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Italian Pages 284 [286] Year 2017
FRANCESCO
DONADIO
DAVID BOWIE L’ARTE DI SCOMPARIRE Indagine sugli ultimi dodici anni dell’Uomo delle Stelle
francesco donadio
david bowie l’arte di scomparire indagine sugli ultimi dodici anni dell’uomo delle stelle
indice
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Prefazione – Bowie non muore. Diventa classico di Maurizio Becker
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Stab me in the dark Dublino David Bowie A Reality Tour
19 19 21 31
1. Here I am, not quite dying (2004-2007) Manhattan Iman Abdulmajid Duncan Jones Coco Schwab New Rock Revolution Juke-box Musical Robert Fox La New York di Bowie Tony Visconti Arcade Fire TV on the Radio Scott Walker “This is New York calling” The Prestige «New York Metro»
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Royal Albert Hall Nokia Music Recommender Madama Butterfly Extras Keep a Child Alive The Fountain 60 anni di Bowie Slip Away
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2. You’ve got the blues, my friend (2007-2010) High Line Festival Xingu Films Jena 6 Scarlett Johansson Moon Bandslam Time Will Crawl The Man Who Fell To Earth Sundance Michael Cunningham Caro Francesco Caro Francesco II
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3. And another day (2010- 2013) 6/8 Studios Spiderman Source Code The Magic Shop V&A Woodstock Human Worldwide Studios Is David Bowie Dying? David Bowie Is Woody Woodmansey Earl Slick Alive and well and living in New York
135 135 138 139 140 144 147 148 150 152 153 154 156
Rob Stringer Jonathan Barnbrook Il matrimonio Jones-Ronquillo Tony Oursler
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4. As long as there’s sun (2013-2014) Where Are We Now? Jimmy King Victoria Broackes & Geoffrey Marsh The Stars (Are Out Tonight) The Next Day Angie Bowie Reflektor David Bowie Is at V&A “That Doomsday Song” R.I.P Trevor Bolder Five Years Venezia & Londra Enda Walsh The Next Day Extra I 100 libri Bowie is back… again! R.I.P. Lou Reed Brainstorming Brit Awards Maria Schneider Jack Spann Williamsburg Sue (Or In A Season Of Crime) Ivo van Hove
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5. I know something’s very wrong (2014-2015) More Music Soon Holy Holy Henry Hey Daphne Guinness
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Everything Has Changed New York Theatre Workshop Donny McCaslin Quartet James Murphy Blackstar NYTW announces world premiere of Lazarus Johan Renck Tom Elmhirst Michael C. Hall “I’m probably going to die” “Commencing countdown, engines on”
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6. Lost in streams of sound (2016-…) 10 gennaio 2016
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Sound & vision (2004-2016)
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Bibliografia Fonti dirette Altre fonti
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Ringraziamenti
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david bowie l’arte di scomparire
prefazione bowie non muore. diventa classico di Maurizio Becker
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Me la ricordo come fossi oggi, quella mattinata dell’11 gennaio 2016. Quel giorno accesi il computer verso le 7:30, prima del solito; era giornata di chiusura e c’era da mandare in stampa il numero di febbraio di «Classic Rock». Come mia abitudine, diedi un’occhiata alle news e scorrendole velocemente vidi una fotografia di David Bowie. Non ci feci molto caso: BLACKSTAR era uscito da due giorni ed era una delle notizie più calde del momento. Poi però ne vidi un’altra, e una terza. E finalmente lessi. Rimasi per qualche minuto lì, seduto davanti allo schermo, senza nulla da dire. Avevo la testa vuota. Poi scrissi un conciso messaggio al direttore comunicandogli che Bowie era morto e che forse avremmo dovuto intervenire sui contenuti del numero prima di mandarlo in stampa. La risposta non si fece attendere: l’editore aveva autorizzato un eventuale cambio di copertina e uno spostamento della consegna degli impianti, ma solo di poche ore. Occorreva decidere in fretta. Per mia fortuna, mi fu proposta un’intervista inedita a Bowie, realizzata dalla nostra collaboratrice Eleonora Bagarotti nel 2000 e rimasta per misteriosi motivi inutilizzata. Mi sembrò un buon modo di ricordarlo, anziché approntare in fretta e furia l’ennesimo coccodrillo retrospettivo: di pezzi così non ne sarebbero certo mancati. Anzi, ne saremmo stati letteralmente inondati, di lì a poche ore. Là fuori, il mondo stava già freneticamente scrivendo tutto e il contrario di tutto su una vicenda artistica fra le più straordinarie nella storia della musica pop. E quando noi saremmo finalmente arrivati in edi-
DAVID BOWIE. L’ARTE DI SCOMPARIRE
cola, un articolo in più non avrebbe fatto alcuna differenza. Quindi, un’intervista inedita andava benissimo. Ironia della sorte, per quel numero avevamo realizzato una cover su Lemmy, il mitico frontman dei Motörhead scomparso meno di due settimane prima, il 28 dicembre 2015. Anche in quel caso, avevamo un’intervista inedita, realizzata dal collega Dave Ling in occasione dell’uscita dell’ultimo album della band, BAD MAGIC, nell’agosto precedente. Si trattava di una conversazione molto intima, il cui tema principale era lo stato di salute traballante del musicista e le sue prospettive future. Fra le tante cose dette da Lemmy, in sede d’impaginazione avevamo evidenziato una risposta: «Non posso fare una dichiarazione definitiva su come sto, perché le cose cambiano». Retrospettivamente, era un’intervista molto toccante. Per la copertina, avevamo concepito uno strillo che in qualche modo si sottraesse alla mestizia e lanciasse invece un messaggio positivo: «Il rock non muore. Diventa classico». Quello strillo ci era piaciuto e mi convinsi che non c’era alcun motivo di rinunciarvi. Anzi, decidemmo di far uscire il giornale con una doppia cover, fronte e retro: davanti Bowie, in quarta Lemmy. Entrambe con quello strillo. Restavano ancora due cose da fare: scegliere un’immagine adeguata (alla fine, optammo per un classico scatto del 1973 di Masayoshi Sukita, con Bowie in un fantastico costume di Kansai Yamamoto) e inserire nel timone anche un breve pezzo di attualità. Fu a quel punto che chiamai Francesco Donadio, che di «Classic Rock» è il riconosciuto e apprezzato Bowie man, il collaboratore al quale da sempre vanno d’ufficio tutti gli articoli e le recensioni su Bowie. Ovviamente, Francesco aveva già una sua idea e nel giro di un paio d’ore mi scodellò in posta un testo breve, di appena 4.531 battute, ma denso e perfetto. Iniziava così: La notte del 10 gennaio la stella del rock registrata all’anagrafe come David Jones e nota al mondo come David Bowie ha concluso la sua orbita terrena e la sua luce ha repentinamente smesso di brillare, con uno di quei “coup de théâtre” di cui è sempre stato maestro indiscusso. Nulla era trapelato della sua battaglia – ormai evidentemente perduta – con il cancro, che (sembra) lo aveva assalito ben 18 mesi fa. Ci eravamo fidati (o meglio: abbiamo sempre fortissimamente voluto fidarci) delle ripetute rassicurazioni di Tony Visconti, che appena un mese fa aveva detto in un’intervista che l’amico di sempre era in “ottima salute”. E invece no.
PREFAZIONE
– BOWIE NON MUORE. DIVENTA CLASSICO
In fondo al suo articolo, Francesco volle aggiungere una breve frase: Addio David, grazie per la tua arte e – non meno – per aver contribuito a renderci quelli che siamo. Meno di due anni dopo gli eventi che ho appena raccontato, mi ritrovo a dover scrivere due parole per introdurre il nuovo libro di Francesco, fatalmente dedicato a Bowie. Anzi, agli ultimi giorni di Bowie. La circostanza mi suscita un amaro sorriso: sono quasi due anni, infatti, che sento in Francesco un certo disagio ogni qual volta si tratta di scrivere di Bowie. E mi sento dire una frase che ormai fra noi è diventata proverbiale: «Vorrei prendermi una vacanza da Bowie». E ogni volta, fra me e me sorrido. Sorrido perché so che Bowie fa parte della vita di Francesco, più di qualunque altro artista. E infatti, puntualmente, lui finisce col cedere: «Ok, lo faccio». E in questi venti mesi e passa, di occasioni ce ne sono state a bizzeffe: le ristampe, i box set, le serate speciali, il vernissage della mostra su Bowie, le interviste concesse in occasione di special televisivi. Per cui, quando la scorsa estate Francesco mi ha chiamato per dirmi, con malcelato imbarazzo, che sì, aveva accettato la proposta di scrivere un altro libro su David Bowie (dopo l’imperdibile Fantastic Voyage uscito nel 2013), poco c’è mancato che gli scoppiassi a ridere in faccia. E mi veniva da ridere ogni volta che in questi mesi mi supplicava di non caricarlo troppo di incombenze, perché aveva questo libro da fare. L’estate 2017 è stata per Francesco Donadio una specie di incubo, o meglio un’ossessione: gli ultimi giorni di David Bowie aspettavano di essere raccontati. Finalmente, l’incubo è finito e in mano abbiamo questo libro. Inizio a leggerlo insieme a voi, e immediatamente il pensiero corre a quella mattina in cui tutto, purtroppo, è iniziato. Roma, 23 ottobre 2017
This is how you disappear Out between midnight Called up under valleys Of torches and stars Scott Walker, Rawhide, 1984 It must be nice to disappear To have a vanishing act To always be looking forward And never looking back Lou Reed, Vanishing Act, 2003
Il 10 gennaio 2016 l’improvviso annuncio della morte di David Bowie ha lasciato sconcertati tutti i suoi fan, che fino a qualche ora prima avevano avuto modo di apprezzare il ritorno sulle scene di una star forse invecchiata ma comunque sempre al passo con i tempi, in grado di realizzare negli ultimi mesi di vita due opere che hanno lasciato il segno. La verità è che Bowie era scomparso dai radar già molto tempo prima. A partire dal 25 giugno 2004 – quando sul palco dell’Hurricane Festival a Scheeßel, in Germania, avvertì un lancinante dolore al petto che si rivelò essere un infarto in atto, trattato con un urgente intervento di angioplastica – e per undici anni e mezzo, Bowie aveva smesso di essere la rockstar presenzialista dei decenni precedenti, non rilasciando più interviste e assumendo un bassissimo profilo per uscire di casa solo raramente per eventi selezionati. Un po’ come Greta Garbo, Scott Walker, J.D. Salinger o il nostro Lucio Battisti. Questa è la visione comune. Ma è andata veramente così? Cosa è realmente accaduto in questa dozzina di anni, tra complicazioni di salute, passeggiate in incognito per Manhattan e progetti avviati e poi cancellati? C’è ancora qualcosa che può – anzi che deve – essere raccontato? Questo libro si propone di far luce su quei mesi, tra il 2004 e il 2016, che l’Uomo delle Stelle ha voluto (o dovuto?) passare lontano dalla luce dei riflettori. Una ricostruzione per quanto possibile accurata, sulla base delle testimonianze dei suoi collaboratori e della cronologia dei suoi avvistamenti, dei dodici anni “misteriosi” di David Bowie. Gli anni senz’altro più tormentati e difficili della sua vita e della sua carriera, ma assai meno vuoti di quanto comunemente si pensi dal punto di vista artistico, sfociati negli splendidi ritorni di THE NEXT DAY e BLACKSTAR, oltre al musical Lazarus.
stab me in the dark
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dublino La data è il 22 novembre 2003. Ci troviamo in Irlanda, a Dublino, e più esattamente all’interno del Point Theatre, un’imponente arena dalla capienza di 8.500 posti costruita alla fine degli anni Ottanta sulle basi di un edificio che per quasi un secolo è stato adibito a deposito per treni, sulla riva del fiume Liffey, non distante dalla zona del porto. La vasta sala è colma di gente, migliaia di persone quasi tutte in piedi con lo sguardo rivolto verso i musicisti che, in questo esatto momento, stanno suonando: un pianista (Mike Garson), un batterista (Sterling Campbell), una bassista (Gail Ann Dorsey), due chitarristi (Gerry Leonard ed Earl Slick), una vocalist e polistrumentista (Catherine Russell). E poi, a centro palco, con una chitarra a tracolla, il biondo frontman: David Jones da Bromley, Londra, conosciuto in tutto il mondo con il nome d’arte di David Bowie. Osserviamolo per un po’ mentre canta, suona e motteggia con il pubblico e con la band, poi fermiamoci un secondo a riflettere, magari mettendo in pausa il Dvd A Reality Tour che documenta le due date consecutive di Dublino: a 56 anni, Bowie pare il ritratto della salute. Magari conta anche il modo in cui è vestito, giovanile, con una T-shirt, un paio di jeans e sneakers “alla Strokes”, ma fisicamente dimostra almeno una decina di anni in meno di quelli che ha. Un anno
DAVID BOWIE. L’ARTE DI SCOMPARIRE
prima, durante il mini-tour per HEATHEN, era apparso leggermente appesantito, ma ora è tornato alla magrezza tipica del suo peso forma, quello degli anni Novanta e Ottanta o anche del periodo berlinese. E di rughe ne ha poche: troppo poche, a voler dare retta ai maligni secondo i quali negli ultimi anni si è sottoposto a diverse operazioni di lifting (sospetto peraltro avvalorato da una certa rigidità espressiva che si nota in alcuni momenti dei concerti dublinesi, quando viene inquadrato da vicino). Certo, non balla più né inscena un personaggio come faceva negli anni d’oro, o anche durante il Glass Spider Tour, quando aveva ancora quarant’anni. Dio solo sa come facesse allora a reggere quei ritmi, considerando il tabagismo che lo spingeva a fumare due pacchetti di sigarette al giorno. Quando va in scena a Dublino, Bowie ha smesso di fumare da oltre un anno, tuttavia sul palco rimane ugualmente piuttosto statico, limitandosi a salticchiare ogni tanto sul posto. Ma quello che fa, lo fa bene, e la sua voce, depurata dalle tossine della nicotina, risulta più potente ed espressiva che mai. In una delle due date dublinesi, tra gli spettatori ci sono anche il bassista e il batterista dei leggendari Spiders from Mars, Trevor Bolder e Mick “Woody” Woodmansey, con i quali Bowie si era separato in modo traumatico il 3 luglio 1973 all’Hammersmith Odeon di Londra, annunciando a sorpresa che Ziggy aveva “sciolto la band”. In seguito Bolder aveva suonato su PIN UPS (1973) e Woody aveva incrociato Bowie in Francia durante la registrazione di LOW (1976), ma da lì in poi tra i due campi non c’erano stati che scarsi contatti. In questo caso è stato Bowie, secondo quanto ci ha raccontato Woodmansey, a fare la prima mossa: «Stavamo facendo un tour, io e Trevor, con Joe Elliott e Phil Collen dei Def Leppard [con i Cybernauts, cover band nata come tributo al defunto Mick Ronson, N.d.A.], e Bowie era in città con il Reality Tour. Mi ha mandato un messaggio dicendo: “Se vuoi venire al concerto…”. Così siamo andati a vederlo a Dublino e ci hanno assegnato dei posti tipo “palco reale”. Non so se hai in mente il Muppet Show… Ci siamo sentiti un po’ come Statler e Waldorf dei Muppets, affacciati dal palco reale: Chi è questo tipo? È spazzatura! Cacciatelo via! Ah ah! Avremmo dovuto incontrarlo dopo il concerto ma abbiamo fatto un po’ di confusione – forse avevamo bevuto trop-
STAB ME IN THE DARK
po – e alla fine non ci siamo trovati. Credo che lui non ne sia rimasto troppo contento». Una vera disdetta, perché Bowie e i due Spiders superstiti non si incontreranno mai più. Si sentiranno soltanto per telefono in circostanze decisamente particolari.
DAVID BOWIE DAVID BOWIE
David Bowie è stato la prima rockstar postmoderna. Ha inventato di sana pianta lo spettacolo rock “teatrale”. È stato l’artista di maggior spicco del glam rock. È arrivato anni luce prima degli altri al white funk. Ha scoperto (con la complicità di Brian Eno) le potenzialità dell’elettronica “krauta” applicata al pop, ponendo le basi di tutta la new wave e del post-punk. E poi, con la forza del proprio esempio, ha propagandato il concetto che l’artista pop deve necessariamente cambiare ed evolversi, con il rischio magari di fallire miseramente, ma nutrendo sempre l’ambizione di realizzare disco dopo disco – e concerto dopo concerto – qualcosa che aneli all’originalità differenziandosi da quanto fatto in passato: di base non è mai stato fermo a cullarsi sugli allori, ma ha sempre teso a sconcertare il proprio pubblico. Bowie, inoltre, può vantare un catalogo discografico che ha dell’unico sia per varietà sia per qualità. Originario di Bromley, vicino Londra, dove è nato nel 1947, David Robert Jones all’età di quindici anni subisce un infortunio all’occhio sinistro, la cui pupilla rimarrà permanentemente dilatata, dando l’idea che il ragazzo abbia due iridi di colore diverso, ciò che in seguito gli conferirà un’inquietante aura quasi da alieno. Colpito da un’apparizione di Little Richard alla tv, David inizia ad appassionarsi alla musica: impara a suonare il sax e poi la chitarra; forma i primi gruppi e si immerge nella scena Mod della Londra dei primi anni Sessanta; pubblica come David Jones con i King Bees, i Manish Boys e i Lower Third alcuni singoli in stile rhythm’n’blues,
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tutti fallimentari. Nel 1966, con il nuovo nome d’arte David Bowie (scelto per non confondersi con il cantante dei Monkees, Davy Jones), realizza il primo 45 giri degno di nota, Can’t Help Thinking About Me, deludente anch’esso sul piano commerciale, ma capace di rivelare per la prima volta che il ragazzo ha una voce bella e particolare e sa come si scrive una canzone. Una prima sterzata avviene nella seconda metà del 1966. Messo sotto contratto dalla Decca/Deram, Bowie si lancia nel pop orchestrale, ispirato in vario modo da Syd Barrett, da Scott Walker, da Ray Davies e dal cantante/attore Anthony Newley, da cui copia i manierismi da crooner e il forte accento cockney. In questo periodo compone le prime canzoni di livello (su tutte, la ballata London Boys) e un album (DAVID BOWIE, 1967), ma il successo è lungi dall’arrivare. Contemporaneamente, diversifica le proprie attività: studia mimo con Lindsay Kemp, crea un laboratorio artistico e organizza festival all’aperto dove, ovviamente, suona anche lui. Da solo, con la chitarra. Perché nel frattempo Bowie, da mod che era, ha assunto l’aspetto di un hippie dai capelli lunghi e ricciuti e, influenzato da Bob Dylan, si è messo a comporre ballate dalle liriche simil-profetiche, quale ad esempio Cygnet Committee. Nell’estate del 1969 David Bowie rompe finalmente il muro dell’indifferenza: Space Oddity, una ballata pop orchestrale dal testo fantascientifico ispirato alla missione dell’Apollo 11, arriva nei quartieri alti delle classifiche inglesi in parallelo con lo sbarco sulla luna di Neil Armstrong e compagni. A fine anno esce un altro album intitolato per la seconda (e ultima) volta DAVID BOWIE, nel complesso più cantautorale rispetto al singolo. Ottiene però scarsi riscontri, a dispetto della presenza di alcune notevoli canzoni visionarie (Unwashed and Somewhat Slightly Dazed, Wildeyed Boy from Freecloud e la già citata Cygnet Committee) e del fatto che il disco sia prodotto da un certo Tony Visconti, un tipo americano che in futuro sarà associato a non poche pietre miliari del rock. Bowie continua a restare al palo, e cosa fa? Diversifica ancora. Insieme a Visconti, per l’occasione bassista, mette su un gruppo, The Hype. E incoraggiato dalla neomoglie, Angie, cambia look: ora compare in un abito che sembra da donna e si dà arie da androgino; an-
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zi, da gay, come butta lì tra il serio e il faceto in un’intervista shock rilasciata a «Melody Maker»: «I’m gay and I’ve always been, even when I was known as David Jones» («Sono gay e lo sono sempre stato, fin da quando ero conosciuto come David Jones»). Ma al di là di ciò racconta ai media, il nuovo disco che pubblica alla fine del 1970, THE MAN WHO SOLD THE WORLD, si rivela zeppo di grandi canzoni e particolarmente duro, grazie al contributo di una band in cui suonano oltre a Visconti (presto rimpiazzato dal bassista Trevor Bolder) un incredibile chitarrista di nome Mick Ronson e un batterista chiamato Woody Woodmansey: i futuri Spiders from Mars. Ma non è il momento di Bowie. Non ancora. Il pubblico continua a ignorarlo, ma la stampa più ricettiva comincia a scorgere in David Bowie un talento, fin da quando pubblica nel dicembre 1971 l’album HUNKY DORY, un’opera eccellente che prende l’abbrivio dalle passioni per Dylan (Song for Bob Dylan) e per i Velvet Underground (Queen Bitch) per andare a creare classici del glam quali Changes, Oh You Pretty Things e Life on Mars?, con liriche imperniate su quelli che saranno sempre i tipici temi “bowiani”: il decadente senso d’isolamento, l’alienazione fantascientifica e l’irrequietezza esistenziale che porta alla necessità di reinventarsi, unico modo affinché l’individuo possa plasmare il proprio destino. È un periodo di straordinaria creatività per Bowie, che trova il tempo per produrre due dei migliori album di Lou Reed e Iggy Pop; per regalare un inno generazionale, All the Young Dudes, ai Mott The Hoople; e, nel giugno 1972, per lanciare THE RISE AND FALL OF ZIGGY STARDUST & THE SPIDERS FROM MARS, ovvero uno dei più celebri e amati dischi pop di tutti i tempi. E qui Bowie, divenuto anche fisicamente Ziggy – capelli proto-punk tinti d’arancione, rossetto e trucco pesante, tuta spaziale e stivali con tacco da venti centimetri – fa il botto su tutti i piani possibili: apparizioni in tv, album e singoli ai primi posti delle classifiche inglesi, concerti sold out. Inizia la “ZiggyMania” che durerà un paio d’anni, con gli album ALADDIN SANE e PIN UPS, per concludersi con un leggendario concerto il 3 luglio 1973 all’Hammersmith Odeon di Londra in cui, prima del culmine finale con Rock and Roll Suicide, Bowie sorprende tutti – compresa la sua ignara band – annunciando: «Non solo è l’ultimo show del tour, ma è
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il nostro ultimo show in assoluto», che gli astanti interpretano come un clamoroso, totale ritiro dalle scene. In realtà Bowie rottama solo il periodo glam e il suo alter ego Ziggy con annessi Spiders from Mars, e rimescola le carte componendo le canzoni che faranno parte dell’opera ispirata al libro 1984 di George Orwell: DIAMOND DOGS, uscito nell’aprile 1974, è una rivisitazione sofisticata, jazzata e a tratti sperimentale della musica glam, un nuovo portento che documenta quanto Bowie sia maturato come cantante in grado di alternare calde tonalità da crooner a momenti in cui appare altezzoso e sibilante. Comunque sia, superbo. Le canzoni di DIAMOND DOGS (da Sweet Thing e We Are the Dead alla stonesiana title track e all’estremo saluto al glam di Rebel Rebel) sono gli affreschi impressionistici spruzzati di rock’n’roll che Bowie porta poi in tour negli Stati Uniti con una sequenza di concerti tra i più estrosi e scenografici che palcoscenico rock abbia mai visto fino a quel momento, e di cui resta un’imperdibile testimonianza sonora sull’album DAVID LIVE, registrato il 29 ottobre 1974 al Tower Theater di Filadelfia. Proprio a Filadelfia Bowie viene travolto da una nuova passione, il funk, che in seguito sfocerà nella febbre per la disco. E di lì a poco disorienta tutti ancora una volta realizzando – grazie anche al basilare apporto del chitarrista ritmico Carlos Alomar – YOUNG AMERICANS, raccolta di canzoni dalla base funk filtrate da una sensibilità bianca. Anzi, più che bianca: inglese. Tra una pietra miliare e l’altra, Bowie continua nel processo di diversificazione e se ne va nel deserto del New Mexico a interpretare il ruolo del protagonista in L’uomo che cadde sulla Terra, il film di fantascienza diretto da Nicolas Roeg che racconta le vicissitudini di un alieno inviato da noi con la missione di salvare il proprio pianeta, ma che alla fine resta sulla Terra, corrotto come e più di quanto non lo siano gli umani che incontra. È un ruolo fatto su misura per Bowie, la cui ultima trasformazione – magrissimo, dai capelli bicolori, in giacca e cravatta e con un cappello anni Trenta calato in testa – contribuisce in modo determinante al mito della star eccentrica, innaturale e venuta chissà da dove. È proprio un’immagine tratta dal film a rappresentare Bowie nella copertina del disco successivo, STATION TO STATION, in cui oltre all’amato funk si fa strada, in parti-
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colare nell’epica cavalcata brano eponimo, la nostalgia dell’espatriato per il Vecchio Continente e un’inedita passione per il krautrock di due gruppi chiamati Neu! e Kraftwerk. Il dado è tratto. Bowie torna in Europa, dapprima in Svizzera dove possiede una casa e dove cresce da ragazzo padre il figlio Zowie (in seguito Joe, ma oggidì si fa chiamare Duncan) avuto dalla divorziata Angie, poi a Berlino Ovest dove, stimolato dalle opprimenti atmosfere di quella città divisa in due e dalla creatività di Brian Eno e del produttore Tony Visconti, dà vita tra il 1977 e il 1979 a LOW, “HEROES” e LODGER, che passeranno alla storia come la “Trilogia berlinese”, anche se in realtà LOW è inciso in Francia e LODGER in Svizzera e a New York. Dà così vita a una seconda rivoluzione – dopo quella del punk che sta mettendo a soqquadro il Regno Unito – in cui il pop inglese viene fuso con il krautrock e l’elettronica (e con il funk), e per di più con un’intera facciata di LOW dominata da inquietanti strumentali di matrice ambient: tre opere, con l’aggiunta del bel documento sonoro della tournée del 1978, STAGE, che avranno profonde e incalcolabili ripercussioni per tantissimi anni a venire, in primo luogo su tutta quella scena chiamata new wave o post-punk ma la cui definizione migliore resta forse quella di art-rock. E il mito di Bowie, il musicista un passo avanti a tutti che non sbaglia un colpo, cresce di anno in anno. In Inghilterra artisti in vario modo seminali come Joy Division, Gary Numan, Japan e tutta la scena del nascente techno-pop “new romantic” (generata con le Bowie Nights di alcuni club di Londra) gli rendono omaggio ed esplicitano la sua immensa influenza. Il suo status di semidio della musica è definitivamente certificato con l’uscita nel 1980 dell’album SCARY MONSTERS, ennesimo capolavoro di rock elettronico stratificato e trasversale, e del singolo Ashes to Ashes, che oltre a diventare una delle pop song fondamentali del decennio si presenta accompagnato da un video-clip in cui Bowie chiude il cerchio impersonando un suo vecchio personaggio, il Major Tom del primo successo Space Oddity, abbandonato in una capsula spaziale orbitante attorno alla Luna. Nei primi anni Ottanta Bowie è come il prezzemolo: è a teatro, a Broadway, a recitare The Elephant Man; al cinema, in Miriam si sveglia a mezzanotte di Tony Scott, in Furyo di Nagisa Oshima e in
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un’indimenticabile apparizione live in Christiane F. – Noi, i ragazzi dello Zoo di Berlino, di cui le sue canzoni “berlinesi” costituiscono la naturale colonna sonora; ed è anche nelle classifiche, con il singolo più mainstream che abbia fino ad allora realizzato, Under Pressure, in coppia con i Queen di Freddie Mercury, numero uno in vari paesi nell’inverno del 1981. Arriva un altro album ed è un nuovo trionfo, stavolta soprattutto di vendite: con LET’S DANCE (1983) prodotto da Nile Rodgers degli Chic, Bowie rinverdisce e aggiorna la sua passione per la musica black, sfornando alcune delle canzoni più ballate dell’epoca. Senza contare che il Serious Moonlight Tour, con cui promuove l’album, è un successone che fa registrare stadi esauriti in tutto il mondo. Per la prima volta Bowie, da artista quasi di culto, diventa una superstar di livello internazionale. Il disco successivo è un anticlimax. TONIGHT – pubblicato nel settembre 1984 – mostra Bowie per una volta a corto di ispirazione. Tante, troppe, le cover. L’unica canzone di livello è Loving the Alien, un monumentale brano di pop orchestrale che da solo vale tutto l’album. Durante ciò che resta degli anni Ottanta, Bowie si gode la sua posizione di megastar: partecipa a Live Aid (13 luglio 1985) con una delle migliori performance della giornata e con un video in cui insieme a Mick Jagger canta il vecchio hit della Motown Dancing in the Street, fa uscire un paio di brillanti singoli (Absolute Beginners e This Is Not America) e compare in due film non indimenticabili (Absolute Beginners e Labyrinth). Finalmente, nel 1987 pubblica un nuovo album, NEVER LET ME DOWN, ma è un lavoro sovraprodotto, caotico, senza una qualsivoglia direzione e, soprattutto, senza l’ombra di alcun brano memorabile. La notizia vera è che Bowie tornerà in tournée e che stavolta porterà in giro uno spettacolo teatrale dal titolo The Glass Spider, come uno dei brani del disco. A questo punto Bowie ha quarant’anni. Ha dato quello che doveva dare, ha indicato la via per un decennio e più. Ora l’ambizione è dar vita a una versione col turbo del già teatralissimo Diamond Dogs con tanto di scenografia monstre e di un nutrito corpo di ballo. Un esperimento temerario e un po’ folle che stavolta, grazie alle nuove tecnologie, sarà possibile portare in tutti i Continenti.
STAB ME IN THE DARK
La stampa inglese paragona il Glass Spider Tour al film This Is Spinal Tap – parodia di un pretenzioso gruppo rock – mettendo alla berlina l’idea del colossale ragno di cartapesta da cui Bowie viene calato all’inizio di ogni concerto e bocciando le coreografie pacchiane. E poi: troppi balletti inutili, troppi dialoghi incomprensibili tra il cantante e i ballerini, e in più la musica – quando non è in secondo piano – non raggiunge mai il livello del passato, anche perché al raffinato Adrian Belew e al solido Earl Slick (chitarre soliste nei due tour precedenti) è stato preferito per l’occasione Peter Frampton, una vecchia gloria del pop nonché amico d’infanzia di Bowie ma di certo non un asso della sei corde. E tuttavia sarà anche l’ultima occasione in cui si vedrà Bowie nel pieno delle energie e della voglia di affermare la sua concezione della musica e dell’arte. Il Glass Spider Tour si conclude il 28 novembre 1987 allo stadio Western Springs di Auckland, in Nuova Zelanda, con l’unica certezza che, se di fallimento si è trattato, almeno è stato un tonfo alla Bowie: eccessivo, spettacolare, fragoroso, senza mezzi termini, comunque diverso da tutti i contemporanei. Per un po’ Bowie decide di darsi alla macchia. E quando – quasi due anni dopo – riemerge dal sabbatico, trova intorno a sé una scena musicale sensibilmente mutata. I bostoniani Pixies e il loro stile “quiet/loud”, che ispirerà i Nirvana e parte del movimento grunge, sono la sua nuova grande passione, e su queste basi decide di buttare a mare il passato e di assemblare una band in cui vuol essere democraticamente considerato solo uno dei membri. Nascono i Tin Machine, con Bowie alla voce e chitarra ritmica, Reeves Gabrels alla chitarra solista e gli esperti fratelli Tony e Hunt Sales (già collaboratori di Iggy Pop) rispettivamente a basso e batteria. Quando nel maggio del 1989 esce il primo disco del gruppo, qualcuno apprezza l’ennesima virata spiazzante, ma in larga maggioranza critica e pubblico restano sconcertati dalla virulenza di un album punkeggiante e a tratti anche heavy in cui il talento compositivo di Bowie risulta soffocato da inutili quanto forzate distorsioni chitarristiche. Non convince poi l’inedita visione di Bowie rockettaro con barba incolta e chitarra spianata. Molti suoi fan vivono i Tin Machine come un vero e proprio tradimento.
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Nel 1990 Bowie accantona temporaneamente la band per fare un nuovo giro mondiale da solista con il Sound + Vision Tour in cui – annuncia – eseguirà per l’ultima volta le più celebri canzoni del suo repertorio. In teoria dovrebbe essere qualcosa di stupefacente, ma la realtà non fa che confermare come la magia di un tempo si sia dissolta. I concerti del Sound + Vision Tour, nonostante un repertorio impressionante e un capobanda del livello e del talento di Adrian Belew, risultano freddi e meccanici. Ma di soldi ne fanno a palate, con sold out che si susseguono uno dopo l’altro, paese dopo paese. E così Bowie può tornare alla sua occupazione principale, gli sciagurati Tin Machine, con cui incide un secondo album (II, 1991), se possibile più pesante e anonimo del primo, e un dimenticabile live (OY VEY BABY, 1992). Sono gli anni del grunge, del crossover e della musica alternative, e Bowie, ormai privo di quell’alone di invincibilità che lo aveva a lungo accompagnato, appare come una figura dal fulgido passato ma dall’incerto presente; una di quelle anziane star coccolate dai mass media più per le vicende personali – il matrimonio con la ex modella Iman Abdulmajid a Firenze nel 1993, il lancio dei cosiddetti “Bowie-bonds” per autofinanziarsi, la nascita della figlia Alexandria nel 2000, le foto scattate con la carrozzina al Central Park di New York dove ora risiede e ha il proprio centro d’interessi – che per le recenti imprese in campo musicale. Eppure continua a provarci, indefesso. Scarica finalmente i Tin Machine e si rivolge ai produttori dei suoi giorni di gloria. Il primo a essere contattato è Nile Rodgers, con cui collabora facendo uscire nell’aprile 1993 BLACK TIE WHITE NOISE, ispirato dal matrimonio con Iman. È un album dal sound superbo e modernissimo, black con tinteggiature jazzate, ma documenta un qualche impaccio compositivo dell’autore, sottolineato dall’eccessivo numero di cover presenti. Forse le canzoni migliori Bowie le riserva alla colonna sonora del film The Buddha of Suburbia, tratto dall’omonimo libro di Hanif Kureishi, che esce a fine anno passando un po’ sotto silenzio ma denotando un ritorno alla sperimentazione d’antan: “The great lost Bowie album”, lo chiamerà in seguito una parte della critica, con un pizzico di esagerazione.
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Quando l’anno seguente si diffonde la voce che Bowie è tornato a collaborare con Brian Eno, le aspettative sono enormi; tuttavia, il prodotto finale del rinnovato connubio, il concept OUTSIDE.1 (settembre 1995) in cui Bowie torna a cimentarsi con l’elettronica e con sonorità dal taglio industrial, appare come un forzato tentativo di restare rilevante e farsi amare (anche) dalle nuove generazioni. L’album successivo – EARTHLING, uscito nel febbraio 1997 – vede Bowie alle prese con il drum’n’bass e con la techno, oltre che con un registro alternative a lui poco consono. L’impressione è che l’artista abbia definitivamente smesso i panni dell’innovatore e si limiti a seguire la scia. Quanto di meno bowiano si possa fare al mondo. Sono anni in cui Bowie appare in difficoltà per aver dilapidato l’immensa reputazione acquisita come padrino prima del glam negli anni Settanta e poi di tutta la variegata scena post-punk negli Ottanta. Nell’ottobre 1999 esce ‘HOURS…’, ventitreesimo album di studio di un Bowie cinquantaduenne che per la prima volta, sia nei testi sia nella musica, pare prendere atto del tempo che scivola via. Smessi i panni di guru alternativo, confeziona un album composto da belle canzoni di stampo cantautorale quali Thursday’s Child e If I’m Dreaming My Life, non dissimili per atmosfera a quelle dell’epoca di HUNKY DORY. Eppure, non è ancora un disco convincente: penalizzato sul piano sonico dall’incerta autoproduzione, per lunghi tratti dà l’impressione di un Bowie convalescente dopo una lunga malattia diagnosticabile come “giovanilismo in forma acuta”. Nonostante le bastonate della critica, in questo periodo Bowie continua ostinatamente a cercare una sua nuova strada. E, quasi per caso, la trova. Tutto nasce da un progetto intitolato TOY per il quale Bowie inizia a incidere nuove versioni di propri brani poco noti quali Conversation Piece e London Boys con il concorso del suo antico produttore Tony Visconti. Il progetto abortisce, ma la collaborazione con Visconti nel frattempo prosegue e, dopo alcune ispirate session nella località montana di Shokan, nello stato di New York, dà luogo all’uscita nel giugno 2002 di un nuovo album: HEATHEN.
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E HEATHEN si rivela il colpo di coda atteso da tempo. È un’opera profondamente bowiana, ma di un Bowie adulto, maturo, che torna a comporre canzoni in linea con la propria età anagrafica ma nel contempo non dimentico – grazie anche a un Visconti che nell’occasione supera se stesso – di quella ricerca sonora che è sempre stata il suo tratto caratteristico. HEATHEN è anche un disco in cui, inopinatamente, Bowie si mette a riflettere seriamente sulla morte. «Ho voluto rendere in qualche modo il senso di quello che accade a un uomo quando arriva a questa età», ha dichiarato. “Hai ancora dubbi, hai ancora domande e paure, e le cose risplendono della stessa luce di quando eri giovane?». Heathen (The Rays) in particolare parla «della consapevolezza di stare per morire. È una canzone alla vita, nella quale io parlo alla vita come a un’amica o un’amante». Per sfruttare il momento, Bowie incide rapidamente un nuovo album da poter portare in tour. Ancora con Tony Visconti, ancora nella Grande Mela, in vista di una seconda trilogia, stavolta “newyorkese”. REALITY vede la luce nel settembre 2003, ma la magia di HEATHEN sembra essere già evaporata. È un disco banale e di routine; è poco ispirato sul piano compositivo; è sovraprodotto quasi quanto NEVER LET ME DOWN. E per i ringalluzziti fanatici bowiani REALITY segna l’ennesima delusione. L’unica perla del disco è Bring Me the Disco King, un’ulteriore riflessione sulla mortalità di un uomo che sente approssimarsi il momento della fine, la cui unica richiesta è che tutto avvenga più in fretta possibile. Don’t let me know when you’re opening the door Close me in the dark, let me disappear Soon there’ll be nothing left of me Nothing left to release Non farmi sapere quando aprirai la porta Chiudimi al buio, fammi scomparire Presto non rimarrà più niente di me Non rimarrà niente da far uscire
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Contemplare l’idea della propria morte a cinquantasei anni sembra un esercizio morboso e decisamente prematuro. I drammatici avvenimenti successivi dimostreranno invece che Bring Me the Disco King – e le canzoni più cupe di HEATHEN – contengono un fondo di preveggenza.
a reality tour Bowie vive, professionalmente, un buon momento; è vero, REALITY non è stato accolto molto bene, ma il Reality Tour sta andando a meraviglia. Varato il 7 ottobre 2003 a Copenaghen, sta attraversando via via tutta l’Europa – il 23 ottobre passa anche per Milano – prima di trasferirsi in America, Asia e Oceania per poi tornare con il nuovo anno nel Vecchio Continente per qualche data ai grandi festival estivi. Quelle di Dublino sono rispettivamente la ventisettesima e ventottesima data di una serie di show che a questo punto appaiono rodati nei minimi particolari. E anche sul piano personale sembra un periodo d’oro. Dopo avere stabilizzato la sua situazione sentimentale unendosi in matrimonio con Iman, il 15 agosto 2000 Bowie è diventato padre per la seconda volta, di Alexandria (“Lexi”) Zahra Jones. Non si vede come qualcosa potrebbe andare storto. O invece potrebbe? Un primo presagio nefasto c’era stato il 10 novembre, quando complicazioni con la voce avevano costretto Bowie a tagliare corto il concerto di Nizza, dopo aver suonato due terzi dei pezzi in scaletta. Si trattava solo di una banale laringite, che però lo aveva obbligato a cancellare la data di due giorni a dopo a Tolosa: la prima cancellazione di un concerto in tutta la sua carriera (se si esclude l’annullamento di un’esibizione per il clan di fan internettiani BowieNet nel giugno del 2000). In seguito tutto fila liscio, ma solo fino all’inizio di dicembre, quando Bowie si ammala di una fortissima influenza che lo costringe a cancellare le prime cinque date del tour nordamericano (poi riprogrammate per il nuovo anno) che prende quindi il via, in ritardo, da Montreal il 13 dicembre. In totale, fino al 7 febbraio 2014, Bowie tie-
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ne 22 concerti tra USA e Canada; quindi, tra il 14 febbraio e il 1° marzo, il Reality Tour si trasferisce in Australia e Nuova Zelanda per ulteriori 8 date, e di seguito in Asia, per 5 concerti distribuiti tra Singapore, Hong Kong e Giappone. Ma un primo episodio drammatico ha luogo il 6 maggio, nel mezzo della seconda porzione nordamericana del tour. Al James L. Knight Center di Miami, durante una pausa tra l’esibizione dei supporter Stereophonics e quella di Bowie, un tecnico delle luci, Walter “Wally” Thomas, cade dalle altissime impalcature sfracellandosi al suolo di fronte al pubblico esterrefatto. Naturalmente il concerto sarà annullato e Bowie, presumibilmente scosso, non recupererà mai più la data di Miami. È ignoto dove Bowie trascorra l’8 gennaio 2004, giorno del suo cinquantasettesimo compleanno. Si sa però che nel corso della giornata ha uno scambio via e-mail con il comico inglese Ricky Gervais. Da qualche tempo Bowie è diventato un fan sfegatato di The Office, serie tv cult della Bbc di e con Ricky Gervais, una geniale via di mezzo tra un reality show e una situation comedy. «Ho fatto apprezzare quella serie a un sacco di americani» dichiarò Bowie nel 2003. «Non l’hanno capita immediatamente, sapete? Non sanno se quello debba essere considerato un reality o qualcos’altro, ma poi si sono decisi a seguire un episodio, e adesso tutti i componenti della band lo adorano». Ricky Gervais è a sua volta un grande fan di Bowie. Prima di sfondare come attore brillante, negli anni Ottanta aveva fatto parte del synth-duo di chiara ispirazione bowiana Seona Dancing, autore di due singoli di scarso successo (fatta eccezione per More To Lose, che fu un hit nelle Filippine). I due si erano incontrati per la prima volta il 18 settembre 2002 a una serata a inviti della Bbc in cui Bowie presentava le canzoni di HEATHEN. «Lui non sapeva chi fossi», ha ricordato Gervais. «Poi però, un paio di settimane più tardi, mi è arrivata una [sua] e-mail. Diceva “Ho appena guardato The Office”. E io mi sono messo a ridere: “Ehi, adesso come mi comporto?”. Insomma, siamo diventati una specie di “amici di penna”». Ed è così che la mattina dell’8 gennaio Ricky Gervais manda a Bowie un messaggio che recita: «57??? Non è arrivato il momento che ti trovi un lavoro vero? Firmato: Ricky Gervais, 42 anni, attore». Pas-
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sano solo pochi minuti prima che gli si visualizzi sullo schermo del pc la risposta: «Ce l’ho un lavoro vero. Firmato: David Bowie, 57 anni, Dio del Rock». In totale, con la seconda leg in America e Canada, si tengono ulteriori 39 concerti. A questo punto è già il più lungo tour in assoluto di tutta la sua carriera, ma Bowie vuole ugualmente estenderlo per una serie di apparizioni a vari festival “open air” europei, 22 in tutto, schedulati tra l’11 giugno e il 23 luglio. Per soldi? Perché gli sta frullando in testa di imbarcarsi anche lui in una sorta di Neverending Tour come il suo storico mentore Bob Dylan? O magari perché la band sta suonando che è un piacere e lo stesso Bowie si sta divertendo? Stride, però, quest’ultima ipotesi con quanto riferito dal promoter Harvey Goldsmith, che l’ha incontrato per mezz’ora prima del concerto di Anaheim: secondo Goldsmith Bowie ha passato tutto il tempo a lamentarsi, dicendogli che il tour era troppo lungo e che doveva sempre avere a che fare con dei “burocrati”. A Oslo, il 18 giugno 2004, si verifica un altro episodio inquietante. Mentre sta cantando il terzo brano in scaletta, Bowie viene colpito in un occhio da un leccalecca lanciato da un membro del pubblico. Smette immediatamente di cantare per il dolore e si mette ad apostrofare infuriato il “verme”, il “bastardo” autore del lancio. Gli ci vogliono un paio di minuti prima di riprendere il controllo trovando anche la forza di scherzare («È stata una fortuna che tu abbia colpito quello che funziona male»), per poi riprendere a cantare. Qualcosa di assai più grave si verifica cinque giorni più tardi alla TMobile Arena di Praga quando, dopo solo nove canzoni, Bowie è costretto ad abbandonare la scena per ricevere soccorso. Ecco come ha ricordato l’episodio Gail Ann Dorsey: «Ricordo che stavamo suonando Reality. Lui doveva continuare a cantare fino alla fine della canzone, ma non lo stava facendo. Io ero più o meno dietro di lui e lo guardavo. Tutti noi eravamo molto sudati perché faceva un gran caldo, ma la sua maglietta era proprio inzuppata. Era sudatissimo e teneva in mano il microfono, ritto con la mano sinistra. E stava lì in piedi, come paralizzato, senza cantare. E io pensavo: “Ma perché non canta quell’ultimo pezzettino?”. Poi si è voltato verso di me ed era bianco, pallido, quasi traslucido. Aveva gli occhi spalancati e sembrava che gli
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mancasse l’aria, che facesse fatica a respirare. E poi ricordo che ho guardato verso il pubblico, e ho potuto vedere che le espressioni delle prime file, che guardavano in alto verso di lui, erano cambiate. Erano passate dalla gioia alla preoccupazione. A quel punto, la guardia del corpo ha visto la stessa cosa. È corso sul palco e l’ha trascinato via». Questo invece il ricordo di Gerry Leonard: «Si stava sentendo davvero male. Ed è successo proprio lì sul palco: that’s showbiz». Mentre Bowie riceve assistenza, la band continua a suonare: A New Career in A New Town in versione strumentale e Be My Wife con Catherine Russell alla voce. A questo punto Bowie ritorna, visibilmente dolorante. Gli viene dato uno sgabello, si siede, e lo spettacolo riprende da China Girl. Quindi Modern Love e, come da scaletta, Station to Station che però deve essere interrotta. Dopo un break di dieci minuti, Bowie e la band fanno ritorno in scena, ricominciano e stavolta concludono Station to Station; poi suonano The Man Who Sold the World con Bowie che canta le strofe a fatica. Sta evidentemente soffrendo le pene dell’inferno, perché lo spettacolo viene definitivamente interrotto dopo le prime note di Changes. Entra in scena uno degli organizzatori cechi e spiega al pubblico che la star inglese per ragioni di salute non è in grado di concludere la performance, scusandosi per l’imprevisto. Cos’è successo? Nulla di grave, asserisce il giorno dopo l’organo ufficiale di David Bowie, il sito web BowieNet in un post dal titolo “La scorsa notte a Praga”: «Come avrete letto da diverse parti, o visto di prima mano, David Bowie ha terminato il suo concerto a Praga della scorsa sera leggermente prima del previsto. Ciò è stato dovuto allo schiacciamento di un nervo all’altezza della spalla. […] Il Reality Tour proseguirà venerdì all’Hurricane Festival a Scheeßel in Germania come precedentemente programmato». Mike Garson ha raccontato a Dylan Jones per il suo libro biografico Bowie – A Life: «Quello che è successo è che era stanco. Aveva smesso di fumare nel 1999, e meno male che l’ha fatto, perché [prima] stava sempre a fumare. Eravamo sul bus nel 2002 o 2003, ed era molto incavolato perché il dottore gli aveva dato queste pillole per il colesterolo. [Ora] aveva un trainer e si teneva in forma. Aveva uno chef». Dopo il concerto di Praga, ha riferito Garson, «[Bowie] mi ha detto
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di aver visto il dottore del Presidente della Cecoslovacchia, che gli ha detto che si era trattato di uno spasmo muscolare». Errata diagnosi? Sottovalutazione? Brama di ottemperare sempre e comunque al celebre detto “lo spettacolo deve continuare”? O pura e semplice incoscienza? Perché la reazione al fatto di Praga, sia da parte di Bowie stesso che del suo staff, ha dell’incredibile, non solo in retrospettiva – conoscendo cosa accadrà di lì a due giorni di distanza – ma in assoluto. Stiamo infatti parlando di un cinquantasettenne che fin qui ha condotto una vita niente affatto sana, con una tossicodipendenza da cocaina che l’ha accompagnato durante la fase centrale degli anni Settanta e da cui non si è mai completamente liberato, almeno fino alla fine degli anni Ottanta (ma, presumibilmente, anche oltre). Un cinquantasettenne che, inoltre, è in tour ormai da dieci mesi e che quasi ogni sera viene sottoposto a fortissimi stress fisici e mentali durante spettacoli che durano in media oltre due ore. Il dubbio, peraltro, è che non fosse nemmeno la prima volta di Bowie con problemi di questo tipo. Reeves Gabrels ha infatti confidato al biografo Marc Spitz: «Era da anni che sapevo che aveva dei dolori al petto, ma lui mi ha fatto giurare che sarebbe rimasto un segreto, e io l’avrei dovuto dire a Iman». E così, dopo un solo giorno di break, Bowie e la sua band sono di nuovo in scena, il 25 giugno all’Hurricane Festival di Scheeßel, nel nord della Germania, al termine di una lunga giornata che ha già visto esibirsi sul main stage Echo & The Bunnymen, Life Of Agony, Pixies e Placebo. In apparenza stavolta lo show va avanti regolarmente: in tutto vengono suonati 21 pezzi (meno del solito, ma si tratta di un festival) comprensivi dei bis dell’era glam Life on Mars?, Suffragette City e Ziggy Stardust, e Bowie, pur non al massimo della forma, non dà segno di sentirsi a disagio. Questo, perlomeno, è ciò a cui assiste il pubblico. Ma nel retropalco, alla fine del concerto, si sfiora il dramma. Ha ricordato ancora Gail Ann Dorsey: «Ricordo che stavo scendendo le scalette dietro di lui dopo che abbiamo terminato. Quando è arrivato in fondo, è proprio crollato a terra. Era così stanco e così malato». Il pubblico e la stampa sono tenuti del tutto all’oscuro di quanto accaduto. L’apparizione il giorno successivo al Southside Festival vie-
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ne cancellata “per ordine dei dottori” con la solita storia del “problema alla spalla”. Il 27 giugno, un nuovo comunicato annuncia, per il medesimo motivo, la cancellazione delle due date del 29 giugno a Vienna e del 30 a Salisburgo. E il 29 giugno un ulteriore comunicato informa che Bowie non suonerà nemmeno a Roskilde il 2 luglio. In quei giorni perfino i membri della band sanno poco, ospiti di un hotel di Amburgo in fervida attesa che il tour riprenda. Ma poi, il 30 giugno, BowieNet rilascia un comunicato tranchant: A causa del dolore continuo e del disagio estremo causato da un nervo schiacciato nella sua spalla e per evitare possibili ulteriori danni, i medici hanno consigliato a David Bowie di annullare le sue undici rimanenti date europee di luglio. A causa della natura imprevedibile della condizione e nel tentativo di dare ai fan il massimo preavviso (oltre che per aiutare i promotori a trovare un headliner sostitutivo in tempo per le date del festival), David seppur riluttante ha accettato il consiglio. David, e tutti coloro che hanno partecipato al tour, sono molto dispiaciuti per le difficoltà che questa decisione potrebbe aver causato. Ci rendiamo conto che molti di voi avranno perso i soldi sui biglietti non rimborsabili di viaggio e del festival. Ma chiunque conosca David capirà che lui non prende queste decisioni con leggerezza e siamo certi che tutti vi rendiate conto di quanto possa farlo star male il fatto di non essere in grado di completare il tour.
E quindi, fine prematura del tour, con cancellazione in blocco delle restanti 15 date. Con un totale di 112 date, il Reality Tour resterà comunque la più lunga serie di concerti di tutta la carriera di Bowie, oltre che la più proficua dal punto di vista degli incassi: circa 46 milioni di dollari. Ma intanto, che fine ha fatto David Bowie? Sta bene, sta male, si sta rimettendo in sesto? La verità spunta fuori solo l’8 luglio, dopo che sono passate ormai due settimane da Scheeßel. Stavolta è l’addetto stampa di Bowie, Mitch Schneider, a rilasciare un comunicato in cui si rivela che il suo cliente «si è sottoposto a un intervento chirurgico al cuore il mese scor-
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so, ma ora è uscito dall’ospedale e sta affrontando la convalescenza a casa sua con la famiglia». Più nello specifico, «David si è sottoposto a un intervento di angioplastica d’urgenza a causa di un’arteria bloccata in un ospedale in Germania». Quindi quelle fitte di dolore tra il petto e la spalla, inizialmente attribuite allo schiacciamento di un nervo, erano in realtà il sintomo dell’inizio di un infarto: Bowie ha rischiato di morire e se l’è cavata per il rotto della cuffia. Via via, nei giorni successivi, iniziano a trapelare maggiori dettagli. Gail Ann Dorsey rivela che subito dopo il concerto all’Hurricane Festival (e il conseguente “collasso”), Bowie era stato portato d’urgenza in ospedale (qualcun altro specifica: in elicottero). L’ospedale in questione era il St Georg Hospital di Amburgo, dove la star inglese era stata operata d’urgenza il giorno dopo, ossia il 26 giugno. Oggi l’angioplastica è un intervento considerato quasi di routine. Della durata di circa un’ora, viene eseguito con il paziente cosciente in seguito a infarto, o comunque a occlusione totale o parziale di un vaso sanguigno. Consiste nella dilatazione delle arterie che portano il sangue al cuore, e generalmente prevede poi l’inserimento di uno stent nel tratto di coronaria dilatata dall’angioplastica. Di solito i tempi di guarigione sono brevi, con una degenza tra le 24 e le 48 ore, ma Bowie era rimasto in ospedale per quasi due settimane. Segno forse che la sua situazione clinica era più complicata della media? A ogni modo il comunicato rivelatore della vera natura del malanno viene diffuso solo quando Bowie è già tornato a New York, al sicuro con la famiglia nel suo appartamento di SoHo. Il giorno dopo, il 9 luglio, filtra anche una sua dichiarazione diretta: «Sono davvero imbufalito, perché gli ultimi dieci mesi di questo tour erano stati così fottutamente fantastici. Non vedo l’ora di tornare pienamente in forma per rimettermi di nuovo al lavoro. Però una cosa posso dirvela: una canzone su questa storia non la scriverò».
1 here i am, not quite dying (2004-2007)
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manhattan La portata di ciò che è avvenuto a Scheeßel è enorme, ma inizialmente sembra che non sia cambiato granché. Bowie ricompare in pubblico il 27 luglio del 2004 – solo un mese dopo quell’affannosa corsa in ospedale – fotografato mentre sta facendo una passeggiata, da solo, nel quartiere di Chinatown, dove viene visto entrare in un negozio di cibi naturali in cui fa provvista, come riportato dai giornali, “di tè e di antiche medicine cinesi”. È vestito molto casual, con T-shirt, jeans, sneakers e un cappello da cowboy. Ha la barba di un paio di giorni, ma a parte questo dettaglio appare rimesso in sesto, e si ferma a chiacchierare educatamente con i passanti che lo riconoscono, si felicitano con lui e gli augurano un pronto recupero. Uno di questi, citato dall’«Evening Standard», dichiara: «David ha un aspetto fantastico. Si è messo a chiacchierare e a stringere le mani di tutti. La gente era sinceramente sorpresa ed emozionata. Non avresti creduto, guardandolo, che ha subito un intervento chirurgico al cuore solo un mese fa». Vista dall’esterno sembra una paparazzata casuale, ma così non è: tutto è stato orchestrato a tavolino, come ha raccontato il fotografo Kevin Mazur a Dylan Jones nella biografia David Bowie – A Life: «Dopo che ha avuto i suoi infarti ovviamente è stato in convalescenza, ma dopo un po’ ha iniziato a voler uscire di nuovo. Ma non voleva che i fotografi ne facessero un affare di stato, ritraendolo per strada. Così,
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quando è stato pronto, mi ha chiamato e mi ha chiesto di fargli qualche scatto mentre era in giro, quindi gli ho fatto tutte queste foto mentre stava facendo shopping a Chinatown e questo ha levato un po’ dell’attenzione che aveva addosso. Le foto sono comparse dappertutto, ha funzionato, e da quella volta nessuno gli ha più rotto le scatole. Gli piaceva la città per la stessa ragione per cui piaceva a John Lennon: ci si poteva confondere alla perfezione. Era una persona molto riservata». L’impressione che Bowie possa ripartire anche prima del previsto è confermata dall’annuncio, diffuso un paio di giorni dopo, che il 20 settembre la Sony pubblicherà un Dvd dal vivo tratto dalle due date di Dublino del 22 e 23 novembre 2003, dal titolo A Reality Tour. Man mano, però, si capisce che qualcosa è effettivamente cambiato. A partire da quel luglio 2004 Bowie dimostra poca voglia di allontanarsi da New York, o meglio da Manhattan, con una ritrosia che ricorda quella di Woody Allen in molti suoi film. Anzi, non si muove molto neanche da SoHo, il quartiere in cui risiede fin dal 1999, quando acquistò (per una cifra stimata intorno ai quattro milioni di dollari) le due penthouse da 5.300 metri quadri dell’imponente palazzo di dieci piani a Lafayette Street 285 – tra la Houston e la Prince Street – in cui abita assieme alla moglie e alla figlia di quattro anni. Quando i fotografi lo paparazzano – e in questi primi tempi post-convalescenza accade spesso – è da quelle parti che lo scovano, in genere da solo mentre sta facendo una passeggiata (presumibilmente, sotto consiglio dei medici, ha bisogno di camminare molto), ma qualche volta anche quando va a prendere la piccola Lexi a scuola, in compagnia di Iman o dell’amica e confidente Coco Schwab, come un genitore qualsiasi. Un vicino di casa, il giornalista Michael Wolff, ha raccontato a Dylan Jones: «Lo conoscevo nel contesto delle scuole di New York. Cioè, non come David Bowie o comunque non tanto come una celebrità, ma come un genitore. Come qualcuno che si faceva in quattro per il proprio ragazzino. In questo senso, non era diverso dai banchieri, ristoratori, scrittori, Ceo e altri tipi di genitori delle scuole private di Manhattan. Una volta mi sono seduto vicino a lui durante una produzione scolastica di… non mi ricordo di cosa. Ma mio figlio aveva il ruolo del protagonista e Bowie gli ha fatto un sacco di complimenti e sembrava molto eccitato di essere seduto accanto al padre
1. HERE I AM, NOT QUITE DYING (2004-2007)
della star. Anche Iman e Bowie insieme, per quanto fossero folgoranti, in quel contesto tuttavia sembravano dei normali genitori più che delle icone. Erano dei nostri». Da New York i Bowie si spostano solo per andare a passare qualche giorno nella tenuta di venti ettari che il capofamiglia ha comprato nel 2002 a Shokan, nell’Upper State di New York, in mezzo ai monti Catskill a centocinquanta chilometri dalla città, dopo essere rimasto abbagliato dallo straordinario panorama del luogo durante le registrazioni di HEATHEN agli studi Allaire (nelle vicinanze, sulla cima del monte Tonche). A Shokan Bowie tiene in garage anche una propria macchina, una Mustang decappottabile, che utilizza per fare la spola tra la sua villa e i paesi dei dintorni. Tuttavia, il grosso del suo tempo, negli undici anni e mezzo post-Scheeßel, Bowie lo passa nei dintorni di SoHo. Tanto più che praticamente davanti a casa, al numero 270 di Lafayette Street, ci sono gli uffici della Isolar Enterprises, la società che ha fondato negli anni Ottanta, che visita spesso. In quelle stanze operano – oltre alla potentissima Coco Schwab, amica ultradecennale, manager e consulente fidatissima – la sua assistente personale Eileen D’Arcy e, da qualche tempo, Sandra (“Sandy”) Hershkowitz, incaricata di tenere in ordine il cosiddetto “Bowie Archive”, ovvero l’archivio di foto, abiti di scena e quant’altro accumulato dalla star nel corso della sua carriera. È alla Isolar che vengono messe in opera tutte le strategie bowiane relative alle attività creative e al patrimonio mobiliare e immobiliare, compresa la gestione dei diritti d’autore delle canzoni (svolta tramite un’altra società, la Jones/Tintoretto Entertainment Co.) e la realizzazione di nuovi dischi (su ISO, etichetta discografica personale di Bowie, creata nel 2002). Ma tutte queste strategie non esisterebbero senza quello che la stampa ha definito “Bowie’s Brain”: Bill Zysblat. Nato nel 1961, William “Bill” Zysblat è il Ceo della Rzo (Rascoff/Zysblat Organization) Entertainment, “società di intrattenimento” strettamente interconnessa con la Isolar. Ha conosciuto Bowie nel 1987 e insieme al suo socio Bill Rascoff lo ha aiutato a mettere in piedi l’ambizioso e dispendioso Glass Spider Tour. Da allora Zysblat è il business manager di David Bowie che, caso più unico che raro, non possiede un vero e proprio manager (Coco è più che altro una specie di suo avatar). Non
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c’è decisione che Bowie debba prendere in cui non si consulti con Zysblat. Fu lui, per dirne una, che nel 1997 lo mise in contatto con il banchiere David Pullman per mettere in atto l’innovativo e controverso schema dei “Bowie Bonds” mediante il quale vendette i diritti d’autore futuri provenienti dalla musica registrata prima del 1990 a un gruppo di investitori che poi emise un bond a dieci anni, facendogli ricavare una cifra pari a 55 milioni di dollari (e rendendolo, in un sol colpo, una delle rockstar più ricche al mondo). Anche gli uffici della Rzo si trovano a Manhattan, sulla 57esima nell’Upper West Side. Da Lafayette Street ci si arriva in appena dieci minuti: basta prendere un taxi.
