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Italian Pages 178 [180] Year 2004
Daniele Dottorini
David Lynch Il cinema del sentire
Le Mani
L’Editore si dichiara disposto ad assolvere i suoi impegni nei confronti dei proprietari dei diritti di riproduzione di immagini qui pubblicate che non è riuscito a raggiungere nel corso della preparazione del volume.
© 2004 Le Mani - Microart’s Edizioni, via dei Fieschi 1 16036 Recco - Genova Tel. 0185 730153 - fax 0185 720940 www.lemanieditore.com e-mail [email protected] Grafica di Marco Vimercati In copertina, Una storia vera e, nel riquadro, Mulbolland Drive. ISBN 88-8012-271-1
Indice
Introduzione. La rosa azzurra/no hay banda I.
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Spazi e sguardi: cinema e pittura
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Dipingere, sempre Cosmos e Caos: Murnau, Rohmer, Godard Pensare come un pittore Percorsi dello sguardo: Cézanne Dallo sguardo alla sensazione: Bacon Spazio, lentezza, velocità: Lynch
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II. Altre Realtà: Mondi
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La forma paesaggio Il paesaggio del corpo. Six Figures Mondi: Eraserhead Micromondi: The Third Place/Dumbland/Rabbits Stanze La falsa immobilità: Hotel Room, Red Room Strade Tour/detour: Strade perdute Tempo e movimento: Una storia vera Sentieri (in)interrotti: Mulholland Drive III. Altre Realtà: Corpi/Soggetti Essere molteplice Divisioni del corpo Il corpo della lettera: Alphabet 5
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David Lynch. Il cinema del sentire
Il corpo astratto: The Grandmother, Twin Peaks Dale Cooper, o dell’identità fluttuante Il corpo in eccesso e lo sguardo multiplo: The Elephant Man Molteplicità: l’uno e i molti
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IV. Altre Realtà: Meccanismi/Organismi Il fuori campo assoluto Étant donnés: Eraserhead/The Elephant Man La macchina del pensiero: Dune La macchina del cinema 1: Premonitions Following an Evil Deed La macchina del cinema 2: Velluto blu/Una storia vera Dispositivi sonori Modelli: Industrial Simphony n° 1
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V. Lo spaesamento: il cinema del sentire Lynch oltre Lynch Das Unheimliche Lo sguardo del ritratto: Nancy, Holbein, Lynch Dall’occhio all’orecchio Per un cinema del sentire
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Filmografia Bibliografia Indice dei nomi e dei film
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Introduzione La rosa azzurra/no hay banda
«Io dico libero ciò che esiste ed opera per la sola necessità della natura; costretto invece, ciò che ad esistere e ad operare è determinato da altro secondo una certa e determinata ragione». Baruch Spinoza
Prima scena. Il capo dell’FBI, Gordon Cole (David Lynch) convoca gli agenti Sam Stanley (Kiefer Sutherland) e Chet Desmond (Chis Isaak) in un aeroporto privato, per farli assistere ad una pantomima messa in scena da una donna, Lil (Kimberly Ann Cole). La donna, dal trucco pesante, avvolta in uno sgargiante abito rosso, esegue una serie di movimenti apparentemente senza senso di fronte ad un esterrefatto Sam e ad un attento Chet. Più tardi, in auto, Chet spiega a Sam il significato di quei movimenti: Lil aveva un’espressione contrariata, il che significa che i due – incaricati di una missione – avranno dei problemi con le autorità locali; le palpebre sbattute ripetutamente significano guai dall’alto; la mano in tasca significa che qualcosa verrà nascosto; l’altra mano serrata a pugno significa ostilità. La decodifica continua fino all’ultimo particolare – una rosa azzurra appuntata sul vestito di Lil: «Ma il perché non te lo posso dire» dice Chester a Sam, e il significato della rosa azzurra rimane inespresso. Seconda scena. La donna che ha perso la memoria, e che si fa chiamare Rita, e l’aspirante attrice Betty dormono profondamente. All’improvviso Rita, quasi in stato di trance, pronuncia alcune parole: «Silencio... Silencio, no hay banda!». Betty scuote l’amica, preoccupata. Rita, di nuovo sveglia, prega Betty di accompagnarla in un posto. Sono le due di notte. Prendono un taxi e si recano al «Club Silencio», un vecchio teatro nel cuore di Los Angeles. All’interno del teatro lo spettacolo comincia. Dietro il palcoscenico c’è un’enorme tenda rossa. Al centro un microfono. Un uomo vestito di nero 7
David Lynch. Il cinema del sentire
cammina sino al centro del palco esclamando: «No hay banda! Il n’y a pas d’orchestre! Non c’è una banda! Eppure possiamo sentire lo stesso il suono di un clarinetto... o di un trombone... è tutto registrato!». Lo spettacolo continua. L’uomo scompare in una nuvola di fumo. Entra un altro uomo vestito di rosso ed introduce la cantante Rebekah del Rio che in playback canta una versione in spagnolo di Crying di Roy Orbison (Llorando), ma a metà della canzone sviene sul palco, mentre sentiamo ancora la sua voce intonare Llorando. Due momenti chiave (e usiamo la parola non a caso) nell’universo lynchiano. Il primo è tratto da Fire Walks With Me (Fuoco cammina con me), il secondo da Mulholland Drive. Due momenti che sembrano offrire cioè delle chiavi interpretative per entrare nel mondo cinematografico di David Lynch, che si propongono immediatamente all’attenzione dello spettatore. Due scene che introducono però all’idea di chiave interpretativa in due sensi diversi, direi addirittura opposti – anche se complementari – l’uno all’altro. Spieghiamoci meglio. La scena di Fuoco cammina con me è, dal punto di vista narrativo, evidentemente superflua. Immediatamente dopo il loro arrivo a Deer Meadow, luogo dell’indagine, i due agenti sono accolti freddamente dallo sceriffo e dal suo aiutante. L’avvertimento in codice per lo spettatore poteva anche essere evitato, l’ostilità degli abitanti e delle forze dell’ordine è evidente sin dall’inizio. Eppure Lynch insiste su quella scena, accompagnando in montaggio alternato durante il viaggio in macchina le spiegazioni di Chet alle immagini dei movimenti corrispondenti di Lil. La scena, per dirla con Michel Chion, si presenta immediatamente come la messa in mostra di un alfabeto1. Per di più, è lo stesso Lynch – nel ruolo del capo dell’FBI Gordon Cole, che urla sempre perché quasi completamente sordo – ad introdurre il messaggio, a presentarlo ai due agenti e agli spettatori. Questa sottolineatura dell’elemento codificante fa immediatamente pensare che il messaggio vale non per quanto trasmette ma solo in quanto messaggio. Ciò che im1. Cfr. Michel Chion, David Lynch, Lindau, Torino 2000, p. 184.
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porta è che assistiamo ad un gioco in cui ad ogni gesto, espressione, colore e movimento di un corpo viene associato un significato logico e preciso. Lynch-Cole presenta quindi un atto di codificazione in quanto tale, a prescindere da ciò che quell’atto significa. Se infatti del significato ci dimentichiamo quasi subito, l’atto resta. Così come resta quel significato nascosto della rosa azzurra, che Chet non vuole svelare al collega. Ci piace pensare allora che Lynch abbia semplicemente messo in evidenza un meccanismo di significazione proprio per mostrarne l’inutilità. Un meccanismo che spinge a vedere in ogni immagine un segno traducibile in parole, un rebus da decodificare. Meccanismo pericoloso se applicato al cinema di Lynch, che rischia di limitarne l’importanza, di sottovalutarne la ricchezza. Forse questa scena è allora solo un avvertimento, un esplicito richiamo da parte di Lynch ad evitare di rapportarsi al proprio cinema (a tutto il cinema) come rebus da risolvere, come mistero da svelare (e da dispiegare) logicamente. Ed ecco quindi la seconda scena. Il club dove si recano Betty e Rita si chiama «Silencio», nome che evoca un’immediata dichiarazione di assenza, della parola che spiega, del senso. Anche se non c’è una banda che suona o (giocando con i vari significati della parola «banda»), anche se non c’è un segnale sonoro, una frequenza, la musica si può sentire, perché è tutto registrato. Il meccanismo intrinsecamente finzionale del cinema è già tutto qui, mostrato più che spiegato, nello spettacolo. Ciò che resta, tuttavia, è l’intensità dell’emozione, di una realtà che si rende sensibile nonostante tutto. La canzone intonata da Rebekah del Rio è cantata in playback – anche se non sembra – senza musica di accompagnamento; solo la voce della cantante inquadrata in primissimo piano produce un’emozione fortissima mentre racconta di un amore che non muore. E l’emozione fa fremere (letteralmente) Betty e Rita, introduce una frattura nella linearità illusoria della rappresentazione. Le due scene citate si trovano dunque in un rapporto dialettico di opposizione-richiamo. Se la prima mette in guardia contro ogni facile decodifica dell’immagine, la seconda espli9
David Lynch. Il cinema del sentire
cita la necessità di una assenza della parola, del segnale come vera possibilità di approccio al cinema, di un rapporto con il film come esperienza di visione. Lynch sembra suggerire la necessità di altri approcci, di un rapporto tra visione e senso, tra immagine e concetto che non passi esclusivamente attraverso un processo logico-analitico che vede l’immagine come segno da decifrare, da dispiegare logicamente e linguisticamente secondo un processo narrativo. Dunque il cinema di Lynch può e deve essere affrontato non tanto e non solo dal punto di vista dell’enigma, del mistero da risolvere – paradossalmente rilanciato anche da quelle opere dove la coerenza narrativa non sembra in discussione, come The Elephant Man o The Straight Story (Una storia vera) – ma anche e soprattutto dal punto di vista di una problematica dell’immagine, della sua creazione e della sua fruizione, che è proprio quello che cercheremo di mettere in evidenza in questo libro. Affermare questo non significa però negare valore al problema della narrazione in Lynch, liquidare cioè come inutili tutte le analisi critiche e teoriche dell’opera lynchiana che partono proprio dalla dissoluzione della linearità narrativa nel regista statunitense2. Al contrario. Il problema della narrazione, della possibilità o meno di raccontare, di «dire» un senso, così come la presenza dell’enigma e del mistero sono elementi centrali nell’opera di Lynch, ma lo sono – e questa è una delle tesi centrali di questo lavoro – proprio all’interno di una più generale e fondante problematica dell’immagine. Se è vero, come afferma Riccardo Caccia, che «la novità del cinema lynchiano sta dunque nella continua opera di “decostruzione” nei confronti dei meccanismi stessi che ne regolano l’esistenza»3, l’interrogazione critica deve necessariamente andare oltre, mostrando allora quali percorsi e quali inquietudini animano l’opera lynchiana, quale senso assume 2. Tra le numerose analisi che hanno privilegiato in Lynch il problema della dissoluzione del narrativo, segnaliamo in particolare Peter Brunette, David Wills, Screen/play. Derrida and Film Theory, Princeton University Press, Princeton 1989, pp. 139-171. 3. Riccardo Caccia, David Lynch, Il Castoro, Milano 2000, p. 14.
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l’immagine cinematografica e la sua fruizione in un regista che ha sempre rifiutato l’etichetta di cinefilo, che al cinema si è avvicinato quasi per caso, solo perché voleva vedere i suoi dipinti muoversi4. Interrogazione critica necessaria, perché proprio attraverso l’opera di Lynch è possibile mettere a fuoco una problematica più ampia, che riguarda la possibilità stessa dell’immagine, del cinema e del suo rapporto con il reale. Attraversare l’opera di Lynch significa quindi non tanto ricostruire un itinerario cronologico della sua attività (come pittore, regista cinematografico e televisivo, disegnatore e animatore), ma isolare e connettere temi e forme che si intersecano in continuazione nel suo lavoro, al fine di evidenziare l’esistenza di un «pensiero visivo» o, come verrà definito in questo volume, di un «cinema del sentire». Ma cosa significa «cinema del sentire»? Se i capitoli che seguono saranno dedicati proprio all’esplicitazione, all’attraversamento di questo concetto nell’opera di Lynch, una prima ricognizione del termine può offrirci però alcune considerazioni iniziali. Il sentire di cui si parlerà è anzitutto la forma della percezione totale che la pittura contemporanea ha elaborato lungo la sua storia. È il sentire di Cézanne, di Klee, di Bacon, momenti chiave della pittura del Novecento e, come vedremo, punti di riferimento visuali e teorici per Lynch stesso, ma che, allo stesso tempo non esauriscono la complessità del suo cinema. Intendendo il sentire come un’operazione complessa che investe il soggetto nel suo rapporto con il mondo, con la realtà e con il proprio modo di percepirla; un’esperienza che da sempre fonda ogni possibile discorso sulla realtà stessa, allora il cinema di Lynch può essere considerato come una costante proposta di un sentire filmico, come una via d’accesso al problema del reale («che cos’è la realtà?») che scopre e svela le illusioni della percezione, del pensiero e del discorso. Uno svelamento che è anche, al contempo, un percorso lungo nuove strade (perdute), nuove possibilità di com4. Cfr. Nan Robertson, Interview with David Lynch, «New York Times», ottobre 1986.
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David Lynch. Il cinema del sentire
prensione del reale attraverso il cinema o, meglio, attraverso l’esperienza della visione. Ma il termine «sentire» può anche essere inteso non semplicemente in riferimento al soggetto che guarda, allo spettatore di fronte all’opera, ma in relazione allo scenario che si apre tra l’immagine e il suo fruitore, all’idea che l’immagine stessa, l’immagine filmica, si costituisca come sguardo complesso, non più come rappresentazione di un oggetto o oggetto di uno sguardo, ma come attività, presentazione di un mondo in cui il soggetto è come attratto, dissolto, inglobato con tutto se stesso. È il sentire dell’immagine, dello schermo che trasforma il soggetto che guarda. È la doppia operazione che caratterizza il cinema (l’idea e la pratica del cinema) in Lynch e che apre (lo vedremo nei capitoli finali) all’esperienza dello «spaesamento»5. L’espressione «cinema del sentire» dunque apre ad una fruizione complessa del film, così come il cinema in Lynch invita ad una immersione totale in cui tutti i sensi e il pensiero dello spettatore sono coinvolti. Questo perché – e saranno alcune delle conclusioni a cui si arriverà alla fine del percorso – l’idea di cinema che scaturisce dall’opera lynchiana è l’idea di un cinema stratificato come un territorio, ricco di relazioni dinamiche al suo interno, ognuna delle quali mostra la propria connessione con le altre parti e con il tutto del film. È un cinema che si sviluppa autonomamente, come un mondo organico e inorganico insieme. Proprio per questo, per la sua autonomia (dalla rappresentazione, dai codici, dalla distinzione tra i vari elementi che lo compongono), il cinema di Lynch è un cinema libero. Per poter affermare questo, è necessario concentrare l’attenzione sul significato e sulle forme del cinema lynchiano; solo così, infatti, sarà possibile chiarire ulteriormente in che senso si possa parlare in Lynch di un cinema del sentire o di un cinema libero. Per questo motivo, la trattazione non seguirà necessariamente uno svolgimento cronologico che ri5. «Spaesamento» è uno dei possibili termini con cui tradurre il concetto tedesco di Unheimlich di cui vedremo il ruolo che svolge nel cinema di Lynch.
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produrrà passo dopo passo l’itinerario creativo di Lynch. Al contrario, la figura dell’autore è qui presa unicamente nella sua funzione unificante di una molteplicità di forme e di percorsi estetici e teorici, di luoghi e modalità del sentire che si inseguono e si riproducono, si modificano e si intensificano lungo linee strettamente intrecciate, film dopo film, immagine dopo immagine, da un corpo all’altro, da un suono all’altro. Individuare alcune di queste linee e attraversarle è il compito (problematico) di questo libro che più che una monografia vuole essere una esplorazione e un tentativo di definizione di una forma-cinema che in Lynch trova forse una delle più compiute realizzazioni. Il problema è dunque l’inizio. «L’inizio è un momento di fragili equilibri», dice la principessa Irulan nella prima sequenza di Dune. Iniziare è un po’ tradire nel caso di Lynch. Ogni suo film non «inizia», ma si «immerge», nella materia di cui è fatto (l’immagine e il suono), presentandosi da subito come luogo estetico, luogo di interrogazione, in cui l’occhio, l’udito, la mente e il corpo dello spettatore entrano in gioco, sono chiamati a giocare una partita le cui regole non sono mai definite una volta per tutte. Come iniziare allora un discorso? Semplicemente raccogliendo la sfida, «immergendosi» nell’operazione lynchiana, evitando le trappole definitorie ed esplorando le possibilità che il cinema di Lynch offre al pensiero, non in quanto enigma per la mente, ma in quanto messa in gioco della materia, del reale come mistero, come sguardo e come apertura, al di là di ogni rappresentazione. Dunque non una monografia cronologica (ne sono uscite già diverse nel mercato editoriale italiano), ma un tentativo di ricostruire un’idea e una pratica di cinema, un percorso teorico attraverso l’esperienza di un autore che, proprio a partire dalla sua «estraneità» al cinema, si è sempre trovato impegnato in operazioni di «scoperta» delle forme e dei linguaggi, intesi però non come gioco formalistico, ma come forme in grado di dire qualcosa sulla realtà. Entrando più specificamente nella struttura del libro, abbiamo deciso di iniziare proprio dalla genesi del cinema lynchiano, vale a dire dalla formazione pittorica del regista ame13
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ricano che, come vedremo, è un luogo centrale per la comprensione del suo cinema. Lynch inizia come pittore e il passaggio al cinema non implica un abbandono dell’atto del dipingere ma, al contrario, una sua intensificazione. È attraverso il suo sguardo pittorico che il cinema prende forma e viene indagato e scoperto. È in questo senso che tutta la parabola creativa lynchiana si può definire come un percorso di scoperta, di approfondimento delle potenzialità e dei confini stessi del cinema. Se, allora, la particolarità del rapporto tra cinema e pittura in Lynch si pone come chiave d’accesso del nostro percorso, i capitoli successivi metteranno in evidenza gli elementi e le forme primarie del cinema (spazi, corpi, meccanismi) così come si configurano nell’opera del regista del Montana, al fine di ricostruire un’idea di cinema, una riflessione teorica attraverso le immagini e i film del regista. Innanzitutto gli spazi: il cinema ha sempre esplorato e attraversato i paesaggi, trasformandoli e modificandoli in profondità, nutrendosi di quella dialettica tra il pieno e il vuoto che caratterizza l’immagine cinematografica6. Nel capitolo sullo spazio si cercherà allora di evidenziare le molteplici forme filmiche dei luoghi lynchiani, isolando due Figure estetiche, la stanza e la strada, l’interno e l’esterno, l’immobilità e il dinamismo; due Figure che immediatamente si mostrano come luoghi teorici oltre che estetici, perché fanno riferimento al conflitto che da sempre (e in particolare nel Novecento) ha caratterizzato non solo il cinema ma anche la storia del Pensiero. Immobilità e dinamismo, interno ed esterno sintetizzano infatti il movimento stesso dei concetti oltre che delle immagini: da una concezione del reale e della filosofia come dialettica, ad un rifiuto della sintesi degli opposti nelle filosofie postdialettiche. In Lynch, come si vedrà, l’opposizione si sviluppa a favore di una tensione costante, in cui il cinema si connota come dispositivo creatore di mondi, in feconda e continua tensione con i corpi che li abitano. 6. Cfr. a questo proposito il fondamentale saggio di Henri Agel, L’espace cinématographique, J.P. Delarge, Paris 1978.
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In seconda istanza i corpi e i soggetti, lo spettro immateriale e il soggetto materiale. Nel percorso di questo capitolo si cercherà di mettere in evidenza la centralità del problema del soggetto in Lynch, inteso come corpo e come principio di visione, nella sua individualità e nella sua interconnessione con gli altri corpi e gli altri soggetti. La fenomenologia del corpo in Lynch si rivela allora come estremamente complessa: il regista americano oscilla all’interno di una vasta gamma di possibilità, dal corpo evanescente, fantasmatico, al corpo come materialità irriducibile, dalla monade isolata al corpo come insieme di relazioni. Il problema del corpo sta al centro dell’enigma del cinema, della sua ambiguità feconda tra immaterialità e materialità. Spinozianamente, il corpo e il soggetto in Lynch si trovano all’interno di una tensione continua dell’essere, di una «potentia» che continuamente crea e svela nuove relazioni e connessioni. Ma il corpo non deve essere qui inteso esclusivamente come corpo vivente. La particolarità del cinema è anche quella di poter mettere sullo stesso piano l’organico e l’inorganico, non tanto per creare uno scenario indistinto, ma anche qui per mostrare nuove possibilità di visione del mondo e dei suoi meccanismi. È su questo problema che si sofferma il quarto capitolo, sviluppando in particolare l’idea di un cinema-meccanismo, di una macchina della visione che, così come si configura in Lynch, diventa macchina teorica del cinema, ne scopre la peculiarità come sguardo automatico disvelatore delle dinamiche dell’essere. Spazi, corpi e meccanismi compongono quindi una triade che fonda la possibilità stessa del cinema; non sono semplicemente gli elementi costitutivi dell’immagine, ma in senso proprio sono i principi dinamici dello sguardo e del pensiero. La loro complessità e la loro ambiguità, che si cercherà di evidenziare nel corso della trattazione, aprono allora ad una serie di considerazioni finali, legate agli interrogativi di partenza, sull’enigma della visione, sul problema del vedere che lega in profondità la genesi del cinema e la genesi del pittorico. Saranno queste considerazioni finali ad aprire il discorso ad un ulteriore scarto: se il cinema di Lynch si configura come forma che mette in gioco l’immaginazione 15
David Lynch. Il cinema del sentire
come dinamica costitutiva dell’essere, come costruzione continua di mondi e di corpi, allora la riflessione sulla sua opera ci porta necessariamente a lasciare il territorio della percezione (del «sentire» pittorico), per approdare ad un livello diverso, quello di una vera e propria ontologia del cinema. È un discorso le cui tracce sono disseminate lungo questo libro, ma che necessita un ulteriore scarto, un ulteriore approfondimento, a partire da Lynch e oltre Lynch.
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I. Spazi e sguardi: cinema e pittura
«Pensare come un pittore ti fa vedere le cose al di sotto del loro aspetto superficiale. Ti aiuta a pensare al di là delle parole». David Lynch
Dipingere, sempre Il rapporto tra cinema e pittura è stato più volte affrontato non solo negli studi sul cinema, ma anche in campi disciplinari apparentemente distanti, dalla critica d’arte alla filosofia, dalla psicoanalisi alla semiotica. Una produzione sterminata che, sin dagli albori del cinema, si è interrogata in vari modi e con esiti diversi sui rapporti intercorrenti tra due forme particolari di elaborazione e produzione dell’immagine. Molteplici approcci, alcuni dei quali ricchi di sviluppi ed implicazioni teoriche e pratiche (basti pensare solamente ai nomi di Bazin o Arnheim). Ma tra le tante possibilità di mettere in gioco il rapporto tra pittura e cinema, tra citazione e continuità, tra affinità e differenza, è utile soffermarsi su quella portata avanti da Jacques Aumont che, in L’occhio interminabile1, lavora proprio sul legame profondo che lega (e distingue anche) l’immagine in movimento e l’immagine fissata su tela; un legame che ha a che fare con l’enigma della visione, con il darsi dell’immagine alla fruizione. In che modo si può parlare di questo rapporto? Aumont, nella sua trattazione, rintraccia alcune delle forme in cui il rapporto si rende evidente: la citazione, ovvero la presenza nel film di citazioni dirette o indirette di quadri che entrano 1. Jacques Aumont, L’occhio interminabile. Cinema e pittura, Marsilio, Venezia 1991.
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a far parte del complesso discorso filmico; la promozione o lo studio, vale a dire la vasta tradizione di film sull’arte o sugli artisti; e, infine, l’imitazione, il tentativo cioè di «ottenere equivalenze visive del materiale tattile della pittura», di lavorare il testo filmico come emanazione, continuazione della tela pittorica, suo necessario e conseguente sviluppo2. Tutte forme che attraversano la storia del cinema e che si intersecano spesso tra loro, ma che rimandano con forza ad una interrogazione più profonda sullo statuto della pittura e del cinema come materializzazioni della visione, come rappresentazioni del reale. Ma c’è una dimensione del rapporto cinema-pittura che ci interessa più da vicino, una dimensione che Aumont sviluppa negli ultimi capitoli del saggio analizzando il cinema di Jean-Luc Godard3. Aumont ritrova, nella produzione degli anni ottanta del regista francese un processo di riappropriazione, rinnovamento e deviazione di alcune problematiche pittoriche, una sorta di riattualizzazione della pittura attraverso il cinema, di «cinematizzazione» della pittura. Godard letto da Aumont diventa il paradigma di questo processo, film come Passion, Je vous salue, Marie, Sauve qui peut (la vie) si collocano su questo terreno, sono luoghi di interrogazione della visione stessa, da sempre il problema centrale del dispositivo pittorico. Vedere è l’enigma in pittura, l’apparizione stessa cioè dell’immagine prima ancora di qualsiasi considerazione dell’immagine come rappresentazione. «La pittura è lì», come dice Mikel Dufrenne: ci invita, ci chiama a vedere. Il più delle volte noi non vediamo: non ci tratteniamo dall’azione, e ci limitiamo a registrare i segni che sollecitano il sapere e l’agire: concetti e strumenti. Vediamo raramente la stessa pittura: passiamo troppo in fretta. Perché essa abiti in noi, bisognerebbe che fosse là dove noi abitiamo, come un oggetto familiare eppure sempre sorprendente, inesauribile4. 2. Ivi, pp. XI-XII. 3. Ivi, pp. 150-166. 4. Mikel Dufrenne, Estetica e filosofia, Marietti, Genova 1979, p. 138.
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Spazi e sguardi: cinema e pittura
Recuperare questa dimensione radicale della pittura, superare la citazione immediata per impadronirsi della dimensione profonda di indagine insita nel dispositivo pittorico: questa è la sfida di un cinema-pittura, del cinema come luogo di messa in questione del reale. Ma per far questo occorre porsi, in un certo senso, fuori dal cinema, fuori cioè dall’accettazione pacifica delle regole canoniche del cinema e dei suoi codici. Se Godard fa dire a Jean-Pierre Léaud in La cinese che Lumière è «l’ultimo pittore impressionista», la frase non va presa come attestazione della presenza nel cinema di Lumière di qualche modello pittorico. Al contrario, in modo probabilmente istintivo, non meditato, Lumière, «inventando» il cinema, pone in evidenza, rielabora i problemi stessi della pittura, la rappresentazione dell’irrappresentabile, di ciò che non si vede (o che si vede in modo particolare) come la luce; di ciò che sfugge alla fissità del quadro, come il tempo. Proprio perché Lumière non si colloca nel cinema, ma inventandolo è egli stesso a collocare il cinema nella storia delle arti visive, il rapporto si fa più evidente. È già in Lumière che il cinema si pone come problematizzazione teorica dell’immagine, della sua apparizione. Il processo continua: bisogna ancora porsi fuori del cinema – come fa Godard che il cinema lo divora, lo lavora e lo assimila fino a constatarne l’infinita frammentazione, per restituirne solo delle tracce forse impossibili da «riassemblare» – per porre ancora una volta, come si è visto, la questione del cinema come pittura. Già, perché l’interrogazione, che è radicale, può porsi solamente se il dispositivo cinematografico viene messo tra parentesi, se l’immagine cinematografica si pone ancora, come era alle origini, come mistero. Essere fuori dal cinema, dunque, per disinteresse (Lumière diceva in fondo che il cinema era un’invenzione senza futuro) o per eccesso di amore (la condanna godardiana di dover sempre fare i conti con la propria cinefilia). Sono le due strade attraverso cui è possibile giungere ad evidenziare il problema stesso del filmare, il porsi dell’immagine. Certo, Lumière e Godard sono esempi-limite, ce ne sa19
David Lynch. Il cinema del sentire
rebbero tantissimi altri, caratterizzati da approcci differenti – basta solo pensare ad Ejzen‰tejn, altro grande fuoricampo del cinema, che fino alla morte non smetterà mai di essere divorato dall’ossessione di voler finalmente fondare l’immagine cinematografica; oppure a ParadÏanov, che arriva ad annullare quasi la macchina cinema a favore di un recupero totale dell’immagine pittorica. In particolare, però, tra il disinteresse e l’amore, tra l’esterno e l’interno esiste una strada intermedia, una modalità del fare cinema che si concretizza restandone al di fuori, attraversandolo in profondità, alla ricerca delle problematiche teoriche che lo fondano. È la strada del desiderio, dell’anelito che il quadro «diventi» cinema, «esploda» nello spazio e nel tempo. È così che David Lynch racconta della prima volta che ha pensato di far cinema: È stato uno dei miei quadri. Non ricordo quale, ma si trattava di un dipinto quasi completamente nero. C’era una figura che occupava il centro della tela. [...] Quindi, mentre stavo osservando la figura nel quadro, ho avvertito un leggero spostamento d’aria e ho colto anche un piccolo movimento. E ho desiderato che il quadro fosse realmente in grado di muoversi, almeno un po’. È così che andò5.
Il passaggio dunque è legittimato dal desiderio, dalla volontà di vedere, vedere ancora, vedere di più. Il desiderio di cinema in Lynch nasce dalla pittura, dal desiderio di vedere che la pittura porta con sé e che il cinema trasforma. Questa trasformazione implica però un passaggio a qualcosa d’altro: il cinema non si risolve nell’intensificazione del pittorico, ma si scopre come dispositivo autonomo e peculiare che Lynch, come vedremo, non smette di esplorare ripensandone i limiti e le sue possibilità di macchina della visione e dello sguardo.
5. Lynch secondo Lynch, a cura di Chris Rodley, Baldini&Castoldi, Milano 1998, pp. 61-62.
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Spazi e sguardi: cinema e pittura
Cosmos e Caos: Murnau, Rohmer, Godard Un ulteriore chiarimento è però necessario; occorre cioè mettere in evidenza come il rapporto cinema-pittura in Lynch si configuri in modo affatto originale rispetto ad altri registi, ad altre forme cinematografiche. Anticipando quanto si dirà più avanti, il pittorico in Lynch diventa la matrice dell’enigma del vedere che il cinema rilancia nella sua specificità; la genesi stessa dell’immagine cinematografica non è pensabile se non all’interno di una interrogazione dello sguardo che la pittura contemporanea ha eletto a problema fondamentale. Se nei capitoli che seguono si tenterà di tracciare le linee di tale rapporto nel cinema di Lynch, è importante sottolineare che tutta la storia del cinema è in realtà attraversata da questa ossessione, dall’enigma che lo sguardo cinematografico propone e che la pittura – sotto altre forme – ha teorizzato. L’originalità di Lynch sta però anzitutto nella radicalità del suo percorso di riattraversamento del cinema sotto lo sguardo del pittorico e, in secondo luogo, nel modo in cui il cinema stesso viene rilanciato come strumento e possibilità di visione. Ma prima di compiere questo percorso è opportuno vedere brevemente altre due forme di problematizzazione del rapporto tra pittura e cinema, in due autori opposti e distanti per molti aspetti, ma accomunati dall’ossessione costante del pittorico: Eric Rohmer e Jean-Luc Godard. È attraverso questa lettura parallela che si aprirà il campo delle possibilità di una pratica del rapporto tra cinema e pittura, campo a partire dal quale il cinema di Lynch si sviluppa in tutta la sua originalità. «Murnau, nei suoi film e particolarmente in Faust, mostra una reale e profonda cultura pittorica. È uno dei rari cineasti – con Ejzen‰tejn e Dreyer – la cui concezione fotografica deve più alla pittura dei musei che alle illustrazioni popolari»6. Inizia così il capitolo dedicato allo spazio pittorico nel Faust di Murnau scritto da Rohmer nel 1972 come par6. Eric Rohmer, L’organizzazione dello spazio nel «Faust» di Murnau, Marsilio, Padova 1984, p. 21. Sul rapporto cinema-pittura in Murnau, cfr. anche Michel Bouvier, Jean-Louis Leutrat, Nosferatu, Gallimard, Paris 1981.
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te della sua tesi di dottorato. La straordinaria analisi di Rohmer del capolavoro di Murnau costituisce un caposaldo della riflessione teorica sul cinema ed è anche il vertice della ricerca di Rohmer sul rapporto cinema-pittura. In questo saggio sull’invenzione dello spazio filmico, Rohmer individua tre dimensioni dello spazio che agiscono nella percezione di un film: lo spazio pittorico, lo spazio architettonico e, infine, lo spazio filmico. Per spazio pittorico, il regista francese intende quella «rappresentazione più o meno fedele, più o meno bella di questa o di quella parte del mondo esterno»7; per spazio architettonico si intende allora la porzione dell’immagine appartenente alla realtà; per spazio filmico, lo spazio virtuale che lo spettatore ricostruisce nella sua mente grazie agli elementi eterogenei che il film gli fornisce. L’insieme dei tre spazi costituisce dunque l’intera articolazione della percezione della materia filmica. Nello sviluppo della formazione dello spazio pittorico in Murnau, Rohmer evidenzia non solo gli spunti e i debiti pittorici rintracciabili nella costruzione dell’inquadratura e nella posizione delle luci (i riferimenti vanno da Rembrandt a Caravaggio, da Georges de la Tour a Vermeer), ma soprattutto la particolarità di un modo di filmare: quello che permette ad un regista «di fingere di conservare il potere di investigazione grezzo, fotografico, della macchina da presa per farci entrare direttamente in un universo di essenza pittorica. Meglio, ci vuole rivelare che l’universo, il nostro mondo quotidiano, è pittorico nella sua natura profonda»8. Il primo livello dello spazio in Murnau, quello pittorico, ci introduce dunque, seguendo Rohmer, nel territorio che Aumont definiva dell’imitazione, vale a dire relativo al passaggio dalla forma pittorica a quella filmica. Murnau guarda il mondo con gli occhi del pittore, afferma Rohmer, restituendocene la verità e la bellezza, dato che «è attraverso la pittura che la verità e la bellezza del mondo visibile ci sono state rivelate nel corso degli anni»9. Verità e bellezza, che Rohmer individua 7. Ivi, p. 19. 8. Ivi, p. 22. 9. Ivi, p. 23
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nella materia e nelle forme che passano dalla pittura al cinema attraverso Murnau: Forme che non si identificano necessariamente con la figura propria degli oggetti – persone o cose – che riempiono il quadro. Ma che invece tendono a passare da un oggetto ad un altro, ad abbracciarne insieme più d’uno alla volta, a svilupparsi all’interno di ciascuno di essi e a produrre divisioni che devono rispondere soltanto al grande Tutto nel quale tali forme trovano posto. [...]. Postulano l’esistenza di un ordine dell’universo concepito come un macrocosmo che abbraccia una serie di microcosmi di ordine decrescente che lo riproducono ciascuno a loro propria misura.
Dunque, nella lettura di Rohmer, il Faust si concretizza come emanazione (dalla pittura al cinema) di un’armonia cosmica di forme ideali. Una visione di stampo neoplatonico in cui le forme ideali (il triangolo o il cerchio come afferma Rohmer) generano altre forme particolari: È grazie a questa costruzione geometrica, e all’assorbimento della pittura e dell’architettura dei grandi maestri che il critico sostiene l’universo di Murnau come una costruzione simbolica delle passioni e del sacro. E che aderisce all’idea rohmeriana di un ordine naturale dell’universo capace di armonizzarsi con quello dell’uomo [...]. Un ordine che nasce dalla conoscenza del mondo attraverso il linguaggio, e che ne definisce la falsità e la verità a seconda di come il mondo reale si legittima nel suo «doppio» filmico e nei suoi costrutti linguistici10.
Se il Faust di Murnau (nella lettura rohmeriana) ripercorre il processo di un cinema che si genera dalla pittura intesa come concretizzazione particolare di bellezze ideali ed armoniche, ad un’altra prospettiva e opposta appartiene il rapporto tra pittura e cinema in Jean-Luc Godard, in particolare in un film come Passion (1982). La visione positiva, geometrico-dinamica di Rohmer si rovescia in Godard in una struttura dinamica sì, ma basata sul conflitto, sull’irriducibilità delle immagini ad ogni armonia possibile. Nel film, un 10. Paolo Marocco, Eric Rohmer, Le Mani, Recco 20022, pp. 99-100.
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regista, Jerzy, tenta di realizzare una pellicola (dal titolo Passion) a partire da una serie di tableaux vivants tratti da quadri celebri di Rembrandt, Goya, Ingres, Delacroix, El Greco e Watteau. L’impresa si rivela irta di difficoltà, a partire dall’impossibilità di individuare una storia, un percorso che leghi insieme i quadri e i personaggi, che li illumini della luce giusta. Negli intervalli tra una ripresa e l’altra, i vari personaggi dei tableaux vivants si incrociano tra loro, si scontrano, si intersecano l’uno con l’altro. I quadri non hanno più una cornice che li contiene, i loro elementi (la luce, i colori, le forme) vagano liberi lungo il flusso delle immagini del film. Godard, più che citare i dipinti nell’immagine cinematografica, li lavora filmicamente, li decostruisce, mostrando al contempo l’irriducibilità dei due linguaggi, lo scarto tra le due modalità di creazione dell’immagine che necessitano allora di una operazione di riassemblamento, di una nuova comprensione11. Anziché mostrarsi come due modi paralleli di gettare uno sguardo sulle forme del mondo, cinema e pittura si mostrano come dinamicamente in conflitto; Godard, moltiplicando le aperture dei quadri, smontandoli attraverso il montaggio e il detour dei personaggi, reinventa, in un certo senso, le possibilità del rapporto, attualizzando le immagini e stimolando lo spettatore a compiere un’operazione continua di ricomposizione di nuovi quadri e di nuove immagini. Impresa disperata, perché Jerzy si dispera del fatto che Murnau sia morto e che il cinema non riesce a produrre più storie. La perfezione del quadro si disgrega dinanzi ai nostri occhi e la frammentazione dell’immagine cinematografica ne moltiplica la dispersione. Il conflitto rimane aperto. Posizioni opposte – non a caso, trattandosi dei due poli teorici della nouvelle vague – quella di Rohmer e di Godard: la prima, incentrata sul processo creativo di un cinema che riprende dalla pittura la capacità di guardare il mondo come totalità; la seconda, ossessionata dall’impossibilità di pensare al cinema come Tutto armonico e alla pittura come mondo 11. Cfr. a questo proposito l’analisi di Jean-Louis Leutrat, Des traces qui nous ressemblent. Passion de Jean-Luc Godard, Comp’act, Ain 1990.
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a sé. In questa polarità radicale (all’interno della quale possiamo ascrivere decine di altri registi, da de Oliveira a Ruiz, da Scorsese a Pasolini, dagli Straub a ParadÏanov) sembra non esserci spazio per altre possibilità di parlare di uno sguardo pittorico nel cinema. Eppure, ed è quello che tenteremo di sviluppare nelle pagine che seguiranno, David Lynch rappresenta nel cinema contemporaneo uno dei più lucidi e penetranti interpreti del rapporto tra cinema e pittura, proprio a partire da uno sguardo interrogante che, passando attraverso l’immagine cinematografica, ripensa le sue modalità e le sue possibilità.
Pensare come un pittore Occorre dunque partire dalla pittura e rovesciare il percorso di filiazione: Lynch non è un regista che si diletta a dipingere ma è innanzitutto un pittore, ossessionato da un sensibile sfuggente, dal reale e dalla sua visibilità. L’esigenza del cinema nasce dall’esigenza pittorica del vedere, della visione come scoperta del mondo, come modalità di porre il mondo: «Più che vederlo, io vedo in base ad esso e con esso», afferma Merleau-Ponty12 parlando dell’occhio. Tutto parte da una interrogazione fenomenologica del mondo, da un enigma che è la realtà stessa, una realtà che l’occhio non si stanca mai di esplorare, di scoprire nelle sue stratificazioni: «Imparai che appena sotto la superficie c’è un altro mondo, e mondi ancora differenti se scavi più in profondità»13. La complessità del reale spinge la visione ad andare oltre, rende necessario creare forme in grado di «scavare in profondità», di far vedere ciò che non è immediatamente visibile, anche, e soprattutto, nel quotidiano, nel familiare, in ciò che, una volta osservato con attenzione, rivela in continuazione altri mondi dentro di sé: La mia infanzia era fatta di case eleganti, strade fiancheggiate da alberi, il lattaio, i cortili nel retro dei palazzi, il ronzio de12. Marcel Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, SE, Milano 1989, p. 23. 13. Lynch secondo Lynch, cit., p. 24.
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gli aerei, i cieli blu, le staccionate, l’erba verde, i ciliegi. L’America media come si pensa che sia. Ma dai ciliegi cola fuori la resina, a volte nera, a volte gialla, con milioni di formiche rosse che ci strisciano sopra. Mi sono accorto che se si guarda un po’ più da vicino questo mondo meraviglioso, sotto ci sono sempre delle formiche rosse14.
Metafore prese dai ricordi d’infanzia, immagini ricorrenti nelle interviste di Lynch, che ama molto parlare delle proprie immagini attraverso altre immagini, come se il problema della visione sfuggisse ad ogni tentativo di definizione e fosse sempre lì, quadro dopo quadro, film dopo film, proponendo di nuovo uno sguardo allo spettatore. Seguendo i percorsi che Lynch tratteggia, giocando spesso con le parole, con le attese dell’interlocutore, si potrà dunque delineare una dimensione del pittorico, meccanismo di apparizione del visibile attraverso – e vedremo quanto questo è importante in Lynch – la corporeità stessa del pittore. Operazione necessaria questa, perché il pittorico in Lynch agisce come dispositivo di indagine del cinema e nel cinema. Se, come voleva Dufrenne, l’apparire del quadro imita in qualche modo l’apparire della Natura, l’avvento dell’essere come apparizione15, la concezione del pittorico in Lynch diventa la strada attraverso cui entrare nella dimensione cinematografica, in quell’universo tipicamente lynchiano che molto spesso lascia sconcertati, in preda ad una smania decodificatrice ben lungi dall’essere poi soddisfatta: In pittura esistono elementi che valgono per ogni aspetto della vita. È la prerogativa della pittura. E anche della musica. Ci sono cose che non possono essere espresse con le parole. È all’incirca questa la natura della pittura; ed è per quanto mi riguarda, in gran parte anche quella del fare cinema. [...] La pittura è un’arte che si trascina dietro tutte le altre16. 14. Ivi, p. 28. 15. Cfr. Mikel Dufrenne, Estetica e filosofia, cit., p. 145. Dalla posizione fenomenologia esemplificata dalla citazione di Dufrenne, il percorso però si allontanerà necessariamente, per aprirsi ad un nuovo campo di indagine, in un certo senso oltrefenomenologico. 16. Lynch secondo Lynch, cit., p. 48.
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Il pittorico è quindi per Lynch l’elemento originario, il meccanismo alla base di ogni altra forma di espressione. Sarebbe limitante però pensare allora al cinema di Lynch come rielaborazione di immagini pittoriche. I suoi film non «citano» pittori (o meglio, lo fanno anche – basti pensare ad Hopper – ma non è questo il punto), li «attualizzano», li cinematizzano, come direbbe Aumont. Lynch dunque fa cinema come se dipingesse, pensa come un pittore, ed è in questo pensiero che occorre addentrarsi. Certo, è un percorso non facile, dato che le parole di Lynch descrivono un universo fatto di immagini, di piccole descrizioni, di oggetti, gesti ed eventi, in cui il concetto sembra sparire, la teoria dileguarsi. Lynch non parla volentieri dei suoi film o dei suoi quadri, ma parla spesso di come nascono le idee, delle sensazioni e delle emozioni provate, delle immagini che hanno originato altre immagini. Su tutto, domina una dimensione sensoriale e materiale su cui lavorano i quadri di Lynch, e che le sue parole evocano; dimensione centrale in cui il visibile incontra la materia, si scontra con essa, la scopre non come ostacolo o mezzo per raggiungere la trascendenza, ma come enigma, luogo verso cui ogni attenzione deve essere rivolta. Il lavoro preliminare da svolgere sarà dunque quello di chiarire in cosa consista questa dimensione del pittorico, questa forma originaria a partire dalla quale il cinema di Lynch si sviluppa, prende forma, si trasforma.
Percorsi dello sguardo: Cézanne «I miei quadri sono tutti commedie organiche piene di violenza. [...], oggetti primitivi, privi di ricercatezza [...]. Lascio che siano i miei impulsi a dipingere. [...] Dipingo sempre meno con il pennello, preferisco usare le dita»17. La pittura prende ben presto piede in Lynch come interesse primario. Dotato di una curiosità vivissima, Lynch non è comunque un bravo studente: non ama leggere e non ama 17. David Lynch, Sulla mia pittura, in «Panta», n. 13, 1994, p. 322.
