bensì che essi stiano “nel mezzo”, giunti a dividere l’uomo da un qualcosa che era prima di loro. Secondo questa ipotesi si dovrebbe allora dire non tanto che gli archetipi appartengano agli dèi «con una chiarezza maggiore, più tipica, più impressionante, più incisiva» come dice Kerényi, ma piuttosto che siano gli dèi ad appartenere agli archetipi in una maniera tutta speciale . Gli dèi, cioè, non si troverebbero al di là di quella famosa «frattura metafisica», ma nella (o sulla) frattura stessa. Certo, però, che allora appare tanto più paradossale che questi “dèi-balzanti tra le cose come cose” (così si definisce Chirone) che erano prima degli Olimpici (e che Pavese rappresenta nella figura di quelle che si è soliti indicare come divinità minori o titani) possano con tanta agevolezza parlare: come può parlare un qualcosa che si trova al di là dell’archetipo, cioè della soglia limite e ultima dell’umano? Anche Pasolini si serve di un paradosso simile per chiudere Empirismo Eretico : si tratta di quel paradosso del «barbaro» che anima il breve saggio intitolato Tabella , in cui Pasolini cerca di ricapitolare tutti i possibili livelli di lettura del cinema e di tutto quel gran parlare che è la Realtà: L’uomo intento alla vita, preso nel giro del puro pragma, decifra continuamente il linguaggio della Realtà: il barbaro davanti a una bestia è davanti a un «segno» di tale linguaggio: se è una bestia commestibile la uccide, se è feroce fugge ecc. […] Il vivere è dunque un esprimersi attraverso il pragma: e tale espressione non è che un momento del monologo che la Realtà fa con se stessa a proposito dell’esistenza. Infatti sia la bestia mangiata che il barbaro che la mangia fanno parte dell’intero corpo dell’Esistente o del [498] Reale, fisicamente senza soluzione di continuità.
Il barbaro non ha bisogno di illusioni per vivere, ossia per esprimersi . Ma dal momento in cui comincia a vivere la realtà come contemplazione (fin dal primo barlume di questa) e quindi ne inventa la successività e la spazio-temporalità, egli scopre la storia, cioè l’illusione. Di cui da quel momento in poi avrà sempre bisogno, e fonderà quindi su questo, e solo su questo l’inautenticità: l’alienazione prima contadina e poi piccolo[499] borghese. [corsivo dell’autore] Ora, dopo tutto quel che siamo venuti fin qua dicendone, il riferimento alla successività appare invero del tutto comprensibile. Ma per quanto riguarda invece la spazio-temporalità, se veramente come ci è parso di capire Pasolini pensa lo spazio e il tempo (sacri o profani che siano) in termini almeno a grandi linee kantiani, viene da chiedersi: come potrebbe il barbaro inseguire una preda che sta fuori di lui, se prima non avesse già la possibilità/necessità di leggere l’esistente in forma spaziotemporale? Il fatto è, forse, che il paradosso, come l’enigma, o come il mito, esprime un qualcosa [500] che non si potrebbe esprimere meglio in altra forma… EDIPO
Ma allora gli dèi che ci fanno?
TIRESIA Il mondo è più vecchio di loro. Già riempiva lo spazio e sanguinava, godeva, era l’unico dio –quando il tempo non era ancor nato. Le cose stesse, regnavano allora. Accadevano cose –adesso attraverso gli dèi tutto è fatto parole, illusione, minaccia. Ma gli dèi posson dare fastidio, accostare o scostare le cose. Non toccarle, non mutarle. Sono venuti troppo tardi. EDIPO
Proprio tu, sacerdote, dici questo?
TIRESIA Se non sapessi almeno questo, non sarei sacerdote. Prendi un ragazzo che si bagna nell’Asopo. E’ un mattino d’estate. Il ragazzo esce dall’acqua, ci ritorna felice, si tuffa e rituffa. Gli prende male e annega. Che cosa c’entrano gli dèi? Dovrà attribuire agli dèi la sua fine, oppure il piacere goduto? Né l’uno né l’altro. E’ accaduto qualcosa –che non è bene né male, qualcosa che non ha nome –gli daranno [501] poi un nome gli dèi. Potrà forse sembrare strano che un eroe come Edipo (perché Edipo è, nonostante tutto, di fatto, un eroe), invece di sguainare la spada, afferri un grosso ciottolo, lo lanci sguaiatamente, scappi a perdifiato, urli, attacchi –per così dire –un po’ a tradimento, solo quando il nemico non si regge più [502] in piedi, urli ancora e rida quasi istericamente . Eppure, essendo quella dell’uccisione di Laio un’altra delle scene in cui la luce di Apollo si manifesta con più prepotenza, non c’è nulla di cui [503] stupirsi: perché infatti, se il panico è la giusta reazione al numinoso , il comportamento di [504] Edipo in quella scena, con le sue coazioni di fuga e inseguimento , di paura e di aggressione, è [505] indubbiamente un comportamento panico; e «dove c’è panico, lì c’è anche Pan» : Il tradizionale approccio occidentale alla paura è negativo. In accordo con gli atteggiamenti del nostro io eroico, la paura […] è considerata innanzi tutto un problema [506] morale da superarsi con coraggio […] La paura, in quanto è uno dei modelli istintuali di comportamento, in quanto partecipa della «saggezza del corpo» […], ci offre una connessione con la natura (Pan) eguale alla fame, alla sessualità o all’aggressione. […] Adesso la saggezza è quella del corpo che entra in connessione col divino, come il panico con Pan […]. Quando l’anima è presa dal panico, come nella storia del suicidio di Psiche, Pan si rivela con la saggezza della [507] natura.
Pan è riflesso completamente nel corpo, nel corpo come strumento, come quando danziamo […] La coscienza corporea è della testa, ma fuori della testa, lunatica e tuttavia come lo spirito nelle corna. Non è mentale e calcolatrice; è una riflessione, ma né dopo e neppure durante l’evento (alla maniera di Atena). E’ piuttosto la maniera in cui un atto viene compiuto, appropriata, economica, uno stile di danza. Come Pan è uno con le ninfe, così la sua riflessione è una sola cosa con il comportamento stesso. Invece di un soggetto epistemico che conosce, c’è la fede animale nella pistis , salda sulle gambe come un capro. La via di Pan può ancora essere “làsciati guidare dalla natura” […], poiché il corpo ancora dice “sì” o “no”, “non in questo modo, in quello”, “aspetta”, [508] “corri”, “lascia andare”, oppure “vai, questo è il momento”. Del resto, il sole che incombe sulla scena non è solo l’occhio di Apollo, ma è anche il meriggio, [509] l’ora di Pan ; non solo: secondo una tradizione del mito, Apollo impara l’arte della [510] divinazione proprio da Pan (tanto che, non a caso, «Plutarco situò il suo racconto sulla morte di Pan in una discussione che aveva come tema il silenzio degli oracoli nel tardo mondo antico [511] ormai pervaso dal cristianesimo» ), e altre affinità si possono cogliere attraverso la figura di [512] [513] Asclepio ; inoltre, anche Pan è spesso rappresentato come un osservatore . Ma nella natura divina di Pan, l’elemento archetipico trova una modalità di espressione diversa: non più quella accecante dell’espressione dell’archetipico in quanto tale, ma quella dell’archetipo come esperienza del corpo; in Pan l’elemento archetipico diventa la dimensione del passaggio dalla natura fuori di noi a quella natura “dentro di noi” di cui già tanto si è detto: Poiché le immagini appartengono allo stesso continuum dell’istinto (e non sono sublimazioni di quest’ultimo), le immagini archetipiche sono parti della natura, e non [514] semplicemente delle fantasie soggettive “nella mente”. Come Kerényi (lo abbiamo visto) sottolineava –e si tratta di una osservazione importantissima – tutto il mito (e quindi l’elemento archetipico) deve essere pensato come un «evento spontaneo», «come il fluire da una fonte», e dunque tutti gli dèi partecipano di questa «spontaneità», anche [515] ovviamente Apollo ; ma, da questo punto di vista, potremmo dire che Pan è il dio della «spontaneità». Dunque Pan ci offre una via privilegiata per comprendere un aspetto fondamentale del mito e del sacro: Questo è il significato della spontaneità dell’istinto […]. Possiamo trovare varie spiegazioni a questo comportamento. Possiamo scoprire che la spontaneità è “causata” da più profonde leggi di autoconservazione e di sopravvivenza della specie. Possiamo vedere dietro questi eventi subitanei un più ampio modello ecologico […]. Possiamo pensare che i salti quantici e il principio di discontinuità siano operanti anche negli esseri umani […]. La spontaneità rimane un’esperienza e un’idea che, per definizione, non è possibile inserire in ordinati sistemi di spiegazione. Per definizione, non può essere spiegata. Spontaneità significa qualcosa di autogenerantesi , non prevedibile, non ripetibile . Sebbene abbia tutto l’aspetto di un fenomeno naturale, nondimeno non rientra nel campo della scienza naturale così come la scienza è definita attualmente. Trovare leggi dello spontaneo sarebbe una contraddizione in termini; questi eventi sono infidi, irregolari, senza legge. Perciò, considerare gli eventi spontanei come eventi casuali […] confonde le categorie tra quantità e qualità. Casuale è un concetto quantitativo; spontaneo è qualitativo e significativo […] C’è emozione con la spontaneità. Essa [516] significa una libertà radicale . [corsivi nostri]
Perché si verifichino in questo momento e non in quello, perché siano così frammentari, insignificanti e persino falsi – sono tutti interrogativi che dovranno essere esplorati mediante la mitologia dello spontaneo piuttosto che per mezzo di metodi empirici e logici. E’ soltanto penetrando più a fondo nella natura di Pan (e delle ninfe) che potremo comprendere meglio queste manifestazioni […]. Jung lavorò sia sistematicamente che ermeneuticamente sugli eventi casuali in rapporto con i problemi della sincronicità. Questo termine si riferisce alle coincidenze significative di eventi psichici e fisici di cui non può essere data nessuna spiegazione [517] soddisfacente mediante le usuali categorie di causalità, spazio e tempo. Ora –per quanto azzardata possa parere una simile considerazione –viene da chiedersi: questa formulazione della «spontaneità» non mostra forse una considerevole assonanza con la definizione [518] data a suo tempo da Kant –a partire da tutt’altro punto di vista e con tutt’altri scopi –della “causalità libera”? Di tutto ciò che accade non è possibile pensare che una duplice specie di causalità, o per natura o per libertà. La prima consiste nella connessione d’uno stato del mondo sensibile con uno precedente, secondo una successione fondata su una regola. […] Per contro, intendo per libertà […] la facoltà di iniziare da sé uno stato; tale causalità non è dunque a sua volta subordinata, per legge di natura, a un’altra causa che la [519] determini temporalmente. Dovendo questi […] fenomeni (e non cose in sé) avere a fondamento un oggetto trascendentale, tale da determinarli come semplici rappresentazioni, nulla può impedirci di attribuire a questo oggetto trascendentale, oltre alla proprietà per cui si manifesta fenomenicamente, anche una causalità che non è fenomeno, benché il suo effetto sia riscontrabile nel fenomeno. […] Verremmo allora ad avere, in un soggetto del mondo sensibile, in primo luogo un carattere empirico, in virtù del quale le sue azioni, in quanto fenomeni, sarebbero totalmente connesse con altri fenomeni, in conformità a leggi stabili della natura […]. Ma, in secondo luogo, si dovrebbe riconoscere a un tal soggetto anche un carattere intelligibile, in virtù del quale esso, pur essendo la causa di quelle azioni in quanto fenomeni, sfuggirebbe a ogni condizione sensibile, e non sarebbe fenomeno. Si potrebbe anche considerare il primo come un carattere della cosa nel [520] fenomeno e il secondo come un carattere della cosa in se stessa. Il lettore più avvertito si sarà già accorto (e magari con un certo allarme) di come il discorso ci stia ineluttabilmente trascinando verso un vero e proprio campo minato, su cui questo nostro studio rischia di cadere proprio a un passo dalla conclusione. Infatti, se si stabilisce che il mito, l’archetipo, gli dèi, il sacro godono di quel tipo di “causalità libera” (o di qualcosa di simile), e se quella “causalità libera” è una caratteristica propria dell’ordine noumenico, si tende implicitamente ad identificare il sacro col noumeno. Difficile non accorgersi, del resto, di come altre considerevoli somiglianze si possano riscontrare anche con la concezione “negativa” del noumeno: Dunque, l’intelletto circoscrive la sensibilità, senza per questo allargare il proprio campo; mentre ammonisce la sensibilità a non pretendere di valere per le cose in se stesse, ma soltanto per i fenomeni, si forgia col pensiero un oggetto in se stesso, soltanto però quale oggetto trascendentale, che è causa del fenomeno (e quindi non fenomeno), e che non può essere pensato né come quantità, né come realtà, né come sostanza, ecc. […]; nei riguardi di tale oggetto trascendentale si è completamente all’oscuro se esso sussista in noi o fuori di noi, se si annullerebbe con l’annullamento della sensibilità o se resterebbe. Se, per il fatto che la rappresentazione di tale oggetto non è sensibile, vogliamo chiamarlo noumeno, siamo liberi di farlo. Ma non essendoci concesso di
applicargli alcuno dei nostri concetti, questa rappresentazione resta vuota per noi e tale da non servire ad altro che a segnare i limiti della nostra coscienza sensibile, nonché a lasciar vuoto uno spazio che non ci è dato riempire né con l’esperienza possibile, né con [521] l’intelletto puro. Ma anche dell’archetipo Jung non aveva forse detto che si può «circoscrivere ma non descrivere», che il suo contenuto è e resterà sempre totalmente inconscio e sconosciuto? E Kerényi, nel suo approccio più filosofico, non diceva forse che l’archetipico «nella dimensione a esso peculiare è l’elemento più estremo a cui si spinge il nostro pensiero»? E del «divino» non dice anche, conseguentemente (e fenomenologicamente), che non si può dire cosa esso sia “prima” o a [522] prescindere dal «rapporto» che l’uomo religioso stabilisce con esso ? Pure Eliade, per certi versi forse meno rigoroso e più “avventuroso” da un punto di vista metodologico, quando si trova a dover dire cos’è il Sacro, è costretto a definirlo negativamente: Il numinoso si singolarizza come qualcosa di ganz andere , di radicalmente e totalmente diverso […]. Il sacro si manifesta sempre come una realtà affatto diversa dalle realtà “naturali”. Il linguaggio può ingenuamente esprimere il tremendum , o la maiestas o il mysterium fascinans con gli stessi termini usati nel mondo naturale o nella vita spirituale profana dell’uomo. Ma questa terminologia analogica è giustamente dovuta [523] all’impossibilità umana di esprimere il ganz andere […] E tuttavia una sorta di accezione positiva del noumeno, come noto, c’era o quanto meno si è venuta [524] col tempo esplicitando, in quanto il noumeno, a confutazione dell’idealismo , garantiva, e quindi in un certo senso fondava, l’oggettività dell’ordine fenomenico del mondo. E anche in questo senso positivo (per quanto il punto di vista adottato non sia più gnoseologico quanto semmai ontologico) abbiamo ben visto quanto e in quanti modi si possa dire che il Sacro e il mito fondino e garantiscano e siano origine dell’ordine profano esistente. Come non rammentarsi allora delle parole di Tiresia? Le cose stesse, regnavano allora. Accadevano cose –adesso attraverso gli dèi tutto è fatto parole, illusione, minaccia. Ma gli dèi posson dare fastidio, accostare o scostare le [525] cose. Non toccarle, non mutarle. Sono venuti troppo tardi. E’ allora sulla base delle semplici constatazioni di fatto che stiamo or ora facendo, che questo regno delle «cose stesse» di Tiresia tende irresistibilmente a diventare il regno delle «cose in sé», il profano a coincidere con l’ordine fenomenico delle cose, gli dèi e gli archetipi a dar vita e espressione alla soglia che divide questi due mondi, e il sacro, il numinoso a essere l’esperienza che di questa soglia si può fare . E tuttavia, come ogni buon filosofo può certificare, tutto ciò non è assolutamente ammissibile… Non è ammissibile, ovviamente, perché comporre un’equazione del tipo: Sacro=Essere=Noumeno, equivale già a dire qualcosa del noumeno, di cui invece, per definizione, non siamo in grado di dire nulla. E allora? Allora non ripercorreremo qui la storia del pensiero e della filosofia per verificare storicamente quali rapporti abbiano legato fra loro le concezioni e i pensatori che abbiamo fin qua nominato –alcuni di questi rapporti son noti ed evidenti, altri forse no –perché sarebbe cosa non adatta e fuor di misura per quello che, in fin dei conti, è solo uno studio di cinema, e sarebbe anche un’impresa sproporzionata per le modeste capacità di chi scrive, che è tutt’altro che un esperto filosofo. Vorremmo però sottolineare come l’ipotesi che qui abbiamo mosso non sia, in realtà, di ordine concettuale: non stiamo cioè affermando che il noumeno sia concettualmente assimilabile all’Essere e questo, a sua volta, al Sacro in maniera legittima. Non stiamo neppure affermando, ovviamente, che siano stati questi grandi pensatori a pasticciare ingenuamente e illegittimamente coi loro concetti. E’ semmai ragionando quasi da filologi