IMAN ABDULMAJID IMAN ABDULMAJID
“La rockstar e la supermodella” è un usurato cliché, qualcosa di davvero poco bowiano. Ed è uno dei motivi per cui tanti (soprattutto tante) fan del Duca Bianco hanno, fin dall’inizio, guardato alla sua seconda moglie con sospetto, se non con antipatia. Tutta tesa a proiettare all’esterno la migliore immagine di sé, Iman non fa mai trasparire un briciolo di spontaneità e di umanità, rendendo impossibile sapere cosa davvero si celi dietro tutte quelle foto patinate. Nata a Mogadiscio nel 1955 in una famiglia di diplomatici, Iman trascorre l’infanzia in Egitto e, dopo qualche anno vissuto in Somalia, si rifugia in Kenya con il padre, la madre, i due fratelli e le due sorelle per via della guerra civile. A diciotto anni si sposa con un executive della catena Hilton ma, nel contempo, studia scienze politiche all’Università di Nairobi, ed è qui che viene notata dal fotografo inglese Peter Beard, che le propone di posare come modella. Quando vede che Iman è dubbiosa, dice che la pagherà. «Quanto?» chiede lei. «Quanto vuoi?» risponde Beard. «Ottomila dollari» gli propone Iman, l’importo di due anni di rette universitarie. Una delle foto di Beard arriva sul tavolo di Wilhelmina Cooper (fondatrice della Wilhelmina Models), che immediatamente chiede lumi
1. HERE I AM, NOT QUITE DYING (2004-2007) al fotografo sulla sua modella. «Ah, ma sta in Kenya» le dice Beard, e lei: «Fammela chiamare». Ha raccontato in seguito Iman: «Metà delle cose che mi ha detto non le ho capite. Ha detto: “Vieni a New York, puoi fare un sacco di soldi, puoi guadagnare 250mila dollari”». Iman mette piede per la prima volta a New York il 15 ottobre 1975, da sola. Non tornerà più in Kenya dalla famiglia d’origine (nel giro di qualche anno la farà trasferire al completo negli Stati Uniti) e dal marito, da cui divorzia quasi subito. Il primo servizio importante lo effettua nel 1976, per «Vogue». In poco tempo si impone come una delle prime modelle nere, e negli anni Ottanta diventa una delle “supermodels”, al pari di Cindy Crawford, Naomi Campbell, Christie Brinkley, Elle McPherson, Renée Simonsen e Carol Alt, tutte ricercatissime e pagatissime. Meno di un anno dopo essere arrivata a New York, Iman conosce tramite un’amica comune il campione di basket afroamericano Spencer Haywood, che ha appena firmato per i New York Knicks. Qualche mese dopo rimane incinta e, dato che Iman non ha nemmeno la Green Card, i due decidono di sposarsi. Il matrimonio viene celebrato alla fine del 1977, poco prima della nascita della bambina, chiamata Zulekha. Spencer Haywood ha scritto un libro autobiografico (The Rise, The Fall, The Recovery) che, data l’estrema riservatezza di Iman, è l’unico documento in cui si possa trovare qualche descrizione del suo lato privato. Racconta per esempio Haywood che «la nascita di Zulekha mi spinse a innamorarmi di Iman. Ci fece essere più vicini, e ci cambiò entrambi. Fare l’amore non era mai stato il punto forte del nostro rapporto, il che è piuttosto ironico considerando la nostra immagine di bella coppia. C’erano dei fattori nel suo background che le rendevano difficile godere del sesso, e c’erano delle volte in cui io non ero il lavoratore più indefesso nel business dell’amore. Ma dopo che Iman ebbe la bambina, la nostra vita amorosa è decisamente migliorata… almeno per un po’». Dopo questa breve luna di miele, racconta ancora Haywood, Iman cambia, «mentre la sua carriera esplodeva e lei imparava i modi della cultura americana». Iniziano i primi dissidi. Sul fatto che Iman decida di farsi una plastica al seno prima di apparire su «Playboy», per esempio. Ci si mettono anche le droghe, e in particolare la cocaina,
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sniffata da entrambi ma per la quale Haywood sviluppa pian piano una passione eccessiva. Nella stagione 1979-80 Haywood viene acquistato dai Lakers e si trasferisce a Los Angeles con Iman e Zulekha: il sogno di una vita che però viene presto infranto dalla sua tossicodipendenza. Inoltre, secondo Haywood, «anche Iman creò delle tensioni con la squadra. Si inimicò alcune delle mogli e delle ragazze dei giocatori, anche se non si accorgeva che lo stava facendo. Ho sentito dire che ad alcune delle mogli non piacevano le sue spettacolari entrate, il suo andare a passeggio per il Forum parecchio tempo dopo che la partita era cominciata». Haywood viene cacciato dai Lakers e mandato in “esilio” in Italia, dove gioca per un anno con la Carrera Venezia. Nella città lagunare il campione si disintossica e si rimette in forma, e anche il suo rapporto con la moglie sembra tornare a girare per il verso giusto quando Iman e Zulekha lo vengono a trovare a Natale del 1980 («Iman non era mai stata a Venezia, ed era come una bambina la prima volta che visita Disneyland»). Tornato negli Stati Uniti per giocare con i Washington Bullets, Haywood fa la spola con New York dove vive con la famiglia in un elegante appartamento dell’Upper East Side. «Io e Iman sembravamo rafforzare il nostro rapporto a ogni mia visita. Con me che ero tornato nella Nba e con la carriera di Iman che stava decollando, avevamo connections incredibili. Conoscevamo gente potente in qualsiasi sfera». Ma i problemi della coppia tornano a presentarsi, più acuti di prima. Da un lato, Haywood ricomincia a farsi di cocaina. Dall’altro, si sviluppa anche una strana situazione sul fronte domestico: «Iman era andata in vacanza da sola alle Isole Seychelles ed era tornata con una nuova amica chiamata Jan, una donna corpulenta che affermava di essere francese. Jan era costantemente a casa nostra. In un battibaleno divenne la principale consulente di Iman, una compagna costante e la segretaria personale. Anche nella mia stessa casa, si era arrivati al punto che mi sentivo come se dovessi prendere un appuntamento tramite Jan se volevo parlare con mia moglie. La maggior parte dei fine settimana, Iman e Jan andavano alla casa di campagna di Jan nel New Jersey. Questa donna divenne l’autoproclamato capo della mia famiglia, mi dava ordini e consigli, organizzava la vita di Iman. Era come se avesse fatto un incantesimo a Iman, la stava con-
1. HERE I AM, NOT QUITE DYING (2004-2007) trollando. Io ero il nemico. Poi si è trasferita da noi, ed è diventata guerra totale: Spencer contro l’alleanza tra Jan e Iman». Un rapporto quasi simbiotico, quello tra Iman e questa Jan, che ricorda quello tra Bowie e Coco Schwab, che alla fine degli anni Settanta ebbe come vittima la prima moglie della star, Angie, a cui non restò altro che accettare il divorzio con una misera (secondo lei) buonuscita. Il 1983 è l’anno in cui Iman ha un orribile incidente d’auto. «Stavo tornando a casa da una cena, ero in un taxi e proprio tra First Avenue e la 33esima», ha raccontato la modella a «Bazaar», «una macchina ci è venuta addosso e il taxi si è ribaltato. Il lato sinistro della mia faccia è andato in pezzi. Non è andato in frantumi, si è spezzato e ci ha messo un’eternità per guarire. Adesso, con la magia del make-up nessuno se ne accorge». Il danno è serio, ma grazie a una serie di interventi di chirurgia plastica Iman tornerà quella di un tempo e potrà tornare a sfilare sulle passerelle. Qualche tempo dopo a Parigi, però, il rapporto tra marito e moglie si disintegra definitivamente. «Andammo a un grande ballo dove Iman era stata invitata da Grace Jones», ha ricordato Haywood. «Alcuni di questi francesi baciavano le mani di Iman, com’è loro usanza, ma poi sono andati oltre le mani. Hanno messo le loro lingue nella bocca di Iman e la stavano “lavorando”. Con io che me ne stavo lì. Tutta questa scena era troppo stramba per me. Ero inorridito. Ma Iman mi ha detto che ero uno zotico. “Queste persone sono tutte gay e sono tutti miei amici” ha detto, “è così che si fa a Parigi”. Poi, però, sono andato al bagno e quando sono tornato Iman era al centro del party e si stava rotolando sul pavimento con questo tipo basso. “Non è nulla di che” mi ha detto. Ma lo era, invece. Si stavano facendo beffe di me. Iman non lo capiva. Poi Iman e Grace Jones si sono messe a ballare insieme, un’altra strana scena, l’una addosso all’altra mentre tutti in piedi le guardavano come se fosse un sex-show». Nel 1985 è tutto finito: sia il matrimonio tra Iman e Haywood sia la carriera del giocatore nel basket a causa di una tossicodipendenza fuori controllo. Haywood va in una clinica per il rehab e contemporaneamente inizia la causa per il divorzio e per la custodia della bambina. Il divorzio diviene ufficiale il 13 febbraio 1987. Per quanto
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riguarda Zulekha, Haywood ha scritto: «Zu aveva bisogno di un genitore full-time; Iman non aveva tempo, io sì. “Fammi tenere Zulekha” ho detto a Iman, “tu cerca di trarre il meglio dalla tua carriera ora che sei in voga. Tra un paio d’anni, quando sarai pronta, potrà tornare a vivere con te”. Non era la cosa giusta per l’immagine di Iman, però. Dopo che inizialmente aveva dato il suo ok, ha detto che la sua agenzia e Jan l’avevano consigliata che far vivere Zulekha con me non era la cosa giusta. Cosa avrebbe pensato la gente?». Ma che tipo di madre è Iman? Indifferente e assente, secondo quanto racconta Spencer Haywood citando anche le dichiarazioni rilasciate sotto giuramento da diversi testimoni durante il successivo processo per la custodia della bambina. Haywood lo perde, ma a dodici anni Zulekha va ugualmente in California a vivere con il padre. «Iman», ha raccontato Haywood, «aveva meno tempo per sua figlia di quanto non ne dedicasse alla sua carriera e al suo personaggio pubblico. La scorsa estate [del 1991, N.d.A.] Iman ha telefonato e ha chiesto se Zu poteva trascorrere tre settimane con lei. Bene, ho pensato, Iman è pronta; adesso sarà più capace di apprezzare sua figlia. Iman ha portato Zu a un party di Luther Vandross, l’ha sfoggiata con tutti, ha fatto la parte della madre orgogliosa. Poi Zu ha passato la maggior parte del tempo nella sua stanza, a mangiare. Ha preso più di dieci chili. Iman è andata in tv a dire che Zulekha è la sua migliore amica, che Zu attualmente sta visitando suo padre, un grande tossicodipendente. Si dimentica di dire che sono pulito da otto anni». Per due o tre anni, tra il 1986 e il 1989, Iman intraprende una relazione con Will Regan, giovane, ricco e belloccio (e bianco) proprietario di bar, ristoranti e nightclub, raffinato viveur e animatore della vita notturna newyorkese. La loro storia però è già naufragata, quando il 4 ottobre 1990, a un incontro “combinato” dall’amico comune Teddy Antolin, un parrucchiere di Los Angeles, la modella incontra David Bowie. Lui dirà in seguito di non aver avuto dubbi fin dall’inizio: «Per quanto mi riguarda, fu una cosa immediata: non volevo né avevo bisogno né desideravo più avere altre relazioni fisse». Si consuma un breve romantico corteggiamento, poi il fidanzamento, e un anno dopo a Parigi, mentre si trova in tour con i Tin Machine, Bowie chiede a Iman di sposarlo durante una gita in barca sulla Senna. Il
1. HERE I AM, NOT QUITE DYING (2004-2007) matrimonio viene celebrato dapprima in forma privata a Montreux, e quindi, il 6 giugno 1992, con una fastosa cerimonia alla chiesa americana di Saint James a Firenze, cui prendono parte celebrità quali Bono, Yoko Ono e Brian Eno e amici storici dello sposo come Geoff McCormack (alias Warren Peace), oltre a suo figlio Joey alias Duncan, ormai ventenne, e a sua madre Peggy Jones in una rarissima apparizione pubblica. Tra gli invitati ci sono anche il padre e la madre di Iman e le sue sorelle. Non c’è invece Zulekha. Dopo i primi tempi trascorsi in prevalenza tra la Svizzera e l’isola caraibica di Mustique, a metà degli anni Novanta la coppia si trasferisce permanentemente a New York, dove Bowie dal 1992 possiede un appartamento al nono piano dell’Essex House Hotel a Central Park South nei pressi del Lincoln Center (che venderà nel 2002). La verità è che Bowie e Iman hanno molte più cose in comune di quanto non appaia a prima vista. Sia lei che lui sono due “expats”, sradicati dalla loro terra d’origine ed emigrati negli Stati Uniti. Entrambi hanno dimostrato di essere ambiziosissimi e disposti a fare carte false pur di arrivare in cima. Tutti e due hanno passato almeno un decennio in un flusso continuo di flash dei fotografi, di party e di cocaina (Bowie aveva sviluppato una dipendenza ai livelli di quella di Spencer Haywood). Entrambi, poi, sono reduci da un matrimonio fallito e hanno figli di primo letto che non hanno potuto seguire abbastanza perché impegnati con la propria carriera, anche se Iman come madre è stata probabilmente assai peggiore di Bowie come padre. Il rapporto tra madre e figlia, peraltro, è sempre molto conflittuale. Nel 1993, Zulekha ha dichiarato a vari giornali di gossip: «Mia madre mi ha spesso detto che ero grassa come una balena. Mi ha fatto diventare pazza da legare. Iman si comporta come se le importasse di quei bambini che muoiono di fame in Somalia, mentre si disinteressa anche della propria figlia». Man mano che Zulekha cresce, Iman non se la porta più in giro per sfoggiarla come un tempo: la figlia di una delle più ammirate supermodelle al mondo è infatti diventata un donnone alta quasi due metri dal peso di circa un quintale e mezzo, ciò che per lei evidentemente è fonte di estremo imbarazzo. Viene fin da subito ostentata sulle pagine della rivista «Hello!», invece, la seconda figlia Alexandria Zahra Jones (“Lexi”) – lungamente
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desiderata sia da Iman che da Bowie – nata il 15 agosto 2000, quando la modella ha già quarantacinque anni. Nella celebre intervista a «Hello!», i due neo-genitori si ripromettono di non commettere con Lexi gli errori del passato. «Quando è nata mia figlia», dice Iman, «ero al vertice della mia vita lavorativa e mi sono divisa in due per cercare di essere sia una madre sia una ragazza in carriera. Questa volta però siamo entrambi in una posizione in cui siamo noi a controllare le nostre carriere al posto delle carriere che controllano noi». Un altro punto che accomuna Iman a Bowie è che nel 1994, smessa la sua attività di modella, diventa anche lei imprenditrice di se stessa, fondando la Impala Inc./Iman Cosmetics, una linea di cosmetici con particolare focus sulle esigenze delle donne di colore. La Iman Cosmetics riscuote fin da subito un enorme successo, arrivando a fatturare, intorno al 2010, circa 25 milioni di dollari all’anno. Gli uffici della società si trovano all’incrocio tra la 7a Avenue e la 32a, proprio dietro la Pennsylvania Station. Tra quanti ci lavorano, dal gennaio 2002 c’è anche sua figlia Zulekha, trasferitasi stabilmente a New York, dapprima nel ruolo di Account Manager e quindi, a partire dal maggio 2005, come “Revenue and Supply Chain Planning Manager”. Nel primo decennio del nuovo millennio, pertanto, Iman e Bowie sono una delle power couples più in vista e danarose di New York. Ma a differenza di tante altre coppie di successo, qui la parola d’ordine – condivisa da entrambi – è “riservatezza”: le notizie private e professionali che li riguardano sono solo quelle che vogliono far passare loro. Impresa difficile, in un mondo in cui le celebrità vengono analizzate e dissezionate a ogni piè sospinto, ma in questo, va dato loro atto, Iman e Bowie sono tra i più bravi al mondo.
DUNCAN JONES DUNCAN JONES
“Famiglia” per Bowie significa non soltanto Iman e Lexi, ma anche il primogenito Duncan Jones, nel 2004 trentatreenne, l’ex “Zowie” avuto dalla prima moglie Angela Barnett, che risiede a Londra ma
1. HERE I AM, NOT QUITE DYING (2004-2007) che di tanto in tanto viene a New York per passare del tempo col padre. Per lungo tempo Duncan aveva fatto penare, e non poco, Bowie. Nel 1989, quando aveva diciotto anni, era stato espulso dal prestigioso college scozzese di Gordontoun per essersi addormentato durante un esame A-level di inglese. Privo di diploma e di prospettive, si era trasferito a Londra “per trovare se stesso” e passò dei mesi a lavorare al Creature Shop di Jim Henson, grazie ai contatti che il padre aveva instaurato con il regista/burattinaio sul set del film Labyrinth nel 1986. Dopodiché, incerto sulla direzione da prendere, Duncan era tornato in Svizzera dove per un periodo aveva lavorato con bambini con difficoltà d’apprendimento. Quindi si era iscritto alla facoltà di filosofia del Wooster College in Ohio, laureandosi nel 1995 di fronte a un orgoglioso papà e alla sua nuova moglie Iman, oltre che alla onnipresente Coco Schwab. A quel punto, però, secondo quanto raccontato dallo stesso Duncan in un’intervista all’«Evening Standard», “spinto dal suo cuore” seguì la sua ragazza di allora a Nashville per prendere un PhD alla Vanderbilt University, ma la scelta si rivelò un disastro: «La relazione non funzionò e io restai bloccato a Nashville per tre anni. Credo che il mio papà fosse piuttosto confuso da tutta questa storia. Non riusciva a comprendere perché volessi complicarmi così la vita». È probabile che suo padre si sentisse, oltre che confuso, anche assai colpevole. I primi anni della vita di Duncan, coincidenti con la crisi matrimoniale con Angie, erano stati fin troppo caotici. E anche in seguito, quando Duncan aveva tredici anni, Bowie aveva insistito per iscriverlo al rigidissimo, quasi militaresco Gordonstoun (dove in precedenza era transitato anche il Principe Carlo), una scelta rivelatasi fallimentare sotto diversi punti di vista: «Ero un ragazzino sensibile e probabilmente avevo bisogno di qualche abbraccio in più», ha ricordato Duncan. Era necessario dare un “aiutino” a questo ragazzo così tormentato, ed è esattamente quello che Bowie fece: nel 1999 lo convinse ad accompagnarlo sul set della serie tv The Hunger diretta da Tony Scott, in cui era stato chiamato a girare delle scene. Scott permise a Duncan di girare una sorta di video dal backstage con una camera a mano: un’esperienza che piacque molto al ragazzo e che gli fece venire
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in mente che forse la Settima Arte poteva essere la sua vera vocazione. In men che non si dica, mollò l’università e si iscrisse anonimamente alla London Film School. Nel 2002 realizzò il suo primo film, un corto di 26 minuti, Whistle, dal sapore autobiografico (la storia camuffata della sua infanzia in Svizzera con un padre che fa un mestiere “particolare”: uno “hitman”, un assassino, in chiara assonanza con la professione di Bowie, chiamato a realizzare “hit”, ma nel senso di canzoni di successo). È chiaro a tutti, e a Bowie più che mai, che Duncan vorrebbe fare il regista. Ma non è facile, e per il momento è nel campo della pubblicità che ha trovato il primo lavoro remunerato di un certo livello. Da poco ha iniziato a lavorare, da freelance, per l’agenzia pubblicitaria londinese Beattie McGuinness Bungay (Bmb), che l’ha incaricato di realizzare uno spot pubblicitario di tre minuti per celebrare i venticinque anni dal lancio delle patate surgelate (“oven chips”) della McCain. Per rispondere alla sfida, Duncan ha ricreato un finto programma della tv inglese del 1979 in cui la presentatrice chiede a una serie di interlocutori per che cosa, secondo loro, verrà ricordato l’anno che sta per iniziare, prima di lanciarsi a profetizzare che in definitiva la sola, vera novità sarà l’introduzione sul mercato delle patate da scongelare in forno della McCain, che cambieranno per sempre le abitudini alimentari degli inglesi. Il divertente mini-film, dal titolo A Year to Remember, sta avendo un grosso successo e Trevor Beattie, il boss della Bmb, sta anche pensando di assumere Duncan come creativo “in house”. Duncan, naturalmente, continua a voler fare il regista di lungometraggi ma forse per il momento questa sua ambizione può essere rimandata.
COCO SCHWAB COCO SCHWAB
Bowie non ha molti amici stretti a New York – i suoi compagni d’infanzia George Underwood e Geoff McCormack vivono in Inghilterra – ma ha Coco Schwab, che è qualcosa di più: una confidente, una mamma, un’infermiera, una chargée d’affaires sempre
1. HERE I AM, NOT QUITE DYING (2004-2007) presente e su cui poter contare. Qualcuno dice che è stata anche sua amante, ed è una possibilità, anche se Coco, da giovane, era piuttosto anonima e non corrispondeva certo all’ideale di panterone nere e conigliette di «Playboy» che Bowie era solito frequentare negli anni Settanta e Ottanta. Coco è figlia del fotografo francese di origine ebrea Éric Schwab, che nel 1945 realizzò dei celebri reportage sugli orrori dei campi di concentramento nazisti. Schwab emigrò a New York nel 1946 ed è qui che qualche tempo dopo – ma non si sa in che anno – nacque, da madre anch’ella francese, Corinne, poi chiamata da tutti con il diminutivo Coco. Coco trascorre gli anni giovanili principalmente in India, Haiti e Messico, imparando correttamente cinque lingue. Nel 1973 si trova a Londra e sta cercando lavoro. Come ha raccontato nella sua unica intervista, concessa ai fan di BowieNet nel 2001, «Ho iniziato a lavorare con David rispondendo a un annuncio sull’«Evening Standard» di Londra dove si chiedeva “una ragazza tuttofare per un ufficio indaffarato”. Avevo scorso il mio indice su quella pagina e mi ero fermata lì in maniera totalmente arbitraria. Avevo bisogno di un lavoro per pagarmi le spese per un viaggio che volevamo fare io e una mia amica fotografa. C’era una rivista interessata al fatto che realizzassimo una storia su due ragazze che fanno un giro in Greyhound per l’America, in stile On the Road di Jack Kerouac. Quando sei mesi dopo mi stavo preparando a lasciare la Mainman [la società del manager di Bowie dell’epoca, Tony DeFries, N.d.A.] David mi ha chiamato e mi ha chiesto perché me ne stessi andando. Gli ho spiegato di questa cosa del giro in Greyhound. È stato zitto un secondo e poi ha detto: “Che ne dici di fare un giro in America in limousine?”. Io sono stata zitta circa un nanosecondo e ho detto qualcosa tipo, “Ah, ok”. Non credo che la mia amica fotografa mi abbia mai davvero perdonata». Dalla primavera 1974, ossia da quando Bowie si trasferisce negli Stati Uniti, Coco diventa la sua assistente personale. Coco è colta, discreta e intelligente, e man mano assume il ruolo di deus ex machina che era stato della prima moglie Angie: adesso è lei a organizzare la vita di Bowie in tutti i dettagli, a schermarlo dalle persone non gradite (tra cui entra a far parte la stessa Angie) e, in generale,
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a soddisfare ogni suo desiderio, tanto che le voci più maligne sostengono che la sua forza è sempre stata quella di non avere una vita propria ma di vivere unicamente della luce riflessa della star inglese. Sembra, inoltre, che nel 1975/76, nel periodo di massima tossicodipendenza di Bowie, Coco gli salvi più volte la vita. Secondo il produttore di TONIGHT (1984), Hugh Padgham, Coco gli ha confidato che in quel periodo a volte si svegliava la mattina e trovava David steso da qualche parte sul pavimento; e utilizzava lo specchio su cui c’erano ancora tracce di coca per accertare se stesse ancora respirando o meno. Metteva lo specchio di fronte al suo naso per vedere il vapore del respiro. Cambiano i tempi, i luoghi e le circostanze ma Coco è sempre con Bowie, praticamente è la sua ombra: è nel New Mexico nel 1975 quando lui gira L’uomo che cadde sulla Terra; a Berlino alla fine degli anni Settanta (dove ha una stanza accanto alla sua nell’appartamento sulla Hauptstraße); in vacanza ai Caraibi, in Asia e un po’ ovunque in giro per il mondo; in tutti i tour; sul palco reale durante Live Aid nel 1985; in Svizzera quando lui trasferisce lì la sua residenza; e quando Bowie decide di trasferirsi per sempre a New York, anche Coco prende casa a Manhattan. Non si sa però dove abiti, e della sua vita personale è noto solo quanto ha dichiarato ai fan di BowieNet nell’intervista del 2001: «Non sono sposata (non ancora). Se mi si chiede se ho avuto o ho dei fidanzati, la risposta è SÌ ☺. Ho anche una manciata di vecchissimi buoni amici, diversi dei quali li conosco ancora da più tempo di David Bowie e sono incredibilmente amorevoli e di sostegno». Si sa inoltre che ogni tanto a Manhattan porta a spasso una cagnetta di nome Muffin. Nel corso del tempo, per via dei suoi modi bruschi nel gestire la vita e la carriera di Bowie, Coco Schwab si è attirata una buona dose di antipatie. Angie Bowie ha detto: «Vive nella costante paura che io la possa uccidere, la qual cosa mi rende assai felice». L’ex amante di Bowie Ava Cherry l’ha definita “una strega” e lo stesso Tony Visconti, solitamente molto diplomatico, ha detto che «dovrebbe essere messa in una gabbia a mangiare carne cruda». Ma il rapporto che più interessava a Coco, quello con Bowie, ha resistito nei decenni, solido e indistruttibile.
1. HERE I AM, NOT QUITE DYING (2004-2007) Nel 1987, per ricompensare la sua dedizione e la sua fedeltà, Bowie ha voluto dedicarle esplicitamente una canzone – per sua stessa ammissione – “di importanza fondamentale”: la title track dell’album NEVER LET ME DOWN. In definitiva, Coco Schwab è l’unica persona al mondo a conoscere tutti i segreti di David Bowie, sia privati sia professionali: se un giorno decidesse di pubblicare un libro di memorie, sarebbe la biografia bowiana definitiva e inappellabile, e manderebbe al macero tutte quelle precedentemente edite (compresa quella che tenete tra le vostre mani). Ma, visto il tipo, Coco quel libro non lo scriverà mai e poi mai.
new rock revolution «Dopo lo spavento per il cuore», ha detto a Dylan Jones il regista Alan Yentob, una conoscenza di Bowie dagli anni Settanta, «sapeva di trovarsi in una situazione difficile, ma alla fine si è reso conto che questa nuova vita gli andava a pennello, perché era in grado di far crescere Lexi, di passare tempo con Iman e avere una vita familiare, che era qualcosa che non aveva mai avuto prima. Stava nuovamente nutrendo la propria immaginazione e la propria curiosità. Durante quei giorni era un lettore vorace, e poteva stare a casa a leggere ogni giorno. Stava sempre a esplorare nuove idee e nuove tematiche, ad assorbire nuove cose». Tanta famiglia e tanto relax, quindi. Ma anche un po’ di vita sociale. All’inizio Bowie approfitta della convalescenza per aggiornarsi sulle migliori band emergenti che arrivano nella Grande Mela, come un fan qualsiasi. La scena rock di New York si trova in un momento d’oro, come non accadeva da tempo. È iniziato tutto nel 2001, con la perentoria ascesa degli Strokes, rampolli della buona società di Manhattan, autori di un album d’esordio (IS THIS IT) ispirato ai Velvet Underground e alla new wave dei primi anni Ottanta. Gli Strokes, seguiti a ruota dagli Interpol, sono stati la scintilla che ha dato al via al filone alternatamente definito “New Wave Revival”, “Post-Punk Revival” o “New Rock Re-
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volution”. Tutto nasce a Manhattan, ma per via delle nuove tecnologie si globalizza quasi all’istante con l’arrivo di band da Brooklyn (Yeah Yeah Yeahs, The Rapture, Liars, The National), da Detroit (The White Stripes), da Las Vegas (The Killers), dal Tennessee (Kings of Leon), dal Regno Unito (The Libertines, Franz Ferdinand, Maximo Park), dall’Australia (The Vines), dalla Svezia (The Hives) e via dicendo. Il fulcro però resta nella Grande Mela desiderosa di superare la tragedia dell’11 settembre in un’orgia di sonorità eighties riverniciate. Tra Manhattan e Brooklyn esistono decine di locali e ogni sera una varietà di concerti tra cui c’è solo l’imbarazzo della scelta. E Bowie, sempre aggiornatissimo sulle nuove tendenze ci si tuffa a pesce. Il 9 settembre 2014 è tra gli spettatori al Roseland Ballroom sulla 52a, dove ha modo di vedere dal vivo uno dei suoi nuovi gruppi preferiti, gli scozzesi Franz Ferdinand (il cui omonimo, neo-glam, album d’esordio è stato pubblicato a marzo). Secondo quanto raccontato in seguito da Alex Kapranos e Nick McCarthy, voce e chitarra della band, Bowie si presenta da loro nel backstage camuffato, con un paio di baffi, occhialetti tondi alla John Lennon e un cappellaccio in testa. Quindi, notando il loro imbarazzo, per rompere il ghiaccio si lancia nell’imitazione di Courtney Taylor-Taylor, che nelle sue intenzioni dovrebbe essere esilarante ma che né Kapranos né McCarthy riescono a cogliere non avendo mai incontrato Taylor-Taylor (il leader dei Dandy Warhols, band dell’Oregon che ha fatto da supporto a Bowie nel Reality Tour). Nonostante le incomprensioni, lo show dei Franz Ferdinand di quella sera gli deve piacere assai, tanto da tornare a vederli, sempre al Roseland Ballroom, il 3 ottobre, stavolta in compagnia del vecchio amico Lou Reed. Il 5 ottobre Bowie torna a scrivere nel suo diario/blog (i cosiddetti Sailor’s Journals) su BowieNet dopo una lunga assenza. Fa sapere che sta guardando il dibattito in tv fra i due candidati vice presidenti alle imminenti elezioni statunitensi Dick Cheney e John Edwards, ma che adesso c’è l’intervallo: «Spero di riuscire a vedere la fine perché più tardi usciamo per andare a vedere The Killers all’Irving Plaza. Ci sono band proprio buone al momento, non è vero? I Franz, chiaramente, ma che ne dite degli Animal Collective, dei Secret Machines e dei Bro-
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ken Social Scene? Ci sono i Pixies a dicembre. Un bel modo per chiudere l’anno. Leggere è una delle mie priorità al momento. Cerco di leggere in palestra come ho visto fare ad alcuni businessmen con il loro quotidiano appoggiato agli apparecchi ginnici ma trovo che continuo a leggere sempre la stessa riga mentre pedalo. Meglio, per me, tornare alla solita sedia confortevole. Ecco un paio di libri: Fingersmith di Sarah Waters, ottimo thriller gotico/vittoriano. È tutto nei dettagli. Il processo a Henry Kissinger di Christopher Hitchens, in cui il caro vecchio Henry viene bastonato da un acuto osservatore della politica… Dovrò continuare domani perché il dibattito sta per ricominciare». Quella sera all’Irving Plaza (dove i Killers presentano l’album d’esordio HOT FUSS) Bowie ha appuntamento con Tony Visconti, che è arrivato in compagnia del leader dei Kashmir, un gruppo danese che si sta apprestando a produrre. Visconti ha raccontato in seguito a BowieNet: «Quando Kasper Eistrup è venuto a New York per fare quello che si è rivelato uno shopping compulsivo di chitarre, l’ho casualmente invitato al concerto dei Killers all’Irving Plaza come il mio “più uno”; io ero già invitato come ospite di David. Quando ho presentato David a Kasper nel settore vip della balconata e gli ho detto che era il cantante dei Kashmir, David gli ha stretto la mano con entusiasmo e gli ha detto che aveva già sentito il loro ultimo Cd e che gli era piaciuto. Dopo il concerto abbiamo scroccato un passaggio a David». E l’11 novembre Bowie è uno dei tanti vip – fra gli altri: David Byrne, Eric Clapton, Melissa Etheridge e John Cameron Mitchell – che si ritrovano alla Bowery Ballroom per assistere al primo importante concerto newyorkese di una delle sensazioni dell’anno, il collettivo canadese Arcade Fire, che un paio di mesi prima ha pubblicato l’esordio FUNERAL: un album per il quale Bowie sta stravedendo, e che in questo periodo non perde occasione per reclamizzare con i suoi post su BowieNet. Alla fine del concerto incontra Win Butler, Regine Chassagne e gli altri membri degli Arcade Fire per congratularsi con loro, gettando le basi per un’eventuale, futura collaborazione. La sera dopo è all’Hammerstein Ballroom sulla 34a dove vede gli Interpol ma non i Secret Machines, un’altra delle sue band preferite del momento (che hanno suonato il giorno prima allo stesso locale, ma la sera in questione hanno dato forfait).
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Ad alcuni di questi concerti Bowie va insieme a Gerry Leonard, il suo capobanda del Reality Tour, che nel 2016 ha dichiarato a «Vice»: «Siamo andati a vedere uno show, ed era abbastanza chiaro che era scosso dopo l’infarto. Era costretto a prendere delle medicine, penso che si sentisse un po’ depresso. E penso che tutti quanti noi della band eravamo dell’opinione che, be’, diamogli solo un po’ di tempo e forse vorrà ricominciare». Talvolta c’è anche il suo fidato batterista Sterling Campbell, che ha detto a Dylan Jones: «Dopo il tour del 2004 siamo andati a un sacco di concerti insieme. Siamo andati al primo show degli Arcade Fire. Voleva sempre vedere le nuove band, ma poi siamo anche andati a vedere gli Who insieme. Era solitario, e noi tendevamo a lasciarlo in pace. A volte si faceva vivo all’improvviso. Aveva avuto una vita intensa e ora stava scomparendo. Dopo l’infarto voleva starsene tranquillo, tirare su la sua famiglia, stare lontano dai riflettori. Era come un gentiluomo inglese, seduto nella sua stanza con i suoi libri, la sua sedia e la sua conoscenza. Era un lettore prodigioso. Comprendeva profondamente l’arte. Aveva una profonda comprensione dei film. Era un personaggio rinascimentale. Non aveva bisogno di far dischi tutto il tempo». E no, di fare nuova musica ancora non se ne parla. Tornano però a sentirsi alcune sue vecchie canzoni (Starman, Rebel Rebel, Rock’n’Roll Suicide, Life on Mars? e Five Years) cantate in portoghese (!) dal cantautore e attore brasiliano Seu George per la colonna sonora del film di Wes Anderson uscito il 14 dicembre Le avventure acquatiche di Steve Zissou. Un anno più tardi Bowie, in un’intervista rilasciata a Dave Itzkoff per il supplemento Fashion Rocks della rivista di moda e lifestyle «Lucky», se ne dirà entusiasta: «Ho semplicemente adorato quella colonna sonora. Ho pensato che fosse favolosa. Mi è piaciuta quella particolare interpretazione del mio lavoro». E poi c’è la “vecchia” musica, il “catalogo”, del quale, in base a un accordo con la Emi, sono programmate le uscite di alcuni album rimasterizzati e ampliati. Le prime a essere pubblicate saranno, il 21 febbraio 2005, le versioni rimasterizzate e rimixate da Tony Visconti dei due storici doppi dal vivo DAVID LIVE (1974) e STAGE (1978).
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juke-box musical La vita sociale di Bowie osserva uno strano pattern: è quasi una doppia vita. Quando esce da solo o con amici come Coco, Lou Reed, Tony Visconti, Gerry Leonard e Sterling Campbell per immergersi nella scena rock locale, osserva un basso profilo, travestendosi da persona comune, con occhiali e baffi finti che lo rendono virtualmente irriconoscibile. Quando esce con Iman, invece, indossa abiti firmati e torna a essere, per il mondo, per i fotografi e per tutti, il Dio del Rock. È quanto accade il 10 dicembre 2004 quando la coppia si ritrova insieme ad altre celebrità quali Michael Stipe, Jeff Koons, Tommy Hilfiger, Karl Lagerfeld ed Eva Mendes allo Studio Stephen Weiss per celebrare il trentacinquesimo anniversario della rivista «Interview» fondata da Andy Warhol. Nelle foto scattate per l’occasione Iman appare al massimo del fulgore con top leopardato. Bowie un po’ meno: è pallido e un po’ goffo nel suo completo firmato senza cravatta con una giacca di pelle che gli sciacqua un po’ addosso. È ancora palesemente convalescente. La strana alternanza prosegue anche nel 2005. Il 2 febbraio Bowie viene fotografato su una delle balconate dell’Irving Plaza (l’ex Fillmore East nei pressi di Union Square) durante il suo secondo concerto degli Arcade Fire, in compagnia di una persona che sembrerebbe essere Coco Schwab (ma la foto è troppo sfocata per essere certi che sia lei). A un certo punto del concerto, David Byrne si unisce alla band canadese sul palco e tutti insieme eseguono il vecchio classico dei Talking Heads This Must Be the Place. Chissà se i due ex collaboratori di Brian Eno si sono poi salutati nel retropalco. Con Iman, Bowie partecipa alle serate mondane e fa diverse puntate a teatro. Il 15 marzo vengono notati al Palace Theatre (Broadway West 47a) tra gli spettatori di All Shook Up, un musical basato sulla commedia di Shakespeare La dodicesima notte dove le musiche sono di Elvis Presley: quello che in gergo teatrale viene definito juke-box musical, ovvero un musical commerciale, per un pubblico mainstream. Più che altro, è un modo per utilizzare le canzoni più amate del Re del Rock’n’Roll in un contesto di Broadway. E due giorni dopo la coppia viene paparazzata allo Shubert Theatre (sulla 225 West 44a) alla prima di un altro musical, Spamalot, parodia
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della saga di Re Artù e dei suoi cavalieri in cerca del Graal scritta da Eric Idle dei Monty Python e diretta da Mike Nichols (e con Tim Curry, già protagonista del Rocky Horror Picture Show cinematografico, nel ruolo di Artù). Oltre a Bowie e Iman, in teatro sono presenti anche Meryl Streep, Candice Bergen, Steve Martin, Carly Simon e tutti gli altri Monty Python viventi. Di base, si tratta della versione in musica dello storico film comico del 1975 Monty Python e il Sacro Graal, con canzoni scritte ad hoc da Eric Idle con il suo collaboratore John Du Prez, più la celeberrima Always Look on the Bright Side of Life composta da Idle per la satira religiosa dei Python Brian di Nazareth. «Ho sempre desiderato realizzare un musical» dichiara quella sera Idle, un vecchio amico di Bowie, con cui ha anche fatto delle vacanze insieme. «Cercavo solo un soggetto che fosse adatto». Anche Bowie ha sempre sognato di realizzare un musical, fin da quando, nel 1968, aveva abbozzato trama e canzoni di un’opera rimasta inedita chiamata Ernie Johnson. Cinque anni dopo aveva pensato di portare in scena il romanzo 1984 di George Orwell, ma l’operazione era stata bloccata dalla vedova dello scrittore. E negli anni Novanta aveva accarezzato per qualche tempo l’idea di portare a Broadway THE RISE AND FALL OF ZIGGY STARDUST AND THE SPIDERS FROM MARS, ma congegnare una trama sensata intorno ai fatti appena accennati nel disco si era rivelata un’impresa improba e il progetto dovette essere accantonato. Sono passati degli anni, ma forse è proprio adesso che questa sua ambizione inizia a essere risolleticata. Basterebbe soltanto – come ha detto il suo amico Eric – trovare un soggetto adatto.
robert fox Passa qualche giorno e ritroviamo Bowie ancora a teatro e sempre a braccetto con Iman: è il 10 aprile e al Booth Theatre sulla 45a va in scena l’esordio a Broadway di The Pillowman con Jeff Goldblum e Billy Crudup. Scritto dal drammaturgo irlandese Martin McDonagh, The Pillowman racconta la vicenda dello scrittore Katurian (Crudup), sospettato dalla polizia dello stato totalitario in cui vive per via dei suoi racconti brevi e della loro similarità con una serie di omicidi in-
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fantili che sono di recente accaduti: una commedia dark in linea con gli interessi – anche letterari – di Bowie in questo periodo. Stavolta Bowie è stato direttamente invitato dal produttore dello spettacolo, l’inglese Robert Fox, che è un suo caro amico da quarant’anni. Si erano conosciuti nel 1974 a un party organizzato da Michael White, famoso impresario tra le altre cose produttore dei Monty Python, bon viveur e amico delle celebrità (circolano in rete le foto scattate dallo stesso White negli anni Ottanta durante una vacanza ai Caraibi con Bowie, Coco Schwab ed Eric Idle). Classe 1952, fratello minore degli attori Edward e James Fox, Robert lavorava all’epoca come assistente personale di White. «Con Bowie ci si parlava con facilità. Non era esibizionista o pressante o alla ricerca di attenzione; era piuttosto timido, modesto, di buona cultura e interessato a tutto, e gli piaceva il teatro», ha detto Fox al «Daily Telegraph». Anche in seguito, dopo essersi messo in proprio, Fox aveva mantenuto rapporti con la star inglese. Nel 2016 Fox ha dichiarato a «Vogue»: «Ho sempre amato la sua musica ed ero in ammirazione dal suo talento, ma non mi sono mai sentito in soggezione. Durante la maggior parte di questi anni ci siamo visti raramente, ma è sempre stato un grande piacere quando è accaduto. Poi, quando David si è trasferito a New York, mi è capitato di vederlo piuttosto spesso». Dopo essersi imposto come impresario teatrale nel West End di Londra (allestendo fra le altre cose Another Country con Rupert Everett, Kenneth Branagh, Daniel Day-Lewis e Colin Firth) Fox ha infatti allargato le basi delle sue operazioni fino a Broadway, dove ha prodotto musical di successo quali Gipsy (diretto da Sam Mendes) e The Boy from Oz (con Hugh Jackman), ma anche pièce teatrali più di nicchia. E di recente è anche approdato a Hollywood, dove ha ricavato soddisfazioni e denari co-producendo The Hours, il film del 2002 diretto da Stephen Daldry con Meryl Streep, Julianne Moore e Nicole Kidman (Oscar come miglior attrice per la sua interpretazione di Virginia Woolf) basato sul romanzo di Michael Cunningham tradotto in italiano con il titolo Le ore. Sempre durante l’intervista del 2016 a «Vogue» Fox ha dichiarato: «Qualche volta [Bowie] veniva alle prime degli spettacoli teatrali pro-
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dotti da me. Una volta indimenticabile, alla prima di The Pillowman di Martin McDonagh, ha addirittura portato Lou Reed. Qualche volta siamo andati con i nostri bambini al circo a Natale. In altre occasioni gli ho proposto dei progetti su cui mi ha detto che avrebbe ragionato, ma che poi ha sempre declinato, con i suoi modi squisiti». E al «Daily Telegraph» Fox ha detto che a volte lui e Bowie si vedevano al Pain Quotidien, un caffè sulla Broadway tra la 21a e la 22a dove nessuno sembrava fare caso alla star: «Se non notavi che un occhio era di colore differente dall’altro, era solo una persona normalissima con una coppola in testa: abiti ordinari, tranquillo ed educato, si confondeva nella massa. A volte capitava che qualcuno si chiedesse se era davvero lui, ma non ci sono mai state le corse per avere il suo autografo, perché era chiaro che si trovava lì solo per bere una tazza di tè con un amico. Erano la sua modestia e la sua umiltà che trasparivano, piuttosto che il Dio del Rock». Fox ha due bambini piccoli della stessa età di Lexi, avuti dalla donna che ha sposato in terze nozze: Fiona Golfar, potentissima caporedattrice di «Vogue» per il Regno Unito. Fiona appartiene quindi al “mondo di Iman” allo stesso modo in cui il marito opera in un ambito vicino agli interessi di David. È quindi abbastanza naturale che i Fox siano diventati, in questo periodo, dei veri e propri amici di famiglia. Quella sera il Booth Theatre è affollato di celebrità: oltre ai Bowie e ai Reed (Lou e Laurie Anderson) ci sono Julian Moore, Maggie Gyllenhaal, Harvey Keitel e perfino due degli Abba, Benny Anderson e Bjorn Ulvaeus. Ma per Bowie è un’occasione più particolare del solito: è la prima volta che torna in quel teatro dopo aver interpretato John Merrick in The Elephant Man nel 1980. Alla fine dello spettacolo, a un reporter che glielo ricorda risponde: «È stata un’occasione meravigliosa per tornare qui. Che magnifica messa in scena! E sì, certamente c’è stata della nostalgia per me. Anche per via dell’odore del posto». Gli domandano se gli sia tornata la voglia di recitare a Broadway, e lui replica: «In effetti, mi è venuto in mente. Vedremo cosa porterà il futuro». E a chi gli chiede se abbia voglia di recitare in un musical, risponde: «Non dico nulla».
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la new york di bowie «Non riesco a immaginare di poter vivere altrove», ha detto David Bowie in un’intervista del 2003. «Ho vissuto a New York più a lungo di quanto non abbia vissuto da qualsiasi altra parte. È incredibile. Io sono un newyorkese». Ma come si svolgono le sue giornate in quel di Manhattan? Come passa il tempo? Bebe Buell, la groupie conosciuta da Bowie negli anni Settanta, ex compagna di Todd Rundgren, Elvis Costello e Steven Tyler e madre di Liv Tyler, ha detto a Dylan Jones: «Aveva i suoi rituali. Sapevano tutti che gli piaceva svegliarsi alle cinque del mattino e andare a camminare per Chinatown. Era la sua passeggiata mattutina. Voleva essere fuori e fare la sua passeggiata prima che le strade si affollassero di gente e potesse essere riconosciuto». A dieci minuti a piedi dal suo appartamento c’è uno dei luoghi che ama di più al mondo: il parco di Washington Square. In un articolo scritto nel 2003 per il «New York Magazine», Bowie l’ha definito “la storia emotiva di New York concentrata in pochi passi”. A volte fa colazione fuori: da Dean & DeLuca (560 Broadway), dove compra anche le groceries per la famiglia; al Caffè Reggio (119 Macdougal Street); o, proprio sotto casa, alla Bottega Falai (267 Lafayette Street), un caffè italiano dove è solito consumare un sandwich al prosciutto di Parma, un cappuccino e un “bombolone alla crema”, secondo quanto dichiarato dal proprietario Danilo Durante. Per un veloce spuntino c’è anche Olive’s (120 Prince Street), dove il suo ordine abituale è un sandwich di pollo con crescione e pomodori. Tra le sue destinazioni preferite figurano le librerie. Bowie adora passare del tempo da McNally Jackson Books (al 53 di Prince Street, proprio dietro casa) e allo Strand Bookstore (all’828 della Broadway), di cui ha detto: «È impossibile trovarci il libro che volevi, ma ci troverai sempre il libro che non sapevi di volere». Ogni tanto si avventura nel Greenwich Village alla ricerca di dischi, che solitamente acquista da Bleecker Bob (188 West Fourth Street), specializzato in vinili rari. E poi, naturalmente, un fanatico dell’arte come Bowie non può non frequentare le gallerie di SoHo, alla ricerca di qualche pezzo pregiato
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o comunque interessante da aggiungere alla vasta collezione privata che tiene in casa. Per non parlare dei fenomenali musei newyorkesi, come il MoMA, il Rubin Museum of Art e il Metropolitan, dove va ogni volta che c’è una mostra che gli interessa, quasi sempre in incognito. Bowie spesso – anzi, quasi tutti i giorni – visita gli uffici della Isolar su Lafayette Street, ma è probabile che la maggior parte del tempo la passi nel suo spazioso appartamento. Legge, ascolta musica, fa ginnastica, si nutre in maniera sana, e in generale cerca di ritrovare la buona salute di un tempo. Esce una, due, massimo tre sere a settimana, ma solo quando c’è qualche evento che lo intriga o un invito a cui non si può dire di no. La sua è una vita estremamente – e necessariamente – ordinata e organizzata: nulla a che vedere con il caos creativo in cui era immerso negli anni Settanta, Ottanta e anche Novanta.
tony visconti Nei primi mesi del 2005 Bowie si riaffaccia – non troppo convintamente, visti i risultati – in sala d’incisione. I Looking Glass Studios a NoHo, dove un anno e mezzo prima ha inciso REALITY, sono letteralmente a due passi da casa e il produttore è Tony Visconti, suo amico fraterno dal remoto 1968, quando Tony era da poco approdato a Londra dalla natia New York per lavorare con Denny Cordell e la Essex Music, la stessa società di edizioni presso cui era sotto contratto Bowie. Visconti produsse il suo secondo e terzo album, DAVID BOWIE nel 1969 (ma non Space Oddity, che non lo convinceva) e THE MAN WHO SOLD THE WORLD nel 1970, suonando anche il basso nel suo gruppo The Hype (e per qualche mese avevano perfino vissuto gomito a gomito nella stessa casa del quartiere di Beckenham). Poco dopo ci fu una prima netta separazione, dato che Visconti preferì concentrarsi su Marc Bolan e sui T. Rex che si apprestavano a dominare le classifiche, ma nel 1974 i due ripresero i rapporti: Bowie gli chiese prima di aiutarlo nel mix finale di DIAMOND DOGS, quindi lo fece volare fino a Philadelphia per produrre l’album che sarebbe diventato YOUNG AMERICANS. Proprio sul più bello, però, Bowie lo rimpiazzò con Harry Maslin lasciandolo non poco deluso, ma nel giro di un paio d’anni Visconti fu chia-
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mato a co-produrre i tre album indubbiamente più importanti di tutta la carriera della star inglese, LOW e “HEROES” (entrambi 1977) e LODGER (1979), la cosiddetta “trilogia berlinese”. Dopo SCARY MONSTERS (1980) Visconti venne nuovamente messo in stand-by a favore di altri produttori. Durante gli anni Ottanta e Novanta attraversò dei momenti “di bassa”: dopo aver prodotto VIVE LE ROCK di Adam Ant nel 1985 e diversi altri flop commerciali, si ritrovò sempre meno richiesto e fu costretto a lavorare con artisti bolliti (Moody Blues, The Alarm) e poco noti (Electric Angels, The Seahorses). Separato dalla moglie Mary Hopkin – da cui aveva avuto due figli, Jessica Lee e Morgan – si trasferì negli States e si risposò nel 1989 con May Pang (l’ex fidanzata di John Lennon durante il cosiddetto “weekend perduto” in cui aveva lasciato Yoko Ono) da cui ebbe un figlio (Sebastian) e una figlia (Lara). Ma anche questo matrimonio, nel 2000, si concluse in un divorzio. Come tante altre volte, era stato Bowie a risollevare il suo profilo professionale (e il suo conto in banca) richiamandolo al suo fianco nel 2001 per lavorare insieme, prima su HEATHEN (2002) e quindi su REALITY (2003). Lavorare con Tony, data la reciproca conoscenza ultraquarantennale, rappresenta una situazione quanto mai tranquilla e congeniale per un artista che verosimilmente non si sente ancora nel pieno delle sue forze. Il problema, semmai, è il brano che Bowie e Visconti si apprestano a incidere: (She Can) Do That, una canzoncina techno di una banalità sconcertante la cui versione grezza è stata impietosamente diffusa su YouTube nell’agosto 2016 da Kristeen Young, la terza persona presente in studio quel giorno, visto che i cori sono i suoi (la quarta persona è Mario McNulty, ingegnere del suono di fiducia di Tony). La Young, “protetta” (e qualcuno dice anche “partner nella vita”) di Visconti nei primi anni del nuovo millennio, era già apparsa su alcuni brani di HEATHEN e Bowie aveva ricambiato il favore prestando la sua voce al brano Saviour sull’album BREASTICLES (2003), prodotto dall’amico Tony. La versione di (She Can) Do That che verrà diffusa di lì a qualche mese sarà però, se possibile, ancora peggiore dell’originale. Per qualche motivo, infatti, il file Pro Tools viene trasferito al produttore/dj trance Brian Transeau, in arte BT, che mantiene unicamente la linea vocale di Bowie risuonandoci sopra. Il risultato è una
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dance-track tanto bombastica quanto anonima, che il 25 agosto 2005 troverà posto nella colonna sonora del film d’azione fantascientifico Stealth, con Jamie Foxx, dominata dal nu-metal degli Incubus (una delle eccezioni è la cover di Nights In White Satin dei Moody Blues cantata da una vecchia conoscenza bowiana dei tempi di STATION TO STATION, Glenn Hughes). Fortunatamente per Bowie, Stealth risulterà essere uno dei peggiori flop del 2005 al botteghino americano, e quello scempio che è (She Can) Do That passerà del tutto inosservato. Keep going Don’t stop now Keep going Drive onwards Keep going Take cover Keep going Be cool Do that, do that, do that Do that, do that, do that (She can do that) Continua Non fermarti adesso Continua Guida diritto Mettiti al riparo Continua ad andare Resta tranquillo Farlo, farlo, farlo Farlo, farlo, farlo (lei può farlo) Per quale motivo Bowie abbia inciso un pezzo così al di sotto dei suoi standard è a tutt’oggi un mistero. Forse per una sorta di do ut des legato alle aspirazioni cinematografiche di Duncan? O banalmente per soldi?
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Molto migliore è il suo successivo featuring, nato come un favore a Visconti. «Nel marzo 2005 sono andato a Copenaghen per co-produrre l’album dei Kashmir», ha raccontato in seguito il produttore. «Sono rimasto immediatamente colpito da The Cynic. Aveva l’atmosfera di una canzone di Kurt Cobain sotto l’influenza di Bowie. Quando abbiamo registrato il brano ho continuato a imitare David cantando la seconda strofa, e poi ci siamo messi a chiacchierare dicendo “Come se fosse lui!”, ma la fantasia ha cominciato a galoppare e alla fine ho mandato un’e-mail a David con un mp3 del pezzo. David l’ha ricevuta e ha risposto dicendo che lo poteva cantare». L’incisione della parte vocale di Bowie avviene ad aprile, sempre ai Looking Glass Studios, alla presenza dei due membri dei Kashmir, Kasper Eistrup e Mads Tunjeberg. I’ll make this week disappear Like I’ve erased several months It’s turning into a year now And I’m still a manikin You’re so poetic when you’re sad So tiring when you cry We could fly out and get married I think I love you now Play with me, play with me Don’t tell me how it feels Don’t let it be for real Don’t tell me how you feel Farò sparire questa settimana Come ho cancellato diversi mesi Sta diventando un anno adesso E io sono ancora un manichino Sei così poetica quando sei triste Così estenuante quando piangi Potremmo volare vai e sposarci Penso di amarti adesso
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Gioca con me, gioca con me Non dirmi che sensazione dà Non fare in modo che sia reale Non dirmi come ti senti Come correttamente indicato da Visconti, The Cynic è un brano chitarristico d’atmosfera con una linea vocale molto bowiana – periodo ‘HOURS…’ – in cui il contributo della star inglese si inserisce alla perfezione. Il quinto album dei Kashmir, NO BALANCE PALACE (al cui interno è incluso anche un featuring di Lou Reed, Black Building, in cui l’ex Velvet Underground recita un poema di Eistrup), uscirà il 10 ottobre senza però destare particolare interesse al di fuori della Danimarca e dell’Olanda. Nel gennaio 2006 The Cynic sarà pubblicato anche come singolo, accompagnato da un bel video stilizzato in cui, come descritto da Nicholas Pegg, «con indosso un lungo soprabito, uno smoking e una cravatta a farfalla, David appariva come un soave angelo della morte». Arriverà fino al numero due della classifica danese, ma si sentirà poco nel resto del mondo. Un vero peccato. Continua intanto la collaborazione tra Bowie e Visconti sulle ristampe del catalogo. Il produttore sta lavorando in questo periodo su un nuovo mix in suono surround 5.1 e stereo di YOUNG AMERICANS (1975). La Collectors Edition di YOUNG AMERICANS (con inediti e un Dvd allegato con i filmati dell’apparizione di Bowie al Dick Cavett Show nel 1975) sarà pubblicata nel marzo del 2006.
arcade fire Bowie scalpita per tornare a essere quello che era. L’11 marzo 2005 ricompare alla tv inglese in occasione del Red Nose Day di Comic Relief. Si tratta di un breve sketch girato qualche tempo prima come parte del “diario newyorkese” di Ricky Gervais. «L’aspetto comico della faccenda» scrive Nicholas Pegg sulla sua enciclopedia bowiana, «era rappresentato dal fatto che la voce sovreccitata di Gervais sovrastava qualunque cosa tentasse di dire Bowie».
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In quei giorni inizia a girare la voce che Bowie prenderà parte a Live 8, il seguito di Live Aid organizzato da Bob Geldof nei giorni in cui si terrà il G7 in Scozia. Secondo il Daily Record Bowie dovrebbe suonare il 2 luglio a Hyde Park insieme a Bruce Springsteen, Joss Stone, i Red Hot Chili Peppers ed Eminem. La notizia si rivela presto priva di fondamento. Vero invece è che Bowie ha prestato la sua voce per la fiaba animata Arthur e il popolo dei Minimei del regista francese Luc Besson. Il personaggio interpretato da Bowie è il malvagio Maltazard, con più di qualche richiamo al diabolico Jareth che aveva incarnato nel 1986 in Labyrinth (le voci degli altri Minimei sono di Madonna e Snoop Dogg). L’uscita del cartone di Besson è prevista per dicembre, a coincidere con la programmazione natalizia. E prosegue l’alternanza tra eventi legati alla moda e iniziative benefiche (da fare con Iman) e l’immersione nella scena rock newyorkese (in cui coinvolgere amici e collaboratori). La sera del 6 giugno Bowie e sua moglie prendono parte alla cerimonia di assegnazione dei premi del Cdfa (Council of Fashion Designers of America) alla Public Library di New York. Per l’occasione, a Bowie viene chiesto di sostituire John Galliano – infortunatosi a Parigi in settimana tagliandosi con dei vetri – che avrebbe dovuto consegnare alla modella Kate Moss un Award for Fashion Influence. Bowie naturalmente ottempera, tanto più che la Moss è una sua vecchia amica (nel 2001 hanno posato insieme per un celebre servizio fotografico) e che Iman è una delle presentatrici della serata. Tra gli invitati ci sono anche il cantante Seal con la moglie Heidi Klum, Liev Schreiber, Sean Combs e Catherine Deneuve. In quei giorni sia Bowie sia Iman partecipano all’iniziativa “Messages of Hope” dell’associazione benefica 21st Century Leaders, donando ciascuno una propria opera (un piatto di porcellana decorato con dei disegni): quella di Bowie si intitola Peace Thru Art, quella di sua moglie Peace Thru Tolerance. I piatti, e in seguito anche tazze da tè e bracciali con i medesimi disegni, saranno messi in vendita in edizione limitata e il ricavato sarà dato in beneficenza. Più in là, a ottobre, tutta la famiglia di Bowie partecipa a un’altra iniziativa benefica lanciata dalla Food Bank for New York City, dise-
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gnando e decorando dei cestini per il pranzo che vengono poi messi all’asta: il progetto si chiama appunto The Lunchbox Auction. Ma poi c’è il rock. Il 14 maggio Bowie è insieme a Coco Schwab tra gli spettatori del concerto di Sting, un suo buon amico, all’Irving Plaza. «Billboard» riporta che «Sting e la band di supporto, i Fiction Plane, hanno festeggiato la conclusione del tour fino alle prime luci dell’alba al club newyorkese Bungalow 8, insieme a sostenitori quali David Bowie, la regista/attrice Penny Marshall, la anchor di Today Katie Couric e il cantante dei B-52’s Fred Schneider». Una settimana dopo Bowie è al Madison Square Garden a vedere gli U2 insieme a un parterre di celebrità in cui compare la vecchia e la nuova guardia del rock. In rappresentanza della prima: Patti Smith, Phil Ramone, Steve Van Zandt, membri dei Depeche Mode, Mike D e Sean Combes. Per la seconda: The Scissor Sisters, Julian Casablancas degli Strokes e i Rapture. Il concerto è degno di nota perché a un certo punto, quando si rendono conto che Bowie è tra il pubblico, Bono & Co. si lanciano improvvisamente in una cover di The Jean Genie. Dallo smisurato Madison Square Garden al minuscolo Knitting Factory, un piccolo club in quel di TriBeCa: è lì che Bowie viene notato il 20 giugno alla serata Movable Hype 3.0, discretamente seduto al piano superiore con in testa un cappellino da baseball mentre applaude gli headliner Clap Your Hands Say Yeah, una giovane band di Brooklyn dallo stile che ricorda i Talking Heads e che finora ha pubblicato solo qualche mp3 su Internet. La presenza di Bowie, e la pubblicità che ne consegue, li aiuterà a trovare un contratto discografico. Lee Sargent, tastierista/chitarrista, ha in seguito ricordato di quella visita: «Ci ha completamente spiazzato. È stato così strano. È accaduto a uno dei nostri primi show importanti. Voglio dire, era la prima volta che non conoscevamo la maggior parte del pubblico. C’erano persone che non erano amici o conoscenti. Lui era nella guest list sotto un nome differente, e abbiamo scoperto qual era quando abbiamo iniziato a utilizzare alcuni nomi per far entrare i nostri amici. Il nostro manager ci ha detto che era importante che quel nome restasse nella lista. Prima che lo show cominciasse, qualcuno ci ha detto chi era la persona sotto falso nome. Però non siamo riusciti a incontrarlo. Era nella balconata quando abbiamo iniziato a suonare e se n’è andato alla fine del nostro set».