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la scuola, che vede come un luogo che uccide la creatività e la libertà: preferisce disegnare, frequenta corsi di pittura e, spesso a scuola, mentre fa finta di ascoltare la lezione si mette a disegnare. La sua passione per la pittura cresce e, con il passare del tempo, il giovane Lynch scopre pittori famosi come Francis Bacon, Oskar Kokoschka (che cominciò però ad apprezzare veramente solo dopo molti anni) o Edward Hopper che avranno un ruolo centrale nella sua educazione all’immagine. Lynch ricorda che uno dei momenti centrali della sua formazione pittorica fu fare conoscenza, nel 1960, di Bushnell Keeler, un pittore padre di un suo compagno di scuola. Il giovane David, quattordicenne all’epoca, grazie all’aiuto di Keeler inizia a frequentare i corsi di pittura della Cormoran School of Arts di Washington. Apre un piccolo studio insieme all’amico e compagno di studi Jack Fisk e inizia a pensare alla pittura come attività stabile. I primi lavori di Lynch sono figurativi: dipinge scene di strada, case, alberi e cancelli, tipici esterni medioborghesi. L’influenza hopperiana è evidente. Nel 1964 Lynch si iscrive a tempo pieno alla Boston Museum School, dove approfondisce la sua conoscenza dell’arte astratta. I quadri del giovane Lynch cominciano a mutare: dai soggetti figurativi delle prime tele passa a sperimentare immagini composte con grandi masse di colori. Dopo un anno a Boston interrompe gli studi per fare un viaggio in Europa con Fisk e conoscere i luoghi dei grandi pittori europei. Ma i due, pur avendo programmato un viaggio di tre anni, delusi dal loro primo impatto con l’Europa decidono di ripartire per gli Stati Uniti dopo pochi giorni. Nel 1965 Lynch si iscrive alla Pennsylvania Academy of Fine Arts di Philadelphia e la sua produzione subisce una ulteriore trasformazione: i colori cominciano a sparire dalle sue tele e inizia a lavorare sulle variazioni del nero: figure stilizzate si stagliano su sfondi neri o grigio scuri, i pochi colori presenti sono mescolati al nero e appaiono appena; lo stile di Lynch si fa più personale e la presenza ossessiva del nero e dell’oscurità diventerà una delle sue marche caratterizzanti: Non saprei che farmene del colore. Il colore è troppo reale per me, è limitante. Non concede granché al sogno. [...]. Il nero
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possiede profondità. È come una piccola apertura: ci si entra, e dato che l’oscurità permane, la mente si distende, e una quantità di cose che accadono lì dentro divengono manifeste18.
Il primo di questi quadri, Bride (1966) rappresenta una donna nell’atto di partorire da sola. Anche le figure presenti nei quadri cambiano. Lynch non dipinge più figure intere, ma frammenti di corpi, particolari, dettagli appena riconoscibili. L’interezza è bandita: dal nero, solo frammenti possono emergere. Il nero, l’oscurità. Elementi costantemente presenti nel cinema lynchiano, sviscerati e utilizzati in forme molteplici; elementi che compaiono ben presto nella pittura di Lynch, associati immediatamente al sogno e al passaggio dimensionale. Il nero apre – proprio perché assenza di rappresentazione – alla creazione di nuove immagini e di nuovi eventi, nega cioè la concezione del quadro come immagine da decodificare, ma invita lo spettatore ad entrarci dentro, ad interagire con le zone d’indiscernibilità che il quadro mostra in primo piano. Prima figura del pittorico secondo Lynch, il nero è il primo dei punti di passaggio tra pittura e cinema, è uno degli elementi del pittorico che invade e trasforma il campo del cinema lynchiano. Soprattutto, il nero introduce ad un tema percettivo, ad una rivalutazione dell’occhio, dello sguardo che non si limita a percepire visivamente l’oggetto rappresentato, ma, entrando in una sorta di vertigine, di sospensione della visibilità, apre ad un «sentire», ad una percezione multisensoriale, visivo-tattile, come vuole Edoardo Bruno: Il nero esercita una funzione significante ed ipnotica e lo sguardo, anche il più indifferente, non riesce a sottrarsi a questo senso di vertigine, avvertendo nelle linee espressive il dualismo della realtà e dell’apparenza. Il nero trasforma il vedere in sentire, pone l’oggetto tra il tatto e il pensiero, nascondendo l’evidenza e, al tempo stesso, esaltandola, in un immaginario che non ha più la consistenza ontologica dell’oggetto percepito, né quella della sua assenza19. 18. Lynch secondo Lynch, cit., p. 39. 19. Edoardo Bruno, Del gusto. Percorsi per una estetica del film, Bulzoni, Roma 2001, p. 127.
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Ecco dunque una trasformazione dell’occhio, strumento visivo-tattile, che «tocca», «accarezza» le superfici e le forme, i colori e gli oggetti. L’occhio scopre la sua funzione «tattile» proprio quando la figuratività del quadro, la rappresentazione dell’oggetto è negata in funzione della sua «apparizione». Spieghiamoci meglio. È ancora Aumont a fornire il primo spunto: è proprio nello spazio vuoto (in cui possono emergere gli oggetti) o nel nero come assenza di spazio (in cui si devono immaginare, produrre gli oggetti) che la visione si scopre tattile: l’occhio non solo vede, ma anche tocca; la consistenza, la texture della materia, degli oggetti in uno spazio tendente al nero, non sono più semplici supporti, neutri strumenti di rappresentazione, ma elementi percepibili, che stimolano i sensi ad entrare in azione20. Al vedere si aggiunge il sentire, come diceva Klee, che ammoniva di «brucare» il quadro, non di osservarlo. Oltre alla rarefazione del colore, alla frammentazione dei corpi e delle figure, ciò che caratterizza i quadri di Lynch è quindi la ricerca continua di una materialità, di una messa in immagine della materia, da una parte, e della manipolazione, trasformazione, utilizzazione della materia stessa dall’altra. Nei quadri più recenti, oggetti organici ed inorganici entrano a far parte del materiale utilizzato, dai cerotti al cotone, fino a pezzi di carne e piccoli animali morti (uccelli, topi, gatti, pesci). Il quadro stesso non rimane immobile: l’organico si decompone, si trasforma, muta di forma, colore, consistenza, costringe l’occhio a fare i conti con la materia, senza potersi più rifugiare nella tranquilla immobilità della rappresentazione. Ma in questo percorso verso l’astrazione Lynch non abbandona mai del tutto la figuratività. I suoi quadri non sono mai pure forme; la figura, per quanto stilizzata, resa con tratti grezzi, primitivi è però lì, riconoscibile, deformata quanto si vuole, ma immediatamente identificabile. Nel nero o nel caos di masse di colori scuri, il frammento di un corpo o di un oggetto si rende visibile. In Shadow of a Twisted Hand Across My House (1988), il paesaggio di un campo reso at20. Cfr. Jacques Aumont, L’occhio interminabile, cit., pp. 98-99.
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traverso l’uso di tonalità più scure in basso (la terra) e di tonalità più chiare e sfumate in alto (il cielo) non fonde né confonde le linee e i contorni che disegnano la silhouette di una mano enorme che sembra coprire una casa a tre piani da cui esce del fumo. Frammenti di cose, oggetti, corpi emergono e continuano ad emergere, la via dell’astrazione pura non sembra appartenere alla pittura di Lynch. Abbandonare la figura significa far sì che l’esperienza estetica sia diretta esclusivamente verso il cervello, che l’arte sia concettuale, che il piacere derivi dagli stimoli che arrivano alla mente. Ma ciò che Merleau-Ponty, Maldiney, e persino i grandi «rovesciatori» della fenomenologia come Michel Henry e Lyotard21 sapevano bene è che la Figura22 è la forma del sensibile che apre alla sensazione, all’apporto dei sensi nell’esperienza estetica. È questa la lezione di Cézanne, il cui apporto alla nascita della pittura moderna è indiscusso. Cézanne da più parti viene indicato come il più profondo trasformatore dei principi stessi del pittorico, sottraendo – come vuole Lyotard – l’immagine al compito di «rappresentare»23, e immettendo nella pittura occidentale, secondo Merleau-Ponty, il principio secondo cui il modo di vedere del pittore mette in gioco il nostro stesso essere nel mondo, il nostro modo di vedere24. In questo senso, la pittura di Cézanne sfugge sia al dominio della rappresentazione, sia a quello dell’astrazione. Ciò 21. Nella tradizione fenomenologica francese, il tema è stato più volte sviscerato e analizzato: cfr. Henri Maldiney, Regard Parole Espace, l’Âge d’homme, Lausanne 1973, Marcel Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano 1965; Jean-François Lyotard, Discorso, Figura, Unicopli, Milano 1988. 22. Il termine Figura è qui inteso nel senso datogli da Lyotard, in Discorso, Figura, cit., e ripreso da Deleuze in Francis Bacon: Logique de la sensation, Éditions de la Différence, Paris 1981; la figura come ciò che si colloca in pittura tra il figurativo e l’astratto, aperto a molteplici livelli di fruizione e elemento in grado di scardinare – proprio per la sua non riducibilità a discorso – il dominio del discorsivo nel pensiero occidentale. 23. Jean-François Lyotard, A partire da Marx e Freud. Decostruzione e economia dell’opera, Multhipla, Milano 1979, pp. 123-128. 24. Cfr. Marcel Merleau-Ponty, Senso e non senso, Il Saggiatore, Milano 196.
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che domina il dipingere in Cézanne è la Figura, elemento che nega l’assenza totale di corpi riconoscibili nel quadro e, allo stesso tempo, rifiuta l’idea di una raffigurazione «oggettiva» della cosa. Cézanne dipinge il mondo percepito, vale a dire il mondo così come viene ad essere visibile, in questo egli può essere definito come l’iniziatore della pittura moderna. Non abbandonare la Figura significa rimanere nel mondo, rivolgere sempre lo sguardo verso qualcosa, ma non per riprodurlo, quanto per vederlo veramente, per vederlo altrimenti. Ciò che è familiare, gli oggetti più comuni appaiono in Cézanne percepiti in altro modo, riconoscibili, ma allo stesso tempo completamente sconosciuti. La pittura di Cézanne, ricorda Merleau-Ponty, rivela «un mondo senza familiarità, in cui non ci si trova bene, che vieta ogni effusione umana. Se si vanno a vedere altri pittori lasciando i quadri di Cézanne, si prova distensione, come dopo un corteo funebre il riprendere delle conversazioni maschera quella novità assoluta e restituisce ai viventi la loro solidità»25. È lo stesso Cézanne ad indicare come il mondo visto attraverso la pittura non sia un mondo che si pretende oggettivo, ma al contrario il frutto di un modo di «sentire»: Qualunque sia il vostro maestro preferito, non deve essere per voi che orientamento. Altrimenti sarete solo un imitatore. Con un sentimento della natura, quale che sia, e alcune doti felici [...], vi sarà possibile emanciparvi: i consigli, il metodo di un altro, non devono far cambiare il vostro modo di sentire 26.
La pittura post-Cézanne non trasforma il mondo in qualcosa di non familiare, ma mostra la non familiarità del mondo, la rende visibile, «si sforza di mostrare come la cosa, pur manifestandosi, resti per altro verso “cosa in sé”: si sforza di esprimere quindi quella dimensione sotterranea del mondo che non appartiene agli uomini in quanto non è stata costruita da loro e conserva anzi la propria alterità rispetto al25. Ivi, p. 62. 26. Paul Cézanne, Lettere, SE, Milano 1997, p. 135.
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l’ordine umano»27. In questo senso, l’analisi di Lyotard della pittura di Cézanne va ancora più in là. Con il pittore provenzale, afferma Lyotard, si inaugura una pratica del dipingere in cui il visibile, anziché concepirsi come immagine, si presenta come allucinazione, come forma che va al di là del sensibile stesso, per scoprirsi come meccanismo in grado di sgombrare il campo da ogni pretesa di mostrare «veramente il mondo» e la sua essenza: Il lavoro critico iniziato da Cézanne, proseguito e allargato da Delaunay e Klee, dai cubisti, da Maleviã e Kandinskij, mostrava come non si trattasse più di produrre un’illusione fantasmatica di profondità su uno schermo trattato come vetro, ma di porre invece in rilievo le proprietà plastiche (linee, punti, superfici, tonalità, colori) di cui la rappresentazione si serve solo per cancellarle; come se non si trattasse più di esaudire il desiderio con l’illusione, ma di deluderlo metodicamente, mostrandone i meccanismi28.
Ma questo «effetto Cézanne», come lo chiama MerleauPonty, diventa in qualche modo matrice di una concezione del pittorico, di un riconoscimento del pittorico come forma di esplorazione profonda del reale o di ciò che si suppone come tale. Il concetto di Figura infatti, esce per così dire dalle coordinate della pittura di Cézanne per entrare a pieno titolo nella pittura contemporanea (e nel cinema), diventa cioè uno di quei tratti distintivi del pittorico che Lynch stesso trasporta – modificandolo – dalla sua pittura al suo cinema, come vedremo. Un passaggio, però, che non deve far pensare al cinema di Lynch semplicemente come messa-in-movimento della pittura o del pittorico, ma che mostra una profonda trasformazione delle forme, ribadendo la differenza profonda tra cinema e pittura al di là di ogni legame. Un orizzonte comune, come voleva Rohmer, che è anche un conflitto e un confronto, come ribadisce Godard.
27. Massimo Carboni, Il sensibile e l’eccedente. Mondo, estetica, arte, pensiero, Guerini, Milano 1996, p. 51. 28. Jean-François Lyotard, A partire da Marx e Freud, cit., p. 128.
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Ma non anticipiamo troppo. Seguiamo invece la via tracciata a partire da Cézanne, per incontrare un altro autore fondamentale in questo itinerario: Francis Bacon.
Dallo sguardo alla sensazione: Bacon Se ciò che caratterizza Cézanne è la capacità di «far vedere» il mondo e non di rappresentarlo, di creare Figure e non rappresentazioni, allora la sua eredità è raccolta, ampliata e personalizzata da un altro dei grandi pittori del Novecento. Bacon lavora sulle tracce lasciate aperte da Cézanne, mettendo in evidenza, come dice Deleuze, che dipingere Figure significa dipingere sensazioni, significa lavorare non su una decodifica visiva del mondo, ma su una resa immediata, non linguistica del mondo stesso. Nei quadri di Bacon la Figura non è rappresentativa, non lo è completamente almeno: il corpo dipinto non chiede di essere riconosciuto, ma di essere «sentito». Bacon è un pittore di ritratti, ma la ritrattistica diventa esposizione, moltiplicazione di Figure: Bacon non dipinge volti, ma teste, dirà Deleuze29, come nella serie delle teste (Head) del 1949, o nei ritratti di George Dyer (Portrait of George Dyer staring into a mirror, 1967; Portrait of George Dyer staring a blind cord, 1966; Portrait of George Dyer in a mirror, 1968; Two studies of George Dyer with a dog, 1968), in cui del corpo umano di Dyer rimane ben poco, la Figura emerge sulla rappresentazione, le linee e le masse di colore disegnano un corpo la cui testa è sottoposta ad una serie graduale di trasformazioni, ad una serie di mutazioni deformanti; Bacon non abbandona mai completamente la forma, non siamo ancora nel territorio dell’informe, ma la riconoscibilità è negata come effetto primario, a favore della tensione che la Figura crea. Ancora di più la negazione della rappresentazione emerge in quei quadri in cui Bacon lavora su immagini preesistenti, su immagini che già fanno parte dell’immaginario pittorico (e cinematografico) dello spettatore: Study after Vela29. Cfr. Gilles Deleuze, Francis Bacon. Logique de la sensation, cit., p. 19.
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squez’s portrait of Pope Innocent X (1953), o Study for the nurse in the film Battleship Potemkin (1957), lavorano su immagini famose (il ritratto di Velázquez e la famosa inquadratura di Ejzen‰tejn della balia dal volto ferito, gli occhiali distrutti e la bocca urlante nella sequenza della scalinata di Odessa in La corazzata Potemkin). A partire da corpi preesistenti, viventi (Dyer, come Lucien Freud, come Isabel Rawsthorne), o a partire da immagini preesistenti, da rappresentazioni precedenti, l’operazione baconiana è quella di sottrarre l’immagine ad ogni possibilità figurativa (cioè legata alla rappresentazione), per far emergere quella che Deleuze chiama la «figurazione seconda», la testa e non il viso, la bocca che urla e non il dolore umano, il corpo e non l’essere vivente. Dipingere figure significa appunto lavorare sulla materialità dei corpi, lasciarne emergere la consistenza, far sì che l’immagine agisca sui sensi (e non solo su quello della vista), che il rapporto di fruizione del quadro sia dominato dalla sensazione prima ancora che dal senso. Vediamo dunque configurarsi, in Bacon – seguendo le indicazioni di Deleuze –, una elaborazione della Figura che sviluppa le considerazioni fatte sopra sulla pittura di Cézanne. Che cosa si intende dunque per Figura? E che cosa distingue il figurale (a cui fa riferimento la Figura), dal figurativo (a cui fa riferimento la rappresentazione)? Un’immagine figurativa implica un rapporto di tipo iconico-rappresentativo con un oggetto che la precede, la cui esistenza (reale o mentale) si presume ad essa preliminare. In certo modo, l’oggetto è la conditio sine qua non dell’immagine figurativa. Ora, è precisamente questo fascio di rapporti che Bacon vuole liquidare, senza arrivare alla “forma pura” dell’astrazione, all’aniconismo né di tipo “geometrico” né di tipo “informale”, bensì salvando il contorno»30.
Semplificando, se la classica idea di rappresentazione presuppone un corpo reale che deve essere riprodotto secondo principi e regole prestabiliti, la Figura indica la possibilità di creare un corpo nuovo, di lasciar emergere dall’im30. Massimo Carboni, Non vedi niente lì? Sentieri tra arti e filosofie del Novecento, Castelvecchi, Roma 1999, pp. 82-83.
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magine e nell’immagine un universo di senso che non si esaurisca nel riconoscimento dell’oggetto: La Figura ha di certo un suo referente materiale, e questo è il corpo, non rappresentato come un oggetto [...]. Il corpo solo, defigurato, più che “sfigurato” che si deforma sotto l’azione lacerante di forze costantemente in fieri, e si torce spasmicamente come tentando, con grida mute che rimarranno sempre inudibili, di fuggire da e a se stesso o dalla propria immagine attraverso uno dei suoi organi-orifizi. Ed è con questo sforzo che il corpo diventa Figura31.
Figura, ancora, in Bacon come in Cézanne. Figura che, come vuole Deleuze, è la forma sensibile riferita alla sensazione32, è il recupero della forza espressiva del sensibile, della materialità dei corpi. La sensazione è infatti tutto ciò che ha a che fare con un sentire assolutamente non passivo: i quadri di Bacon mostrano il sentire come attività deformante, la sensazione, appunto, «maestra delle deformazioni, agente di deformazione dei corpi»33. Il sentire come attività che mostra la non familiarità del mondo (Cézanne) e che ne deforma i tratti acquisiti (Bacon). Caratteristiche che si mescolano in una configurazione del pittorico che apre – lo vedremo in Lynch – necessariamente al cinema. Alla luce di queste considerazioni, torniamo dunque al regista americano.
Spazio, lentezza, velocità: Lynch Interrogato da Chris Rodley su cosa della pittura di Francis Bacon lo entusiasmasse così tanto, Lynch risponde: «Tutto. I soggetti e lo stile sono combinati, coniugati, perfetti. E lo spazio, la lentezza e la velocità, e poi le strutture, ogni cosa»34. Spazio, lentezza e velocità: in una parola, movimen31. Ivi, pp. 83-84. 32. Cfr. Gilles Deleuze, Francis Bacon. Logique de la sensation, cit., p. 28. 33. Ibidem. 34. Lynch secondo Lynch, cit., p. 35.
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to. Lynch vede in Bacon il modello di una concezione del pittorico che (proprio in virtù della forza deformante della sensazione, aggiungerei) si apre all’immagine come flusso, come movimento. La pittura di Lynch si sviluppa a partire da questa necessità di movimento – lo abbiamo già accennato – e il movimento è innanzitutto presenza di corpi, materialità e corporeità nello spazio e nel tempo. In una parola: narrazione. La Figura baconiana esiste nello spazio come corpo in movimento, che sembra mostrare le tensioni, le forze che lo costringono ad una continua trasformazione. Tre sono gli elementi che compongono la pittura di Bacon: la grande tela come struttura materiale spazializzante, le Figure e il luogo, il contorno geometrico dove le Figure si situano35. La spazializzazione, la corporeità delle figure in movimento, in torsione, in mutamento non solo fanno della pittura il luogo di riabilitazione del sensibile, della materialità sentita e percepita del mondo (come in Cézanne), ma la rendono il luogo di manifestazione della realtà come complesso gioco di forze, come continuo mutamento, come molteplicità. L’occhio non si accontenta più di contemplare il quadro come luogo separato dal reale, ma lo sguardo si fa visivotattile, come ribadiva Klee («un quadro non si legge, ma va brucato»): Nello spazio vuoto c’è qualcosa che sporge (dal punto di vista visivo), sono gli oggetti; la nostra visione può avere dunque due regimi, a seconda che abbia a che fare con ciò che si allontana da noi e si svuota, lo spazio, o che abbia a che fare con qualcosa che avanza verso di noi e si offre, gli oggetti36.
Ogni corpo, ogni immagine ha in fondo sempre a che fare con la propria materialità, con la propria corporeità, appunto; ogni tentativo di astrazione del corpo nell’immagine si svela quindi illusorio. Se la storia dell’arte di tradizione umanista distingue ad esempio la nudità del corpo, che mette in mostra la carne, la materia di solito coperta dai vesti35. Gilles Deleuze, Francis Bacon. Logique de la sensation, cit., p. 15. 36. Jacques Aumont, L’occhio interminabile, cit., p. 98.
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ti, dal nudo pittorico, in cui il corpo non viene visto come organismo vivente ma come forma plastica37, la distinzione si rivela ben presto come artificiale. Non si ha mai fino in fondo la separazione tra corporeità e idealità, tra forma e desiderio. Ogni corpo e ogni oggetto rimandano sempre, più o meno esplicitamente, alla loro appartenenza organica od inorganica, in una parola, materiale. I corpi e gli oggetti esistono ed agiscono nello spazio del mondo, per questo vengono percepiti, «sentiti». Come in Cézanne, che dipingendo infinite volte Madame Cézanne o la montagna Sainte-Victoire, ne evidenzia sempre l’irriducibile materialità; o come in Bacon, il cui dipingere rimanda sempre ad un agire, della materia, della «carne» dei corpi, nel tempo e nello spazio. Oltre a rimandare con forza alla irriducibile materialità del corpo, il pittorico si caratterizza anche per l’apertura di uno spazio: al di là della rappresentazione, il problema della visibilità è innanzitutto il problema di un gioco ininterrotto e complesso di sguardi. La pittura non istituisce tanto un campo di rappresentazioni del reale, ma un luogo, dal quale si crea uno sguardo. Las Meninas di Velázquez o Gli ambasciatori di Holbein, tanto per citare due quadri celebri per le analisi condotte su di essi rispettivamente da Foucault e Lacan38, si pongono come luoghi limite, forme di fuoriuscita dal pittorico, che mettono in mostra la formazione di uno spazio nel quale lo spettatore si «immerge», perde la distanza tranquillizzante dell’osservatore, per «entrare» nello spazio del quadro. Il cinema – e il cinema lynchiano in particolar modo – si pone allora come ulteriore «messa in forma» del problema della visibilità: è proprio qui che l’apparente intangibilità del rapporto tra soggetto ed oggetto, tra osservato ed osservatore, tra realtà e rappresentazione viene radicalmente stravolta. È proprio questa dimensione (quella della recipro37. Cfr. ad esempio Kenneth Clark, Il nudo. Uno studio della forma ideale, Neri Pozza, Vicenza 1995, p. 73. Clark riprende la distinzione tra nudo e nudità, criticata da Georges Didi-Huberman, Aprire Venere. Nudità, sogno, crudeltà, Einaudi, Torino 2001, pp. 6-15. 38. Michel Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1988; Jacques Lacan, Il seminario. Libro XI, Einaudi, Torino 1979. Torneremo in seguito su queste due analisi.
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cità degli sguardi, dell’apertura di uno spazio), che ancora caratterizza il legame tra cinema e pittura in Lynch: «Dipingo prima di cominciare a fare dei film, dipingo sempre, ma non sono mai soddisfatto dei miei quadri»39. Il passaggio dall’una all’altro si presenta allora problematico: dipingere contemporaneamente al filmare significa forse ribadire un nesso, un rapporto tra due modalità del visibile, ma il cinema sembra sempre più inglobare la pittura, renderla insufficiente. In fondo, il cinema stesso – che in Lynch nasce, ricordiamolo, come desiderio che il quadro prenda vita, inizi a muoversi – proprio per questo passaggio qualitativo, per questa fuoriuscita dalla stasi (l’ek-stasis ejzen‰tejniana?), si pone come frattura, come «alterazione nell’ordine del mondo»40. «Dipingo sempre meno con il pennello, preferisco usare le dita». Anche l’approccio stesso con il dipingere, con il «fare» pittura, prevede la tattilità come mezzo principale, immediato. In questo il cinema intesse un rapporto particolare con la pittura, proprio per la sua capacità di lavorare contemporaneamente con corpi e oggetti, intesi nella loro materialità e, allo stesso tempo, nella loro astrazione di immagine filmata: «Il cinema è l’arte moderna per eccellenza, perché tende all’astrazione, ma l’astrazione altro non è che lo strato più profondo della realtà fisica»41. Quando Isabella Rossellini sbuca all’improvviso da un cespuglio e si getta tra le braccia di Kyle McLachlan in Velluto blu, la nudità del suo corpo annulla qualsiasi considerazione simbolica, la carne e la materia rivendicano la propria consistenza. «I miei film sono come dei quadri filmati: ritratti in movimento imprigionati su celluloide. Stratifico tutto attraverso il suono per generare un’atmosfera unica, come se la Monna Lisa aprisse la bocca, ci fosse una brezza e lei si voltasse sorridendo»42. Il percorso del desiderio è allora chiaro: ci39. Le ruban de Moebius. Entretien avec David Lynch, a cura di Michel Henry, in «Positif», n. 431, 1997, p. 13. 40. Jerónimo Ledesma, Borrador. Sobre David Lynch y la cospiración del estilo, in «Kilometro 111», n. 1, 2000, p. 56. 41. Flavio de Bernardinis, Ossessioni terminali. Apocalissi e riciclaggi alla fine del cinesecolo, Costa & Nolan, Milano 1999, p. 64. 42. Lynch secondo Lynch, cit., p. 167.
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nema e pittura si richiamano l’un l’altra nella necessità di un passaggio delle forme dalla stasi al movimento. Ma è proprio la natura di questo passaggio, il meccanismo che dà luogo al cinema a diventare luogo di indagine in Lynch. Che cosa emerge del reale in questo passaggio al movimento? Come l’immagine-movimento recupera l’istanza dello sguardo tipica della pittura da Cézanne a Bacon? Domande che ossessionano Lynch e che attraversano trasversalmente il suo cinema e la sua pittura. Insieme alla serie delle «grandi tele nere», Lynch inizia a lavorare sulla serie delle «donne meccaniche», figure femminili trasformate in macchine da scrivere43. È la prima intromissione di elementi meccanici su corpi organici, meccanismi insieme a corpi, elementi che ritorneranno ossessivamente nel cinema di Lynch e anche nella produzione fotografica del regista, che Lynch svilupperà soprattutto dopo la realizzazione di Eraserhead (Eraserhead – La mente che cancella). Durante la lavorazione di The Elephant Man, infatti, Lynch realizza una serie di opere, il Fish-Kit e il ChickenKit, costituite da un pesce e da un pollo fatti a pezzi e posti in una sorta di kit di montaggio, con tanto di istruzioni per l’assemblaggio. Corto circuito tra organico ed inorganico, tra meccanismo artificiale e corpo vivente, il Fish-Kit e il Chicken-Kit introducono alcune interrogazioni che stanno alla base dello sguardo cinematografico lynchiano: non solo il problema di quale sia e come si configuri il principio di funzionamento del reale in movimento, dei corpi come degli oggetti, del vitale come dell’artificiale, ma anche in che modo il cinema – raccogliendo e rilanciando l’eredità della pittura – riesca ad isolare i frammenti, ad evidenziare le parti, i dettagli, le disparità che compongono, o sembrano comporre l’unità del tutto, l’oggetto o il corpo. È a partire da questa operazione di smontaggio, di frammentazione, di isolamento del dettaglio che il cinema di Lynch si costituisce come luogo di esplorazione del reale. Isolando le parti (e quin43. François Cognard, David Lynch: crimes sans châtiments, «Starfix», n. 84, 1990, p. 63, (cit. in Riccardo Caccia, David Lynch, Il Castoro, Milano 2000, p. 17).
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di negando la percezione immediata del reale), il cinema riesce a visualizzare i rapporti molteplici e stratificati che compongono la materia e a ricomporli in un mondo che esiste solo sullo schermo ma che, allo stesso tempo, permette di «vedere oltre», di «vedere altrimenti»: La creazione sarebbe dunque per Lynch la realizzazione di kit che non fanno parte della natura da cui pure attinge gli elementi, e il cui ideale sarebbe che fossero conformi alla legge dell’incommensurabilità della parte e del tutto, condizione per cui la parte conferisca al tutto il suo peso autentico e peculiare, pur correndo ovviamente il rischio di staccarsene44.
Dunque il percorso teso a rintracciare le forme del pittorico in Lynch inizia a configurarsi: due grandi tematiche emergono dalla forma cinema lynchiana. Innanzitutto l’idea che il cinema in Lynch nasca (e si sviluppi) come forma ulteriore del pittorico, come modalità di messa in immagine del reale attraverso uno sguardo particolare che è quello dell’occhio cinematografico, uno sguardo che deforma il reale per attingere ad una percezione altra e per aprire uno spazio di percezione e di visibilità in cui lo schermo e lo spettatore perdono i confini prestabiliti; in secondo luogo, l’idea che, proprio per quanto detto sopra, il cinema si configuri come creazione e messa in scena di un mondo frammentato, stratificato, meccanismo e organismo insieme; un mondo il cui rapporto tra le parti componenti è ben lontano dall’essere statico ed uniforme. Due linee intersecate l’una all’altra attraverso cui è possibile entrare nell’universo cinematografico lynchiano, rintracciarne gli elementi nella loro operatività e nella loro capacità di sovvertire le forme cinematografiche. Due linee che nei capitoli che seguono costituiranno il filo comune di una serie di percorsi attraverso il cinema lynchiano, le sue figure e le sue forme, le sue ossessioni e le sue costanti, i suoi luoghi e i suoi spazi; elementi tutti – come vedremo – di un cinema del sentire.
44. Michel Chion, David Lynch, cit., p. 207.
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II. Altre Realtà: Mondi
«Ogni oggetto che vediamo ne nasconde un altro, e vorremmo vedere quello che ci nasconde il visibile». René Magritte
La forma paesaggio Il luogo e lo spazio. È da qui che può iniziare il percorso, dai mondi filmici lynchiani, mondi plurali e molteplici che si dispiegano nel tempo e nello spazio del film. «Sotto la superficie c’è un altro mondo e un altro ancora se scavi più in profondità». Ritorna spesso questa affermazione in Lynch, come a sottolineare ogni volta il desiderio di esplorare il reale a partire dalle sue articolazioni, dalle sue stratificazioni, mai definite una volta per tutte. Nel cinema di Lynch la strutturazione del reale è indifferente alla distinzione tra organico ed inorganico. Il cinema come messa in forma fantasmatica dello sguardo – trasformazione dinamica dello sguardo pittorico – sembra annullare le distanze tra vivente e artificiale, mostrandone al contrario le connessioni, le ambivalenze, i sottili e complessi rapporti tra f›sij e tûcnh. È innanzitutto nel dispiegarsi dello spazio che lo sguardo cinematografico e pittorico mostra la propria capacità di sovvertire le leggi della percezione comune, sia attraverso una resa iperrealistica dello spazio (come in Hopper), sia attraverso la sua destrutturazione in linee, contorni e figure (come in Bacon). Lynch ha esplorato, durante tutta la sua attività, le molteplici forme di configurazione dello spazio nel cinema, evidenziandone differenze e possibilità, limiti e capacità di espansione. 42
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Nel cinema di Linch il paesaggio, le città, le strade, la natura e i mondi che li compongono hanno un’importanza centrale; non si costituiscono cioè come sfondo, come contesto o ambiente entro il quale la narrazione si colloca. Elementi urbani o naturali, tecnologici o arcaici, organici o meccanici, ogni cosa fa parte del quadro alla stessa maniera, è, di fatto, composta dalla stessa materia. Di conseguenza, lo spazio – anche se sarebbe più corretto dire gli spazi – è una struttura dinamica, non un semplice contenitore di oggetti e corpi. Struttura dinamica perché mutevole, cangiante; cambia infatti di forma, di senso, di colore. Cambia in continuazione il proprio rapporto con i personaggi che lo abitano (anche se l’abitare in Lynch ha sempre qualcosa di problematico). Come scrive Roy Menarini: «L’intero concetto di spazio, nell’opera di questo regista, è sottoposto a radicale revisione»1. È attraverso l’esplorazione degli spazi che quindi emerge la prima forma di riconfigurazione del cinema in Lynch, il primo grado di spostamento dello sguardo che ha permesso al regista di Missoula di reinventare teoricamente e praticamente la forma cinema.
Il paesaggio del corpo. Six Figures La parola italiana «paesaggio» contiene in sé il termine «paese» che deriva dal latino «pagus» (villaggio) o, più anticamente, da «pangere» (conficcare). Il paesaggio – inteso anche come tema pittorico – non è mai completamente alieno dall’elemento umano. Ogni paesaggio è allo stesso tempo naturale e antropomorfizzato, come ben sapeva Ejzen‰tejn quando analizzava le opere di El Greco. Di più, aggiunge Lynch, l’elemento umano e l’elemento naturale non si confondono nel paesaggio, ma si mostrano uniti dallo stesso sguardo.
1. Roy Menarini, Il cinema di David Lynch, Falsopiano, Alessandria 2002, p. 58.
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Nei primi lavori di Lynch emerge con forza la problematizzazione dello sfondo, dell’inquadratura come paesaggio. Già in Six Figures è il rapporto stesso tra cinema e pittura ad essere messo in gioco. I corpi delle sei figure che compongono la scena non si stagliano contro nulla; non c’è sfondo, non c’è paesaggio. I bordi dell’inquadratura contengono i torsi, le braccia, le teste dei personaggi. Sono solo questi a comporre la scena, l’inquadratura riempie tutto lo schermo. Il film – di animazione – mostra sei figure che si muovono, si contorcono, vomitano. Si distinguono solo le braccia e le teste. Muovendosi, le figure sembrano uscire dallo schermo. In origine il film doveva essere proiettato su uno schermo in rilievo da cui emergevano delle teste e delle braccia; rilievi a cui aderivano le figure in movimento, creando così oggetti corporei in continua trasformazione. Sin da Six Figures, la prima forma del paesaggio è l’immagine del corpo smembrato, il corpo come oggetto in movimento, isolato come dettaglio, che diventa allo stesso tempo astratto e concreto, fisico e immateriale2. Come in uno degli spot pubblicitari recenti girati da Lynch per la Nissan, Do You Speak Micra?, lo schermo inquadra una bocca carnosa, femminile, dipinta di un blu brillante che emerge, senza i contorni del viso, isolata su uno sfondo sfocato, in cui si intravedono delle luci colorate. L’occhio è costretto a concentrarsi su quella bocca che si muove e parla, pronunciando parole che nella versione corta dello spot sono incomprensibili e vagamente magiche («modtrò, semplogica, sigile»3). L’assenza di uno sfondo, il farsi paesaggio mobile e oscenamente carnoso della bocca femminile in primissimo piano sullo schermo rendono lo spot inquietante ed ipnotico. Ma il corpo smembrato, il dettaglio esiste in quanto c’è 2. Sul dettaglio come cifra stilistica di Lynch (su cui torneremo nei prossimi capitoli), si sofferma Federico Chiacchiari in La provincia americana secondo David Lynch, in David Lynch. Film, visioni e incubi da Six Figures a Twin Peaks, Sorbini, Roma 1991, p. 19. 3. Le parole, in realtà, sono composte da parti di altri termini: Modtrò = Moderna/retrò, Semplogica = Semplice/tecnologica, Sigile = Sicura/agile. Un esempio del lavoro lynchiano sul linguaggio di cui parleremo in seguito.
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un contesto (lo sfondo, le luci sfocate) in cui sembra sospeso o immerso. Per quanto lo si possa sminuire, il problema dello sfondo, del contesto, del paesaggio permane anche in Six Figures. Nonostante il lavoro di Lynch nel suo primo film sia stato quello di eliminare lo sfondo, di trasformare le membra stesse in paesaggi, in realtà uno sfondo c’è, esiste, si manifesta nonostante tutto. Come nota Chion, Lynch riprende le figure da troppo lontano e l’inquadratura risultante – più larga dei disegni – lascia una cornice bianca4. È un errore tecnico, certo, dovuto all’inesperienza del giovane regista, ma lascia aperto un problema teorico: quello appunto della permanenza di uno sfondo, di un paesaggio che comprende le figure, che le circonda e le penetra. È il problema su cui si fonda il cinema stesso, la sua possibilità di movimento continuo nel paesaggio costituito da ciò che è nell’inquadratura e da ciò che – non meno importante – rimane fuori campo. Ed è, non meno importante, il problema su cui si fonda gran parte del dibattito filosofico contemporaneo, da Nietzsche ad Heidegger, impegnati entrambi sul problema dell’orizzonte come limite, come necessario contesto entro il quale il soggetto è gettato, è condizionato nella sua possibilità d’azione. Su questo problema Lynch incentrerà le sue prove successive.
Mondi: Eraserhead In Eraserhead tutto si sviluppa a partire da un problema di luoghi. Dove siamo? Qual è il luogo, il paesaggio del film? È la domanda che inevitabilmente ci si pone sin dalle prime immagini. L’apertura è sulla testa di un uomo (Henry, il protagonista) in posizione supina, come galleggiante nello spazio, in sovrapposizione ad un pianeta. La testa esce dall’inquadratura verso sinistra. La macchina da presa compie un movimento di avvicinamento al pianeta; stacco di montaggio, la ripresa mostra dei canaloni e dei rilievi rocciosi. Lo schermo diventa nero, la macchina da presa inquadra una 4. Michel Chion, David Lynch, cit., p. 20.
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paratia di metallo con un foro al centro. Il foro si ingrandisce sempre di più, stacco. Siamo in una stanza oscura: accanto alla finestra c’è un uomo a torso nudo, stacco. Inquadratura di Henry a bocca aperta disteso su un fianco; dalla bocca gli esce un piccolo verme bianco simile ad uno spermatozoo. Inquadratura dell’uomo che aziona una leva in un macchinario di fronte a lui. L’uomo tira una seconda leva, stacco. Un foro nella formazione rocciosa, è pieno di un liquido denso all’interno, stacco. L’uomo tira una terza leva. Il verme/spermatozoo precipita nel liquido. L’inquadratura sfuma al nero, dal nero emerge un foro da cui proviene una luce bianca; la macchina da presa si avvicina, fino a che lo schermo non diventa bianco. La prima sequenza di Eraserhead funziona in pratica come una «cornice»: ci introduce letteralmente all’interno di un mondo (l’immagine iniziale del pianeta); un mondo il cui paesaggio è formato dalle rocce e dai corpi (la sovrapposizione della testa di Henry con il pianeta). Lynch affronta qui il problema emerso in Six Figures – attraverso i passaggi obbligati dei due cortometraggi, Alphabet e Grandmother, di cui parleremo in seguito –, quello dello sfondo su cui si stagliano oggetti e personaggi; e lo affronta rovesciandolo dall’interno. Sin dal prologo iniziale, Lynch confonde i termini del rapporto: non è chiaro né dove siamo né che cosa si sta rappresentando. Eppure la sequenza è narrativamente lineare, tutto sembra svilupparsi secondo un rapporto causa ed effetto, il montaggio sembra costruire una narrazione chiaramente concatenata5. In altre parole, lo spazio del film, lo spazio in cui il film ha luogo sembra non esistere se non nel film stesso, nella struttura e nelle immagini del film che, dunque, non rappresenta un mondo, è esso stesso mondo. Un mondo chiuso in se stesso, che genera da sé le proprie regole, i propri spazi interni e i propri linguaggi e che non allude ad un fuori che lo contiene: «In questa mise en 5. Sulla linearità narrativa di Eraserhead insiste Chion, in David Lynch, cit., pp. 53-54: «Il film non ha affatto la pretesa di rivoluzionare il linguaggio cinematografico e non opera su questo piano; è un film narrativo e dialogato, con un eroe principale e una storia lineare, malgrado i suoi buchi e le sue incongruenze».
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abîme del sogno (o dell’incubo) non esistono spazi di fuga perché non esiste un altrove verso il quale fuggire»6. Come afferma Chion: «L’eroe di tutte le opere di Lynch abita un quadro, una totalità, un mondo che è la sua bolla d’aria, il suo “fumetto” e il suo ambiente di nascita che, come ci viene fatto vedere, lo comprende lo rinchiude e lo imprigiona. Questo mondo viene esposto all’inizio del film»7. La costruzione del mondo è spesso annunciata, esposta ed esibita all’inizio, in una sorta di prologo in cui lo spazio del film viene dispiegato: è così in The Elephant Man, con le immagini visionarie della mandria di elefanti e del volto della madre di John Merrick; è così in Dune, che si apre con il primo piano del volto della principessa Irulan sospesa nello spazio che introduce lo spettatore all’interno del complesso universo del pianeta Arrakis. La prima eredità del pittorico nel cinema è dunque connessa all’idea di film come mondo, costruibile ed abitabile: «Nei miei film si trovano sempre “mondi strani” dove non è possibile entrare a meno di costruirli e filmarli. È questo che per me è importante nel cinema»8. Mondo introdotto da una cornice che ne stabilisce i confini, in un certo senso. Ma la cornice non rinchiude fino in fondo, nel cinema come in pittura. Il tratto o il bordo, la cornice o l’inquadratura si instaurano ritraendosi, dando luogo ad uno spazio che prima non esisteva. Lynch esplora il cinema come dimensione spaziale, apertura, ma non in senso semplicemente geografico. Nel cinema come nella filosofia, non si tratta più, come nota Nancy: «Di prendere visione o di affinare la vista del mondo, dell’essere o del senso, ma si tratta piuttosto di aprire uno spazio che inizialmente non è visibile, di aprire uno spazio per una vista, o uno spazio di vista, che non sarà più uno spazio dinanzi ad uno sguardo»9. Il cinema dunque, non è vi6. Riccardo Caccia, David Lynch, cit., p. 30. 7. Michel Chion David Lynch, cit., p. 216. 8. Ralph Rugoff, David Lynch and Laura Dern cut loose, in «Première» (USA), 1990, vol. 4, n. 1. 9. Jean-Luc Nancy, Essere singolare plurale, Einaudi, Torino 2001, p. XI.
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sto come il dispiegamento di uno spettacolo per uno sguardo già esistente, ma diventa il luogo, lo spazio entro cui si può creare uno sguardo. Perché questo sguardo si crei, il film non deve cercare di rinviare ad una realtà esterna di cui sarebbe la copia, ma deve cercare di arricchire e di modificare l’immagine in modo da far apparire non il reale, ma il suo insondabile mistero. Tornando ad Eraserhead allora, l’impronta magrittiana nel primo film di Lynch si rende ancora più evidente. Il pittorico in Magritte agisce come apertura di un mondo in cui si crea uno sguardo incerto, sospeso nell’indecidibilità del senso di ciò che sta vedendo. I corpi e gli oggetti sono lì, nella loro evidenza e, proprio per questo, nel loro mistero. Come nella pittura di Magritte, Eraserhead dispiega oggetti quotidiani, corpi e narrazioni apparentemente riconoscibili e, allo stesso tempo, integrati in un mondo altro, le cui regole non sono conosciute. Un mondo, quello del film, che ne contiene altri, dalla stanza di Henry, alla casa dei genitori di Mary, la sua fidanzata, al radiatore che contiene il teatro in miniatura, dove la piccola figura femminile dalle guance deformi canta «In Heaven Everything is Fine». Mondi isolati che contengono altri mondi, in un gioco ad incastri di non facile soluzione, ma che costituisce – come già Lynch mette in chiaro sin dal primo lungometraggio – il cinema stesso come apertura di uno spazio. Spazio intensivo, si è detto, mondo che non si apre verso l’esterno, ma procede all’interno (come i micromondi di Eraserhead), se mai riflettendosi in altri film, in altre immagini: «Il cinema di Lynch si specchia su se stesso, in uno specchio moltiplicato all’infinito, dove i pezzi della sua superficie plurale devono venire costantemente infranti e riuniti»10. I mondi producono altri mondi nel cinema lynchiano, si riprendono e si riproducono di film in film, o da un film ad un quadro, da una pubblicità ad un videoclip. Eraserhead, 10. Giuseppe Gariazzo, Come una goccia d’acqua: la visione «rallentata» da Eraserhead a Una storia vera, in «Garage»: speciale David Lynch, n. 17, 2000, p. 134.
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matrice poetico-teorica del cinema, si dissemina e si contagia in altre forme e in altre immagini.