(sperando che qui non siano i filologi a volercene!), che abbiamo potuto constatare, pur nella differenza, quanto numerosi siano i caratteri, le inflessioni, le intenzioni e le note comuni: tanto numerose, da far pensare a un’origine, a un sostrato comune; a un qualcosa che sembra unire tutte queste concezioni “a monte” della loro elaborazione e specificazione razionale e concettuale . In questo senso, non ci interessa tanto l’effettiva legittimità filosofica di questa implicita assimilazione o comunanza, quanto il fatto che essa esista e sia operante. Inoltre, questa nostra constatazione, pur nella sua riconosciuta discutibilità filosofica, ci sembra comunque adeguata e fruttuosa (e quindi accettabile) rispetto agli scopi di questo studio. Ciò che dunque ci sembra unire tutte queste concezioni è un’analoga “intuizione” o “sentimento” del mondo (e usiamo questi termini nella maniera più ingenua e scevra possibile): un qualcosa che poi è stato elaborato concettualmente in varie maniere e integrato in diversi sistemi, a seconda degli scopi e dei punti di vista che questi vari pensatori si erano prefissati; di conseguenza, ciascuno di questi sistemi esplicita certi caratteri e ne tralascia altri; ciascuno presenta punti di forza e punti deboli diversi. Ciò nonostante, come abbiamo visto, basta avventurarsi appena un poco fuori delle acque sicure della correttezza e dell’ortodossia filosofica, per accorgersi di quali e quanti elementi lascino ancora trasparire un’origine comune. Questa «origine», potremmo forse ormai permetterci, a questo punto, di chiamarla sentimento o sensazione o intuizione (non conoscenza) del noumeno : una sensazione tutta interiore, archetipica, corporea, originaria e immediata. Forse quella stessa cosa [526] per cui Kerényi ha coniato la splendida formulazione del «nudo rapporto con il divino» , e che persino nel severo impianto gnoseologico e scientifico di Kant trova una via di legittimazione: Per conoscere un oggetto è richiesto che io possa provarne la possibilità […] Ma per attribuire a un tale concetto validità oggettiva (possibilità reale, questa, mentre la prima era una possibilità semplicemente logica) occorre qualcosa di più. Ma questo qualcosa di più non richiede di esser cercato nelle fonti conoscitive teoretiche: può infatti trovarsi [527] anche nelle pratiche. E adesso che, prendendo spunto da contributi e da punti di vista così diversi eppure così intimamente legati, siamo riusciti in qualche modo, se non a descrivere, per lo meno a circoscrivere questa “intuizione” o “sensazione” originaria e immediata dell’esserci un noumeno (o un Sacro noumenico, se si preferisce) –una sensazione che, a conti fatti, si dimostra molto più antica, resistente, duratura e paradossalmente concreta che non gli sforzi compiuti da Kant per cercare di dimostrare per via razionale la necessità e l’esistenza del noumeno (come noto, l’idealismo filosofico non incontrò grosse difficoltà nello smantellarli) –ora, si diceva, che siamo giunti in qualche modo a circoscrivere questo nucleo originario e a riconoscere perciò, in qualche modo, l’operatività tutta implicita, sottintesa, empirica ed eretica dell’equazione Sacro = Essere = Noumeno, facciamoci questa domanda: potrebbe esserci stato quello stesso tipo di “intuizione” o “sentimento” comune all’origine anche dell’opera mito-semiologica di Pasolini? Se ora possiamo porci questa domanda in questi esatti termini, avendo piena coscienza di tutto ciò che essa sottende, è sicuramente valsa la pena di rischiare la prova del campo minato… ENDIMIONE […] E tu vai per le strade a quest’ora dell’alba –dunque ti piace essere sveglio tra le cose quando escono appena dal buio e nessuno le ha ancora toccate. […] STRANIERO Chi può dire di aver mai toccato quello accanto a cui passa? IASONE [529]
[528]
C’è una verginità delle cose, Mélita, che fa paura più del rischio. […]
Da sempre, il cinema è stato pieno di personaggi capaci di apparire e sparire così, a proprio capriccio, anche se forse nessuno lo ha fatto mai con la stessa aperta spudoratezza di questi
pellegrini pasoliniani che circondano Edipo: le presenze di Shining (1980, S.Kubrick), gli “ospiti” di Solaris (1972, A.Tarkovskij), come l’io moltiplicato nel finale di 2001: odissea nello spazio (1968, S.Kubrick), o, tanto per fare un altro esempio, il misterioso maniaco di Halloween (1978, J.Carpenter), sembrano appartenere tutti, insieme a questi nostri pellegrini, a uno stesso filone trasversale di cinema , che si occupa da sempre dello stesso tema: la pressione tremenda che tutto ciò che è completamente alieno esercita sulla nostra piccola sfera umana . Se dunque, veramente questo cinema pasoliniano è riuscito a essere la ierofania scritta di una realtà sacra; se è riuscito a essere lingua spazio-temporale di un Tempo e di uno Spazio sacri; se, differentemente da quanto previsto in sceneggiatura, il santuario di Delfi ha preso la forma di un albero sacro e, dunque, di una delle più chiare espressioni di quello che viene chiamato axis mundi , apertura e passaggio tra i vari [530] livelli del cosmo, tra la sfera umana e quella divina ; se su questa scena brilla la luce di Apollo, dio della frattura, della rottura e apertura dei livelli; se è proprio attraverso questa apertura spalancata sul Sacro che i pellegrini possono spostarsi e passare da un livello narrativo all’altro; se tutto questo è vero, e se accettiamo e consideriamo attentamente le constatazioni fatte in questi ultimi paragrafi sull’operatività eretica dell’equazione Sacro=Essere=Noumeno, allora, ecco che potremmo dire che questa scena dell’oracolo, nel tentativo estremo che compie di fotografare il Sacro, compie anche un tentativo altrettanto estremo di uscire dalla sfera fenomenica verso quella del noumeno, ovvero di fotografare quell’attimo fuggente in cui il noumeno, nell’atto di emergere, già non è più noumeno ma non è ancora fenomeno, bensì è lava il cui fuoco non si è ancora spento ; e la nostra umana, umanissima continuità spazio-temporale e cinematografica, non è stata deformata, allentata, smagliata, bensì (al contrario) non si è ancora formata . Quasi come se il cinema potesse conservare per noi e restituirci come da un tempo infinito, immemorabile, quello stesso sguardo con cui i nostri progenitori guardavano abbagliati agli dèi, e videro comparire davanti ai loro occhi il cosmo. Il che, beninteso, è un tentativo impossibile. Così come questa nostra è indubbiamente un’ipotesi avventata e rischiosa; ma del resto si sa: già Socrate […] lo aveva chiarito: si entra nel mito quando si entra nel rischio, e il mito è l’incanto che in quel momento riusciamo a far agire in noi. […] «Bello infatti è questo [531] rischio, e occorre con queste cose in certo modo incantare se stessi»
Appendice di commento alla bibliografia.
E’ indubbiamente cosa normale e fisiologica che all’inizio, al primo affacciarsi sulla scena di un nuovo autore, siano soprattutto riviste e periodici a occuparsene, e che solo in seguito, in un secondo tempo, col progressivo consolidarsi della fama e dell’opera dell’autore in questione, la critica cominci a coagularsi e ad addensarsi nella forma di più consistenti monografie; ma, se si osserva attentamente la suddetta cronologia, si noterà subito che nel caso di Pasolini questo processo ha avuto tempi e dimensioni abnormi: bisogna infatti scorrere ben oltre il 1970 per trovare le prime monografie che abbiano tentato di affrontare in maniera organica e consistente l’opera cinematografica di Pasolini, e i primi studi riusciti ad affermarsi con una certa forza come punti di riferimento obbligati per tutta la critica successiva (con quali risultati poi, lo si è almeno in parte visto): il libro di Arecco del ’72; ma, forse, soprattutto quelli di Petraglia del’74 e di Ferrero del’77. Ciò vale a dire che, prima che la critica cinematografica su Pasolini facesse il grande balzo verso la monografia –e perciò, come prima e diretta conseguenza, Pasolini venisse definitivamente e pienamente consacrato a tutti gli effetti anche come autore cinematografico –Pasolini aveva già praticamente fatto in tempo a girare tutti i suoi film e ad essere brutalmente ucciso, quasi come se veramente la vita e l’opera di Pasolini non fossero “leggibili” che post mortem ! Ovviamente, almeno sulla base di una logica razionale, la critica dell’epoca non poteva avere alcuna coscienza dell’irrimediabile e vistoso ritardo che la prematura morte dell’autore, interrompendone a forza l’opera, le stava infliggendo, ma è certo anche vero che l’opera cinematografica di Pasolini era stata a dir poco corposa (a volte anche con due e persino tre uscite all’anno), e che la storia della critica italiana insegna che a volte è bastato molto ma molto meno per degnare un “autore” di monografie a
suo nome… Oltretutto, teoricamente, in direzione di questo pieno “riconoscimento” dello status di autore, Pasolini sarebbe dovuto partire con grande vantaggio, visto che egli, in fin dei conti, già come autore riconosciuto partiva (anche se non cinematografico), nonché come intellettuale di assoluto spicco e notorietà. In realtà, a ben vedere, sorge il sospetto che forse proprio questo sia risultato d’ostacolo, in quanto che per molto (troppo) tempo si è poi continuato a pensare a Pasolini sostanzialmente come a “un letterato che solo ogni tanto, quasi come per hobby, facesse un film” senza riuscire così a scorgere l’intima organicità e continuità delle due principali attività di Pasolini. Del resto, di quanto la figura pubblica di questo autore –così scomoda e scottante come è stata –possa aver interferito con lo sviluppo di una più serena e organica critica sulla sua opera cinematografica, forse è possibile cogliere anche una qualche altra traccia, dando una rapida scorsa alla nostra bibliografia: magari, si noterà il numero cospicuo di articoli usciti su riveste e periodici non specializzati, o quei titoli (non pochi) che tradiscono un’origine polemica, sia che fosse in difesa o in accusa… Tutto sommato, forse, anche l’evidente sproporzione tra il gran numero di articoli pubblicati (e chissà quanti ne saranno sfuggiti a questa catalogazione!) e l’esiguo numero di monografie (anche in anni in cui, come si diceva, la sua opera era già corposissima), anche questa sproporzione –si diceva –potrebbe forse essere (con prudenza) interpretata come un indizio di quanto si stava supponendo. Acquisterebbe allora un significato ben più pregnante l’evidente (forse anche ovvia) inversione di tendenza che si può osservare a partire dal’77 (comunque ben 2 anni dopo la sua morte!): è infatti a partire da quell’anno (come si può vedere) che le monografie prendono un deciso sopravvento sugli articoli, secondo una tendenza che si mantiene piuttosto stabile fino ai giorni nostri; cioè, un significato più pregnante –si intendeva dire –rispetto a quanto imputabile al solo venir meno della fretta di scrivere qualcosa alla svelta dopo l’uscita di una nuova opera. Del resto, se ci si fa caso, dal’77 in poi, anche tutti quei titoli e quelle pubblicazioni un po’ “sospette” cui si faceva riferimento più sopra, sembrano sparire completamente, lasciando il campo a una critica forse tutta più compatta ed omogenea –forse sarebbe meglio dire più cattedratica… tutta più omogeneamente specialistica… Forse, allora, il fatto è che si poteva fare critica più tranquillamente, dopo aver rimosso quel corpo estraneo, inficcato in seno alla società italiana come una spina, che era Pier Paolo Pasolini…
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[1]
Cfr. Pasolini P.P., Il Vangelo secondo Matteo, Edipo re, Medea , Milano, Garzanti, 1991, pp. 382-391, ovvero le sc.19-25 della sceneggiatura, che riguardano appunto il viaggio di Edipo verso Tebe. Nel film, si noterà soprattutto, rispetto alla sceneggiatura, il senso di una temporalità molto più incerta e sospesa; alcuni episodi sono stati modificati o mancano del tutto (ma l’occhio attento potrà coglierne alcuni “resti” –come ad es. il “passaggio di proprietà” del cappello di Edipo –che, fuori dal loro contesto, appaiono quanto mai “opachi”); molto più ricca e inusitata l’ambientazione delle scene, che, rispetto a quanto previsto in sceneggiatura, si avvantaggia grandemente di tutto ciò che l’autore ha trovato in location , sulla base dello stesso principio analogico che P. aveva già sperimentato nel Vangelo . [2]
Nella sceneggiatura, fa parte dell’episodio della prostituta (ibidem , pp.390-391), dove però non compare la danza dei vecchi, che sembra invece ripresa dalla scena dell’osteria. Rispetto alla sceneggiatura (un po’ come per tutto il resto dell’itinerario verso Tebe –a mio avviso), la visione ha un carattere di maggiore mistero e ritualità. [3]
Dovrebbe trattarsi della prostituta indicata in sceneggiatura. Anche in questo caso però (vedasi la nota prec.), il carattere dell’episodio sembra decisamente mutato: nient’affatto grottesco, ma anzi misterioso, sacrale… [4] [5]
Cito per comodità da una traduzione italiana: Sofocle, Edipo re, Edipo a Colono, Antigone , Milano, Garzanti, 1989, pp.51-53 Arecco S., P.P.P. , Roma, Partisan,1972
[6]
Petraglia S., P.P.P. , Firenze, Nuova Italia (Castoro Cinema), 1974. Come si dirà più avanti, nel 1994 è uscito, ad opera di S. Murri, un nuovo testo del Castoro Cinema dedicato a Pasolini. [7] [8]
Petraglia S., P.P.P. , op. cit., pp.87-88. Micciché L., Il cinema italiano degli anni ‘60 , Venezia, Marsilio, 1979 (prima ediz. 1975).