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Possibile che Bowie inizi a provare un senso di frustrazione nell’essere passato dal ruolo di protagonista a quello di mero spettatore? Il 12 luglio 2005 viene pubblicata la colonna sonora di Stealth contenente (She Can) Do That, che lascia tutti assai delusi. E due settimane dopo, il 27 luglio, giunge l’annuncio che in molti stavano aspettando: Bowie sarà uno degli artisti in scaletta al concerto Fashion Rocks al Radio City Music Hall, evento inaugurale della Settimana Autunnale della Moda di New York sponsorizzato da Condè Nast, che si terrà l’8 settembre 2005 e sarà trasmesso in differita il giorno dopo sulla Cbs. Tra gli altri artisti presenti: Destiny’s Child, Duran Duran, Gwen Stefani, Nelly, Tim McGraw, Alicia Keys, Rob Thomas, Shakira, Joss Stone, Billy Idol e, last but not least, la nuova sensazione dell’indie-rock Arcade Fire. In cosa consisterà la performance di Bowie ancora non si sa, ma il mistero dura poco: il 30 agosto filtra infatti che Bowie si esibirà proprio insieme agli Arcade Fire, e che due delle canzoni previste sono Five Years da ZIGGY STARDUST e Wake Up dall’album d’esordio del collettivo di Montreal. Owen Pallett, polistrumentista degli Arcade Fire, ha raccontato a Dylan Jones: «Nel 2005 ha invitato gli Arcade Fire a suonare degli show con lui, e poi ha offerto di portare la band fuori a cena. La maggior parte dei membri della band avevano altri piani, così eravamo io, Patrick [Borjal], Win [Butler], Regine [Chassagne], Will [Butler] e Jenny [la ragazza di Will] a cena in un posto su Avenue A con Bowie e Coco. Io e Patrick eravamo seduti di fronte a Bowie, e io e Bowie ci siamo capiti all’istante follemente, e ci siamo messi a parlare di Mishima (Bowie era a Tokyo quando Mishima è morto) e dei This Heat e di tutto questo genere di cose. Anche Patrick si è inteso con Bowie, e hanno parlato principalmente di moda e di design dei mobili. Abbiamo parlato del suo vizio per le sigarette (mi ha detto che aveva smesso circa un anno prima di avere l’infarto). Aveva addosso la colonia Creed Silver Water Mountain. Che è meravigliosa ma è un po’ esibizionistica per tutti, ma non per Bowie che è l’unico che se la poteva permettere. Bowie ha bevuto succo di melograno, che era la grande novità del 2005, ed era lietissimo quando gli hanno portato una bottiglia di Pom. Ogni storia che ho sentito riguardo a “incontrare Bowie” indica che quest’uomo era davvero bravo a incontrare le
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persone e a farle sentire come se valessero un milione di dollari, ma non ci sono parole per descrivere la sua totale generosità di spirito, la sua intelligenza e il suo carisma. Comunque, il giorno dopo eravamo tutti alle prove, e Bowie mi ha visto, mi ha salutato, si è guardato intorno e ha detto: “Dov’è Patrick?”. Patrick era tornato a Toronto. Quando ho chiamato Patrick durante il break, Bowie mi ha battuto sulla spalla e ha detto: “Stai parlando con Patrick? Posso salutarlo?”, e gli ho passato il telefono. Patrick ha parlato con Bowie per un po’ e quando hanno attaccato si è girato verso i suoi colleghi e ha detto: “Era David Bowie. Voleva solo sapere come stavo”». Assolutamente inatteso è il look che Bowie sceglie per la sua rentrée: completo grigio con i pantaloni di due o tre taglie più corti della sua, una benda bianca alla mano sinistra e l’occhio destro apparentemente tumefatto, ma in realtà truccato. Cosa vuole dimostrare con questo ennesimo travestimento? La sua solidarietà per quanti hanno perso casa, possedimenti e in alcuni casi anche parenti a seguito dell’uragano Katrina, che alla fine di agosto si è abbattuto sulla Costa del Golfo degli Stati Uniti (e a cui ora il concerto Fashion Rocks è dedicato, essendo diventato una serata di raccolta fondi per beneficenza)? O si tratta di un messaggio di carattere più personale, per comunicare che non è ancora perfettamente guarito, come a dire che il destino gli ha rifilato una gragnuola di colpi e lui si sente ancora convalescente? Comunque sia, è così che lo rivede il pubblico del Radio City Music Hall e, il giorno dopo, quello sintonizzato sulla Cbs, quando, dopo essere stato annunciato da una sensuale Alicia Keys, prende posto a centro palco e accompagnato al piano dal fido Mike Garson intona una Life on Mars? di livello almeno pari a quella del Reality Tour. Dopo un breve intervallo Bowie torna in scena – annunciato stavolta da Lisa Marie Presley – insieme agli Arcade Fire per la prevista Five Years, che canta accompagnandosi con una dodici corde acustica. Adesso è al naturale, senza benda e trucco, e indossa un abito su misura completo di gilet. Facendo un raffronto con le immagini del Reality Tour, è evidente che esteticamente qualcosa è cambiato: oltre ad avere qualche chilo in più, è la prima volta che Bowie appare in pubblico effettivamente invecchiato. In questo momento, i suoi 58 anni vissuti pericolosamente li dimostra tutti. La seconda canzone in program-
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ma con gli Arcade Fire è Wake Up, di cui Bowie canta i primi versi: parole molto in linea con quelle di HEATHEN e degli ancora di là da venire THE NEXT DAY e BLACKSTAR, che interpreta con enfasi e trasporto. Somethin’ filled up My heart with nothin’ Someone told me not to cry Now that I’m older My heart’s colder And I can see that it’s a lie. […] With my lightnin’ bolts a glowin’ I can see where I am goin’ to be When the reaper he reaches and touches my hand Qualcosa ha riempito Il mio cuore di nulla Qualcuno mi ha detto di non piangere Ora che sono più vecchio Il mio cuore è più freddo E posso capire che si tratta di una bugia […] Con il mio fulmine che risplende Posso vedere dove sarò Quando il mietitore raggiungerà e toccherà la mia mano Al termine dello spettacolo Bowie si trattiene a parlare con dei giornalisti, che il giorno dopo riportano le sue parole: «È fantastico essere di nuovo qui. Mi sono goduto ogni attimo che ho passato sul palco. Non volevo più scendere, sarei rimasto lì tutta la notte». A chi gli chiede del suo stato di salute, risponde: «Dopo che ho avuto quell’attacco di cuore, ho deciso di concedermi un anno di pausa e di non fare niente. Non ho fatto nessun lavoro e mi sono preoccupato solo di stare bene. Faccio ginnastica, non bevo e adesso mi sento veramente bene. Avevo smesso di fumare sei mesi prima dell’attacco, quindi non è quella la causa! Ho cominciato a smettere quando è nata mia figlia
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perché non volevo fumare in casa con lei presente e quindi dovevo andare fuori. D’inverno a New York fa un freddo cane, perciò ho smesso. Per quanto posso giudicare, adesso faccio una vita sana, quindi il fatto di avere un attacco di cuore è stato un bello shock, ma dopo questa serata mi sento sul tetto del mondo». Un paio di mesi dopo, le tre canzoni eseguite l’8 settembre verranno inserite nel “Live E.P.” di Arcade Fire & David Bowie LIVE AT FASHION ROCKS, distribuito via iTunes con tutti i proventi destinati alle vittime dell’uragano Katrina. Benché non sia mai apparso alcun Cd o Lp “fisico”, LIVE AT FASHION ROCKS è da considerare a tutti gli effetti una nuova aggiunta alla discografia bowiana, a distanza di due anni quasi esatti da REALITY. Sembrerebbe quindi di essere alla vigilia del tanto atteso comeback, anche perché una settimana dopo, il 15 settembre, Bowie si unisce nuovamente agli Arcade Fire durante il loro concerto a Central Park per la rassegna SummerStage. Sale sul palco per i bis, vestito con un completo chiaro coloniale e con un panama in testa (un look che ricorda quello del Serious Moonlight Tour del 1983) e insieme alla band canadese intona prima Queen Bitch – la sua canzone più newyorkese – per poi chiudere il concerto nuovamente con l’inno corale Wake Up. Qualche giorno dopo esce nelle edicole un supplemento a colori della rivista Lucky dedicato a Fashion Rocks che contiene quella che resterà nella storia come “l’ultima intervista di David Bowie” (in realtà non è proprio così, ma si tratta in effetti dell’ultima volta che un giornale pubblicherà un Q&A dettagliato con la star inglese). L’intervista gliel’ha fatta un mesetto prima il freelance David Itzkoff per telefono, mentre Bowie si trovava in vacanza con la famiglia nella sua casa nelle Catskill, e contiene diversi elementi interessanti. Tanto per cominciare, quando Itzkoff propone di parlare del mix tra moda e musica nella sua carriera, Bowie risponde istintivamente: «Non sono molto bravo in queste cose. Parliamo delle nuove band». Riluttante, accetta di soffermarsi su questioni di fashion (rivelando che negli ultimi tempi indossa essenzialmente abiti disegnati da Hedi Slimane, che lavora per il gruppo Dior), ma presto riesce a spostare la conversazione su ciò che più gli interessa.
1. HERE I AM, NOT QUITE DYING (2004-2007) ITZKOFF: C’è qualche band che secondo te sta portando avanti l’elemen-
to teatrale che era parte di quello che facevi tu?
BOWIE: Gli Arcade Fire possiedono un’attitudine teatrale molto forte,
in quello che fanno c’è un tipo di feeling casinaro da college, e possiedono anche un sacco di entusiasmo. Ma nonostante tutto il loro show è teatrale perché non cambia molto da sera a sera. Li ho visti molte volte e li amo tantissimo. Penso che siano esaltanti.
ITZKOFF: Ce ne sono altre?
BOWIE: Anche i Secret Machines, ma in un modo differente. Sono quasi invisibili sul palco. L’illuminazione è dietro di loro, di modo che si vedono solo tre silhouette scure. Ma la potenza della loro musica e della loro presenza invisibile è fantastica. Una terza band potrebbero essere i TV on the Radio. ITZKOFF: Come fai a restare aggiornato su tutta questa musica?
BOWIE: Be’, fortunatamente, non sto lavorando [ride]. Mi sto riposando. Esco parecchio. Sono molto newyorkese e vado in giro per New York. È un posto che adoro. E mi piace andare a vedere le novità in teatro. Mi piace vedere le nuove band e le nuove mostre, tutto quanto. Vado un po’ dappertutto, in maniera molto discreta e mai al di sopra della 14a. Sono molto downtown.
tv on the radio «Mi piace vedere le nuove band e le nuove mostre, tutto quanto». Ed è quello che Bowie continua a fare anche nei mesi successivi. Il 13 ottobre 2005 è alla Carnegie Hall insieme a Lou Reed (e a Laurie Anderson e Bette Midler) per assistere al concerto di Antony Hegarty – una scoperta di Reed, che nel 2003 gli aveva fatto cantare Perfect Day su THE RAVEN e che in seguito l’avrebbe portato in tour con sé – reduce con i suoi Johnsons dal successo al Mercury Prize dell’album d’esordio I AM A BIRD NOW. E il 17 ottobre nuova puntata concertistica al Madison Square Garden, dove suonano i suoi pupilli, gli scozzesi Franz Ferdinand, supportati dai brooklyniani TV on the Radio. A fi-
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ne concerto Bowie fa capolino nel backstage, dove viene fotografato in compagnia di Karen O, la cantante degli Yeah Yeah Yeahs, e dei TV on the Radio. È in questi giorni, verosimilmente, che Bowie si sposta – come eccezione alla regola – fuori da Manhattan per recarsi a Williamsburg (Brooklyn) agli studi Stay Gold di proprietà di Dave Sitek dei TV on the Radio e aggiungere la propria voce a un pezzo del gruppo intitolato Province. Secondo quanto racconterà in seguito Tunde Adebimpe, cantante della band, il coinvolgimento di Bowie era scattato nel 2003 in maniera del tutto casuale: «David Sitek e io stavamo vendendo quadri a SoHo ed è capitato che ne abbiamo dato uno a un tizio che poi si è rivelato essere il portiere di casa di Bowie. Dave ha dato qualche nostro pezzo musicale a quel tipo e gli ha lasciato il numero di telefono. Qualche settimana dopo, Bowie ha chiamato Dave chiedendogli di sentire qualcosa del nostro nuovo materiale». Nel corso del tempo Bowie ha più volte reclamizzato la band sul suo sito web, elogiando le qualità del primo Ep, YOUNG LIARS, e dell’album d’esordio DESPERATE YOUTH, BLOOD THIRSTY BABES. Durante l’estate 2005, mentre i TV on the Radio sono al lavoro sul secondo disco, RETURN TO COOKIE MOUNTAIN, Bowie si offre di dar loro una mano. «Gli ho detto, “Se vuoi venire in studio ed essere il boss assoluto, puoi assolutamente farlo”», ha riferito Sitek a Tiny Mix Tapes nel 2008. «Gli ho dato i demo delle canzoni, e Province è quella che l’ha colpito, nel senso che era una canzone rilevante per i nostri tempi, e ciò che il mondo aveva bisogno di ascoltare. Voleva fare quella. Ed è semplicemente apparso nel mio studio e l’ha fatta. È una persona spettacolare». Il chitarrista dei TV on the Radio, Kyp Malone, ha in seguito aggiunto: «Mi sembrava di vivere una situazione surreale, non mi sarei mai aspettato di stare seduto alla console a chiedere a David Bowie di pronunciare una consonante». Pur non essendo un hit della caratura di Wolf Like Me – il pezzo portante di RETURN TO COOKIE MOUNTAIN, quello che darà un certo grado di successo ai TV on the Radio – Province è ugualmente una buona scelta, un brano melodrammatico con un testo che in teoria è un commento sulla vita post-11 settembre, ma che può anche essere interpretato in maniera differente da una persona che ha appena avuto un infarto.
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Suddenly, all your history’s ablaze Try to breathe, as the world disintegrates Just like autumn leaves, we’re in for change Holding tenderly to what remains […] Hold your heart courageously As we walk into this dark place Stand steadfast erect and see That love is the province of the brave All’improvviso, tutta la tua storia è in fiamme Cerchi di respirare mentre il mondo si disintegra Come le foglie in autunno, siamo preda del cambiamento Aggrappati con tenerezza a ciò che rimane […] Sostieni il tuo cuore valorosamente Mentre camminiamo dentro questo luogo oscuro Resta saldamente eretto e comprendi Che l’amore è l’ambito dei coraggiosi
scott walker A fine ottobre viene reso noto che David Bowie sarà uno dei produttori esecutivi del documentario musicale dal titolo 30th Century Man: The Music of Scott Walker diretto da Stephen Kijak. L’americano Noel Scott Engel, in arte Scott Walker, espatriato a Londra nei Sessanta e diventato una popstar con il trio dei Walker Brothers, è una delle figure che più profondamente hanno influenzato Bowie. «A metà degli anni Sessanta», ha raccontato, «avevo una relazione intermittente con una meravigliosa cantante e autrice [Lesley Duncan, N.d.A.] che era stata, probabilmente, la ragazza di Scott Walker. Con molto dispiacere da parte mia, la musica di Walker suonava notte e giorno nel suo appartamento. Sfortunatamente ho perso ogni contatto con lei, ma ho inaspettatamente mantenuto amore e ammirazione sincera per il lavoro di Walker. Uno degli autori di cui Walker ha inciso alcune co-
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ver è Jacques Brel». Negli anni Settanta, con gli Spiders, Bowie ha spesso eseguito Amsterdam e My Death di Brel ispirandosi alla versione di Scott Walker. E alla fine del decennio lui e Brian Eno sono rimasti profondamente colpiti dall’album in parte sperimentale NITE FLIGHTS dei Walker Brothers. Bowie ha anche realizzato una cover della title track per l’album BLACK TIE WHITE NOISE del 1992. In seguito Bowie ha assai apprezzato la svolta avant-garde e cinematica di Walker, che nel 1995 ha dato luogo a un’opera tanto ostica quanto geniale, TILT: «Trovo che sia un disco sensazionale, e anche molto coraggioso. Ho un sacco di rispetto per la sua integrità. È sincero con se stesso, mentre tanti altri artisti tradiscono loro stessi. Lui lavora davvero senza fare compromessi, e ci sono pochi artisti così». Nel corso degli anni Scott Walker è sempre stato per Bowie un modello da cui prendere spunto per cercare, eventualmente, di superarlo. C’è molto di Walker nelle ballad orchestrali cantate con voce da crooner quali Rock’n’Roll Suicide e Word on a Wing, come anche nella cupa e jazzata sperimentazione di The Motel su 1.OUTSIDE. E un altro aspetto che presumibilmente intriga Bowie è il problematico rapporto di Walker con la fama. Già alla fine degli anni Sessanta, ossia nel suo massimo momento di gloria, Walker era capace di scomparire per delle settimane. Una volta, nel 1968, si rifugiò al monastero di Quarr, sull’Isola di Wight, per studiare i canti gregoriani. Non proprio la più classica delle popstar, insomma. Nel 1969, dopo il flop del suo quarto album, SCOTT 4, Walker entrò in depressione e pensò perfino di suicidarsi. «Ero un giovanotto molto intenso» si è giustificato in seguito con un certo understatement. Ma fu nel 1984, dopo un altro fiasco commerciale, quello dell’album CLIMATE OF HUNTER (che comincia con il verso “this is how you disappear”), che Walker sparì per davvero dalla circolazione. Per dieci anni di lui si seppe pochissimo, e iniziarono a diffondersi le voci più strane. «È malato; se ne sta seduto in un pub a Vauxhall a guardare la gente che gioca a freccette; ha chiuso con la musica; è completamente esaurito. Il Sunday People ha anche offerto una ricompensa per gli avvistamenti di Walker, come se fosse uno Yeti», ha scritto il sito Pushing Ahead of the Dame. A partire dal 1995, l’artista che qualcuno ha definito il “Salinger del pop” e che non si esibisce dal vivo dal remoto 1978, è tornato a farsi vedere in giro,
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ma continua a essere una presenza molto defilata. «Non sono un recluso», ha detto a Sean O’Hagan del «Guardian» in una rara intervista promozionale. «Ho amici e vado fuori a cena. Mi piace la gente, ma qualche volta non vedo l’ora di mollare tutti e starmene nuovamente per conto mio. Sono un solitario, però. Devo esserlo, per il mio lavoro». Della sua vita personale si sa poco, solo che abita a Londra dalle parti di Holland Park, che è in una relazione da molti anni e che ha una figlia e una nipote che abitano a Copenaghen, dove lui stesso ha vissuto per qualche tempo. Negli ultimi anni Walker, tuttavia, risulta meno introvabile che in precedenza: nel 1998 ha composto la colonna sonora del film di Leos Carax Pola X, e l’anno dopo ha scritto e prodotto due brani per la cantante tedesca Ute Lemper. Nel 2000 ha accettato il ruolo di curatore del Meltdown Festival a Londra – dove non si è ovviamente esibito ma ha chiesto di suonare a Blur, Radiohead e Smog – e ha prodotto l’ultimo album dei Pulp, WE LOVE LIFE. E nell’ottobre 2003 ha fatto un’apparizione ai Q Awards, dove Jarvis Cocker gli ha consegnato un premio alla carriera. E tra il 2005 e il 2006 accetta di farsi intervistare da Stephen Kijak per 30th Century Man, dandogli anche libero accesso ai Metropolis Studios di Chiswick e agli AIR di Hampstead per le session del nuovo album che sta registrando, THE DRIFT. Tra gli altri intervistati, nel documentario che racconta la vita e la carriera del “più famoso recluso della scena musicale” (fino a quel momento) figurano i Radiohead, Jarvis Cocker, Brian Eno, Damon Albarn, Alison Goldfrapp, Sting, Johnny Marr, Gavin Friday e, naturalmente, anche il “produttore esecutivo” David Bowie, in un segmento girato presumibilmente negli uffici della Isolar a Lafayette Street.
“this is new york calling” RETURN TO COOKIE MOUNTAIN dei TV on the Radio esce nel luglio del 2006, come anche 30th Century Man: The Music of Scott Walker, la cui première si tiene il 31 ottobre 2006 al London Film Festival. Nel frattempo, il 16 novembre 2005, Bowie è tra il pubblico della Bowery Bal-
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lroom per la prima newyorkese degli Arctic Monkeys, band di Sheffield di cui si dice un gran bene in procinto di pubblicare il primo album WHATEVER PEOPLE SAY I AM, THAT’S WHAT I’M NOT. Tempo dopo, il sito web bowiano Cracked Actor riporta che «gli Arctic Monkeys hanno chiesto a un anonimo signore di mezz’età di alzarsi da un posto che era riservato ai membri familiari della band. L’uomo si è educatamente alzato ed è andato verso il retro della sala per guardare lo spettacolo. Nessuno dei membri della band si è reso conto che si trattava di Bowie finché il padre del bassista dei Monkeys non si è messo a indicarlo. Da vero gentleman, Bowie è andato a trovare la band dopo il termine dello show e ha detto loro che il concerto gli era piaciuto». Impressione positiva poi confermata dallo stesso Bowie, che il giorno dopo scrive sul su BowieNet: «Ho fatto un salto per vedere gli Arctic Monkeys alla Bowery Ballroom mercoledì sera. Avevano delle buone canzoni, un gran batterista e in generale hanno rockato alla grande. Un’ottima, solida band Brit. Dal punto di vista della personalità mi hanno fatto pensare a dei giovani Action (se qualcuno se li ricorda). La grande notizia questa settimana è che i Secret Machines hanno finito il loro nuovo album e io spero di ottenerne una copia a breve. Sono forse la mia band per il 2006. L’avete letto la prima volta qui, cari miei. Suoneranno alla Webster Hall il primo dicembre. Be there or be square. L’ultimo consiglio su band della serata è per gli Animal Collective (brillanti), anche loro alla Webster Hall domenica prossima. Questa è New York che chiama». Il 20 novembre Bowie viene difatti avvistato insieme a Coco Schwab nell’area vip della Webster Hall, dove suonano gli Animal Collective, quartetto della Pennsylvania che un mese prima ha dato alle stampe il sesto album, FEELS. Lo show delude forse le sue aspettative, perché Bowie e Coco resistono non più di venti minuti, dopodiché si alzano e se ne vanno. Alla Webster Hall Bowie ritorna il primo dicembre per il concerto benefico dei texani Secret Machines, e questa volta pare divertirsi un mondo, dato che si mette a fare headbanging nell’area vip, secondo alcuni presenti. E sempre in quei giorni Bowie gira un video di trenta secondi per uno spot pubblicitario dell’emittente XM Satellite Radio. Lo spot, intitolato Lost, come descritto da Nicholas Pegg, «mostra Snoop Dogg
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alla ricerca della collana che ha smarrito; incontra l’attrice comica Ellen DeGenres, la cantante country Martina McBride e la superstar del baseball Derek Jeter, finché la storia raggiunge il culmine quando scopre che la collana è stata “presa in prestito” da un David Bowie manolesta, che viene inquadrato davanti a una console di mixaggio mentre in sottofondo si sente la sua canzone DJ». Nel mezzo, come di consueto, qualche serata mondana a braccetto della moglie. Il 18 ottobre i due sono da Cipriani sulla 23a all’esclusivissimo party organizzato in occasione del lancio del libro di Iman The Beauty of Color: The Ultimate Beauty Guide for Skin of Color, insieme a una pletora di celebrità tra cui Naomi Campbell, Jermaine Dupri, Wesley Snipes, Avril Lavigne e la regista Penny Marshall. Il primo dicembre Bowie (con un’orribile cravatta arcobaleno) e Iman sono al Broadway Theatre sulla 53a per la première del musical tratto da The Color Purple (“Il colore viola”) diretto da Gary Griffin, prodotto da Scott Sanders, Quincy Jones e Oprah Winfrey. Anche quella sera il parterre è ricco di celebrità. Oltre a due vecchie conoscenze di Bowie, Tina Turner e Toni Basil, ci sono anche Stevie Wonder, Sidney Poitier, Naomi Campbell, Isaac Hayes, Sean Combs, Chris Rock, Jamie Foxx, Spike Lee e perfino il futuro presidente degli Stati Uniti Donald Trump. La sera dopo la coppia è tra gli invitati al party a sorpresa per il sessantesimo compleanno di Bette Midler al centro ebraico Angel Orensanz sulla Bowery. E un’altra festa vip attende i Bowie nel nuovo anno: il 7 gennaio 2006 David e Iman sono invitati al ristorante Le Bernardin (sulla 51a Ovest) per il party di compleanno del fondatore ed editore di «Rolling Stone» Jan Wenner, insieme a personalità dello spettacolo (Yoko Ono, Bruce Springsteen, John Mellencamp, Bette Midler, Robin Williams, Richard Gere, Robbie Robertson, Michael Douglas, Ahmet Ertegun) e della politica (John Kerry, Caroline Kennedy, Al Gore). A un certo punto della serata il Maestro di Cerimonie, Peter Wolf, lancia una jam session a cui – sembra – prendono parte Midler, Mellencamp, Springsteen (che ha scritto un pezzo per appositamente per l’occasione) e – si legge su alcuni reportage – lo stesso David Bowie. Purtroppo, a oggi non si è mai saputo che canzone (o, eventualmente, canzoni) Bowie si sia prestato a cantare quella sera.
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Sono mesi, questi, in cui Bowie approfitta per rinfrescare la sua amicizia con Lou Reed, che da qualche anno è diventato un suo vicino di casa: l’ex Velvet Underground abita infatti in un attico al West Village, sull’11a strada, a non più di venti minuti a piedi da Lafayette Street. Da anni Lou Reed non è più il rock’n’roll animal dei tempi che furono, capace di portare Bowie sull’orlo della disperazione prima, durante e dopo le registrazioni di TRANSFORMER (1972). Si può dire infatti che Lou abbia messo la testa a posto: ha smesso da tempo con le droghe, convive con l’artista Laurie Anderson, che a breve sposerà, e il loro adorato cagnolino Mirabelle, e per tenersi in forma si dedica a sessioni quotidiane di Tai Chi. Il Lou Reed di questi anni sembra una persona serena, finalmente in pace con se stesso. Anche sul piano artistico non sembra avere più nulla da dimostrare: ogni anno si imbarca in tour mondiali non molto lunghi con una band ormai rodata in cui ripropone le canzoni del suo catalogo, ma l’ultimo disco di studio rimane THE RAVEN che risale al 2003 (e in cui Bowie appare in una canzone, Hop Frog). Di questi tempi, Reed sembra preferire guardarsi indietro. Ha appena pubblicato l’ennesimo album dal vivo, ANIMAL SERENADE, che documenta la sua tournée del 2003, e il suo prossimo progetto è il remake del suo capolavoro incompreso del 1973, BERLIN, che riproporrà integralmente nel corso di tre concerti alla St Ann’s Warehouse di Brooklyn tra il 14 e il 16 dicembre 2006. Di recente, poi, si è anche dato alla fotografia. Il 19 gennaio 2006 viene inaugurata la sua mostra fotografica dal titolo Lou Reed: New York alla Gallery at Hermes su Madison Avenue all’altezza della 62a, e Bowie naturalmente non può mancare al vernissage, a cui sono presenti anche Laurie Anderson, Julian Schnabel e Moby. È possibile che David veda Lou come una sorta di fratello maggiore (ha cinque anni più di lui). È d’altronde uno dei pochissimi “pari” del mondo musicale che abbia avuto le stesse esperienze e con cui si può confrontare. Anche se in passato hanno avuto dei diverbi, durante questi anni newyorkesi i due sembrano essere (ri)diventati grandi amici, tanto che il 26 gennaio se ne vanno insieme alla Town Hall per vedere un concerto da solista di Colin Meloy, leader dei Decemberists, che ha appena pubblicato un Ep di cover di Morrissey (COLIN MELOY SINGS MORRISSEY). E il 30 gennaio Bowie viene notato nell’area
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vip della Bowery Ballroom mentre assiste all’esibizione dei Deerhoof, formazione indie di San Francisco. Fin qui, a ogni modo, tutto normale: Bowie si sta divertendo a fare – in maniera più intensiva del solito, dato tutto il tempo libero che ha improvvisamente a disposizione – quello che in definitiva ha sempre fatto, immergendosi nella scena rock contemporanea del decennio secondo i trend dettati da riviste inglesi come «Mojo» e «Uncut» e dall’emergente webzine «Pitchfork». Più sorprendente la sua scelta del 20 febbraio, quando va al Rose Theater presso il Lincoln Center per vedere la prima di La Passione secondo San Marco, un lavoro di musica classica contemporanea composto nel 2000 dall’argentino Osvaldo Godijov, con Robert Spano direttore d’orchestra: una produzione imponente, con un coro di 54 voci e una vasta sezione di strumenti percussivi. Musica “classica” solo in teoria, perché si tratta in verità di una composizione molto innovativa che contiene anche elementi ritmici e vocali di origine latina e africana. In definitiva, un lavoro al di fuori da qualsiasi schema, proprio come piace a Bowie. E sembra falsa ma è invece verissima la notizia che si diffonde a fine marzo: Sting e Bowie sono in trattative con Ivan Kane, proprietario dei celebri club burlesque Forty Deuce a Los Angeles e Las Vegas, per aprire un nuovo locale in partnership a New York, probabilmente nella zona di Chelsea: i tre sono al momento alla ricerca della location adatta. Sting, rivela il «Daily Mail», è un appassionato di strip club, ed è stato probabilmente lui a proporre l’affare al collega. Sting peraltro non è nuovo ad avventure del genere: lui e sua moglie Trudi Styler hanno già delle quote nel Socialista, un bar trendy nel West Village ispirato alla rivoluzione cubana. Dal canto suo, invece, Bowie è più probabile che veda il Forty Deuce come un buon investimento e nulla più. Oltre che, magari, come un modo per fare un favore a un amico che potrebbe tornargli utile nel breve o medio termine.
the prestige L’8 febbraio 2006, alla cerimonia annuale dei Grammy a Los Angeles, dove gli viene conferito il Lifetime Achievent Award – in parole pove-
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re, un premio alla carriera – Bowie risulta assente. Eppure in quel periodo è a Los Angeles per girare le sue scene nel primo film in cui ha accettato di prendere parte dai tempi di Zoolander (2001): The Prestige di Christopher Nolan. Nella pellicola, tratta dal romanzo di Christopher Guest, che ha come protagonisti Christian Bale e Hugh Jackman, Bowie interpreta il ruolo di Nikola Tesla, il leggendario scienziato/inventore serbo che nell’Ottocento gettò le basi del moderno sistema elettrico a corrente alternata e si dice abbia avuto capacità mentali quasi sovrumane, come quella di progettare complesse macchine elettriche. Nolan ha raccontato a Dylan Jones di aver dovuto faticare alquanto per convincere Bowie ad accettare la parte (in cui lui vedeva delle similitudini con il personaggio di Thomas Jerome Newton in L’uomo che cadde sulla Terra): «È stata l’unica volta che mi ricordo di averci dovuto riprovare con un attore che aveva rifiutato. In totale onestà, gli ho detto che se non accettava di recitare la parte, non avevo idea di dove potermi rivolgere. L’ho dovuto implorare». Ancora, in altre interviste, il regista ha detto: «Sono stato un suo grande fan fin da quando ero un bambino, e per interpretare Tesla, che ha una parte piccola ma fondamentale, avevo bisogno di qualcuno in grado di comunicare immediatamente quella sorta di qualità soprannaturale e di straordinario carisma. Ero convinto che qualsiasi star del cinema l’avrebbe interpretato nel modo sbagliato, mentre il carisma di Bowie deriva da un luogo diverso, un po’ anticonvenzionale, per essere precisi. Ero affascinato dall’idea, quindi ero eccitato dal fatto di averlo. Lavorare con lui è stato fantastico». In seguito le sue scene, girate faccia a faccia con Hugh Jackman, saranno lodate dalla critica. Quella di Nikola Tesla resterà l’ultima interpretazione attoriale importante di David Bowie.
«new york metro» A questo punto, Bowie scompare dalle rotte per un paio di mesi. E più che di lui, si parla di suo figlio Duncan e dei suoi successi nel mondo dell’advertising. Sta facendo rumore, infatti, l’ultimo spot che ha girato, dal titolo Fashion Vs. Style, per la catena d’abbigliamento French
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Connection, in cui due stuntwomen (che rappresentano “la moda” e “lo stile”) si affrontano in un combattimento e alla fine – colpo di scena – si baciano brevemente. In un’intervista all’«Independent», Duncan dice che gli piacerebbe lavorare per il nuovo cliente della Bmb, la Carling, e rivela che ha iniziato a scrivere un film di fantascienza. Quanto a Bowie, che da un po’ non rilascia interviste, ha deciso di passare dall’altra parte della barricata e di indossare i panni dell’intervistatore. A rispondere alle sue domande è una delle sue band preferite, i Secret Machines, per un podcast che viene caricato sul sito DavidBowie.com. Per l’emergente band newyorkese, che sta per pubblicare il secondo album, TEN SILVER DROPS, l’endorsement di Bowie è una spinta promozionale decisamente non da poco. In quei giorni il cantante Brandon Curtis dice all’«Irish Examiner»: «Sei in una band, e questo artista che ha avuto un enorme impatto impiega il suo tempo a dire che gli piacciamo abbastanza per intervistarci; è un grande onore. E accresce il nostro livello di fama, tipo “Questi tizi conoscono David Bowie!”». Bowie riappare in pubblico il 20 aprile quando, come da tradizione annuale, presenzia insieme a Iman al party organizzato alla State Supreme Courthouse da «Vanity Fair» per la quinta edizione del Tribeca Film Festival, creatura di Robert De Niro. Oltre ai Bowie e a De Niro e sua moglie Grace Hightower, tra gli invitati figurano Ed Burns e Christy Turlington, John McEnroe e Patty Smyth, Willem Dafoe, Jeff Goldblum, Jerry Seinfeld e Walter Cronkite. Al solito, nelle foto scattate durante il party, Iman appare in formissima. Bowie, non tanto. Un po’ gonfio in viso, due anni dopo la prematura fine del Reality Tour sembra quasi un’altra persona. Durante il party conversa con un reporter, e qualche giorno dopo le sue dichiarazioni vengono riprese dal giornale gratuito ««New York Metro»». A quanto pare vuole prendersi “una pausa di un anno”, come titola il giornale: «Non sopporto più l’industria discografica» avrebbe detto al reporter. Interrogato su cosa intenda fare, Bowie avrebbe risposto: «Semplicemente, non partecipare. Mi prendo un anno di pausa: nessun tour, nessun disco. Mi faccio una passeggiata ogni mattina e mi guardo un casino di film. Un giorno mi sono visto tre film di Woody Allen uno di fila all’altro. Mi piace andare all’Angelika [un cinema d’essai su Houston
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Street al Greenwich Village, N.d.A.]: se il primo film è così così, mi intrufolo a vederne un altro subito dopo». Riguardo alla musica, Bowie avrebbe detto: «Sto ascoltando gli Arcade Fire e i Secret Machines e questa fantastica opera degli anni Ottanta chiamata Nixon in China. Non accade molto: Nixon scende all’aereo, poi va a cena con Mao. Tutto qui. Un giorno mi piacerebbe realizzare un’opera, ma non credo di essere in grado di realizzare un musical».
royal albert hall Maggio 2006 è il mese dei grandi annunci, delle grandi sorprese e delle grandi speranze. L’8 Bowie rivela dal suo sito web che in effetti l’atteso comeback ci sarà. Ha infatti accettato l’incarico di curatore dell’High Line Festival, una nuova rassegna newyorkese di arte e musica creata dallo stesso Bowie, da David Binder e da Josh Wood, la cui prima edizione si terrà fra un anno esatto, nel maggio 2007. Si tratterà di un evento-maratona di dieci giorni nelle strade e nei locali della zona prospiciente l’High Line, il parco pubblico da poco realizzato su un’area in disuso della ferrovia sopraelevata chiamata West Side Line facente parte della più ampia New York Central Railroad. Secondo il comunicato, «l’High Line Festival comprenderà musica, serate notturne, visual art, performance e film, con la presenza di superstar e talenti emergenti, tutto in celebrazione della visione creativa di Bowie, e avrà il suo culmine in un grande concerto all’aperto di David Bowie, il suo primo full show a New York da quando il Reality Tour arrivò al Madison Square Garden il 15 dicembre 2003». Un annuncio esplosivo che in qualche modo conferma quanto dichiarato a «New York Metro»: un (ulteriore) anno di pausa e poi l’attesissimo ritorno sulle scene, nella sua città, nell’ambito della manifestazione che sta contribuendo a creare. E il 29 maggio Bowie compare a sorpresa dall’altra parte dell’oceano, alla Royal Albert Hall di Londra nei bis del concerto di David Gilmour, che sta promuovendo il suo album ON AN ISLAND. Una visita non annunciata, tenuta segreta fino all’ultimo, tanto più impensabile perché Bowie si è mosso da Manhattan prendendo addirittura un ae-
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reo. Dopo la standing ovation del pubblico, Bowie si unisce a Gilmour e alla sua band per cantare il primo singolo dei Pink Floyd, Arnold Layne (com’è noto, nel 1973 aveva realizzato una cover del secondo singolo dei Floyd, See Emily Play, per l’album PIN UPS). E c’è spazio anche per un secondo bis, Comfortably Numb, in cui Bowie canta le strofe e Gilmour il ritornello. Il termine del brano segna anche la fine del concerto. L’ovazione del pubblico è rivolta non solo a Gilmour ma anche agli special guest della serata, che vengono richiamati sul palco: David Crosby, Graham Nash, Robert Wyatt e lo stesso Bowie, che sussurra qualcosa di divertente all’orecchio di Crosby e fa comunella con il chitarrista di Gilmour, Phil Manzanera, una sua vecchia conoscenza dai tempi in cui suonava con i Roxy Music. Nessuno può immaginarlo, ma sarà l’ultima apparizione dal vivo di Bowie in terra inglese. Qualche mese più tardi, a dicembre, vedrà la luce un singolo con la Arnold Layne cantata da Bowie alla Royal Albert Hall. Pubblicato successivamente alla morte di Syd Barrett, avvenuta il 7 luglio del 2005 all’età di sessant’anni, rappresenterà l’ultimo tributo di Gilmour e Bowie al visionario fondatore dei Pink Floyd. Bowie scriverà inoltre su BowieNet: «Non posso dirvi quanto mi sento triste. Syd è stato di enorme ispirazione per me. Le poche volte che lo vidi suonare a Londra all’UFO e al Marquee durante gli anni Sessanta resteranno per sempre scolpite nella mia mente. Era così carismatico e un songwriter così sorprendentemente originale. Inoltre, insieme ad Anthony Newley, è la prima persona da cui ho sentito cantare il pop o il rock con un accento britannico. Il suo impatto sul mio modo di pensare è stato enorme. Un mio grande rimpianto è che non sono mai riuscito a conoscerlo. È stato davvero un diamante». L’esibizione del 29 maggio, completa di Arnold Layne e Comfortably Numb, diventa reperibile nel settembre 2007 quando viene pubblicato il Dvd Remember That Night: Live at the Royal Albert Hall girato da David Mallet, già regista di alcuni dei più importanti video di Bowie (tra i tanti: Boys Keep Swinging, Let’s Dance, China Girl, Loving the Alien). Si viene a sapere qualche giorno dopo che Bowie è volato fino a Londra anche per un secondo motivo: girare la sua parte in un episo-
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dio della seconda serie di Extras del comico (nonché, a questo punto, suo amico) Ricky Gervais. Secondo lo «Hertfordshire Mercury», le riprese hanno avuto luogo al pub Ebert’s di Hertford, vicino Londra, in una condizione di totale segretezza, ma qualche reporter è riuscito a riconoscere Bowie mentre usciva furtivamente da una Mercedes per infilarsi nel bar da un’entrata posteriore. Sembra, insomma, un ritorno in piena regola.
nokia music recommender Back in New York, Bowie è una delle celebrità che il 14 giugno assistono alla Carnegie Hall all’esibizione di Rufus Wainwright tesa a ricreare la storica performance di Judy Garland del 23 aprile 1961. Con lui, nell’area vip, ci sono, in rappresentanza del mondo musicale, David Byrne, Laurie Anderson e i B-52s e, per il cinema, Maggie Gyllenhaal, Sam Mendes, John Waters, Kate Winslet e Sarah Jessica Parker. Qualche giorno dopo va con Iman al Richard Rodgers Theatre sulla 46a per vedere il musical Tarzan con musiche di Phil Collins e libretto di David Henry Hwang. Il 20 giugno la coppia è nuovamente a teatro, al Lyceum sulla 45a in occasione della prima di The Lieutenant of Inishmore, una black comedy sul terrorismo irlandese dell’inglese Martin McDonagh, pupillo di Robert Fox. E il 3 luglio viene pubblicato RETURN TO COOKIE MOUNTAIN dei TV on the Radio che contiene il featuring di Bowie su Province. L’estate, almeno in parte, la star inglese la passa presumibilmente sui monti Catskill. Il suo chitarrista Gerry Leonard vive con moglie e figlia dalle parti di Woodstock, non troppo lontano, e come ha raccontato nel 2016 a «Vice», «lì ci passava un po’ di tempo, ma era tempo per la famiglia, e lui ha sempre tenuto la famiglia separata dal lavoro. Così quando si trovava in zona mi è capitato di invitarlo da me per un caffè. Parlavamo di andare a vedere Storm King [Art Center a Mountainville, New York, un grande museo che contiene la più grande collezione di sculture all’aperto di tutti gli Usa, N.d.A.], cose così. Penso che la sua famiglia ci andasse a passare l’estate, e lui saliva a visitarli. Io ho sempre considerato David una persona urbana piuttosto
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che un signorotto di campagna, credo che sia quella la sua personalità. Gli piaceva essere circondato dalle gallerie, dall’arte e dalla musica, esserci proprio in mezzo». Già dai primi di agosto Bowie torna in circolazione. Il 2 va al party organizzato dalla Hugo Boss in collaborazione con la rivista «Interview» per la Private Rooftop Concert Series, tenuto sul tetto della Hugo Boss sulla 26a. Per celebrare un numero di «Interview» interamente dedicato alla musica, si esibisce la band degli Arckid, ex membri degli Spacehog definiti dal loro ufficio stampa «fortemente influenzati da Bowie, Queen e T. Rex». Nonostante i loro agganci con la gente che conta – al party, oltre a Bowie, sono presenti Steven Tyler, Liv Tyler, Bebe Buell e Todd Rundgren – gli Arckid si scioglieranno prima di poter incidere il primo album. E il giorno dopo Bowie viene avvistato all’Hammersmith Ballroom durante il concerto dei Muse, la band del Devon che un mese prima ha pubblicato il quarto album, BLACK HOLES AND REVELATIONS. Parte delle incisioni hanno avuto luogo a New York e in questi giorni il leader dei Muse, Matt Bellamy, rivela che Bowie tra la fine del 2005 e l’inizio del 2006 è venuto a trovarli in studio e ha avuto modo di sentire le tracce su cui stavano lavorando: «Gli abbiamo fatto ascoltare qualche canzone. Gli piaceva Invincible. Volevamo chiedergli di suonarla con noi ma me la sono fatta sotto». Il 17 agosto Bowie è a Central Park per il concerto gratuito dei Gnarls Barkley, il duo electro-soul composto dal produttore Danger Mouse e dal rapper Cee-Lo Green autore di uno degli album dell’anno (ST. ELSEWHERE), comprendente il tormentone dell’estate Crazy. E un mese dopo, il 26 settembre, prima di un concerto “segreto” dei Gnarls Barkley organizzato dalla Nokia al Nokia Theater di Times Square, è Bowie in persona a salire sul palco per annunciarli al pubblico dichiarando che sono una delle sue band preferite. La sera dopo scriverà sui Sailor’s Journals: «Niente da riportare oggi, però ieri sera ho presentato i Gnarls Barkley all’evento del Nokia Theater. Hanno messo su una bella performance, aprendo con Turning Japanese, con tutta la band vestita in indumenti da karate. Aspettavo che gli dessero seguito con One Fine Day, ma non è accaduto. Crazy ovviamente è stata una bomba».
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La comparsata di Bowie fa evidentemente parte dell’accordo che ha da poco siglato con la Nokia, in base al quale, nei mesi a venire, svolgerà per la multinazionale finlandese il ruolo di “Music Recommender”, ovvero segnalerà nuovi artisti e dischi che lo hanno particolarmente colpito. La Nokia, attraverso i suoi canali, si occuperà poi di diffondere questi consigli presso negozi di dischi, canali radiofonici e tv. L’idea è che Bowie fornisca un contributo mensile, tramite articoli e podcast, ma in realtà si impegnerà in questo ruolo da padrino di artisti emergenti solo per qualche mese. Al riguardo, a novembre viene diffuso il mini film promozionale The World’s Greatest Music Stores – sottotitolo: “Un viaggio con David Bowie” – prodotto dalla Nokia e diretto da Wim Wenders, in cui Bowie appare come collegamento tra interviste a proprietari e commessi di negozi di dischi di tutto il mondo. Lo spot si conclude con lui che dice guardando in camera: «Questa voglia di ascoltare nuove cose è qualcosa di viscerale per me. Il fatto di essere travolto da una musica che non hai mai sentito prima. So che non avrei mai potuto vivere la mia vita, senza. E… buon ascolto!». Per il mese di ottobre 2006 scrive un articolo in cui si sofferma su dieci canzoni di recente uscita. Nell’ordine: Sheila di Jamie T, Insistor dei Tapes ‘n Tapes, Atlantis to Interzone dei Klaxons, Rick Rubin degli Spank Rock, Get Lucky dei New Young Pony Club, Le Laboureur di Masanka Sankayi, I Thought I Saw degli His Name Is Alive, Swans (Life After Death) degli Islands, Lithiummelodie 1 di Jan Jelinek e Boy from School degli Hot Chip. A novembre e dicembre, sceglie piuttosto di riciclare un vecchio articolo scritto per «Vogue» nel 2003, redigendo una lista commentata di 25 “dischi preferiti, in maggior parte risalenti a molti anni fa”; alcune tracce sono scaricabili dal sito web di Music Recommenders: The Last Poets – THE LAST POETS – 1970 Robert Wyatt – Shipbuilding – 1982 Little Richard – THE FABULOUS LITTLE RICHARD – 1959 Steve Reich – MUSIC FOR 18 MUSICIANS – 1978 The Velvet Underground – THE VELVET UNDERGROUND & NICO – 1967 John Lee Hooker – TUPELO BLUES – 1962 Koerner, Ray and Glover – BLUES, RAGS AND HOLLERS – Electra
1. HERE I AM, NOT QUITE DYING (2004-2007) James Brown – LIVE AT THE APOLLO – 1963 Linton Kwesi Johnson – FORCES OF VICTORY – 1979 (No Artist Credits) – THE RED FLOWER OF TACHAI BLOSSOMS EVERYWHERE – 197? Daevid Allen – BANANA MOON – 1970 JACQUES BREL IS ALIVE AND WELL AND LIVING IN PARIS – 1968 Tom Dissevelt – THE ELECTROSONIKS – 1960? Incredible String Band – 5000 SPIRITS OR THE LAYERS OF THE ONION – 1967 Tucker Zimmerman – TEN SONGS BY TUCKER ZIMMERMAN – 1969 Gundula Janowitz – FOUR LAST SONGS (Strauss) – 1973 Glen Branca – THE ASCENSION – 1981 Syd Barrett – THE MADCAP LAUGHS – 1970 George Crumb – BLACK ANGELS – 1972 Toots and the Maytals – FUNKY KINGSTON – 1973 Harry Partch – DELUSION OF FURY – 1971 Charlie Mingus – OH YEAH – 1961 Stravinsky – LE SACRE DU PRINTEMPS – 1960 The Fugs – THE FUGS – 1966 Florence Foster Jenkins – THE GLORY OF THE HUMAN VOICE – 1962
All’inizio del 2007, però, Bowie sembra aver già perduto tutto il suo entusiasmo per questa nuova avventura. Il 14 marzo ci sarà un’ultima “raccomandazione” di dieci brani – Mussolini’s Son di Honeytrap, Francisca’s Theme di Charlie Alex Merch, 100,000 Thoughts dei Tap Tap, Turn the Radio Off dei Love Is All, God Knows (You Gotta Give to Get) di El Perro Del Mar, Behave di Charlotte Hatherley, Stickin It to the Man dei Tiny Masters of Today, You Are One of the Few Outsiders Who Really Understands Us dei Fanfarlo, Hang Me Up to Dry dei Cold War Kids e Autumn Music 1 di Max Richter – ma poi più nulla. Bowie critico musicale? Sarebbe stato interessante, ma fin dall’inizio era chiaro che non sarebbe durata, in linea con il suo carattere, facile agli entusiasmi ma altrettanto incline a cambiare improvvisamente direzione.
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madama butterfly Continua il battage pubblicitario per l’High Line Festival, che ora è stato esteso a undici giorni, dal 9 al 19 maggio 2007. E viene confermato che al festival si terrà il primo concerto di David Bowie dalla fatidica data di Scheeßel del 24 giugno 2004. Intanto arriva l’annuncio su BowieNet di una nuova performance dal vivo: Bowie eseguirà “un paio di canzoni” alla serata di beneficenza annuale Keep a Child Alive (Kca) che si terrà il 9 novembre all’Hammerstein Ballroom sulla 34a. L’iniziativa è evidentemente partita da Iman che è “global ambassador” per la Kca e che presenterà la serata insieme ad Alicia Keys. David e Iman sono anche direttamente coinvolti nella campagna di poster della Kca in cui una serie di celebrità si fa ritrarre con il messaggio “I Am African” mirato a ottenere fondi per medicinali anti-Aids da usare nelle aree africane dove il male è maggiormente diffuso. Bowie e signora si vedono spesso insieme a serate di gala in questo periodo. Il 13 settembre 2006 sono al Waldorf Astoria dove Iman e Jane Fonda vengono premiate dal Centro per il Progresso delle Donne a New York City come “donne eccezionali che hanno dimostrato visione e leadership per il progresso dei diritti e delle opportunità delle donne”. Il 25 settembre 2006, alla Metropolitan Opera, i Bowie assistono alla prima della Madama Butterfly di Puccini diretta da Anthony Minghella, sfilando sul tappeto rosso insieme a celebrità quali Lou Reed, Rufus Wainwright, Salman Rushdie, Jude Law, Sean Connery e altri. «Che tour de force!» scrive la mattina dopo Bowie nel suo diario su BowieNet. «È stata una performance bellissima, elegante e colma di immagini come poche. Invece del consueto ragazzetto di bell’aspetto che è il pilone fondamentale nelle produzioni tradizionali, Minghella ha optato per un pupazzo in stile giapponese. Ci sarà molta discussione su questa scelta, scommetto. Questa nuova filosofia del Met di “raggiungere la gente” (pessime vendite di biglietti negli ultimi anni, e la media anagrafica del pubblico adesso è di sessant’anni. Nessun problema per me pertanto. Porc…!) è giunta fino in strada, con dei grandi schermi che hanno fatto vedere la performance sia a Times Square sia
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a Lincoln Center. Centinaia di sedioline hanno riempito la piazza di persone entusiaste in jeans e camicia mentre noi pinguini (e semi-pinguini) sedevamo confortevolmente per guardare un’interpretazione quasi cinematografica del vecchio cavallo di battaglia, l’opera più popolare nel mondo occidentale. Il successivo dinner era composto da persone amabili come Susan Sarandon e il suo maritino Tim Robbins, Salman Rushdie e sua moglie Padma Lakshmi, Naomi Watts e Liev Schreiber e quel tizio, Jimmy Fallon di Saturday Night Live, che è stato esilarante e si è soffermato sul pupazzo che dava un proprio party dopo lo show al piano di sopra. Un sacco di battute “legnose”. Spasso. Iman indossava Angel Sanchez. Io indossavo Hedi Slimane». Il 30 ottobre, poi, è la volta degli US Women of the Year Awards alla Carnegie Hall, con Iman sempre splendida, mentre David, stando alle foto, non è a suo agio nel ruolo del principe consorte.
extras Il 21 settembre l’episodio di Extras in cui compare Bowie, girato tra fine maggio e inizio giugno, viene finalmente trasmesso dalla Bbc (mentre gli americani dovranno attendere il 21 gennaio, quando andrà in onda su Hbo). Nell’episodio, Andy (interpretato da Gervais) è un comico di mezza tacca che viene trascinato da un amico in un bar frequentato da persone del mondo dello spettacolo di livello superiore al suo e da varie celebrità. Snobbato da tutti, Andy cerca rifugio in David Bowie (nella parte di se stesso). Confida così i suoi intimi problemi di autostima al suo grande idolo ma Bowie, con inusitata crudeltà, decide di umiliarlo definitivamente mettendosi al pianoforte e inventando sul momento una canzoncina velenosa chiaramente diretta ad Andy cantata in coro da tutti gli avventori del locale. Uno sketch esilarante: He sold his soul for a shot at fame Catchphrase and wig and the jokes are lame He’s got no style, he’s got no grace He’s banal and facile, he’s a fat waste of space
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See his pug-nosed face… Pug, pug, pug, pug Si è venduto l’anima per diventare famoso Tormentone e parrucca e le battute fanno pietà Non ha nessuno stile, non ha nessuna grazia È banale e dozzinale, è un grasso spreco di tempo Guardate la sua faccia col naso a patata… Patata, patata, patata, [patata Pur essendo una filastrocca senza pretese, Pug Nosed Face (altresì nota come Little Fat Man) è comunque una nuova canzone di David Bowie, frutto di un lavoro a tre: la musica è di Bowie, il testo di Gervais e del suo autore Stephen Merchant. «Gli ho mandato il testo», ha raccontato in seguito Gervais, «dicendogli che pensavamo a una cosa un po’ retro, tipo Life on Mars?, e Bowie ha detto: “Ah sì, certo, adesso tiro fuori dal cilindro un’altra Life on Mars? apposta per te”. Allora mi sono messo a ridere e gli ho detto: “Oh sì, scusa, messa in questi termini la proposta poteva sembrare quasi offensiva, vero?”. Ma lui sapeva cosa darci. Ci ha dato una sorta di über-Bowie. Guardate la sua faccia col naso a patata… La troupe ha continuato a cantarlo per una settimana». Pug Nosed Face non si trova ovviamente su alcun disco ma solo sul Dvd Extras – Stagione 2 pubblicato in Italia nel 2010, oltre che su YouTube. È però uno dei brani recenti di Bowie più ascoltati e forse anche apprezzati, se non altro perché per lungo tempo – fino all’8 gennaio 2013 – è rimasta la sua “ultima canzone”. Poco dopo la trasmissione di Extras, si diffonde la voce che Bowie ha accettato di doppiare un nuovo personaggio dei cartoni animati in un episodio speciale della serie per bambini SpongeBob SquarePants. La notizia è confermata il 6 ottobre dallo stesso Bowie in una entry sul suo diario on-line: «È successo. Alla fine. Sono arrivato al Sacro Graal dei film d’animazione. Ieri sono diventato un personaggio di… tantaràà… SpongeBob SquarePants. Oh sì!!! Noi, la famiglia, siamo entusiasti. Quest’anno non deve accadere nient’altro; be’, questa settimana, diciamo. Il mio personaggio in questa speciale puntata estesa (penso che si tratti di uno speciale di mezz’ora) è chiamato Lord Royal Highness. Okayyy!! Non verrà trasmesso purtroppo prima di otto o
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nove mesi, ma, quando sarà, fateci caso. O perlomeno guardatelo». Questo è anche il suo ultimo post dei Sailor’s Journals; in seguito non ce ne saranno più. Il produttore del cartone, Paul Tibbitz, ha raccontato al giornalista Marc Spitz com’è nata l’idea di contattare Bowie: «Tutti mi dicevano che non sarebbe mai successo, che non avrebbe mai accettato, ma io ho pensato che non c’era niente di male a provarci. Per fortuna è stato ben contento di farlo ed era un fan dello spettacolo perché lo vedeva insieme a sua figlia».
keep a child alive Si arriva al 9 novembre 2006, la sera in cui Bowie è atteso all’Hammerstein Ballroom come ospite d’onore nell’ambito del Black Ball di beneficenza annuale organizzato da Keep a Child Alive. Presentato anche stavolta da Alicia Keys, Bowie è in un elegante completo scuro con cravatta e prende posto a centro palco e, accompagnato dal solo Mike Garson al piano, si lancia in un’impeccabile interpretazione di Wild Is the Wind. Per il brano successivo, Fantastic Voyage, entra in azione anche la band di Alicia Keys. Quindi un terzo brano, Changes, cantato a due voci da Bowie e Alicia, per un set breve ma squisito che fino a oggi è possibile vedere e sentire solo grazie a filmati di bassissima qualità postati su YouTube da qualche spettatore. Ha ricordato il fotografo Kevin Mazur a Dylan Jones: «È stato un grande show, ma lui mi è sembrato un po’ appesantito». E Mike Garson, sempre a Jones: «La cosa triste è che c’erano un sacco di professionisti con le telecamere che volevano filmarlo, ma lui ha detto di no. Si sentiva ancora poco sicuro. Voleva restare anonimo. Aveva un po’ di ciccia in più addosso, io comunque pensavo che avesse un bell’aspetto, ma lui si sentiva a disagio. Ed è quella probabilmente la vera ragione per cui non voleva essere filmato». Tre canzoni dal “periodo d’oro”, dopodiché ovazione del pubblico e fine di tutto. Nessuno può ancora prevederlo, ma le 2.500 persone presenti quella sera all’Hammersmith Ballroom hanno appena assistito all’ultima performance dal vivo di David Bowie.
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the fountain Le apparizioni in pubblico iniziano a diradarsi. David e Iman non possono però mancare, il 20 novembre, al Tribeca Grand alla prima del film di Darren Aronofsky The Fountain (in Italia L’albero della vita), con protagonista Hugh Jackman, con cui Bowie ha lavorato sul set di The Prestige. Un anno e mezzo prima, Aronofsky aveva infatti contattato Bowie chiedendogli di scrivere una canzone per il film (come segnalato da BowieNet, che aveva anche riportato voci secondo le quali Aronofsky gli aveva chiesto esplicitamente una “terza canzone del Major Tom” per via del nome del protagonista). La collaborazione non era poi andata in porto, ed è un peccato, perché The Fountain è incentrato su tematiche decisamente bowiane. La vicenda è incentrata sul personaggio di Tom (Hugh Jackman) che si muove su tre piani spazio-temporali, sempre con il medesimo obiettivo: trovare la formula per l’immortalità. Nella nostra epoca Tommy Creo è un ricercatore impegnato a trovare una cura contro il cancro, ciò che gli sta particolarmente a cuore perché la sua amata moglie Iz (Rachel Weisz) sta morendo di tumore al cervello. Iz, che è ormai rassegnata al suo destino, sta scrivendo un libro e, sapendo già che non riuscirà a concluderlo, chiede al marito di finirlo. È qui, nel libro di Iz (poi sviluppato da Tom), che si svolge il secondo piano del racconto: la romantica epopea cinquecentesca del conquistador spagnolo Tomas incaricato dalla Regina Isabella di trovare nella terra dei Maya l’albero della vita citato nella Bibbia, in grado di donare la vita eterna a chi beve la sua linfa: l’unico modo per salvare il Regno di Spagna e la regina dalla morte certa per mano della Santa Inquisizione. C’è poi un terzo piano, più onirico/fantascientifico – qualcuno ha scritto: ambientato nel 26° secolo – un altro Tom che forse esiste solo nella testa del Tom ricercatore o forse no, una sorta di esploratore del futuro sospeso in una bolla nello spazio che cerca di salvare un albero morente, trasportandolo a Xibalba, una nebulosa lontana. Ma in realtà i tre piani (i tre Tom e le tre Isabel) si confondono, lasciando lo spettatore nel dubbio su quale sia quello in cui si svolge l’azione reale. The Fountain è un film ambizioso e meritevole ma di ardua decrittazione da parte dello spettatore medio (e infatti andrà malissimo al
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botteghino, dopo essere stato demolito dalla critica). Resta comunque, nella mente dello spettatore, il conflitto dialettico tra tema (la morte è una malattia e come una malattia bisogna cercare di curarla) e controtema (la morte è inevitabile e bisogna accettarla), la cui risoluzione finale è un messaggio di speranza: bisogna accettare serenamente la morte perché solo da essa ha origine la vita, o meglio, altre forme di vita. Questioni metafisico-spirituali di una certa sostanza, di quelle da cui Bowie è sempre stato affascinato. Impossibile che The Fountain non l’abbia colpito in positivo, anche se ovviamente si possono avanzare solo delle supposizioni.
60 anni di bowie Dieci giorni dopo, il 30 novembre, Bowie viene avvistato a un’altra première, stavolta teatrale, per The Vertical Man scritto da David Hare e diretto da Sam Mendes, con Julianne Moore e Bill Nighy, al Music Box Theatre sulla 45a. E tra il 14 e il 16 dicembre (una delle date, non è chiaro quale) presenzia al remake di BERLIN che il suo amico Lou Reed mette in scena alla St Ann’s Warehouse di Brooklyn. Il promoter John Weisbrodt, che lo ha incrociato in quell’occasione, ha scritto: «Sono rimasto un po’ scioccato. Perché in effetti non pensavo che quest’artista, che ha trasformato se stesso durante tutta la sua vita, possedesse un corpo fisico». Le date di Reed alla Warehouse vengono filmate dal regista Julian Schnabel e in seguito diventeranno il film dal titolo Berlin: Live at St Ann’s Warehouse. Nel 2008 sarà pubblicato anche un Cd dallo stesso titolo, contenente tracce tratte dai concerti del 15 e 16 dicembre. È un momento in cui Bowie sembra più attivo che mai. Tutti, ovviamente, stanno aspettando il suo previsto ritorno in concert del prossimo maggio. Inoltre, a luglio era uscito RETURN TO COOKIE MOUNTAIN dei TV on the Radio contenente Province (che era stata però incisa molto tempo prima, addirittura nell’autunno 2005). Il 20 ottobre è uscito in tutte le sale il film The Prestige di Christopher Nolan che segna il ritorno di Bowie al cinema in un ruolo importante. E a inizio dicembre vede la luce il Cd-single di Arnold Layne con la band di David Gilmour (risalente però al 29 maggio precedente).
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In generale, da qualche tempo a questa parte si sta tornando a parlare di Bowie come non accadeva da anni. Durante la sua prolungata assenza dalle scene si è verificato un fatto inaspettato: Bowie è tornato di moda. Se gli anni Novanta avevano avuto poco a che spartire con lo spirito bowiano, da qualche anno si è registrata una progressiva svolta nel paradigma musicale dominante. Accantonati i revival visivamente casual se non proprio dimessi, con tanto di chitarrine e chitarrone, a poco a poco si è rifatta largo la voglia di sperimentare e di dare libero sfogo all’immaginazione. Dal bianco e nero si è tornati al colore. Il vecchio ha ceduto il passo al nuovo: al “sound” ma anche alla “vision”. Dopo oltre quindici anni di declino di critica ma anche di pubblico, c’è nuovamente voglia di Bowie. Sarà anche perché a gennaio compirà sessant’anni, ma tra il 2005 e il 2007 i media sono tornati a occuparsi di Bowie. Compaiono retrospettive, libri biografici, omaggi, tributi. Vengono pubblicati in questo periodo importanti volumi per la comprensione dell’artista, quali Strange Fascination di David Buckley, la quarta edizione dell’enciclopedia The Complete David Bowie di Nicholas Pegg e l’autobiografia di Tony Visconti Bowie, Bolan and the Brooklyn Boy. E a partire da dicembre, in vista del fatidico compleanno, le riviste più importanti del mondo gli dedicano copertine e numeri speciali. Lo fa «Mojo» con un bellissimo numero monografico dal titolo 60 Years of Bowie, ma altresì varie edizioni di «Rolling Stone», «Uncut» e perfino quotidiani politici come «Observer», «Independent» e «Washington Times» lo celebrano come uno dei giganti della musica contemporanea. Non si sa come Bowie trascorra il giorno di questo importante genetliaco, l’8 gennaio 2007. Probabilmente in famiglia a Lafayette Street, con la presenza di qualche amico stretto. È possibile però che in cuor suo soffra per il fatto di avere ormai un’età in cui non può più, verosimilmente, esibirsi in pubblico nella modalità “Dio del Rock” del Reality Tour. Quello che si vedrà in scena dovrà essere necessariamente un Bowie diverso, un raffinato signore come quello della Royal Albert Hall o dell’Hammersmith Ballroom. Oppure – altra opzione che non si può scartare – non sarà affatto.
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slip away Con il senno di poi, il mese che intercorre tra metà dicembre 2006 e metà gennaio 2007 è un periodo strano, anche critico, per Bowie. Il punto è che in questo periodo non si vede da nessuna parte: nessun concerto, prima teatrale o serata di gala, nulla di nulla. Nicholas Pegg riporta che Bowie riappare in pubblico il 17, 18 o 19 gennaio insieme a Iman al Met presso il Lincoln Center, in occasione di una performance dell’opera The First Emperor con musica di Tan Dun e libretto in inglese di Tan Dun e Ha Jin e orchestra condotta dal compositore, con Plácido Domingo come protagonista. E il 22 gennaio BowieNet riporta una notizia che spezza i sogni di quanti avevano sperato di poter rivedere Bowie dal vivo: «A causa del lavoro in atto su un nuovo progetto, David Bowie ha annunciato che non gli sarà possibile esibirsi all’High Line Festival a maggio. Continuerà tuttavia a curare l’evento insieme ai produttori David Binder e Josh Wood. Ulteriori annunci relativi alla line-up del festival arriveranno a breve».