Micromondi: The Third Place/Dumbland/Rabbits In un bianco e nero sgranato e carico di effetti deformanti la macchina da presa inquadra frontalmente procedendo all’indietro un uomo che cammina lungo uno stretto corridoio, guardando fisso di fronte a sé. Le pareti del corridoio sembrano forate e dai buchi si intravede l’immagine di uno spazio stellato, come se il corridoio fosse sospeso nello spazio. L’uomo, vestito di scuro, sembra sempre di più avvicinarsi a noi – identificati nella soggettiva della macchina da presa –; la sua testa diventa più grande man mano che si avvicina; poi, improvvisamente compie un rapido movimento verso il basso e poi a destra, e lì capiamo che non è l’uomo ad avvicinarsi a noi quanto la testa che si è staccata dal corpo e sta vagando, svincolatasi all’improvviso dallo sguardo della macchina da presa. Ed ecco che allora, in un rapido stacco di montaggio, la scena si apre mostrandoci ciò che l’uomo (la sua testa) sta guardando: il corridoio è sparito e dinanzi a noi si stagliano tre figure in uno sfondo ampio e bianco come una gigantesca nuvola. Immediatamente vediamo che non si tratta di uomini, ma di mostri antropomorfi: un uccello con un occhio solo, una mummia che lascia intravedere la carne dalle pieghe delle fasce, un mostro dal volto scuro. Le inquadrature si susseguono mostrandoci in primo piano i volti dei mostri, poi, improvvisamente la scena dissolve in nero e sullo schermo compare la scritta «PS2». Fine. Si tratta di uno degli spot pubblicitari – dal titolo The Third Place – girati da David Lynch, che reclamizza l’ultima evoluzione della consolle di videogiochi della Sony, la Playstation 2, appunto. Lynch, che non è nuovo per quel che riguarda la produzione di spot pubblicitari, produce un oggetto strano, che non segue le regole informative della pubblicità audiovisiva, ma sembra al contrario reagire a queste, modellando un’im49
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magine che necessariamente entra in contrasto, si distacca, crea una frattura nel flusso della fruizione televisiva, pur nutrendosi delle forme e delle figure della televisione ma sviandole e piegandole al cinema, come diceva Daney a proposito di Twin Peaks 11. La Playstation 2 è un prodotto dalla forte carica simbolica, oggetto del desiderio dalla forma evocativa (è un parallelepipedo nero e lucido, straordinariamente simile al monolite kubrickiano); in fondo rappresenta, della merce, la sua potenza immateriale, la sua capacità di essere segno, di creare senso prima ancora che ad esso corrisponda un oggetto reale (o perlomeno materiale). Nelle immagini dello spot, Lynch concretizza tutto questo, lo rielabora nei pochi secondi a disposizione, creando un prodotto che, se da una parte soddisfa le esigenze della committenza, dall’altra si trasforma in un luogo altro, di interrogazione, di riflessione sulle forme di elaborazione dell’immagine. The Third Place infatti va oltre gli obiettivi di uno spot, non tanto perché vuole essere cinema, quanto perché del cinema (e del cinema di Lynch in particolare) conserva la capacità di «eccedere» il suo significato. Lo spot sembra allora emanarsi direttamente dalle atmosfere e dal mondo di Eraserhead, costituisce in un certo senso uno dei micromondi che, si diceva, si producono incessantemente a partire dal primo lungometraggio del regista americano. In questo senso, lo spazio lynchiano comincia a connotarsi come un universo dotato di leggi fisiche peculiari, nel senso che il cinema produce automaticamente – ed è una cosa che Lynch sperimenta di film in film – una fisica, una dinamica della materia complessa e in perenne movimento di leibniziana memoria: Dividendosi di continuo, le parti della materia formano piccoli vortici in un vortice e, in questi ultimi, altri più piccoli, e altri ancora negli intervalli concavi dei vortici che si toccano. La materia presenta dunque una contestura infinitamente porosa, spugnosa o erosa senza presentare dei vuoti, ma sempre come una 11. Serge Daney, Il cinema, e oltre. Diari 1988-1991, Il Castoro, Milano 1997, p. 263.
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caverna nella caverna: ogni corpo, per quanto sia piccolo, contiene un mondo, poiché è percorso da passaggi irregolari, circondato e penetrato da un fluido sempre più sottile12.
Ecco allora che, pur nella differenza di formato e di destinazione, i distinti prodotti lynchiani possono essere visti all’interno di una logica generativa della materia filmica, in cui un film – come un vortice leibniziano – forma un altro film, lo genera al suo interno, come un mondo dentro un mondo. In fondo lo spot si presenta come un sogno, un incubo quasi. Del sogno conserva infatti la sua sospensione, la rottura dei nessi logici e della linearità narrativa. Ma, soprattutto, del sogno conserva la capacità di eccedere ogni facile decodificazione, di produrre senso «in più». Lo spot dunque va di là da se stesso, deborda dai suoi confini espressivi, dalla sua intenzionalità e diventa qualcosa d’altro, diventa anche qualcosa d’altro. È la merce-Playstation 2 a scatenare la potenza espressiva del sogno lynchiano; corpi che si smembrano, perdono la testa, innescano visioni mostruose: un immaginario «irreale» che suggerisce l’entrata mentale (la testa, gli occhi) in un mondo «altro», il mondo sempre più iperrealistico delle consolle dell’ultima generazione. Un mondo che si presenta (quando lo stacco di montaggio rovescia la prospettiva), come popolato da un pantheon di divinità mostruose, su cui Lynch si sofferma accarezzandone i dettagli, le teste dall’unico occhio. Ciò che domina allora questo altro mondo visto da una testa separata dal corpo, è una costante sensazione di inquietudine, in cui la fascinazione della merce ipertecnologica diventa scoperta di un «disagio» di fronte ad un sogno perturbante, ad un oggetto che, sempre più presente nell’immaginario contemporaneo, crea mondi in cui immergersi totalmente, in cui perdersi. I mondi si moltiplicano in Lynch anche a partire dal sup12. Gilles Deleuze, La piega. Leibniz e il barocco, Einaudi, Torino 1990, p. 8.
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porto tecnologico di produzione e riproduzione dell’immagine. Da qualche tempo il regista americano ha aperto a sue spese un sito internet (www.davidlynch.com), in cui, più che informazioni sul regista (la rete è piena di siti più o meno ufficiali dedicati a registi ed attori), è possibile esplorare le ultime ricerche di Lynch in fatto di immagini. Il sito è infatti studiato per essere un ulteriore universo filmico, adattato alle esigenze dello schermo di un pc, sia per quanto riguarda i film presenti, sia per quanto riguarda la loro produzione. Lynch ha sperimentato e presentato nel sito diversi lavori, brevi film realizzati con varie tecniche di animazione – come il serial Dumbland, realizzato con il linguaggio di animazione digitale Flash – o di ripresa – come Rabbits, girato con una videocamera DV. Due prodotti diversi, ma che entrano di diritto in quel processo di moltiplicazione delle forme e degli spazi filmici che Lynch ha sviluppato nel corso di tutta la sua opera. Dumbland è un serial di animazione, molto semplice nei tratti (disegni in bianco e nero, personaggi ed ambienti appena tratteggiati in uno stile volutamente infantile) che racconta le avventure di un personaggio disgustoso alle prese con le piccole tragedie della vita. Il primitivismo dei disegni, la voluta rozzezza delle forme e dell’animazione lo fa immediatamente diventare una sorta di ritorno ad un arcaismo cinematografico, di grado zero dell’animazione, un mondo a parte che si sviluppa (e ha luogo) nel non-luogo della rete, spazio virtuale per eccellenza, privo di un territorio dove radicarsi. Allo stesso modo, la semplicità di Rabbits (storie di esseri viventi con il corpo di uomini e la testa di conigli), la sua collocazione spaziale determinata e limitata (Rabbits si svolge in una stanza che è una delle stanze della casa di Lynch a Los Angeles), rende ancora più surreale l’atmosfera del film. Lo schermo del computer diventa allora un mondo ulteriore, uno nuovo spazio di visione che si apre di fronte allo sguardo e che, come tale, necessita di propri linguaggi e di specifiche forme di fruizione, tutte da sperimentare: Internet, secondo me, offre delle opportunità per sperimentare, così io posso provare una piccola porzione di qualcosa e questo può portarmi verso un mondo totalmente altro. Potrebbe
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trasportarmi verso un nuovo film, o forse no. Si basa tutto sulle idee e sulla possibilità di realizzarle, anche solo a partire da un piccolo frammento. Ma internet va bene per i piccoli frammenti che possono spalancarci interi mondi13.
Anche la rete diventa quindi la possibilità di apertura di uno spazio, di un mondo che contiene in potenza altri mondi, altre possibilità di visione di un reale sempre più stratificato. Questo, dunque, il significato di cinema-merce per Lynch: la possibilità di esplorare le forme in cui l’immagine è sempre più legata al flusso della sua mercificazione; la possibilità, in altre parole, di entrare nei meccanismi della visione «commerciabile» per estrinsecarne il lato oscuro, l’inquietante, ciò che si sottrae al piacere ludico dell’oggetto. Una strategia di resistenza che utilizza il cinema e penetra in profondità nelle sue forme (comprese quelle meno cinematografiche in apparenza come la pubblicità) non tanto per decostruirle – termine fin troppo abusato negli ultimi tempi – quanto per renderle continuamente produttive, al di là di se stesse.
Stanze La stanza di Henry in Eraserhead è la matrice, il luogo primario, la forma produttiva delle centinaia di stanze che costellano il cinema di Lynch14. Stanza che assume un valore particolare, perché, come ricorda lo stesso Lynch, in quella stanza il regista stesso visse durante la lavorazione del film, dopo la rottura del suo primo matrimonio con Peggy. In quella stanza il giovane regista lavorò per anni alla realizzazione del suo primo lungometraggio e in quella stanza – soprattutto – si concentra l’intero universo del 13. Dichiarazione di Lynch presente nel sito a lui dedicato www.the cityofabsurdity.com. 14. È ancora Chion in fondo a definire Eraserhead «un perfetto filmnido», in David Lynch, cit., p. 53.
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film. La presenza costante, ossessiva e molteplice di stanze nel cinema di Lynch non è casuale. La stanza è una monade, momento e luogo di passaggio dal pittorico al cinematografico. Le stanze sono monadi perché, come dice Leibniz, «non hanno finestre, attraverso le quali qualcosa vi possa entrare o uscire»15. La monade è una stanza dove ogni azione è interna, una cellula che possiede un fondo scuro da cui trae ogni cosa, da cui si genera ogni corpo e ogni immagine. La stanza è vicina al quadro per la limitatezza delle dimensioni e la presenza dei bordi-pareti come limiti del quadro-stanza. Ma la stanza cinematografica è il prolungamento o, piuttosto, il rovesciamento del quadro. Perché se il quadro è anche «finestra», apertura verso l’esterno, la stanza è al contrario l’autonomia dell’interno. È notevole il rapporto speculare in questo senso tra il cinema e la pittura lynchiana: nella maggior parte dei casi, i quadri di Lynch sono punti di vista dall’esterno, spesso immagini di facciate e di case, mai di stanze. Da Shadow of a Twisted Hand Across My House (1988), passando per Oh God Mom, the Dog He Bited Me (1988), fino a Here I Am – Me as a House (1990), la pittura di Lynch sembra assolutizzare l’esterno. Le case appaiono come figure contornate su sfondi oscuri; in Here I Am – Me as a House, la silhouette di una casa sospesa sul nulla sembra prolungarsi in una figura umana evanescente, fantasmatica; lo sfondo rimane un oscuro impasto di colori, la casa e il fantasma sono perfettamente al centro. In Shadow of a Twisted Hand Across My House e in Oh God Mom, the Dog He Bited Me figura o membra umane circondano la casa, che rimane una silhouette densa e inavvicinabile. La densità e l’immobilità delle facciate-quadro alludono in Lynch ad un interno, ad una stanza che solo il cinema può rendere in tutta la sua dinamica immobilità.
15. Gottfried Wilhelm Leibniz, Monadologia, in Scritti filosofici, I, Utet, Torino 1967-68, p. 283.
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La falsa immobilità: Hotel Room, Red Room Dopo l’insuccesso di un film di sperimentazione pura come Twin Peaks – Fuoco cammina con me, e prima del ritorno di Lynch al grande schermo, il regista del Montana si dedica a vari progetti, tra i quali (in collaborazione con l’amico e collaboratore Monty Montgomery, che interpreterà il cowboy misterioso in Mulholland Drive) il progetto di una serie televisiva dal titolo Hotel Room, basata sull’idea di una serie di storie (tre per episodio) ambientate nella stessa camera d’albergo, la stanza 603 di un hotel newyorkese. Il progetto non va in porto e della serie rimane solo il «pilota», composto da tre episodi (il primo Tricks e il terzo, Blackout, diretti da Lynch e scritti da Barry Gifford; il secondo, Gettin’ Rid of Robert, scritto da Jay McInerney e diretto da James Signorelli). Hotel Room, come spesso accade per i prodotti solo in apparenza «minori» di Lynch, si configura come film-laboratorio, sperimentazione filmica dell’immagine. Qui, la falsa dialettica interno-esterno, stanza-facciata emerge dichiaratamente: il film è la stanza, si sviluppa narrativamente e come forma nella e dalla stanza. Il cinema allude alla pittura, la rinchiude nella citazione, nel quadro come chiusura, inquadratura nell’inquadratura. Il film esplora l’interno perché il cinema ha la possibilità di farlo, sembra dire Lynch; in questo senso, i due episodi diretti da Lynch in Hotel Room si configurano proprio come viaggi verso l’interno della stanza, viaggi, cioè all’interno dei meccanismi genetici del cinema. Viaggi fisici e mentali al tempo stesso. In tutti e tre gli episodi di Hotel Room, la decorazione della stanza 603 cambia a seconda del periodo in cui si svolge la storia (gli episodi sono rispettivamente ambientati nel 1969, nel 1992 e nel 1936). I quadri alle pareti cambiano ma non cambiano i soggetti, modelli di locomotive dagli anni quaranta ai principi del secolo scorso. L’estrema immobilità della macchina da presa contrasta con la mobilità del treno, sorta di gemello, o alter ego del cinema16. 16. Sulle convergenze simboliche tra treno e cinema esiste una vastissima letteratura sin dai primi scritti teorici sul cinema. Scrive (in tem-
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Immobilità della macchina da presa, si è detto. Sì, perché soprattutto nel passaggio dal primo al terzo episodio lo spettatore si trova di fronte una sorta di grado zero del movimento filmico. Come afferma Andrés Hispano a proposito di Blackout: La messa in scena di Lynch è sobria, quasi spartana, con tonalità soavi, mentre dominano il rosso e il nero quando cala l’oscurità. La realizzazione è semplice, frontale, teatrale, inesistente nel senso migliore del termine (vale a dire impercettibile)17.
In Tricks («trucchi», «inganni», nella versione italiana «Clienti») Harry Dean Stanton (Boca) e Freddie Jones (Lou) sembrano essere due manifestazioni della stessa personalità, due corpi per un medesimo io, forme di sdoppiamento patologico di una stessa identità. La camera d’albergo contiene a fatica i movimenti di Boca e Lou intorno al corpo di Darlene, la prostituta che entra in albergo insieme a Boca; ancora, i movimenti dei due lungo la stanza moltiplicano gli spazi, le dimensioni del minuscolo locale che sembra esplodere verso l’esterno per la tensione accumulata. Tanto che, nel finale, i movimenti dei corpi sono caratterizzati dalla rotture del fragile rapporto esterno-interno: la fuga di Darlene dalla stanza e l’arrivo della polizia che arresta Boca, interrompono l’accumulo di parole e tensione che caratterizza la prima parte dell’episodio. Il percorso mentale (la mente che si sdoppia in due corpi: Boca e Lou sono la stessa persona) si riflette nella strutturazione dello spazio e dei movimenti dei corpi nello spazio fino all’intrusione finale, all’esplosione del fragile e illusorio equilibrio. pi recenti) Jean-Louis Leutrat: «La ferrovia operò un rimodellamento dell’esperienza spaziale e temporale. Aprendo nuovi spazi, talvolta su scala continentale, accelera gli spostamenti, costringe ad una standardizzazione dei riferimenti temporali. Il treno è soprattutto un luogo in cui il viaggiatore immobile è seduto e guarda scorrere davanti a sé uno “spettacolo” chiuso in una cornice», in Il cinema in prospettiva: una storia, Le mani, Recco-Genova 1997, p. 16. 17. Andrés Hispano, David Lynch, Claroscuro americano, Glénat, Madrid 1998, p. 265.
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In Blackout, Crispin Glover (Danny) e Alicia Witt (Diane) si trovano nella stanza 603 durante un blackout di energia elettrica che lascia al buio l’intera città. L’oscurità che li avvolge costringe i due a rimanere nella loro stanza d’albergo. Sono vicini, l’uno accanto all’altro, circondati dal buio. I loro discorsi lasciano capire allo spettatore che una tragedia (la perdita di un figlio) ha sconvolto la mente di Diane e che i due sono venuti a New York per incontrare un famoso specialista di malattie mentali. Contrariamente al primo episodio, la macchina da presa economizza i movimenti, lasciando solo ogni tanto libero spazio ad un fuoricampo apparentemente senza senso, come le inquadrature di angoli della stanza, dello specchio, del riflesso di un lampo sulla parete buia. La maggior parete delle inquadrature sono però primi o primissimi piani dei volti dei due attori, le cui parole e le cui espressioni diventano il set del film, annullando quasi la dimensione fisica della stanza. Non si tratta di un recupero della dimensione teatrale – il kammerspiel televisivo – ma del raggiungimento del limite del cinematografico, del punto di intersezione tra il movimento e l’immobilità. Oltre questo punto c’è solo la scomparsa del cinema, il ritorno al pittorico, all’immagine, cioè, senza movimento. Questa doppia valenza della stanza – allo stesso tempo limite e messa in scena dell’origine del cinema – trova la sua massima espressione nella Red Room di Twin Peaks e di Fuoco cammina con me, momento di esplosione dello spazio cartesiano, luogo cinematografico per eccellenza. Proprio della Red Room come luogo teorico centrale del cinema di Lynch si occupa Flavio de Bernardinis in un recente saggio: La Stanza Rossa in Twin Peaks, nonluogo dove ci si trova faccia a faccia coi demoni, ma anche cogli angeli, come nel finale di Twin Peaks – Fuoco cammina con me! è l’interzona dove il bene e il male si scambiano continuamente le parti. Si tratta, a ben vedere, di un condensatore di particelle, un campo di onde elettromagnetiche, come dimostrano tanto i disegni sul pavimento che alludono ad una dinamica tipicamente ondulatoria, quanto il monitor televisivo a neve, privo di segnale, che spesso funziona come varco od entrata. La copresenza di bene
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e male, vibranti di particelle che si aggregano e si disintegrano nello spaziotempo, costituisce il nucleo dell’enigma18.
Nell’interpretazione di De Bernardinis, la Red Room (come ogni altra «stanza» del cinema lynchiano) funziona come messa in immagine del dispositivo cinematografico, inteso come meccanismo, «macchina che “sente” l’astratto e ne dà una rappresentazione osservabile nel concreto»19. In particolare, continua De Bernardinis, la compresenza di astratto e concreto nel cinema di Lynch si condensa proprio in questi luoghi che violano le leggi della fisica classica. È in questi luoghi che il cinema si mostra come «il primo linguaggio espressivo che raffigura il transito: mostra la chiave ruvida e metallica e fa sentire, raffigurando, riducendo a percezione mobile e continua, le condizioni di osservabilità, l’altro mondo di cui è composta; la realtà, in tal modo, non è affatto un’illusione, un teatro di apparenze sensibili e di sostanze immateriali, la realtà del cinema è l’astratto che si fa concreto e, parimenti, l’oggetto che mostra i livelli di astrazione di cui è composto»20. Dall’interpretazione di De Bernardinis alle teorie di Mario Perniola sulle tendenze contemporanee dell’arte il salto è breve. Se l’estetica, afferma Perniola, si è sviluppata nella modernità da una parte come celebrazione dell’apparenza e, dall’altra, come esperienza del reale, lo scenario attuale si presenta come sorta di sintesi tra le due tendenze, vale a dire come irruzione del reale nel mondo rarefatto e simbolico dell’arte: Ciò che caratterizza questo reale è la coincidenza di massima effettualità e di massima astrazione: in altre parole, esso non fa altro che portare alle estreme conseguenze quel processo di alienazione e di estraniazione che costituisce il motore della modernità21. 18. Flavio de Bernardinis, Ossessioni terminali. Apocalissi e riciclaggi alla fine del cinesecolo, Editori Associati, Ancona-Milano 1999, pp. 65-66. 19. Ivi, p. 66. 20. Ivi, p. 69. 21. Mario Perniola, L’arte e la sua ombra, Einaudi, Torino 2000, p. 5.
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Coincidenza di massima effettualità e di massima astrazione: concreto ed astratto. De Bernardinis aggiunge: è questo il risultato della percezione macchinica del cinema, di uno sguardo, cioè, che è oltreumano, non è riconducibile all’intenzionalità, al desiderio e ai sentimenti di un soggetto. Altra prospettiva è quella di Hispano, che invece riconosce alla Red Room una valenza cangiante e molteplice (soprattutto nel passaggio dalla serie televisiva al film): «Presentato a volte come purgatorio, altre come inconscio, altre ancora come inferno, si finisce per pensare che sia un luogo in cui può valere ogni cosa, una sorta di regno patafisico utilizzato ad hoc dai suoi creatori»22. Le varie modalità con cui la Red Room si materializza nel serial o nel film, indicano quindi, secondo Hispano, la creazione di uno spazio totalmente altro, puramente cinematografico, che è «un campo di battaglia per i nostri fantasmi. Uno spazio dove le frontiere non hanno senso, nel quale, occasionalmente, il nostro destino si incrocia con quello di un’altra persona che, a partire dal proprio conflitto illumina il nostro»23. Due interpretazioni, quelle di De Bernardinis e di Hispano, diverse ma non necessariamente in contrasto, accomunate anzi dal fatto di individuare nella Stanza un luogo centrale del cinema di Lynch. È vero però che analizzando più da vicino la presenza della Red Room in Twin Peaks, al di là dell’accento posto sulla percezione automatica e macchinica del cinema (De Bernardinis), e al di là dell’identificazione della stanza come uno spazio totalmente altro (Hispano), emerge un dato fondamentale: più che come territorio altro, zona d’interscambio tra diversi livelli di realtà, la Red Room funziona come condensato del cinema secondo Lynch, come amplificazione stessa dello sguardo cinematografico che si estende comunque lungo tutto il film, irrompendo in ogni spazio e in ogni corpo, in ogni oggetto e in ogni suono. In Fuoco cammina con me, Laura Palmer riceve dalla vecchia signora Chalfort e dal suo nipotino dalla enigmatica ma22. Andrés Hispano, David Lynch. Claroscuro americano, cit., p. 241 (trad. nostra). 23. Ivi, p. 242 (trad. nostra).
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schera bianca un quadro raffigurante una porta socchiusa da cui sembra provenire una luce. Quando la notte Laura appende il quadro alla parete della sua stanza la macchina da presa si avvicina lentamente alla porta raffigurata nel quadro. Appena i bordi dell’inquadratura coincidono perfettamente con i bordi del quadro, con una quasi invisibile dissolvenza incrociata, la porta dipinta si trasforma in una porta reale che dà su una stanza – si tratta naturalmente della Red Room – all’interno della quale si avventura lo sguardo della cinepresa. Un portale, un passaggio, un’apertura che immette in un altro mondo; questo sembra essere il suggerimento indotto dalla porta e dal quadro. Eppure tra la Red Room e la totalità degli spazi lynchiani non c’è una differenza qualitativa, ma solo una differenza d’intensità. Lo spazio della stanza è uno spazio intensivo, che condensa il tutto del reale. La differenza tra l’interno e l’esterno, tra la stanza e la facciata, che sia la Red Room oppure la stanza di Henry in Eraserhead, la stanza 603 di Hotel Room o la casa di Fred Madison in Lost Highway (Strade perdute), la stanzetta di John Merrick in The Elephant Man o la casa di Dorothy Vallens in Blue Velvet (Velluto blu) il passaggio (ogni passaggio), mette in evidenza proprio questo. La materia del mondo è fatta tutta di una identica sostanza, che sia materiale o immateriale, organica od inorganica. Tutto rimanda ad una visione spinoziana del cinema, in cui le connessioni, la “texture”24 del mondo ci è restituita attraverso l’immagine cinematografica.
Strade Se qualcosa risulta evidente sin da questi primi attraversamenti dei territori lynchiani è l’insostenibilità nel cinema di un rapporto chiaro e univoco tra reale e finzione. Il cinema 24. La parola “texture” in Lynch compare più volte nella descrizione della struttura delle immagini. Si potrebbe tradurre in italiano con “contestura” o “tessitura”, intesa come struttura complessa della materia e non semplicemente come modello dei rapporti tra gli elementi dell’immagine.
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come sguardo si inserisce di diritto nei solchi del pittorico, alludendo e praticando un concetto non rappresentativo di immagine, un uso del film né semplicemente come rispecchiamento del reale, né come creazione totale di un mondo di finzione (le due tendenze dell’estetica moderna di cui si è parlato prima seguendo Perniola). In questa piega dunque si configurano le immagini che, come si è visto, lavorano in profondità su una nuova concezione dell’idea di spazio che il cinema necessariamente propone. Se la stanza-monade si propone come luogo complesso, condensazione di strutture profonde del reale, annuncio e possibilità di visione di una realtà articolata e interconnessa, è proprio sulla connessione, sul legame tra i molteplici elementi del reale che il cinema di Lynch ritorna in continuazione. La stanza, anche nella sua autochiusura più estrema (vedi l’episodio Blackout di Hotel Room), allude sempre ad un controcampo, ad una strada che connetta le monadi. O, per meglio dire, che si configuri come se fosse il luogo attraverso cui connettere la dispersione degli elementi. L’apparente circolarità di Strade perdute 25, ad esempio, apre ad una serie di considerazioni in questo senso. La sequenza d’apertura, subito dopo i titoli di testa, ci mostra il primo piano di Fred Madison che emerge dal buio, illuminato solamente dalla brace della sigaretta che sta fumando. Il citofono suona e Fred va a rispondere. La voce all’altro capo del citofono pronuncia la frase: «Dick Laurent è morto». Fred va alla finestra ma la strada, vista dall’interno della stanza, è deserta. Alla fine del film, vediamo lo stesso Fred andare al citofono e pronunciare la stessa frase, prima di fuggire inseguito dalla polizia. Il ritorno-ripetizione non chiude il film, non lo riconsegna alla logica tradizionale, anzi. La connessione tra l’inizio e la fine, la stanza e la strada diventa l’enigma del film. Connessione e non opposizione tra inter25. Per quanto riguarda la circolarità apparente della narrazione nel film, Cfr. Pietro Montani, L’immaginazione narrativa. La dimensione oltrenarrativa del cinema, Guerini & associati, Milano 1999, pp. 89-99 e Riccardo Caccia, Strade perdute e ritrovate. La struttura narrativa in Lost Highway e The Straight Story, in «Bianco & nero», n. 3, 2000, pp. 30-47.
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no ed esterno. È in questa direzione dunque che occorre muoversi. Innanzitutto sgombriamo il campo da un possibile equivoco: l’apparente struttura on the road di alcuni dei film di Lynch è, appunto, solo apparente. Come sottolinea Giampiero Frasca, nella sua analisi di Wild at Heart (Cuore selvaggio) la presenza della strada nel cinema di Lynch non obbedisce alle regole codificate del road movie americano: La tendenza al nomadismo filmico in Cuore selvaggio gioca apertamente con le convenzioni del Road-movie, rimandando spazialmente ad un controcampo che non viene soddisfatto, che rimane slegato ed isola i personaggi nella loro solitudine prima cinematografica e poi esistenziale26.
Ma se Frasca interpreta la rottura dei codici iconici e narrativi del road movie nel cinema lynchiano come isolamento dei personaggi, sia cinematografico che esistenziale, la forma particolare che assume la strada nel cinema del regista di Cuore selvaggio potrebbe – seguendo la linea che abbiamo iniziato a tracciare – portarci verso altre (ed opposte) direzioni. L’assenza del controcampo in Cuore selvaggio, infatti, si sviluppa proprio a partire dallo sguardo di Sailor e Lula. Il viaggio on the road dei due non è che una superficie vuota; tutto il film è visto attraverso i loro occhi e le loro visioni. Lynch estremizza l’ambiente dal punto di vista della luce e del colore («tutto ciò che era luminoso l’ho reso un po’ più luminoso e tutto ciò che era nero un po’ più nero»)27, affinché lo spazio attraversato dai due protagonisti e i corpi mostruosi e deformi che abbondano nel film emergano come irreali, frutto di una allucinazione che distorce la realtà. Il mondo di Cuore selvaggio è un mondo da favola, ma è una favola crudele come Il mago di Oz, il romanzo di Baum più volte citato nel film. Anche le se26. Giampiero Frasca, On the road per meditare sulla vita umana, in «Garage», n. 17, 2000, pp. 70-72. Frasca prosegue poi la sua analisi mettendo in evidenza la particolarità della strada nel cinema di Lynch anche in Strade perdute e Una storia vera. 27. Lynch secondo Lynch, cit., p. 275.
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quenze più estreme – dalla morte di Sherilyn Fenn che stramazza al suolo sotto lo sguardo di Sailor e Lula a quelle di Johnnie Farragut (Henry Dean Stanton) o di Bobby Peru (Willem Dafoe) – sembrano immerse in una atmosfera irreale, distorta dallo sguardo dei due innamorati, che sembrano allora non credere alla realtà dei corpi e dei luoghi che attraversano28. La strada nel film è dunque solo apparente, le immagini sono il prodotto di uno sguardo che non è esterno ai personaggi, per quanto bizzarro o distorto esso sia. Ma la strada come Figura filmica ritorna in Lynch prepotentemente, ancora una volta al di fuori delle convenzioni del road movie hollywoodiano, ma sempre come interrogativo, problema filmico che rimanda ad un problema ontologico, come vedremo. Come esempi emblematici della messa in forma (filmica) della strada abbiamo allora scelto tre film che formano (e cercheremo di evidenziare i motivi) una ideale trilogia nel corpus lynchiano: Strade perdute, Una storia vera e Mulholland Drive. Trilogia non annunciata dal regista ma facilmente identificabile29, che lavora in modo consapevole sulla struttura profonda della connessione, sulla possibilità stessa del connettere.
Tour/detour: Strade perdute I titoli di testa scorrono davanti a noi. Una strada buia illuminata solo dalle luci di un’auto che corre (in soggettiva) a folle velocità. La linea di mezzeria scorre veloce in mez28. Lynch scelse per la scena della ragazza che muore per l’incidente d’auto l’attrice Sherilyn Fenn (una delle attrici di Twin Peaks) proprio per il suo aspetto inorganico: «Sherilyn Fenn mi ha sempre ricordato una bambola di porcellana. E vedere una bambola di porcellana rotta...», in Lynch secondo Lynch, cit., p. 280. 29. Il riconoscimento di questi tre film come formanti una trilogia era stata già fatta da Roy Menarini (in Il cinema di David Lynch, cit., pp. 12-14), il quale, suddividendo in «fasi» la produzione lynchiana afferma che i tre film appartengono alla cosiddetta epoca «circolare» del cinema di Lynch, in cui lo sperimentalismo si coniuga con le forme e i temi dei film di maggiore successo del regista.
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zo all’inquadratura, mostrando i quasi impercettibili scarti della ripresa fatta a grande velocità dall’interno della vettura. In sottofondo la musica secca e ritmata di David Bowie (I’m Deranged). Strade perdute inizia così, annunciandosi immediatamente come elemento destabilizzante, rottura dei codici filmici e narrativi che trovano la loro più compiuta realizzazione nella polarità tra la prima e l’ultima sequenza come si è detto sopra. La strada, di cui non sappiamo né l’origine né il punto terminale, è subito mostrata in primo piano, come si vedrà, luogo centrale e problematico del film. La struttura del film non è sintetizzabile facilmente: Fred Madison (Bill Pullman), sassofonista jazz, abita a Los Angeles con la moglie Renée (Patricia Arquette), di cui è gelosissimo. Durante un ricevimento a casa di Andy, un amico di Renée, Fred conosce un uomo misterioso (Robert Blake) che gli dimostra di essere contemporaneamente alla festa e a casa di Fred (poiché risponde al telefono della sua casa mentre si trova alla festa). Sconvolto, Fred riporta Renée a casa. I due ricevono delle misteriose videocassette che contengono riprese della loro casa dall’esterno e dall’interno. Nell’ultima videocassetta Fred vede il corpo orrendamente mutilato di Renée. Fred viene arrestato e condannato per uxoricidio, ma mentre attende l’esecuzione della condanna in cella, letteralmente diventa un altro, Pete Dayton (Balthazar Getty), di professione meccanico. Pete viene scarcerato e ritorna al lavoro. Qui incontra Eddy (Robert Loggia), un gangster, e la sua donna Alice (Patricia Arquette), con cui instaura una relazione. Alice lo costringe ad uccidere Andy (anche se accidentalmente). Dopo essere stati in un luogo misterioso, il “Lost Highway Hotel”, i due amanti vanno verso un capanno in riva al mare e fanno l’amore. Alice se ne va, schernendo Pete che subito dopo si rialza di nuovo nei panni di Fred. Dal capanno esce l’uomo misterioso che spiega a Fred che Alice si chiama in realtà Renée. Lo porta di nuovo sulla spiaggia dove c’è Eddy legato e ferito. Istigato dall’uomo misterioso, Fred uccide Eddy e fugge inseguito dalla polizia, non prima di aver citofonato a se stesso, pronunciando le parole: «Dick Laurent è morto». Il senso si sottrae, attraverso un 64
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ricorso lucido e consapevole all’ellissi. Confrontando la sceneggiatura originale con il film, si possono scoprire i tagli che Lynch ha effettuato in fase di ripresa e di montaggio, eliminando ogni segmento che potesse fungere da esplicazione o da raccordo tra le immagini e gli episodi30. Andiamo con ordine, iniziando da due letture del film che ci introducono alle tematiche di cui stiamo discutendo. Pietro Montani, nel suo testo dedicato all’immaginazione narrativa, all’indagine cioè del cinema come forma attraverso la quale fare esperienza del darsi del mondo inteso come narrazione, si sofferma proprio su Strade perdute, rilevando al suo interno una forma particolare di configurazione del tempo, la “circolarità apparente”: Ciò accade quando il racconto cinematografico accenna a chiudersi tornando sullo stesso motivo che lo aveva aperto (per esempio sulle stesse immagini o sulla stessa situazione drammatica) ma poi si sottrae, in un modo o nell’altro, alla sanzione di una circolarità effettiva introducendovi un’infrazione31.
Infrazione che mostra come la circolarità, la chiusura del film sia solo apparente, si presenta cioè “come se” fosse una conclusione, negando la linearità narrativa (e quindi l’apparenza di uno sviluppo nel tempo e nello spazio della vicenda). Il cortocircuito a cui il film è sottoposto – continua Montani – ci introduce dunque alla frattura ineliminabile tra il tempo della vita, tempo “nudo”, traboccante, privo di idealità, e il tempo del racconto, che invece punta ad un compimento, a svolgersi secondo un senso32. Fin qui Montani. In un’altra interpretazione del film, Caccia riprende un’immagine dello stesso Lynch, quella del film come un anello di Moebius, impossibile figura geometrica dalla circolarità infinita che apparentemente si chiude in se stessa per poi continuamente riaprirsi. In questo senso, Caccia può affermare che: 30. Cfr. Thierry Jousse, Lost Highway, L’isolation sensorielle selon Lynch, in «Cahiers du cinéma», n. 511, 1997, p. 57. 31. Pietro Montani, L’immaginazione narrativa, cit., p. 92. 32. Ivi, pp. 92-99.
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L’immagine di Fred Madison che citofona a se stesso chiude in modo paradossale un cortocircuito che si era dissaldato nel corpo del racconto, a causa dello scivolamento l’una sull’altra delle vicende dei due personaggi33.
Circolarità apparente; circolarità infinita della narrazione, perdita del fulcro stesso di ogni linearità narrativa: l’identità stessa del protagonista. Ma se questo elemento è comune a ogni lettura del film, resta da mettere in luce l’esito di una tale operazione, che non può semplicemente risolversi nel gioco destrutturante di un cinema postmoderno. Sarebbe limitante – anche se non errato – dire che Lynch lavora sulle libere associazioni per costruire la struttura dei suoi film, come è stato anche detto34, avallando dunque l’ipotesi che il suo cinema sia in qualche modo una resa in immagine di un mondo onirico, di un altro mondo che esiste a livello inconscio. Andando oltre questa impostazione, ci si accorge che Lynch porta alle estreme conseguenze (cinematizzandoli) i problemi che erano propri della pittura di Cézanne e di Klee, la connessione e la percezione. In altre parole, la struttura nel film non rimanda ad un processo ludico in cui le immagini «uccidono» – per usare un termine caro a Baudrillard – la realtà, ma propriamente entrano all’interno della dinamica stessa del reale. È Klee stesso ad ipotizzare infatti, opponendosi a Kandinskij – per il quale le forme e le linee sono dinamiche perché determinate da una forza esteriore – la curvatura continua delle forme come «luogo della cosmogenesi», non determinato da altro che da se stesso. La circolarità spiraliforme è l’avvenimento che crea il mondo e le forme, negando quindi un principio simmetrico di chiusura organica dell’universo35. La struttura non-struttura del film introduce una dismisura, impedisce la chiusura organica del film e lo fa eccedere produttivamente, lo rende cioè infinitamente produttivo co33. Riccardo Caccia, Strade perdute e ritrovate, cit., p. 32. 34. Cfr., tra gli altri, Emanuela Martini, Le autostrade del sogno, in «Cineforum», n. 375, 1998, p. 17. 35. Cfr. Paul Klee, Teoria della forma e della figurazione, Feltrinelli, Milano 1980, p. 123.
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me una spirale aperta36, mostrando come la strada perduta sia quella della connessione, del legame tra soggetti, corpi e spazi. Più che l’allusione ad una dimensione onirica, Lynch lavora sulle stratificazioni del reale, sulla consistenza ontologica dell’essere inteso come infinitamente produttivo e connesso. Ma la connessione, la complessità della struttura del reale è l’enigma da indagare, da cogliere anzitutto come percezione, attraverso il cinema, lo sguardo multifocale e mobile dell’occhio cinematografico, che permette di moltiplicare i punti di vista e di mostrare contemporaneamente diversi livelli di realtà, le loro connessioni e i loro percorsi37. Dunque, il movimento successivo alla messa in evidenza dell’interruzione dei legami, è proprio l’indagine sul legame in sé, come elemento lineare e diretto di connessione tra due punti: appunto, Una storia vera.
Tempo e movimento: Una storia vera C’è qualcosa di indubbiamente affascinante in Una storia vera; qualcosa che riguarda il movimento, la velocità (o la lentezza) del film: o, per meglio dire, la velocità nel film. Della apparente linearità del penultimo lungometraggio di Lynch si è detto molto, così come dell’estraneità (sempre apparente) di Una storia vera rispetto alle atmosfere e alle forme lynchiane. Lo stesso Lynch è consapevole dello scarto operato da questo film: Il film è molto semplice e lineare e questo aspetto ha sicuramente contribuito a rendere difficile la realizzazione, poiché vi sono pochi elementi con cui giocare. Per me si è trattato di un film sperimentale che mi obbligava a giocare costantemente “di finezza”38. 36. «Più che un cerchio è una spirale o un anello di Moebius che ritorna su se stesso», David Lynch, Le ruban de Moebius, cit., p. 9. 37. «Come se voi foste sopra un’altura a guardare verso il basso e poi dal basso a guardare verso l’alto», in ibidem, p. 8. 38. David Lynch si racconta, a cura di Stefano Boni, Enrico Vincenti, in «Garage», n. 17, 2000, p. 16.
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Un film sperimentale, al di là della – o forse proprio a partire dalla – sua linearità. La sequenza dei titoli di testa (così come in Strade perdute e, possiamo dirlo, così come in tutti i film di Lynch) ci introduce ad un movimento del cinema, ad una forma di costruzione e di percezione dello spazio proprie del cinema39. Il film si apre con una inquadratura dello spazio stellato su cui cominciano a scorrere i titoli di testa. Per mezzo di una serie di riprese dall’alto caratterizzate da lenti movimenti in avanti, vediamo ripresi dei campi coltivati, attraversati da giganteschi macchinari agricoli. Un altro stacco di montaggio e una ripresa dall’alto ci mostra la via principale (deserta, ad eccezione di un animale e di una macchina trebbiatrice che procede lentamente lungo la strada) di una piccola cittadina di campagna. La camera ora si sofferma su due case che condividono lo stesso giardino. La macchina da presa scende lentamente e la vicenda ha inizio. Le ampie ed ariose riprese iniziali, più che contestualizzare la storia sembrano introdurre in una dimensione puramente cinematografica; in uno spazio e in un tempo che sono alla base stessa del cinema come astrazione e concretezza. Il movimento dall’alto verso il basso, dalla volta stellata alla terra è un movimento interrogativo, sospeso ed inquieto, a prescindere dalla sua apparente tranquillità. Il film, come dice Lorenzo Esposito «incarna lo spirito romantico di Whitman e la terra infinita di Ford, le materie brucianti di Poe e le stelle infuocate di Ray»40. E i riferimenti potrebbero continuare, dalla pittura di Hopper o di Rockwell ai racconti di Carver e così via. Questo “incarnare” però non significa citare, infarcire il film di omaggi, filiazioni, citazioni esplicite; significa, propriamente, assumere il cinema come forma di indagine totale, che racchiude in sé la capacità di 39. «Come Strade perdute, The Straight Story è un film sullo spazio, sull’errare nelle ellissi narrative, dentro fascinose pieghe di un reale che si compone in una diegesi costruita sui segni dell’inconscio, sui labirinti di una poetica dello spazio che conserva una filosofia di relazione con il reale», Edoardo Bruno, Un intrico diegetico, in «Filmcritica», n. 523, 2002, p. 121. 40. Lorenzo Esposito, La terra di Ford, le stelle di Ray, in «Filmcritica», n. 501/502, 2000, p. 24.
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mostrare le condizioni stesse di visibilità del mondo, dello spazio e del tempo. Capacità che quindi rimette in gioco ogni altra forma di messa in scena del mondo, da quella pittorica a quella letteraria. L’elemento particolare, straniante del film sta però proprio nella non organicità del rapporto tra i corpi e lo spazio. Le frequenti inserzioni di immagini spaziali, le riprese dei campi, delle strade dei boschi non hanno la funzione di inserire Alvin Straight all’interno dei paesaggi senza fine dell’Iowa o del Wisconsin, non armonizzano il suo corpo anziano e morente con i ritmi della natura. Anzi. La lentezza della macchina da presa, che sempre accompagna Alvin nel suo viaggio a bordo di un tosaerba alla ricerca del fratello malato, costringe lo sguardo a mantenersi all’interno dei tempi e della velocità di tale spostamento, senza anticipare o recedere dal compito etico di “accompagnare” Alvin nel suo viaggio. Quando il lento tosaerbe viene sorpassato dall’auto della donna che sempre investe i cervi lungo la strada, la macchina da presa non cede alla tentazione di mostrare l’urto dell’auto con il corpo dell’animale, ma rimane accanto ad Alvin, per cui noi prima sentiamo lo schianto e finalmente vediamo l’auto ferma e il cervo disteso sull’asfalto solo dopo il tempo necessario a che il tosaerba raggiunga (alla sua velocità) il luogo dell’incidente. In un certo senso, come dice Carlo Hintermann: «Il movimento plantigrado del tagliaerba si attesta come l’unica andatura possibile e subisce il sorpasso quasi divertito del cinema»41; lo scarto tra le molteplici velocità del film introduce appunto una frattura, una eccedenza, una disorganicità tra più forme di cinema, sì che la natura rimane silenziosamente al di fuori dei ritmi di Alvin Straight, né testimone né partecipe, si mostra come incommensurabilmente indifferente42, inquietante e silenzioso 41. Carlo Hintermann, Movimento 1, in Mary Sweeney, John Roach, The Straight Story, Bompiani, Milano 2000, p. 12. 42. Rovesciando proprio l’obiettivo teorico e pratico di Ejzen‰tejn, quello di una “natura non indifferente”, di un “uomo non separato”. Ma se Ejzen‰tejn lavora tutta la vita su questa possibilità del cinema, piegando, deformando, anche tradendo la strumentazione dialettica a sua disposizione, Lynch si trova già all’interno di uno sce-
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enigma. Allo stesso tempo, però, la possibilità stessa di scoprire la natura come mistero si presenta a partire dalla lentezza del movimento del viaggio, punto costante di osservazione («quando abbiamo iniziato a girare ci siamo adagiati nel cammino al ritmo di Alvin, e siamo così riusciti a vedere veramente le cose»)43. Le strade ancora una volta però non connettono; l’esperienza filmica introduce ancora il problema del legame e della connessione attraverso la consapevole presenza di più spazi, di molteplici luoghi che non entrano in una armonica composizione, ma rimangono misteriosamente silenti, alludono ad un tempo e ad uno spazio (a più tempi e a più spazi) che non possono essere immediatamente ricondotti ad uno sguardo (a chi appartiene lo sguardo che punta le distese dei campi o l’infinito dispiegarsi della strada: ad Alvin? Al cinema? Ad un altrove?). Una storia vera duplica lo sguardo di Strade perdute mimetizzandosi in un flusso apparentemente limpido come un corso d’acqua, semplicemente mutando la posizione di partenza, sperimentando le forme primarie del cinema (mentre Strade perdute lavorava sulle forme estreme), l’inquietudine e il fascino della terra, dell’aria e del sole, ritornando cioè ad una materia filmica che si scopre ancora una volta capace di sconvolgere, di interrogare lo sguardo mai conciliante del cinema.
Sentieri (in)interrotti: Mulholland Drive Mulholland Drive si colloca, dicevamo, a conclusione di una ideale trilogia della strada, della connessione, forma ulteriore di una poetica dello spazio che da sempre accompagna – come interrogazione e sperimentazione – la possibilità stessa del cinema secondo Lynch. Nato come progetto nario postdialettico, in cui il rapporto uomo-natura è tutto da ricostruire. 43. Entretien avec David Lynch, par Nicolas Saada, Serge Toubiana, in «Cahiers du cinéma», n. 540, 1999, p. 41.