[9]
Chiunque abbia avuto modo di frequentare almeno un poco la saggistica degli anni ’60 e ’70, si sarà certo reso conto, col senno di poi, di quanto il forte dibattito politico e ideologico di quegli anni tendesse ad infiltrarsi anche in sedi non appropriate, e di quanto spesso si tendesse ad emettere, su quelle basi, giudizi e sentenze che con una serena critica cinematografica avevano ben poco a che fare. E questo, spesso, purtroppo, anche in maniera forse un po’ ipocrita, senza dichiarare espressamente il tipo di operazione che si andava compiendo… [10]
Ibidem , p.157: «Accattone non è un film che contiene o implica una ideologia politica sbagliata o regressiva, per l’ottima ragione che […] non si offre in alcun modo come rappresentazione ideologica della condizione proletaria, ma soltanto come applicazione a un mondo sottoproletario […] dell’«ideologia della morte» che tormenta ed esalta l’intellettuale borghese Pier Paolo Pasolini. […] Importa poco in questo senso commisurare la realtà dell’opera a quella del sottoproletariato […] la critica che ai tempi dell’esordio pasoliniano si immerse in questo esercizio finì per dare immotivati giudizi negativi. Importa invece riferire la realtà dell’opera a una visione del mondo». [11] [12] [13] [14] [15] [16]
Ibidem , op.cit., p.152. Ibidem a cavallo delle pp.170-171. Ibidem , pp.170-171. Ferrero A., Il cinema di P.P.P. , Venezia, Marsilio, 1977. Ibidem , p.91. Citeremo sempre, per motivi di praticità, dalla riedizione negli Oscar Saggi Mondadori del 1978. Bertini A., Teoria e tecnica del film in Pasolini , Roma, Bulzoni, 1979.
[17]
Giusto a titolo di esempio, si potrebbero citare quei casi in cui Bertini parla di un misterioso «grado» dell’obbiettivo piuttosto che di Focale o Lunghezza focale come sarebbe invece corretto fare (p.23); o di quando parla della Profondità di campo come di una «impressione», quando essa invece è un dato oggettivo ben preciso, e determinato dalle caratteristiche dell’obbiettivo e dall’apertura del diaframma, sulla base di leggi ottico-fisiche rigorose (p.23 –tutt’altra questione, semmai, è che detta profondità di campo venga stilisticamente sfruttata ed evidenziata o meno ); o quando sembra considerare gli obbiettivi da 50 e da 75 quasi come una scoperta della nouvelle vague (pp.21 e succ.), apparentemente ignorando che da sempre essi sono gli obbiettivi più comuni, classici e utilizzati che si possano immaginare (una sorta di “grado zero”); così come molto incerte e superficiali appaiono all’occhio esperto certe caratterizzazioni stilistiche univoche, tentate da Bertini, di determinate lunghezze focali (pp.21 e succ.). Potrebbe semmai restare da vedere se egli non erediti, almeno in parte, questi usi impropri da qualche parte della vasta opera scritta pasoliniana, ma ciò non sposterebbe di una virgola il nocciolo della questione: cioè la sua impreparazione a trattare l’argomento che egli stesso si è prefissato. [18] [19]
Ibidem , p.83. Cascetta A. (a c.), Sulle orme dell’antico. La tragedia greca e la scena contemporanea , Milano, Vita e pensiero, 1991.
[20]
Murri S., P.P.P. , Milano, Il Castoro, 1995.
[21]
Paduano G., Lunga storia di Edipo re. Freud, Sofocle e il teatro occidentale , Torino, Einaudi, 1994. Presenta un certo interesse anche la bibliografia di questo saggio, che è certo almeno in parte diversa da quella con cui è abituato a confrontarsi chi si occupa di critica cinematografica. [22]
Vale a dire cercando di eliminare anacronismi culturali e di interpretazione incongrui e insostenibili; evidenti forzature del testo; tentativi ingenui (e poco sostenibili da un punto di vista metodologico) di considerare i personaggi letterari alla stregua di persone reali affette da patologie; ecc. Ciò a tutto vantaggio, invece, di un approccio freudiano moderno, di carattere linguistico e formalistico, anche nella direzione indicata da Francesco Orlando. [23] [24] [25] [26] [27]
Paduano G., Lunga storia di Edipo re… , op. cit., p.204. Ibidem , p.205. Ibidem , p.206. Ibidem , p.209. Ibidem , p.215.
[28]
Fusillo M., La Grecia secondo Pasolini , Firenze, La Nuova Italia, 1996. Anche questo studio presenta una bibliografia estremamente interessante. [29]
Ibidem , p.81.
[30]
Proviamo, ad es., a riconsiderare più attentamente quest’ultima citazione da Fusillo: la distrazione dell’autore è, in questo passo, evidente. Fusillo, riferendosi alla sceneggiatura del film, dice che Edipo, in questa prima versione ideata da Pasolini della vicenda, avrebbe scelto, tirando una monetina, se tornare a Corinto o andare a Tebe. Ma è sufficiente una rapida occhiata alla sceneggiatura (cfr. Pasolini P.P., Il Vangelo secondo Matteo…, op. cit., pp.382-383, corrispondenti alle sc.19-20) per constatare come le cose non stiano affatto così: né lì, infatti, né, del resto, nell’originale greco, si dà neppure minimamente adito all’ipotesi che Edipo sia disposto ad affidare alla sorte anche solo la possibilità di un suo ritorno a Corinto; egli ha anzi già deciso (Sc.19 –ed anche nel film è così) di non andare a Corinto, e si incammina nella direzione opposta; direzione opposta in cui sarebbe per altro poco logico ritrovare una qualche indicazione verso Corinto. Inoltre, ciò che è più grave, non si evidenzia affatto, in nessuna di queste interpretazioni che abbiamo visto (neppure dove, come qui in Fusillo, appare chiaro che la sceneggiatura è stata confrontata), non si evidenzia affatto – dicevamo –l’avvenuta iterazione del gesto rispetto alla sua prima ideazione come accadimento singolo, cosa che noi, poche pagine più su, abbiamo invece definito come un importante “campanello (stilistico) di allarme”. [31]
A nostra conoscenza, il primo ad essersi occupato proficuamente (già da alcuni anni) di questa linea di indagine è stato Giuseppe Panella, in un lungo articolo che però, per varie ragioni, è stato pubblicato solo recentemente: Panella G., P.P.P.: dal cinema di poesia ai film sul mito , in « Gradiva» , Firenze, n°22 Fall 2002, pp.38-49; in verità, più o meno contemporaneamente, anche se del tutto indipendentemente, anche Sandro Bernardi si è occupato (lo vedremo) di questi aspetti della figura di Pavese, anche se forse pensando più ad Antonioni che a Pasolini. [32] [33] [34]
Pavese C., Dialoghi con Leucò , Torino, Einaudi, 1999 (prima edizione nel 1947). Ibidem , p.65. Ibidem , p.67.
[35]
Pasolini P.P., Il Vangelo secondo Matteo…, op. cit., p.439. Si noti, per altro, che la punteggiatura qui riportata e ripresa dalla sceneggiatura, sottintende una sfumatura di significato ben precisa, in quanto fa sì che «non imposto» sia solo un inciso, e anche il participio «voluto» sia retto dall’agente «destino». Tuttavia, tale punteggiatura non è affatto perspicua, e, alla sola visione del film, a nostro parere, è assai più probabile che si intenda un qualcosa come:«Ora tutto è chiaro. Voluto. Non imposto dal destino». Ovvero: l’azione di volere non sarebbe più a carico del «destino», ma imputata direttamente ad Edipo. [36]
Halliday J., Pasolini su Pasolini , Parma, Ugo Guanda Editore, 1992, p.113. Una precedente edizione di questo utilissimo testo fu pubblicata già nel 1969, con lo pseudonimo di O.Stack. [37]
Cfr. Fusillo M., La Grecia secondo… , op. cit., p.119.
[38]
Pavese C., Dialoghi… , op. cit., p.66. Pur nella non perfetta coincidenza del secondo participio, la vicinanza delle due espressioni pare notevole: si notino l’identità della tematica, l’andamento spezzato e lapidario del periodo, la vicinanza semantica dei secondi participi. [39]
Pasolini P.P. (a c. di G. Chiarcossi.), Descrizioni di descrizioni , Milano, Garzanti, 1996, p.301.
[40]
Jesi F., Cesare Pavese dal mito della festa al mito del sacrificio , in Pavese C., La bella estate , Torino, Einaudi, 1998, p.V-VI (prima ediz. nel 1966). Naturalmente, gli altri due titoli della trilogia cui fa riferimento Jesi sono Il diavolo sulle colline e Tra donne sole . [41] [42]
Pasolini P.P. (a c. di G. Chiarcossi.), Descrizioni… , op. cit., pp.350 e succ. Ibidem , pp.350-351
[43] [44] [45]
Ibidem , p.502 Ibidem , p.503. Pasolini P.P., L’ambiguità , in «Filmcritica», 248, Roma, Ott.-Dic.,1974, citato in Bertini A., Teoria e tecnica… , op.cit., pp.109-
110. [46]
Aristarco G., Il dissolvimento della ragione , Milano, Feltrinelli, 1965
[47]
Per uno studio accurato sull’argomento, cfr. Pavese C., De Martino E. (a c. di P. Angelini), La collana viola Lettere 1945-1950 , Torino, Bollati Boringhieri, 1991. Da questo testo, trarremo tutti i nostri accenni sulla storia della Collana Viola, qui e avanti. [48]
Per la precisione, il libro di De Martino occupava la prima posizione nel catalogo della Collana, ma in realtà, a causa di vari ritardi, non fu fisicamente il primo a essere stampato e pubblicato. [49] [50] [51] [52]
Pavese C., De Martino E. (a c. di P. Angelini), La collana viola… , op. cit., p.9. Ibidem, p.11. Sono ancora debitore, per queste informazioni, a Pavese C., De Martino E. (a c. di P. Angelini), La collana viola… , op. cit. Bernardi S., Il paesaggio nel cinema italiano , Venezia, Marsilio, 2002, pp.90-91.
[53]
Cfr. in particolar modo l’Introduzione e la Notizia supplementare , sempre in Pavese C., De Martino E. (a c. di P. Angelini), La collana viola… , op. cit.. Cfr. anche il successivo cap. di questo studio, pp.31 e succ. [54] [55] [56] [57] [58]
Eliade M., Mito e realtà , Roma, Borla, 1993 (prima ediz. italiana 1966) Pasolini P.P. (a c. di G. Chiarcossi.), Descrizioni… , op. cit., pp.479-480. Ibidem, p.480. Ibidem, p.481. Ibidem, pp.482-483.
[59]
La storia editoriale di questo testo è piuttosto complicata, e vale la pena di spendervi due parole. La prima edizione risale infatti, come detto, al 1970 ed è in francese: Entretiens avec P.P.P. (1969) , Paris, Belfond, 1970. Una seconda edizione, sempre in francese e per la stessa casa editrice, esce nel 1981, col nuovo titolo P.P.P. Les derniéres paroles d’un impie (1969-1975), e con l’aggiunta di alcuni capitoli ricavati da una successiva intervista rilasciata nel 1975. Infine, è stato pubblicato in italiano: Duflot J., Il sogno del centauro , Roma, Editori Riuniti, 1983. Tuttavia, non ci si può nascondere come in realtà anche le prime edizioni in francese sarebbero state assolutamente a portata di mano per la critica italiana. Micciché, come abbiamo visto, era già a conoscenza della pubblicazione di questo testo nel’75 (se non già nel’73); e come lui sicuramente molti altri critici nostrani. [60]
Ibidem, pp.65-66. Si noti che l’iniziale incomprensione di Duflot di fronte all’affermazione di Pasolini sulla maggiore complessità della natura rispetto alla cultura, è dovuta al non accorgersi che Pasolini sta dando una risposta di carattere squisitamente estetico. Cfr. Bernardi S., Introduzione alla retorica del cinema , Firenze, Le Lettere, 1994, pp. 40-41 e passim . E soprattutto Bernardi S., Il paesaggio… , op. cit., passim . [61] [62]
Duflot J., Il sogno del… , op. cit., p.82. Ibidem, p.103.