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high line festival Qualcosa è indubbiamente accaduto in quel fatidico mese di assenza o dopo l’esibizione con Alicia Keys del 9 novembre 2006. È possibile che si sia trattato nuovamente di un problema di salute? Dopo la morte di Bowie, la sua biografa Wendy Leigh è stata lapidata dai fan per la seguente dichiarazione rilasciata alla Bbc: «Non ha dovuto solo combattere contro il cancro, se ciò non fosse abbastanza. Ha avuto sei infarti negli ultimi anni». Si è pensato alla più classica delle frasi shock, finalizzata a fare pubblicità al libro per venderne più copie. Ma se invece contenesse un fondo di verità? (Purtroppo, il 2 giugno 2016 Wendy Leigh si è suicidata all’età di sessantacinque anni gettandosi dal balcone del suo appartamento sul Tamigi a Londra, e non può più approfondire la questione). E dà da pensare pure quanto ha scritto nel 2016 il premio Pulitzer Michael Cunningham, che in questi anni ha conosciuto Bowie molto bene: «Dopo REALITY, uscito nel 2003, per un decennio non aveva pubblicato altri dischi. È stato tormentato da problemi di salute per il resto della vita, compreso il cancro al fegato che alla fine lo ha ucciso». In definitiva, nessun “lavoro in atto su un nuovo progetto” può avere tanto impatto, a livello di tempo e di concentrazione, da giustificare la cancellazione di un concerto. Perché, al di là della delusione per il mancato concerto, la verità è che Bowie sta iniziando a scompa-
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rire. Dopo essere stato al Met a metà gennaio 2007 o giù di lì – un avvistamento di cui però parla solo Nicholas Pegg nella sua “enciclopedia” e che non è comprovato da alcuna fotografia – Bowie torna a farsi vedere in giro solo il 23 aprile, cioè più di tre mesi dopo, in compagnia di Iman, al Pier 60 di Abigail Kirsch all’altezza della 20a. L’occasione è una serata di gala, i Can-Do Awards, una raccolta di fondi organizzata dalla Food Bank durante la quale vengono premiati il chitarrista degli U2 The Edge e l’attore-presentatore Jimmy Fallon. Oltre ai Bowie, sono presenti un’infinità di celebrità, che spaziano da politici (Bill Clinton e figlia) a musicisti (Lou Reed, Adam Clayton, Elvis Costello e Diana Krall, Patti Smith, Michael Stipe, Mike Mills) ad attori (Ed Burns, Stanley Tucci, Josh Harnett). Nelle foto Iman appare al top come al solito, e anche Bowie sembra nella sua recente forma, a parte qualche borsa di troppo sotto agli occhi. Il giorno dopo, coincidente con il loro quindicesimo anniversario di nozze, altra seratona per i Bowie, con l’ormai consueto party organizzato da «Vanity Fair» alla State Supreme Court House in occasione dell’inaugurazione del TriBeCa Film Festival di Robert De Niro. E non è finita: due giorni dopo, il 26 aprile, Bowie è tra gli invitati al W Hotel Union Square a Park Avenue per la cerimonia con cui la Syracuse University conferisce al suo vecchio studente Lou Reed la “Medaglia George Arents per l’Eccellenza nelle Arti”. Stavolta Iman è rimasta a casa, ma dopo la cerimonia Bowie si ferma a chiacchierare con Bono, con Laurie Anderson e ovviamente con il suo amico Lou. Quindi, il 7 maggio, David è insieme a Iman al gala di beneficenza che celebra, al Metropolitan Museum of Arts, la mostra del disegnatore di costumi Paul Poiret. Quattro mesi e mezzo di assenza (non contando la puntata al Met di gennaio), quindi un mese e mezzo di intensissimi impegni mondani, sociali e… musicali. Perché adesso sta per iniziare l’High Line Festival. In precedenza, il 25 marzo, David Binder e Josh Wood avevano annunciato la line-up del festival che, al di là della sua defezione dalla lista dei performer, continua a essere curato da Bowie. Il quale ha rilasciato la seguente dichiarazione: «Ho pensato che fosse una cosa molto bella che mi chiedessero di curare l’High Line Festival. La richiesta
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era che scegliessi artisti e show che io stesso farei la fila per vedere. Sebbene questo anno inaugurale sarà di dimensioni modeste, siamo stati piuttosto fortunati che molti di coloro a cui ho chiesto di partecipare abbiano accettato. Sono anche molto soddisfatto che partecipino molti artisti emergenti a fianco di talenti più conosciuti che rappresentano uno spaccato abbastanza vasto delle discipline all’interno della comunità artistica. Sono davvero speranzoso che l’esposizione data da questo festival possa aiutare queste persone a ottenere l’attenzione che meritano». Questo, quindi, il programma definitivo della rassegna: MUSICA 9 maggio THE ARCADE FIRE Radio City Music Hall 10 maggio AIR Theatre at Madison Square Garden 11 maggio THE POLYPHONIC SPREE Hammerstein Ballroom 15 maggio DEERHOOF Irving Plaza 16 maggio DANIEL JOHNSTON, BANG ON A CAN ALL STARS, THE LEGENDARY STARDUST COWBOY Highline Ballroom 19 maggio THE SECRET MACHINES Highline Ballroom TEATRO 19 maggio RICKY GERVAIS Theatre at Madison Square Garden PERFORMANCE 16 e 17 maggio KEN NORDINE The Kitchen 17 e 18 maggio LAURIE ANDERSON Highline Ballroom 18 maggio MEOW, MEOW INCITED BY JOHN CAMERON MITCHELL Hiro Ballroom VISUAL ART CLAUDE CAHUN PUBLIC ART EXHIBITION Featuring Photography from Jersey Heritage Trust & Panel Discussion at Aperture Under The Highline LAURIE MCLEOD PRESENTS WATERHAVEN UNDERWATER FILMS Location Tba
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FILM Dall’11 al 18 maggio BOWIE’S PICKS 10 Classici in lingua spagnola degli ultimi 100 anni Clearview Chelsea Cinemas
La sera del 9 maggio, quale curatore e fondatore del festival, Bowie presenzia come previsto al concerto d’apertura al Radio City Music Hall affidato ai suoi amici Arcade Fire. Seduto nell’area vip insieme a Iman, Lou Reed e Laurie Anderson, ha di che essere soddisfatto: tutti e seimila i posti a disposizione sono andati esauriti. A un certo punto, durante i bis, si alza dalla poltroncina. Tutti sperano che stia per salire sul palco per unirsi alla band canadese come a Fashion Rocks e al SummerStage, ma Bowie si è solo voluto spostare nell’area solitamente occupata dall’orchestra per avere una visuale migliore. Poi, alla fine del concerto, entra nel backstage per le foto di prammatica con Win Butler e compagni (e con Iman, in abito floreale). La sera dopo Bowie è al Madison Square Garden per il doppio show di Air e TV on the Radio (aggiunti in un secondo momento alla line-up), e l’11 maggio, dopo aver visto il primo film dei suoi “Bowie’s Picks” in lingua spagnola (El Automovil Gris di Enrique Rosas, pellicola muta messicana del 1919) al Quad Cinema nel Greenwich Village, si dirige all’Hammerstein Ballroom per il concerto dei Polyphonic Spree, che erano stati suoi supporter durante il Reality Tour. Il 15 maggio lo troviamo a The Kitchen, uno spazio artistico sulla 19a a Chelsea, per la performance di Ken Nordine, l’ottantasettenne noto per la serie di album “Word Jazz”, introdotto da Mike Garson che presenta una nuova composizione pianistica dal titolo Theme and Variations on Space Oddity. Poi di corsa all’Irving Plaza su Union Square per vedere la parte finale del concerto dei Deerhoof. Il giorno successivo è all’Highline Ballroom sulla 16a per la serata più eccentrica di tutto il festival, quella che vede alternarsi sul palco Daniel Johnston, i Bang On A Can All Stars e The Legendary Stardust Cowboy. All’Highline Ballroom ci ritorna due giorni dopo per la performance dell’amica Laurie Anderson, approfittandone anche per gustarsi l’esibizione dei Meow Meow.
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E il 19 maggio non può mancare al Madison Square Garden per il gran finale che vede in scena il suo amico Ricky Gervais. Anzi, è lui stesso a salire sul palco per presentarlo, improvvisando Pug Nosed Face, la canzoncina tratta da Extras che ormai conoscono un po’ tutti. Rivolto agli spettatori, Gervais dice che dopo questa introduzione già immagina i titoli dei giornali il giorno dopo: «Il magro Duca Bianco introduce il Grasso Papero Bianco… Porcellino Stardust… Ciccio Dory» (The Thin White Duke brings out the Fat White Duck… Piggy Stardust… Chunky Dory). Al termine dello show di Gervais, Bowie si sposta all’Highline Ballroom per cogliere l’ultima parte del concerto dei Secret Machines che, di fatto, chiude la prima edizione del festival (che resterà, sfortunatamente, anche l’unica). Lo si capirà solo in seguito, ma la porzione prettamente musicale dell’High Line Festival rappresenta, in essenza, una sorta di “arrivederci e grazie” di David Bowie a quella scena indie-alternative che negli ultimi due o tre anni ha seguito con una passione e a tratti un’ossessività più da critico rock (o da “Music Recommender”) che da musicista. È il suo modo di dare un’ulteriore spinta a band che di recente ha assai amato, alcune delle quali riusciranno a imporsi grazie anche al suo aiuto (Arcade Fire, TV on the Radio) mentre altre resteranno a livello underground (Secret Machines, Deerhoof), ma anche di ringraziare artisti con cui ha collaborato in passato o che lo hanno ispirato (Air, Polyphonic Spree, Daniel Johnston, The Legendary Stardust Cowboy). Per Bowie si chiude una fase, anche se ripercorrendo la cronologia degli eventi si era in realtà già chiusa da tempo. Di fatto era dalla fine di settembre 2006, quando aveva introdotto i Gnarls Barkley sul palco del Nokia Theatre, che non presenziava a un concerto rock (o hip hop-soul, in quel caso). All’High Line Festival, da curatore, li ha visti tutti e sei. Ma l’impressione è che si sia trattato di un atto dovuto nei confronti di quella che in fin dei conti era una sua creatura. La fiammata per l’indie-rock a quel punto si era già spenta. D’ora in poi le sue uscite saranno limitate a serate di gala, opera, cinema, teatro e ristoranti, come per la maggioranza delle persone della sua età. La sera dopo la chiusura dell’High Line Festival, a braccetto con Iman partecipa alla cena per i premi della Elie Wiesel Foundation for
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Humanity all’Hotel Waldorf Astoria, insieme ad altri 800 contribuenti alla Fondazione tra cui Dustin Hoffman, Sidney Pollack e Oprah Winfrey. Il 4 giugno, sempre con sua moglie, presenzia alla cerimonia di consegna dei premi CFDA Womenswear Designer of the Year alla New York Public Library, dove tra gli altri invitati figurano Alicia Keys, Sean Combs e l’onnipresente Oprah Winfrey. E ancora, il 5 giugno un elegantissimo Bowie riceve un premio per le sue attività pionieristiche nell’ambito del web ai Webby Awards organizzati da Cipriani a Wall Street. «Ho solo cinque parole?» dice Bowie nel ricevere il premio, riferendosi alla ferrea regola dei Webbys secondo cui i premiati sono tenuti a limitare il discorso di ringraziamento a un massimo di cinque parole. Poi, dopo una pausa comica: «Oh no… Erano cinque! (pausa) Ne rimangono quattro (pausa) Tre, adesso (pausa) Due (pausa)» e lascia il palco tra le risate degli invitati. I giorni tra il 23 aprile e il 5 giugno sono stati fitti di impegni per Bowie, che inoltre, prima o addirittura durante l’High Line Festival, ha girato qualche scena per il film August del regista Austin Chick, in cui interpreta il ruolo di Cyrus Ogilvie, l’esperto manager inglese di una Internet company. E verso fine maggio ritorna d’attualità la storia del Forty Deuce, il club burlesque che più di un anno fa Bowie si è impegnato ad aprire a New York in partnership con Sting e Ivan Kane. I tre, secondo quanto riportano i giornali, hanno finalmente trovato la location adatta: si tratta dei locali a 19 Kenmare Street a NoLiTa, tra la Bowery e la Elizabeth, precedentemente occupati dal ristorante Little Charlie’s Clam Bar. Il club, dichiara un comunicato inviato alla stampa, aprirà in autunno: «Ivan Kane, che ha chiamato la catena Forty Deuce per via della sua città natale e di Times Square, è entusiasta di poterla finalmente portare a casa». Durante l’estate, però, la situazione si complica: la comunità del quartiere, preoccupata dalle conseguenze dell’arrivo di un locale di spogliarelli, vota “No” alla richiesta di concessione della licenza per alcolici avanzata dal Forty Deuce. Intervengono gli avvocati, da una parte e dall’altra. Si mettono in mezzo anche i politici. E all’inizio dell’autunno Kane, Sting e Bowie sono costretti ad abbandonare il loro piano. Ma qualche tempo prima Bowie aveva già
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prospettato a Sting, e a sua moglie Trudie Styler, un altro possibile investimento per i loro soldi.
xingu films In quel di Londra, Duncan continua a girare spot per la società di pubblicità BMB ma la sua ambizione resta quella di dirigere dei veri e propri lungometraggi. Nel 2005, insieme al collega Stuart Fenegan, ha fondato la società Liberty Films, una sorta di primo step per poter realizzare il suo sogno. A tal fine, Duncan ha scritto il soggetto per un film di fantascienza intitolato Mute. Ambientato a Berlino a quarant’anni da oggi, narra la vicenda del barista Leo, un uomo muto che ha perso la capacità di parlare a causa di un incidente avvenuto durante l’infanzia (forse non a caso: Duncan ha passato parte dell’infanzia proprio a Berlino, nel periodo del turbolento divorzio dei suoi genitori). L’unica cosa bella della sua vita è la fidanzata Naadirah e, quando questa scompare senza lasciare alcuna traccia, parte alla sua ricerca attraverso la città. Nel 2006 Duncan si è incontrato a New York con l’attore Sam Rockwell (che era nel cast di Basquiat, il film del 1996 di Julian Schnabel in cui Bowie interpretò Andy Warhol) ma, come egli stesso ha raccontato al «Telegraph», «io avrei voluto che interpretasse un ruolo ma lui ne voleva fare un altro, e ognuno di noi ha cercato di convincere l’altro, ma non è accaduto». La verità, come Fenegan ha spiegato in un’altra intervista, è che «Mute era troppo ambizioso per essere il primo film di un regista esordiente». Tuttavia, durante quell’incontro, Duncan e Rockwell hanno scoperto di amare entrambi un certo tipo di film di fantascienza come Atmosfera Zero o Alien, «quei film con l’uomo al centro dell’interesse, con quei personaggi proletari che non si vedono più in giro», ha riferito Duncan. «Gli ho detto, “Se mi prometti di leggerlo, scriverò qualcosa appositamente per te”. Penso che fosse un pochino scettico sul fatto che mi rifacessi sentire, ma l’ho fatto: circa nove mesi dopo avevo un trattamento, e sono stato felice di mandarglielo». Il punto di partenza di Duncan è stato un libro letto tempo prima, Entering Space di Robert Zubrin, che parla di colonizzare il sistema so-
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lare e include un capitolo sull’estrazione di Elio-3. Su questa base, ha innestato l’idea della clonazione umana, per parlare di qualcosa di molto personale: «L’idea di un confronto tra te e una diversa versione di te», ha spiegato al «Telegraph». «Mi piaceva l’idea del “me” di adesso che fosse in grado di parlare con il “me” di un periodo in cui ero più giovane; di quanto sono diverso ora rispetto a com’ero prima». Con l’ok di massima di Sam Rockwell per il trattamento di Duncan, la Liberty Films inizia a darsi da fare per realizzare il film. A maggio del 2007 la sceneggiatura vera e propria viene commissionata a Nathan Parker (non uno qualsiasi, bensì il figlio di Sir Alan Parker, il celebrato regista di Fuga di mezzanotte, Saranno famosi, The Wall, Birdy, Mississippi Burning, The Commitments ed Evita). Su questa base, Fenegan e Jones vanno in cerca di sponsor. Si tratta di un film a basso budget, girato in interni e con molti effetti speciali, ma a un certo punto, durante la pre-produzione, uno dei finanziatori si ritira. Ed è qui che probabilmente le conoscenze del padre di Duncan fanno la differenza: la produzione del film viene infatti rilevata dalla Xingu Films, fondata nel 1995 da Trudie Styler, moglie di Sting, amico nonché partner in affari di David Bowie. Uno dei produttori esecutivi, inoltre, è Bill Zysblat, il “business manager” di Bowie e capo della Rzo (gli altri due sono Trevor Beattie e Bil Bungay, boss di Duncan alla BMB). Oltre a investire del denaro (il budget non supererà comunque i cinque milioni di dollari) ben presto la Styler mette in moto le conoscenze, sue e di Sting, coinvolgendo un grosso calibro come Kevin Spacey, che interpreterà la voce del computer Gerty. Forse c’è ancora da sistemare qualche dettaglio, ma in autunno tutti i pezzi fondamentali sono al loro posto.
jena 6 Dal 6 giugno fino al 25 ottobre 2007 Bowie sparisce nuovamente. È probabile che passi i mesi estivi nella sua residenza montana sulle Catskills, ma è comunque un altro lungo intervallo in cui non lo si vede da nessuna parte. Ovunque egli sia e qualsiasi cosa stia facendo, appare però ugualmente sui giornali il 18 settembre, quando viene ripor-
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tato che ha donato diecimila dollari per la difesa dei cosiddetti “Jena 6”, termine giornalistico usato per definire Mychal Bell, Robert Bailey Jr., Theo Shaw, Carwin Jones, Bryant Purvis e Jesse Ray Beard, sei teenager neri coinvolti in un clamoroso caso giudiziario in Louisiana. Come spiega Nicholas Pegg nella sua “enciclopedia”, «l’aggressione di uno studente bianco da parte di sei teenager avvenuto l’anno precedente nella città di Jena aveva causato la loro imputazione per tentato omicidio, ma il caso non era semplice come sembrava: l’aggressione veniva dopo un periodo di estreme provocazioni razziali in città tra le quali un incidente in cui studenti razzisti bianchi avevano appeso dei cappi ai rami di un albero nel prato del liceo di Jena». Bowie rilascia questa dichiarazione alla stampa: «Quello che si svolge nella città di Jena è chiaramente un procedimento giudiziario ingiusto e discriminatorio. Una donazione al Fondo di Difesa Legale di Jena 6 è un piccolo gesto che indica la mia convinzione che si possano evitare un’accusa e una condanna ingiuste». «Siamo grati che la rockstar David Bowie sia rimasto colpito e abbia fatto una donazione alla campagna per Jena della Naacp» dichiara Julian Bond, direttore della National Association for the Advancement of Colored People (Associazione nazionale per la promozione delle persone di colore). «Il signor Bowie condivide la nostra indignazione. Speriamo che altri si uniscano a lui». Bowie cova forse il desiderio di ripercorrere per l’ennesima volta le orme di Bob Dylan, che nel 1975 si schierò dalla parte del pugile Rubin “Hurricane” Carter nel tentativo di rettificare un clamoroso errore giudiziario? In ogni caso, è evidente come Bowie dopo il matrimonio con Iman e soprattutto dopo la nascita di Lexi abbia sviluppato una forte sensibilità nei riguardi delle ingiustizie e delle discriminazioni che continuano a essere perpetrate nei confronti dagli afroamericani. Una questione che lo tocca da vicino e di cui, presumibilmente, si parla anche spesso “a casa”. Il caso Jena 6 diventerà comunque una cause celebre presso la comunità artistica. Una puntata dello show del duo rap Salt-n-Pepa su VH1 sarà filmata al rally di protesta del 20 settembre 2007 definita, con ventimila manifestanti, “la più grande dimostrazione sui diritti civili” dagli anni Sessanta. E John Cougar Mellencamp includerà nel
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suo album del 2008 LIFE, DEATH, LOVE AND FREEDOM una canzone di denuncia intitolata semplicemente Jena.
scarlett johansson Quello che il pubblico ancora non sa è che in estate – tra l’inizio di luglio e la metà di agosto – Bowie è tornato in sala d’incisione, rispondendo all’invito di Dave Sitek dei TV on the Radio che agli Avatar (ex Power Station) Studios sulla 53a sta finendo di mixare il primo album dell’attrice Scarlett Johansson registrato il maggio precedente ai Dockside Studios di Maurice in Louisiana. Bowie e Johansson si conoscono bene: l’attrice era nel backstage del suo concerto allo Shrine Auditorium di Los Angeles del 2 febbraio 2004. In seguito i due hanno recitato nello stesso film, The Prestige di Christopher Nolan, anche se in quell’occasione le loro scene furono girate separatamente. Di recente, poi, si erano incontrati a una cena di gala durante la quale Bowie le aveva detto di aver sentito che stava per lavorare con Dave Sitek e le aveva augurato buona fortuna. E la Johansson non si era fatta scappare l’occasione: «Gli ho detto scherzando: fammi sapere se vuoi venire anche tu! In qualsiasi momento… Ti passo a prendere con la macchina». Prima di farlo venire agli Avatar, Sitek ha fatto ascoltare a Bowie quanto è stato registrato in Louisiana: principalmente oscure cover della più recente produzione di Tom Waits. Bowie ha scelto di contribuire con delle linee vocali a un paio di pezzi, Falling Down e Fannin’ Street, tralasciando I Don’t Want to Grow Up su cui probabilmente Sitek puntava come singolo. Quel giorno la Johansson si trova in Spagna dove sta girando Vicky Cristina Barcelona con Woody Allen. «Mi è arrivata questa telefonata da Dave Sitek», ha ricordato a «Interview», «e mi ha detto “Non indovinerai mai chi c’è qui con me nello studio in questo momento”. E chiaramente era Bowie. Secondo Dave, Bowie è arrivato preparatissimo, con gli spartiti e tutto quanto. Sapeva già quali erano le parti che avrebbe cantato. E io, quando l’ho scoperto, be’, praticamente mi sono fatta la pipì sotto».
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In verità il contributo di Bowie sui due brani è quasi impercettibile, più da corista per rafforzare la voce della Johansson che da seconda voce sullo stesso piano di quella solista. A ogni modo, dopo aver registrato, Bowie ascolta il playback dei brani, si dichiara soddisfatto, saluta Sitek e se ne torna a casa. Per un bel po’ di tempo – oltre tre anni – non lo si vedrà più in una sala d’incisione, se non come remixer di se stesso.
moon Bowie ricompare in pubblico il 25 ottobre alla quarta edizione del Black Ball dell’ente benefico Keep a Child Alive tenuto come il precedente all’Hammerstein Ballroom e ugualmente presentato da Iman e da Alicia Keys. A differenza dell’edizione precedente, stavolta preferisce non esibirsi, lasciando la scena a Bono degli U2, a Sheryl Crow e a Gwen Stefani dei No Doubt. Quindi, altri due mesi e mezzo di quiet seclusion fino al 12 gennaio 2008, quando con Iman visitano la retrospettiva di Kara Walker My Complement, My Enemy, My Oppressor, My Love al Whitney Museum of American Art. Kara Walker è un’artista afroamericana tra le più conosciute nel panorama dell’arte contemporanea per le sue silhouette e per la sua arte socialmente impegnata a combattere stereotipi razzisti: una grande passione di Iman, pienamente condivisa da suo marito che si dà da fare per reclamizzare la mostra sul suo sito web con tutti i link del caso. Di lì a qualche giorno, il 22 gennaio, al Sundance Festival nello Utah va in scena la première di August, ma Bowie ovviamente non è nei paraggi. Al Sundance si vede invece l’attore Sam Rockwell, con una lunga barba incolta che, spiega, si è fatto crescere per prepararsi al suo prossimo film: «Sto per fare un film di fantascienza» rivela, «dove rimango bloccato sulla Luna per tre anni». Il film in questione è il primo lungometraggio di Duncan Jones, di cui iniziano a filtrare i primi dettagli: sembra che il titolo provvisorio sia Moon. A inizio febbraio Duncan inizia a girare ai Pinewood Studios di Londra dichia-
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rando alla stampa di esserne entusiasta: «Finalmente sto girando il mio primo film, una rappresentazione fantascientifica per adulti con, nel ruolo del protagonista, l’adorabile e talentuoso Sam Rockwell. Il film è già qualcosa di piuttosto speciale. Pensate a una cosa del tipo: un classico di fantascienza degli anni Settanta che è passato inosservato e che solo recentemente è stato disseppellito». Durante la lavorazione, Duncan rilascia anche un’intervista sul set che viene trasmessa dalla Bbc. La carriera del quasi trentasettenne regista sembra finalmente decollare. Se Duncan è sempre più nell’occhio dei media, Bowie appare invece assente. Sembra quasi che lo faccia apposta, per non togliere spazio al figlio con la sua presenza ingombrante. Ma intanto qualcosa intorno a lui si muove. A metà febbraio viene annunciata l’uscita (fissata per il 20 maggio) dell’album di Scarlett Johansson, il cui titolo è ANYWHERE I LAY MY HEAD, con i due featuring di Bowie appropriatamente pubblicizzati. E sempre a febbraio viene pubblicata un’altra importante biografia, Bowie in Berlin: A New Career in a New Town di Thomas Jerome Seabrook, che getta ulteriore luce sugli anni berlinesi.
bandslam Il 20 marzo Bowie torna a recitare, questa volta all’interno di un “teen movie”, Bandslam di Todd Graff, incentrato sulle vicende di Will Burton (Gaelan Connell), un liceale introverso e sognatore, fan di David Bowie. Quando sua madre Karen ottiene un nuovo lavoro nel New Jersey, Will è costretto a cambiare città e scuola. Nel nuovo liceo tutto sembra uguale tranne il fatto che il rock’n’roll domina. Will finisce per fare amicizia con Sam (Vanessa Hudgens), una outsider come lui. Con loro grande sorpresa, un giorno la ragazza più popolare della scuola, Charlotte, recluta entrambi per formare una band e partecipare al Bandslam, un’ambita competizione musicale di band. Nel corso del film Will scrive a Bowie delle e-mail in cui gli illustra le qualità del suo gruppo, che però non ottengono mai risposta. Solo sul finale, la cinepresa inquadra il Duca Bianco in un caffè del Greenwich Vil-
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lage mentre guarda il video che la band di Will ha postato su YouTube, e gli scrive immediatamente un’e-mail: «Caro Will Burton, sul tuo Myspace c’è scritto che sei il manager degli I Can’t Go On I’ll Go On… Bel nome! La tua band mi piace molto. Come saprai, sto aprendo un’etichetta indipendente. Voi avete già un contratto? Se ti va ne possiamo parlare… In bocca al lupo! David Bowie». La scena successiva mostra Will riverso sul pavimento incredulo e felice. Il brevissimo cammeo di Bandslam – «una scena di dieci secondi in assoluto silenzio», secondo la definizione di Bowie – si vedrà nei cinema a fine luglio 2009, e rimarrà l’ultima prova attoriale di David Bowie, escludendo i videoclip.
time will crawl Durante questi giorni in cui Bowie si mantiene appartato, invisibile al resto del mondo, si dedica tuttavia con impegno alla sua legacy, mettendo in ordine e rinfrescando il suo catalogo discografico. Ad aprile viene annunciata l’uscita ufficiale su Cd di un vecchio bootleg amatissimo dai fan, registrato a Los Angeles durante il primo tour americano con gli Spider from Mars. SANTA MONICA ‘72 vedrà la luce a giugno ed entrerà immediatamente a far parte del “canone bowiano”. E sempre in questo periodo Bowie conclude un accordo con il quotidiano inglese Mail On Sunday per la realizzazione di una compilation di sue vecchie canzoni da regalare come allegato agli acquirenti del giornale. Il Cd, intitolato ISELECTBOWIE – con una grafica simile a quella del greatest hits CHANGESONEBOWIE del 1976 – conterrà, a parte Life on Mars? e Loving Alien, canzoni non notissime del suo catalogo, con tanto di note e ricordi sulla genesi di ciascun brano scritte di suo pugno. Tutto materiale vecchio, quindi, tranne un pezzo: Time Will Crawl, uno dei migliori episodi di NEVER LET ME DOWN del 1987, di cui Bowie non era mai stato del tutto soddisfatto e che viene presentato in una versione remixata, anzi in parte risuonata. Il lavoro ha luogo nella prima metà del 2008 in uno studio newyorkese non meglio identificato, dove, sulla base originaria, viene sovrainciso un nuovo ritmo di batteria di Sterling Campbell e un
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quartetto d’archi composto da Martha Mooke, Krista Bennion Feeney, Robert Chausow e Matthew Goeke. Il tutto viene poi mixato dall’ingegnere del suono Mario McNulty dando più risalto alla linea vocale ed eliminando la percussione originaria («al punto che il primo minuto del brano consiste esclusivamente in voce, chitarra, tastiera e archi», come nota correttamente Nicholas Pegg nella sua “enciclopedia”) per quello che sarà chiamato Time Will Crawl (MM Remix). Come ha precisato Bowie nelle note di accompagnamento scritte per il «Mail On Sunday»: «Ho rimpiazzato la batteria elettronica con una vera batteria, ho aggiunto un po’ di archi che friniscono come grilli e ho remixato. Sono molto contento di questa nuova versione con la sua aria da Neil Young delle Shortlands. Oh, se potessi rifare anche tutto il resto dell’album». Finito questo estemporaneo lavoro di supervisione, dovranno passare oltre due anni e mezzo prima di rivedere Bowie in uno studio d’incisione. Tra le varie note d’accompagnamento, risulta di particolare interesse – sulla base di quanto accadrà a breve – quanto Bowie rivela a proposito di Sweet Thing/Candidate/Sweet Thing, definito “una delle colonne portanti della mancata produzione teatrale” 1984, poi divenuto, a seguito del diniego della vedova Orwell alla sua richiesta di realizzare un musical dal libro del marito, il concept incompiuto Diamond Dogs. «Anche se non ho mai avuto la pazienza o la disciplina per mettermi sotto e portare a conclusione un’idea teatrale musicale, a parte gli spettacoli rock per cui sono conosciuto, so che cosa avrei cercato di produrre se l’avessi fatto», scrive Bowie. «Non mi hanno mai appassionato i musical tradizionali. Trovo terribilmente difficile sospendere il mio scetticismo quando il dialogo diventa improvvisamente una canzone. Credo che una delle poche persone che abbia saputo far funzionare questa cosa sia Stephen Sondheim con opere quali Assassins. Preferisco piuttosto delle pièce portate avanti dalle canzoni, dove ci sia poco o niente dialogo. Sweeney Todd [di Sondeheim] ovviamente è un buon esempio. Le opere Peter Grimes e Il giro di vite (“The Turn Of The Screw”), entrambe di Benjamin Britten, e Ascesa e caduta della città di Mahagonny di [Kurt] Weill. Quanto sarebbe fantastico creare qualcosa del genere».
2. YOU’VE GOT THE BLUES, MY FRIEND (2007-2010) ISELECTBOWIE appare nelle edicole inglesi il 29 giugno 2008 ma poi verrà pubblicato in tutto il mondo dalla Emi, a seguito di massicce richieste, il 14 ottobre. Occorre invece aspettare più di tre mesi dalla sua precedente apparizione in pubblico per rivedere Bowie in giro per la città. Accade il 22 aprile, quando insieme a Iman presenzia come ormai da tradizione al party d’apertura del TriBeCa Festival di De Niro organizzato da «Vanity Fair» alla State Supreme Courthouse. Quest’anno Bowie sarà anche uno dei giurati del festival, per la categoria “Documentari e cortometraggi degli studenti delle scuole di cinema” (un altro dei giurati è l’attore Matthew Modine). Nelle foto scattate al party, Bowie sembra di ottimo umore, in compagnia, oltre che della moglie (in un portentoso abito floreale color fucsia), di Billy Crystal, di Bette Midler e della socialite newyorkese Amy Sacco. C’è ancora un’ultima serata mondana, il 5 maggio 2008, quando Bowie e Iman (entrambi vestiti Dolce & Gabbana) sono tra gli invitati al Metropolitan Museum of Art per il gala del Costume Institute sul tema “Superheroes: Fashion and Fantasy”, collegato a una mostra dallo stesso titolo organizzata da Giorgio Armani, a cui presenziano anche Anna Wintour, Julia Roberts, George Clooney, Tom Cruise & Katie Holmes, David & Victoria Beckham, Jack White & Karen Elson, Janet Jackson, Donatella Versace e Eva Longoria. L’ennesima passerella di star in cui i Bowie sfilano fianco a fianco con i loro pari ricchi e famosi. Poi, però, David Bowie sparisce nuovamente dalla circolazione, e stavolta per cinque mesi in cui non si sa che fine abbia fatto.
the man who fell to earth La mattina del 17 maggio 2008 il quotidiano inglese «The Sun» pubblica una notizia che, se confermata, sarebbe degna di nota: Bowie avrebbe dato il permesso di realizzare un musical tratto dal film L’uomo che cadde sulla Terra, nel quale nel 1976 interpretò la parte del protagonista. Il musical sarebbe diretto dal regista danese Peter
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Schaufuss, che con il beneplacito di Bowie dovrebbe utilizzare le canzoni del suo catalogo più legate a tematiche fantascientifiche. Secondo il Sun, Schaufuss ha intenzione di mettere in scena la prima del suo musical nella natia Danimarca il prossimo autunno. La notizia viene rilanciata anche da BowieNet, che riporta una replica di Bowie alquanto piccata: «È una totale bufala. Non so nemmeno chi sia Peter Schaufuss». Però il Sun non deve essersi inventato tutto. In verità Peter Schaufuss è piuttosto conosciuto come coreografo e direttore di balletti, e ha anche vinto numerosi premi internazionali. Inoltre ha da poco portato in scena all’Apollo Theatre di Londra uno spettacolo di danza, Satisfaction, basato su 24 successi dei Rolling Stones a cui ha collaborato per la parte scenografica nientemeno che Gerald Scarfe (noto per aver lavorato su The Wall dei Pink Floyd), il quale ha disegnato per gli sfondi una serie di caricature di Mick Jagger & Co. (lo show è stato poi stroncato dal «Guardian» e dal resto della critica, ma questo è un altro discorso). È probabile, insomma, che chiacchierando con qualche giornalista durante le repliche londinesi di Satisfaction, Schaufuss abbia fatto cenno a un’idea – realizzare uno spettacolo con musiche di Bowie sulla trama de L’uomo che cadde sulla Terra – che per ora è solo nella sua mente. E poi, naturalmente, il «Sun», ha ingigantito tutto alla sua maniera dando la cosa per già fatta. Potrebbe finire lì, ma il 19 maggio BowieNet diffonde un comunicato ufficiale: «Contrariamente a quanto riferito dai media britannici, l’ufficio stampa del Sig. Bowie ha confermato che “non si è alleato con Peter Schaufuss” per presentare versioni teatrali di alcuno dei suoi lavori musicali. Un portavoce della Rzo Music ha detto: “Non abbiamo dato in licenza assolutamente nessun materiale scritto dal Sig. Bowie a Schaufuss. Lui non ce l’ha mai richiesta e noi non abbiamo intenzione di concedergliela”. Il portavoce ha altresì detto: “Siamo in contatto con gli eredi di Walter Tevis [l’autore del romanzo L’uomo che cadde sulla Terra, N.d.A.] e sappiamo di prima mano che neanche loro hanno dato in licenza a Schaufuss i diritti musicali per L’uomo che cadde sulla Terra. Se in futuro la pubblicità per questa produzione darà l’impressione di utilizzare
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un nome non autorizzato e il ritratto del Sig. Bowie, chiederemo se necessario un’ingiunzione restrittiva». Una risposta così forte e chiara fa pensare che il rischio di vedere messa in scena una versione piratesca di L’uomo che cadde sulla Terra ci sia effettivamente stato. Anche perché Peter Schaufuss, non volendo abbandonare del tutto la sua idea del rock-musical, nel 2009 ripiegherà su Tommy degli Who, messo in scena al Teatro di Odense in Danimarca. Chissà se stavolta ha chiesto e ottenuto regolare licenza da parte di Pete Townshend e compagni. E la faccenda si chiude qui. Solo per il momento, però, perché l’idea di trarre un musical da L’uomo che cadde sulla Terra è troppo intrigante per essere lasciata cadere così. Forse, involontariamente, Peter Schaufuss ha gettato il primo seme di uno dei futuri progetti di Bowie.
sundance Termina la primavera, passa tutta l’estate, inizia l’autunno. E Bowie ricompare, paparazzato dal Sun l’11 ottobre con un maglioncino blu, un paio di occhiali da sole e un cappellino da baseball, con in mano una borsa della spesa, dopo essere uscito da Dean & Deluca, il raffinatissimo mix tra supermercato, rosticceria e cafè di SoHo dove è solito fare colazione. Il 5 novembre, come riporta Nicholas Pegg sulla sua “enciclopedia”, accoglie «la notizia della vittoria di Barack Obama alle elezioni scrivendo semplicemente su BowieNet: “Che grande giorno”». E anche quest’anno Bowie e Iman sono di corvée al Black Ball della fondazione Keep a Child Alive, che si tiene il 13 novembre come di consueto all’Hammerstein Ballroom. Tra i performer stavolta ci sono la nuova star britannica Adele, la solita Alicia Keys, Justin Timberlake e Chris Daughtry. Bowie si limita a farsi fotografare, con Iman, con Adele e con chi capita. Il 3 dicembre viene diffusa una notizia che sul momento non pare di grande interesse: Bowie ha inviato (“in prestito”) due suoi vecchi costumi, uno dell’epoca Ziggy Stardust e quello di Pierrot del video
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di Ashes to Ashes, alla mostra British Music Experience che si terrà a Londra, nell’avveniristica 02 Bubble, tra il primo marzo e il 31 dicembre 2009. Si tratta di una full immersion nella storia del rock inglese dal 1944 a oggi, con un percorso organizzato attraverso suoni e immagini, sale tematiche, banchi touchscreen, juke-box e ologrammi con i quali si può interagire. Tra i pezzi forti, le chitarre di Keith Richards, Pete Townshend, Brian May, Noel Gallagher e Paul Weller, il vestito usato da Roger Daltrey a Woodstock e quelli delle Spice Girls, oltre ovviamente ai costumi di Bowie. Musica, vestiti, copertine di dischi, poster e ologrammi: British Music Experience non è solo una mostra ma un’esperienza audiovisiva, non diversamente da come sarà concepita David Bowie Is quattro anni più tardi. Poi si registra un altro buco di più di due mesi, prima che Bowie, ormai sessantaduenne, ricompaia all’Eccles Theatre di Park City nello Utah, il 23 gennaio 2009 alla première del film d’esordio di Duncan Jones, Moon, al Sundance Festival. Un po’ infreddolito, con tanto di sciarpetta intorno al collo, David ha l’aria del padre orgoglioso. Duncan ce l’ha fatta: il film – un piccolo gioiello di fantascienza “intelligente” – sta ricevendo ottime critiche, ed è stato già firmato un contratto di distribuzione con la Sony Pictures. Questa la trama: Sam Bell (Sam Rockwell) è un impiegato delle Lunar Industries, inviato sulla Luna per l’estrazione dell’Elio 3; sulla Terra lo attende la moglie incinta. Poche settimane prima di completare il lavoro, però, Sam inizia ad avere delle bizzarre allucinazioni, preambolo di inquietanti rivelazioni sulla vera natura della sua missione. E forse di Sam stesso. Tra le fonti d’ispirazione di Moon, che parla principalmente di isolamento, Duncan, forse per pudore, non ha mai fatto riferimento alla canzone del padre Space Oddity, preferendo citare 2001: Odissea nello spazio. È interessante, tuttavia, che gli altri temi dominanti del film siano quelli dello sdoppiamento di personalità e della perdita di identità, altre due questioni con cui suo padre aveva dovuto a lungo combattere nel corso degli anni Settanta. Durante la conferenza stampa post-proiezione Duncan fa salire sul proscenio lo sceneggiatore Nathan Parker, l’attore Sam Rockwell e la
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principale produttrice Trudie Styler, che ringrazia per il supporto il marito Sting, seduto in platea accanto a Bowie. I ringraziamenti più sentiti di Duncan sono invece «per mio pad… per papà. Ci ho messo un sacco di tempo a capire cosa volevo fare nella vita e lui è sempre stato molto paziente con me. Grazie papà». E Bowie, visibilmente emozionato, dichiara ai giornalisti: «È un film eccezionale. È difficile crederci, è il primo che fa. Sono felice per lui e sono orgogliosissimo». Passano altri tre mesi prima che Bowie si faccia rivedere (con Iman), per assistere a un’altra proiezione di Moon il 30 aprile 2009 a New York, nell’ambito del Tribeca Film Festival. Tra gli invitati ci sono anche Sam Rockwell, il produttore Stuart Fenegan, Sting e ovviamente sua moglie Trudie. È un periodo in cui Duncan se ne va in giro per festival, fa incetta di premi e rilascia molte interviste (in cui sottolinea a ogni piè sospinto di aver sempre fatto tutto da solo per sfondare nel cinema, senza mai chiedere aiuto al padre), e Bowie sembra quasi voler lasciare tutta la scena al figlio. Si occupa di gestire il suo catalogo, questo è certo. Cat People, il brano inciso con Giorgio Moroder nel 1982, viene concesso per l’uso nell’imminente film di Quentin Tarantino Bastardi senza gloria. Per il 6 luglio è fissata l’uscita di DAVID BOWIE – VH1 STORYTELLERS, Cd e Dvd resoconto della performance televisiva del 23 agosto 1999 per VH1, e il 12 ottobre arriverà nei negozi l’edizione deluxe in doppio Cd per il quarantennale dell’album DAVID BOWIE (alias SPACE ODDITY). Quindi, il 25 gennaio 2010 la Sony pubblicherà su Cd il live tratto dalle date di Dublino del Reality Tour. Per il resto, fino al 15 ottobre – data in cui riappare a fianco di Iman al tradizionale gala di beneficenza Black Ball all’Hammerstein Ballroom – Bowie non si vede e non si sente. È scomparso. Ha problemi di salute. Oppure no?
michael cunningham «Buongiorno. Parlo con Michael Cunningham?». «Sì, sono io».
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«Sono David Bowie. Spero di non disturbarla». «Chiunque sia, è davvero uno scherzo crudele». «No, sul serio, sono David. Come va?». Questa conversazione telefonica tra Bowie e Michael Cunningham è stata riferita dallo scrittore nel suo racconto Space Oddity: l’ultimo progetto segreto di David Bowie (pubblicato nel 2017 sulla rivista «GQ» e in italiano sulla raccolta Rebels edita da La Nave di Teseo). Ma non c’è certezza su quando sia avvenuta. Cunningham è avaro di particolari cronologici e fra l’altro si contraddice: nella versione italiana dice che è avvenuta “più o meno cinque anni fa” – quindi nel 2010-2011, considerando che la stesura risale al 2016 – mentre in quella inglese parla di “circa dieci anni fa” e avrebbe quindi avuto luogo nel 2006, cosa improbabile per via di altri dettagli seminati nel racconto (e Susan Compo, nel suo libro Earthbound parla addirittura di maggio 2005 sulla base, si può supporre, del testo per «GQ»). È necessario quindi fare delle supposizioni, e la cosa più probabile è che la verità sia una via di mezzo, ossia che la chiamata in questione sia stata fatta nell’autunno del 2009. Quando Bowie gli telefona al cellulare, infatti, Cunningham si è appena seduto su un treno che da New York lo sta portando a New Haven, alla prestigiosa università di Yale, dove a fine settembre 2009 gli è stata affidata una posizione come “part-time senior lecturer” dalla facoltà di lingua inglese. Da qualche anno, Cunningham è uno degli autori contemporanei più celebrati. Il suo romanzo del 1998 The Hours (in italiano: Le ore), ha vinto il premio Pulitzer e il Pen-Faulkner per la letteratura. E in generale, i suoi libri sono letti e tradotti in tutto il mondo. Cunningham, peraltro, non dovrebbe meravigliarsi che sia davvero Bowie in persona a chiamarlo. I due infatti hanno una conoscenza in comune: è Robert Fox, che nel 2002 ha co-prodotto la trasposizione cinematografica di The Hours diretta da Stephen Daldry. Bowie ha sicuramente visto quel film e quasi certamente ha anche letto il romanzo, nel momento in cui compone il numero del cellulare dello scrittore. O anche, come ipotizza il sito web Pushing Ahead of the Dame, potrebbe essere rimasto colpito dalla sua raccolta Specimen Days del
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2005 (in italiano: Giorni memorabili, pubblicato da Bompiani) contenente tre racconti ambientati nel passato, presente e futuro, con Walt Whitman come filo conduttore. Cunningham rimane senz’altro sbalordito quando Bowie gli spiega il motivo della telefonata: «Stava pensando di iniziare un nuovo progetto: un musical. Io avrei scritto il testo, disse, lui la musica. Al telefono non si dilungò in dettagli, ma fissammo un pranzo a New York per la settimana successiva». È possibile che tra Bowie e Robert Fox si sia svolta una conversazione simile a quella che avrà luogo a Londra quando, nel 2013, la star inglese confiderà a colui che è il suo contatto più fidato nell’ambito delle produzioni teatrali di voler scrivere un musical? Con la differenza che stavolta Fox gli ha consigliato di far scrivere la parte testuale del musical a Michael Cunningham, con cui ha avuto modo di collaborare non troppo tempo prima. Sono, naturalmente, mere congetture. Ma per quale motivo, altrimenti, rivolgersi a uno come Cunningham, che ha scritto qualche sceneggiatura per il cinema ma non ha alcuna esperienza pregressa in fatto di musical?
Caro Francesco, vorrei poterti essere di maggior aiuto. Il racconto che ho scritto su me e David Bowie è un mio ricordo, non è da intendere come giornalismo, le date sono vaghe nella storia perché sono vaghe nella mia mente. Non c’è stato nulla di scritto all’epoca. È un po’ come chiedere se ti è capitato di avere una serie di conversazioni informali con un tuo amico questo o un altro anno. Temo che la mia memoria non sia così buona. I fatti sono stati rigorosamente controllati da «GQ» prima che fosse pubblicato, e se i “fact-checkers” di «GQ» non sono stati in grado di individuare una datazione esatta, è probabile che tale datazione non possa essere assolutamente determinata. Potrei giusto dire che è accaduto dall’autunno 2009 fino all’estate 2010 se ciò può essere d’aiuto, sembra leggermente più probabile,
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e se qualcuno si dovesse lamentare per l’accuratezza potrai sempre dare la colpa a me. Buona fortuna con il tuo libro, non vedo l’ora di leggerlo quando sarà finito. Cordialmente, Michael C
E autunno 2009-estate 2010 sia. Il primo incontro tra Bowie e Cunningham avviene in un ristorante giapponese dei West Village, «ineccepibile ma non straordinario», presumibilmente quindi nell’ottobre o nel novembre del 2009. Quando lo scrittore arriva, Bowie è già seduto a un tavolo insieme a Coco Schwab. Dice a Cunningham che gli piacciono molto i suoi libri e lo scrittore dice che gli piace molto la sua musica, celando il fatto di essere stato un fan sfegatato fin da quando, da ragazzo, andava in giro per Pasadena con i capelli tinti di rosso e una maglietta di Ziggy Stardust. Poi si mettono al lavoro. Secondo quanto raccontato da Cunningham, Bowie è inaspettatamente vago e generico riguardo ai suoi desiderata per il musical. «Confessò», ha scritto Cunningham, «di essere intrigato dall’idea di un alieno caduto sulla Terra». A quanto pare non era mai stato del tutto soddisfatto dal ruolo interpretato nel 1976 in L’uomo che cadde sulla Terra. «Disse che gli sarebbe piaciuto che almeno uno dei personaggi principali fosse un alieno». Ha scritto Susan Compo, che ha avuto uno scambio di e-mail con Cunningham: «Una cosa era certa: non sarebbe stato necessario rileggere il romanzo di Tevis o riguardare il film di Roeg. “Se non altro” ha ricordato Cunningham, “era meglio non farsi influenzare da un’altra storia sul summenzionato alieno. Sarebbe stato diverso se David avesse avuto una reverenza per il film, se avesse voluto che il nostro fosse un omaggio o un prendere spunto o qualcosa del genere. Non avremmo usato in nessuna maniera il contenuto del film, al di là del concetto di un alieno sulla terra, che è così chiaramente di pubblico dominio. Non stavamo basando il musical su L’uomo che cadde sulla Terra».
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Bowie dice inoltre a Cunningham che immagina «un musical ambientato nel futuro, dopo la scomparsa di Bob Dylan. La trama avrebbe girato attorno a un gruppo di canzoni inedite e sconosciute di Dylan che vengono scovate dopo la sua morte. David stesso avrebbe scritto le canzoni segrete di Dylan». Nel racconto, Cunningham fa capire che ritiene questa richiesta quanto mai strampalata se non assurda, sebbene faccia del suo meglio per tenere la bocca chiusa. Se non gliel’avesse fatta David Bowie, probabilmente si sarebbe alzato e se ne sarebbe andato. Ha dichiarato via e-mail a Susan Compo: «Ero concentrato a capire quello che David voleva, quello che volevo io e come le due cose potessero essere plausibilmente messe insieme. Ho cercato, se non di dissuaderlo, almeno di levargli dalla mente quest’idea di scrivere finte canzoni di Dylan, insieme al concetto di queste canzoni in precedenza ignote di Dylan che erano state scoperte. Semplicemente, ho evitato di parlarne dopo il nostro incontro iniziale, e neanche David ne ha più parlato». C’è poi un terzo punto. Dopo un momento di imbarazzo, Bowie dice che sta pensando «ad alcuni autori popolari ma non considerati dei grandi artisti, e in particolare alla poetessa Emma Lazarus», che nel 1883 scrisse The New Colossus, la poesia incisa alla base della Statua della Libertà che tutti conoscono a memoria. La preoccupazione di Bowie è la seguente: chi siamo noi «per decidere di insegnare un poeta in poche università, se non in nessuna, di includerlo in poche antologie, se non in nessuna, quando magari la sua opera è più nota di quella dei più osannati e immortali scrittori?». Nel fare questo ragionamento, Bowie stava pensando probabilmente anche a se stesso, alla sua legacy di artista popolare ma non considerato degno di essere inserito nei libri di testo o studiato alle università. Un punto di vista interessante, commenta Cunningham, evitando però accuratamente di specificare che non lo condivide. E come può d’altronde condividerlo, facendo lui parte di quella genia di autori poco o nulla conosciuti dalle masse, ma, per contro, celebrati e osannati dalla comunità letteraria e accademica e studiati nelle scuole e nelle università? E c’è anche un quarto punto, che Bowie comunica a Cunningham per telefono qualche giorno dopo: «Gli sarebbe piaciuto mettere nel
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musical della musica mariachi, visto che in America ed Europa non è molto conosciuta». Il primo incontro finisce qui, non prima che Coco Schwab abbia modo di dare un consiglio a Cunningham: «So di non doverle chiedere di tenere questo progetto riservato». Al che lo scrittore – si può pensare scherzosamente – le risponde: «Pensa veramente che un musical su un alieno, un defunto Bob Dylan e le opere di Emma Lazarus sia un’idea che qualcuno voglia rubare?». Ma, ha raccontato lo scrittore a Susan Compo, «L’ho detto ai miei amici. Non vedevo alcuna ragione per non farlo. Ho avuto dei problemi con David, tuttavia, per averne fatto cenno in un’intervista con una rivista letteraria israeliana che era su tutto un altro argomento». A quanto pare, Cunningham avrebbe parlato del musical in risposta alla domanda: «Su cosa sta lavorando adesso?». «Sapevo che Coco mi aveva messo in guardia dopo il nostro primo incontro», ha detto Cunningham via e-mail alla Compo, «ma io pensavo che si riferisse al contenuto della collaborazione, non al fatto che stavamo lavorando insieme. Io e David abbiamo fatto pace dopo che avevo spifferato la cosa a questa pubblicazione israeliana, e non ho più rifatto quell’errore. In effetti, era stato ripreso da più parti su Internet. Sembra che io abbia ingenuamente sottostimato il grado di interesse per ogni singola cosa che David pensava o faceva». David Bowie scompare nuovamente, e stavolta per un periodo lunghissimo. Dopo la serata Black Ball del 15 ottobre 2009, viene avvistato e fotografato tre volte ai primi di novembre mentre cammina per SoHo. Il 6 novembre è con Iman mentre ritornano da una riunione dei genitori alla scuola di Lexi. Il 2 e il 10 novembre è da solo, con un borsello in spalla e quello che sembra un Pc portatile. Starà mica andando a un appuntamento di lavoro con Cunningham? Una delle frasi che più avevano colpito lo scrittore è che Bowie si era mostrato eccitato all’idea di iniziare un nuovo progetto, dicendo senza tracce d’ironia: «Ora posso fare una delle mie cose preferite: andare in una cartoleria a prendere matite e post-it». Dopo queste foto rubate, non lo si vedrà in giro per oltre cinque mesi. Ma in realtà ora sappiamo – o meglio, supponiamo, perché dal punto di vista della cronologia non vi sono certezze – che dietro le
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quinte Bowie sta lavorando, sta componendo nuove canzoni per suo conto e assistendo Cunningham nella stesura della trama del musical. Man mano lo scrittore riesce a superare le proprie remore sulla bizzarria del progetto, fino ad abbozzare «un terzo del testo di un musical che in effetti comprendeva un alieno, Emma Lazarus e una band mariachi. Non ero ancora riuscito a trovare un modo per far entrare nella trama le canzoni inedite di Bob Dylan». Alcune sessioni di lavoro tra i due si svolgono nel loft di 1.300 metri quadri che Cunningham divide con il suo compagno, lo psicanalista Ken Corbett, a Union Square. È plausibile che altri incontri si tengano nello studio che Cunningham ha affittato nel Greenwich Village e che di solito usa per scrivere i suoi libri, ma nel racconto non ne parla. Durante quelle visite, Bowie rimane particolarmente colpito «da una collezione di scarpette da bambola in gomma, prese nel corso degli anni in vari mercatini delle pulci». Cunningham arriva alla conclusione che Bowie sia «un genio con un taglio di capelli discutibile, una devozione per i post-it e un istantaneo entusiasmo per un dozzina di scarpette bianche in fila su una delle mie mensole». Le settimane diventano mesi, finisce il 2009 e inizia il 2010. Bowie compie 63 anni e non si sa quale sia, in questo periodo, il suo stato di salute. Si sa solo che è scomparso, e stanno iniziando a girare voci allarmanti sul suo conto. In primavera Cunningham e Bowie stanno ancora lavorando sul musical. «Un sabato di maggio», prosegue lo scrittore, «alla ricerca di un luogo tranquillo in cui lavorare, andammo nel suo studio, un appartamento di stanze di un bianco immacolato dove un piccolo staff lavorava durante la settimana, ma che restava vuoto nel weekend: gli uffici della Isolar a Lafayette Street». La domanda sorge spontanea: per quale motivo Cunningham ricorda che era un “sabato di maggio”, fornendo così uno dei pochissimi riferimenti temporali del racconto, in maniera però piuttosto gratuita? E come mai erano alla ricerca di un luogo “tranquillo”? Forse perché nel luogo dove si erano incontrati quel giorno c’era una confusione non prevista? Per esempio il primo maggio 2010 – un sabato – se Bowie e Cunningham si fossero visti a casa dello scrittore a Union Square… Be’, quel giorno intorno alla piazza c’è una con-
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fusione pazzesca dato che migliaia di persone si sono date appuntamento al parco di Union Square per protestare contro una controversa legge dell’Arizona sull’immigrazione. Può essere quello il motivo del cambio di programma?
Caro Francesco, grazie per la tua e-mail. Mi dispiace comunicarti che, ancora una volta, siamo nel regno della memoria e non nel regno dei fatti. Quindi potrebbe essere stato un sabato di maggio. Ma potrebbe anche essere stata una domenica d’aprile. Quello che c’è, di qualsiasi remota natura fattuale… Avevamo bisogno di un “luogo tranquillo” in quel giorno perché sia David che io avevamo delle famiglie, ed entrambe le nostre famiglie erano a casa in quel giorno particolare. Solitamente ci incontravamo quando il suo appartamento, o il mio, era vuoto, ma le nostre agende tendevano a essere piene, e quindi ci vedevamo nei giorni che potevamo, la qual cosa qualche volta poteva dar luogo a complicazioni. Era rilevante che fosse un sabato perché andammo allo studio di David, dove ci sarebbero stati diversi membri del suo staff dal lunedì al martedì, ma che era vuoto nei fine settimana. Tutto qui, quindi. Non stavamo scappando da un’imponente manifestazione, stavamo “scappando” dalle nostre famiglie, e lo studio di David era il solo luogo in cui potessimo logicamente andare in quel particolare giorno. Quest’altra cosa è forse irrilevante, ma anche se ci fossimo incontrati nel giorno della grande manifestazione a Union Square, né io né David vivevamo abbastanza vicino a Union Square da fare in modo che una manifestazione potesse costituire una distrazione. Io vivevo all’angolo tra la 6th Avenue e la 16a Strada, diversi isolati da Union Square, in un loft al nono piano, con le finestre insonorizzate. David viveva sotto a Houston Street, a una distanza abbastanza considerevole da Union Square. Così, giusto per chiarire che io e David non stavamo scappando da una grande protesta pubblica.
2. YOU’VE GOT THE BLUES, MY FRIEND (2007-2010) Ti auguro buona fortuna con il tuo libro. Sospetto che fatti concreti sulla vita di David – le tempistiche esatte, i luoghi e le date – siano un po’ difficili da individuare, però mi sembra che l’essenza di David, la sua vita e il suo lavoro, possano emergere anche se i luoghi specifici e le ore non possono essere pienamente determinati. Lui era, dopo tutto, uno spirito libero. Cordialmente, M
Quel giorno, entrando nello studio, Cunningham nota delle «scatole d’archivio, accatastate con ordine, da terra fino al soffitto». Indicandole con noncuranza, Bowie dice: «Stanno archiviando i miei vecchi costumi». Qualche anno dopo, Cunningham è in grado di fare due più due: la mostra David Bowie Is sarà inaugurata al Victoria & Albert Museum di Londra il 13 marzo 2013, ma quasi quattro anni prima Bowie ha già iniziato a lavorarci. Secondo quanto in seguito raccontato da Victoria Broackes, la curatrice della mostra, i primi contatti tra il V&A e l’organizzazione bowiana avvengono per la verità più in là, suppergiù tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011: «Qualcuno ci ha accennato che Bowie aveva un archivio fantastico» dirà all’inizio del 2013. «Ci hanno presentato il suo manager più di due anni fa, e ci siamo messi a discutere con lui della possibilità di realizzare una mostra. Era chiaro che Bowie non sarebbe stato coinvolto, ma ci avrebbe consentito di accedere ai suoi archivi». Dopo quel giorno i due artisti si incontrano altre volte negli uffici della Isolar, durante le quali, racconta Cunningham, «David si metteva a lavorare a brevi brani musicali, al piano o al sintetizzatore. Quello che provava era subito affascinante, complesso, commovente. Mi spiace di non poterlo riprodurre per voi. Non fu mai registrato». Cunningham sottolinea la «bellezza» di queste nuove canzoni, che possiedono «un’urgenza». Sono «magnifiche» ma anche «lievemente sinistre», e i loro riff sono «già dotati di animo e profondità e di un sottostante sussurro di malinconia».
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Per quanto riguarda lo stato di salute di Bowie in questi mesi, il giudizio di Cunningham è però netto e non lascia spazio a dubbi: «David fu così debole per così tanto tempo». Non proprio il ritratto della salute, insomma, mentre tutti pensano che stia giocando a fare Greta Garbo. E quando meno te lo aspetti, Bowie ricompare. Ai primi di aprile 2010 David e Iman vengono colti a passeggio insieme su East Houston Street. E il 20 maggio Bowie partecipa a un rinfresco da Barney’s, la boutique di lusso sulla Quinta Strada, in onore di Iman che sta per ricevere il Fashion Icon Award del Council of Fashion Designers of America (uno dei premi più prestigiosi nell’ambito della moda). In quei giorni il «New York Times» pubblica una monografia retrospettiva su Iman in cui si fa cenno anche alle attività correnti del marito, il quale «disegna, dipinge e colleziona opere artistiche britanniche del Ventesimo Secolo», e non ha alcuna intenzione di tornare a fare concerti. «Sto bene così» avrebbe dichiarato Bowie, il quale il 7 giugno è presente alla cerimonia di consegna del premio che si svolge all’Alice Tully Hall del Lincoln Center. È pallido, un po’ gonfio in viso, con le borse sotto gli occhi. Potrebbe anche essere il naturale processo di invecchiamento, ma desta sensazione – c’è un video su YouTube impietosamente intitolato “DB Looks Old at the 2010 CFDA Awards” – perché si tratta di David Bowie, uno che per tanti anni è sembrato farsi beffe del tempo. E comunque in questo frangente deve sentirsi meglio del solito, perché il giorno dopo, l’8 giugno, è tra il pubblico all’Iridium Jazz Club a Brodway per vedere il suo vecchio amico Jeff Beck – special guest del concerto finale di Ziggy Stardust & the Spiders from Mars all’Hammersmith Apollo nel lontano 1973 – suonare in occasione del compleanno del “padre della chitarra elettrica” Les Paul, che compie 95 anni. Bowie è seduto a un tavolo insieme al potente promoter inglese Harvey Goldsmith (quello di Live Aid, e non solo) e sembra divertirsi. Goldsmith ha raccontato a Dylan Jones: «Mi ha telefonato e mi ha chiesto di venire allo show, e ce lo siamo visti insieme seduti. Dopo, a cena, ha detto che non gli piaceva molto comporre con altra gente, ma che avrebbe voluto scrivere con Jeff Beck. Ma non è mai accaduto, e lui è scomparso nuovamente».