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televisivo (e rifiutato dalla rete ABC perché giudicato incomprensibile) si trasforma poi in film per il grande schermo. Film particolare, perché della struttura del pilota televisivo conserva uno degli elementi narrativi tipici del genere, vale a dire la presentazione in successione dei personaggi e delle storie, molti dei quali destinati forse ad uno sviluppo ulteriore in una serie che non vedrà mai la luce, ma che finiscono per essere solo delle apparizioni, fantasmi di storie annunciate, dislocate in un ipotetico futuro. Già nella sua struttura dunque, Mulholland Drive si presenta come film di transito, interrotto sentiero narrativo che allude all’infinito ad un film futuro, da farsi. Il suo essere strada, percorso, sentiero è annunciato peraltro sin dal titolo, che prende il nome da una delle strade più famose di Hollywood, arteria di Los Angeles vicina al Sunset Boulevard. Dopo la strada come detour infinito in Strade perdute, la strada come interrogazione dello sguardo in Una storia vera, la terza possibilità dell’errare filmico si concretizza in Mulholland Drive sotto la forma dello spazio dell’immaginazione come macchina creatrice di immagini. La poetica dello spazio di Lynch si sofferma ora sul set cinematografico, sulla molteplicità delle finzioni che il cinema (hollywoodiano) crea e alimenta come macchina industriale. Anche qui, l’apertura del film (le prime sequenze dei titoli di testa, ma anche l’apertura come ingresso, fenditura che connette più spazi) ci servono come punti di partenza del discorso. Anzitutto un fatto: la sequenza dei titoli di testa è in realtà composta da più blocchi. Un primo blocco in cui su uno sfondo viola e con una musica ritmata di sottofondo compaiono, in una serie di sovrimpressioni sovrapposte, diverse coppie di ballerini con vestiti degli anni cinquanta. Le loro silhouette si stagliano come galleggiando sul nulla dell’astratto sfondo viola (su cui tra l’altro si disegnano le ombre nere di altri ballerini). In mezzo all’inquadratura comincia ad apparire (sempre in sovrimpressione) come un’ombra bianca, tremolante, non a fuoco; poi la figura di una giovane donna bionda e sorridente, evanescente, quasi senza consistenza materiale (Naomi Watts). Stacco, la musica cambia e la ripresa si fa incomprensibile, perlomeno al71
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l’inizio. Poi l’inquadratura ritorna a fuoco e scopriamo che la macchina da presa sta riprendendo un letto vuoto, le lenzuola, la coperta, il cuscino rosso. La macchina da presa si avvicina di più, il cuscino rosso copre lo schermo che dissolve a nero. I titoli di testa continuano a scorrere, un’auto scura procede lentamente di notte lungo una strada piena di curve; le inquadrature si susseguono in lente dissolvenze incrociate che sempre mostrano la macchina mentre cammina, ma con continui cambi di prospettiva, quasi frammentando il percorso già non diritto della vettura. La sequenza continua anche dopo la comparsa dell’ultimo titolo di testa («Written and Directed by David Lynch»). A bordo dell’auto, sul sedile posteriore c’è una giovane donna bruna, sui sedili anteriori due uomini che non vediamo se non di spalle. L’auto si ferma, la donna chiede il perché di quella sosta inattesa. L’uomo seduto al posto del passeggero si volta: vediamo la canna di una pistola. La donna è terrorizzata. In quel momento un’altra auto a folle velocità impegnata in una gara di corsa e proveniente dalla parte opposta appare all’improvviso. I suoi fari illuminano la scena, lo schianto è secco, terribile. Dai rottami delle due auto aggrovigliate esce, barcollando e in evidente stato di shock, la giovane donna, che lentamente si avvia verso la città di Los Angeles le cui luci brillano in lontananza. I tre blocchi che costituiscono l’inizio di Mulholland Drive si manifestano immediatamente per la loro estraneità l’uno all’altro: se l’ultimo è caratterizzato da una sequenzialità narrativa (immediatamente misteriosa ed inquietante), i primi due si oppongono sia al terzo sia tra di loro: la sequenza dei ballerini sospesi in uno sfondo di colore44, introduce immediatamente, con una sorta di impatto violento, una sospensione della materialità dei corpi e dello spazio: «Diverse dai corpi senza ombra e dalle ombre senza corpo, queste apparizioni lattiginose assumono appunto consistenza spettrale, come tracce di materia ectoplasmatica trasmesse da 44. Lynch racconta di aver inserito la sequenza all’ultimo momento, ma: «Non solamente è perfettamente integrata nell’insieme, ma si è rivelata essenziale», David Lynch. Désirer l’idée, entretien par Michel Henry, in «Positif», n. 490, 2001, p. 87.
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un altrove»45. Annunciato senza mediazioni, il carattere spettrale, immateriale del cinema fa spettacolo di sé proprio attraverso una molteplicità di corpi che danzano, che sembrano cioè annunciare nello stesso tempo la loro consistenza materiale. Il blocco immediatamente successivo si sofferma invece, con la sua inquadratura ravvicinata, sulla materialità degli elementi di un letto disfatto: l’occhio della macchina da presa si trasforma in un occhio tattile, che accarezza i tessuti e i materiali che compongono le lenzuola, la coperta e il cuscino. Mulholland Drive si annuncia dunque come film dalle molteplici dimensioni che mette in gioco gli elementi costitutivi del cinema: materialità, immaterialità, narrazione. È infatti un film sul cinema, un film che indaga il cinema in più direzioni: l’immagine-movimento come capacità di costituire (contemporaneamente) molteplici mondi che evocano allo stesso tempo il materiale e l’immateriale e il cinema come meccanismo economico, forma di potere capitalistico e straniante (una parte considerevole della narrazione ruota intorno al progetto di un film da fare). Le due dimensioni si intrecciano, si intersecano in profondità. La macchina-cinema hollywoodiana diviene il teatro, la tela dove il territorio del cinema lynchiano si dispiega come interrogazione profonda: nel film «coesistono più strati di pensiero, e coesistono più mondi, come un territorio ondulato in continua oscillazione, dove un pensiero riordina con uno scarto paradossale lo sviluppo di un reale fantastico»46. Il dispiegamento di molteplici inizi rimanda dunque ad una interrogazione sulle stratificazioni profonde della materia: del pensiero e dell’immagine come materialità e della sostanza delle cose. Tutto sembra dispiegarsi nel film (e nel cinema di Lynch) come produttività infinita. La realtà stessa produce incessantemente se stessa, biforcandosi, dividendosi, creando spazi, sezioni, stanze e strade. Non si tratta più di un’ontologia del cinema, ma di una domanda ontologica 45. Alessandro Cappabianca, Tracce da un altrove, in «Filmcritica», n. 523, 2002, p. 125. 46. Edoardo Bruno, Un intrico diegetico, cit., p. 123.
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che il cinema instancabilmente pone, proprio in virtù del suo movimento incessante. La strada assume una dimensione materiale, dinamica produzione e biforcazione della materia, via di comunicazione e di collegamento dei molteplici elementi del reale, che non si configura come statico riflesso di una realtà ideale47, ma come movimento incessante dell’essere: In Lynch è come se le articolazioni macchiniche, gli ingranaggi e le sinapsi, gli snodi e le vie di comunicazione, le tubature di un sistema che fa corpo con le apparizioni e le storie, si manifestassero in quanto liberazioni di stati d’essere, di flussi energetici che si sprigionano in quanto inerenti al cinema come luce e suono, come pensiero che imprime movimento48.
Spazi come elementi dinamici e non come contenitori di storie o di individui, territori mobili che riguardano propriamente gli stati e le dinamiche dell’essere: il cinema di Lynch inizia dunque a configurarsi nella sua complessità di potenza indagatrice del reale.
47. È vero che Lynch fa continuamente riferimento nelle interviste ad una sorta di schema platonico della creazione artistica, dall’idea fuori di sé alla sua concretizzazione nell’opera attraverso di sé. Vedremo poi come questo schema sia poi rovesciabile nel suo opposto. 48. Bruno Roberti, Nella dualità della luce, in «Filmcritica», n. 523, 2002, p. 126.
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III. Altre Realtà: Corpi/Soggetti
«L’identità in sé è uno strano affare». David Lynch
Essere molteplici Esperienze del corpo ed esperienze del soggetto; la doppia esposizione del problema attraversa tutto il cinema di Lynch, ne costituisce una delle ossessioni figurative e teoriche principali, anche perché, se ci si pensa bene, il cinema stesso è diventato nella modernità una delle forme principali di problematizzazione del soggetto. Corpi e soggetti si intersecano e si trasformano, offrendosi senza pudore allo scandalo della perdita dell’identità, dell’unicità come isolamento di sé rispetto al mondo o all’altro. Ogni singolarità in Lynch non è mai assoluta, è sempre aperta al cambiamento, sia come corpo che come identità a sé. In fondo i mondi di Lynch, come abbiamo visto, non sono altro che l’esplorazione di un’originaria partizione dell’essere. I corpi, le singolarità, gli individui non esistono mai in sé; sono, in quanto singolarità, sempre e originariamente in rapporto con altre singolarità: «Detto altrimenti: l’essere può essere soltanto essendo-gli-uni-con-gli-altri, circolando nel con e come con di questa co-esistenza singolarmente plurale»1. Il mondo si presenta immediatamente molteplice e dinamico, attraversato da corpi, soggetti ed enti già molteplici. Questa molteplicità infinita è ciò che il cinema mette in gioco come movimento reale e virtuale, visibile e invisibile, senza mai poter 1. Jean-Luc Nancy, Essere singolare plurale, cit., p. 7.
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cogliere il Tutto, proprio perché il Tutto è l’Aperto, come direbbe Deleuze2 o molteplicità, seguendo Nancy3. La natura frammentaria e dispersa del cinema non può che alludere (ma con efficacia) alla dinamica molteplicità del mondo, proprio attraverso una modalità particolare nel lasciar emergere e trasformare i corpi e le identità molteplici, le loro parti interconnesse e intercambiabili: «Un film racconta un frammento di un determinato aspetto di “qualcosa” senza poter mai raccontare l’intera storia»4. È dunque solo ripercorrendo le forme attraverso cui il cinema di Lynch lavora sulle trasformazioni, sulle modalità di apparizione e sparizione dei corpi, sulla perdita o sui passaggi di identità dei soggetti che la fitta trama di una problematica ontologica prende (è il caso di dirlo) corpo. Lungo tutta la filmografia di Lynch infatti (e a partire da una dimensione pittorica che ne è alla base), si sviluppa una vera e propria fenomenologia del corpo e una fisica dei soggetti di cui ci occuperemo nei paragrafi che seguono.
Divisioni del corpo Anzitutto il corpo – ogni corpo – è composto di parti e non è detto che l’unità del tutto sia data dall’armonizzazione delle parti, dal perfetto rapporto algebrico della parte con il tutto. Spesso in Lynch il frammento del corpo (o una sua parte specifica) assume un ruolo a sé, prende il posto del tutto o diventa altra cosa da ciò che era in origine. In Velluto blu, l’orecchio ritrovato in un prato da Jeffrey Beaumont è mostrato da Lynch non tanto come la parte recisa di un corpo umano, quanto come un oggetto, una cosa a sé, stra2. Cfr. Gilles Deleuze, L’immagine movimento, Ubulibri, Milano 1987. 3. «Noi sappiamo che il mondo non ha altra origine al di fuori di questa singolare molteplicità delle origini. Il mondo, ogni volta, sorge sempre da una piega esclusiva, locale-istantanea. La sua unità, la sua unicità e totalità, consistono nella combinatoria di questa molteplicità reticolata, che non ha risultanti», Jean-Luc Nancy, Essere singolare plurale, cit., p. 15. 4. Lynch secondo Lynch, cit., p. 46.
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na e misteriosa, pretesto da cui ha origine l’indagine di Jeffrey. A volte, come nota Chion, alcune parti di un corpo sembrano avere un’autonomia particolare rispetto al resto, sembrano muoversi autonomamente: In Lynch, il corpo umano tende a presentarsi sotto forma di una massa principale – con gli arti inferiori saldati al tronco in un’unica colonna dalla forma oblunga, rigida, un po’ vacillante – e secondariamente, con delle estremità esposte e staccabili – testa e braccia – differenziate come un’appendice5.
Già la pittura introduce questa particolare dinamica del corpo: le figure antropomorfe o le parti del corpo dipinte da Lynch si presentano immediatamente come insieme di parti e non come un tutto organico, alcuni organi sono appena accennati, altri più sviluppati o enormi rispetto al resto del corpo. In She Wasn’t Fooling Anyone, She Was Hurt and She Was Hurt Bad (1992) le due figure umane spiccano per la strana proporzione delle parti del loro corpo: in uno sfondo dai colori cupi, due bianche teste rotonde individuano le due figure; gli occhi sono due orbite nere, il corpo della figura di sinistra è composto di due lunghe linee bianche (le gambe?) che partono direttamente dalla testa; il corpo della figura di destra è una macchia di colore più chiaro rispetto allo sfondo. In Shadow of a Twisted Hand Across My House (1988), la silhouette di una mano grezzamente delineata si staglia enorme sopra il disegno di una casa dal camino fumante; la mano sembra troncata di netto dal resto del corpo, autonoma forma e organismo che si muove nello spazio minacciosa. Le figure pittoriche si caratterizzano per la loro dissimmetria, per il fatto di non essere stabili e definite una volta per tutte, per le evidenti connessioni con altre figure e con lo spazio circostante; i corpi sono accennati, sfumati, mai definiti o interi: «La staticità, l’immobilità, la paralisi dell’azione umana, la definizione chiara sono temi che non sembrano concernere la pittura di Lynch»6. Definizione chiara significa 5. Michel Chion, David Lynch, cit., p. 190. 6. Juan Vicente Aliaga, El infierno según Lynch, in David Lynch (Catalogo della mostra, Sala Parpallo, Valencia, maggio-giugno 1992), Edicions Alfons el Magnànim, Valencia 1992, p. 13.
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anche staccare nettamente la figura dallo sfondo, vale a dire individualizzarla, delimitarla come singolarità a sé. E Lynch, seguendo Bacon, nega la possibilità che un corpo rimanga fisso e stabile nel tempo e nello spazio. Con Bacon, Lynch condivide infatti la libertà di trasformazione del corpo, di deformazione dei tratti delle figure; soggetti sì, ma svincolati dalla necessità di rappresentare qualcosa che non sia cangiante, mutevole, indeterminabile. Ma se è vero che in Bacon l’istanza anti-rappresentativa passa per un sempre maggiore isolamento della figura rispetto allo sfondo – attraverso l’uso di linee, diritte o rotonde, di spazi entro i quali, o al di fuori dei quali i corpi stanno7 – negando quindi ogni inserzione del corpo in una storia, in una narrazione; al contrario, in Lynch la figura è già volutamente inserita in una dimensione narrativa, in una dimensione temporale di mutazioni e trasformazioni: «I miei quadri sono commedie organiche piene di violenza»8. Una dimensione narrativa che, aggiunge Lynch, viene raggiunta dopo aver attaccato al quadro delle lettere9, lettere dell’alfabeto provenienti da riviste e giornali, incollate ai quadri a formare delle parole simili a quelle delle missive anonime (fatte appunto di lettere incollate una dopo l’altra); oppure scritte direttamente sulla tela, a distanza l’una dall’altra, in modo da poter considerare l’intera parola o, in alternativa, la singola lettera. Ma è la presenza visibile di lettere e parole nella superficie del quadro ad avvicinare ancora Bacon e Lynch: lettere accennate, irriconoscibili, tracce di scrittura senza più coe7. L’accentuazione dell’isolamento della figura nella pittura baconiana si deve a Gilles Deleuze, Logique de la sensation, cit., pp. 9-12. Bisogna comunque dire che le opere di Bacon degli anni quaranta e cinquanta sfuggono a questa definizione. Se prendiamo quadri come Figure in a Landscape (1945) o Figure Study I (1945-1946), spicca in modo evidente proprio l’impossibilità di marcare un netto confine tra figura e fondo, tra ciò che appartiene al corpo e ciò che appartiene al mondo circostante. Inoltre, Lynch stesso, parlando di Bacon, sembra in qualche modo rovesciare il discorso di Deleuze, definendo i quadri di Bacon come «frammenti di racconto», cfr. Lynch secondo Lynch, cit., p. 36. 8. David Lynch, Sulla mia pittura, cit., p. 322. 9. Ivi.
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renza, pagine di giornali e riviste appaiono spesso nei quadri di Bacon degli anni settanta e ottanta – ad esempio in Self-portrait (1973), in Figure Standing in a Washbasin (1976), in Triptych (1976), Study of the Human Body from a Drawning by Ingres (1982), Study of a Man Talking (1981) –; mentre il linguaggio scritto, costituito da lettere incollate o direttamente scritte sulla tela, «connotato da un uso onomatopeico e generalmente con significato negativo, appare nella pittura di David Lynch in una disposizione plastica e visuale delle differenti parole, in distinte configurazioni di linee: orizzontali, verticali e diagonali, producendo un effetto di interruzione, di taglio, di transito fugace, o mantenendosi ai limiti del campo pittorico»10. Dopo Magritte, probabilmente il pittore contemporaneo che con maggior lucidità ha pensato il rapporto tra immagini e parole, l’uso della parola scritta sulla tela risponde ad una necessità di interrogazione del linguaggio, al riconoscimento della pregnanza fisica della parola e, contemporaneamente, alla consapevolezza della distanza tra il segno linguistico e la cosa: Tra le parole e le cose regna una frattura variabile e misteriosa analoga alla frattura altrettanto variabile e misteriosa che separa le immagini dalle cose. Ogni volta che Magritte dipinge parole o frasi combina la capacità di differenziazione propria del leggibile alla capacità di differenziazione propria del visibile e, mostrando queste due fratture, opera sulla frattura delle fratture sopprimendo, alla maniera di Borges, la base della loro identificazione o corrispondenza11.
Dopo Magritte, dunque, diverse sono le strade che si aprono a chi lavora su questa frattura molteplice tra il visibile e il leggibile; da un parte, come si è visto in Bacon, la possibilità di lasciare traccia della scrittura nel quadro, ma priva di qualsiasi opportunità di dire altro che se stessa, impossibilitata nella sua funzione di significare, di impedire la deriva dell’immagine proprio a partire dalla precisione della ri10. Juan Vicente Aliaga, El infierno según Lynch, cit., p. 16. 11. Marcel Paquet, René Magritte 1898-1967. Il pensiero visibile, ReadyMade, Milano 2001, p. 68.
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produzione delle lettere tipografiche12. Dall’altra, come in Lynch, lettere e parole esistono nei quadri in modo diverso: Le parole dentro i quadri sono come un motore che ha accumulato energia in eccesso: danno più potere ai quadri, e al tempo stesso colgono un fatto di sorpresa. Le parole fanno cambiare il modo in cui la gente vede quel che accade dentro il quadro. Adopero le lettere a una a una semplicemente perché mi sembrano belle quando sono allineate come i denti13.
Anziché prosciugate del loro potere di significare, le parole e le lettere sembrano – nella prospettiva lynchiana – moltiplicare le loro potenzialità: se da una parte sono come un dispositivo che moltiplica la potenza espressiva del quadro, dall’altra sono un elemento fisico, materiale, e, come tale, sottoposto alle leggi dello spazio e della materia, organica ed inorganica.
Il corpo della lettera: Alphabet Dopo Six Figures Getting Sick, l’universo dei corpi in Lynch acquista nuove e più complesse configurazioni in Alphabet, cortometraggio realizzato con il generoso aiuto di un mecenate locale, H.B. Wasserman, favorevolmente colpito dal primo film painting del giovane e squattrinato artista. La storia è nota: partito con l’idea di realizzare un nuovo lavoro sulla falsariga di Six Figures, Lynch – assolutamente digiuno di tecnica cinematografica – compra una cinepresa tanto difettosa da rendere inutilizzabile il materiale girato. Con il denaro rimasto decide allora di realizzare un cortometrag12. Deleuze insiste su questo punto, evidenziando come il procedimento sia estremamente semplice: si tratta, in fondo, di impedire la funzione significante della lettera mostrandola, chiaramente, nella sua pura forma; cfr. Gilles Deleuze, Francis Bacon. Logique de la sensation, cit., p. 12. Per quanto riguarda il senso di un tale procedimento che «consiste nel distruggere la limpiezza con la limpiezza», cfr. Michel Leiris, Au verso des images, Fata Morgana, Paris, p. 26. 13. David Lynch, Sulla mia pittura, cit., p. 324.
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gio vero e proprio, tralasciando (per il momento) la tecnica del film painting. Il film, della durata di appena quattro minuti è, come dice Chion, complesso e strutturato: «Groviglio di tecniche, forme, ritmi – tutto sconcerta e rende difficile un’assimilazione rapida del film a un’idea o a un concetto. Il suono ha un che d’incombente e d’intenso, raro nei film d’animazione “artistica” in cui è generalmente semplice e rarefatto»14. Nella rapida successioni di immagini e suoni, figure animate e corpi umani, alcuni elementi colpiscono particolarmente e si inseriscono perfettamente all’interno del nostro discorso. Alternato al suono di un gruppo di bambini che intona una famosa filastrocca infantile sull’alfabeto (A,B,C), prende corpo nel film un’immagine animata antropomorfa, che si staglia in uno spazio creato da linee diagonali. La figura si crea gradualmente e si modifica in continuazione – in particolare la testa cambia forma e contorno – modificandosi senza interruzioni per tutta la durata dell’inquadratura. Accanto alla figura antropomorfa, tutte le lettere dell’alfabeto15 vengono – letteralmente – generate, prodotte, create non più come segni artificiali, ma quasi come esseri viventi che tormentano la giovane donna in camicia da notte sdraiata sul suo letto, o che si muovono in uno spazio animato continuamente autogenerantesi. Le lettere acquistano una ulteriore connotazione oltre a quella di segno convenzionale ed astratto: diventano propriamente corpi. D’altra parte, il corpo stesso (e il corpo umano in particolare), nel film subisce un processo di astrazione senza perdere le proprie caratteristiche materiali: la figura evidentemente baconiana che muta (cresce) in continuazione, la donna (in carne ed ossa) dal trucco stilizzato e dalle movenze innaturali e, infine, la bocca in primo piano che pronuncia le seguenti parole: «Please, remember you’re dealing with the human form»; sono queste tutte immagini di un corpo che diventa segno, che subisce un processo di alterazione e di astrazione. E, parallelamente, di un segno linguistico 14. Michel Chion, David Lynch, cit., p. 22. 15. Dalla A alla Z nella copia in mio possesso, anche se Chion parla nel suo saggio dell’assenza della lettera Z; cfr. ivi, p. 23.
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– la lettera – che diventa corpo, materia; e che, come tale, minaccia e punisce il corpo divenuto astratto. La giovane donna del film viene di fatto attaccata, minacciata dalle lettere dell’alfabeto, elementi basilari di un linguaggio (orale, scritturale) che in Lynch assume le dimensioni kafkiane della macchina della pena descritta nel racconto La colonia penale: La leggenda kafkiana su La colonia penale s’illumina singolarmente se si comprende che l’apparecchio di tortura inventato dall’ex comandante della colonia penale è, in verità, il linguaggio. Ma con ciò, essa si complica in misura non minore. Nella leggenda, infatti, la macchina è innanzitutto uno strumento di giustizia e di punizione. Ciò significa che anche il linguaggio è, sulla terra e per gli uomini, un tale strumento16.
Alphabet inaugura in questo senso uno spazio filmico in cui i corpi si trovano in conflitto ma sullo stesso piano. Il meccanismo della parola – o delle lettere «allineate come i denti» – è un meccanismo dunque terribile: l’ufficiale kafkiano, che prova su se stesso la macchina, muore trafitto dagli aculei che incidono la sentenza sulla nuda carne; la giovane donna di Alphabet è minacciata dalle lettere dell’alfabeto e dalla sua bocca escono fiotti di sangue. «Ricordati che hai a che fare con la forma umana»: in maniera evidente, l’unica frase pronunciata nel film riguarda un conflitto, una lotta tra linguaggio e corpo che comprende il cinema (e il cinema di Lynch in particolar modo). Il doppio movimento confluisce nello spazio del film, che Lynch identifica immediatamente come spazio particolare, materiale e immateriale insieme, in cui il segno e il corpo condividono la medesima natura e in cui è perciò possibile indagare le forme, le connessioni e i legami di ciò che apparentemente appartiene a mondi ontologicamente distanti. Per quello che riguarda il corpo, Lynch ritrova sin da Alphabet nel cinema una doppia dinamica che fa esplodere la pittura dei corpi e dei volti, accentuandone ora la corporeità ora l’astrazione. 16. Giorgio Agamben, Idea della prosa, Quodlibet, Macerata 2002, p. 105.
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Il corpo astratto: The Grandmother, Twin Peaks La capacità del cinema di lavorare contemporaneamente su più dimensioni del corpo (il corpo astratto e il corpo organico, il corpo come segno e il corpo come struttura vivente) si sviluppa in modo ancora più consapevole nel successivo cortometraggio di Lynch: The Grandmother. Qui l’equilibrio tra le parti animate e le parti girate con attori in carne ed ossa si rovescia rispetto al primo lavoro: se in Alphabet gli unici corpi “reali” sono quelli della donna in camicia da notte (interpretata da Peggy, la prima moglie di Lynch) e l’oscena bocca in primo piano che pronuncia l’unica frase del film, The Grandmother inizia con una sequenza animata (la nascita dalla terra di un uomo, una donna e un bambino, provenienti, per successiva gestazione, dallo stesso seme), per poi trasformare in corpi di attori reali i tre personaggi e anche il personaggio della nonna, nata da un seme curato amorevolmente dal bambino. Ma i movimenti degli attori (molti dei quali realizzati mediante la tecnica della “pixillation”, tecnica che rende il movimento totalmente innaturale, a scatti, quasi meccanico), il loro trucco pesante, l’assenza di parole comprensibili (all’inizio, i “genitori” del bambino camminano a quattro zampe e comunicano tra loro abbaiando come cani), sono tutti elementi che negano con forza ogni intenzione realistica dell’immagine. Di più, aprono la strada ad una folta galleria di personaggi che proliferano in quasi ogni film lynchiano, la cui caratteristica è proprio quella di presentarsi come corpi astratti, figure pittoriche in movimento dalle molteplici funzioni, «astrazioni dalle sembianze umane» come le chiama lo stesso regista. Il nano, il gigante, la donna del ceppo, Bob in Twin Peaks; la fata buona in Cuore selvaggio, l’uomo del mistero in Strade perdute, il cowboy in Mulholland Drive: sono solo alcuni esempi di figure in cui si concretizza la possibilità di mostrare una complessa stratificazione della realtà, fatta di legami e connessioni che sfuggono alla comune percezione e che il cinema – estensione macchinica dello sguardo pittorico – porta ad emergere: 83
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Il cinema è il primo linguaggio espressivo che raffigura il transito: mostra la chiave ruvida e metallica e fa sentire, raffigurando, riducendo a percezione mobile e continua, le condizioni di osservabilità, l’altro mondo di cui è composta; la realtà, in tal modo, non è affatto un’illusione, un teatro di apparenze sensibili e di sostanze immateriali, la realtà del cinema è l’astratto che si fa concreto e, parimenti, l’oggetto che mostra i livelli di astrazione di cui è composto. Una stessa realtà, che interfaccia con se stessa, ossia l’esito della differenza e del suo movimento. [...]. Le entità astratte dalle sembianze umane del cinema di David Lynch sono esattamente tali figure e icone che interfacciano volentieri con il mondo, e ne costituiscono il caso limite, e tuttavia, grazie alla macchina, radicalmente empirico17.
Importante lettura questa di De Bernardinis, perché inserisce con chiarezza le molteplici dimensioni (spazi e corpi) del cinema di Lynch all’interno di una stessa realtà fisica, evitando in questo modo il facile ricorso ad uno schematismo platonico che viene spesso applicato ai film del regista americano. Ecco perché è necessario insistere su tali figure dell’astrazione e mostrarne la valenza ontologica. Probabilmente, l’opera lynchiana che costituisce la fucina più ampia di figure astratte, di astrazioni dalle sembianze umane è il serial Twin Peaks (si possono contare, tra la prima e la seconda serie, ben 94 personaggi con un ruolo definito, ognuno dei quali dotato di una propria autonomia e specificità, come si vedrà). Anche per quanto riguarda l’origine di uno dei serial televisivi più famosi di tutti i tempi, la storia è nota: l’idea base di Twin Peaks nasce in una caffetteria dove Lynch e Mark Frost (tra gli sceneggiatori di un’altra famosa serie poliziesca, Hill Street Blues) si incontrano per progettare insieme un lavoro per la televisione. Dall’immagine di una donna morta avvolta in un telo di plastica nasce il progetto per la serie andata in onda per la prima volta nel 1990 per la catena televisiva ABC. Dallo straordinario successo iniziale alla rapida chiusura della serie (alla fine della seconda stagione), Twin Peaks è diventato un 17. Flavio de Bernardinis, Ossessioni terminali, cit., p. 69.
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vero e proprio fenomeno di culto; incursione d’autore nel mondo del telefilm, investigazione metalinguistica sui meccanismi comunicativi tipici del mondo dei serial televisivi, anticipatore in un certo senso di altri famosi serial degli anni novanta legati ai temi del “weird”, del bizzarro, dell’extraquotidiano, del paranormale (primo fra tutti X-Files): Twin Peaks è tutto questo ma anche molto altro. All’interno del discorso sin qui sviluppato, Twin Peaks ci interessa soprattutto per la sua capacità di proliferazione di storie e personaggi, per la sua potenzialmente infinita durata18 e dislocazione temporale, che sono poi alcuni degli elementi che spinsero Lynch a sperimentare la forma del serial come ulteriore concretizzazione del cinema, dotata di una sua specificità e autonomia. In effetti, la televisione diventa in questo momento per Lynch: «Un teleobiettivo, mentre il cinema è un grandangolo. Al cinema si può mettere in scena una sinfonia, mentre in televisione ci si deve limitare a un cigolio. Unico vantaggio: il cigolio può essere continuo»19. Nel suo saggio su Lynch, Chion affronta la sfida di raggruppare in tre categorie il complesso universo dei personaggi del serial, al fine di mostrare la peculiarità del lavoro di destrutturazione dei codici televisivi operata da Lynch e Frost. Alla prima categoria appartengono i personaggi tipizzati secondo i codici della soap opera, fedeli ad un certo ruolo e più o meno costanti nei comportamenti e negli atteggiamenti (a questa categoria appartengono lo sceriffo Truman, il dottor Hayward, l’aiutante Hawk, Ed Hurley, Norma, Madeleine, Donna, Annie Blackburne, ecc.). Si tratta di fi18. Sullo sviluppo virtualmente infinito del serial e le sue conseguenze teoriche, scriveva, nel 1991, Paolo Cherchi Usai: «Twin Peaks “finirà” un giorno per autodissolvimento retorico, vittima di una lenta entropia che polverizza storie principali, vicende parallele, ramificazioni estemporanee; ma la storia nella quale si inseriscono le puntate della serie – questa l’implicita dichiarazione di Lynch e Frost – è destinata a non finire mai, indipendentemente dal fatto che Dale Cooper rimanga per sempre coinvolto nelle immagini o che ritorni al quartier generale del FBI a Los Angeles», I cattivi colpi di Twin Peaks, in «Segno cinema», n. 48, 1991, p. 7. 19. Interview avec David Lynch, a cura di Alain Viviant, in «Libération», 5 giugno 1992, cit., in Michel Chion, David Lynch, cit., pp. 118-119.
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gure standardizzate, senza troppi angoli nascosti, i cui comportamenti si rifanno ad alcune semplici regole riguardanti la tipizzazione del personaggio. Alla seconda categoria appartengono quei personaggi che possiedono delle caratteristiche bizzarre, al limite del feticismo o della follia, ma che sono parte integrante della comunità umana di Twin Peaks (Harold affetto da agorafobia, Lucy e Andy, il poliziotto che piange sempre di fronte ad una disgrazia, il travestito agente Dennis/Denise, Gordon Cole, ecc.). si tratta di personaggi-limite, di figure che introducono uno scarto rispetto ai codici rappresentativi della serie anche (e soprattutto) per il fatto che vengono tranquillamente accettati dagli altri personaggi, mai isolati o additati come “weirds”. Ma è nella terza categoria che il lavoro di Lynch e Frost sulle figure astratte e sui corpi immateriali si fa evidente: Collocheremo infine in una terza categoria i personaggi di Twin Peaks che posseggono fin da subito o acquistano nel corso della serie una qualità mitica. È ovviamente il caso di coloro che appartengono alle dimensioni parallele, appaiono come fantasmi o nei sogni, spuntano fuori dai buchi che si aprono nel tessuto della realtà, o sono in comunicazione con altre forze20.
Bob lo spirito dei boschi, il nano della stanza rossa, la vecchia signora e il ragazzino in smoking, la Log Lady, la stessa Laura Palmer appartengono a questa categoria e non è difficile riconoscere in essi le caratteristiche di quei corpi astratti che attraversano il cinema di Lynch e che aprono ad un differente modo di percepire il reale e le sue interconnessioni. Ma è il più famoso personaggio della serie, il detective Dale Barthelemew Cooper, a costituire il corpo cardine della serie, non tanto dal punto di vista narrativo, quanto come condensazione di una problematica del soggetto, di un passaggio graduale – raggiunto grazie alla durata temporale della serie – attraverso varie stratificazioni dell’essere: «Quanto a Dale Cooper, [...], anche lui comincia in seconda categoria e poi sale nella terza. All’inizio è un originale un 20. Ivi, p. 125.
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po’ perverso, ma poco a poco si innalza alla dimensione di un angelo del bene»21.
Dale Cooper o dell’identità fluttuante L’agente speciale dell’FBI Dale Barthelemew Cooper (interpretato da uno degli attori feticcio di Lynch: Kyle McLachlan) deve forse22 il suo nome ad un uomo che sequestrò un aereo a Washington e, una volta in quota, si lanciò nel vuoto per scomparire per sempre. È a partire da questa eredità di un nome, legato ad un uomo che scompare misteriosamente, che la figura di Cooper acquista una dimensione particolare rispetto a tutti gli altri personaggi del serial. La prima volta che vediamo l’agente dell’FBI (nell’episodio pilota), Cooper sta guidando verso Twin Peaks, il corpo di Laura Palmer è stato scoperto e alcuni dei personaggi hanno già fatto la loro prima apparizione. Cooper sta dettando ad un registratore tascabile – che apostrofa con il nome di Diane (anche se rimane un mistero se Diane sia il nomignolo del registratore o il nome di una collaboratrice di Cooper a cui l’agente invia i nastri) – le tappe del suo viaggio: il nome del ristorante dove ha fatto colazione, le miglia percorse, ecc.; tutto sembra alludere ad una metodologia di indagine meticolosa e totalmente razionale, basata sulla pignola raccolta di indizi e piccoli dettagli. Improvvisamente, sempre rivolto a Diane, Cooper inizia a fare dei commenti sugli alberi incontrati lungo la strada, ripromettendosi di chiedere a qualcuno il nome di quelle piante meravigliose. Il pensiero ha subito uno scarto. All’improvviso, cioè, la catena di elementi chiusi e connessi all’interno del ragionamento lasciano lo spazio ad una divagazione, ad un detour del pensiero, primo avvento di un modo di essere nel mondo di percepirlo e percepirsi che costituirà la caratteristica principale dell’agente Cooper: «L’agente dell’FBI è caratterizzato come un uomo che “divaga”: 21. Ivi, p. 126. 22. È una delle tante leggende che circolano negli ambienti dei fan della serie.
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nel corso di tutto il serial non mancano i suoi apprezzamenti sulla qualità dell’aria di quei luoghi, sul piacere di gustare un caffè nero preparato con i dovuti crismi o sulla passione per la torta di ciliege»23. Fin qui tutto farebbe pensare ad uno dei tanti comportamenti stravaganti che in fondo abbondano nelle caratterizzazioni dei grandi detective (la passione per la catalogazione meticolosa di oggetti apparentemente inutili di Sherlock Holmes, la passione per i fiori e il cibo di Nero Wolfe, l’assoluta fiducia nella fisiognomica di Miss Marple, e così via); ma, come giustamente afferma Chion, Cooper non appartiene pienamente alla seconda categoria di personaggi, quella che raggruppa figure bizzarre ai limiti della follia. Già nella terza puntata della prima serie, Cooper riunisce alcuni dei personaggi per illustrare loro un metodo d’indagine particolare, che consiste nel gettare un sassolino verso una bottiglia ogni volta che si pronuncia un nome che potrebbe essere legato al caso oggetto d’indagine. Quando il sasso colpisce la bottiglia, il nome pronunciato diventa importante per il caso. Il “metodo tibetano” di indagine (o come lo chiama Cooper: “The Rock-Trowing Technique”) differenzia Cooper da ogni altro detective della letteratura poliziesca classica. Il principio di indagine si basa sulla coincidenza, sulla coesistenza di due eventi che – senza connessione logica – creano tra loro un legame. Nel finale dell’episodio pilota, Cooper, dopo aver ricevuto due telefonate nel cuore della notte, detta le sue riflessioni al registratore: «Diane, quando due eventi, due fatti riguardanti la stessa indagine si verificano simultaneamente, dobbiamo sempre considerarli con la massima attenzione». La coincidenza è qui sottolineata non in quanto apertura verso una connessione logica che permetterà poi all’agente Cooper di risolvere il mistero (cosa che lo farebbe rientrare nella categoria dei detective classici), ma in quanto possibilità di orientare lo sguardo in modo differente, di percepire, di sentire il mondo in maniera altra rispetto al normale. Cooper propone in fondo una diversa metodologia di conoscenza, di percezione della 23. Riccardo Caccia, David Lynch, cit., p. 78.
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complessità del reale. Un problema ontologico prima ancora che epistemologico: Il protocollo d’indagine privilegiato dall’agente Dale Cooper rifiuta di piegarsi alle sole esigenze del principio di razionalizzazione. I meccanismi e le forze che egli integra alla sua volontà d’esegesi riguardano, agli occhi di un investigatore convenzionale, qualcosa di opaco e misterioso [...]. Altrimenti detto, l’universo simbolico instaura nei differenti segmenti d’esperienza (in questo caso: l’onirico e il reale) una gerarchia e un ordine che, istituendo il carattere deviante e marginale del sogno e dell’irrazionale, evitano che si costituiscano, in seno ad una realtà data per obiettiva e familiare, delle zone di inintellegibilità. Ora, l’inversione di ordine epistemologico all’opera lungo tutto il corso della serie tende precisamente all’effetto inverso: sostituire al rapporto verticale e gerarchico dal sogno alla realtà, un rapporto orizzontale e indifferenziato. Intromettendolo in seno al racconto di una indagine reale e immaginaria, Lynch piazza l’inconscio al centro della percezione. Così facendo, il testo poliziesco comunica con il suo proprio “fuori”: il testo fantastico24.
È questa particolarità dello sguardo che permette a Cooper non tanto di passare – come dice Chion – dalla seconda alla terza categoria di personaggi, quanto di attraversare tutte le dimensioni del reale che in Twin Peaks danno sfoggio di sé. Nel finale del pilota, L’agente del FBI si trova seduto in una poltrona nella famosa Red Room (ed è la prima volta che la vediamo nel serial, anche se la scena è stata aggiunta in seguito). L’uomo è visibilmente invecchiato (sono passati venticinque anni, come scopriremo in Fuoco cammina con me). Accanto a lui, anch’essi seduti, stanno un nano (Mike Anderson) e Laura Palmer (Sheryl Lee). Questi ultimi due personaggi parlano e si muovono, ma le loro parole, per quanto comprensibili, hanno un effetto sonoro straniante, mentre Cooper parla normalmente. Anche i loro movimenti sono strani, a scatti, quasi meccanici. Il segreto di tale effetto sta nel fatto che Lynch ha girato la scena facendo muovere e parlare i due attori al contrario, per poi monta24. Jean Foubert, Twin Peaks. Aux portes du réel, in «Positif», n. 490, 2001, p. 101.
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re la scena all’inverso. Nel rapporto tra Cooper e gli altri due personaggi, lo scarto è perfettamente visibile e percepibile. L’agente del FBI, pur entrando all’interno di un altro spazio, o di un’altra forma dello spazio reale, come abbiamo visto essere la Red Room, non aderisce perfettamente ad essa, così come non aderisce perfettamente alle regole del quotidiano e del familiare. Il movimento di Dale Cooper è un transito continuo attraverso varie forme di essere, è precisamente la connessione tra gli spazi e i corpi che costituiscono la possibilità ontologica del cinema, sospeso tra materia e spettralità, come il set ideale di Twin Peaks non fa che continuamente riproporre. Ancora: il movimento di Cooper è di fatto il movimento di uno sguardo che altro non è se non lo sguardo registico. Se Kyle McLachlan è il principale degli attori feticcio di Lynch (più di Mike Anderson o Jack Nance che comunque compaiono in più film rispetto al primo), ciò è dovuto al fatto che più di ogni altro personaggio dei film lynchiani, Cooper – così come Jeffrey Beaumont e Paul Atreides – è soprattutto l’incarnazione di uno sguardo in grado di attraversare molteplici dimensioni del reale, in grado di mantenere l’equilibrio tra l’immaterialità del cinema e la materialità dei corpi. Cooper è lo sguardo registico secondo Lynch: «È vero, io sono come un detective che fa la posta alle cose che abitualmente si nascondono»25. Soggetto potente da un lato e allo stesso tempo aperto all’indeterminatezza del reale, Cooper diventa nelle mani del regista una delle più straordinarie incarnazioni del cinema nell’universo dei corpi lynchiani.
25. Fabrizio Liberti, I segreti di Twin Peaks, in David Lynch, Film, visioni e incubi da Six Figures a Twin Peaks, cit., p. 102. L’identificazione tra Cooper e lo sguardo registico è sottolineata più volte da Lynch, ad esempio nell’episodio 25, quando Gordon Cole, capo del dipartimento di Cooper (interpretato dallo stesso Lynch), e Cooper stesso si presentano vestiti e pettinati in modo identico alla caffetteria RR e flirtano rispettivamente con la cameriera Shelley Johnson e con Annie Blackburn. Da notare il fatto che Cole, che è quasi completamente sordo e che urla sempre come un ossesso, conversando con Shelley riesce a sentire alla perfezione.
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Il corpo in eccesso e lo sguardo multiplo: The Elephant Man Là dove c’è uno sguardo, c’è un corpo che ne è oggetto. Nella fenomenologia dei corpi lynchiani occupa sempre un posto particolare il corpo come ricettacolo dello sguardo, di una molteplicità di sguardi fuori e dentro lo schermo che fanno essere i soggetti, ne creano e trasformano le identità. Tanto più il corpo eccede (per accumulo o per sottrazione), tanto più gli sguardi si moltiplicano, si offrono cioè in molteplici occorrenze. Ma il movimento non è univoco. L’oggetto dello sguardo è, volente o nolente, sguardo anch’esso; rifrange, riflette o restituisce, modificandolo, quanto ricevuto creando un reticolo, un dispositivo ottico che, dalla pittura al cinema, non smette di essere attivato. Il film dove Lynch ha lucidamente e con coerenza portato avanti questa dinamica degli sguardi (o dello sguardo multiplo) è, senza ombra di dubbio, The Elephant Man. Il secondo lungometraggio di Lynch fu una vera sorpresa: dopo che Eraserhead era divenuto un piccolo oggetto di culto, simbolo della nuova avanguardia cinematografica americana, il fatto che il suo regista avesse realizzato un film (nominato a otto premi Oscar) per la neonata casa di produzione di Mel Brooks (la Brooksfilm), girato con attori professionisti del calibro di John Hurt, sir John Gielgud, Anne Bancroft e Anthony Hopkins, per di più ambientato nella Londra vittoriana e basato sulla vera storia di un “freak” ottocentesco, Joseph C. Merrick, non poteva non lasciare interdetti: forse, come già era successo altre volte, dopo l’exploit iniziale, anche Lynch si era convertito al mercato, vendendo il suo talento all’industria cinematografica. La realtà è ovviamente diversa e The Elephant Man ricopre un ruolo non secondario nella ricerca cinematografica di Lynch, soprattutto, come sopra accennato, per quanto riguarda l’indagine sul rapporto tra il corpo e gli sguardi. Mai come in questo film, infatti, Lynch mette in scena una costellazione di sguardi su un unico corpo, fino ad interrogarsi in profondità sulla genesi delle molteplici immagini di un’identità misteriosa e sfuggente (tanto quanto il suo corpo è eccedente e deforme) come quella di Joseph C. Merrick. 91
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Innanzitutto il nome: quello vero dell’uomo elefante era Joseph Carey Merrick; nella sua autobiografia, sir Frederick Treves continua a chiamarlo John, probabilmente perché il medico londinese ha inteso male il nome dell’uomo la prima volta che questi si è presentato, viste le difficoltà di parola di cui soffriva a causa delle sue deformazioni facciali26. Né Treves né Lynch si preoccupano di ristabilire il vero nome dell’uomo o di fare accenno all’equivoco; né lo stesso Merrick corregge mai l’errore del dottore nella vita come nel film. L’identità dell’uomo è di fatto donata dall’esterno insieme al nome; l’eccesso del suo corpo, la sua alterità, la sua anormalità lo consegnano immediatamente al giudizio altrui che ne decide, anche se accidentalmente, finanche il nome: la sua vita è determinata dall’altro da sé, dipende e si modifica in relazione alla qualità e alla quantità di sguardi che si producono intorno a lui. Tanto che il film stesso sembra più vertere intorno agli sguardi sull’uomo elefante che sulla sua identità. L’insistenza su questo elemento è talmente evidente nel film da far pensare che in realtà il protagonista – l’uomo elefante appunto – non sia che una comparsa, non sia che il minimo comun denominatore di una dinamica senza fine che accomuna tutti gli abitanti del film. La centralità dello sguardo è rimarcata in modo quasi ossessivo da Lynch nel corso di tutto il film. Più di una volta assistiamo a cambi di sequenza annunciati da una dissolvenza a nero sul primo piano di un volto che guarda l’uomo elefante. Spesso quei volti esprimono raccapriccio, orrore disgusto, cupidigia, sorpresa, imbarazzo, pietà. Ancora più spesso, quei volti sono solcati da lacrime. Sempre, a quegli sguardi seguono azioni diverse sì, ma tutte dirette contro o verso l’uomo elefante. Il cinema come dispositivo ottico e lo sguardo come giudizio etico: intorno a questi due elementi ruota tutto The Elephant Man e l’esistenza stessa di John Merrick, che non 26. Per questi e altri riferimenti al vero uomo elefante, cfr. Andrés Hispano, David Lynch. Claroscuro americano, cit., pp. 67-91 e pp. 298-308, dove l’autore riporta i brani dell’autobiografia di Treves riguardanti Joseph Merrick.