[63]
Il libro in questione è attualmente reperibile in Italia come Halliday J., Pasolini… , op. cit.. Ma la prima pubblicazione di questo testo si ebbe in inglese e sotto pseudonimo: Stack O., Pasolini on Pasolini , Thames and Hudson, 1969. [64]
Non crediamo tuttavia possibile né probabile, francamente, che l’assenza di determinati nomi e di indicazioni più precise, nell’intervista del 1968, possa stare ad indicare che Pasolini abbia fatto determinate letture solo successivamente, a cavallo tra il’68 e il’69. [65] [66] [67] [68] [69] [70]
Halliday J., Pasolini… , op. cit., p.30. Ibidem, p.82. Ibidem, pp.73-92. Ibidem, p.77. Ibidem, p.110. Ibidem, p.115.
[71]
Pasolini P.P., Una visione del mondo epico-religiosa , in «Bianco e nero», 6, Roma, Giu.1964. Va detto, per la verità, che molte delle domande e degli interventi rivolti al regista dagli studenti appaiono piuttosto superflui e contingenti. [72]
Pasolini P.P., Una visione del mondo… , ora in Pasolini P.P., Tutte le opere – Per il cinema , Milano, Mondadori, Meridiani, 2001, pp.2851-2852. [73]
Ibidem, p.2876. In calce a quest’ultima riflessione di Pasolini, ci vorremmo concedere –per chiudere il cerchio al riguardo – anche una lunga ma significativa citazione da Pavese: «Dice Franco Fortini che l’interesse desto in tutto il mondo per le cose etnologiche e la mentalità primitiva, per ogni manifestazione mistica, magica, irrazionale, lo preoccupano assai, in quanto non si possono facilmente scordare i guasti politici prodotti da una recente cultura irrazionalistica e in fondo folcloristica (…) Vorremmo rassicurare Fortini che il pericolo da lui prospettato non sussiste. E’ chiaro che il folclore e la mentalità mitica interessano il politico «scientifico» come accadimenti, come fenomeni da ridurre al più presto a chiara razionalità, a legge storica. Ci sarà invece, se mai, da temere che del mito, della magia, della «partecipazione mistica», lo studioso «scientifico» dimentichi il carattere più importante: l’assoluto valore conoscitivo ch’essi rappresentano, la loro originalità storica, la loro perenne vitalità nella sfera dello spirito.» da Pavese C., «Cultura e realtà», 1950, I, citato in Pavese C., De Martino E. (a c. di P. Angelini), La collana viola… , op. cit., p.39. Ma non dubitiamo che si potrebbero trovare, avendo voglia di cercare, parecchi altri passi del genere in Pavese, così vicini alle posizioni di Pasolini. Si vedano, quanto meno, le parti saggistiche di Feria d’Agosto (Torino, Einaudi, 1962), e in particolare il notissimo Del mito, del simbolo, e d’altro. [74]
Arecco S., P.P.P., op. cit. , p.16.
[75]
Citiamo, a puro titolo di esempio, tre brani di Arecco, vere e proprie “perle nere” di incomprensibilità: «Alla competitività (presunzione) frustrata del dogmatismo disilluso e del libertario indecifrato s’accavalla la sensazione indefinita del paradosso sociale schivo di teoresi e aggredito di prassi ahimé deficitarie» (p.26); «La conduzione resocontistica di un evento ormai sistematizzato, evitando un decongestionamento eretico dell’indice commotivo tradizionale, accompagna la scansione per fasi salienti con lampi demistificatori» (p.38); «L’inserto surrettizio della diegesi autobiografica equilibra e offusca lo scarno dato di cronaca brillato per un convinto atto di dolore: la filmicizzazione del contrito privilegio di sé non è scindibile da radiografie diagnostiche ed elucubrative, indebite alla mitopoiesi.» (p.56). [76] [77] [78] [79] [80] [81] [82] [83] [84]
Micciché L., Il cinema italiano… , op.cit., p.152. Cfr. p.8 del presente studio. Conti Calabrese G., Pasolini e il sacro , Milano, Jaca Book, 1994. Jesi F., Cultura di destra , Milano, Garzanti, 1979. Cfr. Bernardi S., Il paesaggio… , op. cit., p.91 e relative note a pie’ di pagina. Pavese C., De Martino E. (a c. di P. Angelini), La collana viola… , op. cit., pp.33-36. Ibidem, p.38. Ibidem, pp.36-38. Ibidem, p.41.
[85]
Secondo il progetto iniziale (e non esplicitato) di De Martino, questi testi (a suo avviso non del tutto soddisfacenti) dovevano esemplificare un primo ed imperfetto metodo di approccio alle questioni etnologiche; sarebbero poi dovuti seguire altri testi a suo giudizio più scientificamente corretti. Cfr. Pavese C., De Martino E. (a c. di P. Angelini), La collana viola… , op. cit., passim . [86] [87]
Ibidem, p.40. Ibidem, pp.181-182.
[88]
Ibidem, p.41. Va però aggiunto, per correttezza, che, nonostante queste prese di posizione, fu proprio De Martino a riuscire (là dove lo stesso Pavese aveva fallito) a portare a compimento la pubblicazione di Eliade, che si era nel frattempo arenata proprio per difficoltà di ordine politico. Cfr. Pavese C., De Martino E. (a c. di P. Angelini), La collana viola… , op. cit., pp.182-183. [89]
Conti Calabrese G., Pasolini e il sacro , op. cit., p.9.
[90]
Cfr. Conti Calabrese G., Pasolini e il sacro , op. cit., p.120: dove si parla della comparsa del Dio Sole in forma di vecchio contadino, cosa questa, che, come noto, nel film non avviene. E si potrebbero anche fare altri esempi consimili. Si noti infine il sistematico uso del termine «passo» al posto del più corretto «scena»: anche questo, è a nostro avviso, indice di una certa forma mentis … [91] [92] [93]
Ibidem, p.9. Ibidem, pp.10-11.
Giusto a titolo di esempio si consideri quanto Pasolini stesso dichiara in Halliday J., Pasolini su pasolini , op. cit., p.61: «La morte determina la vita, io sento così, e l’ho anche scritto […] La vita acquista un senso quando è finita […] Comunque, per essere sincero, devo aggiungere che per me la morte è importante solo se non è giustificata e razionalizzata. Per me la morte è il massimo dell’epicità e del mito. Quando le parlo della mia tendenza al sacrale, al mitico, all’epico, dovrei dire che essa può essere
completamente appagata solo dall’atto della morte, che secondo me è l’aspetto dell’esistere più mitico ed epico […]». Altrove, Conti Calabrese cita anche la somiglianza tra la morte del poeta e la morte che questi aveva immaginato per il suo San Paolo nell’omonima sceneggiatura. [94] [95] [96] [97] [98] [99]
Conti Calabrese G., Pasolini e il sacro , op. cit., p.11. Ibidem, p.12. Ibidem, p.13. Ibidem, p.14. Ibidem, p.146. Ibidem, pp.147-148.
[100] [101] [102] [103] [104]
Ibidem, p.154. Fusillo M., La Grecia secondo… , op. cit., p.14. Ibidem, p.17. Ibidem, p.20. Ibidem, pp.27-28.
[105]
La seconda parte del libro è dedicata a Medea , la terza all’Orestea (come noto mai realizzata come film vero e proprio). Ricordiamo che, mentre l’Edipo rappresenterebbe per Fusillo un approccio psicologico e individualistico alla questione del mito e della Grecia, e Medea un approccio socio-politico, l’Orestea rappresenterebbe il tentativo di una sintesi. [106]
In un passo che rivedremo meglio più avanti, Fusillo parla appunto di «valutare appieno la riscrittura drammaturgica di Sofocle». [107] [108] [109] [110] [111] [112] [113] [114] [115] [116] [117] [118] [119]
Halliday J., Pasolini su pasolini , op. cit., p.112. Ibidem, pp.109-110. Ibidem, p.114. Fusillo M., La Grecia secondo… , op. cit., p.103. Ibidem, p.105. Ibidem, pp.105-106. Ibidem, pp109-110. Ibidem, p.108. Ibidem, p.115. Ibidem, pp.116-118. Ibidem, p.122. Ibidem, p.124. Ibidem, p.125.
[120]
Ibidem, p.111: «E’ significativo che l’inquadratura sull’abbraccio violento fra i due sposi sia seguita immediatamente da un primo piano su di un cadavere pieno di terribili piaghe; anche se fra le due unità narrative […] intercorre nella storia un intervallo temporale di vari anni, non abbiamo un’interpunzione esplicita e nettamente divisoria […], ma al contrario uno stacco netto […], che giustappone le due immagini con incredibile forza espressionistica. Sfruttando quindi la contiguità visiva e la continuità sintagmatica su cui si basa il linguaggio filmico, ci viene suggerito uno stretto rapporto di causa ed effetto: l’incesto è l’origine della peste, a lungo descritta con immagini di avvoltoi e di cadaveri spogliati da sciacalli.»; p.120: « Lo scioglimento del dramma, cioè l’autoaccecamento di Edipo dinnanzi al cadavere di Giocasta […] conserva ancora una forte e terribile carica erotica: Edipo strappa le vesti del corpo della madre […] e si acceca con la spilla, «quella che tante volte aveva aperto per spogliare la sua sposa» e che avevamo visto infatti inquadrata in primo piano alla fine di due scene d’amore. Viene così visualizzata quella simbologia sessuale più volte riconosciuta nell’accecamento di Edipo, forma velata di castrazione». [121]
Ibidem, pp.45 e succ.
[122]
Tanto per restare (per ora) anche al solo Edipo , si considerino, ancora a titolo di solo esempio, quei passi in cui ci si avvicina pericolosamente al fare un’analisi psicologica di vecchia maniera del personaggio quasi come se fosse persona reale: cfr. Fusillo M., La Grecia secondo… , op. cit., p.77. [123]
Prima di avventurarci oltre all’interno di questa complessa scena, sarà però opportuno spendere qualche rigo per delinearne un pur noioso ma indispensabile decoupage : 1) PM Edipo arriva tra gli altri pellegrini; 2) CLL totale dell’oracolo, Edipo si siede di quinta; 3) PPP Edipo guarda, in attesa; 4) CL totale dell’oracolo, i pellegrini vanno e vengono; 5) FI Edipo si alza e va dall’oracolo; 6) soggettiva di Edipo in cammino verso l’oracolo; 7) PM Edipo si avvicina; 8) IDEM come n°6 soggettiva di Edipo; 9) FI Edipo si inginocchia; 10) PM la Pizia si fa portare il riso; 11) MF la Pizia mangia; 12) DETT occhi di Edipo; 13) PP la Pizia pronuncia l’oracolo; 14) PP Edipo ride; 15) PP la Pizia ride; 16) IDEM come n°14 PP Edipo; 17) PP la Pizia ribadisce l’oracolo; 18) PP Edipo; 19) MF la Pizia con l’albero sullo sfondo scaccia Edipo; 20) PP Edipo abbagliato; 21) MPP la Pizia col sole alle spalle; 22) PP Edipo si alza e se ne va; 23) CL totale dell’oracolo con Edipo che torna via (con comparse); 24) CL totale dell’oracolo con Edipo che torna via (senza comparse); 25) PP Edipo cammina e si guarda attorno (senza comparse); 26) soggettiva di Edipo che passa tra i pellegrini in attesa, col sole in macchina; 27) PP Edipo cammina e si guarda attorno, si passa una mano sugli occhi (con comparse); 28) CL Edipo cammina (senza comparse); 29) PP Edipo cammina e si guarda attorno (con comparse); 30) IDEM come n°26 soggettiva di Edipo tra i pellegrini, con sole in macchina; 31) CLL Edipo cammina in lontananza (senza comparse); 32) soggettiva di Edipo che passa tra i pellegrini; 33) PP Edipo cammina e si guarda attorno (con comparse); 34) PP Edipo cammina e si guarda attorno, si passa una mano sugli occhi (senza comparse); 35) soggettiva di Edipo che passa tra i pellegrini, sfuocata; 36) IDEM come n°33 PP Edipo (con comparse); 37) IDEM come n°34 PP Edipo (senza comparse); 38) IDEM come n°35 soggettiva di Edipo tra i pellegrini, sfuocata; 39) CL scorcio di paesaggio con asini in primo piano; 40) CL Edipo passa tra gli asini; 41) soggettiva di Edipo, con sole in macchina, fino alla pietra miliare che indica la direzione per Corinto; a seguire, ancora una breve serie di inquadrature, di carattere oggettivo, chiude la sequenza, mentre Edipo, cercando di allontanarsi da Corinto, ripassa vicino all’oracolo e in mezzo ai pellegrini. [124] [125] [126]
Fusillo M., La Grecia secondo… , op. cit., p.78. Ibidem, pp.79-80. Ibidem, p.80.
[127]
Come noto, una distinzione netta tra inquadrature oggettive e inquadrature soggettive è, nel cinema, sostanzialmente impossibile ed aleatoria. Siccome però questa divisione risulta comoda in sede di analisi, continueremo a far uso dei due termini, seppure in senso più sfumato e “debole”; intenderemo allora per inquadrature soggettive quelle inquadrature che presentano «marche» stilistiche di soggettività (secondo la ben nota definizione di Metz, e come è ormai di uso comune), e per (tendenzialmente) oggettive quelle che ne sono prive. [128]
Si vedano almeno, per il loro particolare interesse, Bernardi S., Kubrick e il cinema come arte del visibile , Parma, Pratiche, 1991 e Bernardi S., Introduzione… , op. cit.. E, se mi è lecito, rimando anche a Ballerini D., STEADICAM: Una rivoluzione nel modo di fare cinema , Alessandria, Edizioni Falsopiano, 1999. [129]
L’inq.n°29 (PP con comparse), infatti, caso unico, non è preceduta dalla soggettiva di Edipo, ma la prepara: 30) soggettiva di Edipo. Come conseguenza diretta di questa alterazione dell’ordine, l’inq.n°31ci riporta direttamente in un CL in cui Edipo è solo, senza passare per il “grado intermedio” del PP contaminato di soggettività. La successiva inq.n°32, che è di nuovo una soggettiva di Edipo, non viene dunque in alcun modo preparata da un PP del soggetto che guarda: tale PP di preparazione sarebbe considerato indispensabile in una costruzione classica, ma qui è come se fosse restato implicito all’interno del precedente CL n°31 (del resto, la soggettiva di Edipo, essendo stata già mostrata due volte, è ben riconoscibile come tale). [130]
E’ opportuno infatti distinguere tra controluce e luce in macchina: con controluce si intende una posizione della fonte di illuminazione (nel nostro caso il sole) che non sta dietro alla mdp di fronte ai personaggi, ma dietro ai personaggi e di fronte alla mdp; normalmente il controluce viene attentamente bandierato (ovvero schermato) in modo che i raggi di luce non possano colpire direttamente le lenti dell’obbiettivo. La luce im macchina presuppone ovviamente il controluce, e avviene quando la fonte di luce o la mdp non sono bandierate; nel caso di Pasolini si va ancora un passo oltre, in quanto la fonte stessa di luce viene inclusa nell’inquadratura. [131]
Pasolini P.P., Empirismo eretico , Milano, Garzanti, 1991, p.185.