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Dopo lo show Bowie si ferma nei camerini dove vengono scattate le foto d’obbligo con Jeff Beck e Brian Setzer, l’ex leader degli Stray Cats, chitarra aggiunta per l’occasione. Poi, a tarda notte, scrive una mini-recensione che il giorno dopo sarà pubblicata su BowieNet: «Sono appena tornato dopo aver visto Jeff Beck all’Iridium Club di New York (serata tributo a Les Paul) con Imelda May alle prese con la vocalità di Mary Ford su canzoni come How High The Moon… roba classica. Hanno suonato anche una versione formidabile di Remember (Walkin’ in the Sand) delle ShangriLas come bonus”. In questi giorni viene annunciata l’uscita di un’edizione deluxe di STATION TO STATION, il disco del 1976 dove Bowie appariva in copertina in un’immagine tratta da L’uomo che cadde sulla Terra. La novità è che oltre all’album originale verrà pubblicato per la prima volta in forma ufficiale LIVE NASSAU COLISEUM ’76, registrato il 23 marzo 1976 durante l’Isolar Tour, già noto come bootleg e considerato da molti come il miglior live di Bowie in senso assoluto, anche per via della sua eccezionale performance vocale di quella sera. Il cofanetto uscirà il 20 settembre 2010. Poi, per qualche anno, non ci saranno altre ristampe: l’impressione è che si stia preparando, per quanto riguarda la strategia bowiana rispetto allo sfruttamento del “catalogo”, una completa, inedita riformulazione. Dopodiché, altri cinque mesi in cui Bowie sembra essersi nuovamente volatilizzato. Cosa sta succedendo? A questo punto – a giugno, a luglio del 2010? – Cunningham è giunto circa a metà della prima stesura del musical, e telefona a Bowie per leggergli un passaggio che ritiene importante: «Mi sembrò giusto che l’alieno, che aveva assunto fattezze umane, si innamorasse di una donna terrestre. Raggiungono un livello di intimità tale che l’alieno comincia a pensare di doverle mostrare la sua vera natura, abbastanza diversa da quella del trentenne moderatamente affascinante che lei crede di frequentare. Diciamo solo che la vista del vero aspetto del suo nuovo fidanzato è piuttosto faticosa per la giovane donna». Strano, perché quella che Cunningham ritiene una fondamentale svolta della trama è in realtà la riproposizione pari pari di una delle scene clou di L’uomo che cadde sulla Terra, quando Thomas Jerome
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Newton si rivela a Mary-Lou (che se la fa sotto per lo spavento). Non sappiamo cosa pensa Bowie quando Cunningham gli legge questo passaggio, se resta deluso per la scarsa audacia creativa o se lo ritiene, al contrario, naturale e indispensabile nell’economia della storia. Sappiamo però che richiama lo scrittore il giorno dopo per fargli sentire al telefono una “ballata d’amore folle e leggermente dissonante” che ha composto per la scena in questione. È proprio in quei giorni, però, che «il problema cardiaco di David» si ripresenta. Questa volta ha «immediato bisogno di un triplo bypass». Il musical viene sospeso e non sarà più ripreso. Lo scrittore ipotizza varie ragioni per questa cancellazione definitiva: «Forse, a lungo andare, la nostra passione si raffreddò. Forse David non voleva avere altri contatti con qualcuno che gli ricordava un periodo tanto buio e spaventoso. Forse, semplicemente, non voleva dirmi che aveva perso interesse per il progetto ancor prima che la malattia lo colpisse: che la mia sensibilità non era abbastanza audace per lui». Dopo l’intervento, Bowie e Cunningham si rivedono un paio di volte e si scambiano qualche e-mail, poi il rapporto inizia a sfumare senza che nessuno dei due menzioni più il musical. Atto finale: durante la convalescenza, Cunningham mette le scarpette di plastica delle bambole in una busta e le lascia al portiere della casa di Lafayette Street. Bowie subito dopo gli scrive un’e-mail per ringraziarlo. Per qualche anno questo resterà il loro ultimo scambio. Uno degli aspetti più importanti del racconto di Michael Cunningham è che testimonia come nel 2009-2010 Bowie avesse ricominciato a comporre canzoni in vista di un obiettivo, ciò che non accadeva dai tempi di REALITY. Non chiarisce però – e probabilmente non ne è neanche a conoscenza – se in questo lavoro di songwriting Bowie si avvalesse di collaboratori (quali ad esempio Tony Visconti) o se agisse interamente da solo. E poi: che canzoni erano? Possibile che non siano mai più riapparse in nessun’altra forma (magari con delle liriche diverse) su qualcuno degli album successivi, in linea con quello che è sempre stato un modus operandi bowiano nel corso di tutta la sua carriera? Cunningham è abbastanza risoluto nell’affermare che ciò che ha sentito suonare da Bowie in quei mesi «non fu mai registrato». Aggiunge inoltre che «i
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nuovi brani [del musical Lazarus, N.d.A.] non c’entravano nulla con i riff che avevo visto creare». Presumibilmente Cunningham ha avuto modo di sentire, oltre a LAZARUS, anche THE NEXT DAY e BLACKSTAR. Ma se invece gli fosse sfuggito THE NEXT DAY EXTRA, ossia l’edizione deluxe uscita il 5 novembre 2013 con dieci bonus track? Una di queste, Born in a UFO, sembra più in linea con un musical su un alieno che con il resto di THE NEXT DAY, e il testo contiene anche un riferimento a una famosa strofa di Bob Dylan, “no direction home”. I come to the glade and watch the saucer land She glided through the mist in an a-line skirt Booted her shoes like hooves in the dirt Her clutch bag reflected the sun and steel “The 50’s movie”, so many squealed “There’s no direction home”, she pleads She cornered me against the trees I was home I thought, my life could start She was (not like the other girls) (I was) born under a stone (We were) born with a single voice She was born in a UFO Born in a UFO Arrivo nella radura e vedo il disco volante che atterra Lei planò nella nebbia in una gonna a trapezio Scalciò i suoi stivali come zoccoli nel sudiciume La sua borsetta a tracolla rifletteva il sole e l’acciaio “Un film degli anni 50”, strillarono in tanti “Non ci sono indicazioni per casa”, implora lei Mi ha intrappolato contro gli alberi Ero a casa, ho pensato, la mia vita può iniziare Lei era (non come le altre ragazze) (Io ero) nato sotto una pietra
DAVID BOWIE. L’ARTE DI SCOMPARIRE
(Noi eravamo) nati con un’unica voce Lei era nata in un UFO Nata in un UFO Altre due bonus track, Like a Rocket Man e Atomica, per stile musicale e testi sembrano provenire da un progetto diverso da quello cui sono state destinate. E anche il vero e proprio THE NEXT DAY dà da pensare. La title track, in fondo, con un diverso arrangiamento (e delle differenti liriche) sarebbe una canzone molto dylaniana. Poi c’è Dancing out in Space: è una delle canzoni minori nel contesto dell’album, ma non sarebbe invece perfetta se venisse inserita in un musical su un uomo caduto sulla Terra? No one here can see you Dancing face to face No one here can beat you Dancing out in space Qui nessuno ti può vedere Ballando faccia a faccia Qui nessuno ti può battere Ballando là fuori nello spazio E c’è un altro brano minore che sembra fuori posto su THE NEXT DAY: è (You Will) Set the World on Fire, che il sito web Pushing Ahead of the Dame descrive come «una canzone alla Broadway, la sua versione da music-hall del rock’n’roll» alla Star o alla Zeroes. Se musicalmente rimanda al suono heavy rock da FM di fine anni Settanta, la vera anomalia del pezzo consiste nel testo, in cui Bowie canta dal punto di vista di un manager nella scena folk del Greenwich Village dei primi anni Sessanta. E a un certo punto, nella strofa, fa capolino anche un giovanissimo Bob Dylan. Midnight in the Village Seeger lights the candles
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From Bitter End to Gaslight Baez leaves the stage Ochs takes notes When the black girl and guitar Burn together hot in rage You’ve got what it takes You say too much You will set the world babe You will set the world on fire I can work the scene babe I can see the magazines […] Kennedy would kill For the lines that you’ve written Van Ronk says to Bobby She’s the next real thing Mezzanotte nel Village Seeger accende le candele Dal Bitter End fino al Gaslight Baez scende dal palco Ochs prende appunti Quando la ragazza nera e la chitarra Bruciano insieme, ribollenti di rabbia Tu hai quello che ci vuole Tu parli troppo Tu incendierai il mondo baby Incendierai il mondo Io posso lavorarmi la scena Posso già vedere le riviste
DAVID BOWIE. L’ARTE DI SCOMPARIRE
[…] Kennedy ucciderebbe Per le strofe che hai scritto tu Van Ronk dice a Bobby Lei sarà la prossima a sfondare In questo periodo Bowie era chiaramente affascinato dalla scena folk che cinquant’anni prima aveva mosso i primi passi nei localini del Greenwich Village, un quartiere a pochi passi dalla sua attuale casa. Forse aveva letto il memoir postumo del folksinger Dave Van Ronk Mayor of McDougal Street pubblicato nel 2005 (in italiano: Manhattan folk story. Il racconto della mia vita, Bur 2014), che è poi servito come base ai fratelli Coen per il loro film del 2013 A proposito di Davis. La sua passione per il Greenwich Village d’epoca è comunque testimoniata dal fatto che nella lista dei suoi “100 libri essenziali” – resa nota nel 2013 – figura Kafka Was the Rage. A Greenwich Village Memoir (in italiano: Furoreggiava Kafka. Ricordi del Greenwich Village, Bonnard 1993) in cui Anatole Broyard si sofferma sulla scena letteraria degli anni Quaranta. Ciò non vuol dire che (You Will) Set the World on Fire sia necessariamente una canzone scritta ad hoc da Bowie per il musical, ma qualche dubbio – su questa e su altre canzoni incise per THE NEXT DAY – rimane. Il racconto di Michael Cunningham è importante soprattutto perché getta uno squarcio di luce sulla vita e sulla routine lavorativa di Bowie in una fase di cui si sa ben poco, e su cui i suoi familiari, amici e collaboratori stretti hanno mantenuto nel corso degli anni un costante velo di segretezza. Dal Reality Tour – o, se vogliamo, dal colloquio dell’estate 2005 con Dave Itzkoff per Fashion Rocks – Bowie non ha più rilasciato nessuna vera intervista. Ci si è pertanto affidati a quanto dichiarato, di volta in volta, da Iman o da Tony Visconti, che hanno sempre rassicurato tutti dicendo che dal punto di vista della salute non c’era più alcun problema, che David preferiva semplicemente condurre una vita appartata facendo ciò che più gli aggradava senza dover necessariamente apparire in pubblico giocando al “gioco dei media”.
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Cunningham è l’unica vera “gola profonda” che, dall’interno, smentisce tutto ciò che è stato detto. Ossia: Bowie in questo periodo è stato effettivamente poco bene e ha dovuto addirittura sottoporsi a un delicato intervento di triplice bypass coronarico che lo ha messo fuori gioco per parecchi mesi (anche se stranamente, nella versione in inglese pubblicata da «GQ», lo scrittore è meno preciso, parlando solamente di “problemi al cuore” e di “intervento chirurgico d’urgenza”). Piccola nota a margine: nel romanzo che Cunningham ha scritto successivamente alla sua collaborazione con Bowie, La regina delle nevi, uno dei protagonisti ha un cancro incurabile, un altro ha una visione luminosa a Central Park, un altro ancora è un musicista che sta faticosamente cercando di comporre una canzone importante. «La canzone» scrive Cunningham, «dovrebbe situarsi in prossimità di Dylan o dei Velvet Underground. Non deve essere un’imitazione di Dylan, né una copia di Lou Reed; deve essere originale (originale, certo; preferibilmente incomparabile; preferibilmente geniale) ma aiuta, un po’ aiuta, puntare in una certa direzione, seppur vaga. L’austera messa al bando del romanticismo da parte di Dylan, la capacità di Reed di fondere la passione all’ironia». Questo personaggio prova e riprova, in cerca dell’ispirazione, nella sua cucina di casa, di cui Cunningham ci fornisce la descrizione, «con il suo lieve odore di gas e le pareti di un azzurro pallido» e, sul muro, «le sue fotografie, attaccate con le puntine, di Burroughs e Bowie e Dylan».
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6/8 studios La data è il 16 novembre 2010. Ci troviamo a New York, all’estremità occidentale di Manhattan, nel quartiere di Hell’s Kitchen, e più esattamente all’interno del Terminal 5, una struttura multi-eventi di recente costruzione con un’area concerti da tremila posti. La sala è colma di persone, quasi tutte in piedi e con lo sguardo rivolto verso i musicisti che stanno suonando: sono i Mumford & Sons, una nuova band londinese il cui disco d’esordio SIGH NO MORE è stato una delle sensazioni degli ultimi due anni. Ed è lì che qualcuno lo nota, confuso tra la folla: David Bowie, nella sua prima apparizione in pubblico “certificata” da oltre cinque mesi, ossia da quando era andato a trovare Jeff Beck all’Iridium Jazz Club (anche se per la verità era ricomparso qualche giorno prima, il 4 novembre, paparazzato per le strade di SoHo dopo essere andato a prendere – a piedi, come di consueto – la figlia a scuola). A prima vista appare strano che Bowie sia attratto dai Mumford & Sons. Con le loro canzoni folk e bluegrass piuttosto tradizionali non hanno molto a che vedere con le dissonanti e talvolta avanguardistiche indie-band che lui solitamente ama. C’è un elemento, però, che potrebbe interessargli: il produttore di SIGH NO MORE è quel Markus Dravs che ha iniziato la sua carriera con Brian Eno (l’album NERVE NET del 1992) e di recente ha co-prodotto gli ultimi due dischi degli
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Arcade Fire, NEON BIBLE e THE SUBURBS. Chissà se Bowie sta meditando se coinvolgerlo in qualche progetto. Perché poi, in quei giorni di novembre, c’è un produttore che riceve una telefonata da parte di Bowie. Non Markus Dravs, tuttavia, bensì il suo amico di sempre Tony Visconti. «In tutti questi anni», ha detto Visconti, «l’ho incontrato in circostanze sociali. Ha fatto bene a prendersi una pausa per riflettere sulla scena musicale e sul music business in generale. Probabilmente si stava domandando se valesse la pena fare di nuovo un album in quest’epoca: sarebbe stato solo un altro download? Ma sono rimasto scioccato anch’io quando mi ha chiamato all’improvviso e mi ha detto: “Ti andrebbe di realizzare alcuni demo?”». Visconti in quei giorni si trova a Londra, dove sta producendo il quarto album dei Kaiser Chiefs, THE FUTURE IS MEDIEVAL. «Mi ha detto: “Be’, quando ritorni?”. Ho risposto: “Tra qualche giorno”. Il giorno dopo che sono tornato ero nello studio con lui a suonare il basso». Cosa spinge David Bowie a voler tornare a incidere delle sue canzoni dopo più di sette anni? Michael Cunningham ha rivelato che nel periodo della loro collaborazione stava componendo. È quindi ipotizzabile che fosse tornato a scrivere già in precedenza e che inizialmente, come accennato da Visconti, avesse dei dubbi sul possibile sbocco da dare a queste canzoni. Da qui l’idea del musical. Ma, chiusa la collaborazione con Cunningham e ristabilitosi dopo la convalescenza, è possibile che Bowie stia ora meditando una sublime doppietta mediatica, di quelle che storicamente sa mettere in piedi solo lui: il grande comeback con un nuovo disco e, in contemporanea, la mostra retrospettiva sulla sua carriera organizzata dal Victoria & Albert Museum. Ecco: così non sarebbe l’ennesimo album buono solo per “un altro download”. La sala scelta da Visconti per realizzare questi primi demo è il 6/8 Studios nell’East Village. Oltre a Visconti, Bowie chiama anche il chitarrista Gerry Leonard (il quale ha ricevuto un’e-mail con scritto: «Ti va di lavorare su alcune nuove canzoni? P.S.: non lo dire a nessuno») e il batterista Sterling Campbell, entrambi reduci dal fatidico Reality Tour. «Era un piccolo spazio, una stanzetta con una batteria dozzinale», ha ricordato Campbell. «Stavo in questo scantinato umido con
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David Bowie in piedi al centro della stanza che mi spiegava queste sue nuove canzoni. Ci siamo stati circa una settimana, là dentro. Ci facevamo qualche risata, una chiacchierata, imparavamo le canzoni, e poi quando David si sentiva soddisfatto, le incidevamo su un piccolo registratore digitale e passavamo ad altro. C’era un ristorante italiano al piano di sopra, così facevamo un break per il pranzo e andavamo a mangiare lì. È stato meraviglioso». Un racconto che combacia con quanto ha dichiarato Visconti a «Mojo»: «Una volta abbiamo fatto un’interruzione per il pranzo per mangiare al ristorante italiano del quartiere dove tutti l’hanno riconosciuto! Qualcuno che lavorava al caffè italiano ci ha scattato una foto, allorché lui si è alzato e gli ha detto: “Non farlo! Non torneremo mai più qui se lo fai un’altra volta”». Secondo quanto riferito da Gerry Leonard, queste session durano in tutto cinque giorni, dal lunedì al venerdì, presumibilmente nella seconda metà di novembre. Bowie ha scritto delle nuove canzoni a casa sua e ha registrato dei demo: otto in tutto. «Erano piuttosto sviluppati» secondo Visconti. «Contenevano delle buone idee di linee di basso e di pattern ritmici». «Aveva una cartella con un taccuino a righe e un piccolo registratore a quattro tracce in cui aveva inciso questi abbozzi di demo», ha raccontato Gerry Leonard. «Ci faceva sentire una canzone e noi individuavamo gli accordi e cercavamo di raccapezzarci. La suonavamo insieme qualche volta, cercando di arricchirla, di darle forma, quindi la mettevamo da parte. Alla fine della settimana abbiamo inciso tutti questi demo, solo per lui». Secondo Visconti, “Non abbiamo registrato niente fino all’ultimo giorno. Abbiamo solo continuato a prendere appunti. Il quinto giorno è stato difficile cercare di ricordare cosa era stato fatto il primo. Ma le abbiamo registrate». In tutto, secondo quanto ha dichiarato Visconti, i demo sono una dozzina: «Solo le strutture. Nessun testo, nessuna melodia e tutti titoli di lavorazione. È così che comincia sempre tutto con lui». Bowie se li porta a casa e non si fa sentire per un bel po’. «È sparito per quattro mesi dicendo: “Ora posso mettermi a scrivere”», ha raccontato Visconti. «Così ha composto altre canzoni e ha rifinito quelle che avevamo registrato. Ma è tipico: SCARY MONSTERS – ogni album – è cominciato con una canzone già finita e dieci idee».
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spiderman Qualche giorno dopo la fine delle session al 6/8, il 15 dicembre David e Iman assistono allo Studio 54 di Broadway a una matinée del musical Brief Encounter, nuovo allestimento dello spettacolo di Neil Coward Still Life (1936) che nel 1945 era stato trasposto in un film da David Lean (Breve incontro, in italiano). Diretto dall’inglese Emma Rice, è un piccolo musical, ma di classe, il cui successo è stato lento ma inesorabile: dopo aver esordito in Cornovaglia, è arrivato a Londra e un anno prima è stato rappresentato per la prima volta a New York di fronte al pubblico “artistico” ed esigente della St Ann’s Warehouse di Brooklyn. Da un art-musical a una mega-produzione, perché il 19 gennaio 2011 – undici giorni dopo il suo sessantaquattresimo compleanno – Bowie viene avvistato in compagnia di Coco Schwab al Foxwoods Theater, a Broadway, a un’anteprima di Spider-Man: Turn Off The Dark con musica e liriche di Bono e The Edge degli U2, arrangiamenti e orchestrazioni di David Campbell e libretto di Julie Taymor, Glen Berger e Roberto Aguirre-Sacasa. Descritto come un rock-musical e come “lo show tecnicamente più complesso di sempre a Broadway, con 27 sequenze aeree di personaggi volanti” in combattimento tra loro, con una “moltitudine di palcoscenici mobili che pongono il pubblico al centro dell’azione” e una serie di proiezioni su schermi giganti che, secondo Bono, lo rendono “una graphic novel tridimensionale”, Spider-Man passerà alla storia come uno dei più grandi flop teatrali di sempre e sarà cancellato dopo tre anni di rappresentazioni per via di incassi sensibilmente inferiori ai costi sostenuti. La regista Julie Taymor, vincitrice del Tony Award per il musical di grande successo Il re leone, se ne andrà dopo sei mesi di anteprime per divergenze con la produzione. Il musical di Bono e The Edge verrà anche più volte riscritto ma, nonostante le revisioni, non godrà mai del favore della stampa, con il «New York Times» che arriverà a definirlo come «uno dei peggiori spettacoli della storia». Neanche Bowie, quella sera, rimane granché convinto da Spider-Man, e non ha nessuna remora a farlo sapere a Bono. «Mi ha mandato [via e-mail, si può supporre, N.d.A.] le ragioni per cui non gli era piaciuto», ha raccontato in seguito Bono,
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“e tutto ciò che mi ha detto è stato davvero d’aiuto, perché eravamo nelle fasi preliminari dello show». Insomma, se a Bowie dovesse venire in mente di tornare a dedicarsi a quel benedetto musical, perlomeno saprà a che cosa non ispirarsi.
source code David Bowie resta costantemente in contatto con suo figlio Duncan, cui il successo, pur se negli ambienti indipendenti, di Moon ha cambiato la vita. Dopo la prima del film al Sundance nel gennaio 2009, Duncan Jones ha passato otto mesi in giro per il mondo a fare promozione, a girare per festival e a ricevere premi. Ha anche iniziato a trascorrere molto tempo a Los Angeles, la patria del cinema “di serie A”. Come ha raccontato lui stesso alla webzine «Den of Geek»: «Avevo la possibilità di incontrare alcune delle persone con cui desideravo lavorare, e una di queste era Jake Gyllenhaal. Ci siamo incontrati e abbiamo iniziato a parlare di cose che avremmo potuto fare insieme. E gli avevano dato la sceneggiatura di Source Code». Scritto dallo sceneggiatore Ben Ripley, Source Code si snoda intorno alla figura di Colter, un soldato che fa parte di un programma governativo sperimentale per le investigazioni su un attacco terroristico, si trova costretto a vivere e rivivere, attraverso la tecnologia, la tragedia di un treno fatto esplodere da una bomba fino a che non riesce a individuare gli attentatori. Di base, è un viaggio attraverso il tempo e lo spazio. «Gyllenhaal mi ha detto, “Perché non te la leggi? Penso che sia una cosa di tuo gusto”», ha riferito Duncan. «Lui non è un cretino, aveva visto Moon ed era un fan, e penso che avesse intravisto delle similitudini tra Moon e Source Code. L’ho letta e mi ha davvero colpito. Ho chiamato Jake dicendogli come la vedevo, e da lì in poi la cosa è decollata». Duncan insiste per far entrare nel progetto anche il suo amico Suart Fenegan. Rispetto a Moon, Source Code è più mainstream e immensamente più costoso (il budget, alla fine, sarà di 32 milioni di dollari). Ancora Duncan: «C’era una vastità di produttori, molti dei quali non erano sicuri, all’inizio, che fossi io la persona giusta per il lavoro. Ma ero stato segnalato da Jake. L’hanno dovuto accettare, facevo par-
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te del pacchetto. Ci ho messo un po’ a conquistarli, ma fortunatamente avevo un passato nella pubblicità, dove questa cosa di convincere la gente la devi fare tutti i giorni». È presumibilmente in questo periodo losangelino che Duncan inizia a frequentare una ragazza magrolina dai tratti orientali, Rodene Ronquillo. Di origine filippina, la ventinovenne Rodene già da una decina di anni frequenta Hollywood e i suoi party con l’ambizione di diventare modella e forse attrice. La sua migliore amica è Kat Dennings, divenuta celebre per aver preso parte a diverse serie tv e passata in seguito al cinema. Inoltre, di Rodene si sa che qualche anno prima ha avuto una relazione con lo sceneggiatore e regista Shane Black (quello di Kiss Kiss Bang Bang). Ora sembra essersi appassionata alla fotografia, ed è in questo ruolo di fotografa che entra in contatto con Duncan. La loro prima apparizione insieme in pubblico risale al 21 febbraio 2010, in occasione della consegna dei premi Bafta a Londra, dove Duncan riceve il premio per il “miglior film d’esordio di un regista britannico” per Moon. Da allora i due diventano inseparabili e Duncan a un certo punto decide di trasferirsi permanentemente a Los Angeles per vivere con Rodene. Source Code viene girato nella primavera del 2010 a Montreal. La post-produzione ha luogo a Los Angeles a partire da luglio. Per la fine dell’anno il film può dirsi concluso. Alla prima assoluta, che si tiene l’11 marzo 2011 ad Austin, in Texas, alla rassegna South by Southwest, il padre di Duncan – in altre faccende affaccendato – stavolta non c’è. C’è, però, Rodene Ronquillo, che sul set di Source Code era la fotografa ufficiale. Il film, diffuso commercialmente a partire da aprile, andrà benissimo, incassando un totale di 147,3 milioni di dollari.
the magic shop Ad aprile 2011 Bowie comunica a Visconti di voler iniziare a registrare delle nuove tracce. Inizia la ricerca di uno studio adatto. I Looking Glass Studios, usati per quasi tutti gli album da EARTHLING a REALITY, hanno chiuso nel 2009. Ne viene quindi trovato un altro (di cui non verrà mai rivelato il nome): le date sono fissate, i musicisti convocati.
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Tutto nel più totale segreto. Ma si verifica un problema: qualcuno allo studio non ha tenuto la bocca chiusa. «Gli avevamo detto di mantenere il segreto ma hanno rovinato tutto nel giro di ventiquattr’ore», ha raccontato Visconti al «Guardian». «Non avevamo neanche cominciato l’album, ma ci è arrivata una telefonata: è vero che state facendo un disco allo studio X? Noi abbiamo semplicemente negato tutto». E il batterista Zachary Alford ha detto al «New Musical Express»: «Abbiamo dovuto cambiare sala proprio all’inizio. In qualche modo la notizia era filtrata, e proprio mentre mi stavo preparando per guidare verso New York da Upstate, mi è arrivato un messaggio che diceva: “È cambiato tutto”. Non ci hanno fatto sapere quale sarebbe stata la sala fino a un paio di giorni prima che le session iniziassero. Ho sentito dire che all’ufficio di David era arrivata una telefonata da parte di un fotografo che chiedeva se poteva venire alla sala per scattare delle fotografie. Sono rimasti allibiti: “Ma a te chi te l’ha detto che ci dev’essere una session?”». A questo punto il livello di segretezza si intensifica. Visconti, in perlustrazione alla ricerca di una nuova sala, fa una ricognizione al Magic Shop, situato in Crosby Street a SoHo, a un tiro di schioppo dall’appartamento di Bowie. «Tony ci ha chiamati», ha raccontato Kabir Hermon, manager del Magic Shop, al «New Musical Express», «e ha chiesto di poter venire a farsi un giro. Così gli abbiamo mostrato la sala e lui ha fatto delle fotografie del posto, e abbiamo notato che era molto vago riguardo a tutto il progetto». «Non è un’esagerazione dire che non sapevamo cosa stava accadendo fino al giorno in cui David non si è presentato», ha detto il proprietario dello studio, Steve Rosenthal. «Quel giorno, a proposito, è facile da ricordare, perché la session è iniziata il giorno dopo che Osama Bin Laden è stato ammazzato. Quella è stata una bella giornata per noi». Il giorno dopo sarebbe il 3 maggio, ma considerando la differenza di fuso orario Rosenthal si riferisce in realtà al 2 maggio 2011, quando gli americani si svegliano con la notizia che il terrorista saudita è stato catturato ed eliminato durante la notte. Prima di iniziare a incidere, Bowie torna a farsi vedere in pubblico (il 28 aprile 2011) insieme a Iman al gala annuale “Linked Against Leukemia” al Cipriani di Wall Street. Elegantissimo, e anche in buona
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forma, viene fotografato mentre la cantante Rihanna si avvicina al suo tavolo per salutarlo. Sarà l’ultima apparizione “ufficiale” di Bowie per un tempo, stavolta, davvero lunghissimo. E così il 2 maggio 2011 cominciano le sedute di registrazione al Magic Shop, con un cast di musicisti cambiato e ampliato. C’è, ovviamente, Tony Visconti, ma solo nel ruolo di produttore insieme al suo storico ingegnere del suono Mario McNulty. E c’è di nuovo Gerry Leonard. Come bassista è stata richiamata Gail Ann Dorsey, che – come tutti gli altri, del resto – viene avvertita: è un progetto segreto, non ne potrà parlare con nessuno e anzi, per sicurezza, dovrà firmare un non-disclosure agreement. «La segretezza era parte di tutto fin dall’inizio», ha detto la Dorsey al «New Musical Express». «Mi è stato detto che se volevo essere coinvolta, dovevo assicurare che non ne avrei parlato, in nessun momento, in nessun luogo, con nessuno». E Tony Visconti ha detto allo stesso giornale nel 2013: «È stata dura mantenere il segreto. David voleva che fosse una sorpresa totale. Neanche la sua etichetta lo sapeva. La cosa più difficile è stata dire alla gente per due anni che stavo lavorando su un progetto segreto. Tiravano subito a indovinare: “Si tratta di Bowie vero?”, e io dovevo far finta di niente: “No”, tutto il tempo». Al posto di Sterling Campbell, impegnato in un tour con i B-52s, viene chiamato Zachary Alford, che con Bowie ha suonato fin dai primi anni Novanta. «Era come essere in Mission Impossible», ha dichiarato Alford. «Gli episodi iniziano sempre con gli agenti che si incontrano in una stanza e ascoltano le loro istruzioni su un nastro che si autodistrugge dopo cinque secondi. Nessuno parla con nessun altro, ascoltano solamente, poi prendono e se ne vanno ognuno per la sua direzione. Mi ha dato proprio quell’impressione». A questo primo blocco di sessioni prendono parte anche il chitarrista David Thorn e il sassofonista Steve Elson, collaboratore di Bowie fin dal Serious Moonlight Tour del 1983. Mentre il mondo è ignaro di tutto e ritiene che Bowie sia ormai in pensione, in quel mese di maggio al Magic Shop si svolgono due settimane di intense sessioni. Il primo giorno, il 2 maggio, vengono provate e poi registrate The Next Day e Atomica; il 3 maggio è la volta di How Does the Grass Grow? e You Feel So Lonely You Could Die. Poi, nell’ordine: Dancing out in Space (4 e 7 maggio), Like a Rocket Man
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(5 maggio), Born in a UFO (5 e 10 maggio), Heat (6 maggio), The Stars (Are Out Tonight) (9 maggio) e So She (12 maggio). Ma al momento i titoli e i testi di queste canzoni non sono necessariamente quelli che finiranno sull’album: Bowie, come consuetudine, rifinirà tutto all’ultimo momento, quando li ricanterà. Per dare un’idea di quanto poco ne sappiano gli stessi musicisti, Alford dichiarerà nel momento in cui sarà resa nota la scaletta di THE NEXT DAY: «C’era una canzone che proveniva dalle session di LODGER. Il titolo di lavorazione era Born in a UFO. Sono rimasto strabiliato quando me l’ha suonata, perché ci potevo sentire il batterista Dennis David là dentro. La mia impressione è che ora sia stata rititolata Dancing out in Space». Alford non aveva ancora sentito THE NEXT DAY, né era a conoscenza di THE NEXT DAY EXTRA, in cui sarà inclusa Born in a UFO. Zachary Alford ha in seguito raccontato a «Rolling Stone» il processo di lavorazione: «Gerry [Leonard] ci dava gli spartiti mentre ascoltavamo le canzoni in modo che potessimo avere qualcosa da seguire e potessimo prendere appunti. Ascoltavamo le canzoni due o tre volte, e poi quando era il momento ci mettevamo a suonare. Era questa la procedura». Gerry Leonard, investito del ruolo di music director, è entrato ancor più nel dettaglio: «Io sono stato coinvolto per circa otto giorni in cui di base abbiamo inciso quello che suonavamo dal vivo. Ci raggruppavamo intorno al pianoforte mentre David ci faceva sentire un demo grezzo che aveva fatto a casa o che avevamo realizzato nel novembre 2010. Le sessioni si sono svolte in maniera piuttosto rapida, ma senza fretta». «Non abbiamo lavorato dieci ore al giorno, niente di simile», ha raccontato Visconti al «New Musical Express», «ma comunque è sempre stata una nostra tradizione: non abbiamo mai lavorato più di otto ore al giorno. Però abbiamo lavorato intensamente, di modo da poter uscire dallo studio in tempo per la cena o per il film di mezzanotte alla televisione». Con dieci pezzi nel cassetto, le session per il momento si interrompono qui. Non sappiamo quanto Bowie ne sia soddisfatto. Probabilmente non tantissimo, considerando che quattro di questi brani saranno in seguito esclusi dalla scaletta definitiva del disco, e che solo The Stars (Are Out Tonight) e forse The Next Day hanno il potenziale
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per essere passati in radio. Il ghiaccio è stato rotto, le ragnatele sono state spazzate via, ma è il caso di provare a comporre qualcos’altro prima di ritornare in sala.
v&a Per il mondo Bowie non dà segnali di vita, ma ora sappiamo che per lui devono essere mesi piuttosto intensi. Oltre al songwriting in vista del nuovo album, si deve occupare di selezionare – con l’aiuto dello staff del suo ufficio – il materiale per la prevista mostra al Victoria & Albert Museum di Londra, che sta pian piano prendendo forma. L’accordo tra il management di Bowie e il V&A è stato raggiunto e, come avrebbe affermato in seguito la curatrice Victoria Broackes a «Introspective Magazine», «abbiamo iniziato a lavorarci nell’aprile 2011». Nella stessa intervista, Broackes ha dichiarato: «Non avremmo fatto una mostra su qualsiasi rockstar; siamo interessati alla sua teatralità. All’inizio del 2011 ho ricevuto un’e-mail che mi invitava a dare un’occhiata all’archivio di Bowie. Non avevo idea di quanto straordinariamente onnicomprensiva potesse essere. Ho visto un sacco di collezioni di altre rockstar, e solitamente si tratta solo di ritagli di stampa, costumi e strumenti musicali. Bowie ha un’archivista [Sandy Hirshkowitz, N.d.A.] che lavora a tempo pieno, e la sua collezione è stata curata e documentata in maniera fantastica almeno fin dal periodo di Ziggy Stardust. Ciò che affascina la gente è poter “sbucciare la cipolla”, perché David Bowie è una completa invenzione». In seguito Broackes dirà che «l’accordo era prima di tutto che Bowie non avrebbe avuto nulla a che fare con la mostra. Avremmo avuto accesso a tutto ciò che volevamo dell’archivio, ma non alla sua collezione d’arte privata. In secondo luogo, i suoi archivisti avrebbero controllato che tutti i testi fossero corretti dal punto di vista storico, ma non avrebbero potuto offrire le loro interpretazioni». Il giornalista Paul Morley, ingaggiato dal management di Bowie per lavorare sulla mostra, ha però fatto capire, nel suo libro The Age of Bowie, che non è andata esattamente come la racconta la Broackes. «Bowie», ha scritto, «non ha curato la mostra del V&A, sebbene il
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museo sperasse che lo avrebbe fatto, articolando la propria ampia e irrequieta storia, e occasionalmente anche presentandosi a incontri di approfondimento per controllare le installazioni e prendere parte a qualche seduta di brainstorming. Erano sicuri, quando hanno incominciato la loro impresa, che sarebbero riusciti a lavorare a stretto gomito con Bowie, e sono rimasti un po’ confusi dalla sua quasi spettrale non-apparizione, dalla sua mancanza di istruzioni dirette, dalla costante mancanza di visite». Il compito di dare “contenuto” alla mostra viene pertanto affidato proprio a Morley, probabilmente in virtù della quarantennale passione bowiana del giornalista, che un giorno – tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012 – riceve un’improvvisa chiamata da Bill Zysblat, il quale gli dice, all’inizio della telefonata, di mettersi seduto. «Ho fatto come mi ha detto», ha scritto Morley, «chiedendomi per alcuni istanti se ero effettivamente nei casini per qualcosa che potevo aver fatto ma che non riuscivo a ricordare. Avevo mica inserito alcune delle sue strofe in un articolo senza accreditarlo? Bill mi ha chiesto se ero interessato a fornire un aiuto a Bowie. C’era un progetto in cui Bowie era coinvolto che pensava potesse interessarmi. Mi chiese di contribuire alla mostra. L’implicazione, mai scritta su carta o espressa in modo specifico, era che Bowie si voleva assicurare che la mostra non finisse per essere una cosa alla Hard Rock Café nel modo di presentare gli oggetti, un’ostentazione di pezzi da collezione ornamentali, di memorabilia e del più ovvio armamentario di dischi d’oro del rock’n’roll». È quindi Paul Morley – “rappresentante di Bowie in Terra”, come l’ha definito qualcuno vicino a Bowie (forse Coco?) – che stabilirà l’estetica della mostra al V&A, oltre a darle un nome: David Bowie Is. «Non è mai stato negato o confermato che lui fosse soddisfatto o non soddisfatto della direzione che stava o non stava prendendo, o se approvasse il titolo della mostra», ha scritto ancora Morley. «Non ho mai saputo per certo se gli piacesse il titolo, se approvava il successivo effetto che il titolo ebbe sulla forma dell’esibizione, se supportava le mie sensazioni che non si sarebbe dovuta chiamare, blandamente, “The Exhibition”, o se avesse letto il manifesto che avevo scritto proponendo l’idea al V&A, o se gliene importasse comunque qualcosa. Presi il suo silenzio come un possibile sì».
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Ma in questi anni la massima “rappresentante sulla Terra” di David Bowie – che non rilascia interviste, non pubblica dischi e in generale non appare – è sua moglie Iman. Che il 2 luglio finisce sulla copertina (in una vecchia foto con il marito) del magazine allegato al «Times» contenente una lunga e approfondita intervista in cui la ex modella, tra le altre cose, rassicura tutti sullo stato di salute del Duca Bianco. «Siamo come una normale vecchia coppia sposata» titola il «Times». «Io non sono sposata con David Bowie» esordisce Iman «No no, io non so nemmeno chi sia. Io sono sposata con David Jones. Sono due persone completamente diverse». Iman si sofferma poi sulla vita domestica: «A David» dice, «nulla fa più piacere che leggere i quotidiani inglesi ogni mattina e ascoltare la Bbc. Non crede a nessuna notizia se non l’ha sentita prima alla Bbc». Confida che ha ormai rinunciato a persuaderla di trasferirsi in Gran Bretagna: «Ci siamo andati una volta d’estate. Il tempo era bellissimo e ha cercato di convincermi che è sempre così». Lo descrive quindi come un padre molto coinvolto nell’educazione della figlia: «È un papà fantastico. È molto stimolante con Lexi e leggono tanto insieme. Lei sta studiando l’antico Egitto a scuola, così David la sta aiutando con il suo progetto. Stanno costruendo una tomba insieme e hanno anche realizzato una maschera». Iman dice pure che lei e David pranzano insieme a casa la maggioranza dei giorni. David di solito va a prendere Lexi a scuola nel pomeriggio e gioca con lei mentre Iman prepara la cena. «Adoro cucinare» dice Iman, «specialmente il pesce». Per quanto riguarda lo stato di salute del marito, «Sta bene adesso, è felice». E, aggiunge, passa la maggior parte delle giornate a leggere voracemente, sia libri che Internet: «Mi insegue sempre per la casa per dirmi che cosa ha appena letto. Mi tiene aggiornata su tutto. È adorabile in questo». E, racconta ancora Iman, più che con il proprio lavoro, al momento si diletta con i successi lavorativi del figlio: «Per lui è stupefacente vedere Duncan che sta fiorendo come regista. Duncan vive a Los Angeles e si parlano via Skype tutti i giorni. Sono così vicini e si assomigliano così tanto».
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È un quadretto idilliaco, ma quanto c’è di vero? Sappiamo invece che, dietro le quinte e in totale segretezza, Bowie sta lavorando sodo.
woodstock Di fatto, Bowie non smette di lavorare al disco neppure durante il break estivo. Trovandosi in vacanza nella sua villa alle Catskills, va a far visita al suo amico Gerry Leonard a Woodstock e i due si lanciano in una session con l’aiuto di una drum machine. «Aveva un’idea e ha iniziato a suonarla. Credo che fosse I’ll Take You There», ha ricordato Gerry Leonard. «Così io ho lavorato sull’idea del ritornello e sull’idea del bridge e ho messo su un arrangiamento, e in un paio d’ore abbiamo abbozzato un piccolo demo». In realtà, i demo registrati a Woodstock, secondo quanto riportato da Nicholas Pegg, sono più di uno, e includono, oltre a I’ll Take You There, anche Boss of Me, firmato anch’esso da Bowie/Leonard. Ma Bowie in questo periodo di canzoni ne ha composte anche altre, per conto proprio, e ora è pronto a inciderle. Il Magic Shop viene quindi prenotato per un secondo blocco di session tra il 12 e il 17 settembre, in cui tornano Leonard e Alford mentre Gail Ann Dorsey (impegnata in tour con Lenny Kravitz) è sostituita da Tony Levin, noto per il suo lavoro con King Crimson e Peter Gabriel e già ingaggiato da Bowie per HEATHEN. Durante questa settimana vengono registrate I’ll Take You There e God Bless the Girl (12 settembre), Love Is Lost e Where Are We Now? (13 settembre), The Informer e Boss of Me (14 settembre), I’d Rather Be High (15 settembre) e Dirty Boys (17 settembre). In seguito, Gail Ann Dorsey ha detto al «New Musical Express»: «Tony Levin ha suonato il basso su Where Are We Now?. Ricordo una conversazione che ho avuto con Bowie, mi ha parlato di quest’idea di scrivere una canzone sul periodo passato a Berlino. Quella è stata una fase molto intensa per lui: in tutto il tempo che l’ho frequentato, ha parlato spesso di quel periodo, e lui non è il tipo di persona che tende a guardare indietro al passato. Ha chiaramente lasciato un’impronta molto forte su di lui. E, ragazzi, che canzone bellissima».
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human worldwide studios Passano solo pochi giorni e i lavori riprendono, non più al Magic Shop ma nelle vicinanze, agli Human Worldwide su Canal Street, un piccolo studio in comproprietà tra Tony Visconti e il suo figlio più grande, Morgan. È qui che Bowie e Visconti portano le 18 canzoni del Magic Shop per sovraincidervi la voce, i cori e qualche altro strumento. Secondo Nicholas Pegg, le prime canzoni su cui Bowie registra la propria linea vocale sono: The Informer (21 settembre), Where Are We Now? (22 ottobre), The Stars (Are Out Tonight) (26 ottobre), God Bless the Girl (2 novembre), Heat (5 novembre), Love Is Lost (19 novembre) e Boss of Me (26 novembre). Poi, una pausa natalizia. Ogni tanto ritornano, le notizie sul “musical di Bowie”. Succede il 27 novembre 2011, quando il «Guardian» e il «Telegraph» rivelano che Bowie avrebbe concesso il nullaosta alla realizzazione di Heroes, un musical che racconta la storia del Major Tom, di uno “Starman” e di un giovane chiamato David. Nella trama entrano a far parte anche i terribili Diamond Dogs che lavorano alle dipendenze di un certo “Smart Simon”, il creatore e il leader di un impero distopico. Bowie si sarebbe accordato per l’utilizzo dei suoi più grandi successi – fra cui “Heroes”, The Man Who Sold the World e Let’s Dance – con il regista e coreografo Matthew Gould. «Non si tratterà di uno show tributo» precisa Deep Singh, che ha scritto il musical. «Lo spettacolo sarà basato sulla storia di Major Tom, star di successo, e di un giovane ragazzo di nome David. L’intento sarà quello di mostrare come le canzoni dell’icona del rock britannico siano senza tempo». «Vogliamo che il pubblico si identifichi nei personaggi. La nostra intenzione è di avvicinare le nuove generazioni alla musica straordinaria di David Bowie», ha precisato Matthew Gould. La prima mondiale dello show – come riporta la stampa – si terrà a marzo 2012 nella IndigO2, che fa parte della O2 Arena di Londra. Non si fa attendere il comunicato di smentita da parte di Bowie, postato il giorno stesso da BowieNet: «Né la David Bowie Organization, né i suoi due co-editori, la Emi Music e la Chrysalis, hanno rilasciato la licenza per questa performance all’O2. Non ci sono negoziazioni in corso per un musical di lunga durata con la musica di Mr. Bowie».
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In una successiva intervista, Singh – dando mostra di un’ingenuità che ha dell’incredibile – dichiara che non si aspettava che fosse necessario chiedere e ottenere una licenza per rappresentare un musical con le canzoni di Bowie. Insomma: ennesimo tentativo respinto e rimandato al mittente. Nel frattempo Bowie è ricomparso fuggevolmente in pubblico il 4 novembre, fotografato mentre va a riprendere la figlia a scuola insieme a Iman nella sua abituale mise recente: occhiali da sole, berretto tipo coppola in testa e in spalla l’immancabile cartella. Sarà paparazzato ancora un paio di volte, nei primi mesi del 2012: il 27 febbraio in strada a SoHo in compagnia di Coco Schwab e il 14 aprile, sempre in zona, mentre ferma un taxi e ci sale dentro. C’è, esiste, è vivo, ma non si capisce bene cosa stia combinando. Otto giorni dopo il sessantacinquesimo compleanno di Bowie i lavori riprendono, sia allo Human sia al Magic Shop. Il 16 gennaio 2012 viene incisa la voce di How Does the Grass Grow; il 19 e 20 gennaio Bowie e Visconti si dedicano allo strumentale Plan, in cui, scrive Pegg, «Bowie suona tutto tranne la batteria». A un certo punto viene convocato il pianista e arrangiatore Henry Hey, al quale viene chiesto di fare delle sovraincisioni su Where Are We Now?, The Informer, God Bless the Girl e You Feel So Lonely You Could Die. E a marzo viene richiamato al Magic Shop Gerry Leonard, «per sovraincidere un po’ più di chitarra sopra la batteria» (non specifica però di quali brani). Il 2 marzo – presumibilmente allo Human – Bowie registra la voce di You Feel So Lonely You Could Die e Like a Rocket Man e «inizia il lavoro per la voce di I’ll Take You There sulla quale ritorna il 5 e 14 marzo», sempre secondo Pegg. Altre linee vocali vengono completate il 16 marzo (The Next Day), il 4 aprile (If You Can See Me), l’8 maggio (Dirty Boys) e il 9 maggio (I’d Rather Be High). Con l’aggiunta dell’ultim’ora di Plan, Bowie ha ora in mano diciannove pezzi. Volendo potrebbe selezionarne 12, 13 o perfino 14, mixare e masterizzare il tutto, e avrebbe un disco pronto per essere immesso sul mercato. Ma evidentemente non è soddisfatto, o pensa di poter fare ancora meglio. Di lì a breve lui e Visconti prenoteranno un ulteriore – e ultimo – blocco di session al Magic Shop.
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L’annuncio arriva via Twitter, ma Bowie ne è sicuramente già stato messo a conoscenza via telefono o via Skype: Duncan ha chiesto a Rodene di sposarlo. I due sono adesso “ufficialmente” fidanzati, con tanto di anello a comprovarlo, come usa nelle migliori famiglie. Questo il messaggio twittato il 28 giugno da Duncan dal suo profilo: «Grande giornata oggi. L’ho anche “inanellata”. Che Dio mi aiuti!!». Lo stesso giorno Rodene ritwitta, in un messaggio accompagnato da una foto di Duncan avvolto nella bandiera americana: «Anche se è soltanto alla ricerca di una Green Card, lui è tutto mio adesso. P.S.: Sì, ho detto di sì. Sono al settimo cielo con la mia persona preferita in tutto il mondo».
is david bowie dying? Ormai sono passati nove anni di silenzio discografico, le sue apparizioni pubbliche “ufficiali” sono andate via via diradandosi, e l’ultima in assoluto risale a un anno fa, a quella cena benefica da Cipriani a Wall Street insieme a Iman. Non può meravigliare quindi che si stiano diffondendo voci che danno Bowie gravemente malato, forse in fase terminale. Addirittura il «Rolling Stone» italiano, nel numero di maggio 2012, lancia un grido d’allarme in copertina: Che fine ha fatto David Bowie?, e poi, all’interno: «Non parla. Non twitta. Non fa un disco dal 2003 e non sale su un palco dal 2006. Lo si vedeva in giro, sì, fino a poco tempo fa. Oggi sembra scomparso». Paolo Madeddu, inviato a New York sulle tracce di Bowie, ripercorre tutte le tappe di quella che definisce una «graduale scomparsa. Non una scomparsa improvvisa, una fuga dal pubblico e dai media come ne abbiamo visto nel rock e non solo (da J.D. Salinger a Lucio Battisti). Lui è visibile, e fotografabile. Fa cose, vede gente. Ma non concede interviste. Sembra avere progressivamente svalutato la vita della rockstar e rivalutato quella del signor David Jones. Non una vita del tutto ordinaria: spesso appare a cene di gala legate a musica, moda e beneficenza, sempre a fianco della moglie Iman. È stato paparazzato per strada, a passeggio con la sua signora, tutti e due vestiti senza troppe pretese. Ha l’aria invecchiata, sì, ma non in modo drammatico (certo:
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non è dato sapere se, ogni volta che deve uscire, stazioni in una camera iperbarica)». Madeddu fa notare che l’ultimo messaggio scritto di proprio pugno da Bowie su BowieNet risale al 5 ottobre 2006: «Da allora, più che annunciare cosa sta facendo, sembra intervenire (di persona o tramite il suo staff) per dire cosa non fa. Perché, paradosso linguistico, nel silenzio le voci prosperano. “Non mi sono sottoposto a chirurgia estetica, ho semplicemente fatto un intervento ai denti, e questo ha cambiato qualcosa nella mia faccia”. “La voce riguardante una collaborazione tra David Bowie e Lady Gaga è un falso e una bufala”. “Malgrado le voci in circolazione, né la David Bowie Organization né la Emi hanno mai concesso licenze per l’uso delle canzoni del signor Bowie in un musical. Non ci sono trattative di questo tipo in corso”». Conclusione: «Major Tom è tornato sulla Terra. E ha scoperto che essere Mr. Jones, proprio come lo scialbo americano medio su cui Bob Dylan ironizzava negli anni Sessanta, gli piace. Lui, che è sempre stato due passi avanti ali altri, ha scoperto che non fare niente di speciale è una vita eccellente. Che ci stia suggerendo qualcosa?». Ma il mistero e la preoccupazione rimangono. Tanto che a marzo del 2011 i Flaming Lips hanno pubblicato un Ep in collaborazione con i Neon Indian la cui canzone d’apertura (che a giugno 2012 viene inclusa nel Cd THE FLAMING LIPS AND HEADY FWENDS) è un brano dissonante e sperimentale dal titolo shock: Is David Bowie Dying?. Intervistato da «The Quietus» nel 2013 (quando si pensava che Bowie non stesse poi così male), Wayne Coyne, leader dei Flaming Lips, ha chiarito: «No, non l’ho scritta in tono cinico. Dovevamo fare un concerto a New York con Philip Glass; fa questa cosa tutti gli anni per raccogliere fondi per la Tibetan House o qualcosa del genere. Lo fa gratuitamente e racimola un mucchio di soldi, e ci ha chiesto di suonare. Quando noi facciamo queste cose prestigiose invitiamo sempre della gente allo show, e invitiamo sempre David Bowie quando c’è la possibilità che si possa presentare. Il suo agente non ci ha detto “no”, ci ha detto “David non sta molto bene, David non esce di casa in questo periodo”. Ora: forse questo significava “non gli piacete”, ma una parte di me ha pensato che non mi era mai venuto in mente che David Bowie è un uomo e che il suo cuore può stare cedendo o che sempli-
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cemente sta invecchiando. Questo è il motivo per cui ho scritto quella canzone, perché la canzone parla di quando il tuo talento inizia ad abbandonarti, ma deriva tutto da quando mi sono reso conto che David Bowie è un uomo che declinerà e morirà. Non è questa persona che fa questa musica, il vero Bowie sta diventando vecchio. Non è una cosa triste, è solo tetra».
david bowie is La notizia filtra per la prima volta il 18 agosto 2012. L’«Observer» di Londra riporta che «David Bowie sarà il co-curatore di una mostra sulla sua vita e sul suo lavoro raccontato principalmente attraverso i suoi stravaganti costumi al museo Victoria & Albert il prossimo anno. Lo show seguirà la sua ascesa a rockstar di culto dai suoi primi anni a Brixton, nel sud di Londra, utilizzando la sua collezione di indumenti per illustrare la sua identità in costante cambiamento. Dettagli sui vestiti sono tenuti al segreto fino all’annuncio ufficiale della mostra, ma il direttore del V&A ha confermato all’«Observer» che Bowie è coinvolto nella selezione dei pezzi da esporre». Il 29 agosto, però, arriva una parziale smentita direttamente da parte di Bowie con un comunicato stampa: «Contrariamente ai reportage recentemente pubblicati relativi all’annuncio da parte del V&A di un’imminente Mostra su David Bowie, io non sono un co-curatore e non ho partecipato a qualsivoglia decisione relativa alla mostra. Il David Bowie Archive ha fornito un accesso senza precedenti al V&A e i curatori del museo hanno fatto tutte le scelte curatoriali e di design. Un mio caro amico mi ha detto che non sono né “devastato”, né “con il cuore spezzato” né “furioso” in relazione a questo articolo di giornale – David Bowie». L’annuncio ufficiale arriva pochi giorni dopo, il 4 settembre 2012: la mostra al V&A, dedicata a esplorare e celebrare lo spirito creativo di uno degli artisti più influenti e significativi del nostro tempo, sarà inaugurata il 23 marzo 2013, resterà aperta fino al 28 luglio 2013 e si intitolerà semplicemente David Bowie Is. Il museo londinese ha avuto accesso all’archivio personale della star: sessantamila costumi di scena
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e dei concerti, fotografie, disegni, strumenti musicali, dischi, video, film, un immenso materiale dal quale sono stati selezionati i 300 pezzi esposti al Victoria & Albert Museum. E da quel momento, per i fan di Bowie, è caccia al biglietto.
woody woodmansey È una delle più classiche leggi dell’economia: la scarsità dell’offerta provoca un aumento della domanda. L’assenza prolungata di Bowie ha causato la sua rivalutazione e ha stimolato la voglia del pubblico di ascoltare i suoi dischi e di vedere i suoi video e i suoi film. Mancando Bowie, ed essendo pressante la domanda, ci si rivolge pertanto a eventi surrogati: la mostra al V&A, certamente, ma anche iniziative come il Bowiefest, organizzato dall’ICA (Institute of Contemporary Arts) di Londra tra il 31 agosto e il 2 settembre 2012, durante il quale vengono proiettati Ziggy Stardust, Labyrinth, Furyo, L’uomo che cadde sulla Terra, Christiane F e i ragazzi dello zoo di Berlino, Miriam si sveglia a mezzanotte, Absolute Beginners e il documentario di Alan Yentob Cracked Actor. Nel mezzo: conferenze e serate danzanti dove ognuno può andare vestito “come il Bowie della sua epoca preferita”. È a una di queste conferenze che viene invitato, il 31 agosto, Woody Woodmansey, il leggendario batterista degli Spiders from Mars. «Sono andato lì su invito di Tom Wilcox, il direttore finanziario dell’ICA», ha scritto Woodmansey nella sua biografia Spider from Mars: My Life with Bowie. «Mi ha chiesto di fare un’intervista di due ore di fronte al pubblico, durante la quale avrei parlato dell’impatto culturale del periodo Ziggy Stardust e del mio contributo. Scherzando, gli avevo detto: “E dopo quello, di che parleremo per la successiva ora e 55 minuti?”. In realtà, poi, è stata una bella serata, era tutto esaurito, e le domande erano molto intelligenti. Mi sono divertito, insomma». Non è finita qui: l’anno successivo il Bowiefest avrà una coda musicale a cui Woody sarà nuovamente invitato e grazie alla quale avrà modo di tornare a far parte a pieno titolo del nuovo grande “revival bowiano”.
DAVID BOWIE. L’ARTE DI SCOMPARIRE
Nelle intenzioni, il revival in questione sarà innescato dal nuovo, inatteso album e dalla mostra del V&A. Ma non solo. Dietro le quinte si sta lavorando a un film retrospettivo sulla carriera di Bowie da trasmettere sulla Bbc e, in seguito, in tutto il mondo. A occuparsene è il regista della Bbc Francis Whately, il cui rapporto con Bowie risale alla fine degli anni Novanta, quando la star partecipò in veste di esperto d’arte alla trasmissione Omnibus. Whately ha sempre desiderato realizzare un documentario su Bowie, e durante l’estate del 2012 gli astri si allineano perfettamente, nel momento in cui riceve il benestare sia della Bbc sia dell’artista. Il documentario sarà strutturato intorno ai cinque anni chiave della carriera di Bowie. «Un sacco di documentari musicali sono delle biografie, e io sono piuttosto stanco di quel formato», ha detto in seguito Whately. «Inoltre, la carriera di Bowie è stata così vasta, anche 90 minuti non riuscirebbero a farle giustizia». Whately ha pertanto selezionato gli anni in cui, secondo lui, la musica di Bowie era al massimo della potenza e all’avanguardia: tra il 1971 e il 1983. «Ho amato tutte le cose che ha fatto negli anni Novanta e in questo secolo», ha spiegato ancora Whately, «ma il lavoro che ha fatto negli anni Settanta e Ottanta è stato enormemente influente». Il film, intitolato Five Years, in base ad accordi sia con la Bbc che con lo stesso Bowie, dovrà andare in onda a marzo del 2013, per coincidere con l’inaugurazione della mostra David Bowie Is al V&A di Londra.
earl slick Un ulteriore blocco di sessioni per il nuovo disco ha luogo al Magic Shop alla fine di luglio 2012. Tony Visconti, oltre a produrre, torna a suonare il basso, viene riconvocato Gerry Leonard, ricompare Sterling Campbell alla batteria e per la prima volta viene chiamato il chitarrista Earl Slick, vecchia, anzi vecchissima, conoscenza bowiana. «Io di solito mi occupo delle cose più rockettare», ha raccontato in seguito a «Rolling Stone», «e Gerry Leonard della roba più eterea. Lui non si aspetta che io faccia quello che fa Adrian Belew. Non si
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aspetta che Adrian faccia quello che faccio io, o Gerry Leonard, o viceversa. Quando sono lì, mi chiede di fare quello che so fare meglio». Come tutti gli altri musicisti, anche Earl Slick rimane colpito dall’assoluta segretezza delle sessioni: «Tutta la faccenda era così segreta», ha raccontato a «Uncut», «che neanche Gerry Leonard mi ha detto che ci aveva già lavorato prima di me, e avevamo pure preso un caffè insieme diverse volte. Gli ho detto: “Che bastardo!”, ma tutti noi abbiamo capito che doveva essere così. Era la volontà di David. Dopo quarant’anni che uno lavora con lui, lo deve rispettare». Stavolta al Magic Shop si lavora solo pochi giorni. Secondo Nicholas Pegg, il primo brano a essere inciso è una nuova e diversa versione di Born in a UFO (23 luglio), quella che poi vedrà la luce. Quindi Valentine’s Day (24 luglio) e (You Will) Set the World on Fire (25 luglio), oltre a svariate sovraincisioni tra cui le parti di chitarra di Earl Slick su Dirty Boys e Atomica. Durante queste session Slick va a un passo dal farsi scoprire, come ha raccontato in seguito a «Ultimate Classic Rock»: «Un giorno sono uscito per fumare una sigaretta davanti allo studio. Mi sono messo vicino all’ingresso, in un piccolo spazio riparato, non sono proprio uscito in strada. Ho avvertito una sensazione strana, e mi sono messo a scrutare verso la strada. E lì c’era un tizio con una macchina fotografica sopra a un treppiedi. Così ho spento la sigaretta e sono tornato dentro. Perché se mi vedevano lì, era fin troppo facile fare due più due». Visconti e Bowie (e, probabilmente, qualcuno dei musicisti) si vedono ancora all’inizio dell’autunno per registrare le ultime parti vocali e qualche sovraincisione, probabilmente agli studi Human. In particolare, Bowie registra il cantato per Valentine’s Day (18 settembre), Born in a UFO (26 settembre), (You Will) Set the World on Fire (27 settembre), Dancing out in Space (8 ottobre) e So She (23 ottobre). A questo punto, il ventisettesimo album di studio di David Bowie (contando anche i Tin Machine) è praticamente pronto. Manca solo qualche dettaglio: la scaletta, il titolo e l’artwork. E una casa discografica che lo distribuisca.
DAVID BOWIE. L’ARTE DI SCOMPARIRE
alive and well and living in new york Dopo sei mesi che il Duca Bianco non si fa vedere in giro – uno dei periodi di assenza più lunghi di tutti questi anni – il 19 ottobre è il quotidiano inglese «Daily Mail» a dare finalmente una risposta alla domanda che in molti si stanno ponendo: che fine ha fatto David Bowie? Lui, in effetti, sembra stare bene mentre passeggia per le vie di New York, a giudicare dalle foto che qualche paparazzo gli ha scattato e che vengono prontamente pubblicate dal giornale congiuntamente a un titolo che lo definisce “il recluso”. All’interno il giornale scrive: «Nella tarda mattinata, su un marciapiedi trafficato in uno dei quartieri più artistici di Manhattan, un uomo magro come un chiodo procedeva a passo lento, una presenza serafica in un contorno frenetico. Con indosso una coppola, occhiali da sole avvolgenti e una malconcia felpa col cappuccio e tenendo in mano il suo pranzo in un sacchetto di carta, è passato ampiamente inosservato da parte dei danarosi acquirenti che scrutavano le vetrine delle gallerie d’arte che si susseguono lungo la strada. È, questo, l’anonimato che David Bowie ha sempre più imparato ad amare». E ancora: «Sempre più solitario e divorato da una paura di volare che è peggiorata dopo gli attacchi dell’11 settembre a New York, attualmente il cantante originario di Londra lascia solo di rado la sua città adottiva. Le sue giornate ruotano intorno al suo loft da quattro milioni di sterline nel quartiere trendy di SoHo, con la panic room di sicurezza dove la famiglia si può barricare nel caso che degli estranei decidano di fare irruzione. Bowie passa le sue giornate a dipingere, a disegnare e a leggere, e a parte quando accompagna la sua figlia di 11 anni Alexandria alla vicina scuola, esce di casa raramente». L’articolo del «Daily Mail» contiene una certa percentuale di gossip, ma l’immagine che se ne trae non è poi molto distante da quella che un po’ tutti – anche gli insider del music business – si sono fatti di David Bowie in questi mesi del 2012. Le foto testimoniano che Bowie, comunque, è vivo, ed è anche in grado di farsi una passeggiata (dopo sei mesi d’assenza era lecito avere qualche dubbio).