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cessa neppure per un attimo di essere spettacolo, di essere modellata secondo le regole di diverse forme di messa in scena. Lynch gioca infatti lungo tutto il corso del film su vari livelli di spettacolarità entro i quali Merrick trova la sua collocazione: Circo. È il primo livello anche dal punto di vista temporale; quando Treves incontra Merrick per la prima volta, questi si esibisce in un circo come uno dei tanti “scherzi della natura” che affollavano le fiere e i circhi dell’Europa fine Ottocento. Ma il primo impatto del medico con l’uomo elefante è indiretto. Mentre vaga tra le tende della fiera, Treves nota un poliziotto che entra in un tendone sovrastato dalla scritta “No entry”. Incuriosito, segue il poliziotto addentrandosi all’interno di una sorta di circo nascosto. Lungo i corridoi incontra alcune persone sconvolte da quello che hanno appena visto, ma non riesce a vederne la causa perché arriva mentre le autorità fanno interrompere l’indecente spettacolo. Solo in un secondo momento, avvicinatosi a Bytes, l’uomo che espone Merrick nelle varie fiere, lo convince a suon di sterline ad imbastire uno spettacolo privato e si trova faccia a faccia con Merrick. Ma questa volta è lo spettatore a rimanere privo di un oggetto dello sguardo. Ciò che vediamo è solo il volto stupefatto e sconvolto di Treves di fronte al corpo di Merrick (che rimane nell’ombra). La macchina da presa si sofferma sul primo piano del medico mentre sulle sue guance scorrono lente delle lacrime. Il senso dello spettacolo è tutto concentrato su quello sguardo e su quelle lacrime. Lynch lascia in questo momento intuire tutta la violenza di un corpo esposto totalmente allo sguardo in quanto tale27. Merrick non è qui che un’ombra, la visibilità appartiene ai due corpi che se ne contendono la proprietà: chi lo mette in scena (Bytes, che pur di fronte ad un solo spettatore non rinuncia al suo monologo di presentazione) e chi assiste alla scena, accettando di riconoscere l’altro come spettacolo (Treves). 27. La decisione di non mostrare il corpo di Merrick in questa scena è dovuta a Lynch, in quanto nella sceneggiatura originale di De Vore e Bergren era questo il momento in cui lo spettatore, insieme a Treves, vedeva per la prima volta l’uomo elefante.
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Ospedale/istituzione totale. È il secondo livello della spettacolarizzazione del corpo. Nel film l’istituzionalizzazione dello spettacolo inizia quando, nella lotta per il possesso del corpo di Merrick, è Treves ad avere (perlomeno all’inizio), la meglio. Treves mostra Merrick in una conferenza destinata ai suoi colleghi dell’Università. Anche qui la sequenza è costruita da Lynch in modo da non lasciare che lo spettatore veda l’uomo elefante. Nell’asettica ufficialità dell’aula universitaria un nuovo spettacolo viene allestito. Al posto di Bytes e del suo ridicolo monologo sta il discorso introduttivo di Treves sulla straordinarietà del caso medico a cui i suoi colleghi stanno per assistere. Treves rende spettacolo l’apparizione di Merrick attraverso un sapiente uso delle luci (un uomo accende un riflettore che punta su Merrick) e della scena (una serie di tende che nascondono fino all’ultimo momento l’uomo all’interno di un paravento). Anche qui, Lynch sceglie di non mostrare se non la silhouette deforme di Merrick, la cui ombra si staglia sulla superficie della tenda. Al suo posto, la scena è occupata da una serie di volti, colpiti in vario modo (sconcerto, disgusto, forse paura) da quanto stanno vedendo. Ma Treves non smette di parlare durante tutta l’esibizione. Descrive accuratamente le malattie che deturpano il corpo di Merrick, la sua costituzione fisica, l’integrità del suo apparato genitale. La parola medica sommerge la visione, la controlla, la addomestica, mentre la parola introduttiva di Bytes preparava il pubblico del circo alla morbosità dello spettacolo. La differenza sta dunque nell’intensità del controllo, nell’abilità di distendere o di detenere l’effetto di parola. Se Bytes ha bisogno che la parola si fermi (perché la visione orrorifica faccia effetto), Treves ha bisogno al contrario che la visione sia sempre controllata, accompagnata dal linguaggio medico e, se ciò non fosse possibile, la visione deve essere negata28. La vita di 28. È notevole il fatto che la stessa scena viene citata (e omaggiata) in un film di tendenza come La vera storia di Jack lo squartatore, dei fratelli Hughes, in cui però la sottile dialettica tra parola e visione viene completamente rovesciata se non annullata, poiché sin da subito lo spettatore si trova di fronte al corpo di Merrick mentre Treves ne descrive le numerose malattie al consesso medico. A riprova forse
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Merrick all’interno del London Hospital (dove l’uomo trascorrerà gli ultimi anni della sua vita), infatti, è caratterizzata da una dialettica continua tra esposizione ed esclusione. L’eccedenza del corpo di Merrick fa sì che egli sia confinato in una stanzetta nascosta dell’ospedale e, in seguito, in un piccolo appartamento perfettamente ammobiliato dove egli potrà simulare la sua normalità, ricevendo le visite degli appartenenti all’alta società londinese. È l’ospedale, il sapere medico che decide quando e come vedere Merrick, tanto che il primo sguardo che lo spettatore può dare al suo corpo è determinato da una leggerezza di Treves, un cedimento dell’apparato di controllo, che lascia che la giovane infermiera, impreparata alla visione di Merrick, entri nella cameretta per portargli da mangiare e urli spaventata di fronte al suo corpo devastato. È in questo momento che Lynch, in un fulmineo controcampo, mostra lo stesso Merrick che urla spaventato. All’improvviso, l’oggetto dello sguardo si scopre soggetto o, meglio, si scopre come potenzialmente dotato di una soggettività destinata comunque a scomparire29. «Noi non possiamo guarirti John; possiamo prenderci cura di te» dice ad un certo punto Treves a Merrick. Ma in quel “prendersi cura” è incluso un controllo totale dell’individuo, che riceve la sua parvenza di “normale” esistenza solo all’interno delle strutture e delle dinamiche dell’ospedale. Qui infatti potrà essere di nuovo l’oggetto di una quantità potenzialmente infinita di sguardi, nell’illusione (gridata disperatamente in una delle scene più belle del film) di non essere un mostro, ma un essere umano.
che Lynch è profondamente lontano – nonostante le apparenti filiazioni – da un cinema dell’eccesso visivo, preoccupato di saturare l’immagine, piuttosto che lavorare sulle sue zone di indiscernibilità. 29. Scrive Serge Daney in alcune pagine folgoranti: «È in questo momento che Lynch libera lo spettatore dalla trappola che gli ha teso sin dall’inizio [...], come se egli dicesse: non sei tu che conti, è lui, l’uomo elefante; non è la tua paura ad interessarmi, è la sua; non è la tua paura di aver paura che voglio manipolare è la sua paura di far paura, la paura che egli ha di vedersi nello sguardo dell’altro. La vertigine cambia di campo», Le monstre a peur, in «Cahiers du cinéma», n. 322, 1981, p. 33.
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Città. La città è il luogo mobile ed indefinito dove la vita addomesticata incontra la nuda vita. Qui Merrick riceve i colpi più duri che scalfiscono la sua illusione di felicità. Quando Merrick ritorna a Londra dopo essere stato rapito da Bytes, arriva alla stazione sempre coperto dal suo mantello nero e dal suo cappuccio. Cerca di non farsi notare, ma alcuni ragazzini, incuriositi, iniziano ad infastidirlo. Nel tentativo di sfuggire alle loro attenzioni, Merrick si allontana velocemente e, senza volerlo, travolge una ragazzina. La folla pensa ad un maniaco ed inizia ad inseguirlo. Merrick scappa e si rifugia nei bagni pubblici della stazione. Intrappolato contro un muro, con la folla che è pronta a linciarlo, ancora più spaventata ed infuriata ora che ha perso il cappuccio, Merrick urla tutta la sua disperazione: «Sono un uomo!». La folla improvvisamente tace. Gli sguardi che hanno determinato senza ombra di dubbio la mostruosità di Merrick, ora rimangono sospesi, non perché non credano più di trovarsi di fronte un mostro, ma perché rimangono colpiti dalla forza della sua illusione, quella di credersi disperatamente un essere umano. La città colpisce Merrick duramente, anche penetrando all’interno dell’apparato di controllo dell’ospedale. La notte, Merrick riceve le visite (organizzate di nascosto da un guardiano notturno) di ubriaconi, gente del popolo, prostitute. Durante queste visite viene trattato come un manichino, scosso e strattonato da una parte e dall’altra, deriso e insultato. Soprattutto, gli viene posto davanti agli occhi uno specchio e Merrick, di fronte all’immagine di se stesso riflessa nello specchio, urla. La città si insinua nelle strutture logico-linguistiche dell’ospedale e offre (violentemente, questo è certo) l’immagine-verità, quella dell’assoluta alterità di Merrick. Alle centinaia di sguardi manipolatori cui Merrick si sottopone, ora si aggiunge anche il suo, la cui vista egli non può sopportare. Teatro. È il livello superiore della finzione, dell’illusoria vita che Merrick conduce negli ultimi mesi prima di morire. Una famosa attrice di teatro, Msr. Kendal, incuriosita da un articolo di un giornale che parlava di Merrick decide di andare a trovarlo all’ospedale. Gli regala una sua fotografia e una copia del Romeo e Giulietta. I due si mettono allora a 96
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recitare una scena d’amore tratta dal dramma shakespeariano, al termine della quale, l’attrice, estasiata, esclama: «Lei non è l’uomo elefante, lei è Romeo!». Il sipario si è alzato e la finzione della messa in scena è iniziata. Merrick vivrà gli ultimi anni da attore inconsapevole, in mezzo a una moltitudine di attori consapevoli, che fingono la loro ammirazione per l’uomo elefante, fino ad accoglierlo, con un lungo applauso al termine della rappresentazione teatrale di Il gatto con gli stivali: «Essi vanno a vedere Merrick per testare la propria maschera: se tradissero la loro paura, ne vedrebbero il riflesso nello sguardo di Merrick. Ecco perché l’uomoelefante è il loro specchio, ma non uno specchio nel quale potrebbero vedersi, riconoscersi, ma uno specchio per apprendere a giocare e a dissimulare, a mentire ancora di più»30. È l’altro specchio, più rassicurante ed illusorio di quello della derisione e dell’insulto che viene offerto a Merrick e che costituisce l’ultima, estrema illusione della sua identità, l’ultimo nascondimento della realtà del suo corpo. Cinema. È l’ultimo livello dello spettacolo, quello che comprende tutti gli altri, ma nel senso che permette di mostrarli tutti e di farli lavorare contemporaneamente. The Elephant Man è un complesso esercizio di regia: lo è per Lynch, che dichiara più volte quanto abbia imparato, dal punto di vista registico, realizzando il film (grazie anche all’aiuto di professionisti come Freddie Francis e Mel Brooks), e lo è perché si mostra come dispositivo di interrogazione del cinema come strumento, come macchina del sentire. Tutto il film si organizza intorno ad uno sguardo che si differenzia da tutti gli altri: è lo sguardo da cui ha inizio il film ed è lo sguardo disperatamente cercato (e mai ritrovato) da Merrick: lo sguardo della madre, l’unico sguardo che forse avrebbe potuto mostrare amore per lui così com’è, senza filtri, senza specchi31. È dunque intorno alla ricerca di questo sguar30. Ivi, p. 34. 31. Durante la visita di Merrick a casa Treves, dopo aver raccontato alla signora Treves della propria madre e dopo averle fatto vedere la sua foto, Merrick esclama: «If only I could find her. If only she could see me now, here, with such lovely kind friends. You, Mrs. Treves, and you, Mr. Treves. Then maybe she would love me as I am».
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do (ricerca destinata al fallimento), che il meccanismo del cinema si attiva, moltiplicando le sue risorse espressive. Attraverso il montaggio, in cui Lynch sperimenta l’uso sospensivo della dissolvenza a nero, del vuoto che improvvisamente cala sullo schermo in alcuni momenti chiave, lasciando quasi a metà una scena, un volto, uno sguardo. È come se il regista lasciasse ora spazio allo spettatore, alla sua decidibilità, al suo desiderio (a lungo tradito) di farsi anch’egli voyeur, di specchiarsi come maschera, sperimentando quindi la paura del vuoto del cinema, il vero orrore che si nasconde dietro ogni immagine. Attraverso il suono continuo ed incessante – di macchinari, fruscii, rumori indistinti, scrosci di pioggia, balbettii e mugugni che provengono dall’uomo incappucciato – che accompagna tutto il film e che allude in continuazione ad un fuori campo assoluto, alla mostruosità non mostrabile che per tutto il film si tende ad esorcizzare: Tale rumore è precisamente l’incarnazione del mostruoso, di ciò che non ha né nome né apparenza e che eccede tutte le figure immaginabili. È un suono ibrido che nega la distinzione di genere e mescola l’umano all’animale e designa con fragore l’alterità del personaggio32.
La macchina cinema si attiva infine attraverso il continuo ricorso alle figure teorico-filmiche del nero, dello sguardo, dello specchio e, soprattutto, attraverso il riconoscimento della capacità del cinema di mettere in gioco la finzione e l’illusione. A parte l’evidente omaggio a Freaks di Tod Browning (quando Merrick viene liberato dalla prigionia a cui lo costringe Bytes dai “freaks” del circo belga, che lo liberano e lo portano – in processione, quasi fosse una figura del sacrificio – fino all’imbarco della nave che lo riporterà in Inghilterra), è nella rappresentazione teatrale di Il gatto con gli stivali, che Lynch mostra un’idea del cinema come gioco illusorio che molto ha a che fare con il reale. Lo spettacolo è condensato in poche scene, mostrate attraverso lo 32. Véronique Campan, L’écoute filmique. Écho du son en image, PUV, Saint-Denis 1999, p. 102. Sull’uso del suono in Lynch naturalmente torneremo nei prossimi capitoli.
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sguardo incantato di Merrick, che “monta” attraverso di sé i trucchi scenici e le figure fiabesche che ai nostri occhi non possono che farci ricordare Méliès e la capacità del cinema di mostrare quel fantastico inquietante che costituirà poi il fuori campo orrorifico di Twin Peaks.
Molteplicità: l’uno e i molti L’identità fluttuante di Dale Cooper, l’indistricabile legame degli sguardi che costituiscono l’universo di The Elephant Man, non sono che alcuni possibili esempi di un cinema che, come quello di Lynch, non fa altro che mostrare ossessivamente le connessioni e i legami tra i soggetti e tra i corpi. L’essere-con-gli-altri è la forma dell’essere nel cinema lynchiano, ma la forma è – lo si è intuito – assolutamente problematica: I film devono obbedire a certe regole. Come la pittura. E queste regole sono astratte e si trovano nella natura. Una di queste è il Contrasto. Non può esserci una linea retta e piatta di felicità. La gente si addormenterebbe. Perciò ci sono conflitti e lotte per la vita o la morte33.
Niente è più lontano dall’universo di Lynch che la rappresentazione di una molteplicità armonica e dei suoi legami. L’essere-con investe (cinematograficamente) finanche l’identità stessa dei corpi e dei soggetti: personaggi multipli, personalità multiple. In Mulholland Drive, la scissione dei corpi, la moltiplicazione dei personaggi assume diverse forme: dal passaggio continuo degli stessi corpi (o degli stessi nomi) in altri corpi (e altri nomi) – Rita diventa Camilla, Betty diventa Diane, ma Rita non si chiama Rita e Betty (non) è Diane –, al passaggio di diversi corpi che hanno la stessa voce. Nella sequenza del casting, in cui il regista deve far finta di scegliere la protagonista del film (che in realtà 33. David Lynch, Lynch, o così o niente (montaggio di brani tratti da varie interviste a cura di Riccardo Caccia), in Riccardo Caccia, David Lynch, cit., p. 6.
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gli è stata imposta dalla produzione), differenti attrici interpretano in play-back la stessa canzone: i corpi vanno, la voce resta. Nella scena all’interno del club “Silencio” Rebekah del Rio interpreta in play-back la versione spagnola di Crying di Roy Orbison (Llorando); ad un certo punto crolla a terra sul palco, mentre la (sua?) voce continua a diffondersi nel teatro. Soprattutto, il circolo senza fine dei corpi permette a Betty/Diane di incontrare il (suo?) cadavere in decomposizione in una delle scene centrali del film. Paradosso logico, paradosso dell’unicità dei corpi e dei soggetti. Ed è in questo momento che Betty e Rita, fuggendo dalla casa dove hanno appena scoperto il cadavere corrono dritte verso la macchina da presa, urlando. L’immagine trema, i loro volti fremono per un effetto dell’immagine e sembrano sdoppiarsi. Il piano illusoriamente lineare e distinto del reale inizia a frantumarsi, a mostrare una frattura. Lynch moltiplica iperbolicamente la possibilità per i corpi e i soggetti, non solo di generarsi, ma di frammentarsi e moltiplicarsi all’infinito34. Se questo può però essere visto (e lo è stato) come una resa cinematografica di un mondo onirico, c’è da dire che in Lynch il sogno non interviene come oggetto della narrazione filmica, ma come elemento espressivo. L’uso del mondo psichico in Lynch non costituisce un allontanamento dal reale, ma una possibilità in più di penetrare in esso: la potenza del cinema è quella di rendere concreti i sogni, afferma il regista35. Le storie e i personaggi prendono forma al livello della natura poetica della psiche36, ma l’equilibrio instabile e necessario tra materiale e immateriale, tra onirico e concreto rimane l’esigenza insopprimibile del cinema, il fondamento del suo statuto ontologico: «È questa concretezza e letterarietà ad essere intuita dal Lynch di Mulholland Drive, suggerendogli di legare a filo doppio il piano del sogno e 34. Cfr. a questo proposito, Olivier Joyard, Jean-Marc Lalanne, Lynch et ‘HHH’: L’autre avant-garde, in «Cahiers du cinéma», n. 564, 2001, pp. 12-15. 35. Cfr. Lynch secondo Lynch, cit., p. 33. 36. Emanuele Trevi, Tra sogno e vita all’indomani dell’abbandono, in «Il Manifesto», 29/03/02.
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quello della realtà, facendoli ruotare entrambi sul perno di un cadavere in decomposizione»37. Il corpo astratto e il corpo reale sono la stessa cosa, pur non smettendo mai di biforcarsi, di presentarsi come molteplici. L’illusoria divisione tra materiale e immateriale è al cinema impossibile a realizzarsi, proprio a causa della natura spettrale del cinema stesso. Così come la stessa divisione tra l’organico e l’inorganico si rivela impossibile, là dove i corpi e gli oggetti si scoprono profondamente interrelati, come vedremo nei prossimi capitoli.
37. Ibidem.
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«Dune contiene una domanda fondamentale: “Cos’è che fa funzionare l’universo?”» David Lynch «Come parlare del corpo e dello spirito? Con l’uso delle tecniche meccaniche». Marcel Duchamp
Il fuori campo assoluto La scena iniziale di The Elephant Man mostra – in un bianco e nero irreale – la marcia di un gruppo di elefanti che assume contorni inquietanti soprattutto per il suono che emana dallo schermo: un ritmico martellare, come un passo cadenzato o, ancora meglio, come il suono amplificato del movimento ritmico di un macchinario industriale. Il suono, collocandosi fuori campo, penetra comunque nel visibile dell’immagine senza confondersi in essa, ma alludendo ad uno spazio in cui si fonda la possibilità stessa del visibile. La nozione di fuori campo, infatti, può essere intesa in due modi: in un primo senso, il fuori campo riguarda tutto ciò che si colloca fuori dallo spazio delimitato dell’inquadratura; è uno spazio non visto ma potenzialmente visibile, a cui il suono conferisce una dimensione percepibile (ad esempio una voce che noi ascoltiamo ma che appartiene ad un corpo che si trova al di fuori dei limiti dell’inquadratura). Il senso secondo, assoluto, del fuori campo, allude ad una dimensione radicalmente altra rispetto al piano del visibile o allo sviluppo diegetico dell’azione. Il suono del macchinario in azione rientra in questa seconda accezione del fuori campo, in grado di designare uno spazio ed un tempo che non trovano corrispondenza sul piano narrativo ma che si collocano in quel luogo che rende possibile il visibile stesso1. 1. Cfr. Véronique Campan, L’écoute filmique. Écho du son en image, cit., pp. 101-102.
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In questo senso, il cinema di Lynch è letteralmente attraversato dalle tracce acustiche di un fuori campo macchinico, fatto di rumori metallici, ronzii, disturbi elettrostatici che a volte entrano addirittura nell’immagine stessa (basta pensare alle innumerevoli lampadine dalla luce intermittente che da Eraserhead a Fuoco cammina con me sono presenti nei suoi film). L’universo delle macchine e dei meccanismi ha sempre ricoperto un’importanza fondamentale in Lynch a partire dalla pratica fotografica e cinematografica, vale a dire a partire dalla scoperta delle tecnologie di riproduzione dell’immagine. Se c’è infatti un tema assente dalla pittura di Lynch è proprio il tema della macchina o del meccanismo. È a partire dalla macchina-cinema (e prima ancora dal dispositivo fotografico) che il tema può essere sperimentato ed affrontato correttamente. Tema che appassiona Lynch perché direttamente legato alla produttività dell’essere, ai suoi flussi e alle sue infinite trasformazioni, alla sua potenza e ai suoi automatismi: Le macchine mi appassionano, le amo profondamente: rappresentano la forza, l’energia... davanti alle macchine, in una fabbrica, per esempio, ho l’impressione di trovarmi di fronte alla potenza stessa... Sono anche come una musica, perché sono orchestrate... Un martello cade, un pistone sale, qualcos’altro si muove, si solleva, etc. mi piacciono i martellamenti, il fuoco, il vapore, il fumo, il metallo, la varietà dei materiali. E le fabbriche sono fatte per costruire e non per distruggere. So che non deve essere facile per gli operai che vi lavorano, perché anch’essi diventano delle macchine. Ma amo l’idea di fare e rifare la stessa cosa all’infinito2.
Di fronte ad alcune fotografie di Lynch, la particolare rilevanza che assumono le macchine e i meccanismi salta subito agli occhi. Nelle varie serie fotografiche realizzate dal regista nel corso della sua attività, da una parte abbondano gli scatti privi di presenze umane, e, dall’altra, le foto di dettagli del corpo; particolari ingranditi a dismisura, sino a 2. David Lynch, Lynch, o così o niente, cit., p. 9.
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perdere ogni riferimento con il tutto organico di cui erano parte. Nelle serie di foto “urbane”, la caratteristica principale è appunto l’assenza dei corpi umani che rafforza: Ancora di più questa presenza che non si vede, ma che è rimasta “registrata” in qualche modo nell’emulsione del negativo. Le macchine, navi industriali, sale chirurgiche, lampade, ripiani sono stati usati da individui, ma tutto appare abbandonato o vuoto; di essi rimane ora solo l’impronta. Come rovine senza età, risultato del saccheggio del tempo; con tutte le informazioni che contengono le cose disfatte3.
La presenza dei macchinari, dei dispositivi nelle fotografie ha senso in quanto ognuno di essi ha a che fare in qualche modo con dei corpi: o perché quei macchinari conservano appunto le tracce di chi li ha usati, consumati; o perché la loro forma, la loro composizione ricorda, è assimilabile a quella di un corpo, vuoi per la predominanza di forme tonde, smussate (come le ciminiere di uno stabilimento industriale), vuoi per la presenza di elementi organici (acqua, pozzanghere, fango) che sembrano far parte integrante del meccanismo stesso. Ancora. Abbondano nelle serie di fotografie lynchiane, dei corpi artificiali, come il soldatino di plastica dalla testa fatta di chewing gum, o la testa di formaggio che Lynch fotografa mentre un gruppo di formiche la avvolge. Corpi che esistono solo nelle foto, che rilanciano la labilità del confine tra organico ed inorganico, in quanto la foto restituisce la qualità (la “texture”, direbbe Lynch) “organica” di materiali come la gomma da masticare o il formaggio. È uno scenario liminale, di confine, di compresenza come si diceva di organico e inorganico, uno scenario che apre alla contemporaneità, come direbbe Benjamin4. 3. Artur Heras, La ternura del desecho, in David Lynch (catalogo della mostra di Valencia), cit., p. 9. 4. È lo scenario del mondo in guerra che si apre agli occhi dell’osservatore: «Masse umane, gas, energie elettriche sono state gettate in campo, correnti ad alta frequenza hanno attraversato le campagne, nuovi astri sono sorti nel cielo, spazio aereo e abisso marino
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Se il meccanismo si mostra come strettamente interrelato all’idea di corpo, il corpo stesso si mostra come meccanismo: durante la lavorazione di The Elephant Man, Lynch realizza una serie di opere basate su dei cadaveri di animali fatti a pezzi; ognuna delle parti dell’animale è posta su un foglio di montaggio che contiene le istruzioni per “montarlo”, come se fosse il kit di montaggio di un modellino o di un apparecchio. Tali opere, note con i nomi evocativi di FishKit, Chicken-Kit, ecc., rilanciano di fatto l’idea del corpo stesso come meccanismo, come dispositivo che, in quanto tale, va assolutamente indagato, esplorato, al fine di ritrovarne il principio di funzionamento. I primi tre lungometraggi di Lynch possono benissimo essere accomunati da questa ossessiva interrogazione del corpo come meccanismo e dell’elemento meccanico come corpo. È un processo visivo che attraversa Eraserhead, The Elephant Man e culmina con Dune.
Étant donnés: Eraserhead/The Elephant Man È in Eraserhead che il fuori campo assoluto trova la sua prima applicazione. Lungo tutto il film, Lynch e Alan Splet, il tecnico del suono (ma sappiamo che il regista ha sempre voluto partecipare attivamente alla creazione del suono dei suoi film) costruiscono un tessuto sonoro costante. Proprio questa complessa struttura sonora, da cui sembra letteralmente “sorgere” lo spazio filmico, contribuisce alla costruzione di un ambiente articolato (come abbiamo visto nel secondo capitolo) e all’elaborazione di uno spazio dinamico e non statico, basato su leggi fisiche particolari che lo renhanno risuonato di motori, e da ogni parte si sono scavate nella Madre Terra fosse sacrificali», in Strada a senso unico, Einaudi, Torino 1983, p. 68. Benjamin e Heidegger sono in fondo i due pensatori che hanno di più riflettuto sul problema della tecnica e delle modificazioni da essa apportate al mondo e al pensiero. la «cosa» heideggeriana e l’inorganico benjaminiano sono le forme di manifestazione di un radicale mutamento a cui il cinema – come ricorda Benjamin – non cessa di partecipare.
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dono in continuo movimento e in continua e costitutiva trasformazione. Il pianeta di Eraserhead è allo stesso tempo un gigantesco organismo e un complesso e dinamico meccanismo. Al suo interno convivono le leve e i dispositivi che l’uomo di fronte alla finestra non smette di azionare e, allo stesso tempo, al suo interno si muovono e proliferano i fluidi e i corpi organici, spermatozoi e semi misteriosi, creature mostruose e uomini dotati di un’esistenza quasi meccanica o automatica (come i genitori di Mary o la vecchia nonna). Su tutto domina una scena – che è poi quella, a detta dello stesso Lynch, da cui tutto il film sarebbe nato –: la testa di Henry si stacca ad un certo punto dal suo corpo, precipita in strada dove un ragazzo la vede e la raccoglie furtivamente. Il ragazzo entra all’interno di un edificio; dentro c’è un portiere che sta in piedi dietro un bancone. Vedendo il ragazzo che porta una testa nelle mani, il portiere suona ripetutamente un campanello. Da una porta esce infuriato un uomo corpulento che si avventa contro il portiere puntandogli minacciosamente il dito contro. Il portiere fa un cenno con la testa e l’uomo si accorge del ragazzino. Allora, divenuto improvvisamente mite, porta il ragazzo con sé attraverso un’altra uscita. I due entrano in una stanza sotterranea dove c’è un uomo seduto di fronte ad un grande e misterioso macchinario. L’uomo corpulento porge la testa a quest’ultimo che estrae un bastoncino di materia cerebrale per mezzo di una sorta di macchina aspirante. Poi inserisce il bastoncino in un forellino della grande macchina e aziona alcune leve. La macchina, ronzando e fischiando, fa scorrere, in fila una dietro l’altra, delle matite che, passando attraverso un tortuoso circuito, arrivano fino al punto dove l’uomo ha inserito il bastoncino per poi uscire munite della gomma per cancellare. L’uomo seduto alla macchina prende una delle matite, traccia un segno sul foglio e lo cancella con la gomma della matita; poi, vista l’efficacia dell’operazione, si volta e fa un gesto d’assenso verso l’uomo corpulento che annuisce a sua volta. La macchina da presa inquadra in dettaglio la mano dell’uomo alla macchina che con un gesto secco, spazza via i residui della cancellatura. Nel nero, i fram106
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menti della gomma da cancellare volano nell’aria in ralenti e in dissolvenza rivediamo Henry sdraiato sul letto. Di questa sequenza sono state date molte interpretazioni, ma, più che un’operazione di decodificazione, ci interessa ora vedere la funzione che la sequenza svolge nell’ambito della genesi del film, della sua producibilità. “Sequenza-matrice” la chiama Chion5, non solo perché è l’immagine che Lynch ha avuto in testa e che ha dato inizio al film, ma perché l’idea stessa di “matrice” attraversa (in questa sequenza e lungo tutto il film) la concezione del cinema che si fa strada in Lynch a partire da Eraserhead. Corpo-cervello-macchina-oggetto. La fulminea sequenza di passaggi entro i quali è possibile sintetizzare la narrazione dice molto su un’idea di cinema in grado di mostrare un rapporto tra corpo e macchina, tanto produttivo quanto alienante. L’elemento organico e l’elemento meccanico si trovano qui sullo stesso piano, sono come necessari l’uno all’altro, si integrano a vicenda in un processo automatico ripetibile all’infinito («amo l’idea di fare e rifare la stessa cosa all’infinito»). Sulla linea di Duchamp, per cui il meccanismo e le macchine sono creatori di altri spazi e altri corpi, agiscono su dei corpi che a loro volta reagiscono su di essi, Lynch, attraverso la fotografia e, soprattutto, il cinema – vale a dire le macchine di produzione di immagini – apre il campo ad un nuovo scenario che costituisce il fuori campo del cinema stesso. È uno scenario in cui la macchina e il meccanismo non si contrappongono all’originarietà dei corpi, ma entrano con essi in una fitta trama di relazioni; sono, anzi, proprio nella loro relazione produttrici di reale, così come la macchina che assembla le matite si nutre del cervello di Henry. L’opera postuma di Marcel Duchamp, Étant donnés 6, la5. Cfr. Michel Chion, David Lynch, cit., p. 44. 6. L’opera di Duchamp, di cui l’artista ha lasciato solo le istruzioni di montaggio, venne esposta al Museo di Philadelphia poco tempo prima che Lynch si trasferisse da quella città a Los Angeles. Non si sa se Lynch andò a vedere l’istallazione che continua comunque ad essere straordinariamente vicina, nella sua concezione macchinica del visibile, al principio generatore del cinema: cfr. Andrés Hispano, David Lynch. Claroscuro americano, cit., p. 29.
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vora sui principi logici di una visione macchinica, in cui lo spettatore osserva, attraverso il buco di una porta una scena in cui una parte di un corpo nudo (per metà maschile e per metà femminile) è visibile disteso sull’erba accanto ad un ruscello in cui l’acqua scorre per mezzo di un motore e sembra tenere nella mano leggermente sollevata una lanterna a gas. I “dati” del titolo sono tutti qui («Dati: 1° La caduta dell’acqua, 2° il gas d’illuminazione»), come a formare l’inizio di una proposizione scientifica del tipo dell’inferenza logica se... allora; ma la proposizione non si conclude e rimane aperta, isolata, come se la macchina logica che la sostiene si fosse immobilizzata sul momento iniziale (degli étant donnés appunto): L’implicazione è incompleta, vi manca l’enunciato implicato. [...] un cedimento logico? Piuttosto una piccola macchineria di linguaggio che consiste nel porre uno stato di fatto come se se ne traessero le conseguenze e poi non le si trae. [...] non si ha dunque successione né simultaneità, ma autocronie che non hanno tra loro altra relazione se non casuale, diciamo di discronia7.
Da questo punto di vista, la macchina delle matite e la macchina cinema innescata da Eraserhead si equivalgono: il film si struttura come una proliferazione di étant donnés che, se pure costruiscono una linea narrativa (in Lynch non c’è mai un abbandono della narrazione), tuttavia si presentano come momenti autocroni, scene che non smettono di prodursi e di proliferare, istanti e cristalli che valgono anche in se stessi, che si possono cogliere nella loro completa autonomia, separati dalle dissolvenze in nero. Il cinema si configura in Lynch, sin dal primo lungometraggio come produzione macchinica, sguardo infinitamente produttivo. Ma la macchina è anche corpo, come si è detto. Ed è su questo aspetto che si concentra The Elephant Man, messa in scena non solo della pluralità degli sguardi, ma anche, come si accennava all’inizio, della macchina come corpo, co7. Jean-François Lyotard, I Transformatori Duchamp. Studi su Marcel Duchamp, Hestia, Como 1992, pp. 53-53.
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me dispositivo che entra in contatto nel profondo con le dinamiche del vivente. Nella sequenza successiva alla visita di Treves alla fiera dove il medico non riesce a vedere l’uomo elefante per l’intervento della polizia, Treves sta operando un operaio ferito dall’esplosione di una macchina; la macchina da presa scarta rapidamente dalla fiamma di una caldaia al lettino dove giace l’operaio, terribilmente ustionato e con il petto squarciato. Intorno a lui Treves e gli altri medici. In primo piano, Treves dice, come tra sé e sé: «Cose infami queste macchine. Non si discute con loro»8. Poco più avanti, Treves, alla ricerca dell’uomo elefante, si aggira in una stretta strada popolare di Londra. Nella sceneggiatura la scena è così descritta: «Looking down from above and to the side of him, we follow Treves walking through a cobblestone street still wet from a recent rain, covered with horse manure and filth of all sorts. The air is smoky from meat burning fires». Rispetto alla sceneggiatura, Lynch dissemina la scena di altri particolari: il fumo che avvolge la strada non proviene solo dalla carne cotta e venduta in strada, ma da una serie di macchinari a vapore, attorno ai quali lavorano degli operai, il rumore delle macchine segue Treves mentre si addentra in un mondo a lui sconosciuto, per poi cessare quando entra nel vicolo dove vive Bytes, il proprietario dell’uomo elefante. Treves, da rappresentante cinematografico di un umanismo dickensiano, si oppone alle macchine chiamandole “cose infami” perché non si può ragionare con loro, perché le vede come oggetti totalmente separati dall’uomo e che, anzi, ne minacciano l’integrità. Ma il suo sguardo è come velato dalla nebbia che le stesse macchine producono quando cammina lungo le strade londinesi non accorgendosi della presenza intensiva della macchina, del ritmo, del rumore e, soprattutto, di quei corpi che sembrano perfettamente integrati in un mondo macchinico. In quella scena, la città stessa, le sue strade e i suoi abitanti – ad eccezione di Treves – sembrano far parte di un unico meccanismo-organismo a par8. Nella sceneggiatura originale si legge: «Abominable things these machines. One can’t reason with them».
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tire dal quale (e solo a partire dal quale), come si è visto, si innescano i complessi dispositivi dello sguardo che caratterizzano The Elephant Man. A continuazione di Eraserhead – e parafrasando Duchamp – si può ancora parlare di étant donnés: dati le macchine e i corpi che si fondono nel ritmo della città e dato il cinema che ne costituisce l’unica possibilità di sguardo.
La macchina del pensiero: Dune L’eccedenza o la moltiplicazione dei corpi, siano essi astratti o materiali, attraversa tutto il cinema lynchiano, sviluppandosi in varie forme e sperimentando tutti i confini della visione, compreso quello relativo alla barriera tra organico ed inorganico, tra il corpo come meccanismo, macchina generata e generatrice e il macchinario come corpo, organismo vivente, parte dell’universo percettivo e percezione esso stesso. Dune, uno dei film più affascinanti di Lynch da questo punto di vista, contiene, si sviluppa a partire da un’interrogazione fondante, ancora una volta cioè, riguardante il problema del fondamento, o, per meglio dire, dell’essere come struttura dinamica e molteplice. Lynch non aveva mai fatto (né farà più) film di fantascienza. Dune, tratto dall’omonimo romanzo di Frank Herbert gli venne proposto da Dino e Raffaella De Laurentiis che nel 1978 acquistarono i diritti del romanzo di Herbert dopo il fallimento del progetto monumentale di Alejandro Jodorowsky, allontanato dal film perché considerato troppo dispendioso. Lynch lesse il libro ed entusiasticamente accettò l’offerta. Pubblicato a puntate sulla prestigiosa rivista di Science Fiction «Analog», tra il 1963 e il 1965 (anno in cui il primo dei sei romanzi della saga vide la luce), Dune respira, è immerso nella controcultura statunitense degli anni sessanta. Il ruolo centrale della droga – la spezia Melange che cresce solo sul pianeta Arrakis, conosciuto anche con il nome Dune – che permette di annullare lo spazio e il tempo e di 110
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aumentare i poteri della mente; il rapporto conflittuale con le macchine (l’universo di Dune si sviluppa sullo sfondo di una terribile guerra tra uomini e robot e quindi sull’assenza della tecnologia come caratteristica dominante); la presenza di corpi trasformati e mutati dall’uso di sostanze stupefacenti: tutti elementi che non potevano non interessare Lynch. Il regista di The Elephant Man, infatti, lavora a lungo sul romanzo elaborando una personale visione di Dune che, al di là del risultato ibrido9, conserva una evidente traccia personale e si presenta anzi come uno dei film più complessi nell’opera del regista. Il film inizia là dove terminava The Elephant Man. Se in quest’ultimo il volto sospeso nello spazio della madre di Merrick ripeteva le parole: «Niente morirà mai», Dune si apre con il volto della principessa Irulan in sovrimpressione sullo sfondo dello spazio stellato che pronuncia le parole: «L’inizio è un momento di fragili equilibri» (prologo che non appare nella sceneggiatura originale). Ancora una volta volti, spazi e sguardi sostengono il farsi del film, la possibilità stessa della loro visione. Ma se Herbert disegna uno scenario fantascientifico completamente privo di tecnologie sofisticate, Lynch inserisce di fatto computer ed astronavi all’interno della narrazione. Subito dopo i titoli di testa, lo schermo è occupato dalle immagini di un rapporto segreto della gilda spaziale (immagini generate da un computer) che spiega il complotto per la conquista del potere in cui sono coinvolti quattro pianeti: il pianeta Arrakis, luogo di origine della spezia Melange, il pianeta Caladan (patria della famiglia Atreides), il pianeta Geidi Primo (patria della famiglia Arkonnen) e il pianeta Caitain (patria dell’imperatore Shaddam IV, padre di Irulan). È la base per la complessa narrazione che si svilupperà in seguito. Ma se nell’universo di Dune disegnato da Lynch macchine elaborate convivono insieme a corpi mutati (come quelli dei Mentat, i computer umani, come i corpi eccedenti de9. Dune fu un mezzo insuccesso commerciale e Lynch parla sempre malvolentieri del film, considerandolo un’occasione perduta.
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gli Arkonnen o come quelli lucidi ed asettici dei Fremen), il design tecnologico si discosta da quello che il cinema di fantascienza contemporaneo a Dune stava sviluppando (da Alien alla saga di Guerre stellari): in effetti l’elemento tecnologico ricorda visivamente gli stili del passato – una tecnologia del futuro immaginata da un uomo dell’Ottocento: i computer e le astronavi ricordano in modo impressionante le illustrazioni dei libri di Jules Verne –, e i corpi che abitano il film sembrano direttamente fuoriusciti dal circo di The Elephant Man, come se Dune fosse un film immaginato da John Merrick la notte prima di morire. Ecco dunque costituirsi di fronte ai nostri occhi un tessuto di compresenze temporali e spaziali; una narrazione che, pur proiettata nel futuro, non fa altro che ossessivamente ripercorrere la genesi dello spazio, del tempo e dei corpi. Scrive Edoardo Bruno a proposito del film: Attraverso un occhio smisurato, le distanze dei secoli ricompongono un tessuto innaturale, dove uomini e cose si osservano e vengono osservati in un territorio diegetico indifferente, dove gli oggetti e i corpi hanno una fascinazione primordiale – bronzei e pesanti i macchinari crudeli, mostruosi e fetali i grumi di carne parlanti antiche profezie. [...]. Palazzi barocchi, saloni immensi, macchinari di rame e di bronzo costituiscono il territorio preistorico di questo universo futuro proiettato nella Rinascenza, dove persiste un passato in cui le cose costruite dagli uomini resistono ancora dieci secoli dopo; l’Utopia è questo tempo trascorso, che si fa memoria di un passato-futuro che deve ancora venire. In altre parole, l’immaginario risente l’origine e questa origine apre un abisso di memorie, di solitudini, di intensità emotive, che risvegliano stati sonnambolici, trasmutazioni oltre il possibile10.
Nella lettura di Bruno emerge l’idea di un film come spazio-tempo in cui sono contemporaneamente presenti l’origine e lo sviluppo dell’universo il suo passato il suo futuro. Lynch dà vita ad un progetto ambizioso, in cui l’immobilità delle azioni, dei corpi, degli scenari contribuisce a mostrare 10. Edoardo Bruno, Lo spazio percettivo in Lynch, in «Filmcritica», n. 352, 1985, pp. 93-94.
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il continuo prodursi di materia e di senso. Il film si sviluppa quasi completamente privo di scene d’azione, ogni momento risulta essere una sospensione del tempo, un quadro che si complica e si struttura attraverso centinaia di interruzioni del flusso filmico, attraverso innumerevoli sovrimpressioni, voci che si rincorrono in off, riferimenti al passato, al futuro, a ciò che è stato e a ciò che deve venire. In altre parole, Dune lavora sul flusso indistinto e non lineare del pensiero, su un meccanismo cerebrale che produce in continuazione schegge complesse, corpi astratti e spettrali, luoghi che esistono e si modificano nella mente. Come spiega nel film Paul Atreides ai Fremen che sta addestrando: «Alcuni pensieri emettono dei suoni così forti che diventano l’equivalente di una forma solida». Lo spettatore è costretto a soffermarsi su ogni immagine, nell’impossibilità di contestualizzarla sino in fondo, nell’impossibilità di deciderne la verità e il senso; un continuo disorientamento dello sguardo che, al di là dei tagli e delle vicende produttive, ha probabilmente contribuito moltissimo all’insuccesso del film: In realtà Dune si compie attraverso un tortuoso percorso narrativo che, nel disorientare lo sguardo, lo spinge ad assimilarsi al pensiero. [...] Per questo i molti tagli che il film ha dovuto subire non sembrano aver agito in modo devastante sulla totalità del film in quanto è esso stesso privo di una unità compatta, anzi, è corpo in disgregazione nello spazio e nel tempo, che non muta aspetto nella continua teoria di accumulazioni e dilatazioni [...]. Da qui l’impressione che nulla accada veramente se non riflesso contro gli occhi dei protagonisti [...], da qui anche la sensazione di un’affascinante immobilità che ritrae i corpi come se fossero imprigionati in uno spazio immateriale e incantati all’interno di un tempo che è sempre presente11.
Il fuori campo che sostiene, impregna le immagini di Eraserhead e di The Elephant Man ora sembra ricoprire la superficie stessa del film. Tutto è immerso, ricoperto da un flusso di pensieri e movimenti immateriali che immobilizza11. Grazia Paganelli, La visione del pensiero: Dune, in «Garage», n. 17, 2000, p. 100.
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no i personaggi e le loro azioni. Il cinema riflette ancora una volta su se stesso come meccanismo di produzione immateriale, potenzialmente infinito e dalla durata illimitata (che è poi l’utopia su cui Lynch lavorerà in Twin Peaks).