[132]
In questa maniera, il sole in controluce fa brillare di più piante, alberi e vari altri elementi paesaggistici, e scontorna le figure dei personaggi dallo sfondo dell’inquadratura; luci artificiali e riflettenti vari vengono allora principalmente utilizzati per dare forti schiarite alle ombre sui soggetti in primo piano. [133]
Un’ulteriore incoerenza nella continuità fotografica della scena può essere osservata nelle inquadrature che abbiamo precedentemente preso in esame: alcune immagini della soggettiva di Edipo e alcuni suoi PP con le comparse sullo sfondo presentano una luce fredda e diffusa, molto diversa da tutte le altre inquadrature della scena; devono infatti essere state girate in un momento in cui una nube copriva il sole. [134]
Va detto, per inciso, che questa maggiore frontalità delle inquadrature dedicate alla Pizia, le porta inesorabilmente a somigliare (o a “gravitare attorno”) alla soggettiva di Edipo: anche se qui ancora la cosa non è così chiaramente avvertibile, viene da chiedersi se ciò non sia già un primo sintomo di quelle deformazioni e di quelle contaminazioni di soggettività che avverranno poi nella seconda parte della scena… [135]
Con master-shot si intende quell’inquadratura più ampia delle altre che serve a mostrare contemporaneamente tutti i personaggi e tutto l’ambiente interessato dall’azione, di modo che poi, quando si passerà a inquadrature più strette (come i PP), siano già ben chiare le posizioni e le intererazioni reciproche tra i personaggi. [136]
In una nota precedente abbiamo ipotizzato che una nuvola o qualcosa del genere abbia velato il sole; ma se invece, per ragioni solo produttive e contingenti, quella parte delle riprese fosse ad es. dovuta slittare a dopo il calare del sole, all’ultima luce, ovviamente il concetto non cambierebbe.
[137] [138] [139] [140]
Calasso R., Le nozze di Cadmo e Armonia , Milano, Adelphi, 1992, pp.122-123. Fusillo M., La Grecia secondo… , op. cit., pp.84-85. Ibidem, pp.86-87. Ibidem, pp.88-89.
[141]
In realtà, va anche detto che questa scena appare decisamente meno coerente e compatta rispetto alla precedente: molti sono, ad es., gli scavalcamenti di campo gratuiti, che avvengono in momenti in cui la concitazione della scena non è tale da giustificarli; e facile è accorgersi di come ciò avvenga anche perché molte riprese di Edipo che corre sono state evidentemente fatte proliferare e migrare in punti della scena a cui inizialmente non erano destinate. Soprattutto quest’ultima osservazione, a nostro avviso, sembra testimoniare di una minore sicurezza nel come rappresentare questo combattimento, e anche che dei cambiamenti siano stati fatti in corso d’opera non solo tra la sceneggiatura (scena 26) e l’effettiva realizzazione delle riprese, ma anche in seguito, in fase di montaggio. [142]
Come noto, l’ordine in cui gli eventi e le inquadrature che li riprendono si susseguono sul set, è molto diverso da quello che poi appare sullo schermo, e ciò per ragioni di ordine pratico ed economico. Spesso, anche la contiguità spaziale e i rapporti di causa/effetto sono prodotti solo dal montaggio. Sul set, e dunque nella realtà profilmica, la continuità sostanzialmente non esiste. [143] [144] [145]
Petraglia S., P.P.P. , op. cit., p.88. Ferrero A., Il cinema di P.P.P. , op.cit., p.91. Murri S., P.P.P. , op. cit., pp.91-92.
[146]
Il lettore più avvertito noterà certo, in questo passo, una generalizzazione e un allargamento anche a Medea di un giudizio che in realtà si basa sull’esame del solo Edipo re : il senso di questa generalizzazione si andrà chiarendo meglio nel prosieguo della trattazione. [147] [148] [149]
Murri S., P.P.P. , op. cit., pp.83-84. Ibidem, pp.84-85. Petraglia S., P.P.P. , op. cit., p.85.
[150]
Ferrero A., Il cinema di P.P.P. , op. cit., pp.88-89. Si noti bene l’iniziale affermazione di Ferrero a riguardo del rapporto con gli scritti semiologici di Pasolini, perché tale affermazione andrà più avanti clamorosamente smentita. [151]
Ibidem, p.91.
[152]
Ibidem, p.92. Si noti come, pur conoscendo il precedente pavesiano, Ferrero non ne colga il nesso con Pasolini. Neppure la citazione dei due antropologi strutturalisti è utilissima, essendo Pasolini piuttosto vicino (almeno tendenzialmente) alla corrente fenomenologica. [153] [154] [155] [156] [157] [158] [159] [160] [161] [162] [163] [164] [165]
Micciché L., Pasolini nella città del cinema , Venezia, Marsilio, 1999. Vedi p.9 del presente studio. Micciché L., Pasolini nella città… , op. cit., pp.18-19. Ibidem, p.46. Ibidem, p.31. Ibidem, p.35. Ibidem, pp.36-37. Ibidem, p.41. Ibidem, pp.209-210. Ibidem, pp.41-42. Ibidem, p.212. Ibidem, p.133.
Ibidem, p.55: « Sembra insomma che […] il cinema di Pasolini abbia dato il meglio di sé […] sino a poco oltre la metà del decennio [anni’60] (come dire sino a Uccellacci e uccellini ). Pur guidato da un’intelligenza così straordinariamente sensibile ai tempi e alla loro dinamica, il cinema pasoliniano non giunge indenne allo scoglio del 1967-68 e meno che mai lo supera. Tanto che,
vedendoli retrospettivamente, i film pasoliniani del cosiddetto periodo mitologico […], pur nella loro diversità, appaiono come altrettante iterazioni di una medesima, e sia pure altissima, cerimonia estetica […]». [166]
Non per nulla, in una nota conclusiva al primo capitolo del libro, Micciché ammette candidamente di non aver neppure voluto rivedere questi film prima di accingersi a scriverne… [167]
Micciché L., Il cinema italiano… , op.cit., p.11.
[168]
Sull’influenza della crisi politica e ideologica della sinistra sul cinema italiano di quegli anni, resta a tutt’oggi una lettura estremamente interessante tutta la prima parte del libro di Micciché sugli anni’60. [169] [170] [171] [172] [173] [174] [175] [176] [177] [178] [179] [180] [181] [182] [183] [184] [185] [186] [187] [188] [189] [190] [191] [192] [193] [194] [195]
Duflot J., Il sogno del… , op. cit., p.53. Ibidem, p.85. Ibidem, p.54. Ibidem, p.61. Micciché L., Pasolini nella città… , op. cit., pp.49-50. Ibidem, pp.133-136, e passim. Fusillo M., La Grecia secondo… , op. cit., pp.131-132. Conti Calabrese G., Pasolini e il sacro , op. cit., p.15. Ibidem, p.20. Ibidem, p.21. Ibidem, p.17. Ibidem, pp.17-18. Duflot J., Il sogno del… , op. cit., p.82. Ibidem, pp.82-83. Ibidem, p.63. Conti Calabrese G., Pasolini e il sacro , op. cit., p.38. Ibidem, p.40. Ibidem, p.43. Ibidem, p.99. Ibidem, p.46. Ibidem, p.99. Ibidem, p.42. Ibidem, p.91. Ibidem, p.46. Ibidem, p.90. Micciché L., Pasolini nella città… , op. cit., pp.215-216.
Ibidem, pp.37-38: «Accattone […] è in questo senso un’opera chiave nell’intera produzione artistica pasoliniana, poiché […] testimonia in modo inequivocabile la presenza di un magma ispirativo dove confluiscono […] il motivo della morte e del mito, dell’incontaminata «Pre-Storia» e della storica crudeltà sociale, della vitalistica anarchia e dell’ordine repressivo, dell’epica innocennza […] e dell’inesorabile grigiore omicida del mondo.»; e pp.52-53: «Pasolini giungeva a funzionalizzare assai efficacemente il suo «non saper girare» mediante la istituzionalizzazione di «raccordi» anomali […]. Da questa volontaria rinuncia alla «grammatica» della prosa cinematografica e soprattutto alla «sintassi» che presiede la dinamica narrativa del «realismo» cinematografico, insomma da questo puntare più a Giotto che a Caravaggio, deriva il tono di barbaro (e al contempo lirico) primitivismo che contraddistingue la prima produzione pasoliniana contribuendo a darle quella cifra di atemporalità e di prestoricità (talora di astoricità) che è d’altronde la sua più evidente connotazione ideologica.»
[196]
Conti Calabrese G., Pasolini e il sacro , op. cit., p.99: « Diciamo che, in qualche modo, nel sottoproletariato [Pasolini] riconosce la permanenza di quell’homo religiosus , teorizzato dall’Eliade, ancora impregnato di una visione sacrale del mondo che lo mantiene in un’operante disposizione alla ierofania.»; e pp. 101-103: « Vi è un personaggio paradigmatico, nell’opera di Pasolini, che descrive e incarna il senso e la relazione tra sacro e sottoproletariato: Accattone . Attraverso le sue vicissitudini è possibile seguire in maniera quasi didascalica i punti che la dimostrazione pasoliniana tocca a partire dall’individuazione della sostanziale diversità antropologica e spirituale tra “classe” sottoproletaria e borghese.[…] E’ questo il travaglio esistenziale di Accattone […] che prende corpo nella sdegnata ripulsa per il lavoro, in quanto avversione al mondo profano o della produzione, che se accettato gli consentirebbe sicuramente di diventare, per così dire, un soggetto sociale ed economico definito, inserito in una precisa “classe”, magari quella operaia, storicamente determinata. Tuttavia egli rifiuta non solo marxianamente l’alienazione dell’Arbeit [lavoro] […], ma lo identifica […] come la forma di massima oppressione dell’uomo. […] Certo, Accattone è un lenone, un protettore, ma è di fatto dipendente economicamente da Maddalena, la prostitua […]. Entrambi appartengono a un mondo antico in cui la divisione tra sacro e profano era perfettamente marcata; e Maddalena appare ancora consacrata al primo momento (da qui probabilmente la scelta del suo nome a ricordare quello del Vangelo ), non è strumento di un lavoro domestico e agricolo come lo erano la maggior parte delle donne nella civiltà arcaico-contadina. «Nella prostituzione, invece, si aveva la consacrazione della prostituta alla trasgressione. In essa l’aspetto sacro, l’aspetto proibito dell’attività sessuale non cessava mai di manifestarsi: tutta la sua esistenza era consacrata alla violazione del divieto». E tutti e due vivono di questo e non di altro, si ostinano insomma a rimanere estranei alle fasi della produzione “utile”.». [197]
Numerosi esempi di uso generico di questi termini si possono trovare in Brunetta G.P., Forma e parole nel cinema , Padova, Liviana, 1970. [198]
Cfr. Micciché L., Il cinema italiano… , op.cit., pp.155-157.
[199]
Cfr. Petraglia S., P.P.P. , op. cit., pp.17-18. Di questo, lo stesso Pasolini dimostra di avere piena coscienza: cfr. D’Avack M., Cinema e letteratura , Roma, Canesi, 1964, p.111. [200] [201]
Cfr. Bertini A., Teoria e tecnica… , op.cit., pp.7-16. Pasolini P.P., Empirismo… , op. cit. (prima ediz.1972).
[202]
Ancora una volta il nostro si mostrava culturalmente all’avanguardia, al passo con le più evolute correnti internazionali di pensiero. Non si dimentichi, per altro, che proprio all’interessamento di Pasolini si deve la prima pubblicazione italiana di Metz. [203] [204] [205] [206] [207]
Duflot J., Il sogno del… , op. cit., p.65 (già citato) Ibidem, p.77. Arecco S., P.P.P. , op. cit., p.69 (sono parole dello stesso Pasolini). Ibidem, p.75 (sono parole dello stesso Pasolini). Cfr. Pasolini P.P., Empirismo… , op. cit., pp.167-172.
[208]
Cfr. Ibidem, pp.172 e succ. A p.174 Pasolini parla di «storia stilistica del cinema»; alle pp.178-179 chiarisce che l’operazione che si compie componendo un cinema di poesia è stilistica, non linguistica. [209] [210]
Ibidem, p.167. Ibidem, pp.168-169.
[211]
Come vedremo meglio fra poco, questa linea teorica ha la sua origine nei saggi di argomento linguistico, e in particolar modo in Dal Laboratorio (appunti en poète… [212] [213] [214] [215] [216] [217] [218] [219] [220] [221]
Ibidem, pp.228-229. Ibidem, pp.172-173. Ibidem, p.175. Ibidem, pp.176-177. Ibidem, pp.178-179. Ibidem, p.183. Ibidem, p.177. Ibidem, pp.184-186. Ibidem, p.186. Ibidem, p.183.
[222] [223]
Ibidem, p.187. Ibidem, p.176.