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rob stringer Bowie aveva lasciato la Virgin alla fine del 2001, scontento del trattamento riservatogli quando aveva presentato all’etichetta il nuovo album TOY, contenente reincisioni di suoi vecchi brani degli anni Sessanta e Settanta e qualche inedito. La Virgin, non convinta, aveva continuamente rimandato la data d’uscita del disco, causando in lui una forte frustrazione. Conseguentemente, Bowie si era ripreso i nastri e li aveva messi nel cassetto, cogliendo l’occasione per chiudere i rapporti con la casa discografica (di TOY, al momento, sono stati resi noti alcuni pezzi sparsi, inseriti su lati B di singoli e sull’antologia NOTHING HAS CHANGED del 2014, ma se ne attende ancora una pubblicazione ufficiale integrale). Dopo aver fondato una propria etichetta, la ISO, a marzo del 2002 Bowie aveva firmato con la Columbia Records, controllata dalla Sony, di cui all’inizio si era mostrato entusiasta: «Non posso pensare a una casa migliore della Columbia per la musica che sarà realizzata dalla ISO» aveva dichiarato. «Dopo i primi due incontri con le persone della Columbia è stato chiaro che il loro entusiasmo per quello che Tony [Visconti] e io stiamo facendo è quasi illimitato». Per la Columbia sono usciti HEATHEN, REALITY e il live A REALITY TOUR, ma ora che il contratto è terminato Bowie sembra non avere più voglia di firmarne un altro che lo impegnerebbe per un lungo periodo. David Bowie è libero: in questo momento con la sua ISO può accordarsi con chi gli farà la migliore offerta e gli darà le migliori garanzie. Non sappiamo se lui e Visconti incontrino anche altre case discografiche, ma una delle prime persone che vanno a visitare, nell’ottobre 2012, è il potente presidente della Columbia Records, l’inglese Rob Stringer, agli uffici della Sony in Madison Avenue. Un anno più tardi Bowie ricorderà questo incontro con Stringer in un messaggio inviato e letto durante la premiazione del manager ai London’s Music Week Awards: «La prima volta che ho bussato alla porta del suo ufficio alla Sony a New York, potete immaginare la mia sorpresa quando l’ha aperta un membro dei Daft Punk. In silenzio, mi ha fatto entrare e ha indicato che mi sarei dovuto sedere su una comoda poltrona sulla destra della scrivania del presidente mentre lui
DAVID BOWIE. L’ARTE DI SCOMPARIRE
intanto ha preso posto sulla sedia del presidente. Poi si è tolto il suo casco lucente. Era Rob. “Questo” ha detto, “dimostra quanto in là arrivo a spingermi per i miei artisti”. Ho scoperto che nel corso della giornata Rob non aveva solo fatto il terzo membro “ospite” dei Daft Punk a un concerto all’ora di pranzo in un club di Manhattan, ma aveva anche moderato un simposio di Dylanologia a un negozio di vestiti Barney’s, cantato in falsetto su un nuovo pezzo dei London Grammar e coreografato un toccante numero di danza al suono di They Don’t Know About Us degli One Direction per il cast di Glee». Stringer resta sicuramente stupito nell’apprendere che è stato realizzato un nuovo disco di David Bowie, il primo dopo nove anni, di cui nessuno sa nulla. Ha raccontato Visconti: «È venuto allo studio [probabilmente gli Human Worldwide, N.d.A.] ed era elettrizzato. Ha detto: “Che mi dite della campagna promozionale?”. E David ha risposto: “Non ci sarà nessuna campagna promozionale. Lo lanceremo l’8 gennaio. Tutto qui”. È un’idea molto semplice, ma è stato Bowie a tirarla fuori». L’accordo con la Columbia quindi si fa, ma sarà per un progetto soltanto. Per questo disco.
jonathan barnbrook L’artwork dell’album viene affidato a Jonathan Barnbrook, il grafico londinese che ha già realizzato le copertine di HEATHEN e REALITY. «Abbiamo vagliato diverse idee per la copertina dell’album», ha raccontato in seguito Barnbrook al «New Musical Express», «ma il punto di partenza è stata una foto di un suo concerto del 1974 al Radio City. Mi ha raccontato di quanto si sentisse isolato a quel tempo, e quella è stata la base della sensazione che abbiamo voluto creare. Abbiamo provato ogni altra precedente copertina di Bowie [fra queste, anche quelle di ALADDIN SANE e PIN UPS, come si è potuto vedere dai bozzetti esposti alla mostra del V&A, N.d.A.] ma alla fine abbiamo puntato su “HEROES” perché è un album assolutamente iconico, e l’immagine in copertina ha il giusto tipo di distanza. In origine l’album si sarebbe dovuto chiamare LOVE IS LOST, che è una delle altre canzoni.
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Ma THE NEXT DAY, in combinazione con l’immagine di “HEROES”, è quello che l’album dice su qualcuno che guarda all’indietro verso la propria epoca. È sembrato il più appropriato». L’idea è di oscurare la foto di “HEROES” – lo storico scatto del fotografo giapponese Sukita – con un riquadro bianco contenente il titolo del disco, a significare una «dimenticanza o cancellazione del passato», secondo Barnbrook. Anche questo lavoro, ovviamente, ha luogo in regime di segretezza. «Avevamo un codice segreto per l’album», ha detto in seguito Barnbrook al «New Musical Express», «che era tavolo. Dato che stavamo usando la copertina di “HEROES” e poiché eravamo coinvolti nella mostra del V&A, ho detto in giro che aveva a che fare con quella. Ma penso che la gente stesse iniziando ad avere dei sospetti. Io l’ho saputo a settembre del 2012 e l’idea è sempre stata quella di pubblicare un brano il giorno del suo compleanno. Doveva diventare pubblico in quel momento».
il matrimonio jones-ronquillo Non ci sono solo THE NEXT DAY e la mostra al V&A nella mente di Bowie, in questi giorni dell’autunno 2012. Ci sono anche le vicende personali del figlio Duncan, la cui vita subisce una brusca e inaspettata svolta: Duncan sposa Rodene, ma non nel modo e nei tempi che erano stati programmati. La notizia si diffonde il 7 novembre, ma tutta la storia viene ben raccontata un mese dopo – il 9 dicembre – dallo stesso regista tramite una serie di tweet: Novembre è stato un diavolo di mese per noi. Il 4, la mia bella fidanzata Rodene Ronquillo e io eravamo a letto a farci le coccole come fanno molti di voi. Io sono un “tipo da seno” e mentre l’accarezzavo ho sentito… un gonfiore. Era domenica, così abbiamo dovuto aspettare per avere un appuntamento per una biopsia, ma il mercoledì avevamo già il referto: cancro.
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Stadio 2. Eravamo un po’ sottosopra. Cancro ed elezioni, così abbiamo deciso di rincarare la dose e correre in municipio per sposarci! Quindi cancro, elezioni, matrimonio. Tutto in un giorno! Due giorni dopo Ro era in ospedale. L’intervento è andato bene e siamo stati inseriti velocemente per la chemio. Molte cose sono accadute da quel 6 novembre a oggi. Ro aprirà un blog per raccontare tutto quello che abbiamo affrontato. Amo mia moglie più di chiunque altro. È così giovane. Le donne hanno il cancro sempre più giovani. Donne? Fate i controlli! Uomini? Accarezzate le persone che amate. Rischiate di salvare la vita alla persona che amate.
La stessa Rodene in seguito twitta: «La vita è fragile, la vita è preziosa… non si può mai essere abbastanza riconoscenti. Rendetela fantastica». Sono giorni frenetici, durante i quali Bowie si collega spesso via Skype con Los Angeles per essere aggiornato sulla situazione. Nei giorni e mesi successivi Duncan si dimostrerà un marito premuroso e affettuoso. Una foto postata su Twitter lo mostra insieme alla moglie, entrambi con la testa rasata: lei per via dei trattamenti di chemioterapia, lui per solidarietà e incoraggiamento. E anche in seguito, sempre su Twitter, racconterà giorno per giorno i dettagli della loro vita di neo-sposi, tra una seduta chemioterapica e un referto medico, e terrà tutti informati sull’evoluzione della malattia di Rodene e sui suoi progressivi miglioramenti.
tony oursler «Durante le pause della lavorazione ascoltavo i brani dell’album in cuffia, camminando per New York», ha raccontato Tony Visconti. «Vedevo tutta questa gente con le magliette di David Bowie e mi dicevo: “Amico, se solo sapessi cosa sto ascoltando in questo istante!”». A parte Bowie e Visconti, negli ultimi mesi tutti quelli che hanno lavorato al disco hanno la sensazione che il progetto sia stato messo in stand-by. Gail Ann Dorsey ha dichiarato al «New Musical Ex-
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press»: «Stavo iniziando a pensare che arrivato a un certo punto ci avesse ripensato e non volesse più pubblicare l’album». E Steve Rosenthal, proprietario del Magic Shop, sempre al «New Musical Express»: «Dall’inizio fino alla fine, questo non è stato il tipico progetto da music business. È stato una specie di progetto artistico che lui ha creato e ha eseguito nei nostri confronti. Non penso che nessuno di noi credesse veramente che sarebbe stato pubblicato finché non abbiamo visto la prima canzone online». I punti fermi, fin dal momento in cui è stato siglato l’accordo con la Columbia, sono due: il disco sarà lanciato l’8 gennaio, in concomitanza con il sessantaseiesimo compleanno di Bowie, mettendo on line a sorpresa la prima canzone, per essere poi pubblicato l’11 marzo in Europa e il 12 marzo in America. Ma la tracklist resta a lungo fluida e incerta. Secondo Nicholas Pegg, dalle session sono scaturite 29 tracce (quindi 5 in più di quelle che successivamente vedranno la luce). Man mano ne saranno selezionate 14 per la versione standard del Cd e 17 per quella deluxe (fatta eccezione per la deluxe giapponese, che ne conterrà 18). «La selezione e l’ordine e delle canzoni sono cambiati diverse volte nel corso dell’ultimo mese prima che potessimo dire: ecco qui, questo è l’album», ha dichiarato Visconti. C’è poi la questione di stabilire quale sarà il pezzo di lancio. Una scelta quanto mai delicata, dato che si tratterà del primo vero nuovo inedito di Bowie a distanza di quasi dieci anni da REALITY, e dovendo anche considerare il fattore sorpresa. Inizialmente sembra che Bowie punti su Love Is Lost, indubbiamente uno dei brani migliori con il suo inconfondibile sapore art-rock in stile berlinese. Ma in seguito si decide che il singolo di lancio sarà Where Are We Now?, una ballata elegiaca e fortemente evocativa con molteplici riferimenti nel testo agli anni trascorsi a Berlino. E per la prima volta dopo tanti anni – dal 1999 – Bowie lo vuole far accompagnare da un video. Così contatta Tony Oursler, l’artista e scultore che aveva già lavorato per lui realizzando le sculture animate del videoclip Little Wonder, ma anche per il palco del tour che aveva supportato l’uscita di EARTHLING e in occasione del concerto organizzato per il suo cinquantesimo compleanno.
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Il fatto, però, è che, come Michael Cunningham non aveva mai scritto un musical, neanche Tony Oursler ha mai realizzato un video musicale prima d’ora. «Come prima cosa mi sono chiesto se ero all’altezza di un progetto come questo», ha detto Oursler a «Uncut», «considerata la solennità della situazione, la sorpresa del ritorno dopo dieci anni di silenzio. Ma ho ascoltato molto attentamente quello che David mi ha detto, e lui aveva già questa idea cristallizzata e pienamente articolata nella sua mente. Ci sono state alcune cose che abbiamo tirato fuori insieme, quindi si tratta di una specie di collaborazione incrociata che avuto luogo nel mio laboratorio». Il clip viene girato nel corso di due mattinate nello studio-laboratorio di Tony Oursler nei pressi di City Hall, che viene fatto rassomigliare a una vecchia soffitta disseminata di oggetti del passato usati e poi dismessi. «E quelle bambole che si vedono nel video, quelle effigi elettroniche sosia di Bowie e di un volto femminile [la pittrice Jacqueline Humphries, moglie di Oursler, N.d.A.] sono una “figura retorica” che ho usato nel mio lavoro fin dagli anni Novanta. David aveva usato quelle due specifiche bambole per il suo cinquantesimo party di compleanno al Madison Square Garden nel 1997, che era stata la prima volta in cui abbiamo lavorato insieme. Così mi ha portato nel suo studio e ha detto: “Usiamo semplicemente queste”». Altro piccolo dettaglio che verrà rivelato solo in seguito: la cagnetta che si vede deambulare nel video si chiama Muffin e la sua padrona è Coco Schwab. E Muffin è sorella di Max, il cane di Lexi Jones. Mentre si festeggia l’arrivo del 2013, sono ancora in pochissimi a essere a conoscenza del nuovo disco. Secondo quanto riferito da Nicholas Pegg, perfino Alan Edwards della Outside Organisation, che per anni ha fatto da ufficio stampa a Bowie nel Regno Unito, viene informato della sua esistenza solo quattro giorni prima, ossia il 4 gennaio. Dopodiché, Edwards confida la notizia a un ristretto circolo di giornalisti televisivi suoi amici, tra cui John Wilson della Bbc, in modo che possano fin da subito organizzarsi per inserire “il ritorno di David Bowie” tra i titoli di testa dei notiziari dell’8 gennaio. Il 7 gennaio, quindi, Edwards avverte anche alcuni importanti opinion maker della carta stampata, tra cui Caitlin Moran e Dylan Jones,
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dicendo loro che «qualcosa di interessante arriverà nella vostra casella di posta elettronica domattina alle 5». In quei giorni, ha raccontato Tony Visconti al «Times», «non riuscivo a dormire. Avevo tenuto il segreto per due anni. Conoscevo la data di pubblicazione da due mesi, era un conto alla rovescia. L’ultimo giorno, con David ci siamo scambiati una serie di e-mail. Io gli dicevo: “Mi sto mordendo le unghie, mancano 2 ore e 35 minuti”, e lui rispondeva, “2 ore e 26 minuti”».
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where are we now? L’8 gennaio 2013, allo scoccare della mezzanotte ora di New York e delle 5:00 del mattino ora di Londra (le 6:00 italiane), tutti i media e tutti i social network iniziano a diffondere la lieta novella. Lungi dall’essere in fin di vita, David Bowie è tornato: con una nuova canzone (di cui è visibile il video su Vevo e YouTube), un nuovo album (che uscirà a marzo) e un nuovo sito web completamente riformulato, dove la prima notizia che viene pubblicata è questa: Nelle prime ore del mattino di martedì 8 gennaio, la ISO/Columbia Records ha diffuso un nuovo singolo di David Bowie intitolato Where Are We Now? acquistabile esclusivamente nel negozio iTunes in 119 Paesi. Il primo album di David Bowie in dieci anni e la sua ventisettesima registrazione in studio, THE NEXT DAY, è altresì disponibile come pre-order su iTunes con un’ampia pubblicazione programmata per marzo. L’8 gennaio è il compleanno di David Bowie, un momento opportuno perché un simile tesoro appaia come dal nulla. […] Negli ultimi anni il silenzio radiofonico è stato interrotto solo da infinite speculazioni, voci e wishful thinking… un nuovo disco… chi l’avrebbe mai pensato, chi l’avrebbe mai sognato! [“Who’d have ever thought of it / Who’d have ever dreamed” è una strofa di Boss of Me, ma nessuno sul momento è in grado di cogliere il riferimento, non essendo ancora sta-
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ta pubblicata, N.d.A.] Dopo tutto, David è il tipo di artista che compone ed esegue quello che vuole e quando vuole… quando ha qualcosa da dire piuttosto che qualcosa da vendere. Oggi ha sicuramente qualcosa da dire. Prodotto dal collaboratore di lunga data Tony Visconti, Where Are We Now? è stata scritta da Bowie ed è stato registrata a New York. Il singolo è accompagnato da un inquietante video diretto da Tony Oursler che fa riferimento ai giorni di David a Berlino. Nel video lui viene visto mentre guarda immagini dell’officina meccanica sotto all’appartamento in cui ha vissuto, insieme a immagini desolate della città a quell’epoca e a un testo che solleva costantemente la domanda: Dove siamo adesso? “Il momento che lo saprai, lo saprai, saprai” risuona dal testo del nuovo singolo. Ora tutti noi lo sappiamo… David Bowie è stato in sala d’incisione… proprio quando meno ce lo aspettavamo!!
Lo scalpore è enorme, esattamente come Bowie e la ISO/Columbia avevano pianificato, anche perché alla fine del videoclip una carrellata in un angolo della soffitta coglie David Bowie in carne e ossa. È la sua prima apparizione pubblica da quasi due anni e la telecamera indugia qualche secondo sul suo volto. È serio, riflessivo, al naturale, vestito casual con un paio di pantaloni scuri e una T-shirt. È un po’ invecchiato, ovviamente, ma non è affatto l’essere piagnucoloso e “dimezzato” cui molti, fino a quel punto, avevano pensato guardando il suo viso innestato su quello della bambola del video. Sembra anzi che stia benone e che sia pronto per festeggiare nella maniera più sorprendente il suo sessantaseiesimo compleanno. L’8 gennaio 2013 è una giornata che lascerà un segno indelebile non solo in quanti hanno a cuore le vicende bowiane, ma anche, in assoluto, nella storia della musica rock o “popolare”. È la prima volta infatti, che la resurrezione – improvvisa, inaspettata – di una grande stella che si credeva ormai spenta desta un così vasto interesse, a tutti i livelli del mondo dell’informazione. Avvengono diverse cose di rilievo quel giorno nel mondo: nel nordest del Pakistan quattro persone muoiono e altre quattro restano ferite a seguito di un attacco degli Stati Uniti con i droni a basi terroristiche; una serie di incendi sulla costa est dell’Australia spingono mi-
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gliaia di persone a evacuare le loro case; avviene lo scambio tra 2.130 prigionieri detenuti dal governo siriano in cambio di 48 iraniani rapiti dai ribelli antigovernativi; il governo venezuelano comunica che Hugo Chavez è in condizioni stabili dopo essere stato ricoverato in ospedale per un’infezione polmonare; è iniziata l’inchiesta sulla morte, il 23 luglio 2011, di Amy Winehouse; Leo Messi festeggia la vittoria del terzo pallone d’oro consecutivo; e, in Italia, Silvio Berlusconi e Roberto Maroni annunciano di avere stretto un accordo per le prossime elezioni. Eppure, le aperture dei telegiornali sono tutte per il ritorno di David Bowie, in particolare nel mondo anglosassone (Sky, Bbc e tv americane) ma non solo. «Non abbiamo mai visto prima nulla di simile, una vera leggenda che rilascia il comunicato stampa, la musica, le fotografie, tutto quanto nel tempo di un battito di ciglia», dice Tim Ingham di «Music Week». «A sessantasei anni, ha dato filo da torcere a tutto il sistema dell’industria della musica e dei media musicali, e anche dei social media. I social media per la loro natura richiedono fatti o – in assenza di fatti – supposizioni. Se non sanno nulla, si inventano le cose. Ma il fatto che non si parlasse affatto di un nuovo disco ha fatto moltiplicare l’impatto in termini di pubblicità. È ritornato generando una tempesta mediatica più travolgente di quella che qualsiasi artista abbia prodotto negli ultimi anni». Senza contare che nel corso della giornata Where Are We Now? schizza al numero uno nella classifica di iTunes e nel giro di una settimana entra nella Top 10 inglese. Man mano che passano i giorni, si rompono gli argini e tutti i protagonisti dell’operazione segreta, fatta eccezione per Bowie, iniziano a parlare e a esporre i modi e i tempi del loro coinvolgimento. In primis Tony Visconti, ma poi anche Jonathan Barnbrook, Earl Slick, Gail Ann Dorsey e Gerry Leonard rilasciano tutti interviste rivelando quello che possono rivelare ma non certamente tutto. Visconti si dice sorpreso che Bowie alla fine abbia scelto come singolo di lancio la nostalgica Where Are We Now?, che non ritiene rappresentativa di THE NEXT DAY: «L’album è eclettico», dice ad Alexis Petridis del «Guardian», «ci sono cinque pezzi molto rockeggianti. Il resto è piuttosto mid-tempo, misterioso ed evocativo. Lui è ossessionato dalla storia inglese del Medioevo che, crediateci o meno, costituisce del grande materiale per una canzone rock. E anche dalla storia
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russa contemporanea si può fare una grande canzone rock. Gli argomenti di cui ha scelto di parlare sono affascinanti. The Next Day è una canzone su un tiranno, fatemi solo dire questo. L’album possiede un sacco di sostanza. Dovrete ascoltarlo molte volte, perché ci vuole molto tempo per assorbire il contenuto delle liriche». E a tutti quelli che gli chiedono se Bowie ha intenzione di tornare a esibirsi dal vivo, Visconti risponde nettamente: «È deciso a non esibirsi mai più dal vivo… Uno dei musicisti gli ha chiesto: “Ehi, ma quando suoneremo tutto questo dal vivo?”, e David ha risposto: “Non lo suoneremo”. L’ha detto e l’ha ripetuto per tutto il tempo». Per quanto riguarda lo stato di salute, Visconti si attiene a quella che sarà la sua linea per i successivi tre anni: «La cattiva salute non è mai stato un impedimento» dichiara al «New Musical Express». «Nessuno mi costringe a dire questa cosa, ma lui è molto, molto in salute. Canta meravigliosamente, meglio che mai».
jimmy king La preoccupazione per lo stato di salute di Bowie, che fino all’8 gennaio era ai massimi livelli, sembra improvvisamente rientrare. Anche perché in coincidenza del lancio del singolo e dell’album viene diffusa una serie di fotografie – le sue prime immagini promozionali dai tempi di REALITY – in cui appare in buone, anzi ottime condizioni. Sono foto che diventeranno famosissime, perché saranno pubblicate da tutti i giornali (e su tutti i social network) andando anche in copertina su qualche rivista: Bowie seduto sotto la foto che lo ritrae, giovane, insieme a William Burroughs; Bowie al Magic Shop impegnato durante l’incisione del disco; Bowie al laboratorio di Tony Oursler durante la realizzazione del video di Where Are We Now? al fianco della sua partner, Jacqueline Humphries; Bowie in un’immagine in controluce che lo ritrae in parte in ombra. E poi l’imperscrutabile scatto di Bowie con una maschera bianca da cui filtrano solamente gli occhi e un ciuffo di capelli, inviato dal suo management al «New Musical Express» all’inizio febbraio, allegato a un’e-mail con su scritto: «Questa foto è unicamente per voi. Non l’ha vista nessun altro. A David piace-
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rebbe che la usaste per la copertina». Detto, fatto: il numero del settimanale inglese del 2 marzo 2013 avrà in copertina la suddetta foto, con all’interno la recensione in anteprima di THE NEXT DAY e un articolo sulla lavorazione dell’album con interviste a tutti i protagonisti. Prima ancora, il 9 gennaio, viene diffusa la “foto esclusiva del compleanno” di Bowie, che lo ritrae di tre quarti con una maglietta a strisce a maniche lunghe e una coppola in testa, scattata – come rivela il sito DavidBowie.com – il giorno prima «mentre stava pranzando a un ristorante giapponese». E tutte queste fotografie sono scattate da un’unica persona: Jimmy King, un inglese trapiantato in America che Bowie aveva conosciuto negli anni Novanta nelle vesti di parrucchiere, e che aveva svolto un ruolo di assistente nel 1997 durante il concerto per i cinquant’anni al Madison Square Garden. Dall’8 gennaio 2013 in poi, il misterioso Jimmy King – misterioso perché non ha mai rilasciato una sola intervista, dimostrando una riservatezza che dev’essere stata assai apprezzata dal suo datore di lavoro – sarà l’unico fotografo tramite il quale David Bowie diffonderà la propria immagine. Paparazzi permettendo, naturalmente.
victoria broackes & geoffrey marsh «La pura verità è che solo nel momento in cui tutti gli oggetti sono arrivati qui nel gennaio 2013, ho saputo con certezza che la mostra si sarebbe fatta», ha detto Victoria Broackes, curatice di David Bowie Is per il Victoria & Albert Museum di Londra, a Dylan Jones. Sono stati due anni intensi per lei e per il suo collega Geoffrey Marsh, con frequenti viaggi andata e ritorno tra Londra e New York. Negli archivi di Bowie, ha raccontato Marsh, «c’erano diverse centinaia di abiti di scena, ma noi ne potevamo scegliere solo sessanta. Ma quali? Solo al terzo viaggio abbiamo deciso che non avremmo fatto una scelta cronologica. Le cose veramente interessanti erano quelle incomplete, e chiaramente molte di queste erano pennarelli e cose che mettere in una mostra è un incubo perché si deteriorano velocemente. Inizialmente Bowie diceva che non sarebbe stato coinvolto, ma poi si
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capiva che stava microgestendo tutto da dietro uno schermo, come il Mago di Oz. Quando facevamo una richiesta per poter vedere qualcosa, e scrivevamo a mano una domanda, la risposta che arrivava dava l’impressione che Bowie ne fosse responsabile. Era evidente che in effetti lui leggeva tutto». «Una delle cose curiose della maggior parte degli artisti», ha raccontato Victoria Broackes ancora a Dylan Jones, «è che non tengono con loro molte cose. Di solito hanno delle raccolte di ritagli di giornale e poco altro, ma Bowie sembrava essersi tenuto tutto. Sandy Hirschkowitz, la sua archivista, ci aveva lavorato per quattro anni in quel periodo [la Broackes si riferisce al 2011, di conseguenza si può dedurre che il David Bowie Archive ha iniziato a essere organizzato sistematicamente dal 2007, N.d.A] e aveva anche acquistato degli oggetti in giro per il mondo dai collezionisti. Di base, Bowie aveva archiviato la sua vita, e dato che avevano iniziato a farla diventare una collezione, hanno pensato che forse avrebbero potuto mostrarla. David era sempre molto interessato al mondo dell’arte, e aveva una conoscenza dei musei e di come funzionano, si intendeva di cura museale». Per quanto riguarda la scelta degli oggetti, la Broackes ha dichiarato: «Abbiamo insistito per farci dare il fazzoletto sporco di rossetto [dell’epoca dei tour di Ziggy Stardust, N.d.A.], anche se eravamo preoccupati della reazione della stampa: “Oh, per l’amor del cielo, cosa combina il V&A, mette in mostra un fazzoletto sporco di rossetto?”. Ma ciò che era davvero singolare è che Bowie avesse conservato il fazzoletto sporco di rossetto. Per noi era una sorta di reliquia sacra. L’unica cosa che non ci hanno concesso di usare era il sassofono originale [il primo strumento regalato a Bowie dal padre quando era un teenager, N.d.A.], perché era troppo prezioso per concederlo in presito. E lo capisco. Qualcuno ci ha detto che Bowie aveva il vestito che indossò sulla copertina di THE MAN WHO SOLD THE WORLD, ma loro ci hanno assicurato di non averlo. Comunque, in totale credo che nell’archivio ci fosse un totale di centomila oggetti». E adesso Broackes e Marsh hanno un paio di mesi di tempo per allestire il V&A prima dell’inaugurazione prevista per il 23 marzo. Va tuttavia sottolineata un’anomalia di tutta l’operazione. Durante i due anni in cui hanno lavorato sulla mostra, i due curatori hanno sempre
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e soltanto interloquito con i rappresentanti dell’artista: Bill Zysblat, Coco Schwab, Sandy Hirshkowitz ed Eileen D’Arcy. Non hanno mai, nemmeno una volta, incontrato David Bowie.
the stars (are out tonight) In questi mesi sembra quasi di essere tornati all’epoca del glam, con un fervore e un interesse intorno a tutto ciò che riguarda Bowie che non si vedeva da oltre un ventennio. Tutte le principali testate musicali del mondo gli dedicano la copertina, spesso rispolverando le iconiche foto scattate da Brian Duffy per ALADDIN SANE o gli altrettanto celebri scatti di Sukita che lo ritraggono in un abito di Kansai Yamamoto. Escono numeri speciali monografici e vengono annunciati diversi libri: Ziggyology di Simon Goddard, che ripercorre la sua parabola durante il glam, e il volume fotografico David Bowie Is, curato da Victoria Broackes e da Geoffrey Marsh comprendente il catalogo della mostra del V&A e una serie di illuminanti saggi nuovi di zecca. Escono inoltre altri dischi: per il 14 aprile si prevede l’arrivo di una nuova edizione di ALADDIN SANE rimasterizzata per il quarantesimo anniversario, e per il Record Store 2013, sempre ad aprile, è atteso il picture-disc in vinile di Drive-in Saturday e un 7” sempre in vinile dal titolo DAVID BOWIE 1965!, contenente tutte le sue incisioni di quell’anno. La tensione viene sapientemente tenuta alta dalla Bowie Organization. Il 17 febbraio viene annunciato che il prossimo singolo sarà The Stars (Are Out Tonight) ed è diffuso l’artwork della copertina del “singolo” (che in realtà sarà disponibile solo via download) in cui compare una figura del pittore espressionista Egon Schiele creata dallo scultore Al Farrow. E il 25 febbraio, all’orario previsto con svizzera puntualità, la nuova canzone compare su Vevo, YouTube e tutti i social network accompagnata da un video, super professionale, girato il mese prima da Floria Sigismondi, la regista che aveva già realizzato i clip di Little Wonder e Dead Man Walking nel 1997.
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Se nel video di Where Are We Now? Bowie aveva solo fatto capolino sul finale, come a voler dichiarare al mondo che non era affatto in fin di vita come lo si credeva, qui fa molto di più: torna, di fatto, a recitare, a fianco di un’attrice come Tilda Swindon. I due, nel video, sono una coppia matura che desidera condurre una tranquilla esistenza periferica senza sobbalzi, ma ovunque si trovino (in casa, per strada o al supermercato) non riescono a sfuggire alla mania dei nostri tempi per le celebrità. Ma l’idea del clip è che i ruoli a un certo punto si invertono: sono le “persone famose” che stalkerizzano la coppia “normale”, finché alla fine raggiungono il loro obiettivo: condurre un’esistenza anonima guardando la tv sul divano mentre Bowie e Swindon, al contrario, si sono trasformati e si comportano come delle star. Anche sulla base di questo clip, nessuno ha ormai più dubbi: Bowie è tornato ed è nel pieno delle sue forze. E forse non è un caso che proprio il 25 febbraio, poche ore dopo la diffusione del video, torni a farsi vedere tranquillamente in giro, a quattro mesi dall’ultimo avvistamento: le foto pubblicate dal «Daily Mail» lo mostrano in giro per SoHo nella sua ormai consueta tenuta con piumino, sciarpa verde, occhiali scuri, coppola in testa e con la solita cartella in spalla. E qualche giorno dopo viene paparazzato ancora, stavolta insieme a Iman, “di ritorno da un meeting” secondo il «Daily Mail», sempre per le stesse strade. Insomma, qualsiasi dubbio sulla sua salute sembra essere definitivamente alle spalle.
the next day Tra l’8 e il 12 marzo il ventisettesimo album di studio di David Bowie esce in tutto il mondo, con quell’artwork così spiazzante di Jonathan Barnbrook che tutti ormai conoscono, amano oppure detestano. Le recensioni sono entusiastiche («Il suo miglior album dai tempi di SCARY MONSTERS») e la risposta da parte del pubblico è al pari entusiasmante: THE NEXT DAY sale immediatamente in vetta alle classifiche praticamente in tutti i Paesi del globo fatta eccezione per gli Stati Uniti, dove si blocca al secondo posto (83.118 copie vendute in una
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settimana a fronte delle 100.415 vendute da Bon Jovi con WHAT ABOUT NOW), e, ahinoi, l’Italia. Un grande successo, quindi, sul piano commerciale. Ma dal punto di vista artistico? È realistico quanto ha scritto Mark Paytress su «Mojo» definendolo «il lavoro più appassionato e convincente di Bowie da decenni a questa parte»? Nel 2003 Bowie aveva accennato all’intenzione di realizzare una sorta di “trilogia newyorkese” insieme a Tony Visconti, di cui REALITY, dopo HEATHEN, sarebbe stato il secondo capitolo. L’impressione è appunto che – nonostante la distanza di tempo considerevole: dieci anni – THE NEXT DAY sia proprio il terzo capitolo mancante, realizzato con lo stesso produttore e, in sostanza, con gli stessi musicisti. È un disco chiaramente diverso dai due precedenti, anche per via delle circostanze della lavorazione. HEATHEN è più atmosferico e certamente più ispirato, mentre REALITY è stato realizzato «per essere suonato dal vivo», come Bowie ha più volte dichiarato (infatti il suo difetto è proprio il sound forzatamente muscolare). Dal punto di vista del suono è evidente che gli anni passati a seguire la fervente scena indie newyorkese del primo decennio del nuovo secolo hanno avuto un impatto notevole: molte delle canzoni di THE NEXT DAY sembrano essere la sua interpretazione di quell’estetica sonora, filtrata attraverso la sua particolare sensibilità e il suo sagace fiuto per un ritornello pop. Come per REALITY, tuttavia, anche su THE NEXT DAY si registra qua e là un deficit di ispirazione. Ma da un lato è forse troppo lungo (53’17” in versione standard ma in molti hanno preferito ascoltare fin da subito quella deluxe che arriva a 61’30”) ed è difficile per chiunque mantenersi ad alto livello per una tale durata. E probabilmente alla fine Bowie non è riuscito a far quadrare il cerchio quando si è trattato di definire la tracklist: ci sono pezzi pubblicati in seguito come “extra” che avrebbero potuto prendere il posto di certuni della versione standard, e THE NEXT DAY ci avrebbe senz’altro guadagnato. Per essere espliciti: If You Can’t See Me, Dancing Out of Space, (You Will) Set The World on Fire, Boss of Me e Heat sono tutti, per vari motivi, sotto standard mentre, per contro, Plan, God Bless the Girl e So She potevano meritare una destinazione migliore.
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Ma al di là del valore dei singoli brani – The Stars (Are Out Tonight) è un singolo radiofonico brillantissimo, come Bowie non scriveva da anni, e anche Love Is Lost e You Feel So Lonely You Could Die sono di livello molto alto – il difetto di THE NEXT DAY è che è fondamentalmente un disco old school in cui Bowie si muove su terreni che ha già battuto in precedenza: The Next Day è un chiaro rimando a Scary Monsters; Where Are We Now? potrebbe essere una outtake di ‘HOURS…’; Love Is Lost ha un sapore art-rock berlinese e Valentine’s Day sembra provenire, per struttura, dal beat degli anni Sessanta. Non un disco particolarmente avventuroso o innovativo, pertanto, la qual cosa è anche comprensibile dato che Bowie, dopo una stasi di oltre sette anni, a quel punto doveva in qualche modo reimparare a fare musica. Di innovativo e/o sperimentale, THE NEXT DAY possiede solo una superficiale patina, dovuta al grande mestiere di Bowie e di Visconti. E quindi, tutto ciò che è stato detto e scritto su THE NEXT DAY va necessariamente ricollegato all’incredibile e irripetibile contesto della sua uscita: all’inaspettato comeback dopo dieci anni di assenza e alla formidabile macchina (non)promozionale allestita dalla ISO e dalla Columbia. Si potrebbe sostenere che se fosse stato pubblicato, tale e quale, non nel 2013 ma piuttosto nel 2005, avrebbe seguito la stessa sorte di REALITY: avrebbe sì ottenuto recensioni dignitose (“Il suo miglior album dai tempi di SCARY MONSTERS”), ma dopo un paio di mesi sarebbe forse finito nel dimenticatoio.
angie bowie In questi giorni in cui tutti amano Bowie, dichiarano di essere sempre stati suoi fan e si sperticano in elogi per THE NEXT DAY, si leva un’unica, solitaria voce dissenziente: la sua ex moglie Angie, la quale in un’intervista al Sun dichiara che l’ex marito «non scrive una buona canzone dal 1974», cioè da quando stava ancora con lei. «Ho sentito il primo singolo, Where Are We Now?», dice Angie ai tabloid inglesi, «ed è semplicemente orribile, proprio diabolico. E il secondo era ancora peggiore. E questo dovrebbe essere il comeback del secolo? Ma è noioso! Penso che ogni disco che ha fatto dopo i pri-
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mi otto album sia stato spazzatura». Incalzata dall’intervistatore, Angie aggiunge: «Ho guardato trenta secondi del video di Where Are We Now?, poi non ce l’ho fatta più. Il tema trattato è troppo retrospettivo. Cioè: sono contenta che sia uscito dalla sua casa di New York e che abbia registrato un album. Ma perché mai se ne è stato rintanato in casa per dieci anni, poi?». Angie approfitta anche per raccontare qualche particolare piccante del suo matrimonio con Bowie, incluso il suo cavallo di battaglia: quella volta che lo avrebbe trovato a letto con Mick Jagger. E torna a lamentarsi del fatto che dopo il divorzio, nel 1980, abbia ricevuto solo 500mila sterline nel giro di dieci anni: «Era in rate minuscole, come la paghetta di un bambino. Non mi ci sono potuta neanche comprare una casa. Quando abbiamo rotto con David non mi sono ripresa per sei anni per via del fatto che lui non mi ha pagato per avergli gestito la carriera. E forse non mi sono ancora ripresa». Se Angie vuole far parlare di sé con quest’intervista, ci riesce perfettamente. Il giorno stesso in cui viene diffusa, i bowiani dei social network iniziano a martellarla di insulti senza pietà.
reflektor Un giorno di primavera, Bowie torna a collaborare con i suoi carissimi Arcade Fire, recandosi agli Electric Lady Studios nel Greenwich Village, dove la band canadese sta registrando il quarto album. «È successo subito dopo che era uscito THE NEXT DAY», ha raccontato il polistrumentista Richard Reed Parry. «Ha fatto un salto allo studio di New York dove stavamo mixando. Ci ha chiesto di poter dare un contributo perché gli piaceva tanto una nuova canzone». Reflektor, che diventerà la title track dell’album, sembra prodotta da Giorgio Moroder e strizza l’occhiolino agli Sparks e agli ABBA: quando uscirà – il 9 settembre 2013 – farà notizia come la “svolta dance” degli Arcade Fire, anche se in verità Win Butler e i suoi non hanno mai disdegnato di far ballare la gente fin dal primo disco. Ma, al di là del sound, forse a colpire Bowie è anche il concept del disco. Come scrive Fernando Rennis sulla sua biografia della band, Scream & Shout
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(Arcana, 2017), Butler prende spunto da un saggio del filosofo Kierkegaard, The Present Age, per provare a comprendere il nostro tempo, un’epoca indolente che «si contrappone a quella della Rivoluzione, appassionata e ricca di cultura, a causa della sua non chiara natura riflessiva (reflection) e contemplativa (reflexion)». Il featuring di Bowie, un po’ com’era accaduto con Scarlett Johansson, è appena percettibile: la sua voce tende a sommarsi a quella di Butler piuttosto che a condurre il brano verso un’altra direzione. La visita agli Electric Lady Studios, tuttavia, porta anche altri frutti: in quest’occasione Bowie conoscerà uno dei co-produttori dell’album, James Murphy degli LCD Soundsystem, uno dei personaggi più creativi della nuova scena indie newyorkese, e i due sembreranno intendersi a meraviglia. Di lì a poco, Bowie gli proporrà di remixare uno dei brani del nuovo album.
david bowie is at v&a Le sale del V&A pullulano ancora di operai e di tecnici che stanno sistemando gli ultimi dettagli, quando, il 19 marzo 2013, viene concesso ad alcuni giornalisti di visitare David Bowie Is per una rapida preview. La sera stessa Simon Price sul sito web The Quieus elogia l’approccio “non didattico” della mostra: «Piuttosto che dirti cosa devi pensare, David Bowie Is ha successo nell’essere uno stimolo infinito per la mente, perché ti chiede: che cosa significa tutto questo per TE? Invece di una semplice cronologia, o di una noiosa parata di costumi e di teche di vetro, la mostra è tematica e multidisciplinare come ci era stato promesso. E, in maniera appropriata per un artista così ossessionato dall’immagine, ha un look incredibile». Il giorno dopo è quello della visita privata a inviti, riservata a «un’armata di luminari tra cui Tony Visconti, Nicolas Roeg, Tilda Swinton, Noel Gallagher, Marc Almond, Steve Strange, la star di Doctor Who Matt Strange e anche un paio di Dalek fuori servizio», come riporta Nicholas Pegg. In serata tutti questi vip si ritrovano alla sontuosa cena offerta dal V&A durante la quale Tilda Swinton legge un discorso di ringraziamento (a Bowie, al V&A e agli sponsor) prece-
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dentemente preparato: «Caro Dave, quando ti ho chiesto se volevi che io dicessi qualcosa stasera hai detto: “Solo tre parole, di cui una testicolare”, quindi credo che passerò oltre». Durante questa giornata, e anche in seguito, per il V&A si aggira la troupe del regista Hamish Hamilton, incaricato di girare un documentario sulla mostra. Ma il grande giorno è il 23 marzo 2013, quando David Bowie Is apre le porte al pubblico pagante. E tutti possono finalmente restare strabiliati nel realizzare che la mostra è effettivamente ciò che la pubblicità promette: una straordinaria esperienza multimediale, interattiva e sensoriale per suoni e immagini. Chi la visita per la prima volta non può fare a meno di restare a bocca aperta di fronte ad alcune “stanze”: quella di Starman, fatta di specchi con il costume originale di Ziggy Stardust disegnato da Freddie Burretti e il video della storica apparizione a Top of the Pops del 1972 con Bowie e gli Spiders nel pieno del loro fulgore; quella in cui si proiettano spezzoni dei film in cui Bowie recitò, da The Image (1967) a The Prestige (2006); ma poi soprattutto la stanza dei “live”, in cui, grazie a una serie di megaschermi, ci si ritrova praticamente dentro a un concerto d’epoca di Bowie, da poter assaporare seduti su un divanetto circondati dagli abiti di scena usati dal cantante nelle diverse fasi della carriera. Prima e dopo, con in testa una cuffietta, si può ripercorrere la vita e la carriera dell’artista nato a Brixton come David Jones, dai primi passi da mod passando per Space Oddity, il periodo glam, quello funk, gli anni berlinesi, fino al nuovo millennio, con tantissime cose da vedere e da sentire. Tra queste: le fotografie di Brian Duffy, le artistiche cover degli album realizzate da Guy Peellaert ed Edward Bell, video musicali come The Man Who Sold the World con Klaus Nomi al Saturday Night Live, interviste d’epoca, gli arredi creati per il Diamond Dogs Tour (1974), oggetti personali quali i testi originali delle sue canzoni scritti a mano, eccetera. Un’esperienza indimenticabile.
“that doomsday song” Ci pensa il solito «Daily Mail», il 24 aprile, a preannunciare che Bowie sta girando un terzo video tratto da THE NEXT DAY, pubblicando una
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serie di fotografie rubate sul set, che è l’edificio dell’American Legion (un’associazione di veterani di guerra) su Houston Street. Il «Mail» titola a sensazione: «È una stranezza spaziale! David Bowie è diventato religioso mentre filma il nuovo video». All’interno, le foto di Bowie che indossa una tunica da monaco, delle scarpe da francescano e una lunga sciarpa marrone, con al fianco Gary Oldman vestito da prete. Il «Mail»sottolinea che anche molte delle comparse indossavano abiti religiosi. Un mini-spoiler, quindi, per il video di The Next Day, che viene diffuso l’8 maggio creando, per qualche giorno, un pandemonio. Diretto ancora una volta da Floria Sigismondi, il clip mostra Gary Oldman nei panni di un prete in libera uscita che entra in una sorta di club privé chiamato The Decameron dove beve, balla e se la spassa con delle ragazze mezze nude che sono chiaramente delle prostitute (ma potrebbero essere anche delle versioni “deviate” di famose sante della tradizione cristiana). Di tanto in tanto la camera si sposta su Bowie vestito da frate francescano che al centro del postribolo canta di preti che «lavorano insieme a Satana mentre si vestono come santi» e che «sanno che Dio esiste perché gliel’ha detto il Diavolo». Una delle prostitute/sante (l’attrice Marion Cotillard) improvvisamente inizia a sanguinare copiosamente per via delle stimmate, sconcertando i vari cardinali, preti e suore presenti nel locale. Il video si chiude con un quadretto religioso, una sorta di blasfema trinità: Bowie al centro in una posa cristologica, con al suo fianco la Cotillard peccatrice redenta e una candida suorina in preghiera. Le ultime parole sono di Bowie che esce per un attimo dal personaggio («Grazie Gary. Grazie Marion. Grazie a tutti») prima di smaterializzarsi nel nulla. Oldman, che è un caro amico di Bowie dal 1988, ha in seguito raccontato: «Dave mi ha mandato un’e-mail all’improvviso, dicendomi: “Ti va di venire a recitare un prete per un giorno?”. È stato fatto tutto per un sandwich e una bottiglia di gazzosa. L’abbiamo girato in un posto che è a dieci minuti da casa mia». Si tratta, è ovvio, di un deliberato attacco – seppur con un certo grado di ironia – alla chiesa cattolica, ai suoi “peccati” e alle sue ipocrisie, che non manca di causare il putiferio presumibilmente desiderato. William Anthony Donohue, leader della Lega Cattolica per i Di-
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ritti Religiosi e Civili, definisce il video “una schifezza”, opera di un “vecchio pensionato londinese”, mentre Jack Volero della rivista «Catholic Voices» dichiara: «Non capisco perché lo abbia fatto. Una volta era famoso, ora mi sembra solo disperato». E anche l’ex-Arcivescovo di Canterbury, George Carey, interviene nella polemica, definendo la canzone “roba per ragazzini” e chiedendosi se Bowie avrebbe avuto il coraggio di utilizzare, piuttosto, immagini islamiche. Bowie resta silente e lascia che delle polemiche dia conto il suo sito web, che dà un particolare rilievo alla frase conclusiva del servizio andato in onda sull’emittente Cbs: «È bello sapere che, a sessantasei anni, David Bowie ha ancora il potere di agitare le acque». Insomma, di THE NEXT DAY si seguita a parlare, e soprattutto il disco si continua a vendere.
r.i.p. trevor bolder La mattina di domenica 18 maggio David Bowie prende il telefono e fa una di quelle cose che in passato non è mai stato molto bravo a fare: chiama un suo vecchio amico morente. Si tratta di colui che è stato il bassista del suo gruppo più leggendario, gli Spiders from Mars: Trevor Bolder, a cui verso la fine dell’anno precedente è stato diagnosticato un cancro pancreatico. A gennaio si è sottoposto a un intervento chirurgico, ma il male, negli ultimi giorni, ha preso il sopravvento: Bolder è adesso in fase terminale. Trevor Bolder muore tre giorni dopo quella telefonata, all’ospedale di Castle Hill a Cottingham, vicino alla sua città natale, Hull, nello Yorkshire. Un amico di famiglia del bassista racconta alla stampa: «Erano anni che non si parlavano con Bowie, praticamente non avevano avuto più nessun contatto dopo lo scioglimento degli Spiders. Ha chiamato all’improvviso domenica pomeriggio, e qualsiasi cosa ci fosse stata in precedenza tra loro, a Trevor ha fatto molto piacere ricevere la telefonata. Bowie ha chiamato nuovamente questa mattina per porgere le sue condoglianze alla famiglia». In passato Bowie ha avuto un rapporto difficile – a tratti di rifiuto – verso la morte e la malattia. Era stato poco vicino al fratellastro
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schizofrenico Terry Burns durante la fase più critica della sua malattia, e dopo il suo suicidio nel 1985 non aveva trovato la forza di andare al funerale, mandando al suo posto una corona di fiori e un messaggio delirante contenente una citazione da Blade Runner: «Hai visto più cose di quante ne potremmo immaginare, ma tutti quei momenti saranno perduti, come lacrime spazzate via dalla pioggia. Dio ti benedica, David». E anche otto anni più tardi, dopo la morte per un cancro al fegato di Mick Ronson – il “suo” chitarrista, l’alter ego macho di Ziggy Stardust e arrangiatore di alcune delle sue canzoni più belle – Bowie non si era presentato al funerale, né aveva preso parte al concerto commemorativo tenutosi all’Hammersmith Odeon di Londra il 29 aprile 1994. I rapporti tra Bowie e Bolder & Woodmansey erano stati tesi fin da quando Ziggy aveva licenziato gli Spiders senza preavviso sul palco nel 1973, ma quest’ultima assenza era stata vista come un ulteriore sgarbo imperdonabile, la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Intervistato da «Let It Rock» nel 2003, Trevor Bolder sembrava nutrire ancora astio verso il suo vecchio datore di lavoro: «Speravamo tutti che sarebbe venuto, ma ha detto che era troppo sconvolto che Mick fosse morto per presentarsi al suo concerto commemorativo. Ma quando era morto Freddie Mercury, David Bowie non ci ha pensato un attimo a salire sul palco, perché era di fronte a milioni di persone. Si è mosso per il concerto di Freddie Mercury ma non si è potuto spostare per Mick, perché non era una cosa abbastanza grossa per lui. E Mick era lì sul palco insieme a lui allo show per Freddie Mercury, nonostante fosse già molto malato. Ma io credo che alla fine il fatto è che Bowie non sarebbe riuscito a guardare in faccia musicisti come me e Woody e altra gente con cui non si è comportato bene. Però poteva venire a fare almeno una canzone. Solo. Una. Canzone». Ma ora è passata altra acqua sotto ai ponti e molte cose sono cambiate. Anche Bowie evidentemente non è più quello di prima, e dovendo per forza di cose vagliare il materiale per la mostra alla V&A avrà avuto modo di riflettere sul suo passato e sulle persone che lo hanno aiutato a diventare quello che è. Cosicché, nel corso di quel 21 maggio, rilascia anche una comunicazione ufficiale tramite il suo sito web: «Trevor era un musicista meraviglioso e una grande ispirazione
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per tutte le band con cui ha lavorato. Ma è stato soprattutto una persona straordinaria, un grande uomo».
five years La suprema sfortuna di Trevor Bolder è che se ne va proprio nel momento in cui degli Spiders from Mars si sta parlando – e si stanno sentendo in giro le loro canzoni – come non era forse capitato neanche nel loro momento di massima gloria. Grazie alla mostra del V&A, naturalmente, dove alcune sale, le più visitate, sono riservate all’epoca glam, ma anche per via del documentario che va in onda il 25 maggio su Bbc2, Five Years di Francis Whately, che rappresenta il terzo colpo mediatico di Bowie (dopo THE NEXT DAY e il V&A) di questo 2013. Whately si è concentrato sui cinque anni a suo parere più rappresentativi della carriera di Bowie, suddividendo il documentario in cinque parti: 1971 (l’invenzione del glam), 1975 (il periodo soul), 1977 (gli anni berlinesi), 1980 (tra Elephant Man e SCARY MONSTERS) e 1983 (Let’s Dance). Nel realizzarlo, ha avuto accesso a una vastità di filmati d’archivio mai mostrati prima e di cui non si conosceva l’esistenza. Tra questi: il primo imbarazzante incontro tra Bowie e Andy Warhol nel 1971; le outtake del video di Life on Mars? di Mick Rock; una Angie Bowie giovanissima che si dimena come un’ossessa a uno dei primi concerti degli Spiders from Mars come se Bowie fosse già una star mentre invece il pubblico è composto da quattro gatti; le prove di YOUNG AMERICANS con Bowie che prova e riprova degli impervi saliscendi vocali insieme ai suoi coristi (tra cui Luther Vandross). Il filo conduttore del documentario sono i ricordi di Bowie, tratti da interviste rilasciate in precedenza. «Lui era al centro di tutto», ha spiegato Whately, «e l’abbiamo costruito da lì. Anche se io sono un suo fan, non volevo realizzare una cosa agiografica. Volevo che il commento provenisse direttamente dall’interessato. E comunque lui ha già parlato in passato della maggioranza delle cose». Ci sono poi una serie di interviste a suoi collaboratori (Fripp e Eno compresi). Whately ha però scelto di non intervistare né Angie Bowie («Ha una sua visione particolare») né Coco Schwab («Tutti i segreti
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sono nella sua cassaforte»). «La sua vita privata è affascinante per alcuni, ma io sono più interessato alla musica», ha spiegato Whately. Ne risulta il documentario in assoluto più bello e completo mai realizzato su David Bowie, ancora oggi insuperato. Replicato più volte dalla Bbc e venduto a molte televisioni straniere, è un tassello importantissimo della leggenda di Bowie che un vero fan deve assolutamente vedere almeno una volta.
venezia & londra Tra le calli di Venezia, alla fine di giugno del 2013, i paparazzi italiani fanno un avvistamento inatteso: proprio lì in mezzo a loro, vestito in maniera informale con la camicia di fuori, un paio di scarpe da ginnastica, un cappello di paglia e occhiali scuri, c’è David Bowie che si sta assicurando che la dodicenne Lexi e una non identificata amica della figlia salgano su un taxi acqueo senza fare un tuffo nel canale. Nei giorni successivi Bowie viene nuovamente fotografato – stavolta insieme a lui e alle due ragazzine c’è anche Iman – in giro per le viuzze della città lagunare, mentre escono dalla Fondazione Giorgio Cini dove sono andati a vedere una mostra dell’artista inglese Marc Quinn, membro del gruppo degli Young British Artists. Una vacanza familiare? Sì, ma soprattutto una vacanza-lavoro, quindi in parte spesata. Si verrà a sapere in seguito che Bowie è a Venezia per girare uno spot per la campagna pubblicitaria milionaria lanciata dallo storico marchio di moda francese Louis Vuitton intitolata L’invitation au Voyage. Nello spot girato da Romain Gavras, che verrà diffuso a novembre, si vedrà Bowie che canta I’d Rather Be High mentre suona il clavicembalo a mo’ di serenata galante per la modella Arizona Muse durante una festa mascherata in un sontuoso palazzo veneziano. «Il film parla di viaggiare attraverso il tempo per condividere un momento indimenticabile», spiegherà Frederic Winckler, direttore della comunicazione per Louis Vuitton, che ha incontrato Bowie a New York e gli ha chiesto se era interessato, non dovendo poi fare molta fatica per convincerlo. «Gli piaceva il personaggio, il ruolo che avrebbe dovuto interpretare».
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Finiti gli impegni veneziani, i Bowie più ragazzina aggregata volano a Londra, e – come racconterà Iman in tono divertito al «Guardian» nel 2014 – nessuno se ne accorge: «Siamo andati la scorsa estate e nessuno ha saputo che eravamo lì! Siamo arrivati con il jet a Luton e ogni giorno abbiamo fatto cose differenti, e la stampa non ha mai saputo nulla. È assurda questa idea che le persone famose non possano restare anonime. Siamo pure andati sul London Eye. Abbiamo fatto file separate, Lexi aveva un’amica con sé e loro sono andate con la guardia del corpo, e poi ci siamo incontrati tutti quanti a bordo». Nel marzo 2016, Iman pubblicherà su Instagram una foto di Bowie di spalle all’interno della cattedrale di St Paul scattata in questi giorni. Quale occasione migliore – una vacanza a Londra – per visitare la mostra David Bowie Is al Victoria & Albert Museum? Infatti è proprio lì che si ritrovano Bowie, Iman, Lexi e la sua amica e l’immancabile Coco Schwab all’alba del 7 luglio 2014, prima che la mostra apra al pubblico, accolti dalla curatrice Victoria Broackes per una visita privata. «La mia sensazione è che Bowie sia rimasto profondamente colpito dall’esperienza», ha raccontato la Broackes a Nicholas Pegg. «Ha passato un’ora e mezza in giro per le sale. Quanto dev’essere strano vedere tutto il lavoro di una vita esposto all’interno di una mostra in quella maniera! Mi chiedo se abbia visto la fila che si era formata fuori dall’ingresso principale del museo mentre lui se ne stava andando. C’erano circa duecento persone già alle 9 del mattino. Avrei voluto che la vedesse con il pubblico dentro, e sentisse la carica emotiva che una galleria piena di persone, ognuna con i propri ricordi e le loro storie riguardo a Bowie, può generare». E ancora, a Dylan Jones, la Broackes ha raccontato: «Ha detto che la mostra era spettacolare. Non sono riuscita a farmi una foto con lui, però. Peccato. Abbiamo parlato un poco, ma di cosa puoi parlare con David Bowie? Per fare conversazione ho detto che Earl Slick era venuto qualche giorno prima, e che per tutto il tempo aveva tenuto indosso gli occhiali da sole. E Bowie ha detto “Ah sì, lui è molto rock’n’roll”». Durante questa gita londinese c’è tempo anche per una visita a Beckenham, lì dove, in fondo, è cominciato tutto. «Sono andati con Lexi», ha raccontato Iman, «e si sono fatti una foto davanti alla casa in cui lui era cresciuto».
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Più che una vacanza è, insomma, un vero e proprio addio al suo paese natale. E l’impressione è che Bowie in cuor suo questo già lo sappia, anche perché, durante queste giornate, imprime un’accelerazione a un progetto che gli sta da sempre a cuore, incontrando il suo amico Robert Fox, il produttore teatrale. «Mi ha fatto una telefonata all’improvviso, dicendomi che si trovava a Londra e se potevo passare a prendere il tè al suo hotel», ha raccontato Fox a «Vogue» nel 2016. «Sono arrivato all’hotel e nel giro di pochi minuti mi ha detto che avrebbe voluto scrivere un musical». Un musical basato su L’uomo che cadde sulla Terra, di cui ha acquistato i diritti dagli eredi di Walter Tevis. Bowie per il momento ha solo due punti fermi, racconterà Fox: il musical si intitolerà Lazarus e sarà imperniato sul personaggio di Thomas Jerome Newton. «La mia reazione iniziale», ha detto Fox a Francis Whately nel 2016 per il documentario della Bbc The Last Five Years, «è stata: farò un musical con David Bowie. Splendido. Ma sicuramente non mi ci comprerò uno yacht». Non sappiamo se a questo punto Bowie voglia scrivere delle canzoni nuove di zecca come per il precedente progetto con Cunningham. Però durante questo incontro chiede a Fox quali siano i migliori autori della nuova generazione, con cui collaborare per la stesura del testo teatrale. Fox ci pensa un po’, poi risponde pronunciando solo due parole: «Enda Walsh».
enda walsh Enda Walsh, classe 1967, è originario di Dublino ma vive da diversi anni a Londra con la moglie Jo Ellison (Fashion Editor al «Financial Times») e la figlia Ada di sette anni. Ha avuto un grande successo nel 1996 con la produzione della sua opera Disco Pigs, che nel 2001 è diventata anche un film diretto da Kirsten Sheridan, definito dalla critica “un testo travolgente e visionario, divertente e intenso, con una scrittura pirotecnica e sfrontata”, sullo strettissimo rapporto tra due
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adolescenti, due novelli Bonnie & Clyde, che compiono un viaggio allucinato, quasi a ripercorrere dalla nascita al diciassettesimo compleanno tutta la loro breve esistenza. Da quando si è trasferito a Londra, Walsh è stato particolarmente prolifico come autore, portando in scena ben tredici opere teatrali, due radiodrammi e due sceneggiature. Vincitore di numerosi premi, le sue opere sono state tradotte in più di venti lingue e rappresentate in tutta Europa, ma anche in Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti. Il suo ultimo lavoro importante è stato l’adattamento di Once di John Carney (2006), pellicola già di per sé musicale con canzoni di Glen Hansard e Markéta Irglová, di cui Walsh ha scritto il testo teatrale. Si tratta della storia di un busker irlandese, che durante la notte suona per strada sognando di poter sfondare un giorno nel campo musicale. Once è stato inizialmente messo in scena a un piccolo teatro off-Broadway, il New York Theatre Workshop, nel 2011, con un set minimalista. Dato l’ottimo riscontro di critica, è in seguito approdato a Broadway al Bernard B. Jacobs Theatre, con apertura ufficiale il 18 marzo 2012. Nel momento in cui Robert Fox fa il nome di Enda Walsh a Bowie, da tre mesi sono iniziate le rappresentazioni di Once – The Musical nel West End di Londra (al Phoenix Theatre) e sta per partire una lunga tournée nordamericana. È plausibile che Bowie inizialmente non conosca affatto le sue opere, ma che, ritornato a New York, decida subito di rimediare, dedicandosi alla lettura di tutti i testi disponibili del drammaturgo. A questo punto i ricordi dei protagonisti sulla tempistica degli eventi divergono e risultano pieni di contraddizioni. La cosa più probabile, tuttavia, è che ci si trovi a settembre 2013 quando Robert Fox contatta Enda Walsh su indicazione di Bowie. In quei giorni, Walsh è in vacanza a Taos nel New Mexico con la moglie e la figlia. Riceve una telefonata da parte del produttore teatrale: sulla via del ritorno per Londra, non potrebbe fermarsi una giornata a New York, dato che David Bowie vorrebbe proporgli un progetto? Walsh, fin da subito, non ha dubbi: l’idea è allettante. «Robert Fox mi ha consigliato di leggere il libro sull’aereo», ha raccontato Walsh, «così avrei conosciuto i temi base: un alieno che si trova sulla
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terra, non può andarsene e vuole tornare a casa. E beve come un pazzo. Ho pensato che fosse una situazione fantastica: un uomo il cui cervello gli si sta ripiegando addosso». E poi, sull’incontro con la star: «Ero nervoso? Be’, io sono un po’ un nerd in fatto di musica, quindi Bowie è un po’ dappertutto. L’ho amato, ma non sono mai stato un fissato. Io sono un fissato dei Beach Boys». L’incontro ha luogo qualche giorno dopo agli uffici della Isolar a Lafayette Street, dove, ha ricordato il drammaturgo, gli si è spalancata davanti un’enorme porta elettronica rivelando la figura di Bowie e, vicino a lui, un cane di piccola taglia (il famoso Max, si può supporre). «Sono entrato, mi ha dato un grande abbraccio e mi ha detto: “Tu sei stato nella mia testa per tre settimane”. Aveva letto tutto quello che avevo scritto, così ci siamo seduti e abbiamo parlato delle mie opere. Mi stava facendo un colloquio di lavoro, e io mi sono messo a pensare, “è una cosa facile”, perché stavo solo parlando di me stesso». Nella sua introduzione al libretto del musical Lazarus, Walsh ha specificato che in realtà, a quel primo incontro, nella stanza erano in quattro: lui, Bowie, Robert Fox e Coco Schwab. Dopo aver chiacchierato per circa un’ora dei lavori di Walsh, del suo modo di scrivere e dei temi ricorrenti nelle sue opere, Bowie a un certo punto gli dice: «Ecco da dove vorrei cominciare», allungandogli un documento di quattro pagine. «David aveva scritto tre nuovi personaggi intorno a quello di Thomas Newton (l’alieno abbandonato, apparentemente immortale e completamente bloccato)», ha scritto Walsh «C’era una ragazza che poteva, o poteva non essere, reale; un assassino seriale chiamato Valentine; e il personaggio di una donna che pensa di poter essere Emma Lazarus, una donna che avrebbe aiutato e si sarebbe innamorata di questo super-immigrato, Thomas Newton. Al centro di queste quattro pagine c’era una semplice ma potente immagine: Thomas Newton avrebbe creato un razzo da rottami. La sua mente, dopo essersi ulteriormente deteriorata, l’avrebbe torturato e tormentato con il sogno della fuga; e nella sua prigione – nella sua stanza nella grande torre – Newton avrebbe provato per l’ultima volta ad andarsene. È da qui che abbiamo cominciato».
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the next day extra Prima del fondamentale incontro con Enda Walsh, l’estate 2013 non difetta certo di eventi e impegni. Intorno alla metà di giugno Bowie ha girato il quarto video tratto da THE NEXT DAY, per la regia di Marcus Klinko e Indrani, già autori delle immagini promozionali di HEATHEN. Rispetto ai due clip precedenti, Valentine’s Day è molto più low cost, girato nello scenario abbandonato del Port of New York Authority Grain Terminal a Brooklyn e con un unico elemento a fuoco: Bowie che canta e suona una chitarra headless della Hofner, che alla fine imbraccia come se fosse un fucile, in una pantomima della celebre posa di Charlton Heston alle convention della National Rifle Association. Per girarlo ci vogliono solo due giorni ma in realtà, come ha raccontato Klinko, molto tempo viene perduto cercando di convincere Bowie ad abbandonare la sua idea originaria per il video: «Voleva tornare indietro come età, come in quel film di Brad Pitt. In pratica voleva iniziare il video come un vecchio, tipo di ottant’anni, poi tornare indietro nel tempo con effetti speciali e alla fine diventare un diciannovenne. È stato piuttosto difficile dissuaderlo. Voleva proprio che fosse così. Abbiamo anche scritturato una sua versione giovane, un sosia, un modello molto talentuoso che è stato usato per alcune delle scene, come la scena dal retro, quando lui guarda fuori dalla finestra. Ma alla fine si è deciso di soprassedere. Sarebbe venuta fuori una cosa dozzinale». Valentine’s Day viene diffuso il 16 luglio, quando Bowie e famiglia sono quasi certamente già tornati da Oltreoceano. Qualche giorno prima viene comunicato che David Bowie Is, prevista inizialmente tra il 23 marzo e il 23 luglio, è stata un tale successo – con 67mila biglietti venduti solo in prevendita – da costringere i curatori ad allungarla fino all’11 agosto. Viene inoltre annunciato un tour mondiale della mostra, che dopo la chiusura al V&A seguirà un percorso itinerante che prevede tappe a Toronto tra il 25 settembre e il 27 novembre (ma verrà estesa fino al 29 novembre), San Paolo tra il 28 gennaio e il 20 aprile 2014, Chicago tra il 23 settembre 2014 e il 4 gennaio 2015, Parigi tra il 2 marzo e il 31 maggio 2015 e infine (per ora) Groningen tra il 15 dicembre 2015 e il 15 marzo 2016.