La macchina del cinema 1: Premonitions Following an Evil Deed Parallelamente ad una ricerca sempre aperta alle forme del sentire filmico, Lynch ha sempre di più lavorato sul filmico come dispositivo automatico, come disseminazione di forme, corpi e meccanismi. La figura registica tende a perdere l’aura autoriale a cui la consegna una certa tendenza critica, per farsi strumento di connessione tra un sentire organico e una percezione più ampia come solo la macchina da presa – e la complessa macchina del cinema ad essa sottesa – può mettere in atto. In tutti i suoi film, Lynch mette in gioco il cinema come dispositivo, sempre sperimentando forme diverse, pur nella ricorrenza di elementi, luoghi e forme che rendono riconoscibile un suo film. È come se Lynch incontrasse ogni volta di nuovo il cinema, dunque interrogandolo, sperimentandone le occorrenze e le possibilità a partire dalla sensibilità pittorica che lo contraddistingue. Ogni film di Lynch – stiamo ormai iniziando a capirlo – è anche un’escursione nel territorio cinema, inteso come ulteriore forma di creazione di una molteplicità di sguardi su una realtà dinamica e molteplice. Nel 1995, Lynch viene invitato a partecipare ad un progetto nato per festeggiare il centenario della nascita del cinema. Il progetto, coordinato dalla fotografa Sarah Moon, consisteva nel riunire quaranta registi da tutto il mondo con il compito di realizzare un breve film con l’apparecchio da ripresa inventato dai fratelli Lumière. Le condizioni erano quelle di lavorare con le stesse limitazioni degli operatori Lumière: girare solo in esterni e con la luce del giorno, seguendo la durata di un rullo di pellicola (un minuto circa) e senza possibilità di intervenire in postproduzione. Ogni regista aveva a disposizione tre riprese e, alla fine, doveva sceglierne una. 114
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Presentato alla 46° edizione del Festival di Berlino, il film risultante, Lumière et Compagnie è un prodotto (come spesso in questi casi), eterogeneo e non uniforme, ma al suo interno contiene alcune chicche tra cui naturalmente il breve film di Lynch, dal titolo programmatico di Premonitions Following an Evil Deed (dato che il titolo non compare nel film, da altre fonti il corto di Lynch viene presentato come Premonitions Following an Evil Dead, cioè come “Premonizioni seguenti ad una morte malvagia” anziché “ad un fatto malvagio”). Di fronte alle limitazioni tecniche che il girare con l’apparecchio Lumière comporta, Lynch inventa una serie di trucchi differenziandosi dalla maggior parte degli altri registi partecipanti (tra cui Boorman, Lelouch, Anghelopoulos, Zhang Yimou) che, per la maggior parte, scelgono di girare in piano sequenza. Il regista americano sceglie invece di accostare cinque set differenti uno accanto all’altro e di girare la storia in sequenza, passando, attraverso stacchi di montaggio “empirici” (un cartone nero passato davanti all’obiettivo oppure un’esplosione che copre l’inquadratura con del fumo bianco), da un “set” all’altro creando un montaggio “in diretta”, sul campo. Il risultato è una micronarrazione di rara complessità. Nella prima inquadratura vediamo tre poliziotti avvicinarsi al corpo disteso a terra di una ragazza (morta?). Uno stacco e l’inquadratura passa sul primo piano di una donna seduta su un divano che volta la testa come avvertendo qualcosa. Uno sbuffo di fumo bianco e vediamo un gruppo di ragazze in atteggiamento rilassato in un giardino. Una di esse si alza dalla panchina dove stava seduta e guardando fisso di fronte a sé si avvia verso qualcosa (che rimane fuori campo) verso sinistra. Un altro stacco e in un luogo imprecisato degli strani esseri dalla testa bianca si affaccendano intorno ad un cilindro trasparente pieno d’acqua dentro al quale sta una ragazza nuda. Infine la donna seduta al divano si alza e va ad aprire la porta; compare un poliziotto che, togliendosi il cappello, si comporta come se stesse per dare una brutta notizia alla donna. Il tutto per la durata di 54 secondi. Eppure, in questi 54 secondi, Lynch non solo condensa (cosa che d’altronde fa in ogni suo film) tutti gli elementi caratterizzanti il suo lavoro (la morte, il mi115
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stero, la sofferenza, l’intuizione), ma elabora una personalissima lezione di cinema visto come apparato, come dispositivo di contrazione del tempo. I cinque scenari del cortometraggio non smettono di richiamarsi l’un l’altro: ad una prima visione il montaggio sembra isolare i vari frammenti, evidenziandone le differenze e le discrepanze più che la contiguità di senso. Eppure, vedendo e rivedendo più volte il piccolo film non si può fare a meno di lavorare sui raccordi narrativi che esso contiene. Le premonizioni del titolo sembrano riferirsi a quelle che la donna sul divano mostra di avere voltando la testa come nell’atteggiamento di chi ha sentito uno strano rumore. Questa immagine arriva subito dopo l’inquadratura frontale dei poliziotti che si avvicinano al corpo di una donna. La premonizione riguarda una ragazza (la giovane seduta in giardino?) che forse è stata rapita e torturata da strane creature aliene. Il suo corpo è stato scoperto dalla polizia che ora svela la verità alla donna (la madre della ragazza?). Immediatamente una serie di domande si fanno strada nella mente: dove si collocano temporalmente le diverse inquadrature? La scena della tortura è realmente avvenuta o solo immaginata dalla donna sul divano? Il poliziotto che si toglie il cappello somiglia (anche se l’immagine non è ovviamente ben definita) a una delle strane creature che stanno intorno alla ragazza nuda; forse la scena dei poliziotti che trovano il corpo della ragazza è un’invenzione creata per dare una versione verosimile dei fatti alla madre della donna? La moltiplicazione delle inquadrature – realizzate con un apparecchio che, è il caso di ricordarlo, non prevedeva il montaggio – crea un film che non smette di generare possibilità di senso e di tempo, come se Eraserhead si fosse condensato in un’immagine di meno di un minuto. Lynch struttura la macchina da presa come dispositivo del vedere che, nella successione dei piani e delle inquadrature, diventa anche un dispositivo del tempo. Tornando alla genesi tecnica del cinema, Lynch mostra in azione un meccanismo filmico sottilmente teorico ricollegandosi straordinariamente a uno dei suoi film preferiti di sempre, a sua volta grandioso dispositivo cinematografico: La finestra sul cortile. Interrogato 116
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dalla rivista «Studio» sui film che lo hanno maggiormente influenzato e su cui poter costruire una lezione di cinema, Lynch, dopo aver ripetuto per l’ennesima volta di non essere un cinefilo e di non essere un bravo oratore, elenca comunque una serie di film (sono quelli che sempre ricorrono nelle sue interviste) da mostrare ad un ipotetico gruppo di studenti: 8 e 1/2 di Fellini, Le vacanze di Monsieur Hulot, Viale del tramonto e: Alla fine, farei vedere La finestra sul cortile, per il modo brillante in cui Hitchcock arriva a creare – o a ricreare – un universo verosimile in questo cortile immobile. James Stewart non lascia mai la sua poltrona durante tutto il film, e malgrado ciò, si sviluppa, dal suo punto di osservazione, una incredibile storia di omicidio. Questo film è l’arte di condensare qualcosa di enorme e di farlo rientrare in qualcosa che appare minuscolo. Semplicemente la padronanza totale dell’immagine12.
Hitchcock diventa qui, nella prospettiva di Lynch – che in Premonitions... mostra di aver ben imparato la lezione – il fautore di un cinema come meccanismo di parcellizzazione del reale, di creazione di un micromondo in movimento che – proprio in virtù del fatto che si muove, si sviluppa in una dimensione temporale – non smette di creare senso, di produrre nuova realtà. James Stewart, immobile voyeur dotato di apparato di riproduzione fotografica, si trova nella stessa posizione del regista Lynch mentre passa da un set all’altro in Premonitions; anche qui tante finestre possibili sono legate da un montaggio che non chiude mai completamente il senso possibile della storia. Il cinema è un dispositivo che condensa la realtà e non smette di produrla, afferma Lynch; ma tale dispositivo è efficace purché il suo movimento non sia totalmente armonico, vale a dire purché il montaggio, il rapporto tra le inquadrature e tra ciò che sta all’interno delle inquadrature, si mostri sempre come frattura, fessura, ferita quasi (come il nero e il fuoco-fumo di Premonitions). In altre parole, dare realtà (cioè movimento) a 12. David Lynch, La leçon de cinéma de David Lynch, par Laurent Tirard, in «Studio», n. 118, 1997, p. 27.
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ciò che permane immobile sotto un altro sguardo, è ciò che il cinema può fare nel momento in cui il contrasto tra le inquadrature, tra gli elementi che lo compongono continua a produrre una dismisura, una incongruenza (l’enorme nel minuscolo) che, sola, può fare del cinema un dispositivo vitale e creativo. È, da un certo punto di vista, la radicalizzazione dell’idea hitchcockiana del cinema, in cui il montaggio è lo strumento di una creazione macchinica di un mondo. Seguendo Hitchcock, in La finestra sul cortile: Abbiamo l’uomo immobile che guarda fuori. È una parte del film. La seconda parte mostra ciò che vede e la terza la sua reazione. Questa successione rappresenta quella che conosciamo come la più pura espressione dell’idea cinematografica. Lei sa cosa ha scritto Pudovkin a questo proposito; in uno dei suoi libri sull’arte del montaggio racconta l’esperimento che aveva fatto il suo maestro Lev Kule‰ov. Si trattava di mostrare un primissimo piano di Ivan Mosjouskine, seguito subito dopo dall’inquadratura di un bimbo morto. Sul viso di Mosjouskine si legge la compassione. Si toglie l’inquadratura del bimbo morto, al suo posto si mette l’immagine di un piatto di cibo e, sullo stesso primissimo piano di Mosjouskine, si legge ora l’appetito. Prendiamo ora un primissimo piano di James Stewart. Egli guarda dalla finestra e vede, per esempio, un cagnolino che viene fatto calare nel cortile dentro un cesto; torniamo a Stewart: sorride. Ora al posto del cagnolino che scende nel cesto, si mostra una ragazza nuda davanti alla finestra aperta; si inserisce lo stesso primissimo piano di James Stewart che sorride e ora è un vecchio sporcaccione!13
Il meccanismo del montaggio è, in Hitchcock come in Lynch, strumento di una macchina che – come la macchinacinema – produce corpi filmici, realtà connesse proprio a partire da un disequilibrio di fondo: quello tra le inquadrature che compongono il film, degli elementi cioè che potrebbero collegarsi oppure no, dando vita ad una molteplicità di percorsi, ad una molteplicità di storie, come le tante finestre che si affacciano su un cortile «Dall’altra parte del 13. François Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Pratiche, Parma 1994, pp. 180-181.
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cortile [James Stewart, n.d.a.] ha di fronte ogni possibile comportamento umano, un piccolo catalogo dei comportamenti. [...]. Quello che si vede sul muro del cortile, è tutta una serie di piccole storie, è uno specchio [...], di un piccolo mondo»14. In questo senso, il rapporto che lega Lynch e Hitchcock si fa ancora più evidente: in entrambi si tratta di esplorare e reinventare il cinema in ogni film, di sperimentare all’interno di dinamiche e linguaggi già conosciuti ma che divengono improvvisamente nuovi, completamente aperti a inedite configurazioni15. La radicalizzazione compiuta da Lynch riguarda proprio la possibilità di moltiplicare ulteriormente le connessioni possibili: Premonitions non smette di girare vorticosamente come un vero nastro di Moebius come se il principio del montaggio ritornasse su se stesso in continuazione proponendo continuamente nuove connessioni e nuovi raccordi. Ma, non smette di avvertirci Lynch, tutto questo è già tutto – sin dall’inizio – nel cinema, lo è già in quanto il cinema, nascendo, istituendosi, contiene in sé il principio del suo differimento infinito, al di là di ogni codice e di ogni convenzione16.
14. Ivi, p. 182. 15. Sulla vicinanza tra i due registi insiste anche Serge Daney, in Il cinema e oltre, cit., p. 258: «Da qualche tempo, David Lynch mi dà tutta l’aria di essere un erede molto serio di Hitchcock. I punti in comune sono evidenti: stessa ossessione sessuale fra la licenziosità e la fobia, stessa oscillazione fra l’organico poco gradevole e la patinatura di una superficie liscia, stessa coesistenza di una logica stringente e dell’irrazionale destinato a rimanere tale, stesso gusto per il pubblico tenendo conto del posto in cui si trova (davanti alla tv), stesso talento da chirurgo plastico prodigo di «idee» formali, persino formaliste, stessa cultura da designer di moda, stessa ironia, qualche volta stravagante, presente nella forma stessa». 16. A proposito di Intrigo internazionale, Hitchcock racconta a Truffaut di una scena non realizzata in cui il principio del montaggio si rivela essere un meccanismo creatore di realtà: «Volevo filmare una lunga scena di dialogo tra Cary Grant e un caporeparto della fabbrica, davanti ad una catena di montaggio. Mentre camminavano parlavano di un terzo uomo che forse ha a che fare con la fabbrica. Dietro a essi l’auto comincia a comporsi, pezzo per pezzo e viene anche fatto il pieno d’olio e di benzina; alla fine del loro
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La macchina del cinema 2: Velluto blu/Una storia vera Tornare alle origini del meccanismo cinematografico, scoprire da qui le possibilità stesse del cinema: è questa l’operazione che Lynch compie ogni qualvolta indaga il meccanismo dell’immagine-movimento. Se Premonitions Following an Evil Deed lavora sulla vertigine del montaggio e del raccordo infinito ritrovandoli là dove il cinema ha inizio, il discorso si fa ancora più complesso là dove la dismisura, la fessurazione dell’immagine, si sviluppano nella durata, nell’estensione temporale di una singola inquadratura o di un intero film. È in questo senso, che l’inizio di Velluto blu e l’intero Una storia vera si configurano come forme particolari di cinema inteso come macchina del tempo. La sequenza iniziale di Velluto blu è folgorante e spaesante come raramente nel cinema di Lynch; è dunque necessario ripercorrerne attentamente la struttura. I titoli di testa del film si stagliano su uno sfondo di velluto blu in lieve movimento. Dopo l’ultima scritta («Directed by David Lynch») con uno stacco di montaggio siamo introdotti in una serie di quadri filmati, immediatamente riconoscibili ma che suscitano in noi un innegabile turbamento: una staccionata bianca inquadrata in un movimento dall’alto verso il basso, il cielo blu, dei fiori rossi. Un camion dei pompieri che passa dinnanzi alla macchina da presa; ancora la staccionata con dei fiori gialli; un gruppo di bambini che attraversa la strada sulle strisce pedonali; l’esterno di una casa ben curata con giardino; un uomo che annaffia il giardino; una donna seduta sul divano; l’immagine di una mano che stringe una pistola che proviene da un film visto in televisione; l’uomo innaffia il giardino; il tubo dell’acqua si aggroviglia su un ramo di un cespuglio e l’acqua non arridialogo guardano la macchina completamente composta partendo dal niente, da un semplice bullone, e dicono: “È veramente formidabile, eh!”. E in quel momento aprono la portiera dell’auto e un cadavere cade per terra», in ivi, p. 215. Il cadavere cade non dal nulla ma dal processo meccanico di costruzione dell’automobile, dalla catena di montaggio. Se Hitchcock arriva sino a questo punto, Lynch parte invece proprio da qui.
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va più; l’uomo guarda il tubo perplesso; la manopola dell’acqua sotto pressione fa fuoriuscire l’acqua dal tubo; l’uomo porta la mano al collo con un’espressione di dolore, come colpito da qualcosa; cade a terra, mentre l’acqua fuoriesce dal tubo: l’uomo è a terra privo di coscienza, la mano ancora stretta sul tubo da cui fuoriesce un potente getto d’acqua verso l’alto; un bambino gioca lì vicino; un cane si avvicina e beve l’acqua che fuoriesce dal tubo; fino a qui la colonna sonora è costituita dalla canzone Blue Velvet di Bobby Vinton, le cui parole – che fanno continuo riferimento ai colori del cielo, di un vestito, degli occhi di una donna, ecc. – accompagnano la scena; la macchina da presa scende sotto il livello dell’erba e inquadra il suolo brulicante di insetti; ora alla musica si è sostituito un indistinto rumore, come un fruscio mescolato ad un ronzio dall’incerta origine; uno stacco e sullo sfondo del cielo azzurro vediamo un cartello pubblicitario su cui è disegnato il volto di una donna sorridente e la scritta «Welcome to Lumberton»; altri stacchi, piani lunghi ed immagini della cittadina, mentre udiamo la voce di un radiocronista parlare dalla stazione radio locale17. La sequenza è straordinariamente complessa: l’insieme delle inquadrature, pur inserendosi perfettamente in un percorso narrativo (in una piccola e ridente città di nome Lumberton, un uomo che innaffia un giardino improvvisamente ha un malore e cade a terra privo di sensi), le rende allo stesso tempo incredibilmente isolate l’una dall’altra, così come succedeva in Premonitions. Ognuna di esse è, come si diceva, perfettamente riconoscibile, è una staccionata, sono dei fiori, è un cielo blu, è una casa ben curata, ecc. ma è il loro rapporto ad essere problematico, come se il flusso della sequenza non annullasse il potere di ogni singola inquadratura di durare, di permanere nella retina. Lo sguardo è costretto a ricordare quasi ogni immagine, proprio perché la loro connessione è, al di là delle apparenze, problemati17. L’analisi inquadratura per inquadratura di questa sequenza è inserita da Bruno Fornara all’interno di un percorso sulle forme del cinema come messa in scena; cfr. Bruno Fornara, Geografia del cinema. Viaggi nella messinscena, Holden Maps/Rizzoli, Milano 2001, pp. 128-141.
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ca. La rappresentazione è talmente idilliaca da presentarsi immediatamente come astratta; le deviazioni della macchina da presa lasciano sconcertati (perché gli insetti?); la precisione fotografica lascia indecisi sulla effettiva consistenza materica di quanto stiamo vedendo. In poche parole, Lynch, attraverso il ricorso alle risorse tecniche base del linguaggio cinematografico (montaggio e fotografia), ci introduce in poche inquadrature in un mondo totalmente riconoscibile e, allo stesso tempo, totalmente estraneo, «out of joint», come direbbe Derrida18. Ecco dunque restituito in tutta la sua potenza destrutturante il tempo dislocato del film, del meccanismo filmico come macchina del tempo che isola le immagini e le dilata al tempo stesso, ponendoci di fronte, senza filtri, l’esperienza di un tempo e di una realtà che solo il cinema ci permette di provare: «Lynch sposta i meccanismi del tempo usando tecniche filmiche, ricomponendo lo spazio sonoro in forme inaudite, osservando e ascoltando le cose con la forza impietosa di chi dilata il tempo e il luogo, il suono e la figura»19. Ancora una volta sono in azione il concreto e l’astratto: la concretezza scandalosa della materialità delle cose e l’astrazione del meccanismo filmico (montaggio, fotografia, suono). Ancora una volta sono questi gli elementi alla base della ricerca cinematografica di Lynch. Ma se la sequenza iniziale di Velluto blu funziona da premessa alla visione del film (l’inquadratura immediatamente successiva all’ultima descritta ci mostra Jeffrey Beaumont, il protagonista del film mentre passeggia nel bosco poco prima di trovare l’orecchio mozzato che dà inizio alla storia), ancora più radicale è la scelta di estendere tale premessa alla durata totale di un film, come accade in Una storia vera. Una storia vera è la dilatazione del tempo e dello spazio nell’occhio meccanico della macchina da presa, dilatazione che dura lungo tutto lo spazio del film e che permette allo spettatore una nuova esperienza di visione. Da quando Avin Straight parte con il tosaerba «John Deere» del 1966 per rag18. Cfr. Jacques Derrida, Spettri di Marx, Raffaello Cortina, Milano 1994. 19. Edoardo Bruno, Del gusto. Percorsi per un’estetica del film, cit., p. 160.
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giungere il fratello morente e per potersi riappacificare con lui, la complessa macchina cinematografica sceglie di accompagnare il vecchio, di seguirlo passo passo, di adottare il suo ritmo – vitale e meccanico, del suo corpo e del suo mezzo di trasporto – tanto da lasciarsi superare da ogni altra cosa visibile. Lungi dall’essere una parentesi rispetto al suo percorso registico, Una storia vera è, come ripete Lynch «il mio film più sperimentale», dove ciò che viene sperimentato è proprio l’annullamento del controcampo, di ciò che rende visibile il contesto dove si muove il personaggio. Ciò che veramente importa è la velocità del mezzo, è la velocità del corpo, entrambi caratterizzati dalla lentezza, dall’ottusa quanto determinata spinta ad andare avanti, ad attraversare lo spazio che li separa dalla meta. Contrariamente a quanto potrebbe sembrare a prima vista, la lentezza del mezzo di trasporto non permette alla macchina da presa (e ad Alvin) di «vedere di più», di soffermarsi su ciò che sarebbe potuto rimanere invisibile intorno a loro. Il viaggio procede e lo spettatore è costretto a rimanere accanto al protagonista, a muoversi insieme a lui assaporando la sua lentezza. Lo sguardo della macchina da presa, come abbiamo già detto20, rifiuta di armonizzare il corpo di Alvin con la natura circostante; Alvin non lotta con lo spazio, ma con il tempo: con il tempo che gli resta da vivere, con il tempo lento della sua esistenza, con il tempo della memoria: in una delle scene più intense del film Alvin, costretto ad una sosta forzata per una riparazione, si ferma a bere una birra con un anziano del luogo. Seduti entrambi al bancone, i due rievocano i tempi della Seconda Guerra Mondiale, quando entrambi erano soldati. Due racconti drammatici, che segnano una vita: il primo scampato per caso all’eccidio del suo plotone, l’altro causa non intenzionale della morte di un compagno. Nessuna immagine accompagna i due racconti, nessun flashback apre uno spiraglio alla visibilità della memoria. I due parlano e guardano fisso di fronte a loro. Nonostante questo incontro, ognuno di loro sa che rimarrà solo con i propri ricordi, senza poter essere sollevato, consolato dalla loro atrocità. In crescendo, sen20. Vedi il paragrafo «Tempo e movimento» del II capitolo.
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tiamo i rumori di una battaglia, di esplosioni, di morte. Il suono rimane l’unica traccia sensibile del tempo. Sempre di più, allora, il meccanismo del cinema ha a che fare con le dinamiche del corpo: con i suoi ritmi vitali (come in Una storia vera) o con il suo pensiero (come in Dune). Il rapporto tra il meccanismo del cinema o nel cinema e gli organismi si presenta in Lynch complesso e misterioso. Ogni incursione nelle tecniche di produzione dell’immagine o nella pura esistenza dei corpi fa sì che il suo cinema esploda in una miriade di connessioni e derive che penetrano in una realtà complessa e dinamica di cui però non è mai data l’immagine totale: Lynch non è interessato [...] a film che si dipanano in quadri compiuti né a immagini che stabilizzano la visione. La sua passione per l’enigma non assume la veste di una detection che ricompone i tasselli nebulosi di un mosaico solo apparentemente indiscernibile, ma si amplifica fino a fare di ogni enigma lo snodo verso altri enigmi in un intreccio di presunte soluzioni che svelano la provvisorietà di ogni soluzione21.
Torneremo ancora sulla portata teorica di queste affermazioni. Per ora rimaniamo sul problema del cinema come dispositivo, scavando ancora sulla trama sonora del cinema lynchiano.
Dispositivi sonori Sin dall’inizio di questo capitolo, discutendo sulla molteplice presenza del meccanismo nel cinema di Lynch (o del cinema in Lynch come meccanismo/dispositivo creatore di realtà), abbiamo messo in evidenza quanto il suono (dalle parole, alla musica, ai rumori comprensibili o indistinti) fosse parte integrante delle dinamiche filmiche, non come semplice accompagnamento o accentuazione di una determinata situazione, ma come vero e proprio elemento 21. Francesco Cattaneo, Per (mis)conoscere la realtà. La retorica dell’avvicinamento in Lynch, in «Cineforum», n. 404, 2001, p. 39.
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espressivo, parte del dispositivo-cinema che il regista mette in atto. Il ruolo che la sonorità assume in Lynch è fondamentale per entrare all’interno di una determinata concezione della pratica filmica. È quindi necessario analizzare più in profondità la complessa trama sonora che il reale produce nel cinema lynchiano, perché, se è vero che il quadro si trasforma in qualcosa d’altro nel momento in cui acquista movimento – e il pittorico entra, mutandosi, nel territorio del filmico – questo avviene anche grazie ad un dispositivo sonoro complesso che Lynch utilizza sin dal suo primo lavoro (in Six Figures l’immagine in loop era accompagnata dal suono ripetitivo di una sirena). Dispositivo sonoro in quanto elemento agente nella costruzione dell’immagine filmica, ulteriore (e fondamentale) forma della macchina cinema: «I miei film sono come dei quadri filmati: ritratti in movimento imprigionati su celluloide. Stratifico tutto attraverso il suono per generare un’atmosfera unica: come se la Monna Lisa aprisse la bocca, ci fosse una brezza e lei si voltasse sorridendo»22. L’azione del suono è innanzitutto quella di stratificare, di costruire una “texture” complessa e dinamica della realtà filmica; per far ciò, il suono si divide e si condensa, sfrutta tutte le sue possibilità di “arte del tempo” (come il cinema). Partiamo, ancora una volta, da Francis Bacon: nota Deleuze come in molti quadri del pittore inglese ci sia una bocca che grida, orifizio aperto, osceno e terrificante – ad esempio in Study After Velasquez’s Portrait of Pope Innocent X (1953) o in Study for the Nurse in the Film Battleship Potemkin (1957). Il grido è naturalmente muto, ma, allo stesso tempo, indice di una dinamica violenta di trasformazione del corpo: «Tout le corps s’échappe par la bouche qui crie. Par la bouche ronde du pape ou de la nourrice, le corps s’échappe comme par une artère»23. Il corpo si trasforma in virtù di quel movimento sonoro violento che è il grido, il suono diventa meccanismo di trasformazione del corpo e della realtà. In questo senso può essere letto il trittico Three 22. Lynch secondo Lynch, cit., p. 167 (corsivi nostri). 23. Gilles Deleuze, Francis Bacon. Logique de la sensation, cit., p. 23.
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Studies of the Human Head (1953) in cui si passa da un sorriso nel primo tassello, ad un grido nel secondo e, infine, ad una testa nell’atto di dissolversi nel terzo. Grido e dissolvimento del corpo, il passaggio è unidirezionale: paradossalmente, Bacon sembra annunciare qui la priorità del suono (che non c’è) sulle dinamiche del reale. Ed è proprio questa priorità che Chion riconosce a Lynch: Questo vuol dire che il suono sta all’origine di certe immagini – si sente qualcuno o qualcosa e ciò porta con sé delle visioni. [...] Spingiamoci ancora oltre: non ci sono forse nella percezione dei capovolgimenti completi di ciò che si vede che possono essere creati dalla forza dell’impressione acustica, analogamente alle interferenze su uno schermo televisivo quando l’immagine è deformata dal suono? Certe deformazioni e convulsioni visuali, in Lynch, non potrebbero dunque essere un effetto dello stesso genere? È sorprendente come una voce che esce da una stessa gola possa cambiare aspetto. Il volto che è nella voce si modifica costantemente, molto più di quello che si può vedere con gli occhi. Immaginiamo allora che i volti siano altrettanto plastici, deformabili, imprevedibili come le voci che ne escono. Il disegno animato rappresenta talvolta questa distorsione strutturata attraverso il sonoro, ma lo fa secondo convenzioni comiche. Anche David Lynch la rappresenta, non per far ridere, ma per fedeltà alla verità del suo sentimento delle cose24.
È ora chiaro il movimento che caratterizza la dinamica di cui si parlava: dal suono emerge un’immagine, (anche) a causa del suono l’immagine è quello che è, non solo per l’effetto estetico nella fruizione, ma proprio nel senso della sua origine, della sua legittimità. Centralità assoluta dell’elemento acustico. Più volte Lynch lo ribadisce nelle molte interviste rilasciate e più volte ne dissemina le tracce nei suoi film. Si tratta ora di vedere più da vicino le forme, le dinamiche di funzionamento del meccanismo cinematografico sopra descritto, e lo faremo a partire dalle diverse modalità con cui Lynch costruisce la sua “texture” sonora: la musica, i rumori, le parole. 24. Michel Chion, David Lynch, cit., p. 214.
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Musica. La prima genesi musicale dell’immagine avviene in Alphabet. Il flusso delle immagini, la loro concatenazione dipende in fondo dalla filastrocca «A,B,C» che ne costituisce la colonna sonora. Il coro di bambini assume una valenza quasi horror nel film, tanto da partorire, generare i corpi-lettera che, a loro volta, generano il mondo inquietante del film. La musica è dunque “origine”. Lynch usa la parola “originale” riferita alla canzone In Dreams di Roy Orbison usata in Velluto blu, anche se tecnicamente il pezzo appartiene alla musica “non originale”, vale a dire non composta appositamente per il film25. Nel senso in cui Lynch usa la parola, “originale” significa allora “che dà origine”. La dimensione estetica della musica (e dell’ascolto) produce le sensazioni che visualizzano il film, come nel caso di Strade perdute, i cui titoli di testa si dipanano a partire da I’m Deranged di David Bowie (pezzo ispirato tra l’altro alle atmosfere di Twin Peaks): «Sto ascoltando [...], e l’intero inizio del film mi balza addosso, esattamente così com’è ora. Il pezzo costruisce le atmosfere e la storia, sotto molti aspetti»26. L’incontro con Angelo Badalamenti – che da Velluto blu in poi ha sempre musicato i film di Lynch – si rivela essenziale per comprendere l’importanza che l’elemento musicale ricopre nella genesi dell’immagine. Così Badalamenti racconta il metodo di lavoro di Lynch: Quando abbiamo fatto il tema d’amore di Twin Peaks, David ha iniziato a parlarmi del mood di Twin Peaks. La musica doveva cominciare in maniera molto cupa e lenta: «Immaginati di essere da solo in mezzo ad un bosco scuro di notte e ci sono solo i rumori del vento o i versi di qualche civetta e hai paura e la musica deve essere ossessiva e ipnotizzarti». Io inizio semplicemente a improvvisare al piano. La musica che suono deve riuscire a tradurre e visualizzare le immagini che David ha in testa. Quando troviamo la strada giusta, costruiamo la melodia e a quel punto aggiunge altre visioni: «Adesso una bellissima ragazza esce fuori dal bosco, il suo nome è Laura Palmer, è dolce ma misteriosa»... Mentre mi fa queste descrizioni, vado 25. Cfr. Lynch secondo Lynch, cit., p. 185. 26. Ibidem, p. 330.
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avanti quasi come se lui fosse un direttore d’orchestra che mi dirige verbalmente: «Ecco, così va bene, più lento, più tensione». [...]. Questo è quello che accade ogni volta: io materializzo le sue visioni e David vede il film attraverso la mia musica, si immagina le sequenze con quei tempi, quei ritmi, quel carattere27.
Se il passaggio dal pittorico al filmico è caratterizzato dalla dinamizzazione del quadro – che poi corrisponde alla dinamizzazione degli elementi del reale – la musica ricopre il ruolo di meccanismo generatore (origine) del movimento, ulteriore dispositivo della macchina cinema. Rumori. Il rumore non è mai non-senso, esso è casomai il fondo indistinto da cui solamente può emergere il senso. Elemento ulteriore della complessa “texture” sonora lynchiana, i rumori – sempre sospesi tra l’organico e l’inorganico – lavorano sempre nella direzione di una materializzazione dell’immagine, vale a dire come elementi di una resa dell’immagine come “cosa” concreta e astratta al tempo stesso. Il rumore, se da una parte funziona (come si è visto a proposito di The Elephant Man), come fuori campo assoluto, dall’altra è lo strumento attraverso cui la dinamica dell’essere mobile e produttivo che emerge dal cinema lynchiano si fa concreta. Chion, senz’altro il critico che più ha lavorato sulla texture sonora in Lynch, mette in evidenza così il lavoro di Lynch e Alan Splet (compianto tecnico del suono di tutti i primi film di Lynch) in Eraserhead: Come è noto, il film è immerso in un ininterrotto ambiente sonoro, continui sbuffi di caldaie, turbini permanenti, accordi di organo elettronico ecc. La sua grande originalità è l’impiego di tagli cut (brutali e istantanei) in queste attività sonore, tagli che coincidono spesso con cambiamenti di inquadratura, acquisendo una forza straordinaria: funzionano come dei tensori di immagine, isolano le inquadrature le une dalle altre rilegandole, e tendono il tempo dell’inquadratura in rapporto alle sue due estremità, costituite da due tagli che la rinchiudono28. 27. Cit. in Domenico De Gaetano, Il caso Lynch-Badalamenti, in «Garage», n. 17, 2000, p. 60. 28. Michel Chion, David Lynch, cit., p. 50.
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Chion mette giustamente l’accento sul ruolo autonomo ed attivo del suono-rumore. L’elemento acustico non risulta, come si è detto anche a proposito della musica, dalle immagini, ma lavora su di esse, provocandone la frammentazione o il conflitto, la tensione o il dislocamento nel tempo del film. Dunque, ancora una volta, il suono “lavora” più che essere lavorato, si costituisce come dispositivo, macchina del cinema. Parole. Seguendo questo percorso è facile ora immaginare come anche la parola, nel cinema di Lynch, perda il suo connotato immateriale per scoprire la propria densità di “cosa” concreta. La concretezza della parola è anche la causa della sua violenza. Il linguaggio è violenza in Lynch proprio perché le parole acquistano una densità materiale che ferisce, trasforma i corpi e i volti di chi ascolta: le “lettere d’amore” di Frank Booth in Velluto blu sono pallottole mortali, così come il flusso ininterrotto del suo linguaggio ossessivamente permeato di parole come “fuck” e “shit”; la parola, come si è visto, diventa oggetto concreto in Dune, in grado di ergersi come arma contro le armate degli Arkonnen. La sequenza più emblematica del linguaggio come violenza nel cinema di Lynch ce la dà comunque Cuore selvaggio: è il momento in cui Lula e Bobby Peru sono soli e Bobby inizia a sedurre Lula per mezzo di un linguaggio che annienta letteralmente il suo corpo e in cui ogni parola agisce sul soggetto, mutandolo e trasformandolo: BOBBY Hey... You gotta smell in this room of puke... You been pukin’ in here, little girl? Huh?... You sick?... Pregnant? LULA (flinches) You used the toilet, now you can go - what I do around here ain’t any of your business, that’s for sure. BOBBY You know, I really do like a woman with tits like yours that talks
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tough and acts like she can fuck like a bunny... Can you fuck like that?... You like it like a bunny?... Huh?... Cause baby, I’ll fuck you like a real good like a big ol’ jackrabbit bunny... Jump all around in that hole... Bobby Peru doesn’t come up for air. LULA Get out. BOBBY Am I scarin’ ya?... Your pussy wet? ... Come on ... is it?... (moves his hand toward her) Hey, don’t jump back so slow... I thought you was a bunny... Bunny jump fast – you jump back slow... Mean somethin’, don’t it?... Means somethin’ to me... Means you want Bobby Peru... You want Bobby Peru to fuck you hard baby – open you up like a Christmas present. Suddenly Bobby jumps back, shakes his head and straightens his hair. BOBBY Hey... I’m sorry... I don’t think I’m bein’ too polite here ... and I apologize... Hell... A man sees a pretty woman and first thing he knows, he loses his manners... Sure sign of modern times... Next thing ya know, his old hand’ll start crawlin’ around where it oughtn’t to go... I’ll be real honest with ya... I’d like to fuck you and tear you open like a paycheck envelope... Will you be honest with me – would you like me to do it?... Just a simple yes or no...
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He steps a little closer to her. BOBBY Just feel me breathin’ on you... And you’ll know I mean business when it comes to fuckin’. With all the strength she can muster, Lula slaps Bobby across the face. LULA GET OUT!!! Bobby grabs on to her hard. BOBBY Bobby Peru grab you now... Hold you tight... Feel everythin’ in you now... Stay quiet... Say “fuck me” and then I’ll leave. LULA (struggling) No way... GET OUT!!! BOBBY Say it!... I’LL TEAR YOUR FUCKIN’ HEART OUT, GIRL... Say “fuck me” soft – then I’ll leave. Say “fuck me”... Whisper it... Then I’ll leave... Say it... Say it – Say it – Say it... Bobby moves in very close to her – Lula’s trembling. Bobby puts his hand on her neck and moves it up and down behind her ear. BOBBY Say it... Then I’ll leave... Whisper it... Whisper it... Whisper it... Whisper “fuck me”... His hand moves down over her breasts – down across her stomach – and down. Lula’s left hand opens and spreads wide.
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BOBBY Whisper it... Whisper “fuck me”... Whisper... Whisper... Whisper... Whisper... LULA (whispers) Fuck me. BOBBY Someday honey, I will... But I have to be goin’ now... Canta y no joras... Bobby leaves smiling and slams the door. Lula stands trembling clicking her heels together.
La sequenza, che tra l’altro non sembra avere un ruolo fondamentale nell’economia narrativa della vicenda, diventa però uno degli esempi più lampanti del ruolo del linguaggio in Lynch; la logica aberrante di Bobby Peru, il ricorso continuo al livello metaforico e polisemico del linguaggio amplificano l’utilizzo della parola come violenza e azione. A proposito di questa sequenza, scrive Slavoj Zizek: In David Lynch la violenza è interamente trasposta sul processo verbale di seduzione che funziona come un travestimento da incubo del processo stesso della seduzione quando, al posto dell’atto violento, si ottiene la parola tenera e gentile. [...]. L’attualizzazione forzata, estorta, del nucleo fantasmatico, il suo essere imposta dall’esterno è probabilmente la più umiliante forma di violenza, quella che porta alla disintegrazione dell’identità simbolica29.
Al di là della lettura lacaniana di Zizek, ciò che risulta fondamentale è, nelle battute finali della sequenza, il rivelarsi del gioco come circolo linguistico: Bobby chiede a Lula una parola («scopami»), ottenuta la quale può anche an29. Slavoj Zizek, Il soggetto interpassivo, in «aut aut», n. 296-297, 2000, p. 172.
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darsene, separando radicalmente la parola dall’azione che la parola significa. L’azione (provocare il turbamento, l’orgasmo di Lula) è già avvenuta quando Lula pronuncia la parola, il corpo è già stato agito dal linguaggio, ora non resta che abbandonare la scena.
Modelli: Industrial Simphony n° 1 All’interno di questo laboratorio permanente che è la macchina-cinema di Lynch, si trova un piccolo lavoro, inizialmente nato come spettacolo teatral-musicale e poi trasformato in video e prodotto per il mercato delle videocassette: Industrial Symphony n°130. Come afferma Chion, il lavoro, lungi dall’essere marginale, è in realtà molto interessante dal punto di vista della ricerca cinematografica lynchiana31; interessante soprattutto perché porta alla luce tutto l’apparato, la costellazione di dispositivi e meccanismi che costituiscono la scena e la genesi del cinema secondo Lynch. Sinfonia industriale numero uno. Già il titolo si presenta ricco di stimoli. La realizzazione del lavoro si colloca temporalmente tra Cuore selvaggio e Fuoco cammina con me, cioè tra i due film in cui Chion ritrova il tentativo da parte di Lynch di costruire un cinema sinfonico, caratterizzato dalla presenza di forti contrasti, dalla messa in evidenza della discontinuità strutturale (delle immagini come dei suoni) e da una mescolanza sempre più ardita di tonalità ed atmosfere cariche e contrastanti32. Il concetto di sinfonia è qui dunque inteso come svincolato dall’idea di armonia: il “suonare insieme” è la compresenza di elementi discordanti, che non cessano di produrre dismisura e disparità pur nella loro compresenza. Così come l’aggettivo industriale rimanda al 30. Si trattava di uno spettacolo musicale scritto da Lynch con Badalamenti e andato in scena la prima volta a New York il 10 novembre 1989. Lynch inserì un prologo filmato e montò le varie riprese dello spettacolo per preparare una versione home video del recital che uscì nel mercato statunitense nel 1991. 31. Cfr. Michel Chion, David Lynch, cit., pp. 158-160. 32. Cfr. ivi, p. 139.
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complesso mondo di meccanismi produttivi che costituiscono, come si è visto, la scena e la modalità delle immagini e dei suoni. Il sottotitolo del film è The Dream of the Brokenhearted e l’inizio vede in scena (filmati in pellicola) Sailor e Lula, i protagonisti di Cuore selvaggio, impegnati in una conversazione telefonica. La ripresa è spartana: primi piani dei due personaggi ripresi su uno sfondo nero mentre parlano al telefono in montaggio alternato: Sailor dice a Lula che deve andarsene e che la loro storia non può continuare: è la scena di un addio secco ed essenziale («I just say goodbye... I can’t do it no more. I gotta go»), dove la messa in scena raggiunge il massimo grado di svuotamento: grado zero della narrazione. Dai singhiozzi di Lula inizia lo spettacolo (ripreso in video). Dal nero emerge – attraverso un gioco di luci e di esplosioni – il palco. Suoni di sirene industriali accompagnano l’ingresso di Julee Cruise (la cantante di Twin Peaks). Le canzoni, i cui testi rimandano alle gioie e alle sofferenze dell’amore, acquistano un’atmosfera sospesa, come se fossero versioni astratte delle pop song anni cinquanta, attraversano uno scenario in cui tutti gli elementi visivi e sonori del cinema lynchiano trovano posto, agiscono come impazziti nel tutto della scena. Dai segni di un mondo artificiale elettrificato (le luci elettriche ad intermittenza, i rumori meccanici, la presenza di tubi, cavi e materiale industriale, automobili e televisori), alle figure astratte che proliferano nel cinema di Lynch (Mike Anderson, l’attore nano, un uomo enorme dalla testa di Alce, ballerine e musicisti), ai corpi assemblati e smontati, alle parole che si mostrano svincolate dall’intento di significare (Mike Anderson ripete ad un certo punto, parola per parola, la conversazione di Sailor e Lula all’inizio del film; le stesse parole cambiano di corpo, fluttuano da un soggetto all’altro). Il tutto appare assolutamente libero da qualsivoglia costrizione narrativa. Le immagini e i suoni fluttuano continuamente proponendosi nella loro scandalosa presenza come tali. Pur essendo un prodotto temporalmente determinato da un inizio e una fine, l’impressione più forte è che questo magma di forme e suoni, corpi e musica possa durare 134
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all’infinito, come un meccanismo che produca infinitamente corpi e immagini, come vuole l’utopia del cinema secondo Lynch. In poco meno di un’ora Lynch e Badalamenti mettono in scena, letteralmente, il cinema come “sinfonia industriale”, dispositivo che non smette di produrre contrasto e dismisura, di riproporre quindi il reale stesso come produzione e dinamica continua ed incessante dell’essere.
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V. Lo spaesamento: il cinema del sentire «Che l’enigma non ci sia, che nemmeno l’enigma riesca a catturare l’essere, che è, insieme, perfettamente manifesto e assolutamente indicibile, questo è il vero enigma, di fronte al quale la ragione umana si arresta impietrita». Giorgio Agamben «Nella pittura, il soggetto scompare nel fondo («ritorna a sé»); nel soggetto, la pittura fa superficie (eccede la faccia). Sorge allora d’un tratto, né soggetto né oggetto, l’arte o il mondo». Jean-Luc Nancy
Lynch oltre Lynch Se nei capitoli precedenti si è attuata una strategia consapevole di moltiplicazione delle forme, dei luoghi e dei corpi del cinema di Lynch, al fine di evidenziarne appunto la multiforme capacità produttiva, si tratta ora di recuperare – altrettanto strategicamente – le linee sin qui tracciate al fine di evidenziarne la portata teorica, mostrando cioè il più possibile come sia proprio a partire da un certo approccio al suo cinema che gli strumenti teorici della critica vadano ripensati e riconfigurati. La sfida che Lynch pone allo sguardo critico è infatti ardua. Di fronte ad un approccio che tende a dispiegare completamente il senso complesso di un’immagine o di un suono, di un film o di una sequenza, le immagini lynchiane (come le sue parole) sfuggono e si nascondono dietro categorie onnicomprensive e in fondo vaghe come quella di “mistero”, oppure dietro la formula generica della rottura degli schemi e dei codici narrativi o cinematografici. Si tratta di andare al di là di una tale impostazione e di utilizzare le forme e gli sguardi che Lynch offre come strumenti di esplorazione e di indagine della realtà e del pensiero. I percorsi attivati in precedenza ci serviranno dunque ora come territori da cui attivare una nuova prospettiva di sguardo. Anziché cercare di costruire un percorso cronologico della carriera di Lynch abbiamo consapevolmente unito ed accostato momenti differenti della sua attività, film, sequenze, 136
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corti e sperimentazioni varie mai analizzati nella loro interezza, ma come momenti particolari di una mappatura concettuale, di una esplorazione a tutto campo a partire dalla quale andare oltre l’immagine codificata e un po’ stereotipata di un autore cinematografico sui generis, spiazzante e postmoderno. È necessario invece lavorare più a fondo su alcune delle formule che provano a riassumere il senso e il ruolo del cinema in Lynch, proprio perché la sfida più importante è quella di mostrare l’assoluta pregnanza del suo cinema, la sua attualità non nei termini di una moda, ma dal punto di vista di un cinema che entra in contatto con la teoria, incrociandola e stimolandola. Ritracciare dunque le coordinate di un discorso sul cinema e con il cinema proprio a partire dagli stimoli che Lynch offre. Occorre iniziare tale operazione di ritracciamento proprio da uno dei concetti più accostati al cinema di David Lynch, quello di «perturbante» o «inquietante» che è, secondo Rodley, l’essenza stessa di un’immagine che: «Trasforma il “familiare” in “non familiare”, producendo un allarmante senso di estraneità da ciò che è da sempre percepito come familiare»1. Quella che potrebbe sembrare un’abilità stilistica, virtuosistica quasi (abilità riconosciuta anche dai detrattori del cinema di Lynch) nel mostrare il quotidiano come qualcosa di totalmente opposto al familiare e al tranquillizzante (basti pensare alla sequenza d’apertura di Velluto blu), assume invece una valenza fondamentale che, vedremo, necessita di essere approfondita.
Das Unheimliche Ma cosa significa, nello specifico, il familiare che si trasforma in non familiare? È un passaggio così netto e oppositivo quello che si realizza nel cinema di Lynch? Il rapporto tra familiare e non familiare è uno degli elementi al centro di un saggio di Freud del 1919, Das Unheimliche (tradotto in italiano con l’espressione Il perturbante), ed è a 1. Lynch secondo Lynch, cit., p. 10.