[224]
Il lettore ci vorrà scusare se ci attardiamo tanto e con tanto zelo filologico in questa lettura, ma riteniamo che ciò sia indispensabile per una reale comprensione della teoria di Pasolini. Tanto più che i critici cinematografici che se ne sono finora occupati, o lo hanno fatto in maniera parziale, trascegliendone solo le parti più utili al loro personale discorso, oppure, se hanno tentato di darne una visione complessiva, lo hanno fatto con un approccio di tipo sincronico e sistematico: hanno cioè tentato, da varie direzioni, di ricucire tra loro i vari testi e le varie nozioni in modo organico come se fossero le parti di un sistema unitario, perfettamente coerente e, per così dire, partorito tutto in un blocco e in un tempo unico –lo si potrà agevolmente notare anche dagli esempi che riporteremo nel prosieguo di questo capitolo. Ma Empirismo eretico non è un libro sistematico: lo sarebbe stato se Pasolini avesse ricomposto gli esiti ultimi del suo lavorio teorico in un testo organico, nuovo e coerente; invece Pasolini ha composto una raccolta di testi scritti a volte anche a distanza di alcuni anni gli uni dagli altri. Dunque Empirismo… è soprattutto un libro dalla natura composita e sfuggente, che se, da un lato, contiene in potenza un sistema sincronico, dall’altro contiene anche, e forse soprattutto, le tracce (talvolta evidenti talaltra dissimulate) di una faticosa diacronia: quella del lungo processo di pensiero di Pasolini; dello sforzo, durato anni, di riuscire a rendere conto a se stesso, in maniera razionale, di un sentimento e di una scelta (quella del cinema) che era già stata presa a livello poetico. E’ dunque proprio il travaglio di questo processo di pensiero che va perduto in un approccio puramente sincronico, non filologico. [225] [226] [227] [228] [229] [230] [231]
Pasolini P.P., Empirismo… , op. cit., p.186. Cfr. Ibidem, pp. 5-15. Ibidem, pp.65 e 72. Ibidem, p.17. Ibidem, p.16. Ibidem, p.20 Ibidem, p.18.
[232]
Ibidem, p.19. A p.65 dello stesso libro Pasolini definisce questo mutamento linguistico come «la sostituzione, come modello linguistico, delle lingue delle infrastrutture alle lingue delle sovrastrutture» e sottolinea che l’applicazione della scienza è «il momento più importante dell’umanità dopo quello della prima seminagione lungo il Nilo dodicimila anni or sono»; ancora più avanti, poi, a p.66, ribadisce il concetto: «“Rivoluzioni interne” del tipo di quella presente –dovuta alla applicazione integrale della scienza – da alcuni millenni, non ce n’erano. Bisogna vedere (e non so bene chi possa vederlo) quali effetti linguistici abbia avuto quella “prima seminagione” nelle popolazioni che vivevano sulle sponde del Nilo dodicimila anni fa: e che è stata la prima “rivoluzione interna” dell’umanità». [233] [234] [235] [236] [237] [238] [239] [240] [241] [242] [243] [244] [245]
Pasolini P.P., Empirismo… , op. cit., p.22. Ibidem, p.20. Cfr. Ibidem, pp.6-14. Ibidem, p.23. Ibidem, pp.11-12. Ibidem, p.13. Ibidem, p.178. Ibidem, p.59. Ibidem, p.58. Ibidem, p.60. Ibidem, p.70. Ibidem, p.59. Ibidem, p.70.
[246]
Che è poi quello stesso spazio, territorio di nessuno, che nella polemica con Umberto Eco, come vedremo, Pasolini indicherà come il «ciglio di un abisso». [247]
Pasolini P.P., Empirismo… , op. cit., p.72.
[248]
Eliade M., Trattato di storia delle religioni , Torino, Einaudi, 1999, pp.392-393. Cfr. anche quanto affermato da P. Angelini sull’equazione arcaico=ontico in Eliade, nell’introduzione del volume, a p.XXXI. [249]
Pasolini P.P., Empirismo… , op. cit., p.67: «E’ su questa strada che bisognerebbe (con altri mezzi che i miei) ricondurre il memoriel al di là delle langues , sempre istintivamente intese come lingue istituzionali vocali-grafiche: al di là delle langues , fino al «momento» in cui le langues erano e sono puramente vocali. Operare una congiunzione, in ambito antropologico, tra il «memoriel» strutturalistico e la «memoria collettiva» junghiana…». [250]
«Tuttavia credo che si potrebbe dire schematicamente che la rivoluzione esterna [causata dall’esterno del sistema] (nella fattispecie marxista […]) tende ad agire e ad apportare modifiche sulle lingue che stanno dal limite orale-grafico in su (e tra queste soprattutto sulla lingua letteraria); mentre la rivoluzione interna [autogeneratasi all’interno del sistema] (nella fattispecie la nuova società tecnologica e tecnocratica nella sua evoluzione rivoluzionaria) tende ad agire e ad apportare modifiche anche e soprattutto dalle lingue orali-grafiche in giù, fino al limite della vocalità […]. [corsivi dell’autore]» in Pasolini P.P., Empirismo… , op. cit., p.67. [251] [252]
Ibidem, pp.71-72. Ibidem, p.170.
[253]
«In quest’asse verticale pescante nella realtà, che è la grammatica della cinelingua, distingueremo i quattro seguenti modi: I) Modi dell’ortografia o della riproduzione; II) Modi della sostantivazione; III) Modi della qualificazione; IV) Modi della verbalizzazione o sintattici.» in Pasolini P.P., Empirismo… , op. cit., pp.208-214. [254]
Ibidem, p.215. I due film presi in esame (pp.216-226) sono Il tempo si è fermato di Ermanno Olmi e Prima della rivoluzione di Bernardo Bertolucci. [255] [256] [257] [258] [259] [260] [261] [262] [263] [264] [265]
Ibidem, pp.200-201. Ibidem, pp.202-203. Ibidem, p.202. Ibidem, p.201. Ibidem, p.205. Ibidem, pp.199-200. Ibidem, pp.205-206. Ibidem, p.206. Ibidem, p.252. Ibidem, pp.207-208. Ibidem, p.229.
[266]
A ormai tanta distanza di tempo da quando queste idee furono concepite, non ci dovrebbe essere bisogno di insistere sul carattere non ingenuo del realismo pasoliniano. Tuttavia, siccome la critica spesso non affronta esplicitamente la questione (dandola probabilmente –e anche giustamente –per scontata), noi, giusto a scanso di equivoci, vogliamo dedicarvi almeno questa rapida annotazione. Il realismo ingenuo di certe teorizzazioni appartenenti alla prima giovinezza del cinema, sottintendeva che la realtà concreta, oggettuale, corporea avesse un senso piuttosto univoco, piano e trasparente, e che il cinema, fotograficamente, si facesse per così dire carico tanto di questa univocità quanto, in qualche modo, di quella corporeità, e che le rappresentasse così come sono, in maniera trasparente. Ovviamente, la concezione di Pasolini, per quanto forse contestabile da un punto di vista strettamente semiologico, non ha nulla di una simile ingenuità, perché le premesse di partenza sono completamente diverse. La presenza dell’oggetto rappresentato dentro alla lingua del cinema è sì reale e concreta, per Pasolini, ma l’oggetto vi è presente solo in quanto già segno di un codice omogeneo a quello del cinema. Insomma, il discorso di Pasolini teorizza la perfetta continuità tra realtà e cinema; il realismo ingenuo la contrabbanda. [267] [268] [269] [270] [271] [272]
Pasolini P.P., Empirismo… , op. cit., p.199. Ibidem, p.207. Ibidem, p.235. Ibidem, p.200. Ibidem, p.206.
Per questo motivo, parecchie pagine prima, avevamo fatto cenno alla natura composita (troppo spesso passata sotto silenzio) de La lingua scritta della realtà .
[273]
Si noti che Pasolini, evidentemente, avvertiva inoltre una consonanza della semiologia e della linguistica coi tempi correnti anche in un senso molto specifico: «L’osmosi del linguaggio critico, da qualche anno in Italia, non è più col latino, secondo la tradizione anche filologica, ma col linguaggio della scienza. […] Si potrebbe notare come i contributi tecnici dovuti alla stessa linguistica siano di uno speciale carattere: essi tendono a strumentalizzare esplicitamente il linguaggio, attraverso l’idea acuita e dominante della sua strumentalità. Questa idea della lingua come strumento –proprio nel senso positivo indicato dalla semiotica –è il segno dominante di tutto il panorama linguistico che ci circonda.» in Pasolini P., Empirismo… , op. cit., p.15. [274] [275] [276] [277] [278] [279]
Ibidem, p.253. Ibidem, p.258. Ibidem, p.250. Ibidem, p.243. Ibidem, pp.240-241. Ibidem, pp.257-258.
[280]
Si vedano, tra gli altri, i seguenti testi: Garroni E., Semiotica ed estetica , Bari, Laterza, 1968; Bettetini G., Cinema: lingua e scrittura , Milano, Bompiani, 1968; Eco U., Appunti per una semiologia delle comunicazioni visive , Milano, Bompiani, 1967 (poi in Eco U., La struttura assente , Milano, Bompiani, 2002 (prima ediz. 1968)). [281] [282] [283] [284] [285] [286] [287] [288] [289]
Eco U., La struttura… , op. cit., p.152. Oggi in Pasolini P.P., Empirismo… , op. cit., pp.277 e succ. Pasolini P.P., Empirismo… , op. cit., pp.279-280. Ibidem, p.279. Ibidem, pp.280-281. Ibidem, p.284. Cfr. Eco U., Il segno , Mondadori, Milano, 1980. Cfr. Deleuze G., L’immagine-tempo , Milano, Ubulibri, 1989. Petraglia S., P.P.P. , op. cit., p.72.
[290]
Si noti che non si tratta di altro, in realtà, che della riproposizione, in ambito teorico, di quegli stessi principi critici che abbiamo visto governare quel tipo di studi che Micciché aveva definito come «cataloghi». [291]
Cfr. Petraglia S., P.P.P. , op. cit., pp.72-79.
[292]
Ibidem, p.75: «Con il cinema Pasolini è in comunione d’amore, poiché scopre all’improvviso che esso può essere una vera lingua scritta della realtà». [293]
Ibidem, p.78.
[294]
Ferrero A., Il cinema di P.P.P. , op.cit., pp.85-87. Il critico citato è Ferretti G.C., La letteratura del rifiuto , Milano, Mursia, 1968, p.209. [295] [296]
Ferrero A., Il cinema di P.P.P. , op.cit., p.88. Ibidem, p.88.
[297]
Costa A., Immagine di un’immagine. Cinema e letteratura , Torino, UTET, 1993. Nato dalla fusione di scritti preesistenti, il capitolo su Pasolini è addirittura il frutto della “ricucitura” di tre precedenti articoli, e, per la natura molto più specialistica e settoriale di questi scritti, avrebbe forse permesso un approccio più sofisticato e più evoluto alla materia. [298] [299] [300] [301] [302]
Ibidem, pp.155-156. Ibidem, pp.157-158. Ibidem, pp.154-155. Ibidem, p.142.
Alla concreta analisi dell’Edipo re Costa dedica una pagina e mezza, di cui ci occuperemo più avanti di contestarne circa il 30%; a Medea dedica un paragrafo di 12 righe e mezza, per altro appoggiandosi nientemeno che a Ferrero, che, come vedremo, tra
tutti quelli che non hanno brillato nell’affrontare questo film, è quasi sicuramente quello che ha brillato di meno. Riveste semmai un certo interesse l’osservazione secondo cui questa forma di pensiero che procede per opposizioni inconciliabili (oltre ad avere, come abbiamo visto, le sue radici nel mito) è perfettamente adeguata al registro e alla mentalità tragica (p.147). [303]
Costa A., Immagine di un’immagine… , op. cit., pp.144-146.
[304]
Costa A., Immagine di un’immagine… , op. cit., p.149. Si noti la singolare improprietà: il mito è sempre , per definizione, fuori dal tempo, e ciò non ha assolutamente nulla a che fare con i suoi eventuali problemi di vitalità. [305] [306] [307] [308] [309] [310] [311]
Costa A., Immagine di un’immagine… , op. cit., p.151. Ibidem, p.130. Ibidem, pp.131-132. Ibidem, p.137. Ibidem, p.130. Ibidem, p.138. Ibidem, p.139.
[312]
Il lettore più accorto avrà certamente notato, a suo tempo, come Pasolini, in questo suo testo, a un certo punto dichiari di considerare la scoperta della doppia articolazione della lingua cinematografica come l’esito forse più «rilevante» (cfr. p.201) della sua dissertazione (mentre noi, ora, sappiamo che si tratta “solo” di un passaggio intermedio, strumentale); poche pagine più avanti, quando si tratta, nel III paragrafo, di applicare concretamente la teoria della dicotomia orale/scritta delle lingue verbali alla lingua del cinema, Pasolini non dice, per l’esattezza, come ci si potrebbe aspettare, che essa sia applicabile al cinema, ma dice che è applicabile al «cinèma» (cfr. p.205). Questo piccolo spostamento, così piccolo da poter facilmente passare inosservato, è in realtà specioso e sospetto: si tratta in effetti, a nostro avviso, di nient’altro che di un artificio retorico, messo lì a bella posta per cercare di legare il più possibile (apparentemente) questa parte del discorso con quella che lo ha appena preceduto, come tacitamente implicando che derivasse come conseguenza diretta dalla specifica definizione precedentemente data del «cinèma»: in questa maniera, il testo di Pasolini sarebbe in effetti più lineare e magari anche «organico». Ma noi sappiamo che questo non è vero: sappiamo che la possibilità di applicare al cinema la teoria della «fase orale» discende, sì, dall’aver definito il cinema come lingua vera e propria –e quindi dall’avervi individuato una doppia articolazione –ma non dipende dalla natura specifica degli elementi di seconda articolazione (cioè, appunto, i «cinèmi»); allo stesso modo, nell’originaria teoria della «fase orale» il rapporto tra la fase «orale» e quella «scritta» della lingua non passava per i soli fonemi, e non era, propriamente, legato alla natura specifica del fonema, ma passava per l’intero corpo della langue , tanto che questa teoria, tale e quale, si potrebbe tranquillamente applicare anche ad altre lingue e/o linguaggi ancora, di cui poi penseranno i semiolgi a dire se hanno o non hanno la doppia articolazione o quale sia la natura dei loro segni. Tanto per fare un esempio banale, si pensi al gesto di coprirsi gli occhi o il volto, segno mimico-gestuale e, contemporaneamente, in origine, riflesso biologico e condizionato di protezione contro ciò che spaventa… [313]
Costa A., Immagine di un’immagine… , op. cit., pp.140-142.: «Nella seconda parte della sua relazione, Pasolini propone una schema «grammaticale», in cui classifica i diversi «modi» della «grammatica» filmica […]. Tralascerò i primi due, che ci porterebbero a complicare inutilmente il discorso, e mi soffermerò sui modi della qualificazione e della verbalizzazione quanto basta per mettere in evidenza che siamo di fronte a una riformulazione delle possibilità tecniche della lingua della poesia nel cinema, già espresse nel saggio precedente. […] Viene quindi riproposta, attraverso un nuovo schema grammaticale e stilistico, la distinzione dalla quale aveva preso le mosse il suo saggio dell’anno precedente […].» [314] [315]
Ora in Pasolini P.P., Empirismo… , op. cit., pp.237 e succ. Micciché L., Il cinema italiano… , op.cit., pp.152-153.