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Dopo il suo rientro da Londra Bowie, oltre a leggere l’opera omnia di Enda Walsh, si mette a lavorare a stretto gomito con Tony Visconti – presumibilmente agli Human Worldwide Studios – sulle tracce che faranno parte del box set THE NEXT DAY EXTRA (3 Disc Collectors Edition) la cui pubblicazione è prevista per il 4 novembre, giusto in tempo per Natale. Per quanto riguarda i quattro inediti, Visconti dichiarerà alla stampa inglese: «La maggior parte dei testi erano stati completati al tempo delle session per THE NEXT DAY, ma David ha aggiunto delle strofe in più e ricantato delle parti, cori e armonie inclusi. Le nuove versioni sono poi state rimpolpate e nuovamente mixate per la nuova pubblicazione». In particolare, la voce di Bowie su Atomica viene incisa il 26 agosto. Bisogna poi realizzare il nuovo “Venetian Mix” di I’d Rather Be High da utilizzare per lo spot di Vuitton, oltre a comparire in formato integrale su THE NEXT DAY EXTRA. «Siamo stati in costante contatto con i produttori dello spot», ha raccontato Visconti, «che richiedevano diverse lunghezze e sfasamenti di tempo delle parti, di modo che potessero incastrarsi con i montaggi del video. È stato un lavoro monotono, ed è stato fatto nell’arco di due o tre giornate». Allo studio c’è anche la nuova assistente di Visconti, la ventitreenne di origine californiana Erin Tonkon e il “Venetian Mix” è il suo primo lavoro. Dopo il college, la Tonkon ha lavorato per vari studi di registrazione, dopodiché è andata al Clive Davis Institute di New York. «Mi era stato consigliato di scegliermi un mentore», ha detto la Tonkon, «per puro caso, un professore dell’istituto è riuscito a contattare il mio “eroe” Tony Visconti». La voce di Bowie su Atomica viene incisa il 26 agosto 2013, e a fare i cori viene chiamata, estemporaneamente, proprio la Tonkon: «Ero lì da poco quando David Bowie mi chiese se ero brava a cantare. Io gli risposi che me la cavavo e mi ritrovai dall’altra parte della vetrata, un’esperienza molto interessante in quanto ero abituata a stare “dietro le quinte”». L’ultimo inedito di THE NEXT DAY EXTRA è lo “Steve Reich Remix” di dieci minuti e mezzo di Love Is Lost a cura di James Murphy, descritto da Visconti come «davvero incredibile… Non è semplicemente un remix da discoteca, ci sono un sacco di elementi che ti si rivelano solo dopo parecchi ascolti. Mi tolgo il cappello di fronte a Mr Murphy».
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La confezione è completata da un terzo disco, un Dvd contenente i video di quelli che Bowie, verosimilmente, considera i quattro pezzi più importanti e rappresentativi dell’album, sia dal punto di vista musicale che testuale. Si può affermare che – fatta eccezione per Where Are We Now?, improntata alla nostalgia per un’epoca irrimediabilmente andata – i tre clip realizzati per The Stars (Are Out Tonight), The Next Day e Valentine’s Day costituiscono una sorta di inedita trilogia “politica” per Bowie, che in quest’autunno della sua carriera per la prima volta desidera comunicare in modo chiaro ed esplicito come la pensa su tre questioni discusse dei nostri tempi come la “cultura delle celebrità”, la corruzione del clero e la troppo facile vendita delle armi negli Stati Uniti.
i 100 libri E che Bowie, a sessantasei anni, abbia una gran voglia di incidere sulla cultura e sulla società è confermato dal fatto che qualche giorno dopo l’apertura di David Bowie Is a Toronto invii ai curatori della mostra canadese una lista dei migliori cento libri che ha letto fino a quel momento. Eccola di seguito nell’ordine casuale in cui viene diffusa: 1. Interviste a Francis Bacon di David Sylvester 2. Billy Liar di Keith Waterhouse 3. La stanza di sopra di John Braine 4. La via senza testa di Douglas Harding 5. Furoreggiava Kafka di Anatole Broyard 6. Arancia meccanica di Anthony Burgess 7. Città di notte di John Rechy 8. La breve favolosa vita di Oscar Wao di Junot Diaz 9. Madame Bovary di Gustave Flaubert 10. Iliade di Omero 11. Mentre morivo di William Faulkner 12. Tadanori Yokoo di Tadanori Yokoo 13. Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin
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14. Nel ventre della balena di George Orwell 15. Il signor Norris se ne va di Christopher Isherwood 16. Dizionario dei soggetti e dei simboli nell’arte di James A. Hall 17. David Bomberg di Richard Cork 18. Blast di Wyndham Lewis 19. Passing di Nella Larsen 20. Oltre il Brillo Box di Arthur C. Danto 21. Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza di Julian Jaynes 22. Nel castello di Barbablù di George Steiner 23. Hawksmoor di Peter Ackroyd 24. L’Io diviso di R. D. Laing 25. Lo straniero di Albert Camus 26. Infants of The Spring di Wallace Thurman 27. Riflessioni su Christa T. di Christa Wolf 28. Le vie dei canti di Bruce Chatwin 29. Notti al circo di Angela Carter 30. Il Maestro e Margherita di Mikhail Bulgakov 31. Gli anni fulgenti di Miss Brodie di Muriel Spark 32. Lolita di Vladimir Nabokov 33. Herzog di Saul Bellow 34. Puckoon di Spike Milligan 35. Ragazzo negro di Richard Wright 36. Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald 37. Il sapore della gloria di Yukio Mishima 38. Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler 39. La terra desolata di T.S. Eliot 40. McTeague. A Story of San Francisco di Frank Norris 41. Money di Martin Amis 42. L’outsider di Colin Wilson 43. Strange People di Frank Edwards 44. English Journey di J.B. Priestley 45. Una banda di idioti di John Kennedy Toole 46. Il giorno della locusta di Nathanael West 47. 1984 di George Orwell 48. The Life and Times of Little Richard di Charles White
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49. Awopbopaloobop Alopbamboom di Nik Cohn 50. Mystery train di Greil Marcus 51. “Beano” (fumetto anni Cinquanta) 52. “Raw” (fumetto anni Ottanta) 53. Rumore bianco di Don DeLillo 54. Sweet Soul Music di Peter Guralnick 55. Silenzio di John Cage 56. Writers at Work a cura di Malcolm Cowley 57. The Sound of The City di Charlie Gillett 58. Octobriana and The Russian Underground di Peter Sadecky 59. The Street di Ann Petry 60. Wonder Boys di Michael Chabon 61. Ultima fermata a Brooklyn di Hubert Selby, Jr. 62. Storia del popolo americano di Howard Zinn 63. The Age of American Unreason di Susan Jacoby 64. Metropolitan Life di Fran Lebowitz 65. La sponda dell’utopia di Tom Stoppard 66. Il ponte di Hart Crane 67. All The Emperor’s Horses di David Kidd 68. Ladra di Sarah Waters 69. Gli strumenti delle tenebre di Anthony Burgess 70. Il 42° parallelo di John Dos Passos 71. New York Hipster di Ed Sanders 72. The Bird Artist di Howard Norman 73. Nowhere to Run di Gerri Hirshey 74. Before The Deluge di Otto Friedrich 75. Sexual personae di Camille Paglia 76. Il sistema di morte americano di Jessica Mitford 77. A sangue freddo di Truman Capote 78. L’amante di Lady Chatterley di D.H. Lawrence 79. L’invenzione dei teenager di Jon Savage 80. Corpi vili di Evelyn Waugh 81. I persuasori occulti di Vance Packard 82. La prossima volta il fuoco di James Baldwin 83. “Viz” (fumetto anni Ottanta) 84. “Private Eye” (rivista satirica anni Sessanta-Ottanta)
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85. Selected Poems di Frank O’Hara 86. Processo a Henry Kissinger di Christopher Hitchens 87. Il pappagallo di Flaubert di Julian Barnes 88. I canti di Maldoror di Isidore Lautréamont Ducasse 89. Sulla strada di Jack Kerouac 90. Il gabinetto delle meraviglie di Mr. Wilson di Lawrence Weschler 91. Zanoni di Edward Bulwer-Lytton 92. Il dogma dell’Alta Magia di Eliphas Lévi 93. I vangeli gnostici di Elaine Pagels 94. Il gattopardo di Tomasi di Lampedusa 95. Inferno di Dante Alighieri 96. A Grave for A Dolphin di Alberto Denti di Pirajno 97. Il lato oscuro di Rupert Thomson 98. Fra le lenzuola di Ian McEwan 99. La tragedia di un popolo di Orlando Figes 100. Viaggio nella vertigine di Evgenija Ginzburg (N.B.: in grassetto i libri che Bowie ha sicuramente letto durante il periodo trattato da questo libro)
bowie is back… again! Bowie è ritornato, e nel corso dell’autunno continua a far parlare di sé. Il 25 settembre David Bowie Is diventa mostra itinerante, aprendo all’Art Gallery di Toronto, dove rimarrà fino al 29 novembre 2013. THE NEXT DAY, intanto, inizia a figurare tra i migliori album del 2013 nelle liste compilate dalle principali testate musicali del mondo. I primi a muoversi sono quelli di Q Magazine che nominano Bowie per ben sei categorie dei prossimi Q Awards. E il primo ottobre arriva la nomination più prestigiosa, quella per i Mercury Prize britannici dove THE NEXT DAY gareggerà per il miglior album dell’anno (restando però sconfitto: il premio andrà a James Blake per il suo secondo album, OVERGROWN). La cerimonia del Mercury Prize, il 30 ottobre, è l’occasione per diffondere il nuovo clip tratto dall’album, concepito e di-
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retto da Bowie stesso durante il weekend precedente con l’aiuto di Jimmy King e di Coco Schwab, di un edit di quattro minuti del remix di Love Is Lost di James Murphy. Un video a basso budget che, rivendicherà Bowie in un successivo comunicato, è costato “solo $ 12,99” (più in là, il 14 novembre, verrà diffuso un secondo video più professionale del remix integrale, diretto da Barnaby Roper). E il 7 ottobre il «New Musical Express» dedica nuovamente la copertina a Bowie – la foto, naturalmente, è di Jimmy King – con all’interno un’analisi dei contenuti di THE NEXT DAY EXTRA a cura di Tony Visconti. Il 30 ottobre iniziano a filtrare le prime indiscrezioni sullo spot pubblicitario per Louis Vuitton girato in estate a Venezia, che viene poi diffuso il 7 novembre rafforzando il mito della proverbiale eleganza del Duca Bianco. Le cose girano per il verso giusto anche sul fronte Duncan. Ai primi di ottobre viene reso noto che Rodene Ronquillo ha vinto la sua battaglia contro il cancro. È stata durissima – Rodene, oltre alla chemioterapia, si è dovuta sottoporre a un doppio intervento di mastectomia – ma i medici in questi giorni le hanno potuto finalmente dare l’all clear. E ora Duncan può dedicarsi con mente serena al nuovo progetto che gli è stato affidato nel gennaio precedente: dirigere Warcraft, un film fantasy ispirato all’omonimo videogame. Nei mesi precedenti Duncan ha dovuto combattere per modificare la sceneggiatura, che riteneva troppo scontata (con «gli umani che erano i buoni e i mostri che erano i cattivi»), ma poi, con il consenso della Blizzard (proprietaria del videogioco e tra i finanziatori del film), l’ha potuta riscrivere più in linea con il suo gusto e la sua sensibilità. Al momento il casting è ancora in corso, con l’inizio delle riprese fissate per gennaio 2014. E sempre a fine ottobre viene diffusa la notizia che si è formato un nuovo supergruppo bowiano, gli Holy Holy (comprendente tra gli altri l’ex batterista degli Spiders Woody Woodmansey, Steve Norman degli Spandau Ballet e Lisa Ronson, figlia di Mick) che daranno tre concerti a Londra tra il 19 e il 21 dicembre proponendo una selezione del repertorio di Bowie tra il 1969 e il 1973. Tutto ha avuto origine al Bowiefest del 2012, che ha avuto un’appendice in un concerto al Latitude Festival (all’Henham Park, nel Suffolk) il 18 luglio 2013. «Ave-
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vano messo insieme questa band per fare dei pezzi di Bowie, principalmente quelli in cui avevo suonato io», ha raccontato Woodmansey all’autore di questo libro. «Clem Burke dei Blondie era il batterista. James Stevenson, che in quel momento suonava con i Cult, e Bob Geldof alla chitarra, Steve Norman degli Spandau Ballet, un bassista dei Big Audio Dynamite… Era un bel gruppo di musicisti. C’era tantissimo pubblico, e hanno suonato un sacco delle canzoni su cui avevo suonato io la batteria. Mi hanno chiesto di unirmi a loro come special guest su un paio di canzoni, e mi sono divertito molto. In effetti, era stato molto frustrante starmene a lato del palco a vedere Clem che suonava, pensando che avrei voluto essere al suo posto». E poi, come ha scritto nella sua autobiografia: «Dopo il festival hanno ricevuto delle offerte per fare altri concerti. Clem non era più disponibile dato che doveva andare in tour con Blondie, così mi hanno chiesto di prendere il suo posto alla batteria». Quelle londinesi saranno solo le prime date degli Holy Holy, che sotto la direzione di Woody Woodmansey diventeranno qualcosa di più di una mera tribute band.
r.i.p. lou reed Tre giorni prima della cerimonia dei Mercury Prize Awards a Londra – a cui comunque non sarebbe certo andato – Bowie riceve un colpo terribile: Lou Reed muore, all’età di settantuno anni, nella sua casa di Long Island, New York. Bowie era perfettamente al corrente delle precarie condizioni di salute di Lou. Dopo la pubblicazione di un ultimo, controverso album di studio – LULU, con i Metallica, del 2011 – il cantore della Grande Mela aveva fatto altri due tour mondiali, il secondo dei quali l’aveva portato in Europa nell’estate del 2012. Avrebbe dovuto fare un tour anche nel 2013, ma ad aprile si era sentito male e a maggio si era dovuto sottoporre d’urgenza a un trapianto di fegato all’ospedale di Cleveland, in Ohio. Qualche settimana dopo sua moglie Laurie Anderson aveva detto alla stampa: «È una cosa molto seria. Stava morendo. Non ti fai fare un trapianto per divertimento», cercando però di ras-
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sicurare tutti: «Non credo che si riprenderà mai del tutto da questa cosa, ma sicuramente ritornerà a fare le sue cose nel giro di qualche mese. È già tornato a lavorare e a fare Tai Chi. Sono molto contenta. È una nuova vita per lui». Lo stesso Reed era riemerso il 3 giugno pubblicando sul suo sito una dichiarazione ufficiale: «Sono un trionfo della medicina, della fisica e della chimica moderna. Sono più grande e forte di quanto sia mai stato. Il mio Tai Chi e il mio regime salutare mi hanno servito bene in tutti questi anni, grazie al maestro Ren Guang-yi. Non vedo l’ora di tornare a esibirmi sul palco e di scrivere nuove canzoni per connettermi con i vostri cuori e spiriti e con l’universo nel prossimo futuro». Parole un po’ affrettate, perché già il 30 giugno 2013, stando a quanto riferito dal «New York Post», Lou Reed era stato ricoverato d’urgenza al Southampton Hospital di Long Island per un’acuta forma di disidratazione. Quindi, a ottobre, Reed si era dovuto nuovamente ricoverare in clinica a Cleveland per complicazioni dovute al trapianto di fegato. Constatata la gravità della situazione, i medici avevano acconsentito a lasciarlo tornare a casa, dove è morto vicino ai suoi cari e alla moglie Laurie. Sicuramente Bowie, essendo in stretto contatto sia con Lou sia con Laurie, ha potuto seguire il tragico evolversi della situazione in tempo reale. Ciononostante, deve restare molto sconvolto da questa perdita, tanto più che negli ultimi anni Lou era sembrato assai più attivo e in salute di lui. Tramite il suo sito web, rilascerà una dichiarazione telegrafica ma visibilmente sentita: «È stato un Maestro». C’è una foto, sfocata, che ritrae Bowie intento a chiacchierare con qualcuno durante il Memorial Service per Lou Reed tenutosi il 14 novembre in una sala del Lincoln Center di New York (mentre all’esterno le canzoni dell’ex Velvet Underground vengono diffuse dagli altoparlanti). Forse con la vedova, perché poi, il 19 aprile 2015, quando Lou Reed sarà omaggiato in forma postuma dalla Rock’n’Roll Hall of Fame, durante i ringraziamenti dal palco Laurie Anderson farà la seguente rivelazione: «Uno degli ultimi progetti di Lou è stato il suo album con i Metallica. È stato un lavoro impegnativo che lo ha fatto soffrire molto. Dopo la morte di Lou, David Bowie mi ha rivelato che si
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trattava del suo vero capolavoro. Mi ha detto: “Aspetta e vedrai che sarà come BERLIN, ha bisogno solo di un po’ di tempo prima di essere capito”. Mi sono andata a rileggere i testi e sono davvero feroci. Sono stati scritti da un uomo che ha capito la paura, la rabbia, il veleno, il terrore e l’amore».
brainstorming Qualche giorno prima della puntata in incognito al Lincoln Center, il 6 novembre Bowie fa la sua prima uscita ufficiale dal 28 aprile 2011, ossia a distanza di due anni e sei mesi dal famoso gala da Cipriani. Anche questa volta arriva a braccetto di Iman alla festa per i 53 anni di Tilda Swinton, sua partner femminile nel video di The Stars (Are Out Tonight), al Museum of Modern Art. I giornali riportano che «Bowie era chiaramente l’ospite d’onore, seduto accanto alla star dell’evento mentre veniva portata la torta di compleanno». Per l’occasione, Bowie acconsente di buon grado a venire fotografato sia con la Swinton sia con una degli invitati, la cantante neozelandese Lorde. Un paio di mesi dopo Lorde racconterà: «Incontrare David Bowie è stato come sentirmi realizzata. Trovarsi davanti una persona come lui che ti dice che quando ascolta le tue canzoni sente il futuro della musica… Non ci sono parole per descrivere questa emozione». E che Bowie considerasse l’interprete di Royals come “il futuro della musica” non è una futile millanteria: questo apprezzamento è stato in seguito confermato da persone vicine a Bowie come Gerry Leonard e il pianista Mike Garson. Di movimento nel mondo bowiano, in questi mesi a cavallo tra il 2013 e il 2014, ce n’è a bizzeffe. Il 4 novembre esce THE NEXT DAY EXTRA; tre giorni dopo parte la campagna pubblicitaria di Louis Vuitton con lo spot girato a Venezia; il 14 novembre viene diffuso il video di Love Is Lost diretto da Barnaby Roper; il 24 novembre viene annunciato che Space Oddity comparirà nella colonna sonora della commedia I sogni segreti di Walter Mitty e che una versione sarà cantata dall’attrice Kristen Wiig; il 6 dicembre arriva anche il sesto (e ultimo) video tratto da THE NEXT DAY, I’d Rather Be High (Venetian Mix) diretto da Tom Hingston; un giorno dopo Bowie viene nominato in tre cate-
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gorie per i Grammy: migliore performance rock per The Stars (Are Out Tonight), miglior album rock e migliore confezione di un album rock, entrambe per THE NEXT DAY; e il 9 gennaio 2014 viene nominato anche per i Brit Awards (British Male Solo Artist e British Album of the Year); quindi, il 31 gennaio David Bowie Is trasloca al Museo dell’Immagine e del Suono di San Paolo, dove resterà fino al 20 aprile 2014. Tuttavia, in questo periodo Bowie torna a essere uccel di bosco, fedele al personaggio di recluso che si è costruito. Si può supporre che si riposi dopo mesi di lavoro intenso e si goda, restando a debita distanza, il successo riscosso da THE NEXT DAY e David Bowie Is. Invece, dietro le quinte, Bowie sta lavorando all’operazione Lazarus, messa in moto il settembre precedente. Dopo quel primo incontro, Enda Walsh ha raccontato che ce ne sono stati altri, alcuni de visu, altri via Skype (dato che il drammaturgo vive e lavora a Londra). «Abbiamo discusso dei personaggi e delle tematiche del libro, L’uomo che cadde sulla Terra», ha scritto nell’introduzione al libretto di Lazarus, «di isolamento, follia, abuso di droghe, alcolismo e del tormento dell’immortalità. E si è parlato molto della bellezza dell’amore incondizionato e della bontà. Abbiamo parlato di personaggi che si trovano fuori controllo; del fatto che la vicenda scivolasse in una tristezza nebulosa e in improvvisi scatti di violenza; e di personaggi che hanno scialbe conversazioni sulle merendine pubblicizzate dalla tv. Della vita quotidiana che si distorce all’improvviso per diventare una tragedia greca». Intervistato nel 2016, Walsh ha inoltre dichiarato: «Quello di Thomas Newton è un personaggio che Bowie non aveva mai davvero dimenticato e su cui aveva molto ragionato. Penso che avesse con lui un legame molto stretto. Nonostante il fatto che doveva essere completamente fuori di testa quando ha girato quel film». La loro è una collaborazione che dura in tutto diciotto mesi, durante i quali Bowie si dimostra energico e appassionato: «David era sempre una fucina: idee, idee, idee… Sembrava di parlare con uno di venticinque anni. Era davvero motivato». E ancora: «Era la persona più positiva con cui abbia mai lavorato. Aveva una fantastica energia. Ed era divertente, davvero un uomo molto, molto divertente». «A volte», ha raccontato ancora Walsh, «capitava che parlassi di qualcosa, e lui diceva: “Ok, non ti posso rispondere subito, ma ci pen-
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serò sopra e ti risponderò domani”. E così faceva. Una volta gli ho mandato un’e-mail così lunga che mi ha risposto: “Mi potresti dare tre giorni per farmici ragionare sopra?”». In un’intervista all’«Irish Examiner» del 2016, Walsh ha detto che si era reso conto “fin dall’inizio” di quanto Bowie fosse malato. E in un’altra intervista, rilasciata alla fine dello stesso anno al «Financial Times», è stato ancora più preciso: «Bowie disse a Walsh del suo male al loro primo incontro» recita l’articolo, «dopodiché iniziarono a lavorare». Possibile che già alla fine del 2013 Bowie avesse iniziato a combattere con il cancro e che proprio sapendo di non avere troppo tempo aveva dato un’improvvisa accelerata al progetto del musical? In altre interviste Walsh ha invece detto di aver saputo del tumore “a metà del lavoro”. Quindi all’incirca poco prima dell’estate 2014, per rispettare la “linea ufficiale” diramata dalla famiglia dopo la morte di Bowie. Qual è la verità? Non c’è solo lavoro durante le visite di Walsh a New York. Durante le loro chiacchierate, come ha ricordato il drammaturgo, Bowie e Walsh parlano di poesia, della serie tv di Dennis Potter The Singing Detective, del musical di Bob Fosse All That Jazz, di fotografia, di libri: «Abbiamo passato un sacco di tempo a guardare le vetrate colorate, al modo in cui una storia è raccontata tramite un’immagine centrale, al modo in cui è spezzata e fatta in frantumi. Una volta siamo andati insieme al MoMA e ci siamo messi a guardare qualcosa, e lui è partito con questo suo accento di Bromley: “Be’, allora cosa ne pensi, Edna?”, trasformandosi in un personaggio. Sapeva tutto di arte, ma non voleva tirarsela e si metteva a fare l’imitazione di questo ridicolo personaggio». Tutto questo, probabilmente, fa parte delle prime sedute di brainstorming, al termine delle quali Bowie e Walsh emergono con un punto fermo: Lazarus sarà un sequel di L’uomo che cadde sulla Terra. «Thomas Newton è più vecchio», ha detto Walsh, «è un’ulteriore dibattito sulla mortalità. È per questo che David ne era così attratto». Walsh ha anche scritto che durante i primi incontri «Coco è rimasta in silenzio ad ascoltarci e poi a un certo punto ha domandato: “Sì, va bene, ma cosa succede?”. Era una domanda corretta e ci saremmo ritornati sopra: ma non eravamo ancora arrivati a quel punto. Avevamo bisogno di chiarirci i temi trattati, la sua atmosfera e il suo mondo. La
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traiettoria narrativa di un uomo che vuole andarsene dalla Terra e che viene aiutato da alcuni e fermato da altri: questo c’era già nelle quattro paginette scritte da David e sarebbe rimasto nella nostra storia, ma gli eventi della vicenda sarebbero emersi più in là».
brit awards La sera del 19 febbraio 2014 va in scena alla O2 Arena di Londra la cerimonia di assegnazione dei Brit Awards, l’equivalente britannico dei Grammy, trasmessa in diretta da Itv e su YouTube. Come prevedibile, Bowie non figura tra le celebrità presenti ma sicuramente sta seguendo la manifestazione dalla sua casa di New York. È candidato in due categorie: nella prima, quella relativa al MasterCard British Album of the Year, deve segnare il passo a favore degli ormai emersi Arctic Monkeys, che si aggiudicano la statuetta con AM. Verso fine serata il verdetto della seconda categoria, British Male Solo Award, viene letto da Noel Gallagher, che con un sorrisetto beato annuncia: «E il vincitore, in qualche modo prevedibile, è David Bowie». Ovazione del pubblico, a salutare una vittoria arrivata a diciotto anni da quella del 1996, quando Bowie fu premiato per la sua Outstanding Contribution (ossia per la carriera), e a trent’anni esatti da quando vinse nella stessa categoria. Poi, sempre Gallagher: «Voi maniaci, mica pensavate che David Bowie sarebbe venuto qui in persona? David Bowie è troppo figo per fare una cosa del genere! Lui non fa di queste stronzate! David Bowie ha mandato qui la sua rappresentante in terra che è la sola e unica Kate Moss, che ritirerà il premio per conto suo». E qui, sulle note di The Stars (Are Out Tonight), sale sul palco della O2 Arena la supermodella – una vecchia conoscenza di Bowie: i due hanno posato insieme per un famoso servizio fotografico di Ellen Von Unwerth nel 2003 e successivamente, il 6 giugno 2005, erano seduti allo stesso tavolo ai Fashion Awards della CDFA alla New York Public Library – che indossa una mise spettacolare: lo storico “abito con i conigli”, il vestito monopezzo dal nome “Woodland Creatures” disegnato dallo stilista Kansai Yamamoto e indossato da Ziggy Stardust nel 1972. «Buonasera signore e signori» saluta la modella dopo aver ricevuto il
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premio dalle mani di Gallagher, per poi leggere il messaggio di ringraziamento di Bowie: «Nella mitologia giapponese, i conigli del mio vecchio vestito, ora indossato da Kate, vivono sulla Luna. Kate viene da Venere e io da Marte, quindi è una cosa carina. Sono felicissimo di aver ricevuto un Brit per essere il miglior Maschio, ma io in effetti lo sono, non è vero, Kate? Penso che sia un modo fantastico per chiudere la giornata. Vi ringrazio tanto, tantissimo. E, Scozia, resta con noi!». La sera stessa sui giornali on line – e il giorno dopo sui quotidiani cartacei – si parla solo fugacemente delle performance di Lorde, di Elle Goulding e di Pharrell Williams e delle vittorie degli Arctic Monkeys, degli One Direction e dei Bastille. Il grosso della copertura e dei commenti è riferito allo spettacolare abito vintage di Kate Moss e alla controversa presa di posizione di Bowie nei confronti della Scozia. Sono giorni caldi, infatti, per quanto riguarda il dibattito politico Oltremanica, per via del referendum che si terrà il 18 settembre per decidere se la Scozia debba diventare o meno uno Stato indipendente e quindi separarsi dal Regno Unito. Il pur lieve intervento di una delle massime rockstar del nostro tempo ai Brit Awards viene vissuto come un’entrata a gamba tesa da parte degli indipendentisti dello Scottish National Party, che tuttavia si sforzano di tenere la bocca chiusa sulla vicenda, mentre, al contrario, il deputato laburista (e unionista) Jim Murphy non nasconde la propria gioia commentando su Twitter: «David Bowie ha detto la sua. Ora anche voi potete fare la vostra parte per far sì che la Scozia resti nel Regno Unito». Ma la maggior parte delle reazioni – in linea di massima negative – hanno luogo sui social network e in particolare su Twitter. @Steinjock scrive: «David Bowie è sempre stato un mio eroe [Hero], ma è un principiante assoluto [Absolute Beginner] quando si tratta di politica scozzese». E @sconehenge: «La Scozia dovrebbe dichiarare la propria indipendenza dalla casa di Bowie a New York». Molti si stupiscono del fatto che Bowie, il quale nel corso della carriera si è sempre voluto mantenere equidistante e ambiguo in politica, abbia voluto rendere pubblico il suo pensiero su una questione tanto delicata. In realtà, a ben vedere, l’esternazione dei Brit Awards è perfettamente in linea con il tris di video su “temi topici” diffusi con THE NEXT DAY EXTRA. Perché quello di questi ultimi anni è un Bowie di-
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verso dal passato. Non ha alcuna remora a far conoscere il suo pensiero e sa che sfruttando il suo peso di star e il suo carisma nel dibattito pubblico potrebbe in qualche modo incidere sulla realtà. E forse sa anche che queste sono le ultime occasioni per farlo. A urne chiuse, il 18 settembre il “No” alla secessione vincerà la consultazione con il 55 per cento dei voti, con grande soddisfazione della Regina Elisabetta. Non si sa quanti voti possa aver spostato l’endorsement di Bowie, ma si può stare certi che non sia stato per nulla decisivo. Tanto rumore per nulla, come usava dire un suo compatriota.
maria schneider Nei primi mesi del 2014 è molto probabile che la Isolar e la Rzo abbiano già messo in cantiere il prossimo, imminente progetto discografico di David Bowie: un’antologia di ampio respiro che comprenderà per la prima volta estratti da tutta la sua carriera (e quindi, dal primo 45 giri Liza Jane realizzato nel 1964 come Davie Jones & The King Bees fino ai recenti successi di THE NEXT DAY) da far uscire a metà novembre, in tempo per la stagione natalizia secondo una radicata consuetudine commerciale. In questa raccolta in triplo Cd (resa disponibile anche in formato più compatto a due Cd e, solo in Giappone, su Cd singolo) intitolata NOTHING HAS CHANGED, oltre ai pezzi inevitabili vengono inseriti diversi brani rari o inediti (tre da TOY, una versione editata della Love Is Lost rimixata da James Murphy, la Time Will Crawl rivisitata da Mario McNulty e altri mix ed edit), per invogliare all’acquisto anche chi di Bowie possiede già tutto. Manca però un inedito vero. Una canzone nuova, che possa essere la killer app della nuova raccolta. È a questo punto che Bowie compie una di quelle audaci sterzate che hanno contraddistinto gli anni migliori della sua carriera: contatta la jazzista Maria Schneider chiedendole di collaborare con lui su un brano. In passato Bowie aveva spesso avuto a che fare con il jazz: da ragazzo aveva imparato a suonare il sassofono folgorato dai dischi di Coltrane e Mingus, e in seguito aveva lavorato con musicisti di estrazione jazz (con il tastierista Mike Gar-
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son, più di tutti, ma poi anche con Pat Metheny per This Is Not America e con Lester Bowie per Looking for Lester). Erano state tutte mere escursioni, però, condotte da “turista” e in un’ottica sempre rigorosamente pop. Collaborando con Maria Schneider, stavolta Bowie sceglie di immergersi a fondo in un mondo ad anni luce di distanza dal suo, senza che vi sia alcun apparente nesso tra lui e la musicista. La Schneider, nata nel 1960 a Windom, una piccola cittadina del Minnesota, ha studiato teoria musicale e composizione. Dopo una faticosa gavetta, piano piano inizia a prendersi delle soddisfazioni, realizzando diversi album che a metà degli anni Duemila proiettano la Maria Schneider Orchestra nel gotha del jazz, non solo newyorkese. Quando Bowie la contatta, la jazzista è reduce dalla pubblicazione di un disco di fusione tra jazz e classica in coppia con la soprano Dawn Upshaw, WINTER MORNING WALKS, che ha fatto incetta di premi ai Grammy 2014 (gli stessi da cui Bowie è uscito a mani vuote). Nella primavera del 2014, quindi, Maria Schneider è uno dei personaggi top in ambito jazz, e per di più pare ben disposta a contaminarsi con altri mondi e con altre musiche. Resta però nell’aria una domanda: come mai David Bowie, volendo evidentemente scartare verso il jazz, si rivolge proprio a lei? Chris O’Leary del sito web Pushing Ahead of The Dame riferisce che fu Mike Garson a consigliargli di ascoltare la Maria Schneider Orchestra, una decina di anni prima, durante il Reality Tour. In questi ultimi tempi, però, è probabile che ci sia stato un nuovo gancio. Magari, Bowie si è semplicemente imbattuto nella Schneider guardando in tv la cerimonia di premiazione dei Grammy e in seguito ha deciso di approfondire. O potrebbero entrarci qualcosa gli Avatar Studios, gli ex Power Station, dove Bowie è tornato a incidere il brano Province con i TV on the Radio, che la Schneider sta utilizzando proprio in questi giorni in cui è impegnata nella lavorazione di un nuovo album? La Schneider ha raccontato in un’intervista per la Library of Congress che «qualcuno una volta mi aveva scritto chiedendomi: “Firmeresti alcuni Cd, perché li voglio dare a David per il suo compleanno?”, quindi io sapevo che a David piaceva la mia musica. Ma è venuto a vedere la band una sera e se n’è andato prima che avessi la possibilità di
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salutarlo». Difficile, in mancanza di testimonianze più precise, stabilire con certezza dove e quando è avvenuta questa visita in incognito. Tutto fa pensare, però, che si sia trattato di uno dei due concerti tenuti dalla Maria Schneider Orchestra durante la rassegna Jazz at Lincoln Center il 14 e 15 marzo 2014. Quindi, a maggio 2014, la Schneider riceve un’improvvisa telefonata dall’assistente di Bowie (forse Coco Schwab?): «Ha detto che David mi voleva parlare», ha ricordato a «JazzTimes», «e poi lui mi ha contattato chiedendomi di collaborare e di fare qualcosa insieme». Bowie, l’8 maggio, torna (in compagnia di Tony Visconti) a vedere la Maria Schneider Orchestra che ha in programma un paio di date al Birdland, il jazz club situato sulla 315 West 44a. Stavolta si ferma a chiacchierare con la Schneider, presumibilmente nel tentativo di convincerla. La sera stessa il Birdland pubblica in rete una foto dei due al locale. Missione evidentemente compiuta, dato che il giorno dopo Bowie si presenta all’appartamento della jazzista nell’Upper West Side con un demo contenente i bozzetti di due canzoni, Sue (Or in a Season of Crime) e Bluebird (la futura Lazarus). È la prima a colpire la fantasia della Schneider, la quale ha raccontato a «JazzTimes»: «Quando ho sentito quello che ha suonato ho pensato: be’, sai, penso di poter inserire qualcosa del mio mondo in questa cosa! Forse lo posso fare! Così mi sono detta: Ok, renderò la mia estate qualcosa di davvero folle e aggiungerò questo ulteriore impegno alla mia agenda».
jack spann L’estate più folle di tutte, in verità, è quella di Bowie, che a insaputa del mondo la passa in preda a un febbrile attivismo, come quasi nemmeno negli anni Settanta. Secondo quanto in seguito raccontato da Tony Visconti a «Mojo», oltre a mettere in cantiere Lazarus e ad avviare la lavorazione di Sue, nel giugno 2014 Bowie ritorna al Magic Shop insieme all’amico/produttore/bassista, al batterista Zachary Alford e al pianista Jack
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Spann per lavorare su alcuni demo, relativi a canzoni che nulla hanno a che vedere con THE NEXT DAY, ma sono piuttosto destinate a un nuovo progetto. La new entry Jack Spann (vero nome: Jon Rosen), originario di St Louis, si è trasferito nel 1998 a New York in cerca di fortuna nel music biz insieme con sua moglie, e da allora si è guadagnato una reputazione come musicista eclettico, capace di fare il piano man in piccoli locali alla maniera di Billy Joel, Elton John, Ben Folds e Ray Charles, come anche di partecipare a musical di Broadway in ruoli da attore/cantante. Spann ha così raccontato il suo coinvolgimento a «St Louis Mag»: «Un amico comune ha fatto il mio nome a Tony Visconti. Lui è andato sul mio sito web, credo, e poi mi ha chiamato un giorno all’improvviso: “Abbiamo bisogno di un pianista che sappia suonare jazz, che sappia suonare rock, ma non jazz-rock. Non vogliamo Chick Corea”. Lui e Bowie avevano ascoltato un sacco di cose di Stan Kenton, il Thelonious Monk bianco. L’ho richiamato e il giorno successivo sono andato allo studio ». Al Magic Shop, ha ricordato Spann, «questo tipo mi è venuto ad accogliere alle 9:55 del mattino. “Salve Jack, sono David. Ci divertiremo”. “Oh, ciao David”. Davvero, è proprio difficile descrivere quanto sia stato carino con me. Era sinceramente interessato a cosa suonavo e a come lo suonavo. Molto incoraggiante, e mi ha dato un sacco di suggerimenti. Nel complesso, lavorarci è stata una delizia». Si tratterebbe, secondo quando dichiarato da Spann, delle prime versioni di brani poi finiti su BLACKSTAR. «Demo fantastici», ha detto, «che spero un giorno vengano pubblicati». A «Mojo», Visconti ha dichiarato: «Abbiamo passato un paio di giorni nello studio, ci siamo sbizzarriti con alcune idee e abbiamo finito cinque canzoni. Non le abbiamo usate tutte ma gli hanno dato degli spunti». Secondo quanto scritto da Nicholas Pegg, a questo punto «David si portò a casa il materiale dei demo e ci lavorò per conto suo per diversi mesi». Possibile che tra questi cinque demo ci siano versioni embrionali di Bluebird (la futura Lazarus) e magari anche della stessa Blackstar? O anche di Killing a Little Time, il cui primo demo, come ha scritto
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l’assistente di Visconti Erin Tonkon in un post su Facebook, è stato realizzato nel 2014? Possibile anche che l’home demo di Tis a Pity She Was a Whore pubblicato poi a novembre come lato B del singolo Sue non sia stato inciso in solitario da Bowie a casa sua come ufficialmente dichiarato, ma provenga invece da queste sessioni? Purtroppo l’unico testimone esterno, Jack Spann, non è mai sceso nei particolari. Non lo può fare perché ha firmato un accordo: «Non posso condividere troppi dettagli. Scoppio di dettagli su questa cosa che non posso condividere. D’altro canto, non vedevo l’ora di dirlo a qualcuno. Non potevo farne parola a nessuno. Il lavoro è durato tre giorni e mezzo. L’ho detto a mia moglie, e alla fine quest’anno [il 2016] l’ho detto a qualche persona. So che nel grande schema delle cose non si tratta di una questione così grossa, ma per me Bowie è stato il Dio del Rock di tutti i tempi. E solo il fatto di incontrarlo, di sedermi accanto a lui per tre giorni, di interagire con lui su questioni di musica… Dovevo proprio raccontarlo». A giugno del 2017 Spann ha pubblicato un album, THE BEAUTIFUL MAN FROM MARS, la cui title track è un sentito omaggio a David Bowie, con tanto di copertina che raffigura un uomo in giacca e cravatta con un casco d’astronauta in testa e un mappamondo al suo fianco. «Volevo scrivere qualcosa sulla fortuna incredibile che ho avuto nel lavorare con lui per quei quattro giorni», ha dichiarato Spann. «Gli sarò per sempre riconoscente».
williamsburg Fatta eccezione per la partecipazione alla festa per i 53 anni di Tilda Swinton al MoMa il 6 novembre 2013, negli ultimi anni Bowie si è mostrato in pubblico unicamente tramite le fotografie di Jimmy Smith, i videoclip realizzati per THE NEXT DAY e lo spot realizzato per Louis Vuitton a Venezia. Ogni tanto qualche paparazzo lo fotografa in giro per Manhattan mentre fa cose “normali”, ma l’impressione che ha il pubblico è quella di una persona che ha deciso di condurre una vita insolitamente ritirata.
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Per contro, Iman continua a fare le cose di sempre e a presenziare a numerose serate di gala, con l’unica differenza che adesso ci va da sola, o al limite con qualche amica o con Zulekha (che nel 2007 si è sottoposta a un intervento di chirurgia gastrica per dimagrire, e ora ha un aspetto adeguato alla figlia di un’ex supermodella). Paul McCartney ha raccontato a Dylan Jones: «Ho parlato con Iman al Met Ball. Ho visto Iman ma non vedevo David, e così mi ha detto, “Oh, dovresti fargli una telefonata, perché se ne sta lì a casa e non fa molto”». Si sa però con certezza che Bowie si schioda dall’appartamento di Lafayette Street il 25 aprile 2014, per recarsi alla festa per i settant’anni di Tony Visconti (compiuti il giorno prima) che si tiene in un locale di Williamsburg, a Brooklyn. Per l’occasione Visconti ha anche messo su una band il cui chitarrista è Gerry Leonard. Leonard ha raccontato a Vulture.com di aver avuto modo, quella sera, di chiacchierare un po’ con Bowie, che non vedeva dal tempo delle sessions di THE NEXT DAY: «C’erano anche mia moglie e mia figlia, e dato che lui era venuto a casa nostra, sono venute tutte e due a salutarlo. E durante quella serata, Tony mi ha detto: “David vuole che tu sappia che adesso sta lavorando su un altro progetto, ma di non preoccuparti”. All’epoca ho pensato che stesse lavorando con qualche altro musicista e che mi avrebbe richiamato al momento appropriato. Credo che fosse prima della sua diagnosi». La sera stessa May Pang, moglie separata di Tony Visconti, scrive sul suo profilo Facebook: «Seb [Sebastian Visconti, primogenito della coppia, N.d.A.] è andato alla festa di compleanno del suo papà stasera, e anche Bowie era là. Non vedeva mio figlio da un sacco di anni… David B. ci ha messo un po’ per capire chi fosse. In effetti, anche un paio degli altri musicisti sono rimasti scioccati nel vederlo così cresciuto e alto. Credo che Seb fosse un bambino piccolo l’ultima volta che Bowie l’aveva visto. Il tempo fugge». Non vengono però diffuse foto né di Bowie né del party. Se l’intento è quello di sigillare completamente la propria immagine, Bowie ci è ormai riuscito. Al suo posto, è la mostra David Bowie Is ad andare in giro per il mondo, riscuotendo ovunque un grande successo. E le richieste fioc-
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cano: tanto che al tour mondiale si è ora aggiunta anche, fuori programma, la Germania. Tra il 20 maggio e il 24 agosto 2014 David Bowie Is sarà pertanto esposta al Martin-Gropius-Bau di Berlino, la città bowiana per eccellenza.
sue (or in a season of crime) Maria Schneider è stata lasciata libera di sperimentare da sola sulla base dei pochi accordi del rudimentale demo di Sue, ma poi si incontra con Bowie qualche altra volta durante il mese di maggio 2015 per dei nuovi scambi di idee e per rifinire la composizione. A un certo punto del lavoro vengono incorporati nel brano elementi melodici tratti da Brand New Heavy, un singolo del 1997 del duo Plastic Soul (alias Paul Bateman e Bob Bhamra) ed è questa la ragione per cui tra gli autori di Sue figureranno Bowie/Schneider/Bateman/Bhamra. La Schneider in seguito ha così ricordato la collaborazione: «La sua energia era quella di una persona molto giovane che si immerge nelle cose con gioia e con abbandono, senza paura». Ma, allo stesso tempo, come ha raccontato a «JazzTimes»: «Era molto bravo a dire: “No, questo non mi piace. Sì, questo mi piace molto”. E questo ha reso tutto molto facile, il fatto che non fosse ambiguo rispetto a ciò che non gli piaceva». «Sono rimasta sorpresa dal fatto che David fosse il tipo di persona che era», ha detto la Schneider a Francis Whately per il documentario The Last Five Years, «perché non me l’aspettavo. Mi aspettavo che entrasse in casa mia qualcosa di superumano, di bizzarro, ma lui si è presentato in maniera così normale. Per dire: una volta il portiere mi ha chiamato e mi ha detto: “C’è qui… Come ha detto che si chiama? Ah, David… è qui per vederla”. Ma ho appena detto che era normale? In verità non c’era nulla di normale in David Bowie». Ha luogo tutto molto rapidamente e verso la fine di maggio la lavorazione si sposta agli Euphoria Studios, una sala prove sulla 27a. È presente anche Tony Visconti, scelto per produrre il brano, il quale ha dichiarato: «Nel corso di tre lunghe session Maria e i membri chia-
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ve della sua band hanno improvvisato sulla linea di basso per diverse ore. Dopodiché, Maria e David si sono incontrati per finalizzare l’arrangiamento e la struttura del brano». È durante uno di questi workshop che sorge la necessità di allargare la formazione. La Schneider suggerisce a Bowie di dare un’occhiata a un quartetto di jazz sperimentale in cui suonano due strumentisti eccezionali, il sassofonista Donny McCaslin e il batterista Mark Guiliana. Il primo giugno 2014 Bowie trascorre la serata al 55 Bar, un minuscolo jazz club nel West Village, per ascoltare il Donny McCaslin Quartet. Il leader della band, che evidentemente è stato allertato sulla presenza della star britannica, ha ricordato al «Guardian»: «Ero nervoso. Ho lanciato un’occhiata e ho visto dov’era seduto. Ho cercato di mantenere la calma e di non pensarci. Ma ho sentito sicuramente una forte pressione». Ciononostante, McCaslin ha raccontato che la band «ci ha dato dentro. Non è stata una versione diluita di quello che suoniamo di solito. In seguito Bowie mi ha detto: “Wow! Siete stati davvero rumorosi”». Sembra tuttavia che la sera in questione Bowie lasci la sala subito dopo la fine del concerto, senza presentarsi a McCaslin & Co. Passa solo qualche giorno, e McCaslin riceve un’e-mail in cui Bowie gli chiede di poter incontrare lui e Guiliana “per discutere un nuovo progetto”. «Ho pensato, questo è David Bowie, e ha scelto me, e mi sta mandando un’e-mail? Ho cercato di non rimuginarci troppo sopra. Ho solo cercato di restare nel momento e fare il mio lavoro». Dall’esterno viene reclutato anche il chitarrista Ben Monder, con cui la Schneider aveva già lavorato in passato. «Era da un po’ di tempo che non suonavo con Maria, prima di questo progetto», ha riferito Monder, «ma lei ha detto che sentiva il bisogno del mio sound per questo pezzo in particolare, così ci siamo incontrati con David e Donny. Abbiamo fatto solo una prova per la session di Maria Schneider, e Bowie era sempre molto alla mano, molto piacevole. Dava l’impressione di fare uno sforzo per farti sentire come se non fossi in presenza di una divinità del rock». Durante questo processo la Schneider, abituata a lavorare con budget limitati, si rende conto che la realizzazione di questo unico brano, con un’orchestra di quattordici elementi più gli elementi aggiunti,
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verrà a costare un’enormità, e confessa i suoi dubbi a Bowie: «David, questa cosa sarà davvero carissima, è un po’ una follia. E se non viene bene? E se non ti dovesse piacere?». Al che, Bowie la rassicura: «Maria, se l’aeroplano dovesse andare giù, noi scendiamo a terra». L’incisione ha luogo il 24 luglio 2014 agli Avatar Studios, con, ai posti di comando, Tony Visconti e Bowie, e Maria Schneider a dirigere i diciassette strumentisti: la sua Orchestra, ovvero Frank Kimbrough (pianoforte), Jay Anderson (contrabbasso), Ryan Keberle (trombone), Jesse Han (flauto alto, flauto basso), David Pietro (clarinetto, sax soprano), Rich Perry (sax tenore), Scott Robinson (clarinetto), Tony Kadleck (tromba, corno), Greg Gisbert (tromba, corno), Augie Haas (tromba, corno), Mike Rodriguez (tromba, corno), Keith O’Quinn (trombone), Marshall Gilkes (trombone), George Flynn (trombone), più i tre “aggiunti” Donny McCaslin (sax soprano, sax tenore), Mark Guiliana (batteria) e Ben Monder (chitarra). È solo in quell’occasione che Visconti, Schneider e la band apprendono che il brano è intitolato Sue (Or in a Season of Crime). «Ha cambiato tutto il testo alla fine», ha raccontato la Schneider al «MinnPost». «Io più o meno sapevo quale direzione stava prendendo, ma poi l’ha cambiata, ed è diventata una cosa su Sue che viene ammazzata per via del suo tradimento. Lui voleva che fosse davvero dark. E io ho pensato, oh mio Dio, non riceverò un sacco di critiche per aver collaborato a una canzone su un uomo che uccide una donna? Ma le liriche non sono opera mia. E peraltro funzionano piuttosto bene». Sue (Or in a Season of Crime) è un brano jazz di oltre sette minuti in cui Bowie vocalizza alla Scott Walker battendo le strade avanguardistiche che aveva smesso di frequentare dai tempi di 1.OUTSIDE. Quanto di più distante, quindi, dal pop radiofonico di The Stars (Are Out Tonight). Un pezzo audace, seppur non molto rappresentativo dello stile di Bowie (la melodia vocale è simile a quella di Cais, una canzone del 1972 di Milton Nascimento, tanto che qualcuno ha apertamente parlato di plagio). Ma quando verrà diffuso – mixato da Tony Visconti – quattro mesi più tardi, otterrà il risultato desiderato: spiazzare, sconcertare, far parlare di Bowie e, non ultimo, contribuire a far vendere quantità consistenti della nuova compilation.
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ivo van hove Qualche giorno prima dell’incisione di Sue (Or in a Season of Crime), Bowie ha avuto un meeting importante (e, in retrospettiva, decisivo) ai fini della realizzazione del musical Lazarus. Secondo quanto ricostruito in seguito dal «Times», un giorno tra il 13 e il 19 luglio 2014 il regista belga Ivo van Hove chiede al cast dello spettacolo che sta mettendo in scena al Festival di Avignone, in Francia – The Fountainhead, ovvero l’adattamento teatrale del romanzo La fonte meravigliosa di Ayn Rand ispirato alla vita dell’architetto Frank Lloyd Wright – di scusarlo perché si dovrà assentare ventiquattr’ore a causa di un importante e improvviso impegno a New York. In realtà gli appuntamenti che ha in programma sono due, in quella che sarà una giornata campale. Alle 8:00 del mattino si vede con il produttore teatrale Scott Rudin, che ha apprezzato come van Hove ha messo di recente in scena allo Young Vic di Londra Uno sguardo dal ponte di Arthur Miller, e che gli propone di rappresentarlo a Broadway. Due ore dopo, ancora eccitato dall’offerta appena ricevuta, van Hove arriva a Lafayette Street dove, negli uffici della Isolar, viene accolto da colui che è stato il suo grande idolo fin dalla metà degli anni Settanta, quando ascoltò per la prima volta Young Americans. Il tramite di questo incontro è ancora una volta Robert Fox, il quale ha raccontato: «Enda e io abbiamo visto la produzione di Ivo van Hove di Uno sguardo dal ponte e abbiamo avuto la sensazione che dovesse essere lui il regista di Lazarus insieme con il suo brillante scenografo [nonché compagno di van Hove nella vita, N.d.A.] Jan Versweyveld». Van Hove non è un regista convenzionale. Appartiene piuttosto all’avanguardia e ha dato vita negli anni a messe in scena audaci che l’hanno reso molto noto, tra cui, a ritroso, l’Antigone di Sofocle con Juliette Binoche, Ludwig di Luchino Visconti, Il misantropo di Moliere, Hedda Gabler di Ibsen, e la sua prima produzione di rilievo nel mondo anglofono: Un tram chiamato desiderio di Tennessee Williams, rappresentato nel 1998 al New York Theatre Workshop. A differenza di Enda Walsh, che ha altri gusti in fatto di musica pop, van Hove è un fanatico bowiano e addirittura, a ventidue anni, nel
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1980, volò appositamente a New York per vederlo interpretare John Merrick in The Elephant Man. In seguito, diventato regista, ha usato una canzone di Bowie, The Motel, per la sua pièce Angels in America. Stante la premessa, la prima cosa che ha pensato quando ha ricevuto l’e-mail di Robert Fox è che si trattasse di uno scherzo. All’inizio di questo primo incontro con Bowie, van Hove rimane stranamente tranquillo. Comincia ad agitarsi solo quando, dopo una ventina di minuti di chiacchierata informale, Bowie inizia a fornirgli i primi dettagli del musical che sta mettendo in piedi con Enda Walsh e che gli propone di dirigere: Lazarus, basato sul protagonista de L’uomo che cadde sulla Terra. È solo a quel punto che inizia a realizzare la portata della proposta. «Bowie è molto intenso», ha raccontato van Hove, «ma è stato molto carino con me, mi ha fatto rilassare facendomi un sacco di domande. Sapeva un sacco di cose sul mio lavoro e su di me». È comunque solo un primo approccio. Al primo vero incontro di lavoro, che avviene presumibilmente dopo che van Hove ha portato a termine l’impegno di Avignone e che Bowie ha inciso su nastro Sue (Or in a Season of Crime), è presente anche Enda Walsh. A questo punto – tra luglio e agosto 2014 – la sceneggiatura è stata completata e le decisioni più importanti sono state prese, inclusa quella relativa alle musiche, che non verranno composte ex novo ma saranno in massima parte tratte da tutta la carriera di Bowie (più qualcuna ad hoc). Si tratterà, in pratica, di un “juke-box musical”, anche se tutti i professionisti coinvolti nella realizzazione negheranno ostinatamente che lo sia. Durante questa riunione Bowie e Walsh leggono la sceneggiatura a van Hove, alternandosi nell’interpretare i diversi personaggi. Quando arriva il momento di interrompere la narrazione con una canzone, Bowie gliela fa sentire spingendo un tasto del suo pc, su cui ha inserito la scaletta nell’ordine desiderato (in tutto, in questa fase, si tratta di quattordici vecchi brani e due nuovi). Tutti e tre, a questo punto, restano in silenzio ad ascoltarla prima di ricominciare la lettura della sceneggiatura. Si va avanti così fino alla fine del primo atto. Ha raccontato van Hove che Bowie avrebbe voluto proseguire fino alla fine, «ma Enda ha detto, “No, fagliela leggere a casa”». Ivo van Hove, quindi, è dentro il progetto. C’è solo un problema: ha un carnet lavorativo fittissimo di impegni, considerando che ha accet-
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tato l’offerta di Scott Rudin di portare entro un anno al Lyceum Theatre di New York Uno sguardo dal ponte ma soprattutto che a breve, il 12 settembre 2014, partirà la sua produzione di Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman, al piccolo teatro off di Broadway New York Theatre Workshop. Gli servirebbe più tempo, cosicché la produzione di Lazarus dovrebbe essere diluita nel tempo. Ma Bowie insiste che il progetto deve andare avanti e vedere la luce prima possibile. «Io volevo procrastinarlo», ha raccontato van Hove a «Rolling Stone», «ma Bowie ha detto, “No, no, dobbiamo farlo adesso, si deve fare ora». E così sarà.
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more music soon Tutta questa fretta, sia nella realizzazione di Sue (Or in a Season of Crime) sia nei tempi di lavorazione di Lazarus, dipende esclusivamente da una circostanza: a David Bowie nell’estate del 2014 è stato diagnosticato un tumore (al fegato, ha rivelato in seguito qualcuno). Anzi, secondo la “linea ufficiale” – il comunicato rilasciato dalla sua famiglia il giorno dopo la morte – la battaglia con il cancro è durata diciotto mesi, quindi in teoria la diagnosi risalirebbe a metà giugno 2014. Al di fuori della sua cerchia più stretta, in questi giorni nessuno sa della malattia e delle cure che Bowie sta iniziando a ricevere. Nessuno sa nulla nemmeno di Sue né del progetto Lazarus in pre-produzione. Il mondo, in generale, è convinto che Bowie sia di nuovo in salute e stia ancora festeggiando il suo ritorno con THE NEXT DAY. Prova ne è che continuano a uscire libri celebrativi: il saggio Bowie di Simon Critchley, il memoir Bowie & Hutch dell’antico sodale dell’epoca folk John “Hutch” Hutchinson e la biografia dai toni scandalistici Bowie: The Biography di Wendy Leigh. Smuove un po’ le acque, pertanto, il messaggio inviato da Bowie e letto in pubblico durante una serata di beneficenza tenuta dal Terence Higgins Trust al 12 Bar di Londra il 12 luglio e a lui dedicata in occasione dei suoi cinquant’anni di carriera discografica: «Questa città è anche migliore di quella in cui vi trovavate l’anno scorso, quindi ricorda-
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tevi di ballare, ballare, ballare. E poi mettetevi a sedere per un minuto, lavorate a maglia qualcosa, quindi alzatevi e mettetevi a correre intorno. Fatelo. Vi amo tanto. Presto ci sarà della nuova musica. David». L’impressione è che Bowie non veda l’ora di far sentire al mondo Sue (Or in a Season of Crime), e stupire tutti ancora una volta con un improvviso cambio di direzione. Ma non può ancora farlo. Come non può certamente, con tutti gli N.D.A. che ha firmato, Tony Visconti, alquanto in imbarazzo quando Jamie Franklin gli chiede, al termine di un’intervista per il sito web della Roland pubblicata nei primi giorni di luglio 2014, se ritiene che Bowie farà un altro album. «Penso che adesso che ha aperto la diga, farà altri dischi. Non so quando, ma sono sicuro che li farà. Abbiamo registrato più canzoni di quante fossero necessarie, e alcune in più sono diventate bonus track per THE NEXT DAY. Ma ce ne sono altre che potrebbero dare avvio a un nuovo album. C’è ancora altra roba, lì».
holy holy Ci si potrebbe chiedere per quale motivo l’intervista di Jamie Franklin a Tony Visconti abbia luogo a Londra, nei Dean Street Studios, piuttosto che a New York. La ragione per cui Visconti è volato nella capitale britannica è molto semplice: ha accettato l’invito di Woody Woodmansey di unirsi agli Holy Holy. «Mi sono ricordato che con Bowie non avevamo mai suonato dal vivo THE MAN WHO SOLD THE WORLD», ha raccontato Woodmansey, intervistato per questo libro. «Non eravamo mai andati in tour perché in quel periodo ci eravamo separati. Ne avevamo fatte solo due da quell’album, The Supermen e The Width of a Circle, durante il tour di Ziggy. Ho telefonato a Tony Visconti e gli ho detto: “Ho avuto l’idea di fare queste canzoni dal vivo”, e lui ha detto subito: “Sì”. “Ma non ti ho ancora neanche chiesto nulla”, e lui: “No no, lo voglio fare! Uno dei più grandi rimpianti della mia carriera è che non andammo in tour a suonare THE MAN WHO SOLD THE WORLD”. E poi ha aggiunto: “Non vendette molto all’epoca, ma da allora ha venduto un paio di milioni
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di copie… Quindi sarebbe bello rifarlo. Io ci sono. Dimmi quando”. In passato Tony aveva lavorato con Glenn Gregory degli Heaven 17 e ha detto: “È un cantante favoloso, lui lo può fare”. Così abbiamo fatto entrare Glenn e abbiamo iniziato a provare. Fin dalla prima prova ci siamo buttati su The Width of a Circle. Tony era appena atterrato a Londra. In teoria avrebbe dovuto concedersi un giorno di riposo per superare il jet lag ma non se l’è preso, è venuto direttamente alle prove e ha chiesto: “Allora, che si suona?”, e noi: “The Width of a Circle”. Così si è subito unito a noi, e alla fine ci siamo messi tutti a ridere: era come se l’avessimo suonata il giorno prima. Però aveva un suono più moderno». Gli Holy Holy – con due membri originali della vecchia band di Bowie, The Hype – sono molto più di una tribute band. Sono, nei fatti, una superband, che in questa fase – oltre a Visconti al basso e Woodmansey alla batteria – comprende Glenn Gregory (Heaven 17), voce, Steve Norman (Spandau Ballet), sax, chitarra, percussioni e voce, Erdal Kizilcay (David Bowie, Iggy Pop, Freddie Mercury), tastiere, James Stevenson (Generation X, Scott Walker, Gene Loves Jezebel), chitarra, Paul Cuddeford (Ian Hunter, Bob Geldof), chitarra, Rod Melvin (Ian Dury, Brian Eno), piano, Malcolm Doherty (Rumer), chitarra dodici corde e voce, Lisa Ronson (A Secret History), voce, Maggi Ronson, cori e flauto, e Hannah Berridge Ronson, cori, flauto e tastiere. Il riscontro del pubblico, più positivo del previsto, dà l’idea di quanta “voglia di Bowie” ci sia in giro dopo il ritorno di THE NEXT DAY e la mostra del V&A (che nel frattempo, il 23 settembre ha traslocato al Museum of Contemporary Art di Chicago, dove resterà fino al 4 gennaio 2015). Se l’idea iniziale è di tenere un unico concerto, il 17 settembre 2014 al Garage di Londra, man mano si rende necessario aggiungere altre date: Sheffield il 18, Glasgow il 20, e poi il gran finale, nuovamente a Londra nel moderno, vasto e confortevole O2 Shepherd’s Bush Empire, il 22 settembre. «Molte di quelle canzoni», ha raccontato Woodmansey nella succitata intervista, «non erano mai state suonate dal vivo da nessuno. Poi abbiamo suonato anche qualcosa di HUNKY DORY, ZIGGY STARDUST e ALADDIN SANE. E c’era gente che non le aveva mai sentite dal vivo. Tra il pubblico c’erano ragazzini di sedici
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anni che avevano quegli album e li hanno portati per farceli firmare. Dicevano: “Questi sono i nostri dischi preferiti”. E c’era anche gente di sessant’anni. È stato fantastico. Così, quando siamo arrivati a Shepherd’s Bush suonavamo così bene che abbiamo deciso di registrarlo». Quella performance dello Shepherd’s Bush Empire, con ospiti d’eccezione quali Gary Kemp e Marc Almond (che canta After All e Watch That Man), ha in effetti qualcosa di magico. Oggi è possibile riascoltarla su THE MAN WHO SOLD THE WORLD LIVE IN LONDON (degli Holy Holy di Tony Visconti e Woody Woodmansey con Glenn Gregory e Steve Norman) uscito il primo giugno 2015 su Cd e Lp, spontanea e gioiosa celebrazione di un artista che – in questi giorni si sta iniziando a darlo per scontato – non si potrà più rivedere su un palcoscenico. «Tony ha mixato l’album quando è tornato a New York», ha scritto Woodmansey nella sua autobiografia, «e l’ha fatto ascoltare a Bowie, che voleva sentirlo. Tony mi ha raccontato che Bowie ha passato tutto il tempo dell’ascolto con il sorriso piantato in volto. “Mi piace veramente. È esattamente come l’avremmo suonato noi se fossimo andati in tour a suonare le canzoni dopo l’uscita del disco” ha detto Bowie, per poi aggiungere: “Credo che la mia carriera avrebbe potuto prendere una direzione diversa se l’avessimo fatto”. Per me ha significato molto ricevere da lui un responso così positivo».
henry hey Stando a quanto asserito in seguito dalla famiglia, nel secondo semestre del 2014 Bowie sta ricevendo dei trattamenti chemioterapici e/o chissà quali altre cure sperimentali, ma in contemporanea – all’insaputa del mondo intero – sta anche lavorando alacremente. Su Lazarus, innanzitutto. Dopo i primi due incontri estivi con Ivo van Hove, è partito il processo di revisione e fine tuning della sceneggiatura, in cui è coinvolto anche il regista belga. Van Hove ha raccontato ad American Theatre che «abbiamo discusso molto e abbiamo cambiato delle cose. È stata un’opera d’arte vivente. Quindi si è trattato proprio di una collaborazione e in verità non era quello che mi aspettavo».