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Freud che molti si rivolgono nel momento in cui cercano di rendere più comprensibile l’atmosfera che pervade gran parte del cinema di Lynch, come accade ad esempio nell’analisi che Umberto Curi fa di Mulholland Drive: Per Unheimliche dobbiamo intendere “quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare”. In altre parole, perché si possa parlare di perturbante non basta che ci si trovi in presenza di qualcosa che ci appaia ignoto, e dunque non familiare; occorre anche che questo “non noto” venga da noi percepito come appartenente ad un ambito che invece conosciamo benissimo, e che pertanto ci è del tutto familiare. Ciò significa, insomma, che nel termine Unheimliche convergono due significati antitetici, che tuttavia convivono e si fondono in maniera non contraddittoria: perturbante è ciò che, appartenendo alla sfera di ciò che è familiare, ci si presenta come massimamente sconosciuto, e quindi non familiare2.
A partire da queste considerazioni, Curi ritrova in Mulholland Drive entrambe le accezioni del termine “perturbante”, vale a dire l’ignoto (il non familiare) e il familiare nel suo mistero, nel suo presentarsi come misterioso: Lynch non mostra, ma al contrario nasconde; non dice, ma allude; non spiega, ma all’opposto propone enigmi; soprattutto, non fornisce risposte agli interrogativi dello spettatore, di fronte al quale, invece, riattiva costantemente problemi. Ne scaturisce un film che può essere descritto davvero come quella continua alternanza tra familiare e non familiare, della quale parla Freud con riferimento al perturbante. Un film nel quale non ci sentiamo mai definitivamente “a casa” (heimisch) e “non a casa” (unheimische), nel quale riaffiora costantemente lo spaesamento di scoprire che ciò che credevamo essere del tutto chiaro e conosciuto, si rivela invece per essere oscuro e ignoto, nel quale nessuna conclusione “logica” appare definitiva, nessun punto di approdo risulta essere davvero conclusivo, in un riaprirsi interminabile della vicenda, e del pathos che l’accompagna3. 2. Umberto Curi, Il perturbante e l’enigma, in «L’Iride. Filosofia e discussione pubblica», n. 37, 2002, p. 630. 3. Ivi, pp. 631-632.
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Difficile non essere d’accordo con quanto afferma Curi, anche perché il movimento continuo tra il noto e l’ignoto è un aspetto evidente in tutto il cinema di Lynch. Nonostante questo, il riferimento non ci basta. Unheimliche è un termine che, forse anche a causa della sua intraducibilità, continua a produrre senso, ad inquietare il pensiero ben oltre il rapporto tra familiare e non familiare. Torniamo ancora a Freud e al saggio del 1919, saggio molto più complesso di quanto possa apparire a prima vista: «È molto raro che uno psicoanalista si senta spinto a studiare argomenti di estetica, anche quando con estetica non si voglia intendere semplicemente la teoria del bello, bensì la teoria delle qualità del sentimento»4. Già dalle prime parole Freud ci avverte che si sta immettendo in un territorio da lui non particolarmente conosciuto, quello dell’estetica e in particolare in quella qualità del sentimento che la lingua tedesca traduce con Unheimlich. Più avanti, Freud mette in evidenza come Unheimliche non sia semplicemente la sensazione provata di fronte a ciò che è “inconsueto”, ma che tale termine assume una serie di sfumature che vanno approfondite. Inizia dunque una serie di analisi comparate delle traduzioni di questo termine in altre lingue – concludendo che non esiste una traduzione in un’altra lingua che tenga conto di tutte le sfumature di senso che il termine tedesco offre. Di quali sfumature si sta parlando? Innanzitutto il riferimento al termine heim, “casa”, che si perde in tutte le traduzioni; in secondo luogo, il fatto che l’opposizione tra Heimlich e Unheimlich non sia così radicale nella lingua tedesca, come nota Freud dopo una serie di analisi etimologiche del termine: In generale vediamo che la parola heimlich non è priva di ambiguità, appartenendo a due ordini di idee, che, anche se non contraddittorie, sono tuttavia assai diverse: da una parte significa ciò che è familiare e piacevole e, dall’altra, ciò che è nascosto e tenuto celato. [...]. Però rileviamo che Schelling dice 4. Sigmund Freud, Das Unheimliche, in «Imago», n. 5, 1919; tr. it. di C. Balducci, Il Perturbante, in Psicoanalisi dell’arte e della letteratura, Newton Compton, Roma 1997, p. 149.
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una cosa che illumina il concetto di unheimlich, in un modo inaspettato. Secondo lui è unheimlich tutto ciò che doveva rimanere segreto ma è venuto alla luce5.
Freud fa qui una serie di riflessioni di notevole portata, rovesciando l’apparente opposizione tra il termine Heimlich e la sua negazione, per poi concludere che Heimlich: «È una parola che si sviluppa in modo ambivalente, sino a coincidere col suo opposto unheimlich. In certo qual modo unheimlich è una sottospecie di heimlich»6. Dunque non si tratta di opposizione tra due termini indicanti realtà contrastanti, quanto di un unico orizzonte di significati, all’interno del quale ciò che è quotidiano, familiare è già di per sé inquietante in quanto nasconde, dietro l’apparenza del tranquillizzante, un nucleo di senso che lo rende sconosciuto, perturbante perché profondamente ignoto. L’analisi di Freud, nel soffermarsi sulla definizione di Unheimlich dataci da Schelling è a dir poco straordinaria e ricchissima di conseguenze: La negazione un- non cancella, ma svela; e svela il segreto dello Heim, della dimora, del proprio: il suo mantenersi, dimenticato, nello Heimliche in quanto nascondimento, da cui sembrava essere stato sopraffatto e definitivamente spazzato via, e in cui si è invece solo celato, avendo molto a che fare con il celamento stesso7.
Teniamo presente quanto è emerso sin d’ora e proseguiamo la lettura del saggio freudiano. Come è noto, Freud, per meglio chiarire la natura di un concetto sfuggente ed inquietante come quello di Unheimliche, si rivolge alla letteratura e, in particolare ad un esempio di letteratura fantastica, L’uomo della sabbia di Hoffmann8. L’analisi occupa una lunga parte del saggio. Il racconto di Hoffmann è incentrato, come nota Freud, sulla paura della perdita degli occhi: l’Uomo della sabbia è una creatura che ruba gli occhi dei 5. Ivi, p. 153. 6. Ibidem. 7. Graziella Berto, Freud, Heidegger. Lo spaesamento, Bompiani, Milano 2002, pp. 24-25.
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bambini gettandogli addosso della sabbia fino a farli schizzare via dalle orbite. Nathaniel, il protagonista del racconto, è ossessionato da questa figura (di cui aveva sentito parlare dalla sua balia quando era piccolo) e lo ritrova, nel corso della storia in diversi personaggi: il dottor Coppelius, l’ottico Coppola. Tutti legati all’occhio, alla perdita della vista o, per meglio dire, alla sottrazione dell’organo deputato al vedere. Ora, Freud conclude la sua analisi del racconto affermando che la paura della perdita degli occhi «tremenda nei bambini» è il sostituto fantastico della paura della castrazione. Prevedendo una serie di ovvie obiezioni, il fondatore della psicoanalisi insiste su questo punto, cercando di rafforzare la sua argomentazione, pur con qualche dubbio: «Quindi potremmo azzardarci a riportare l’effetto di perturbamento [...], all’ansia pertinente al complesso di castrazione dell’infanzia»9. Ma, al di là delle sue conclusioni psicoanalitiche: È come se il testo freudiano contenesse un’eccedenza che ci attrae, la cui complessità ed enigmaticità viene accresciuta piuttosto che cancellata dal gesto con cui Freud tende a rifugiarsi in territori a lui più familiari, dopo essersi sporto su qualcosa di meno controllabile10.
Seguendo ancora la lettura di Graziella Berto, la centralità del tema inquietante della perdita dell’occhio che Freud pone al centro del racconto di Hoffmann, viene ripresa da Lacan in una serie di scritti che hanno come oggetto la perdita dell’occhio come perdita dello sguardo del soggetto. Sguardo che svolge una funzione ordinante del mondo. Secondo Lacan, lo sguardo del soggetto, lo sguardo dell’Io permette di ordinare il mondo a partire dal soggetto stesso, da un punto di prospettiva determinato e fisso che, in realtà, nasconde, maschera il fatto che il visibile non parte dal soggetto ma, al contrario, è il soggetto stesso ad abitare il visibile: 8. Cfr. E.T.A. Hoffmann, L’uomo della sabbia e altri racconti, Mondadori, Milano 1987. 9. Sigmund Freud, Das Unheimlich, tr. it. cit., p. 160. 10. Graziella Berto, Freud, Heidegger. Lo spaesamento, cit., p. 39.
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Fin da quando lo sguardo è incorporato nel soggetto, e rimane quindi nascosto (non possiamo guardarci guardare, guardare il nostro sguardo) esso dà unità all’io. Si può dire che il soggetto, ponendosi, in quanto coscienza, come detentore dello sguardo, come colui che coglie le cose – e innanzitutto se stesso – attraverso la sua luce, si protegga dallo sguardo stesso. Come se guardare difendesse dall’essere guardati, come se possedere lo sguardo difendesse dalla sua luce [...]. Sequestrare lo sguardo significa impedire l’illuminazione di questo vuoto11.
La paura della perdita dell’occhio in Lacan è dunque la paura per il soggetto di scoprirsi non più al centro del mondo delle rappresentazioni: «Che cosa accade se lo sguardo diviene esterno al soggetto? Quest’ultimo, come è emerso nella vicenda di Nathaniel, ne risulta disgregato e irresistibilmente attratto»12. Attratto da cosa? Dalla luce come spessore, autonomia, carnalità, materialità, diffrazione e deflagrazione dell’Essere, in cui l’Essere stesso, le cose emergono come presenza a sé, non più determinata dal soggetto, emergono nel loro rapportarsi, prodursi, connettersi le une alle altre. Ecco che nella prospettiva lacaniana si apre una dimensione ontologica: esiste uno sguardo al di là dello sguardo del soggetto; quest’ultimo anzi si configura per imbrigliare, determinare ed ammortizzare questo primo sguardo: lo spazio ordinato della visione è comunque percorso sottilmente da qualcosa che eccede la capacità dell’occhio di costruire un mondo secondo la propria prospettiva. Lo sguardo, dunque non appartiene necessariamente al soggetto: esiste, al di là di ogni potenza dell’occhio, uno sguardo delle cose: «Lo sguardo delle cose è il caos della loro presenza, il loro affiorare inafferrabile, la densità che ne sbava i contorni, il loro essere molteplicità di frammenti, custodendo paradossalmente in questo stato la loro pienezza»13. In questo senso l’essere Heimlich del mondo rimanda a questa eccedenza nascosta, a questa invisibilità del visibile che continua a turbare l’occhio. 11. Ivi, p. 42. 12. Ibidem. 13. Ivi, p. 50.
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In questo cambio radicale di prospettiva, attivato nel passaggio da Freud a Lacan, si fa strada uno scenario in cui è in gioco il processo della visione, non più visto come momento fondante il processo della conoscenza (il soggetto che guarda a distanza l’oggetto e imbriglia la visione nell’idea – dall’occhio come realtà fisica all’occhio della mente), ma individuato come dinamica costitutiva dell’essere delle cose; la visione come luogo intricato e irrappresentabile dove il soggetto si colloca. È in questo scenario che le dimensioni macchiniche del pittorico e del cinematografico in Lynch assumono una valenza teorica fondamentale. Ma prima di tornare indietro e di riprendere quanto disseminato in precedenza, occorre operare uno scarto ulteriore, nella direzione dello sguardo senza soggetto, nella direzione del pittorico.
Lo sguardo del ritratto: Nancy, Holbein, Lynch «Più di ogni altra cosa, il ritratto guarda: non fa che questo, vi si concentra, vi si invia e vi si perde. La sua “autonomia” riunisce e richiude il quadro, lo stesso volto tutt’intero, nello sguardo: è il fine e il luogo di questa autonomia»14. La frase di Nancy si colloca nella stessa prospettiva discussa sopra: nell’indagine sullo sguardo al di là del soggetto, sull’aspetto di Unheimlichkeit del Heimlich, la pittura di ritratti acquista una dimensione teorica particolare, proprio perché «non è più la rappresentazione di un soggetto posto davanti al mondo: è niente meno che la presentazione di un mondo che sorge per la sua stessa visione, per la sua stessa evidenza»15. Il ritratto non rimanda alla persona dipinta, ma al ritratto stesso come simulazione del soggetto e come resa esteriore di uno sguardo16. Il ritratto diventa, nella pro14. Jean-Luc Nancy, Il ritratto e il suo sguardo, Raffaello Cortina, Milano 2002, pp. 55-56. 15. Ivi, p. 62. 16. «La pittura è la messa in scena del soggetto, la sua farsa, il suo mascheramento e la sua cosmesi, ma anche l’espressione della sua verità più profonda e intima che si fa esteriore»; Raoul Kirchmayr,
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spettiva aperta da Nancy, il «genere» pittorico in cui il soggetto come «esposizione» fuoriesce dal quadro, rompe i confini, entra in una struttura dinamica che comprende il soggetto come movimento continuo, identità fluttuante. Il ritratto «espone» il soggetto, è la messa in opera dell’esposizione, mette cioè dinnanzi a noi il soggetto. È una operazione che non fissa una volta per tutte l’immagine del corpo che ritrae ma, proprio perché ritrae, la mette in movimento esponendola. Ogni ritratto è in questo senso sfuggente perché, se da una parte vuole conservare nella memoria l’individuo ritratto (sottraendolo in qualche modo alla morte – come d’altronde diceva Bazin discutendo l’origine ontologica dell’immagine cinematografica), dall’altra innesca una serie di movimenti che coinvolgono il quadro e il suo fruitore e che mantengono l’immagine ritratta avvolta in un mistero difficilmente svelabile. Mistero che si riferisce allo sguardo del ritratto, vale a dire al momento specifico in cui la pittura stessa si scopre come sguardo, come azione rivolta verso lo spettatore e non come oggetto da contemplare: Tratto così fuori di sé dal dipingere, lo sguardo diventa l’evidenza del mondo che si espone non tanto davanti a me come uno spettacolo quanto attraverso di me come quella forza che apre i miei occhi negli occhi del quadro, nello spalancamento e nell’accecamento che di certo la pittura non rappresenta, ma che essa è o che essa dipinge, poiché dipingere o ritrarre non hanno, in quella che viene chiamata “arte”, nessun altro senso se non quello di essere, dunque di essere al mondo. Lo sguardo dipinto sprofonda in questo al17.
È questa l’azione o la seduzione del quadro, quella di richiamarci a sé, attraverso la somiglianza e attraverso il mistero che la abita, facendoci vedere ciò che non può essere visto altrimenti. Ecco dunque che il termine “mistero”, tanto spesso associato al cinema di Lynch – e che abbiamo visto all’opera nei Jean-Luc Nancy e «l’esposizione» del soggetto, in Jean-Luc Nancy, Il ritratto e il suo sguardo, cit., p. 90. 17. Jean-Luc Nancy, Il ritratto e il suo sguardo, cit., p. 66.
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capitoli precedenti in tutti i livelli del suo cinema – assume la funzione particolare di non chiudere l’opera, di lasciarla produrre indefinitivamente, mostrando in questo senso come il cinema porti su un nuovo livello le prerogative e gli interrogativi teorici della pittura. La doppia esposizione del soggetto in Strade perdute, la sua chiusura che in realtà – come abbiamo visto – non fa altro che impedire ogni chiusura – rilanciano con forza gli stessi interrogativi, come afferma lo stesso Lynch: «Deve essere così non per indurre confusione, ma affinché si percepisca il mistero. Il mistero è positivo e la confusione negativa: c’è una bella differenza tra le due cose»18. Il ritratto, nella sua evidenza, è inevitabilmente associato al mistero della sua esposizione, del suo venir fuori costringendo al movimento lo sguardo dello spettatore; è questo il tema che attraversa uno dei più celebri ritratti della storia della pittura, Gli ambasciatori (1533) di Hans Holbein. Di fronte alle due figure ritratte nel quadro insieme a tutti i segni della loro potenza e del loro rango si staglia una forma indefinita che emerge dal basso e che attraversa parte del ritratto; una strana forma allungata e indecifrabile che, solo mutando le coordinate prospettiche del quadro acquista una forma riconoscibile, quella di un teschio, un simbolo di morte che si aggira unheimliche di fronte alla potenza mondana dei due alti dignitari. La figura infatti è ottenuta mediante la tecnica anamorfica, che permette di deformare prospetticamente e proporzionalmente gli elementi di un oggetto e di un corpo sino a renderlo irriconoscibile. Riconoscere quella figura e identificarla come teschio è allora possibile solo attraverso un movimento dello sguardo, uno spostamento, un movimento. Jurgis Baltru‰aitis, nel suo celebre testo dedicato all’anamorfosi, paragona infatti il quadro ad uno spettacolo teatrale, ad uno spettacolo che apre il quadro al movimento: Il Mistero dei due ambasciatori è in due atti [...]. Il primo atto comincia quando il visitatore entra dalla porta principale e ve18. Lynch secondo Lynch, cit., p. 313.
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de davanti a sé, a una certa distanza, i due signori che si stagliano sul fondo della scena. [...]. Un solo punto lo turba: lo strano oggetto che vede subito ai piedi dei due personaggi. Avanza per vedere le cose più da vicino: il carattere fisico, quasi materiale, della visione aumenta ancora quando si avvicina, ma quell’oggetto singolare resta assolutamente indecifrabile. Sconcertato, il visitatore esce dalla porta di destra, la sola aperta, ed eccoci al secondo atto. Quando sta per inoltrarsi nella sala attigua, gira la testa per dare un ultimo sguardo, e capisce tutto: per l’improvvisa contrazione visiva la scena scompare e viene fuori la figura nascosta. Dove, prima, tutto era splendore mondano, ora vede un teschio. I due personaggi, col loro apparato scientifico, svaniscono, e al loro posto nasce dal nulla il segno del Nulla. Fine della rappresentazione19.
Ma la scoperta del teschio non chiude l’enigma; ne moltiplica anzi le implicazioni perché costringe lo sguardo a muoversi contemporaneamente su diversi piani, in diverse dimensioni che non si chiudono mai in un unico senso20. La stanza della rappresentazione (qui intesa nel doppio senso di immagine e di teatro) è allora lo stesso meccanismo che è all’opera nella Red Room lynchiana, o nelle centinaia di stanze che abitano il cinema di Lynch. Solo il movimento dello sguardo che si interseca con il movimento di un altro sguardo (quello del quadro) permet19. Jurgis Baltru‰aitis, Anamorfosi, Adelphi, Milano 1978, p. 105. 20. È quanto viene messo in evidenza in diversi studi dedicati al celebre quadro di Holbein: cfr., ad esempio, Omar Calabrese, La macchina della pittura, Laterza, Bari 1985, pp. 53-77, in cui l’autore riconosce proprio l’impossibilità di risolvere lo scontro tra la rappresentazione e la presenza in gioco nel quadro: «Lo scontro tra le figure è uno scontro tra forme che appaiono e che possono essere o non essere quel che appaiono, e una forma che non appare e che può essere o non essere; dunque tra forme che possono risultare vere o menzognere, e una forma che può risultare falsa o segreta» (p. 56). Un’opposizione senza risoluzione dunque, in grado però di aprire indefinitamente il quadro. Ancora, sarà Lacan a mettere in evidenza la particolare dinamica dello sguardo che, in opera nel quadro, diventa paradigmatica: «Quadro che altro non è, come ogni quadro, che una trappola da sguardo. In qualsiasi quadro, è proprio quando si cerca lo sguardo in ciascuno dei suoi punti che lo si vede scomparire»: Jacques Lacan, Il seminario. Libro XI, Einaudi, Torino 1979, p. 91.
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te la circolazione del senso. È da questo doppio movimento che il cinema prende le mosse, come sa bene Lynch. La scatola blu di Mulholland Drive, dentro la quale la macchina da presa si immerge, letteralmente nullifica improvvisamente la consistenza corporea dei due personaggi principali, Betty e Rita, e costringe lo spettatore ad assistere alla loro letterale uscita di scena, alla loro scomparsa. Così come la frase che Fred Madison rivolge a se stesso all’inizio e alla fine di Strade perdute, riattiva lo stesso meccanismo anamorfico che anima la pittura di Holbein21. Il pittorico, inteso allora come dispositivo dello sguardo, svolge la sua funzione unheimliche nel cinema, mantenendo l’opposizione radicale tra movimento e immobilità (saper filmare l’immobilità è una delle grandi abilità di Lynch, come riconosce Chion)22, tra reale e immateriale, tra organico e inorganico, tra i soggetti e le loro molteplici possibilità. E il cinema, dal canto suo, porta alle estreme conseguenze la mobilizzazione degli sguardi all’opera in pittura. Resta però da capire come si attua questo passaggio, questo scarto tra pittura e cinema secondo Lynch. Torniamo allora per un attimo al percorso di Nancy per una ulteriore digressione. L’introduzione del movimento all’interno del quadro (che è la genesi del cinema in Lynch) porta inevitabilmente il discorso di Nancy verso appunto il cinema: in un testo successivo a Il ritratto e il suo sguardo – L’évidence du film23 – dedicato al cinema di Kiarostami, Nancy prosegue il discorso iniziato con il saggio sul ritratto, mostrando come il cinema sia la forma di estrema mobilizzazione dello sguardo; 21. La mobilizzazione dello sguardo che è alla base dell’enigma pittorico di Holbein si ritrova anche nella splendida analisi che Foucault dedica a Las Meninas di Velázquez in Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1988, pp. 17-30. scrive infatti Foucault: «Nessuno sguardo è stabile o piuttosto, nel solco neutro dello sguardo, che trafigge perpendicolarmente la tela, soggetto ed oggetto, spettatore e modello invertono le loro parti all’infinito» (p. 19). 22. Michel Chion, David Lynch, cit., p. 95; cfr. anche, dello stesso autore, Filmare l’immobilità ricoperta di velluto, in «Il Patalogo», n. 10, 1987, p. 138. 23. Jean-Luc Nancy, L’évidence du film. Abbas Kiarostami, Yves Gevaert Éditeur, Bruxelles 2001, in corso di traduzione per i tipi della Donzelli.
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che la posta in gioco nel film non è l’istanza rappresentativa di ciò che è filmato, ma il fatto indubitabile che il cinema si presenta come sguardo su un mondo di cui il cinema stesso è parte integrante: Il cinema diviene movimento del reale, più che sua rappresentazione. Ci sarà bisogno di molto tempo affinché l’illusione della realtà, alla quale si è immediatamente legato il prestigio ambiguo del cinema – come se esso avesse solamente portato all’estremo la vecchia pulsione mimetica dell’occidente – finisca per scomparire, almeno tendenzialmente, dalla nostra coscienza del cinema – o dalla sua coscienza di sé – e affinché ad essa si sostituisca la mobilizzazione dello sguardo24.
Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, è in questa direzione che l’analisi del cinema di Lynch ci permette di affrontare una nuova concezione del cinema e del suo rapporto con il reale. Se il cinema mobilizza uno sguardo, esso è allora capace di intensificare la presenza del reale, giocare con la sua contemporanea materialità e immaterialità, così come in Lynch, l’astrazione delle forme e dei corpi è indissolubile, come si è visto con la loro irriducibile presenza materiale: il velluto blu non è semplicemente una qualità visiva del materiale, è la sua imprescindibile presenza corporea a rendere la sua immagine non una semplice rappresentazione, né la visione per quanto distorta di qualcosa, ma la traccia di una presenza, dell’essere come perseveranza, come continuità e molteplicità. Essenza spinoziana del cinema.
Dall’occhio all’orecchio «La gente mi chiama regista, ma io invece mi considero più un fonico»25. È questo lo spostamento, lo scarto ulteriore anche a partire dal quale si configura in Lynch la prassi di un cinema del sentire. Attraverso l’ultimo dei dispositivi 24. Ibidem, p. 27. 25. David Lynch, cit., in Michel Chion, David Lynch, cit., p. 212.
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cinematografici che il regista mette in atto, Lynch sposta il centro della percezione dallo sguardo ordinato del soggetto all’ascolto indeterminato di suoni, musiche e parole che sfuggono alla determinazione di un centro che ne sarebbe l’origine. La qualità materiale del cinema si gioca in Lynch per mezzo di un passaggio continuo dall’occhio all’orecchio (permettendo così al dispositivo filmico di distaccarsi ulteriormente dal dispositivo pittorico), secondo quanto si è già visto a proposito dei dispositivi sonori in atto nel suo cinema. Il carattere unheimliche dell’elemento sonoro è infatti esplorato da Lynch in tutte le sue sfumature, dalla saturazione all’assenza, dallo spostamento alla presenza indefinita. Dopo la prima sequenza di Velluto blu (di cui abbiamo parlato in precedenza), lo strano oggetto che Jeffrey trova nel prato ci introduce nel cuore del film. Uno strano oggetto che altro non è se non un orecchio mozzato, la cui cavità, che usualmente svolge la funzione organica di accogliere i suoni provenienti dall’esterno, si rivela l’entrata, la porta attraverso cui il film ci trasporta. E se il film sembra attraversato dalla pulsione scopica del protagonista, inguaribile voyeur il cui desiderio si acutizza spiando i giochi erotici di Dorothy nascosto dentro l’armadio, la sua azione è anche determinata dall’elemento acustico che circonda e attraversa (come sempre) il film. La voce di Dorothy che canta In Dreams di Roy Orbison si fa immediatamente evento, intensificando la qualità specifica del suono, quella di svanire non appena emerge, di non inscriversi in alcun supporto e quindi di evitare ogni ridondanza26. Questa sua caratteristica di evento, di accadimento temporale, fa sì che il suono ci porti immediatamente al centro di una realtà, immersi in una presenza piena, al centro di un mondo27. Ma la caratteristica del suono nel cinema è proprio quella di sfuggire ad una collocazione 26. È la caratteristica dell’oralità messa in evidenza da Walter J. Ong: cfr. Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna 1986, pp. 68-69. 27. Sono, queste, le caratteristiche dell’oralità intesa come evento acustico, come nota ancora Ong in La presenza della parola, Il Mulino, Bologna 1970: «Grazie al suono, possiamo essere presenti a una totalità che è veramente pienezza» (p. 149). Per una discussione di questi temi, all’interno di una prospettiva ontologica, cfr. Vincenzo
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spaziale pienamente identificabile. La sequenza al club Silencio di Mulholland Drive diventa paradigmatica in questo senso: lo spettacolo è occupato da suoni che sembrano provenire da una fonte riconoscibile – il suono di una tromba mentre un musicista sta suonando lo strumento, la voce di Rebekah del Rio che canta Llorando mentre la cantante si esibisce –, ma in realtà, il suono continua anche quando il musicista e la cantante smettono di suonare e di cantare. Il suono è in playback, vale a dire non proviene mimeticamente da un elemento del film che realisticamente ne giustifica l’origine; il suono e la voce sono immediatamente funzioni di uno spostamento, di un movimento che porta sia lo sguardo che l’udito dello spettatore verso lo sguardo e il suono del film, alla ricerca di un luogo entro il quale posare lo sguardo e indirizzare l’udito28. Ma la potenza dei film lynchiani è proprio quella di spostare continuamente “cinematizzare” le immagini e i suoni non permettendo di collocarli altrove se non nello spazio (nei mondi e nelle stanze) del film. Il suono, se da una parte costituisce il dispositivo macchinico che struttura materialmente il film, dall’altra costituisce un elemento in più (e determinante) nella dinamica continua del cinema. La presenza della voce indica una intenzione significante anche se sottesa ad essa c’è la finzione della costruzione filmica, anche se di fatto ogni parola o suono emergono in una atmosfera di silenzio, ricoprono cioè, con la loro intenzione di significare qualcosa, il pericolo (che è anche una prospettiva potenzialmente ricchissima di senso) di annunciare solo un’intenzione, un “voler dire” senza Cuomo, Le parole della voce. Lineamenti di una filosofia della phoné, Edisud, Salerno 1998, saggio verso cui sono debitore per alcuni percorsi di questo paragrafo. 28. L’importanza del suono, della percezione del suono in Lynch è evidente e il regista non smette di giocare con questo aspetto disseminandone le tracce di continuo nei suoi film: l’ottusità e la chiusura mentale dei due poliziotti di Strade perdute è sottolineata dal fatto che se Fred è un musicista (cioè produce suoni), uno dei due commenta la cosa affermando di non aver orecchio per la musica («I’m tomb deaf»); ancora, è lo stesso Lynch a ritagliarsi in Twin Peaks il ruolo di Gordon Cole, il capo del FBI sordo come una campana che grida anziché parlare normalmente.
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alcun avvento determinato di significato. In questa capacità di fare del suono uno degli elementi di mobilizzazione dello sguardo e del senso, sta una delle caratteristiche principali del cinema nella sua totalità, oltre che del cinema di Lynch: quella cioè di mostrare contemporaneamente il suono, la voce come elementi corporei, materiali, che hanno una relazione con la vita e con la morte, con il respiro e con il movimento29, e come elementi finzionali, costruiti artificialmente, legati alla macchina cinema, macchina dell’astrazione. In questa doppia esposizione il suono e la voce conquistano però la loro autonomia, agiscono in quanto non vengono annullati nella loro funzione segnica, ma esistono innanzitutto come eventi, come accadimenti irriducibili.
Per un cinema del sentire Senso e suono, immagine e sguardi, tempi e spazi. Le traiettorie disseminate lungo questo percorso fatto di deviazioni, di lost highways e di apparenti straight stories ci riporta al punto di partenza. L’opera di David Lynch, visto in questo saggio attraverso il suo essere fuori dal cinema (e, di conseguenza, visto attraverso la sua capacità di attraversare in profondità la macchina-cinema) ci ha permesso di innescare una serie di percorsi – nessuno dei quali ha la pretesa di ritenersi esaustivo – alla ricerca non tanto di una immagine unitaria del lavoro di un autore, quanto della possibilità di individuarne la produttività, la capacità di produrre oggetti estetici e teorici nel cinema e con il cinema. Ma quale idea del cinema emerge allora dopo quanto si è detto finora? Se l’immagine e il sonoro, la durata e lo spazio emergono nel cinema lynchiano per la loro unheimlichkeit, per l’azione di continua mobilizzazione del senso che pongono in essere, allora è la stessa percezione del film, il modo in cui si entra in contatto con la sua evidenza ad essere in questione. Moltiplicando i livelli attraverso cui il film 29. Cfr., a questo proposito, Corrado Bologna, Flatus vocis, Metafisica e antropologia della voce, Il Mulino, Bologna 1992, p. 23.
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mobilizza lo sguardo e l’udito, il cervello e il corpo stesso dello spettatore, costringendolo a scontrarsi proficuamente con la dinamica del filmico, Lynch costruisce, di fatto, un cinema del sentire, un cinema cioè che mette in gioco la totalità dei sensi, da sempre esposti nell’esperienza estetica. Nell’esperienza del cinema non ci si trova di fronte ad una polarità definita – lo spettatore e il film, il soggetto e l’oggetto – ma ad un flusso continuo di sensazioni che vengono mobilitate grazie al doppio movimento del film e di chi ne fruisce. Il sentire come condizione dell’esperienza filmica in Lynch (e nel cinema in generale) deriva espressamente da una frattura che la pittura (contemporaneamente all’avvento del cinema) ha determinato. Per sentire intendiamo qui non tanto una conoscenza “immediata”, vale a dire prima di ogni mediazione linguistica o intellettuale, quanto un approccio complesso all’esperienza estetica; complesso perché mette in gioco, come già per Cézanne e gli impressionisti riletti da Merleau-Ponty, come per Francis Bacon riletto da Deleuze, il corpo nella sua totalità di cosa esistente e senziente, e l’opera come cosa tra le cose, non come segno, immagine rappresentativa o simbolica del mondo, ma come mondo essa stessa. È l’ossessione di Cézanne di dipingere per rendere le cose nel loro darsi sensibile; è la convinzione di Bacon di comporre Figure per creare «forme sensibili riferite alle sensazioni»30, e quindi la possibilità di dipingere il sentire stesso31. Ma se il cinema secondo Lynch parte, nasce letteralmente da questa riabilitazione ontologica del sensibile che abbiamo visto all’opera nella pittura, la moltiplicazione dei livelli, la trasfigurazione del pittorico nel filmico innesta una serie di elementi in più proprio a partire da quell’enigma, quel mistero che la mobilitazione dello sguardo (meccanismo principe del cinema che abbiamo visto attuarsi in Holbein e teorizzarsi in Nancy), afferma con forza: l’enigma, il mistero del cinema che rilancia con forza la sua materialità, il suo 30. Gilles Deleuze, Francis Bacon, Logica delle sensazioni, cit., p. 85. 31. Ivi, p. 101.
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carattere irriducibilmente unheimlich, che continua ad ossessionare le immagini lynchiane, che si fanno disperatamente più fluttuanti, di film in film, nella consapevolezza che il mistero del cinema per poter produrre, per poter essere cosa del mondo deve necessariamente mostrarsi come tale: Il carattere più proprio dell’enigma è che l’attesa di mistero che esso suscita va ogni volta immancabilmente delusa, perché la soluzione consiste appunto nel mostrare che vi era solo l’apparenza dell’enigma. [...]. questo non significa che la verità sia un irrappresentabile, che sempre di nuovo ci affrettiamo a coprire con le nostre rappresentazioni. Piuttosto la verità comincia soltanto un istante dopo il punto in cui riconosciamo la verità o la falsità di una rappresentazione [...]. Per questo è importante che la rappresentazione si arresti un istante prima della verità, per questo vera è soltanto quella rappresentazione che rappresenta anche lo scarto che la separa dalla verità32.
Giungiamo allora alla fine di un percorso che si ricollega con quanto detto all’inizio, per meglio chiarirlo o per dargli un nuovo senso: nel cinema di Lynch corpi, spazi e meccanismi compongono un territorio che non solo si dispiega, ma si riformula incessantemente nel territorio del film, perché i legami che si instaurano tra i corpi, tra il corpo e lo spazio, tra i mondi plurimi o tra l’artificiale e il vivente costituiscono come abbiamo visto una realtà complessa, fanno di un film un territorio attraversato da molteplici livelli di intensità. Ma, parallelamente al disvelamento del territorio filmico come ambiente molteplice e complesso, il cinema di Lynch ci apre anche un scenario in cui la frattura, l’interruzione del legame, la rottura delle infinite connessioni dell’essere diventano materia filmica, si concretizzano in personaggi, storie ed immagini. Alla libertà del film, inteso come territorio affrancato dalla condanna figurativa e libero di sviluppare al suo interno forme e corpi, si affianca la libertà dello spettatore che come corpo, sguardo e pensiero si immerge nel territorio del film. Ma in questo rapporto non si 32. Giorgio Agamben, Idea della prosa, Quodlibet, Macerata 2002, pp. 95-96.
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distende uno scenario armonico che allude ad un grande Tutto, ad un fondamento ideale entro il quale la molteplicità trova una sua giustificazione. Ripercorrendo le immagini lynchiane siamo condotti attraverso uno spazio in cui la potenza vitale dei corpi spesso si interrompe tragicamente, in cui i territori si sfaldano, e le rovine prendono il posto del vivente. Come il brulichio degli insetti invisibili nel prato di Velluto blu, come il suono della morte nella solarità apparente di Una storia vera, o l’irriducibilità dell’enigma in Strade perdute: «Sotto ci sono sempre delle formiche rosse».