[316]
E forse, a voler essere proprio pignoli, qualche perplessità può essere sollevata dalla maniera (francamente un poco tendenziosa) in cui Micciché ricostruisce il procedere del discorso pasoliniano: come si può facilmente verificare (cfr. Pasolini P.P., Empirismo… , op. cit., p.240) –e come in parte abbiamo di fatto osservato –è semmai il discorso sulla morte, infatti, a essere introdotto, in maniera «apparentemente sconnessa», all’interno del più ampio discorso sul montaggio, e non viceversa (e poi, comunque si voglia vedere la cosa, c’è il fatto che, una volta dato per buono lo strettissimo parallelismo impostato da Pasolini tra cinema e Vita/Realtà, non appare affatto illegittimo, in conseguenza, ricercare e individuare, per il montaggio, un qualche parallelo nell’ambito della vita umana). [317]
Micciché L., Pasolini nella città… , op. cit., pp.212-213.
[318]
Il ruolo attivo dello spettatore (attivo come quello del «sopravvivente» miccichiano) è ormai un dato di fatto acquisito nello studio della fruizione cinematografica. Per una rapida ma approfondita rassegna sull’argomento, cfr. Bernardi S., Introduzione… , op. cit.. [319]
Si noti che qui, stranamente, Fusillo riporta le conclusioni a cui Pasolini era giunto, al riguardo, ne Il«cinema di poesia» , e che però, come abbiamo visto, aveva poi superato ne La lingua scritta della realtà . [320] [321] [322]
Fusillo M., La Grecia secondo… , op. cit., pp.128-129. Ibidem, pp.130-131. Conti Calabrese G., Pasolini e il sacro , op. cit., p.73.
[323] [324] [325]
Ibidem, p.75. Ibidem, pp.76-77. Ibidem, pp.78-79.
[326]
Eliade M., Mito e realtà , op. cit., p.175. Cfr. Kerényi K., Il rapporto con il divino, Torino, Einaudi, 1991, p.35: «Stando a quanto premesso, anche le azioni e le immagini religiose sono “linguaggi”, in quanto anche queste ultime, non meno delle parole, sono modalità di espressione.» [327] [328] [329] [330] [331] [332] [333] [334]
Eliade M., Trattato… , op. cit., p. 410. Ibidem, p. 411. Ibidem, p. 412. Ibidem, p. 415. Ibidem, pp. 416-417. Eliade M., Il sacro e il profano , Torino, Bollati Boringhieri, 1992, p. 104. Ibidem, p.15. Ibidem, p.19.
[335]
Conti Calabrese G., Pasolini e il sacro , op. cit., pp.80-81. I termini qui citati di «esempio», «storia esemplare», ecc., ricorrono in vari testi di Pasolini tra quelli che seguono le Osservazioni sul piano-sequenza in Empirismo… . E, sempre in Empirismo… (p.236), si riconfronti anche la nota affermazione pasoliniana: «Dovrò rendere conto, nella valle di Giosafat, della debolezza della mia coscienza davanti alle attrazioni, che si identificano, della tecnica e del mito?». [336] [337] [338]
Conti Calabrese G., Pasolini e il sacro , op. cit., pp.84-86. Fusillo M., La Grecia secondo… , op. cit., p.127. Ferrero A., Il cinema di P.P.P. , op.cit., p.109.
[339]
Cfr., a puro titolo di esempio, Petraglia S., P.P.P. , op. cit., pp.101-105. Dei giudizi dati da Micciché su questi film mitologici, si è già abbondantemente detto. [340] [341] [342] [343] [344] [345]
Fusillo M., La Grecia secondo… , op. cit., pp.132-133. Ibidem, p.134. Ibidem, p.137. Ibidem, pp.177-179. Murri S., P.P.P. , op. cit., pp.118-126. Ibidem, p.118.
[346]
Simonelli G., L’uomo senza volontà. Il tragico nel cinema contemporaneo , in Cascetta A. (a c.), Sulle orme dell’antico… , op. cit., pp.201-217. E in particolare p.205: « Medea diventa ora la chiave di lettura di quello che ormai molta parte della cultura considerava in quel momento il problema decisivo per le sorti civili del mondo, il problema del rapporto sempre più difficile e precario tra un Occidente industriale e sviluppato, ma non per questo progredito sul piano dei valori, e un Terzo Mondo arretrato e povero ma solo depositario del sacro e del mito e per questo unico interprete della realtà.» [347]
Rivoltella P.C., Per una lettura simbolica del film « Medea » di P.P.P. , in Cascetta A. (a c.), Sulle orme dell’antico… , op. cit., pp.263-282. [348] [349] [350] [351] [352] [353]
Ibidem, p.270. Ibidem, pp.276-277. Arecco S., P.P.P. , op. cit., p.69. Ibidem, p.75. Fusillo M., La Grecia secondo… , op. cit., pp.134-136. Ibidem, p.137.
[354] [355] [356]
Simonelli G., L’uomo senza volontà… , in Cascetta A. (a c.), Sulle orme dell’antico… , op. cit., p.205. Halliday J., Pasolini su pasolini , op. cit., p.110. Costa A., Immagine di un’immagine… , op. cit., p.151. Già citato.
[357]
Cfr. Rivoltella P.C., Per una lettura… , in Cascetta A. (a c.), Sulle orme dell’antico… , op. cit., p.275. Si noti che Rivoltella recupera bensì la metafora della “proiezione” utilizzata da Pasolini, ma l’aggettivo « ideologica» che precede e l’andamento generale del discorso, lasciano a nostro avviso chiaramente intendere che Rivoltella abbia interpretato o volontariamente piegato il summenzionato passo di Pasolini in senso opposto. [358]
Fusillo M., La Grecia secondo… , op. cit., p.175.
[359]
Con tutto ciò, non si vuole naturalmete insinuare che non esista alcun elemento freudiano o psicanalitico o, per altri versi, marxista in questo testo, ma semplicemente che non sono questi elementi a strutturarlo e a caratterizzarlo. [360]
Fusillo M., La Grecia secondo… , op. cit., p.139.
[361]
Ibidem, p.153. Si noti però che in realtà Fusillo, a rigore, opponendo qui il mitico al realistico, travisa in maniera sostanziale tutto il pensiero di Pasolini, che era invece tutto indirizzato proprio a dimostrare la coincidenza di mitico e di realistico –lo dice anche il Centauro –contro il senso comune. [362] [363] [364] [365]
Pasolini P.P., Il Vangelo secondo Matteo…, op. cit., p. 531 cit. in Fusillo M., La Grecia secondo… , op. cit., p.155. Fusillo M., La Grecia secondo… , op. cit., p.155. Ibidem, p.155. Ibidem, pp.151-153.
[366]
Si noti per altro che, coerentemente, è in questa prima versione che Medea è ornata e abbigliata di tutto punto come una gran sacerdotessa. Resterebbe inoltre da capire, in ogni caso, perché Fusillo attribuisca con tanta certezza la fissità al mondo della « prosa» : Straub troverebbe senz’altro da ridire in proposito… [367] [368] [369] [370]
Cfr. Fusillo M., La Grecia secondo… , op. cit., p.154. Cfr. Ibidem, p.167, dove il sintagma alternato ha carattere decisamente finalistico e narrativo. Ibidem, pp.160-161. Ibidem, p.163.
[371]
Il procedimento applicato non è altro che una sorta di verifica per absurdum delle tesi sostenute da Fusillo; la scelta stessa delle inquadrature, delle scene, delle più ampie partizioni su cui compiere questa verifica, è dunque sostanzialmente dovuta e derivata da Fusillo stesso: se infatti di tutti quei passi del testo filmico che Fusillo considera come « prosastici» si può dimostrare senza cadere in contraddizione che essi sono invece squisitamente « poetici» (come di fatto stiamo verificando) la tesi, sostenuta da Fusillo, di un’alternanza (dentro al testo) di brani di « prosa» e brani di « poesia» , andrà scartata, e scartata in toto, anche se, per ovvi motivi pratici, la dimostrazione non può estendersi all’intero testo filmico ma si limita ad un suo campionamento significativo: dunque, seppure con varie sfumature e varie intensità, il testo andrà considerato come interamente « poetico» . [372] [373]
Kerényi K., Il rapporto… , op. cit., p.46 Ibidem, p.51.
[374]
Per trattare esaurientemente di simili anomalie della soggettività, occorrerebbe un intero altro libro. Ai fini del presente studio invece, ci limitiamo ad osservare che a causa del particolarissimo tipo di coerenza interna di questi film (che ci auguriamo diverrà per il lettore sempre più chiara col procedere della trattazione) dire che queste soggettive siano soggettive senza soggetto (cioè soggettive “del cinema”), o dire che siano soggettive libere indirette di Medea (la cui soggettività mitica e arcaica tracima e si spande anche dove grammaticalmente non dovrebbe stare) finisce con l’essere sostanzialmente la stessa cosa. Non a caso la luce del sole sfonda violentemente in macchina: a questo riguardo, rimandiamo a quanto si dirà nell’ultimo capitolo sull’occhio e sullo sguardo di Apollo. [375] [376] [377] [378] [379] [380]
Fusillo M., La Grecia secondo… , op. cit., pp.149-150. Ibidem, p.156. Pasolini P.P., Empirismo… , op. cit., pp.275-276. Ibidem, pp.253-254. Ibidem, p.228. Da noi già citato a p.86 di questo studio.
In questo senso, non possiamo che associarci a Bernardi, nella grande importanza che egli attribuisce a certi «interstizi», sfasature, o apparenti imperfezioni del montaggio e della messa in scena, caratteristici di certo cinema moderno (quello di Pasolini
compreso): come Bernardi ben chiarisce in un suo recente e pionieristico lavoro sul paesaggio nel cinema (che rappresenta a nostro avviso una delle più innovative e avanzate riflessioni metodologiche degli ultimi anni), questi «interstizi» sono spie, tracce di un diverso approccio stilistico, di un diverso modo di guardare, di una diversa concezione del mondo, e, infine, forse, anche di un universo interamente differente e che si affaccia sul nostro. Cfr. Bernardi S., Il paesaggio… , op. cit.; in particolare p.165 e comunque tutta la parte del libro dedicata al cinema di Antonioni. [381]
Cfr. Simonelli G., L’uomo senza volontà… , in Cascetta A. (a c.), Sulle orme dell’antico… , op. cit., pp.209-210.
[382]
Cosa, questa, che probabilmente avrebbe fatto già anche Fusillo, se ciò non rischiasse di mettere ancor più in crisi la sua distinzione dentro al film tra parti in « prosa» e parti in « poesia» … [383] [384] [385] [386] [387] [388]
Fusillo M., La Grecia secondo… , op. cit., p.161 (già citato a p.152 di questo studio). Ibidem, p.164. Pasolini P.P., Empirismo… , op. cit., p.286. Ibidem, p.292. Ibidem, p.272. Ibidem, p.253.
[389]
Ovviamente, da un punto di vista meramente materiale, tecnico-fotografico, il susseguirsi incessante dei fotogrammi in un tempo prefissato, che è al di fuori sia del controllo dell’autore che dell’influenza dello spettatore, fa parte dell’apparato tecnico istituzionale del cinema in quanto concretamente cinema. [390] [391] [392] [393] [394] [395] [396] [397] [398] [399] [400] [401] [402] [403]
Stiamo qui richiamando alcuni dei concetti di base de Il cinema di poesia in Pasolini P.P., Empirismo… , op. cit., pp.167 e succ. Ibidem, p.65. Cfr. anche pp.55 e 73. Bernardi S., Kubrick e il cinema… , op. cit. Bernardi S., Introduzione… , op. cit., p.40. Cfr. Ibidem, pp.40-41. Cfr. Bernardi S., Il paesaggio… , op. cit., pp.28-29. Cfr. Bernardi S., Kubrick e il cinema… , op. cit., p.185. Kant I., Critica della ragion pura , Torino, UTET, 1977, pp.125-126 (A51-2=B75-6) Bernardi S., Introduzione… , op. cit., p.41. Bernardi S., Kubrick e il cinema… , op. cit., p.179. Ibidem, p.183. Ibidem, p.179. Ibidem, p.184. Bernardi S., Il paesaggio… , op. cit., pp.77-78. Cfr. ibidem, pp.75-77.
[404]
Il lettore non presti troppa attenzione alle proporzioni fra le estensione dei vari segmenti, che sembrerebbero attribuire all’enunciazione un’estensione maggiore che alla percezione : essendo la percezione il regno del possibile, mentre l’enunciazione quello dell’attuale, ciò sarebbe palesemente assurdo ed errato. L’unico scopo di questo schema è semplicemente nel cercare di visualizzare in qualche modo la maggiore estensione dell’enunciazione rispetto alla « convenzione narrativa» . [405]
Pasolini pare effettivamente ancora molto vicino a questa posizione all’altezza de Il cinema di poesia , e probabilmente, come ha avuto occasione in passato di osservare Bernardi, i riferimenti della sceneggiatura all’occhio di Medea (scene 74-75), potrebbero essere considerati come riferimenti diretti al concetto di “Apertura” di Rilke. In questo caso, allora, l’evoluzione che la struttura narrativa della Medea ha subito nel passaggio dalla sceneggiatura al film, dovrebbe essere considerata, nella prospettiva che stiamo qui delineando, anche come un’evoluzione (e un parziale superamento), nei fatti ancor prima che nella teoria, di quella stessa concezione. [406] [407] [408]
Eliade M., Mito e realtà , op. cit., pp.179-180. Cfr. Sklovskij V., Teoria della prosa , Torino, Einaudi, 1976.
Cfr. Kerényi K., Il rapporto… , op. cit., pp.48 e succ., in cui Kerényi non solo distingue tra mitologia e poiesi , ma anche tra mitologia e mito.
[409] [410] [411] [412] [413] [414] [415] [416] [417] [418] [419] [420]
Ibidem, p. 48 Ibidem, p.58. Calasso R., Le nozze… , op. cit., p.48. Ibidem, p.159. Ibidem, p.172. Eliade M., Trattato… , op. cit., pp.392-393. Eliade M., Mito e realtà , op. cit., pp.40-41. Eliade M., Il sacro e… , op. cit., pp.47-48. Kerényi K., Il rapporto… , op. cit., pp.109-110. Hillman J., Saggio su Pan , Milano, Adelphi, 1992, p.52. Ibidem, p.55. Cfr. Eliade M., Mito e realtà , op. cit., p.175. Già citato a p. 134 di questo studio.