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Filmografia
Cortometraggi 1967 Six Figures Getting Sick (t.l.: Sei figure si sentono male) regia: D.L. con la collaborazione di Jack Fisk; film di animazione in Loop (proiezione a nastro continuo) su uno schermo-scultura; origine: USA; durata: 1’ 1968 The Alphabet (t.l.: L’alfabeto) regia: D.L.; sceneggiatura: D.L.; fotografia: D.L.; montaggio: D.L.; interpreti e personaggi Peggy Lynch (la ragazza); produzione: H. Barton Wassermann; origine: USA; durata: 4’ 1970 The Grandmother (t.l.: La nonna) regia: D.L.; sceneggiatura: D.L.; fotografia: D.L.; montaggio: D.L.; musica: D.L.; suono: Alan Splet effetti sonori: D.L., Margaret Lynch, Robert Chadwick, Alan Splet; interpreti e personaggi: Richard White (il ragazzo), Dorothy McGinnis (la nonna), Virginia Maitland (la madre), Robert Chadwick (il padre); produzione: American Film Institute for Advanced Studies; origine: USA; durata: 34’ 1974 The Amputee (t.l.: L’amputata) regia: D.L.; sceneggiatura: D.L.; fotografia: Herb Cardwell; montaggio: D.L.; interpreti e personaggi: Catherine E. Coulson (la ragazza), D.L. (il medico); produzione: D.L.; origine: USA; durata: 5’
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1995 Premonitions Following an Evil Deed (t.l.: Premonizioni seguenti un fatto malvagio) regia: D.L.; fotografia: Peter Deming; costumi: Patricia Norris; produzione: Neal Edelstein; origine: Francia (episodio del film collettivo Lumière et compagnie realizzato da quaranta registi con la macchina da presa dei Lumière); durata: 1’
Lungometraggi 1976 Eraserhead (Eraserhead – La mente che cancella) regia: D.L.; sceneggiatura: D.L.; soggetto: D.L.; fotografia: Frederick Elmes, Herbert Caldwell; musica: Peter Ivers; montaggio: D.L.; suono: Alan Splet; effetti speciali sonori: Alan Splet, D.L.; interpreti e personaggi: Jack Nance (Harry Spencer), Charlotte Stewart (Mary X), Allen Joseph (Bill X), Jeanne Bates (la madre di Mary), Judith Anna Roberts (la vicina di casa), Jack Fisk (l’uomo del pianeta), Lauren Near (la donna del radiatore), Thomas Coulson (il ragazzo), John Monez (il barbone), Neil Moran (il padrone della fabbrica), Darwin Joston (Paul), Hal Landon jr. (l’operatore della macchina delle matite); altri interpreti accreditati non compaiono nella versione definitiva del film a causa dei tagli di alcune scene nell’edizione finale: Jennifer Lynch (la ragazzina), Brad Keller (il ragazzino), V. Phillips-Wilson (la proprietaria), Peggy Lynch, Doddie Keller (donne che scavano), Gil Dennis (l’uomo col sigaro), Tobie Keller (il litigioso), Raymond Walsh (il signor Roundheels); produzione: D.L., American Film Institute for Advanced Studies; origine: USA; durata: 89’
1980 The Elephant Man (The Elephant Man) regia: D.L.; sceneggiatura: Christopher de Vore, Eric Bergren, D.L.; soggetto: tratto da The Elephant Man and Other Reminiscences di Frederick Treves e The Elephant Man – A Study in Human Dignity; fotografia: Freddie Francis; scenografia: Stuart Craig; costumi: Patricia Norris; effetti speciali: Graham Longhurst; musica: John Morris; musica aggiuntiva: «Adagio per strumenti a corda» di Samuel Barber; montaggio: Anne V. Coates; suono: Alan Splet, D.L.; effetti speciali sonori: Alan Splet; interpreti e personaggi: Anthony Hopkins (Frederick Treves), John Hurt (John Merrick), Sir
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Filmografia
John Gielgud (Carr Gomm), Anne Bancroft (Madge Kendall), Freddie Jones (Bytes), Wendy Hiller (la capo-infermiera), Leslie Dunlop (l’infermiera Nora), John Standing (Fox), Dexter Fletcher (assistente di Bytes), Helen Ryan (la principessa Alex), Hugh Manning (Broadneck), Michael Elphick (il portiere di notte), Tony London (il giovane portiere), Hanna Gordon (Anne Treves), Phoebe Nicholls (la madre di Merrick), Lydia Lisle (la voce della madre di Merrick), David Ryall (l’uomo con le prostitute), Deindre Costello, Pauline Quirke (prostitute), Nula Comwell (l’infermiera Kathleen), Gerald Case (Lord Waddington), Kathleen Byron (Lady Waddington), Orla Pederson (lo scheletro umano), Claire Davemport (la donna obesa), Morgan Sheppard (l’uomo nel pub), Alfie Curtis (il lattaio), Richard Hunter (Hodges), James Cormack (Pierce), Robert Bush (messaggero), Roy Evans (il cocchiere), Joan Rhodes (la cuoca), Bernadette Miles, Brenda Kempner (donne che litigano), Dennis Burgess (il capo del comitato), Fanny Carby (la cameriera di Mrs. Kendall), Kenny Baker (il nano piumato), Robert Day (il piccolo Jim), Patricia Hodge (la madre di Jim – la donna che urla), Pat Gorman (il poliziotto alla fiera), Patsy Smart (la donna sconvolta), Stromboli (lo sputafuoco), Chris Grenner (il gigante), Marcus Powell, Gilda Cohen (i nani), Lisa e Teri Scoble (le gemelle siamesi), Eiji Kushuhara (il giapponese), Tommy Wright, Peter Davidson (poliziotti), gli attori di Il gatto con gli stivali: John Rapley (il re), Hugh Spight (il gatto), Teresa Colding (la principessa), Marion Betzold (prima ballerina), Caroline Haigh, Florenzio Morgado (alberi), Victor Kravchenko (leone, cocchiere), Beryl Hicks (fata), Michele Amas, Lucie Alford, Penny Wright, Janie Kells (cavalli); produzione: Brooksfilm; origine: Gran Bretagna; durata: 125’ 1984 Dune (Dune) regia: D.L.; sceneggiatura: D.L.; soggetto: dall’omonimo romanzo di Frank Herbert; fotografia: Freddie Francis, con James Davis e Frederick Elmes; scenografia: Anthony Masters; costumi: Bob Ringwood; musica: Toto; musica aggiuntiva: Brian Eno, Daniel Landis, Roger Eno, Marty Paitch; montaggio: Anthony Gibbs; suono: Alan Splet; effetti speciali fotografici: Barry Nolan; effetti speciali visivi: Albert Whitlock; effetti speciali ottici: Van der Veer Photo Effects, Jeremy Gibbs; effetti speciali: meccanici Kit West; creature meccaniche: Carlo Rambaldi maestro d’armi Kiyoshi Yamazaki; interpreti e personaggi Kyle MacLachlan (Paul Atreides), Francesca Annis (Lady Jessica), Jurgen Prochnow (il duca Leto Atreides), José Ferrer (Padisha,
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imperatore Shaddam IV), Virginia Madsen (la principessa Irulan), Sian Philips (la reverenda madre Gaius Helen Mohian), Silvana Mangano (la reverenda madre Ramallo), Linda Hunt (Shadout Mapes), Freddie Jones (Thufir Hawat), Patrick Stewart (Gurney Halleck), Dean Stockwell (il dottor Wellington Yueh), Richard Jordan (Duncan Idaho), Kenneth McMillan (il barone Wladimir Harkonnen), Brad Dourif (Piter de Vries), Paul Smith (Rabban: la «bestia»), Sting (Feyd Rautha), Leonardo Cimino (il medico del barone), Jack Nance (Nefud), Max von Sydow (il dottor Kynes), Everett McGill (Stilgar), Sean Young (Chani), Alicia Witt (Alia); produzione: Dino de Laurentiis; origine: USA; durata: 140’ 1986 Blue Velvet (Velluto Blu) regia: D.L.; sceneggiatura: D.L.; soggetto: D.L.; fotografia: Frederick Elmes; musica: Angelo Badalamenti; canzoni: «Blue Velvet» (Lee Morris, Bernie Wayne) eseguita da Bobby Vinton e Isabella Rossellini; «Love Letters» (Victor Young, Edward Heyman) eseguita da Kitty Lester; «In Dreams» (Roy Orbison) eseguita da Roy Orbison; «Honky Tonk» (Shep Shepard) eseguita da Bill Dodgett; «Livin’ for your Lover», «Gone Ridin’» eseguita da Chris Isaak; montaggio: Duwayne Dunham; concezione sonora: Alan Splet; suono: Ann Kroeber; interpreti e personaggi: Kyle McLachlan (Jeffrey Beaumont), Isabella Rossellini (Dorothy Vallens), Dennis Hopper (Frank Booth), Laura Dern (Sandy Williams), George Dickerson (detective Williams), Hope Lange (signora Williams, Priscilla Pointer (la signora Beaumont), Frances Bay (zia Barbara), Jack Harvey (Tom Beaumont), Ken Stovitz (Mike), Brad Dourif (Raymond), Jack Nance (Paul), Dean Stockwell (Ben), J. Michael Hunter (Hunter), Dick Green (Don Vallens), Fred Pickler (Gordon, l’uomo in giallo), Philip Markert (dottor Gynde), Leonard Watkins, Moses Gibson (Double Ed), Selden Smith (l’infermiera Cindy), Peter Carew (il medico legale), Jon Jon Snipes (il figlio di Dorothy), Andy Badale (il pianista), Jean-Pierre Viale (il presentatore dello Show-Club), Donald More (il piantone), A. Michelle Depland, Michelle Sasser, Katie Reid (amiche di Sandy); produzione: De Laurentiis Entertainment Group; origine: USA; durata: 120’ 1990 Wild at Heart (Cuore selvaggio) regia: D.L.; sceneggiatura: D.L.; soggetto: dal romanzo di Barry Gifford, Wild at Heart. The Story of Sailor and Lula; fotografia: Frederick Elmes; musica: Angelo Badalamenti; musica aggiuntiva:
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Filmografia
Richard Strauss; canzoni: «Slaughter House» (Joel du Bay, Jeffrey Litke, Adrian Liberty) eseguita da Powermad; «In the Mood» (Joe Garland) eseguita da Glenn Miller; «First Movement» (Duke Ellington, Ray Brown) eseguita da Duke Ellington; «Love Me» (Jerry Leiber, Mike Stoller) eseguita da Nicholas Cage; «Streamline» (John Ewing) eseguita da John Ewing and the Allstars; «Chrysanhemum», «Avant de mourir» (Shony Alex Brown), «Smoke Rings» (Ned Washington, H. E. Gifford) eseguite da Glen Gray and Casa Loma Orchestra; «Buried Alive» (Billy Swan), «Love Me Tender» (Elvis Presley, Vera Matson) eseguite da Nicholas Cage; «Far Away Chant» (A. Maxwell, M. Williams) eseguita da African Head Charge; «Baby Please Don’t Go» (Joe Williams) eseguita da Them; «Boomada» (Les Baxter), «BeBop-a-Lula» (Gene Vincent, Tex Davis) eseguite da Gene Vincent; «Wicked Game», «In the Heat of Jungle», «Blue Spanish Sky» (Chris Isaak), «Kosmogonia» (Krystof Penderecki), «Wrinkles» (Lafayette Leake) eseguite da The Big Three Trio; montaggio: Duwayne Duham; suono: Randy Thom; interpreti e personaggi: Nicolas Cage (Sailor Ripley), Laura Dern (Lula Pace Fortune), Diane Ladd (Marietta Pace), Willem Dafoe (Bobby Peru), Isabella Rossellini (Perdita Durango), Harry Dean Stanton (Johnnie Faragut), Crispin Glover (Dell), Grace Zabriskie (Juana), J. E. Freeman (Marcelo Santos), W. Morgan Sheppard (Mr. Reindeer), Bellina Logan (Beany Thorn), Glen Walker Harris Jr. (Pace Roscoe), Freddie Jones (George Kovich), Charlie Spradling (Irma), Eddie Dioxon (Rex), Michele Seipp (la ragazza dello Zanzibar), Calvin Lockhart (Reggie), Albert Popwell (il barista dello Zanzibar), Brent Fraser (punk idiota), Shawne Rowe (cameriera), Sheryl Lee (la fatina buona), Francis Bay (il padrone del bordello), John Lorie (Sparky), Tommy C. Kendrick (Red), Scott Coffey (Billy), Franck Colison (Timmy Thompson), Jack Nance («OO Spool»), Zachery Berger (l’uomo nella toilette maschile), Sherilyn Fenn (la ragazza dell’incidente d’auto), Blair Bruce Bever (il portiere dell’hotel), Peter Bromilow (il direttore dell’hotel), Lisa Ann Cabasa (la danzatrice di Mr. Reindeer), Frank A. Caruso (un vecchio barbone), Cage S. Johnson (l’uomo della stazione di servizio), Valli Leigh (un valletto di Mr. Reindeer), Nick Love (l’uomo in carrozzella), Daniele Quinn (un giovane cow-boy), Mia M. Ruiz (un valletto di Mr. Reindeer), Billy Swan (se stesso), Koko Taylor (la cantante dello Zanzibar), Darrell Zwerling (il manager della cantante), Jeff Smoleck (capo cascatore), i Powermad (se stessi); produzione: Polygram/Propaganda Film/Filmproduktion GMBH; origine: USA; durata: 127’
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David Lynch. Il cinema del sentire
1992 Twin Peaks – Fire Walks With Me (Twin Peaks – Fuoco cammina con me) regia: D.L.; sceneggiatura: D.L., Robert Engels; soggetto: D.L.; fotografia: Ron Garcia; musica: Angelo Badalamenti; musica aggiuntiva: «Requiem in do minore» di Luigi Cherubini; montaggio: Mary Sweeney; suono: D.L.; interpreti e personaggi: Sheryl Lee (Laura Palmer), Ray Wise (Leland Palmer), Madchen Amick (Shelly Johnson), Dana Ashbrook (Bobby Briggs), David Bowie (Phillip Jeffries), Eric Dare (Leo Johnson), Miguel Ferrer (Albert Rosenfeld), Pamela Gidley (Teresa Banks), Heather Graham (Annie Blackburne), Chris Isaak (agente speciale Chet Desmond), Moira Kelly (Donna Hayward), Peggy Lipton (Norma Jennings), David Lynch (Gordon Cole), James Marshall (James Hurley), Jurgen Prochnow (Bucheron), Harry Dean Stanton (Carl Rodd), Kiefer Sutherland (agente Sam Stanley), Harold Smith (Lenny von Dohlen), Grace Zabriskie (Sarah Palmer), Kyle MacLachlan (Dale Cooper), Frances Bay (Signora Tremond/Chalfort), Catherine E. Coulson (la signora del ceppo), Michael J. Anderson (l’uomo venuto dall’altrove), Frank Silva (Bob), Walter Olkewicz (Jacques Renault), Al Stroebel (Philip Gerard), Gary Heshberger (Mike Nelson), Sandra Kinner (Irene del Hap’s Café), Chris Pedersen (Tommy), Victor Rivers (Buck), Rick Aiello (Cliff Howard), Gary Bullock (sceriffo Cable), Mike Malone (agente FBI John Huck), Joe Berman (conducente del Pullman), Yvonne Roberts, Audra L. Cooper (prostitute), John Hoobler (aviatore), Kimberly Ann Cole (Lil), Elizabeth Ann McCarthy (la segretaria che ride), C. H. Evans (Jack), Paige Bennet (la francese da Hap’s), G. Kenneth Davidson (il vecchio da Hap’s), Ingrid Brucato (la donna curiosa), Chuck McQuarry (medico), Margaret Adams (la vicina al Fat Trout Camping), Carlton Russell (l’uomo che salta), Calvin Lockhart (l’elettricista), Jonathan J. Leppell (il ragazzino con la maschera), David Brisbin (il secondo taglialegna), Andrea Hays (Heidi), Julee Cruise (la cantante del Roadhouse), Steven Hodges, William Ungerman, Joseph Szeibert, Gregory Hurmel, Joseph L. Altruda (l’orchestra del Roadhouse), James Parks (il meccanico della stazione di servizio), Jane Jons (l’insegnante), Karin Robinson (l’angelo dentro il vagone), Lorna MacMillan (l’angelo dentro la Red Room); produzione: Ciby/D.L., Mark Frost; origine: USA; durata:120’ 1997 Lost Highway (Strade perdute) regia: D.L.; sceneggiatura: Barry Gifford, D.L.; soggetto: Barry Gifford, D.L.; fotografia: Peter Deming; musica: Angelo Badalamenti,
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Filmografia
Barry Adamson; montaggio: Mary Sweeney; suono: D.L.; canzoni: «I’m Deranged» (David Bowie, Brian Eno) eseguita da David Bowie; «Various Ominous Drones» (Trent Raznor, Peter Christopherson), eseguita di Nine Inch Nails; «Son to the Siren» (Larry Becket, Tim Buckley) eseguita da This Mortal Coil; «Insensatez» (Antonio Carlos Jobim, Vinicius de Moraes) eseguita da Antonio Carlos Jobim; «Eye» (Bille Corgan), eseguita dagli Smashing Pumkins; «The Perfect Drug» (Trent Raznor, Danny Lohner), eseguita dai Nine Inch Nails; «This Magic Moment» (Doc Pomus,, Mort Schuman) eseguita da Lou Reed; «Apple of Sodom» (Marilyn Manson) eseguita da Marilyn Manson; «I Put a Spell On You» (Jay Hawkins), eseguita da Marilyn Manson; «Heirate mich Rammstein» (Kruspe, Lindermann, Lenders, Lorenz, Schneider, Riedel) eseguita dai Rammstein; interpreti e personaggi: Bill Pullman (Fred Madison), Patricia Arquette (Renée Madison/lice Wakefield), Balthazar Getty III (Pete Dayton), Robert Loggia (Mr. Eddy/Dick Laurent), Robert Blake (Mistery Man), Gary Busey (Bill Dayton), Natasha Gregson Wagner (Sheila), Richard Prior (Arnie), Lucy Butler (Candace Clayton), John Roselius (Al), Lou Eppolito (Ed), Jack Nance (Phil), Michael Massee (Andy), Henry Rollins (Henry), Michael Shamus Wiles (Mike), Ivory Ocean (Ivory), Jack Kehler (Johnny Mack), Leonard Termo (Juge), David Byrd (dottor Smordin), Gene Ross (il direttore della prigione), F. William Parker (il capitano Luneau), Guy Siner, Alexander Folk (agenti penitenziari), Carl Sundstrom (Hank), John Solari (Lou), Al Garrett (Carl), Heather Stephens (Lanie), Giovanni Ribisi (Steve V), Scott Coffey (Teddy), Amanda Anka (prima ragazza), Jennifer Syme (la giovane Junkie), Matt Sigloch, Gil Combs (assistenti di Mr. Eddy), Greg Travis (l’automobilista), Lisa Boyle (Marian), Leslie Bega (Raquel), Marilyn Manson, Twiggy Ramirez (attori porno); produzione: Ciby 2000/Asymmetrical Productions; origine: USA; durata: 135’ 1999 The Straight Story (Una storia vera) regia: D.L.; sceneggiatura: John Roach, Mary Sweeney; soggetto: John Roach, Mary Sweeney; fotografia: Freddie Francis; musica: Angelo Badalamenti; montaggio: Mary Sweeney; scenografia: Jack Fisk; suono: D.L.; interpreti e personaggi: Richard Farnsworth (Alvin Straight), Sissy Spacek (Rose), Harry Dean Stanton (Lyle Straight), Jane Galloway Heitz (Dorothy), Joseph A. Carpenter (Bud), Donald Wiegert (Sig), Tracey Malone (l’infermiera), Dan Flannery (il dottor Gibbons), Jennifer Edwards-Hugues (Brenda), Ed Grennan (Pete), Jack Walsh (Apple), Max the wonder dog (il cane), Gil Pear-
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son (il conducente di bus), Barbara June Patterson (la ragazza sul bus), Everett McGill (il commesso della John Deere), Anastasia Webb (Crystal, la fuggiasca), Matt Guidry (Steve il ciclista), Bill McCallum (Rat il ciclista), James Cada (Danny Riordan), Sally Wingert (Darla Riordan), Barbara Kingsley (Janet Johnson), Jim E. Anderson (Johnny Johnson), Kevin e John Farley (i gemelli meccanici), Garrett Sweeney, Peter Sweeney, Tommy Fahey, Matt Fahey, Dan Fahey (i giovani del camion), John Lordan (il prete), Russ Reed (il cameriere), Ralph Feldacker (il contadino sul trattore); produzione: Picture Factory Production; origine: USA; durata: 111’ 2001 Mulholland Drive (Mulholland Drive) regia: D.L.; sceneggiatura: D.L.; soggetto: D.L.; fotografia: Peter Deming; musica: Angelo Badalamenti; musica aggiuntiva: D.L. John Neff; canzoni: «Sixteen Reasons» (Doree Post, Bill Post) eseguita da Connie Stevens; «I’ve Told Every Little Star» (Oscar Hammerstein II, Jerome Kern) eseguita da Linda Scott; «Crying (Llorando)» (Roy Orbison, Joe Nelson) eseguita da Rebekah del Rio; «Go Get Some», Pretty 50’s» «Mountains Falling» (D.L., John Neff) eseguite da D.L., John Neff; Bring it On Home» (Willie Dixon) eseguita da Sonny Boy Williamson; «The Beast» (Dave Cavanaugh) eseguita da Milt Bukner; montaggio: Mary Sweeney; suono: D.L.; interpreti e personaggi: Naomi Watts (Betty/Diane Selwin), Jeanne Bates (Irene), Dan Birnbaum (il compagno di Irene), Laura Elena Herring (Rita/Camilla Rhodes), Scott Wulff (autista di limousine), Robert Forster (detective McKnight), Brent Briscoe (detective Dongaard), Naya Bond (zia Ruth), Patrick Fischer (Dan), Michael Cooke (Herb), Bonnie Aarons (Sun), Michael J. Anderson (Mr. Roque), Joseph Kearney (maggiordomo di Mr. Roque), Enrique Buelma (uomo di spalle), Richard Mead (uomo dai capelli lunghi nel vicolo), Sean E. Markland (autista di Taxi), Ann Miller (Coco), Angelo Badalamenti (Luigi Castigliane), Dan Hedaya (Vincenzo Castigliane), Daniel Rey (assistente), Justin Theroux (Adam), David Schroeder (Robert Smith), Robert Katiams (Ray Hoitt), Marcus Graham (Mr. Darby), Tom Morris (l’uomo dell’espresso), Melissa George (Camilla Rhodes), Matt Gallini (autista della limousine dei Castigliane), Mark Pellegrino (Joe), Vincent Castellanos (Ed), Diane Nelson (donna obesa), Charlie Croughwell (addetto alle pulizie), Rena Riffel (Laney), Michael del Barres (Billy), Lori Heuring (Lorraine), Billy Ray Cyrus (Gene), Tad Horino (Taka), Melissa Crider (cameriera), Tony Longo (Kenny), Geno Silva (gestore dell’hotel), Katharine Towne (Cynthia), Lee Grant (Louise Bonner), Layfayette «Monty» Montgomery (cowboy),
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Filmografia
Kate Forster (Martha Johnson), James Karen (Wally Brown), Chad Everett (Jimmy Katz), Wayne Grace (Bob Booker), Rita Taggart (Linney James), Michele Hicks (Nicky), William Ostrander (secondo assistente regista), Elizabeth Lackey (Carol), Brian Beacock, Blake Lindsley, Adrien Curry, Tyrah M. Lindsley (coristi), Michael Weatheread (Hank – assistente regista), Michael Fairman (Jason), Richard Green (il mago), Conti Condoli (suonatore di tromba), Cory Glazer (donna dai capelli blu), Geno Silva (Encee), Rebekah del Rio (se stessa), Lyssie Powell (donna nel letto), Scott Coffey (Wilkins), Kimberly Lever, Joshua Collazo, Lisa Ferguson, David Frutos, Peter Loggins, Theresa Salazar, Thea Samuels, Christian Thompson (ballerini); produzione: Les films Alain Sarde/Asymmetrical Production; origine: Francia; durata: 145’.
Televisione 1988 The Cow-Boy and the Frenchman (t.l.: Il cow-boy e il francese) regia: D.L.; sceneggiatura: D.L.; fotografia: Frederick Elmes; montaggio: Scott Chesnut; musica: «La Gaîté parisienne» di J, Offenbach, Radio Ranch Straight Shooters, Eddie Dixon, Jean Jacques Perrey scenografia e costumi: Patricia Norris, Nancy Martinelli; suono: John Huck; interpreti e personaggi: Harry Dean Stanton (Slim), Frederick Golchan (il francese), Tracey Walters, Jack Nance, Michael Horse, Rick Guillory, Marie Lauren, Patrick Hausers, Eddy Dikon, Magali Alvarado, Ann Sophie, Robin Summers, Kathy Dean, Leslie Cook, Manette Lachance, Kelly Redusch, Michelle Rudy, Debra Seitz, Dominique Rojas, Audrey Tom, Amanda Hull, Talisa Soto, Jackie Old Coyote (cowboy, indiani, uomini e donne del West); produzione: EratoFilm/Socpresse/Figaro (episodio della serie Les Français vu par... prodotto dal quotidiano «Le Figaro»); origine: Francia; durata: 22’ 1990-91 Twin Peaks serie televisiva ideata e prodotta da D.L. e Mark Frost; 29 episodi più un episodio pilota (in Europa l’episodio pilota con un finale aggiunto venne editato in video con il titolo – in Italia – I segreti di Twin Peaks) registi degli episodi: D.L. (pilota, episodi 2, 8, 9, 14, 29), Duwayne Duham (1, 18, 25), Tina Rathborne (3, 17), Tim Hunter (4, 16, 28), Lesli Linka Glatter (5, 10, 13, 23), Caleb Deschanel (6, 15, 19), Mark Frost (7), Todd Holland (11, 20), Graeme
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Clifford (12), Uli Edel (21), Diane Keaton (22), James Foley (24), Jonathan Sanger (26), Stephen Gyllenhal (27); sceneggiatori degli episodi: D.L. (pilota, 1, 2, 8), Mark Frost (pilota, 1, 2, 5, 7, 8, 11, 14, 16, 26, 29), Harley Peyton (3, 6, 9, 11, 13, 16, 19, 20, 22, 25, 26, 27, 29), Robert Engels (4, 10, 11, 13, 16, 19, 22, 25, 27, 29), Jerry Stahl (11), Barry Pullman (12, 18, 24, 28), Scott Frost (15, 21), Tricia Brook (17, 23); fotografia: Ron Garcia (pilota), Frank Byers (tutti gli altri episodi); montaggio: Duwayne Dunham, Paul Trejd, Jonathan P. Shaw, Mary Sweeney, Toni Morgan; musica: Angelo Badalamenti; interpreti e personaggi principali: Kyle McLachlan (agente speciale Dale Barthelemew Cooper), Michael Ontkean (sceriffo Harry S. Truman), Joan Chen (Jocelyn Packard), Piper Laurie (Catherine Packard Martell), Jack Nance (Pete Martell), Peggy Lipton (Norma Jennings), Madchen Amick (Shelley Johnson), Eric Dare (Leo Johnson), Richard Beymer (Benjamin Horne), Sherilyn Fenn (Audrey Horne), David Patrick Kelly (Jerry Horne), Walter Olkewicz (Jacques Renault), Michel Parks (Jean Renault), Ray Wise (Leland Palmer), Grace Zabriskie (Sarah Palmer), Sheryl Lee (Laura Palmer/Madeleine Ferguson), Don Davis (maggiore Briggs), Dana Ashbrook (Bobby Briggs), Warren Frost (dottor Hayward), Lara Flynn Boyle (Donna Hayward), Mary Jo Deschanel (Eileen Hayward), Wendy Robie (Nadine Hurley), James Marshall (James Hurley), Phoebe Augustine (Ronette Pulaski), Frank Silva (Bob), Michael J. Anderson (L’uomo dell’altrove), Carel L. Struycken (il gigante), Catherine E. Coulson (la donna del ceppo), Al Strobel (Mike), D.L. (Gordon Cole); produzione: Lynch-Frost Production/Propaganda Films/Worldvision Enterprise Inc.; origine: USA; durata: 95’ (pilota) 48’ (ogni episodio) 1991-92 On the Air (Un catastrofico successo) serie in 7 episodi interrotta per scarso successo di audience; registi degli episodi: D.L. (episodio 1), Lesli Linka Glatter (2, 5), Jack Fisk (3, 5), Jonathan Sanger (4), Betty Thomas (6) sceneggiatori degli episodi: Mark Frost (1, 2, 3, 5), D.L. (1, 7), Scott Frost (4), Robert Engels (6, 7); fotografia: Ron Garcia; montaggio: Mary Sweeney; musica: Angelo Badalamenti interpreti: Ian Buchanan, Nancye Ferguson, Miguel Ferrer, Gary Grossman, Mal Johnson jr., Marvin Kaplan, David L. Lander, Kim McGuire, Marla Rubinoff, Tracey Walter; produzione: Twin Peaks Productions Inc./Worldvision Enterprise Inc./Lynch-Frost Production; origine: USA; durata: 45’ (ogni episodio)
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Filmografia
1992 Hotel Room (Hotel Room) Film in tre episodi; episodio 1: Tricks (Clienti), regia: D.L.; sceneggiatura: Barry Gifford; fotografia: Peter Deming; montaggio: Mary Sweeney; musica: Angelo Badalamenti; interpreti e personaggi: Harry Dean Stanton (Boca), Glenne Headly (Darlene), Freddie Jones (Lou); episodio 2: Gettin’ Rid of Robert (Sbarazzandosi di Robert), regia: James Signorelli; sceneggiatura: Jay McInerney; fotografia: Peter Deming; montaggio: David Siegel; musica: Angelo Badalamenti; interpreti e personaggi: Griffin Dunne (Robert), Deborah Unger (Sasna), Mariska Hargitai (Tina), Chelsea Field (Dianne); episodio 3: Blackout (Id.), regia: D.L.; sceneggiatura: Barry Gifford; fotografia: Peter Deming; montaggio: Toni Morgan; musica: Angelo Badalamenti; interpreti e personaggi: Crispin Glover (Danny), Alicia Witt (Diane).
Spot pubblicitari 1990 Opium (per Yves Saint Laurent) 1990 Obsession (per Calvin Klein) 1990 We Care About New York (pubblicità sociale per la municipalità di New York) 1992 Who is Gio? (per Giorgio Armani) 1993 Giorgia Coffee (per la omonima ditta giapponese di Caffè) 1993 Alka-Seltzer Plus (per la Alka-Seltzer) 1993 Pasta Barilla (per la Barilla Francese) 1993 American Cancer Society (pubblicità sociale per l’omonima associazione) 1993 The Instinct of Life (Per la Jill Sanders) 1994 Sun Moon Star (per il profumo di Karl Lagerfield) 1995 The Wall (per la Adidas) 1997 National Sports Utility Vehicle (per l’omonima ditta di trasporti) 1997 Nuclear Winter, Dead Leaves, Rocket, Aunt Droid (Per il canale via cavo Sci-Fi Channel) 1997 Olgivy and Mather (per il test casalingo di gravidanza Clear Blue Easy One Minute) 1999 Parisienne (per l’omonima marca di sigarette svizzere) 2000 The Third Place (per la Playstation2) 2000 JC Deacaux (per la omonima impresa di forniture stradali) 2003 Do You Speak Micra? (per la Nissan) 2003 Parisienne (per la British Tobacco).
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David Lynch. Il cinema del sentire
Video musicali e videoclip 1990 Industrial Symphony n° 1 – The Dream of the Brokenhearted regia: D.L.; musica: Angelo Badalamenti, D.L.; fotografia: John Schwartzman; montaggio: Bob Jenkins scenografia Franne Lee luci Anne Militello; coreografie: Martha Clark; montaggio scena iniziale: Mary Sweeney; interpreti e personaggi: Laura Dern (la ragazza dal cuore spezzato), Nicolas Cage (lo spezzacuori), Julee Cruise (doppio onirico della ragazza dal cuore spezzato), Lisa Giobbi (ballerina solista), Felix Blaska (ballerino solista), Michael J. Anderson (il taglialegna/gemello A), Andre Badalamenti (clarinetto solista/gemello B). John Bell (il grande cervo scorticato); produzione: D.L., Angelo Badalamenti (video tratto dallo spettacolo musicale messo in scena da David Lynch nel 1990); origine: USA; durata: 50’ 1990 1991 1993 1995
Wicked Games (Chris Isaak) Unfinished Sympathy (Massive Attack) Dangerous (Michael Jackson) Longing (Yoshiki).
Internet (lavori presenti nel sito personale del regista www.davidlynch.com) 2001 Dumbland (serie animata in Flash; sono stati realizzati sinora quattro episodi) 2001 Rabbits (con Naomi Watts Laura Elena Herring, Rebekah del Rio).
Altre attività Come produttore, insieme a Mark Frost ha realizzato la serie di documentari sull’America dal titolo American Chronicles e ha prodotto il film d’esordio (e sinora unico) della figlia Jennifer: Boxing Helena (1992). Nel 1987 è stato produttore, sceneggiatore e conduttore del programma per la BBC Ruth, Rose and Revolvers, programma in cui venivano presentati alcuni capolavori del cinema surrealista. È stato co-produttore del documentario Crumb (1995) di Terry Zwigoff, sul disegnatore di fumetti americano. Come attore, oltre a comparire in Dune e in Twin Peaks (sia nella serie che in Fire Walks With Me), è stato protagonista (insieme a Isabella
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Filmografia
Rossellini) di Zelly and Me (1988) di Tina Rathbone. Ha recitato piccole parti in Heart Beat (1980) di John Byrum (film sulla vita di Jack Kerouac in cui Lynch interpreta la parte di un pittore; nella versione definitiva le scene in cui era presente Lynch vennero tagliate). Compare inoltre in Nadja (1996) di Michael Almereyda (di cui è anche produttore. Compare come attore inoltre negli episodi 3, 5 e 6 della serie girata per il Web, Traphik (http://www.tra phik.com). Ha pubblicato su diversi quotidiani statunitensi la striscia giornaliera di fumetti The Angriest Dog in the Word. Come musicista, oltre a molte colonne sonore dei suoi film ha pubblicato anche degli album musicali, ultimamente con il suo gruppo musicale Blue Bob. Nel 1999 ha sviluppato la storia e i personaggi del videogioco della Sinergy Woodcutters From Fiery Ships.
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Bibliografia
La seguente bibliografia raccoglie una selezione dei principali testi dedicati all’opera di David Lynch. Per quanto riguarda gli altri testi utilizzati per il lavoro, si rimanda alle note a fondo pagina nel testo. Monografie Camon, Alessandro, David Lynch e i segreti di Twin Peaks, supplemento a «Ciak», gennaio 1991 David Lynch. Film, visioni e incubi da Six Figures a Twin Peaks, a cura di Federico Chiacchiari, Sorbini, Roma 1991. Fischer Robert, David Lynch, Die dunkle Seite der Seele, Wilhelm Heyne Verlag, München 1992 Kaleta, Kenneth, David Lynch, Simon & Schuster-Macmillan, New York 1992 Alexander, John, The Films of David Lynch, Letts of London House, London 1993 Nochimson, Martha P., The Passion of David Lynch. Wild at Hearth in Hollywood, University of Texas Press, Austin 1997 Woods, Paul A., Weirdsville U.S.A.: The Obsessive Universe of David Lynch, Plexus, Londra 1997 Hispano, Andrés, David Lynch. Claroscuro americano, Glénat, Barcelona 1998 Caccia, Riccardo, David Lynch, Il Castoro, Milano 2000 Chion, Michel, David Lynch, Lindau, Torino 2000 Duncan, Paul, David Lynch, Trafalgar Square, London 2000 Le Blanc, Michelle, Odell, Colin, The Pocket Essential David Lynch, Pocket Essentials, London 2000 Hugues, David, The Complete Lynch, Virgin, London 2001 Menarini, Roy, Il cinema di David Lynch, Falsopiano, Alessandria 2002
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David Lynch. Il cinema del sentire
Numeri speciali di riviste Dossier Lynch, in «Cahiers du cinéma», n.319, 1981 Dossier Lynch, in «Positif», n. 356, 1990 Dossier David Lynch, in «Starfix», n. 87, 1990 Speciale Lynch, in «Cineforum», n. 300, 1990 David Lynch, in «Garage», n. 17, 2000 David Lynch, in «Les Inrockuptibles», Hors Série, 2002 David Lynch, l’écran omnivore, in «Eclipse», n. 34, 2002
Interviste Bo, Fabio, Vernaglione, Paolo, Conversazione con David Lynch, in «Filmcritica», n. 369/370, 1986 Bromell, Henry, Visionary from Fringeland, in «Rolling Stone», 3 novembre 1980 Henry, Michel, Le ruban de Moebius. Entretien avec David Lynch, in «Positif», n. 431, 1997 Henry, Michel, David Lynch. Désirer l’idée, in «Positif», n. 490, 2001 Krohn, Bill, Entretien avec David Lynch, in «Cahiers du cinéma», n. 509, 1997 Rodley, Chris, Lynch secondo Lynch, Baldini & Castoldi, Milano 1998 Saada, Nicolas, Toubiana, Serge, Entretien avec David Lynch, in «Cahiers du cinéma», n. 540, 1999
Saggi e articoli sull’opera di Lynch Aubron, Hervé, David Lynch et l’enfer des images, in «Trafic», n. 30, 1999 Caccia, Riccardo, Il velluto, il cuore, il voyeur. La visione e lo sguardo nel cinema di David Lynch, in «Segnocinema», n. 47, 1991. Cattaneo, Francesco, Per (mis)conoscere la realtà. La retorica dell’avvicinamento in Lynch, in «Cineforum», n. 404, 2001 Cherchi Usai, Paolo, Il rumore e l’ombra. Due ipotesi su David Lynch, in «Paragone», n. 398, 1983 Combs, Richard, Crude Thoughts & Fierce Forces, in «Monthly Film Bulletin», n. 639, 19 Conomos, John, Colouring in David Lynch’s Cinema, in «Metro», n. 105, 1996 French, Sean, The Hearth of The Cavern, in «Sight and Sound», n. 2, 1987
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Bibliografia
Hinson, Hal, Dreamscape, in «American Film», n. 3, 1984. Ledesma, Jerónimo, David Lynch y la configuración del estilo, in «Kilometro 111», n. 1, 2000 Rodley, Chris, The Icon Profile: David Lynch, in «Icon», n. 1, 1997 Wallace, David F., David Lynch non perde la testa, in Tennis, tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più), Minimum Fax, Roma 1999 Willis, Sharon, Do the Wrong Thing: David Lynch’s Perverse Style, in High Contrast: Race and Gender in Contemporary Hollywood Film, Duke University Press, 1997 Zizeck, Slavoj, David Lynch, or the Feminine depression, in The Metastases of Enjoyment: Six Essays on Women and Casuality, Verso, London 1994
Saggi e articoli sui singoli film The Alphabet Strick, Philip, The Alphabet, in «Monthly Film Bulletin», n. 639, 1987 The Grandmother Shafransky, Renee, Mom and Dad Won’t stop Barking, in «Voice», 26 aprile 1983 Strick, Philip, The Grandmother, in «Monthly Film Bulletin», n. 639, 1987 Eraserhead – La mente che cancella Auty, Chris, The Nuclear Family Mutates, in «Time Out», n. 467, 1979 Molders, Oliviers, Eraserhead, un film de David Lynch, Yellow Now, Paris 1997 Rosenbaum, Jonathan, Eraserhead à New York. Un film-culte, in «Cahiers du cinéma», n. 322, 1981 Saban, Stephen, Longacre, Sarah, Eraserhead: Is There Life after Birth?, in «Soho Weekly News», 20 ottobre 1977 Elephant man Daney, Serge, Le monstre a peur, in «Cahiers du cinéma», n. 322, 1981 Kawin, Bruce, The Elephant Man, in «Film Quarterly», n. 4, 1981 Martini, Emanuela, The Elephant Man, in «Cineforum», n. 204, 1981
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David Lynch. Il cinema del sentire
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Indice dei nomi e dei film
Agamben, Giorgio, 82, 136, 153 Agel, Henri, 14 n. Aliaga, Juan Vicente, 77 n., 79 n. Alien (Id., R. Scott, 1979), 112 Alphabet, The (t.l.: L’alfabeto, cortometraggio, D. Lynch, 1968), 46, 80, 82-83, 127 Anderson, Mike, 89-90, 134 Anghelopoulos, Theo, 115 Arnheim, Rudolf, 17 Arquette, Patricia, 64 Aumont, Jacques, 17 e n., 18, 22, 27, 30 e n., 37 n. Bacon, Francis, 11, 28, 31, 34-38, 40, 42, 78 e n., 79-80, 125-126, 152 Badalamenti, Angelo, 127, 133 n., 135 Baltru‰aitis, Jurgis, 145, 146 n. Bancroft, Anne, 91 Baudrillard, Jean, 66 Baum, Lyman Frank, 63 Bazin, André, 17, 144 Benjamin, Walter, 105 Bergren, Eric, 93 Bernardinis, Flavio de, 39 n., 57, 58 e n., 59, 84 e n. Berto, Graziella, 140 n., 141 n. Blake, Robert, 64 Bologna, Corrado, 151 n. Boni, Stefano, 67 n. Boorman, John, 115 Bouvier, Michel, 21 n.
Bowie, David, 64, 127 Brooks, Mel, 91, 97 Browning, Tod, 98 Brunette, Peter, 10 n. Bruno, Edoardo, 29 e n., 6 n., 73 n., 112 e n., 122 n. Caccia, Riccardo, 10 e n., 40 n., 47 n., 61 n., 66 n., 88 n., 99 n. Calabrese, Omar, 146 n. Campan, Véronique, 98 n., 102 n. Cappabianca, Alessandro, 73 n. Caravaggio, Michelangelo Merisi da, 22 Carboni, Massimo, 33 n., 35 n. Carver, Raymond, 68 Cattaneo, Francesco, 124 n. Cézanne, Paul, 11, 27, 31, 32 e n., 33-38, 40, 66, 152 Cherchi Usai, Paolo, 85 n. Chiacchiari, Federico, 44 n. Chion, Michel, 8 e n., 41 e n., 45 e n., 46 e n., 47 e n., 53 e n., 77 e n., 81 e n., 85 e n., 88-89, 107 e n., 126 e n., 128 e n., 129, 133 e n., 147 e n., 148 e n. Cinese, La (La chinoise, J.-L. Godard, 1967), 19 Clark, Kenneth, 38 n. Cognard, François, 40 n. Cole, Kimberly Ann, 7 Corazzata Potemkin, La (Bronenosec Potëmkin, S. Ejzen‰tejn, 1925), 35
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Indice dei nomi e dei film
Cruise, Julee, 134 Cuomo, Vincenzo, 150 n. Cuore selvaggio (Wild at Heart, D. Lynch, 1990), 62, 83, 129, 133134 Curi, Umberto, 138 e n., 139 e n.
dow, A. Hitchcock, 1954), 116, 118 Fisk, Jack, 28 Ford, John, 68 Fornara, Bruno, 121 n. Foubert, Jean, 89 Foucault, Michel, 38 e n., 147 n. Francis, Freddie, 97 Frasca, Giampiero, 62 n. Freaks (Id., T. Browning, 1932), 98 Freud, Lucien, 35 Freud, Sigmund, 31, 33, 35, 139, 137-138, 139 e n., 140, 141 e n., 143 Frost, Mark, 84 Fuoco cammina con me, v. Twin Peaks – Fuoco cammina con me
Dafoe, Willem, 63 Daney, Serge, 50 e n., 95 n., 119 n. De Gaetano, Domenico, 128 n. Delacroix, Eugène, 24 Delaunay, Robert, 33 De Laurentiis, Dino, 110 De Laurentiis, Raffaella, 110 Deleuze, Gilles, 31 n., 34 e n., 35, 36 e n., 37 n., 51 n., 76 n., 78 n., 80 n., 125 e n., 152 e n. De Oliveira, Manoel, 25 Derrida, Jacques, 122 n. De Vore, Christopher, 93 Didi-Huberman, Georges, 38 n. Dreyer, Carl Theodor, 21 Duchamp, Marcel, 102, 107 e n., 108, 110 Dufrenne, Mikel, 18 e n., 26 e n. Dumbland (serie internet, D. Lynch, 2001), 49, 52 Dune (Id., D. Lynch, 1984), 13, 47, 102, 105, 110, 111 e n., 112, 113 e n., 124, 129 Dyer, George, 34-35
Gariazzo, Giuseppe, 48 Getty, Balthazar, 64 Gielgud, John, 91 Gifford, Barry, 55 Glover, Crispin, 57 Godard, Jean-Luc, 18-19, 21, 2324, 33 Goya, Francisco, 24 Grandmother, The (t.l.: La nonna, cortometraggio, D. Lynch, 1970), 46, 83 Grant, Cary, 119 Greco, El (Domenico Theotokopoulos), 24, 43 Guerre stellari (Star Wars, G. Lucas, 1977), 112
Ejzen‰tejn, Sergej, 20-21, 35, 43, 69 n. Elephant Man, The (Id., D. Lynch, 1980), 10, 40, 47, 60, 91-92, 97, 99, 102, 105, 108, 110-113, 128 Eraserhead – La mente che cancella (Eraserhead, D. Lynch, 1976), 40, 45-46, 48, 50, 53, 60, 91, 103, 105-108, 110, 113, 116, 128 Esposito, Lorenzo, 68 e n.
Heidegger, Martin, 45, 105 n Henry, Michel, 31, 39 n., 72 n. Heras, Artur, 104 n. Herbert, Frank, 110 Hill Street Blues (serial tv), 84 Hintermann, Carlo, 69 e n. Hispano, Andrés, 56 e n., 59 e n., 92 n., 107 n. Hitchcock, Alfred, 117-118, 119 n., 120 n. Hoffmann, E.T.A., 140, 141 e n. Holbein, Hans, 38, 143, 145, 146 n., 147 n., 152 Hopkins, Anthony, 91 Hopper, Edward, 27-28, 42, 68
Faust (Faust-Eine Deutsche Volkssage, F.W. Murnau, 1926), 21, 23 Fellini, Federico, 117 Fenn, Sherilyn, 63 Finestra sul cortile, La (Rear Win-
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Indice dei nomi e dei film
Hotel Room (serial tv, 1992), 55, 60-61 Hughes, fratelli, 94 Hurt, John, 91
Marocco, Paolo, 23 n. Martini, Emanuela, 66 n. McInerney, Jay, 55 McLachlan, Kyle, 39, 87, 90 Menarini, Roy, 43, 63 Merleau-Ponty, Marcel, 25 n., 31 e n., 32-33, 152 Merrick, John (Joseph Carey), 90, 91-92, 111-112 Montani, Pietro, 61 n., 65 e n. Montgomery, Monty, 55 Moon, Sarah, 114 Mosjouskine, Ivan, 118 Mulholland Drive (Id., D. Lynch, 2001), 8, 55, 63, 70-73, 83, 99100, 138, 147, 150 Murnau, Friedrich Wilhelm, 21-24
Industrial Symphony n° 1 – The Dream of the Brokenhearted (D. Lynch, 1990), 133 Ingres, Jean-Auguste-Dominique, 24, 79 Intrigo internazionale (North bu Northwest, A. Hitchcock, 1959, 119 n. Isaak, Chis, 7 Je vous salue, Marie (Id., J.-L. Godard, 1984), 18 Jodorowsky, Alejandro, 110 Jones, Freddie, 56 Jousse, Thierry, 65 n. Joyard, Olivier, 100 n.
Nance, Jack, 90 Nancy, Jean-Luc, 47 e n., 75-76, 136, 143 e n., 144 e n., 147 n., 152 Nietzsche, Friedrich, 45
Kandinskij, Vasilij, 33, 66 Keeler, Bushnell, 28 Klee, Paul, 11, 30, 33, 37, 66 e n. Kokoschka, Oskar, 28 Kule‰ov, Lev, 118
Ong, Walter J., 149 n. Orbison, Roy, 8, 100, 127, 149 8 e mezzo (F. Fellini, 1963), 117
Lacan, Jacques, 38 n., 141-143, 146 e n. Lalanne, Jean-Marc, 100 n. La Tour, Georges de, 22 Léaud, Jean-Pierre, 19 Ledesma, Jerónimo, 39 n. Lee, Sheryl, 89 Leibniz, Gottfried Wilhelm, 54 e n. Leiris, Michel, 80 n. Lelouch, Claude, 115 Leutrat, Jean-Louis, 21 n., 24 n., 56 n. Liberti, Fabrizio, 90 n. Loggia, Robert, 64 Lumière, 19, 114-115 Lynch, Peggy, 53, 83 Lyotard, Jean-François, 31 e n., 33 e n., 108 n.
Paganelli, Grazia, 113 n. Paquet, Marcel, 79 n. ParadÏanov, Sergej, 20, 25 Pasolini, Pier Paolo, 25 Passion (Id., J.-L. Godard, 1982), 18, 23-24 Perniola, Mario, 58 e n., 61 Poe, Edgar Allan, 68 Premonitions Following an Evil Deed (t.l.: Premonizioni seguenti un fatto malvagio, cortometraggio, D. Lynch, 1995), 114-115, 117, 119-121 Pullman, Bill, 64 Rabbits (video. D. Lynch, 2001), 49, 52 Rawsthorne, Isabel, 35 Ray, Nicholas, 68 Rembrandt, Harmenszoon Van Rijn, 22, 24 Rio, Rebekah del, 8-9, 100, 150
Magritte, René, 42, 48, 79 Maldiney, Henri, 31 e n. Maleviã, Kazimir, 33
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Indice dei nomi e dei film
Roach, John, 69 n. Roberti, Bruno, 74 Robertson, Nan, 11 n. Rockwell, Norman, 68 Rodley, Chris, 20 n., 36, 137 Rohmer, Eric, 21 e n., 22-24, 33 Rossellini, Isabella, 39 Rugoff, Ralph, 47 n. Ruiz, Raul, 25
Trevi, Emanuele, 100 n. Truffaut, François, 118 n. Twin Peaks – Fuoco cammina con me (Twin Peaks – Fire Walks With Me, D. Lynch, 1992), 8, 55, 57, 59, 89, 103, 133 Twin Peaks (serial tv, D. Lynch, 1990-91), 44, 55, 57, 59, 63, 8387, 89-90, 99, 114, 127, 134, 150
Saada, Nicolas, 70 n. Schelling, Friedrich Wilhelm Joseph, 140 Scorsese, Martin, 25 Si salvi chi può (la vita) (Sauve qui peut (la vie), J.-L. Godard, 1980), 18 Signorelli, James, 55 Six Figures Getting Sick (t.l.: Sei figure si sentono male, cortometraggio, D. Lynch, 1967), 4346, 80, 90, 125 Splet, Alan, 105, 128 Stanton, Harry Dean, 56, 63 Stewart, James, 117-119 Storia vera, Una (The Straight Story, D. Lynch, 1999), 10, 48, 62-63, 67, 70-71, 120, 122-124, 154 Strade perdute (Lost Highway, D. Lynch, 1997), 60-66, 68, 70-71, 83, 127, 145, 147, 150, 154 Straight, Alvin, 69 Straub, Jean-Marie, 25 Sutherland, Kiefer, 7 Sweeney, Mary, 69
Vacanze di Monsieur Hulot, Le (Les vacances de Monsieur Hulot, J. Tati, 1953) 117 Velázquez, Diego, 34-35, 38, 125, 147 Velluto Blu (Blue Velvet, D. Lynch, 1986), 39, 60, 76, 120, 122, 127, 129, 137, 148-149, 154 Vera storia di Jack lo squartatore, La (From Hell, Hugues Bros, 2001), 94 n. Vermeer, Jan, 22 Verne, Jules, 112 Viale del tramonto (Sunset Boulevard, B. Wilder, 1950), 117 Vincenti, Enrico, 67 n. Vinton, Bobby, 121 Viviant, Alain, 85 n.
Third Place, The (spot pubblicitario, D. Lynch, 2000), 49-50 Toubiana, Serge, 70 n. Treves, Frederick, 92 e n.
X-Files (serial tv), 85
Wasserman, H.B., 80 Watteau, Jean Antoine, 24 Watts, Naomi, 71 Whitman, Walt, 68 Wills, David, 10 Witt, Alicia, 57
Zhang Yimou, 115 Zizek, Slavoj, 132 e n.
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Le Mani Cinema J.-L. Leutrat - S. Liandrat-Guigues, Le carte del western. Percorsi di un genere cinematografico L. Malle, Il mio cinema J.-L. Bourget, John Ford A. Wayne, John Wayne, mio padre R. Nogueira, Il cinema secondo Melville M. Salotti, Orson Welles J.-L. Leutrat, Sentieri selvaggi di John Ford A. Gillain, François Truffaut. Il segreto perduto AA.VV., Il cinema di David Cronenberg P. Marocco, Eric Rohmer P. Giuliani, Stanley Kubrick M. Marchesini, L’ombra del dubbio M. Monteleone, Luna-dark. Il cinema di Tim Burton AA.VV., Sentieri di John Ford, a cura di A. Viganò R. Trotta, Francis Ford Coppola A. Bencivenni - A. Samueli, Peter Greenaway. Il cinema delle idee J.-L. Leutrat, Il cinema in prospettiva: una storia J. Nacache, Il cinema classico hollywoodiano A. Cappabianca, Roman Polanski A. Anile, Il cinema di Totò. (1935-1945). L’estro funambolo e l’ameno spettro G.A. Nazzaro - A. Tagliacozzo, Il cinema di Hong Kong. Spade Kung Fu, pistole e fantasmi M. Salotti, Ernst Lubitsch S. Arecco, Alain Resnais. L’anima e la forma M. Russo, Wim Wenders, percezione visiva e conoscenza AA.VV., Blake Edwards. L’occhio composto, a cura di E. Bruno A. Viganò, Claude Chabrol R. Scanarotti, Treno e Cinema R. Menarini, James Cameron A. Anile, I film di Totò. (1946-1967). La maschera tradita I. Gatti, Jane Campion S. Danese, Abel Ferrara. L’anarchico e il cattolico S. Liandrat-Guigues - J.-L. Leutrat, Godard: alla ricerca dell’arte perduta M. Bertolino - E. Ridola, John Woo. La violenza come redenzione S. Arecco, Robert Bresson V. Amiel, Kies′ lowski. La coscienza dello sguardo A. Cappabianca, Il cinema e il sacro A. Bernardi, Luis Buñuel L. Gandini, Billy Wilder R. Menarini - M. Moretti - A.G. Alonge, Il cinema di guerra americano. 1968-1999 E.C. de Miro d’Ajeta, Margarethe von Trotta. L’identità divisa
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Le Mani - Cineteca di Bologna V. Martinelli, Le dive del silenzio M. Rossi - Tatti Sanguineti, Fellini & Rossi il sesto vitellone Cinegrafie N. 14 - Derrière les silences Cinegrafie N. 15 - La bellezza del mondo/La beauté du monde AA.VV., Cinéma - La creazione di un mondo A cura di T. Sanguineti, La spiaggia Progetto Chaplin n. 1, Limelight - Luci della ribalta Frieda Grafe, Luce negli occhi, colori nella mente Progetto Chaplin - Quaderno n. 1, The Great Dictator - Il grande dittatore Cinegrafie N.16 - Cinemascope. Più grande della vita/Larger than Life A cura di G. Mingozzi, Francesca Bertini R. Renzi, Il cinema è stato la mia vita. Scritti scelti 1948-1986
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Finito di stampare nel mese di aprile 2004 alla Microart’s S.p.A. - Recco (Ge)