[421]
Pasolini P.P., I dialoghi , Roma, Editori Riuniti, 1992, p.617. La citazione di Eliade proviene da Eliade M., Trattato… , op. cit., p.331. [422]
Fusillo M., La Grecia secondo… , op. cit., pp.145-148.
[423]
Sono state infatti realizzate a partire da un frame-stop, ogni volta ripetuto, proprio come se non vi fossse in realtà sufficiente girato per una realizzazione più curata ed efficace dell’effetto. [424] [425] [426] [427] [428] [429] [430]
Fusillo M., La Grecia secondo… , op. cit., pp.143-144. A questo riguardo, crf. anche Fusillo M., La Grecia secondo… , op. cit., p.144. Cfr. Bernardi S., Introduzione… , op. cit., pp.65 e succ. Eliade M., Il sacro e… , op. cit., p.47. Già citato. Pasolini P.P., Empirismo… , op. cit., p.292. Già citato. Ibidem, p.253. Già citato. Hillman J., Saggio su Pan , op. cit., pp.121-122.
[431]
Ibidem, pp.57-58. Si noti come la situazione di ammutolimento della natura descritta in questo brano rappresenti alla perfezione anche lo sconvolgimento, il panico di Medea nella scena in cui gli Argonauti piantano l’accampamento senza i dovuti rituali. [432]
Si noti che il cosiddetto iconismo delle immagini pasoliniane, il loro non « scorrere» , corrisponde e riproduce assai bene anche le caratteristiche dello Spazio Sacro: « Per l’uomo religioso lo spazio non è omogeneo ; presenta talune spaccature, o fratture: vi sono settori dello spazio qualitativamente differenti tra loro.» cfr. Eliade M., Il sacro e… , op. cit., pp.19 e succ. [433]
Anche nella prospettiva indicata da Bernardi: «Ma la vera antropologia del cinema, che nessuno credo abbia preso ancora in considerazione, sta nel modo di guardare, non nelle cose osservate . […] La mia proposta allora è questa: di leggere nel cinema successivo al neorealismo le tracce di quell’antropologia che mancava nella cultura ufficiale. Aspetti antropologici non mancavano nei film neorealisti, come disse già De Martino. Ma non si tratta di costruire una antropologia dell’oggetto, si tratta di antropologia del soggetto, del modo di guardare» (cfr. Bernardi S., Il paesaggio… , op. cit., pp.91-92.) [434] [435] [436] [437] [438] [439]
Hillman J., Saggio su Pan , op. cit., p.62 Kerényi K., Il rapporto… , op. cit., p.63. Fusillo M., La Grecia secondo… , op. cit., pp.36-37. Ibidem, p.38. Halliday J., Pasolini… , op. cit., p.110. E tra i più importanti precedenti italiani di una simile concezione dovremmo citare almeno Pavese…
[440]
Si noti come anche le affermazioni di Costa sull’antefatto moderno dell’Edipo re e sulla sua scarsa efficacia nella riproposizione del mito (citate a p. 123 di questo studio) risultino a questo punto tutte capillarmente smentite. [441]
Cfr. Kerényi K., Il rapporto… , op. cit., in particolare pp.3-9, dove Kerényi analizza il concetto stesso di « rapporto con il divino» , con particolare riferimento al suo carattere di « immediatezza» . [442]
Jung C.G. Kerényi K., Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Torino, Einaudi, 1948, pp.17-18.
[443]
Fuori dalla cinematografia pasoliniana, potremmo accostare a questa stessa tipologia alcuni capisaldi della storia del cinema, come (tanto per fare qualche esempio) Apocalypse Now , 2001: Odissea nello spazio o Shining . Su questo argomento, mi sia lecito rinviare anche a Ballerini D., La natura selvaggia dello sguardo: mito, cinema e visione in Shining , in «Dismisura», Frosinone, anno XXVI n°118-119 Luglio 1997-Gennaio 1998; e a Ballerini D., STEADICAM: una rivoluzione… , op. cit.,1999. [444]
Cfr. nota n°410 a p.169 di questo studio.
[445]
Cfr. Kerényi K., Il rapporto… , op. cit., p.9 e passim , a riguardo della possibilità di un rapporto di tipo mediato ed erudito con il divino [446]
Cfr. Hillman J., Saggio su Pan , op. cit., e in particolare pp.28-29.
[447]
Sul piano letterario invece che cinematografico, appartiene, ad es., a questa tipologia il bel libro di R. Calasso, Le nozze… , op. cit., che abbiamo talvolta, non a caso, citato. Ma ancor prima di Calasso, dovremmo indubbiamente citare l’aureo esempio dei Dialoghi con Leucò di Pavese… [448]
E’ per tutta questa serie di motivi che Edipo re e Medea vanno distinti non solo da film come Accattone , ma anche da Teorema e Porcile , film che raccolgono una parte di quelle soluzioni tecniche e stilistiche approntate nel “laboratorio” mitologico / semiologico di Pasolini, ma che di quel “laboratorio” non fanno parte essi stessi. Di conseguenza si giustifica, da un punto di vista metodologico, uno studio come il nostro, che pretende di affrontare i due film mitologici sorvolando su quegli altri due film che vi si trovano come incastonati in mezzo: appartengono in realtà a due “gruppi” distinti all’interno dell’opera dell’autore. [449]
Si noti che, in questo senso, anche la pratica pasoliniana della strenua ricerca di locations “vergini” in paesi del Terzo Mondo e in zone di sottosviluppo, assume una pregnanza tutta particolare. [450] [451] [452] [453] [454] [455] [456] [457] [458] [459] [460] [461] [462] [463] [464] [465] [466] [467] [468] [469]
Duflot J., Il sogno del… , op. cit., p.57. Ibidem, p.58. Ibidem, pp.59-60. Cfr. Pasolini P.P., Il cinema impopolare , ora in Empirismo… , op. cit., pp.269 e succ. Pasolini P.P., Empirismo… , op. cit., p.199. Calasso R., Le nozze… , op. cit., pp.122-123 già citato. Cfr. Eliade M., Trattato… , op. cit., pp.37 e succ. e in particolare pp.76 e succ. Come Apollo Hekatos, sono noti anche i suoi rapporti col culto solare: cfr. Jung C.G. Kerényi K., Prolegomeni…, op. cit., p.37. Cfr. Jung C.G. Kerényi K., Prolegomeni…, op. cit., p.21. Colli G., La nascita della filosofia , Milano, Adelphi, 1992, p.15. Ibidem, p.16. Ibidem, p.18. Ibidem, p.43. Ibidem, pp.39-40. Ibidem, p.41. Eliade M., Il sacro e… , op. cit., p.19. Ibidem, pp.63-64. Wells H.G., The time machine , Genova, CIDEB, 1994, p.180. Cfr. Bernardi S., Kubrick e il cinema… , op. cit., pp. 149-151. Ibidem, pp. 156-157
[470] [471] [472] [473] [474] [475] [476] [477] [478]
Bernardi S., Kubrick e il cinema… , op. cit., pp.158-159. Ibidem, p.170. Ibidem, p.171. Ibidem, p.153. Ibidem, p.152. Ibidem, p.157. Ibidem, p.171. Si noti, anche da questo punto di vista, l’importanza attribuita alla fuori uscita dalla categoria dell’utile. Ibidem, p.153. Pavese C., Dialoghi… , op. cit., p.33.
[479]
Come noto Iacinto, amato da Apollo, mentre giocavano al lancio del disco, viene colpito accidentalmente dal disco lanciato dal dio e muore. Dalla sua morte nasce il fiore omonimo. [480]
Cfr. Eliade M., Il sacro e… , op. cit., p.75: «Per l’uomo religioso la Natura non è mai esclusivamente “naturale” ma sempre ricca di significato religioso. La spiegazione sta nel fatto che il Cosmo è una creazione divina: uscito dalle mani degli dèi, il Mondo rimane pregno di sacralità. Non si tratta soltanto di una sacralità derivante dagli dèi, come quella di un luogo o di un oggetto consacrato dalla presenza divina. Gli dèi hanno fatto assai di più: hanno reso palesi le diverse modalità del sacro nella struttura stessa del Mondo e dei fenomeni cosmici .» [corsivo dell’autore]. Questo passo di Eliade, inoltre, per la notevolissima somiglianza con certe dichiarazioni di Pasolini sulla non naturalità della natura, potrebbe forse essere citato come prova della conoscenza di questo libro da parte di Pasolini. [481]
Cfr. Colli G., La nascita della… , op. cit., passim e Jung C.G. Kerényi K., Prolegomeni…, op. cit., per quanto riguarda sia Dioniso che la Kore in Eleusi. [482]
Quanto all’opportunità di utilizzare un testo moderno per portare avanti questa nostra interpretazione della figura di Apollo, cfr. Hillman J., Saggio su Pan , op. cit., p.108: « Il fatto che una favola sia tarda non significa che possieda minor perspicuità psicologica e meno valore mitico. Le origini e la fonte del mito sono altrettanto nella psiche di oggi quanto in quella del passato. La primordialità archetipica non deve essere confusa con l’antichità storica.» [483] [484] [485] [486] [487] [488] [489] [490]
Pavese C., Dialoghi… , op. cit., pp.27-29. Ibidem, pp.164-165. Kerényi K., Il rapporto… , op. cit., p.73. Ibidem, p.101. Ibidem, pp.74-75. Ibidem, pp.76-77. Ibidem, p.103. Ibidem, p.78.
[491]
Così, come detto, Bernardi. Jung definisce invece il simbolo, in maniera tutto sommato simile, come un segno dotato di un aspetto inconscio: cfr. Jung C.G., L’uomo e i suoi simboli , Milano, TEADUE, 1991, p.5. [492]
Da questo punto di vista, per inciso, se ripartiamo dall’interessantissima lettura che Bernardi ha dato del monolito nero di Kubrick come della « massima apparizione del simbolico» (cfr. Bernardi S., Kubrick e il cinema… , op. cit., pp.156-157), dovremmo dire non solo che il monolito si presenta come simbolo archetipico, ma addirittura che è il simbolo dell’ archetipico. [493]
Kerényi K., Il rapporto… , op. cit., p.126. Questo il brano completo: « Dall’assunzione del mito come fenomeno originario non consegue, oltre alla spontaneità, questo o quel contenuto […], bensì il concreto più universale . Il mito è l’essere in quanto contenuto di parola , non completamente fuori né completamente dentro la parola, ma presente nell’elaborazione che […] accade e non viene fatta: un contenuto non ancora irrigiditosi nella parola, e comunque un contenuto, non per una parola dappoco, bensì per una parola elevata, pronunciata per se stessa, solenne, per una parola originaria di poeta.» [corsivi dell’autore]. Si notino le analogie possibili con la definizione pasoliniana di « oralità» . [494] [495] [496]
Ibidem, pp.124-125. Ibidem, pp.127-129. Jung C.G. Kerényi K., Prolegomeni…, op. cit., pp.115-116.
[497] [498] [499] [500] [501]
Sull’opportunità di intendere anche letteralmente il mito, cfr. Ibidem, pp.18 e succ., in cui si parla di Malinowski. Pasolini P.P., Empirismo… , op. cit., p.293. Ibidem, p.297. Cfr. Jung C.G. Kerényi K., Prolegomeni…, op. cit., p.17. Pavese C., Dialoghi… , op. cit., p.21.
[502]
Si noti che il testo originario di Sofocle (cfr. vv.805-815) avrebbe semmai potuto invitare Pasolini a inquadrare questa scena nei tradizionali canoni eroici occidentali: tanto più allora sarebbe dovuto apparire degno di attenzione il fatto che Pasolini abbia invece optato per una realizzazione così diversa e rilevante. [503] [504] [505] [506] [507] [508] [509] [510] [511] [512] [513] [514] [515] [516] [517]
Hillman J., Saggio su Pan , op. cit., p.68. Ibidem, p.63 e passim . Ibidem, p.73. Ibidem, p.65. Ibidem, p.73. Ibidem, pp.110-111. Ibidem, p.121. Ibidem, p.112. Ibidem, p.111. Ibidem, p.127. Ibidem, p.109. Ibidem, p.63. Cfr. Colli G., La nascita della… , op. cit., p.46. Hillman J., Saggio su Pan , op. cit., pp.122-123. Ibidem, pp.124-125.
[518]
Non sfugga però –coincidenza nella coincidenza –e sia detto con tutta la prudenza del caso –che a partire da questa causalità libera si costruisce in Kant la possibilità di una morale. Pasolini diceva di essere arrivato alla sua concezione della morte/montaggio come operazione morale partendo dalle acquisizioni della fenomenologia. Tra le radici della fenomenologia c’è Kant. In Kaos Pasolini cita Kant piuttosto spesso, e sempre come pensatore morale… [519] [520] [521] [522] [523]
Kant I., Critica della ragion pura , op. cit., p.440 (A532-3=B560- 1). Ibidem, p.444 (A538-9=B566-7). Ibidem, p.298 (A288-9=B344-5). Cfr. Kerényi K., Il rapporto… , op. cit., passim . Eliade M., Il sacro e… , op. cit., pp.13-14.
[524]
Cfr. Kant I., Critica della ragion pura , op. cit., p.298 (B274-9). E cfr. Guerra A., Introduzione a Kant , Bari, Laterza, 2002, p.126. [525] [526]
Pavese C., Dialoghi… , op. cit., p.21 già citato. Kerényi K., Il rapporto… , op. cit., p.24.
[527]
Kant I., Critica della ragion pura , op. cit., p.50 (Bxxvi in nota “a”). E cfr. Guerra A., Introduzione… , op. cit., p.127, dove la causalità libera, in forma di libertà pratica, viene definita come una « esperienza immediata e indubitabile» . [528]
Pavese C., Dialoghi… , op. cit., p.39.
[529] [530]
Ibidem, p.134. Cfr. Eliade M., Il sacro e… , op. cit., pp.19 e succ. e in particolar modo pp.28-30. E cfr. Eliade M., Trattato… , op. cit., pp.272-
274. [531]
Platone, Fedone (114d), in R. Calasso, Le nozze… , op. cit., p.313. (Il brano di Platone può essere letto nella sua forma originaria in: Platone, Fedone , Brescia, Editrice La Scuola, pp.211-212 (114d)).