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A settembre viene aggiunto un altro tassello del puzzle, quando – sempre in segreto – viene contattato, per l’importantissimo ruolo di direttore musicale, Henry Hey, che aveva già suonato alcune parti di piano per THE NEXT DAY (su Where Are We Now?, You Feel So Lonely You Could Die e God Bless the Girl). Hey ha raccontato al «New York Times» di essere stato contattato dalla “gente di Bowie”: «Hanno detto: “Possiamo incontrarci per parlare di una cosa?”. E poi mi hanno fatto firmare delle carte che dicevano che non ne avrei parlato a nessuno». A «Rolling Stone» Hey ha dichiarato: «Qualsiasi cosa con David mi sarebbe interessata. Poi ho visto la sceneggiatura, che era piuttosto esoterica. Era una pièce teatrale molto poco tradizionale, vagamente basata su L’uomo che cadde sulla Terra». Originario di Sioux City nell’Iowa, Henry Hey è un pianista, trombettista, arrangiatore e produttore con un curriculum professionale di tutto rispetto. Le sue radici sono nel jazz, ma di recente ha arrangiato e condotto l’orchestra nei progetti di riproposizione di standard di Rod Stewart (GREAT AMERICAN SONGBOOK) e di George Michael (SYMPHONICA), sia in studio sia dal vivo. Ha inoltre lavorato con artisti pop come Mika e Empire Of The Sun e suonato su colonne sonore tra cui Oceans Twelve, Two Weeks Notice – Due settimane per innamorarsi e American Trip – Il primo viaggio non si scorda mai. «Penso che ci fossimo trovati bene nel lavoro d’incisione che avevamo fatto insieme in precedenza», ha raccontato in seguito Hey a Nicholas Pegg. «Sospetto anche che avesse svolto delle ricerche su quanto ho fatto in passato. Com’è noto, David era molto intelligente e molto bravo a scegliere gente che lo potesse aiutare a realizzare la sua visione nel corso degli anni. Io resterò per sempre lusingato ed eternamente grato per il fatto che abbia scelto me». Il lavoro sulla parte musicale di Lazarus prende il via seriamente a ottobre. A questo punto si prevede che il musical contenga tredici o quattordici canzoni pregresse – inizialmente Bowie non è convinto che debba esserci “Heroes”, come invece desidererebbero i suoi collaboratori – più tre o quattro brani nuovi, tra i quali è compresa fin dall’inizio certamente anche Bluebird (chiamata in seguito The Hunger e infine Lazarus). Hey ha raccontato a Paul Trynka di «Mojo» che le canzoni nuove sono venute fuori gradualmente, mentre lo spettacolo
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prendeva forma. La prima in assoluto che gli viene proposta è Lazarus, che Hey ascolta in forma di demo. «Il nome originario della canzone era The Hunger», ha spiegato Hey a Trynka, «e io ho ascoltato il demo prima che la band di BLACKSTAR la toccasse. Questa è la versione su cui si sono basati i nostri arrangiamenti, e quindi sono più vicini all’originale. Credo che sul demo ci fosse anche Tony Visconti». Il compito di Hey consiste nell’adattare le canzoni selezionate per il musical (e quindi per le voci degli attori che le canteranno), realizzando dei nuovi arrangiamenti ad hoc. Gli viene lasciata mano libera nella scelta dei musicisti, ma Bowie è tenuto costantemente al corrente e dà il suo avallo su tutto («Ha approvato personalmente ogni musicista su Lazarus»). «Non volevo una classica band di Broadway», ha detto Hay, «volevo una band rock. Nel musical c’è una scena in un bar, e il gruppo suona come se fosse una band da bar per ubriachi. Avevo bisogno che avesse quel sound». Le canzoni avranno quindi «un suono stile R’n’B della Stax anni Sessanta, molto oscuro e sporco». La band di Lazarus, alla fine, sarà composta da sette elementi: Brian Delaney, batterista dell’ultima formazione dei New York Dolls, i chitarristi Chris McQueen (membro della band jazz-fusion Snarky Puppy) e J.J. Appleton, il bassista Fima Ephron, il sassofonista Lucas Dodd e il trombonista Karl Lyden, oltre allo stesso Hey alle tastiere. Tutte le volte che Hey conclude il lavoro sull’arrangiamento di un pezzo, spedisce via e-mail a Bowie il risultato. Talvolta, ha raccontato Hey, Bowie gli va a far visita nel suo appartamento dell’East Village per lavorare insieme: «Mi diceva: “Troviamoci a casa tua per bere caffè e parlare di musica”. Era un approccio fantastico, molto disarmante. Per lui l’arte era la prima cosa. Non sembrava interessato alla celebrità».
daphne guinness Qualcosa però non torna, nella linea ufficiale secondo cui a Bowie è stato diagnosticato un tumore a giugno 2014. I suoi molteplici impegni lavorativi, confermati sul piano cronologico da varie testimonianze, durano per tutta l’estate e proseguono almeno fino a ottobre, con-
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trastando decisamente con l’immagine di un uomo malato che sta ricevendo cure pesanti sia per il corpo che per lo spirito. E allora, è probabile che sia necessario spostare la data reale un po’ più in là, intorno a ottobre-novembre 2014. È da quel punto che la vita per Bowie inizia a farsi realmente più complicata. E la sua scomparsa dal consesso pubblico appare non più come un vezzo ma come qualcosa di serio e necessario. In un’intervista rilasciata per il libro di Dylan Jones, Gail Ann Dorsey ha affermato: «L’ultima volta che l’ho visto è stato a ottobre del 2014, mentre stavo lavorando al disco di Daphne Guinness a New York, e David è venuto allo studio per chiacchierare un po’ dato che la conosceva, e lo studio era proprio dietro l’angolo rispetto a casa sua. Dev’essere stato poco prima della sua diagnosi, perché sembrava star bene». Bene. Ma chi è Daphne Guinness? Daphne Guinness – anzi, The Honourable Daphne Diana Joan Suzannah Guinness – è una vecchia conoscenza di Bowie. Ricchissima ereditiera della famiglia Guinness (quella della birra), diventata poi modella, si è trasferita a metà degli anni Ottanta a New York dove ha sposato un uomo ancora più benestante di lei: Spyros Niarchos, secondogenito dell’armatore greco Stavros Niarchos, da cui ha avuto tre figli. Dopo il divorzio nel 1999 si è legata romanticamente al filosofo francese Bernard Henry-Levy, ma anche questa storia pare ormai conclusa. Vive tra New York, Londra e Parigi, frequentando il jet set e, di preferenza, quell’ambiente artistico-modaiolo di cui Bowie e Iman sono parte integrante. In passato un loro amico comune è stato lo stilista Alexander McQueen, autore fra le altre cose della celebre giacca con la Union Jack con cui Bowie appare nella copertina di EARTHLING. E nel 2012 la Guinness è apparsa in un servizio per «Vogue Germany» truccata da Ziggy Stardust, manifestando tutto il suo amore per i travestimenti bowiani. Daphne Guinness è una di quelle rarissime e invidiatissime persone che nella vita possono fare ciò che vogliono: la modella, la stilista, l’organizzatrice di mostre, la produttrice, la regista, l’attrice e magari anche la cantautrice. Che è esattamente quello che le salta in testa di fare tra il 2013 e il 2014, alla soglia dei cinquant’anni. «Sono sempre
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stata una musicista» dichiarerà in seguito l’ereditiera. «La musica è stata il mio primo amore, ho sempre voluto fare la musicista al di sopra e al di là di qualsiasi altra cosa. Avevo ottenuto un posto alla Guildhall School of Music prima che il mio matrimonio e tutto il resto prendessero il sopravvento». Durante un soggiorno in Irlanda la Guinness ha realizzato dei demo con l’aiuto del cantautore Patrick Donne, e ora li sta facendo sentire in giro per realizzare un album. È ipotizzabile che a un certo punto la Guinness contatti Bowie, e che sia lui a indirizzarla verso Tony Visconti? Come lo stesso Visconti ha detto a Daphne Guinness, in una chiacchierata tra i due riportata da «Interview» nel 2016: «Mi era stato detto di darti una possibilità, non sapevo che tu fossi una musicista e una cantante, ma quando mi hai fatto sentire le tue prime tre canzoni sono quasi caduto dalla sedia». Le prime session per il disco, predisposte da Visconti agli Avatar Studios, hanno luogo all’inizio del 2014 – di uno dei primi brani completi, Evening in Space, in agosto viene diffuso il video glam/kitsch di David LaChapelle – e proseguono fino alla fine del 2015. Un processo lungo e costoso, ma i soldi per Daphne Guinness non sono un problema. Nel frattempo Visconti ha sviluppato un buon rapporto con l’ereditiera, coinvolgendola come special guest ai cori nel mini-tour inglese degli Holy Holy del settembre 2014. Pur restandone fuori, Bowie dà mostra di essere molto interessato al disco della conoscente, e fa capolino agli Avatar Studios due volte, entrambe a ottobre 2014. Ecco come Visconti e la Guinness hanno ricordato le visite di Bowie di quei giorni nel succitato pezzo di «Interview»: VISCONTI: Vorrei farti subito una domanda: puoi parlare del momento
in cui Bowie è apparso durante le sedute di registrazione? Lui è stato una specie di padrino di tutto il disco. È comparso brevemente a due session. Non ha partecipato; desiderava solo vedere come io e te stavamo lavorando. La prima volta è venuto quando stavamo lavorando alle basi con una band di quattro elementi, ed è rimasto per circa un’ora e ha ascoltato alcune cose. Poi è venuto quando stavamo lavo-
5. I KNOW SOMETHING’S VERY WRONG (2014-2016) rando con l’orchestra di venti elementi. È arrivato senza preannunciarlo. Gli avevo detto che sarei stato lì quel giorno, e non si voleva perdere venti orchestrali che suonavano in una stanza. Ma dopo quella volta non l’abbiamo più rivisto alle nostre session. GUINNESS: Mi è arrivata un’e-mail in cui diceva che voleva sentire tutti
i pezzi che stavamo facendo. Gli ho risposto: «Mi stai prendendo in giro? Ma certo!». VISCONTI: È questa l’impressione che dava. Ci si era molto appassiona-
to. E gli piaceva anche il tuo stile musicale. Era come quello dei tempi in cui ha iniziato, quando aveva vent’anni, il concetto di pop psichedelico… All’epoca c’erano canzoni nella Top 10 che parlavano di prendere l’Lsd, di entrare in sintonia e di abbandonare le convenzioni. Lo sai che questo adesso non si può più fare? GUINNESS: Be’, noi lo stiamo facendo. VISCONTI: Sì, certo, ma credo che sia quello il motivo per cui era così in-
teressato. Il genere era qualcosa che amava e con cui aveva familiarità. Credo che l’unico consiglio che mi abbia dato è stato: «Daphne è fantastica, dovrebbe esibirsi dal vivo», che è ciò che stai facendo adesso.
Non è escluso che la Guinness speri in un coinvolgimento – un cammeo vocale, magari – di Bowie nel progetto, ma la cosa non ha luogo, forse anche per via del progressivo peggioramento della sua salute. L’album, dal titolo OPTIMIST IN BLACK, alla fine uscirà nella primavera del 2016, dopo due anni di lavoro e una montagna di quattrini spesi. Per promuoverlo la Guinness non esiterà a menzionare la connection con Bowie: «Sapete, è stato David Bowie a darmi la fiducia necessaria per realizzare questa cosa», ha detto ad AnotherMag.com. «Lui e Tony mi hanno detto, «Sei molto brava a scrivere canzoni», che per me ha rappresentato qualcosa di enorme. E quindi, eccomi qui». Tutto inutile: i media musicali ignoreranno OPTIMIST IN BLACK, visto come l’hobby estemporaneo di una miliardaria annoiata in cerca
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di emozioni. Solo qualche rivista patinata dedicherà qualche pagina al disco, se non altro per poter esporre le fotografie glamour della Guinness nello splendore dei suoi abiti firmati. Non doma, l’ereditiera si è messa al lavoro sul suo secondo album, prodotto ancora una volta da Tony Visconti, con cui, ha detto a «V Magazine», ha sviluppato “un legame indistruttibile”. Visconti appare anche sul finale del primo video diffuso nel settembre 2017 come anteprima dell’album – un pezzo glam dal titolo Remember to Breathe – esibendosi in alcune abili mosse di Tai Chi. «Con Tony», ha aggiunto la Guinness, «stiamo costantemente a ridere e a divertirci, ma concludiamo anche un sacco di lavoro. E il rock’n’roll si suppone che sia divertente. Altrimenti… qual è il punto?».
everything has changed E intanto, il 9 settembre è stato dato l’annuncio dell’uscita della tripla compilation NOTHING HAS CHANGED, che copre cinquant’anni di registrazioni, dall’esordio con Liza Jane del 1964 fino all’inedita Sue (Or in a Season of Crime) del 2014. Uscirà il 17 novembre, una settimana dopo un singolo 10” contenente sul lato A Sue e sul lato B un secondo inedito, ’Tis a Pity She Was a Whore. La famosa “more music” annunciata da Bowie al Terence Higgins Trust il precedente 12 luglio. Maggiori dettagli vengono rivelati tra il 7 (quando Sue viene trasmessa in anteprima da Bbc6) e il 15 ottobre: l’artwork di Jonathan Barnbrook, gli inediti e le rarità della compilation, i musicisti che hanno suonato su Sue, il fatto che ’Tis a Pity She Was a Whore sia un demo artigianale realizzato in casa propria da Bowie, eccetera. Quando arriva la data X, tutti si soffermano sull’improvvisa svolta sperimentale di Bowie, evidente da Sue ma anche da ’Tis a Pity She Was a Whore, commentata da Bowie con l’enigmatica dichiarazione: «Se i Vorticisti avessero scritto musica rock, sarebbe suonata in questo modo». Pochi prestano attenzione al titolo della compilation, che invece nel momento in cui viene scelto potrebbe rappresentare una missiva cifrata da parte di Bowie. Si tratta di un verso di Sunday, uno dei brani
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più sofferti e lancinanti dell’album HEATHEN in cui all’affermazione “Nulla è cambiato” fa subito eco quella di segno contrario “È cambiato tutto”. Per il pubblico, e per il mondo in genere, è sempre tutto come prima. Bowie, si pensa, è nuovamente in salute e dopo il successo di THE NEXT DAY ha deciso di passare all’incasso. Ora, probabilmente, resterà fermo per un po’ e magari proporrà un nuovo album fra tre, quattro o anche cinque anni, come usano quelli della sua età. E invece stavolta è tutto drammaticamente mutato. Un cancro. Un quadro clinico forse già compromesso. La chemioterapia. Eventuali cure sperimentali. La speranza ma anche il timore o, chissà, il terrore. Le probabilità statisticamente assai alte che questa prova possa non essere superata. Everything has changed.
new york theatre workshop Novembre 2014 è il mese in cui, nella ristretta cerchia familiare e professionale di Bowie, la gravità del suo male diventa palese, non può più essere tenuta nascosta. Il lavoro preparatorio su Lazarus sta andando avanti, con un’intensità e una velocità inconsueti per un progetto di tale portata. Riguardo al teatro in cui inscenare il musical, Bowie e Fox hanno fatto la scelta più logica e semplice: Lazarus si terrà al New York Theatre Workshop (da qui in poi: NYTW) una piccola sala off-Broadway nell’East Village dalla capienza di 200 posti, rinomata per aver messo in scena nel corso degli anni diverse pièce innovative e avanguardistiche. I rapporti con il teatro, fra l’altro, sono facilitati dalle esperienze pregresse di tutto il team di Lazarus. Robert Fox conosce bene il direttore artistico James Nicola e il suo assistente James Blocker dopo quasi vent’anni di produzioni tra Broadway e off-Broadway. Enda Walsh ha lavorato con il NYTW nella stagione 2011-2012, come autore del libretto dell’acclamato musical Once. Ma fra tutti, quello che ha il rapporto più stretto e consolidato con il teatro è Ivo van Hove, fin da quando nel 1996 vi mise in scena More Stately Mansions di Eugene O’Neill, se-
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guito da Un tram chiamato desiderio di Tennessee Williams nel 1998, Alice In Bed di Susan Sontag nel 2000, Hedda Gabler di Ibsen nel 2004, Il misantropo di Moliere nel 2007, Le piccole volpi di Lillian Hellman nel 2010 e infine, proprio nei giorni tra il 12 settembre e il 26 ottobre 2014, Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman. Non è un caso che pochi giorni dopo la fine dell’impegno di van Hove sul testo di Bergman, il team di Lazarus abbia fissato alcuni workshop che serviranno per rifinire il testo e iniziare a provare qualcuno degli attori in un contesto live. Come raccontato in seguito al «Telegraph», nel novembre 2014 Robert Fox prende un aereo da Londra a New York appositamente per intervenire al workshop preliminare – presumibilmente tenuto nella sala secondaria del NYTW – a cui dovrebbero partecipare, fra gli altri, anche Bowie, Walsh e van Hove. Ma Bowie non c’è, e a Fox viene detto di recarsi negli uffici della Isolar di Lafayette Street, dove lo attende un computer a cui Bowie è collegato da casa via Skype. È in questo momento che Fox viene messo al corrente dello stato di salute del suo amico: Bowie gli spiega di essere malato di cancro e che si sta sottoponendo a delle cure, il che significa che non potrà partecipare al workshop di persona. È importante, ritiene, che Fox, Walsh e van Hove sappiano della malattia, ma preferirebbe che nessun altro ne venisse messo al corrente. «È stato shoccante», ha raccontato Fox. «David ha detto che sarebbe stato coinvolto tramite Skype ma che non se la sentiva di venire all’incontro. Voleva esserne parte, ma non voleva essere nella nostra stessa stanza. Tutto quello che ha detto è stato: “Vorrei proprio riuscire a vedere il musical realizzato”. È stata la sua unica richiesta. Ed è stata sempre nella mia mente e nella mente di tutti».
donny mccaslin quartet Date le circostanze, è stupefacente che a dicembre 2014 Bowie decida di mettere altra carne al fuoco e di lavorare su nuove canzoni. «Mi ha portato un’altra canzone su cui voleva lavorare», ha raccontato Maria Schneider nel documentario The Last Five Years, «ma io gli ho detto: “Mi piacerebbe farlo, ma non posso, David, sto registran-
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do il mio album con la mia band”. E a quel punto gli ho detto: “Credo che dovresti fare un disco con il gruppo di Donny McCaslin”. Lui ha detto: “Davvero? Pensi? Credi che lo vorrebbero fare?”. Io gli ho detto: “Ma mi stai prendendo in giro?”. E gli ho detto: “Penso che sarebbe strepitoso”». Ma è andata veramente come la racconta Maria Schneider? È davvero sensato che la leader di un’orchestra jazz, conosciuta e stimata nel suo ambiente ma virtualmente ignota nel mainstream, rifiuti un’ampia collaborazione con David Bowie? Una spiegazione alternativa è che Bowie non sia rimasto troppo soddisfatto della collaborazione con la Schneider, sul piano musicale (tanto è vero che vorrà reincidere Sue) o perfino su quello personale. È altresì possibile che ci siano stati degli attriti sulla scottante questione della suddivisione dei diritti d’autore di Sue. In questo campo Maria Schneider è una delle persone più informate e smaliziate al mondo, essendo da qualche anno fidanzata con Mark Righter, un avvocato specializzato in diritti di proprietà intellettuale e in particolare in copyright audio, digitale e video. Non per niente, dal 2002 la Schneider pubblica i suoi dischi utilizzando la piattaforma ArtistShare, una forma di crowdfunding che le consente di mantenere il totale controllo sulla sua musica e sui diritti collegati. Secondo un articolo del 2008 del «Wall Street Journal», «Schneider ha detto di essersi rivolta ad ArtistShare perché non le era arrivato alcun introito da royalty neanche quando vendeva ventimila dischi. Secondo un tipico contratto da casa discografica, un artista riceve solo pochi centesimi a Cd, ma solitamente solo dopo che l’etichetta ha recuperato i costi di produzione e di marketing». Si può ipotizzare, quindi, che dovendo negoziare con un volpone come Mark Righter, Bowie abbia dovuto cedere a Maria Schneider una fetta della torta più ampia di quella che inizialmente pensava di darle. E l’alternativa, comunque, è lì a un passo: il Donny McCaslin Quartet. Il californiano Donald Paul McCaslin, classe 1967, è uno dei principali esponenti del sassofono jazz contemporaneo. Dopo essersi diplomato al Berklee College of Music, è stato chiamato a collaborare
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da una pletora di grossi nomi, tra cui Gary Burton, Steps Ahead, la Gil Evans Orchestra, e, in tempi recenti, la Maria Schneider Orchestra. Trasferitosi a New York nel 1991, nel 1998 ha pubblicato il suo primo disco, ma il Donny McCaslin Quartet inizia a prendere forma solo nel 2010 quando per l’album PERPETUAL MOTION chiama a suonare il batterista Mark Guiliana e il bassista Tim Lefebvre, e si stabilizza nel successivo CASTING FOR GRAVITY (2012), con l’inserimento del tastierista Jason Lindner. La musica dei quattro ricalca i fasti del jazz elettronico anni Settanta tenendo presente la lezione di Herbie Hancock e dei Weather Report con una sapiente fusione tra strumenti acustici ed elettronici. «Mi è arrivata un’e-mail da Bowie», ha ricordato McCaslin nel documentario The Last Five Years, “in cui diceva che gli sarebbe davvero piaciuto registrare alcuni pezzi con noi. C’era una frase che diceva qualcosa del tipo “sarebbe il mio sogno incidere alcune canzoni con il Donny McCaslin Group”. Quella frase era una cosa tipo… Wow!». Allo stesso tempo, però, McCaslin non è proprio quello che si può definire un bowiano: l’unica canzone che conosce è Let’s Dance. Pertanto, prima dell’inizio delle session decide che è il caso di colmare questo buco. «Durante la nostra corrispondenza per e-mail gliene ho fatto menzione e lui ha chiesto cosa stessi ascoltando. E io ho iniziato a fare una lista, anche se ero già arrivato alla conclusione che comunque non volevo restarne troppo influenzato. Avevo realizzato che aveva cercato noi e voleva noi per quello che facciamo, ed ero sicuro che non ci volesse per ricreare qualcosa dal suo passato. Gli ho mandato quella lista e lui mi ha risposto dicendo: “Quella è roba vecchia, sto ascoltando cose differenti adesso”, confermando quello che era stato il mio istinto. Così solo quando BLACKSTAR è stato completato ho iniziato ad andare a ritroso e ad approfondire la sua discografia». Secondo Nicholas Pegg, «Nel dicembre 2014 Bowie inviò un gruppo iniziale di demo ai quattro musicisti in preparazione per l’inizio delle registrazioni nel nuovo anno». Ha raccontato McCaslin a «BandCamp»: «Penso che Bowie stesse scrivendo con in mente la band. Maria Schneider gli aveva fatto sentire CASTING FOR GRAVITY, e lui ha anche menzionato il pezzo Alpha & Omega. E aveva dato un’occhiata ai nostri video su YouTube,
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e gli piacevano molto anche i Beats Music di Mark Guiliana. La mia impressione è che avesse studiato quello che facevamo, e l’ha tenuto in conto mentre stava scrivendo BLACKSTAR. Quindi, come mai David ha scelto noi? Penso che sia perché stavamo esplorando un territorio differente come gruppo cercando di andare al di là dei confini musicali, e questa è sempre stata una delle caratteristiche della sua carriera. Lui era un artista visionario, era piuttosto impavido e non aveva paura di guardarsi intorno e di reinventare se stesso in una varietà di modi differenti». Come per Lazarus, anche in questo caso le cose avvengono con grande rapidità. Non c’è neanche tempo per festeggiare l’arrivo del 2015 che le sessioni con la Donny McCaslin Band hanno inizio, all’ormai solito Magic Shop, con Tony Visconti dietro la console assistito dall’ingegnere del suono Kevin Killen. Ma il primo impatto di McCaslin e soci con Bowie ha dello sconcertante. «Il primo giorno», ha detto Tony Visconti a «Rolling Stone», «è arrivato direttamente da una seduta chemioterapica, e non aveva sopracciglia, non aveva capelli in testa. Non c’era modo di tenere la malattia segreta. Ma lui me l’aveva detto in privato, e io mi sono davvero commosso quando ci siamo seduti uno di fronte all’altro a parlarne». In futuro queste verranno definite le “session di BLACKSTAR”, ma non è detto che fin da gennaio Bowie stia pensando a un album. Più probabilmente, per il momento desidera solamente incidere le proprie versioni delle canzoni che nei mesi scorsi ha composto per il musical. Un’indicazione in questo senso deriva dal fatto che il 3 gennaio vengono registrate alcune take di Lazarus e When I Met You, e il 7 e il 10 gennaio tocca a No Plan, mentre il 5 gennaio viene registrata una nuova versione di ‘Tis a Pity She Was a Whore, sulla base dell’home demo pubblicato come lato B di Sue a novembre 2014. Tutto, naturalmente, in gran segreto: a musicisti, produttore, ingegnere del suono e proprietari del Magic Shop è stato fatto firmare un accordo di segretezza blindato su quel che avviene all’interno dello studio. Nicholas Pegg ha scritto che «alcuni giorni dopo l’inizio delle session David ha festeggiato il suo sessantottesimo compleanno. Per celebrare la ricorrenza, Iman ha visitato lo studio, e la band ha regalato a Bowie un’interpretazione appropriatamente avant-garde di Happy Birthday».
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A conferma, c’è una foto pubblicata da Erin Tonkon su Facebook del Magic Shop decorato da lei e Visconti con palloncini e nastri in onore del “birthday boy”. In seguito Tony Visconti rileverà come i demo incisi a casa da Bowie, che la band di McCaslin utilizza come punto di partenza, siano stavolta più completi e professionali del solito, in linea con quello di ’Tis a Pity She Was a Whore: «Alcuni avevano già le liriche, la qual cosa è inusuale. Di solito preferisce scriverle proprio alla fine, ma in questo caso i demo erano ben formati e sofisticati». Jason Lindner ha dichiarato a «Rolling Stone» che Bowie «ci ha dato la libertà di suonare ed essere noi stessi. Ma c’era comunque una sottile linea di demarcazione. Quando sei in uno studio con uno come David Bowie, o un qualsiasi artista di alto livello, devi essere consapevole di quali sono i limiti, e del fatto che quando suoni devi essere fedele al demo, devi essere un vero musicista da session e far bene la tua parte. Chiaramente, quel confine si è allentato man mano che ci siamo sentiti più a nostro agio nello studio, ma durante quella prima settimana di gennaio abbiamo più che altro cercato di rispettare i demo». Visconti in seguito ha sottolineato come Bowie fosse alla ricerca di un sound più avventuroso rispetto a quello di THE NEXT DAY: «Ascoltavamo un sacco di Kendrick Lamar», ha detto citando il terzo album del rapper losangelino TO PIMP A BUTTERFLY, come anche il recente BLACK MESSIAH di D’Angelo. «Non abbiamo tirato fuori nulla di simile, ma ci piaceva il fatto che Kendrick fosse così aperto di mente, e non avesse realizzato un classico disco hip-hop. Ha messo dentro un po’ di tutto, ed era esattamente quello che volevamo fare noi. L’obiettivo, per molti versi, era quello di evitare il rock’n’roll».
james murphy Forse è dopo questo primo blocco di registrazioni che a Bowie viene in mente di registrare un intero album, tutto con il Donny McCaslin Quartet. O forse no: è possibile che per qualche tempo l’idea sia semplicemente di incidere degli inediti per un Cd da allegare all’Original Cast Soundtrack di Lazarus affidato a Henry Hey.
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Nonostante le cure, le energie ci sono. È la strategia, piuttosto, ad apparire confusa. L’impressione è che Bowie voglia ulteriormente sparigliare le carte, affiancando al solido ma tradizionale Tony Visconti un secondo produttore più in sintonia con la modernità: James Murphy, che ha già lavorato con lui rimixando Love Is Lost per THE NEXT DAY EXTRA. Viene quindi prenotato un secondo blocco di session al Magic Shop per la settimana tra il 2 e il 6 febbraio. La procedura è sempre la stessa: prima della session Bowie invia per e-mail alla band dei nuovi demo su cui vuole lavorare. Il primo giorno Bowie avverte McCaslin & Co. che ci sarà una novità. Secondo quanto riferito da Jason Lindner a «Rolling Stone», Bowie avrebbe detto: «Da martedì avremo una nuova presenza nello studio. È James Murphy, quello famoso per gli LCD Soundsystem. Ha anche prodotto REFLEKTOR degli Arcade Fire. È una persona piacevolissima e ci darà un sacco di suggerimenti e ci divertiremo un sacco». Murphy nel 2017 si è soffermato con «Uncut» su questi giorni passati con Bowie: «Era una persona notevole, nel senso che non avevi mai un conflitto negativo tra l’immagine che ti eri fatto di lui e quello che era veramente, o almeno io non ce l’ho avuto. E non era perché quando lo incontravi sembrava Ziggy Stardust o qualcosa del genere, ma piuttosto il contrario. Era una persona disarmante e umana, e davvero rispettosa, e piena di apprezzamenti e di pensieri. Ma non eri mai deluso, perché era così incredibilmente bravo a essere una persona. Ci siamo messi a fare una chiacchierata mentre stavamo facendo BLACKSTAR, ci siamo messi a parlare di THE NEXT DAY. E lui ha detto: “Sai, mi è piaciuto davvero quel disco, ma c’erano troppe canzoni, non sono stato abbastanza spietato nel tagliarlo fino a farlo diventare un disco singolo. Sarebbe stato un disco singolo molto più forte”. E io non sapevo bene che dire, ho pensato qualcosa del tipo, “Interessante, mi sta facendo questa recensione”, una cosa che non pensi che certa gente faccia. E ho detto, “Be’, non sono proprio la persona giusta a cui chiedere”. E lui ha detto: “Giusto, ma tu non hai mai messo più di nove canzoni su un tuo disco”. E per un momento ho pensato: “È una cosa di cui non ho mai parlato, non è uno di quei fatti che stanno su Wikipedia, il che significa che devo fare i conti con il fatto che, a un
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certo punto, quel cazzo di David Bowie ha dato un’occhiata ai miei tre album e ha pensato, ‘Mmhhh… contengono solo nove canzoni’”. Di tutte le cose carine che ha detto – il fatto che si ricordasse il nome di mia moglie, o gli scambi umani pieni di attenzioni che ho avuto con lui, che sono stati numerosi – questo è quello che mi ha fatto esclamare Porca puttana!, perché non puoi fingere una cosa del genere, e se ci riesci devi essere proprio bravo». Nicholas Pegg certifica che alla fine gli unici contributi accreditati di Murphy su BLACKSTAR sono le percussioni sulla nuova versione di Sue (Or in a Season of Crime), la cui base viene incisa il 2 febbraio, e su Girl Loves Me, realizzata il 3 febbraio, sebbene sia anche stato presente per l’incisione di Someday (il futuro inedito Blaze) il 4 febbraio e di Dollar Days il 6 febbraio. «Il suo ruolo non è mai stato molto definito», ha detto Lindner a «Rolling Stone». «Ha realizzato alcune cose interessanti. Ha filtrato alcuni suoni della mia tastiera attraverso questo macchinario che ha portato a tutte le session. Si chiama EMS Synthi. Ce ne sono diversi modelli. Questo è l’ EMS Synthi AKS. Ha l’aspetto di una valigetta che poi devi aprire. È uno dei primi synth. Di base, ha delle entrate e delle uscite modulari, e lo puoi usare per filtrare quello che vuoi. Un paio di sovraincisioni sulle mie parti sono state filtrate così. Aveva un effetto stupefacente. So che è una delle cose che James ama di più al mondo. Si tratta di oggetti adesso estremamente rari e costosi». Secondo Tony Visconti «a un certo punto si stava parlando di avere tre produttori per l’album: David, James e me. Murphy c’è stato per un tempo breve, ma poi se n’è dovuto andare per seguire i suoi progetti». E in un’intervista alla Bbc, Murphy ha dichiarato: «Ho suonato un po’ di percussioni. Avrei dovuto fare molto di più ma poi sono stato sopraffatto». Le circostanze del ritiro di James Murphy appaiono tuttora poco chiare. Quale pur importante impegno lavorativo può avere la precedenza sul produrre un disco per David Bowie? È più credibile, quindi, che ci siano state difficoltà da parte di Murphy ad adattarsi al modus operandi della ditta Bowie-Visconti. O, anche, che a un certo punto Bowie abbia realizzato che avere a che fare con due galli (Murphy e Visconti) in uno stesso pollaio non fosse proprio l’idea più brillante del mondo.
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blackstar Passa una quarantina di giorni prima della terza e ultima session, sempre al Magic Shop. La new entry stavolta è Ben Monder, il chitarrista jazz che aveva preso parte alla registrazione di Sue con Maria Schneider, suggerito a Bowie da Donny McCaslin. «L’atmosfera era davvero molto positiva», ha raccontato in seguito Monder. «David era rispettoso di ciò che gli altri potevano offrire, non era assolutamente un maniaco del controllo e desiderava veramente lavorare con i suoi collaboratori. E Tony, la stessa cosa». Ha poi aggiunto che «il disco è stato reclamizzato come “David Bowie ingaggia un quintetto jazz”, ma non è per niente così. Non è assolutamente un disco jazz. E tutti quei ragazzi sono davvero versatili, e penso che il modo in cui suonano rock sia eccellente come qualsiasi altra cosa che suonano. Loro sono conosciuti come musicisti d’improvvisazione, e sono noti più che altro nell’ambito del jazz, ma io penso che queste canzoni abbiano tirato fuori le loro capacità come musicisti rock». Nicholas Pegg ha riportato che «nel corso dei primi mesi del 2015, David ha dato segnali che stava rispondendo bene ai trattamenti. All’epoca della terza session in studio, a marzo, aveva di nuovo i capelli e non c’erano segni esteriori che stesse male». Monder, che non aveva partecipato alle prime due session e che evidentemente non era stato informato del precario stato di salute di Bowie, ha detto: «Io ho pensato che stesse ottimamente. Sembrava veramente in salute. Era pieno d’energia. Cantava alla grande. Era di buon umore. Non c’era nulla che potesse indicare che era malato. Sono contento di non averlo saputo, ma è stato molto più scioccante quando l’ho scoperto più tardi”. Un peggioramento, o meglio un incupimento, nello stato d’animo di Bowie – a sei o sette mesi dalla diagnosi del cancro – si può tuttavia rilevare sulla base dei testi e delle atmosfere di due delle canzoni provate e registrate in queste session di fine marzo, Blackstar e I Can’t Give Anything Away, che risulteranno in assoluto le più importanti e personali del nuovo album: entrambe hanno a che fare piuttosto esplicitamente con la possibilità di lasciare questa valle di lacrime. In particolare, secondo la cronologia di Pegg, Blackstar viene registrata il 20 marzo, I Can’t Give Everything Away il 21, e infine, il 23 marzo,
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è la volta di Killing a Little Time (destinata a Lazarus) e un rifacimento di Someday ora intitolata Blaze, che rimane a oggi inedita. L’ultimo giorno di lavoro al Magic Shop – secondo Pegg – è il 24 marzo. Dopo il termine delle session, Bowie e il Donny McCaslin Group si rivedranno un’ulteriore volta, il 7 o l’8 aprile 2015, secondo quanto ha raccontato Mark Guiliana all’autore di questo libro: «Suonavamo al Jazz Standard, un club di New York, e Bowie è venuto con Tony Visconti e alcuni amici. È stato bello semplicemente vederlo e salutarlo». Sarà l’ultima volta. Non ci saranno altre occasioni di incontro. McCaslin, Guiliana, Lindner e Lefebvre avranno però modo di ascoltare l’album, completo e mixato, a una settimana dall’uscita nei negozi. «Siamo andati agli Electric Lady Studios a New York, che è il luogo in cui è stato mixato da Tom Elmhirst», ha ricordato Guiliana, «e siamo andati nella stanza di Tom… Tom non c’era, ma ci hanno fatto andare nella sua stanza per ascoltare i mix attraverso quegli speaker. E siamo rimasti stupefatti. Era fantastico, era davvero stupefacente».
nytw announces world premiere of lazarus Oltre a dedicarsi al futuro BLACKSTAR, nei primi mesi del 2015 David Bowie segue a distanza il tour mondiale della mostra a lui dedicata, che il 2 marzo 2015 giunge a Parigi (alla Philharmonie de Paris / Cité de la Musique), dove è possibile visitarla fino al 31 maggio. Ma sta anche mettendo a punto un’imponente operazione di risistemazione e rimasterizzazione del suo catalogo: una serie di box cronologici che nelle intenzioni dovranno coprire tutta la sua carriera dal 1969 a oggi. Il primo, FIVE YEARS (1969–1973), uscirà il 25 settembre 2015 e nei primi mesi dell’anno è già stato certamente da lui approvato. Come probabilmente anche il secondo, WHO CAN I BE NOW? (1974–1976), programmato per l’autunno 2016. Per quanto riguarda i successivi, si può supporre che nel corso dell’anno Bowie giunga a dare un ok di massima sui titoli e sulla composizione, ma rimane qualche dubbio su quali e quanti siano stati i suoi effettivi input a livello di dettagli. Probabile che il terzo box – A NEW CAREER IN A NEW TOWN (1977–1982), la cui uscita è prevista per l’autunno 2017 – a questo punto sia ancora
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un cantiere aperto. Alla fine includerà un nuovo mix di LODGER da parte di Tony Visconti, il quale ha raccontato la storia a «Uncut»: «Nel corso degli anni, io e David ci siamo spesso lamentati del fatto che volevamo remixarlo. Ma non se ne è mai fatto niente finché non c’è stato un break nelle registrazioni di BLACKSTAR. Ho pensato, se non mi do da fare con LODGER, questo remix non si farà mai. Ho iniziato a remixarlo da solo, per conto mio, senza che David lo sapesse. Quando ho finito cinque mixaggi glieli ho fatti sentire. Gli sono piaciuti tantissimo e mi ha dato la luce verde». E tuttavia, Visconti ha anche aggiunto: «David era orgoglioso di queste ristampe ma non voleva essere coinvolto. C’era un sacco di gente capace, compreso il suo staff e me, che poteva occuparsene. Di solito si limitava ad ascoltare il test pressing finale e diceva “Ottimo, è meraviglioso. Pubblicatelo”. Ma voleva sempre guardare avanti». Bowie – ci si può giurare – preferisce seguire da vicino la pre-produzione di Lazarus, ovvero i workshop dedicati alla rifinitura del testo e delle musiche e alle preselezioni degli attori, che si svolgono segretamente al New York Theatre Workshop. Tuttavia, rispetto alle session del Magic Shop – dove deve necessariamente passare le giornate in contatto diretto con quattro o cinque esterni a cui non è possibile tenere nascoste le sue condizioni di salute – per i laboratori di Lazarus Bowie è costretto ad adottare una modalità diversa. Si tratta, infatti, di situazioni “aperte”, dove passano decine di aspiranti attori molti dei quali solo per una giornata, per non parlare delle maestranze tecniche e, non ultimo, dei musicisti del gruppo di Henry Hey. Troppa folla. Troppo rischioso. Se Bowie venisse visto al Nytw dopo una delle sedute di chemioterapia, la notizia della sua malattia si diffonderebbe istantaneamente, con detrimento di entrambi i progetti a cui sta lavorando. L’unica possibilità è quindi partecipare in remoto. «Dopo che Bowie si è ammalato», ha detto Ivo van Hove al «Guardian», «abbiamo fatto installare una telecamera durante i workshop affinché li potesse seguire. Ogni giorno mi chiamava per dire: “Wow, questa cosa è fantastica!”, oppure “Credo che dovresti pensare a questa cosa”. E la sorpresa piacevole è stata che lui non ha mai usato il suo potere, era collaborativo. Aveva opinioni forti ma costruttive».
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Una delle discussioni riguarda l’opportunità di usare “Heroes” come canzone conclusiva del musical. «David non era sicuro che dovesse starci», ha detto Henry Hey al «New Yorker». «Perché è un monumentale, trionfante inno rock. E quello non è lo spirito della scena». Ma gradualmente Bowie cambia idea, anche in seguito alle insistenze di Walsh, van Hove e dello stesso Hey, che costruisce un arrangiamento completamente diverso. «Ho mandato a David un demo», ha raccontato, «e quello finalmente l’ha convinto. È molto deenfatizzato e malinconico. Non sfocia mai, in nessun punto, in qualcosa di trionfale». E per la fine di marzo il lavoro preparatorio può dirsi concluso. Durante la mattina del 2 aprile 2015 la notizia del musical filtra per la prima volta sui media, con il «New York Times» che titola sul web: «Musical? Opera teatrale? Tutto quello che si sa è che David Bowie è coinvolto». A parlare – presumibilmente in pieno accordo con Bowie & Co. – è stato James C. Nicola, direttore artistico del Nytw, che confida al blogger Michael Paulson di non saper bene come descrivere questo progetto che è stato sviluppato segretamente “per alcuni anni”. Nicola racconta che Bowie, volendo realizzare un’opera teatrale ispirata al romanzo L’uomo che cadde sulla Terra, ha contattato Ivo van Hove ed Enda Walsh e di seguito il New York Theatre Workshop. «Si tratterà di una pièce con personaggi e canzoni» rivela Nicola. «Io lo definisco teatro musicale, ma non so veramente che cosa sarà, ho solo un’incredibile fiducia nella loro visione creativa. Sono molto eccitato. Ci sono queste tre sensibilità molto differenti che si incontreranno». Nicola aggiunge inoltre che lo spettacolo, che andrà in scena alla fine dell’anno, non replicherà la storia del libro e del film, ma ne condividerà alcuni personaggi. Resta però ancora tutto vago. Non è chiaro se Bowie abbia in mente di tornare a recitare, trentacinque anni dopo la sua performance in The Elephant Man (sembra improbabile, ma dopo THE NEXT DAY da lui ci si può aspettare di tutto). Non si capisce poi se sia impegnato solo in qualità di collaboratore al testo o anche di autore di canzoni, e, in caso, se questi brani saranno nuovi di zecca. E Ivo van Hove ed Enda Walsh sono due nomi che al di fuori del teatro d’elite dicono poco o nulla. Chi sono?
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La risposta a molti dubbi arriva in serata, quando sia Bowie.com che il New York Theatre Workshop diffondono un comunicato ufficiale. Ebbene sì, la notizia fatta filtrare dal «New York Times» è vera. Il musical è intitolato Lazarus, è stato scritto da Bowie ed Enda Walsh e andrà in scena al Nytw nell’inverno 2015 per la regia di Ivo van Hove. La trama è incentrata sul personaggio di Thomas Jerome Newton, che Bowie interpretò nel 1976 nella versione cinematografica di L’uomo che cadde sulla Terra, ma Bowie non reciterà. E infine: «Lazarus includerà canzoni composte appositamente da Bowie per questa produzione come anche nuovi arrangiamenti di sue canzoni precedentemente registrate». La notizia, com’è ovvio, desta molto interesse. Normale, quindi, che i media si avventino su Walsh e van Hove per ottenere qualche informazione in più. L’8 aprile van Hove, durante un’apparizione al programma della tv olandese The Wereeld Drait Door, rivela che le canzoni nuove sono tre e che David Bowie gli ha detto che una quarta sarà pronta la prossima settimana [quasi certamente si riferisce a Killing a Little Time, l’ultima a essere stata registrata, il 23 marzo, N.d.A.]. E sempre van Hove il 12 aprile, intervistato a Londra dalla Bbc agli Oliver Awards (dove è premiato come “miglior regista” per la sua produzione dell’anno precedente allo Young Vic di Uno sguardo dal ponte) racconta che la preparazione per Lazarus è già molto avanzata, descrivendo le nuove canzoni scritte da Bowie come “roba veramente ottima”: «Ci sono canzoni romantiche – perché le sue canzoni sono profondamente romantiche – e ci sono canzoni sulla violenza e su questo mondo orrendo che ci circonda. È di questo che parlano queste nuove canzoni». Infine, conclude van Hove, «lui non sarà in scena. Non penso che sia la cosa che gli piace fare di più nella vita. Ma per quel che posso giudicare, questo è un progetto molto importante per lui». Passa poco più di un mese e il 20 maggio il Nytw diffonde il bando per le audizioni del cast di Lazarus, a cui gli attori interessati possono rispondere fino al 6 giugno. Servono in tutto dodici attori, definiti per sesso, età, etnia e alcune caratteristiche precise. Ad esempio: per il ruolo di Elly è richiesta una “femmina” tra i “30 e i 34 anni” di “qualsiasi etnia” in grado di interpretare “una donna di poco più di 30 anni
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che ha di recente iniziato a lavorare come assistente di Newton; che ha cambiato in continuazione progetti, lavori e stili di vita, e conseguentemente vede se stessa come un costante fallimento; arrabbiata, con un umorismo maligno, è bloccata in una relazione litigiosa che in modo perverso le dà delle motivazioni; torturata, complessa e alla ricerca dell’amore, nel breve periodo andrà fuori di testa”. L’unico ruolo per cui le audizioni sono già chiuse è quello del protagonista, Thomas Jerome Newton. Su chi lo debba interpretare, il team di Lazarus ha le idee molto chiare già da qualche mese.
johan renck Il 2 aprile 2015 Bowie e Visconti iniziano a lavorare agli studi Human sulle rifiniture (vocali, soprattutto) dei brani incisi nelle tre session con la Donny McCaslin Band che – ormai è deciso – costituiranno un nuovo album. «È qui che David ha rifatto praticamente tutte le parti vocali», ha detto Visconti. L’unica eccezione è No Plan: il cantato che sarà diffuso è il medesimo effettuato da Bowie tra il 7 e il 10 gennaio al Magic Shop. Secondo la cronologia di Nicholas Pegg, i primi pezzi a essere affrontati sono Blackstar (il 2 e il 3 aprile), Girl Loves Me (16 aprile), ’Tis a Pity She Was a Whore (20 e 22 aprile) con i cori affidati all’assistente di Visconti Erin Tonkon, Lazarus (23 e 24 aprile), Sue (23 e 30 aprile) e Dollar Days (27 aprile). Di quella che sarà la scaletta definitiva dell’album manca solo I Can’t Give Everything Away, su cui Bowie ricanta parte della linea vocale il 7 maggio. Ulteriori sovraincisioni vengono effettuate per When I Met You (5 maggio), Blackstar (15 maggio), Girl Loves Me (17 maggio), Killing a Little Time (19 maggio) e la tuttora inedita Blaze (22 e 25 maggio). Per i primi di giugno, ha detto Visconti, «l’album era finito». Intorno a questo periodo, come ha raccontato Visconti a «Rolling Stone», la diagnosi di Bowie sembra migliorare: «Era ottimista perché stava facendo la chemioterapia e stava funzionando, e a un certo punto verso la metà del 2015 era in remissione. Io ero elettrizzato da questa notizia, ma lui era un po’ in ansia. Ha detto: “Be’, non festeggiamo
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troppo velocemente, vediamo cosa succede”. E ha continuato la chemioterapia. Quindi pensavo che ce l’avrebbe fatta». Il fatto che Bowie e Visconti, dopo aver lavorato su Blackstar il 2 e 3 aprile, ci ritornino su anche il 15 maggio è legato alla decisione che sarà il primo singolo, ma verosimilmente anche a un episodio più volte raccontato da Johan Renck. Lo svedese Bo Johan Renck, nato nel 1966, è stato negli anni Novanta una delle principali popstar del suo Paese, quando con il progetto Stakka Bo è arrivato ai vertici delle classifiche europee con Here We Go, un pezzo disco diventato un tormentone grazie anche all’inclusione in varie colonne sonore di serie tv, film e videogiochi. A fine millennio Renck è diventato un apprezzato e ricercato regista di videoclip musicali. Tra i più importanti da lui diretti figurano She’s in Fashion dei Suede, Black Coffee delle All Saints, Crystal dei New Order, Me Myself and I di Beyoncè, What Became of the Likely Lads dei Libertines, Hung Up di Madonna, Daniel di Bat For lashes e Blue Velvet di Lana Del Rey. Dopo i successi nel mondo della musica, Renck – che fa la spola tra la Svezia e New York, dove ha l’ufficio della propria società di produzione – ha allargato i propri orizzonti, e nel 2010 ha iniziato a dirigere episodi di importanti serie tv, quali The Walking Dead, Breaking Bad, Vikings e Bates Motel, quasi sempre con ottimi risultati. Dalla fine del 2014 il regista svedese è impegnato a dirigere i sei episodi di The Last Panthers, una coproduzione anglofrancese su una rapina di gioielli dagli sviluppi thriller con John Hurt e Samantha Morton. Le riprese hanno preso il via il precedente 27 ottobre, con location a Londra, Marsiglia, Belgrado e in Montenegro. «Quando ci stavamo avvicinando alla fine delle riprese», ha raccontato Renck a Dylan Jones, «ho deciso che volevo che qualcuno dei miei eroi dell’infanzia scrivesse la musica per la sigla d’apertura. Così abbiamo iniziato a guardarci intorno, e qualcuno ha suggerito David Bowie, ma a me non era proprio passato per la mente perché era così irraggiungibile e inverosimile». Peter Carlton, produttore della serie, l’ha così raccontata a «Hollywood Reporter»: «Volevamo qualcuno che fosse davvero iconico e che rappresentasse l’Europa, ma che fosse anche cool, il che è spesso una contraddizione in termini. Così abbiamo iniziato a lanciare idee:
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Chi? I Kraftwerk? Si sono sciolti. Be’, c’è Bowie». Il link fondamentale è l’assistente di Renck Svana Gisla, “vecchia amica” di “qualcuno” del team di Bowie a New York. Ma Renck all’inizio non è convinto: «Le ho detto, non vale neanche la pena chiederlo a uno così. Ma lei ha insistito, e il giorno dopo che l’abbiamo contattato abbiamo ricevuto una risposta che diceva che David era interessato al progetto. Penso di essermi messo a piangere». Poco dopo, Bowie contatta direttamente Renck, che si trova ancora sul set di The Last Panthers. «Ho preso la chiamata mentre stavamo girando in una prigione nel Suffolk», ha raccontato al «New Musical Express», «e abbiamo avuto una conversazione bella e intelligente. Gli ho mandato dei montati grezzi dei primi due episodi e lui li ha molto apprezzati. Ha chiesto se ci fosse qualcos’altro, così gli ho mandato il moodboard che avevo realizzato per la sigla d’apertura, in cui c’erano immagini della serie, chimere e demoni tratti dai dipinti di Bosch e Grunewald, allorché ha detto: “Tutto calza a pennello, è tutto giusto, dovremmo fare questa cosa”». A Dylan Jones, Renck ha detto che «poco dopo mi ha mandato un abbozzo grezzo della canzone che in seguito è diventata Blackstar, ma con un arrangiamento differente, in una forma molto diversa. Quando ho sentito il pezzo mi sono reso conto che era assolutamente giusto, immediatamente». L’arrangiamento molto differente fa pensare che Bowie gli abbia inviato il suo demo fatto in casa. Due giorni dopo Bowie e Tony Visconti lo contattano via Skype dal “loro studio”, probabilmente dagli Human. Possibile che questa chiamata abbia luogo dopo il lavoro di rifinitura su Blackstar del 2 e 3 aprile 2015? Il punto è che Bowie e Visconti gli fanno di nuovo sentire Blackstar, ed è presumibile che si tratti, stavolta, della versione incisa con la Donny McCaslin Band e con le nuove linee vocali di Bowie, altrimenti non avrebbe senso. Renck descrive «loro due seduti lì come ragazzini, che mi guardavano avidamente e si domandavano quale sarebbe stato il mio responso». Il regista svedese prosegue: «Poi mi sono sentito mentre gli dicevo: “Be’, la adoro, ma non mi piace la chitarra che ci avete messo sopra”. E intanto penso, cosa cazzo sto facendo? Poi vedo David e Tony che
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si guardano tra loro, e iniziano ad annuire e dicono: “Ok. Ti richiamiamo tra un’ora con un’idea diversa. Resta in attesa”. E hanno attaccato. Così ho attaccato anch’io e ho detto a mia moglie: “Cosa cazzo ho appena fatto? Mi sono messo a produrre David Bowie e Tony Visconti mentre erano nella sala di registrazione. Sono un idiota”. Ma mi hanno richiamato un’ora più tardi e mi hanno fatto sentire una nuova versione in cui avevano sostituito la chitarra con un effetto tipo violino, o qualcosa di simile a un ronzio. E ho pensato che fosse perfetta». Quanto riferito da Tony Visconti a Nicholas Pegg coincide con il racconto di Renck: «Blackstar era praticamente finita ma non ancora mixata, quando è iniziato il progetto The Last Panthers. Noi abbiamo assemblato diverse parti di Blackstar e le abbiamo usate in maniere differenti per ristrutturare i diversi temi musicali di cui aveva bisogno il regista. Abbiamo registrato delle chitarre e delle tastiere supplementari per far sì che funzionasse. Poi ho mixato tutte le differenti versioni. Questo è stato fatto nel corso di tre o quattro giorni, con costanti botta e risposta con il regista, che era in Svezia». Addirittura, in un’intervista rilasciata a Grammy.com, Visconti ha detto che «abbiamo lavorato su Blackstar per forse sei mesi, tre per le basi e altri tre per le sovraincisioni». Alla fine, la porzione di Blackstar che verrà utilizzata per i titoli di testa di The Last Panthers sarà una variazione di 45 secondi del passaggio in cui Bowie canta di “the day of execution” nella parte iniziale della canzone. Ma quello che ha sentito Johan Renck è ancora un mix provvisorio. Ora Bowie e Visconti devono dedicarsi a realizzare il mix definitivo di tutto il nuovo album.
tom elmhirst E qui succede qualcosa che Visconti verosimilmente non si aspetta: viene esautorato, in una reiterazione sicuramente più soft di quanto era accaduto nel 1975, quando fu sostituito nella fase finale di YOUNG AMERICANS.
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Siamo a fine maggio o inizio giugno 2015 quando, come ha raccontato in seguito Visconti a «Mojo», «Io e David stavamo mixando nel mio studio, e David ha detto: “Facciamolo agli Electric Lady. Quando ho lavorato con gli Arcade Fire un paio d’anni fa, ho adorato quella sala”. Ma gli Electric Lady ci hanno dato una sala analoga più piccola; la sala che David voleva non era possibile prenderla, perché Tom Elmhirst ce l’ha affittata in blocco. Lui è quello che mixa Adele, Frank Ocean, ecc. Anche se è britannico, è il numero uno degli ingegneri del mixer negli Stati Uniti. Così, noi non stavamo andando da nessuna parte nel nostro piccolo studio. Siamo andati a trovare Tom e lui si è messo a farci sentire alcuni dei suoi mixaggi più recenti. A un certo punto David mi ha preso da parte: “Ti dispiacerebbe se chiedessi a Tom di mixare l’album?”. Gli ho detto: “Fai pure”». Elmhirst ha detto a Paul Zollo di Grammy.com: «Ero nella mia sala, lo Studio C, agli Electric Lady Studios, quando Tony Visconti e David hanno prenotato la sala accanto alla mia. David è entrato nella mia sala di controllo, si è seduto e mi ha detto: “Mixeresti il mio album?”. Io ho detto: “Ma certo!”. E poi ci siamo messi al lavoro. È stato davvero facile lavorare con David. È stato incredibilmente liberatorio. Mi diceva: “Dai, forza, vai e divertitici. Fai quello che sai fare”. Io sono un appassionato di reggae e dub, e a lui piacevano quelle cose, e mi diceva: “Vai tranquillo”. Non che ci sia molto reggae o dub su BLACKSTAR, ma il suo atteggiamento era molto “fai quello fai di solito”». Chissà se in Visconti riaffiorano i fantasmi di quarant’anni prima, quando si ritrovò licenziato senza alcun preavviso, sostituito da Harry Maslin. Ma stavolta – con suo grande sollievo, si può pensare – va in modo un po’ diverso: di fatto Visconti, di concerto con Bowie, continua a supervisionare il mixaggio e a fornire i suoi consigli. «Spesso quando faccio i miei mix sono lasciato da solo», ha detto Tom Elmhirst, «senza che ci sia l’artista. Ma Tony e David sono stati molto coinvolti. Di solito venivano verso le 3 del pomeriggio e restavano per un paio d’ore. Analizzavamo le cose insieme, e poi portavano un mix con loro per sentirlo e farlo sedimentare. Era questo il processo. Qualche volta suggerivano delle modifiche nei livelli della voce. Ma un sacco dei mix non sono cambiati enormemente da quelli che gli ho consegnato, e questo è stato bello. David è stato piuttosto decisivo.
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Diceva che gli piaceva molto, ed era molto coinvolto e contento di come stavano andando i mix. Ho avuto un sacco di libertà». «Il disco è stato mixato velocemente», ha continuato Elmhirst, «forse in dieci giorni. Forse perché ho mixato la canzone Blackstar, che era stata creata da due canzoni separate, come un unico brano musicale, e ho anche mixato insieme le ultime due canzoni sull’album (Dollar Days e I Can’t Give Everything Away) come un unico brano di musica, perché una sfocia nell’altra. Ma il cantato c’era, le performance c’erano. Non ho dovuto lavorarci molto. L’intero processo è stato piuttosto indolore, perché era stato registrato e prodotto bene». Particolare attenzione, da quanto è dato capire, viene dedicata a Blackstar, perché è stata scelta come singolo di lancio, ma soprattutto perché sarà la title track e il brano chiave dell’intero album. «Blackstar è stata la prima canzone su cui ho lavorato», ha detto Tom Elmhirst. «Ci ho messo un paio di giorni, che per me è un tempo lungo. A me piace lavorare rapidamente. Ma dura dieci minuti. Aveva bisogno che le fosse data una forma. Non sono in molti quelli che fanno uscire singoli da dieci minuti. Quindi ti ci devi approcciare in modo un po’ diverso. Non puoi palesare tutto troppo presto. Devi consentire che le dinamiche naturali vengano fuori poco a poco. Quando c’è il balzo nella sezione centrale, con la voce isolata, c’è un senso di sollievo. Fino a quel punto è tutto molto controllato, e poi c’è questa grande apertura». È in questa fase che Blackstar, che in origine dura più di undici minuti, viene tagliata a 9’57”. La ragione è che Bowie ha scoperto che la politica di iTunes prevede che non si possa mettere in vendita un brano singolo che duri più di dieci minuti. «È una totale stronzata», ha detto Visconti, «ma David era irremovibile sul fatto che dovesse essere il singolo, e non voleva che ci fosse una “single version” e una “album version”, perché poteva creare confusione». Ma come sta Bowie in questi giorni, approssimativamente tra la fine di maggio e la prima metà di giugno 2015? Elmhirst, nell’intervista a Grammy.com, ha fornito le sue impressioni: «Si capiva che David non stesse bene. Non poteva trattenersi a lungo. Non aveva molta energia. Ma quando era nello studio, era incredibilmente presente, brillante e molto di sostegno. E si è divertito davvero durante tutto il processo. Credo che in altri progetti a cui lui e Tony hanno lavorato,
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i mix abbiano preso più tempo. Questo invece è stato realizzato piuttosto rapidamente, e per la soddisfazione di tutti». E soddisfatto – pare – è anche Tony Visconti, che in seguito, con grande signorilità, ha descritto il lavoro di Elmhirst come «squisito. Ha dei bassi stupefacenti e ci sono pure tutte quelle sonorità oniriche. La voce di David ha un sound favoloso». Visconti fa appena in tempo a supervisionare al mixaggio (anche se forse non lo segue fino alla fine), perché il 12 giugno deve necessariamente essere in Inghilterra, all’Isola di Wight, per la prima data di un lungo tour di quattordici date degli Holy Holy in Gran Bretagna e Irlanda che si concluderà il 30 del mese allo Shepherd’s Bush Empire di Londra, prima di una coda giapponese il 6 e 7 luglio al festival Billboard Live di Tokyo. Adesso non fanno più parte degli Holy Holy né Steve Norman, impegnato altrove con i riuniti Spandau Ballet, rimpiazzato da Terry Edwards dei Gallon Drunk, né Erdal Kizilcay, il cui posto viene preso da Berenice Scott degli Heaven 17. È verosimile che sia qualche giorno dopo la conclusione del lavoro agli Electric Lady che avviene il primo incontro de visu tra Bowie e Johan Renck, il quale nel frattempo si trova a New York, dove ha un ufficio e un appartamento privato nel quartiere di TriBeCa. Il regista svedese ha raccontato a Dylan Jones e poi al «Guardian» di aver ricevuto «un’e-mail da Bowie: “Ascolta, ho completato questa canzone; vuoi fare un salto per ascoltarla?”. Così sono andato a piedi al suo ufficio, che si trova a soli due isolati dal mio, e lui mette su questo Cd, e mi mette una mano sulla spalla e mi dice: “Ti avverto, dura dieci minuti”. Poi mi fa sentire Blackstar e mi chiede se potrei essere interessato a realizzare un video per la canzone. Non avrei potuto dire di no in nessuna maniera. Aveva questa intensità e questo sorriso coinvolgente, e ho capito che sarebbe stato un percorso interessante».
michael c. hall Alla fine di giugno 2015 arrivano due annunci che fanno discutere a lungo il mondo dei bowiani.
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Il 22 viene comunicata l’uscita, per il 25 settembre, su etichetta Parlophone, di FIVE YEARS (1969–1973), il primo di una serie di box antologici in cui saranno inclusi i nuovi remaster (Cd o Lp) degli album di studio DAVID BOWIE (alias SPACE ODDITY), THE MAN WHO SOLD THE WORLD, HUNKY DORY, THE RISE AND FALL OF ZIGGY STARDUST AND THE SPIDERS FROM MARS, ALADDIN SANE e PIN UPS e dei due live LIVE SANTA MONICA ’72 e ZIGGY STARDUST: THE MOTION PICTURE SOUNDTRACK, più il mix effettuato nel 2003 da Ken Scott di ZIGGY STARDUST. Il piatto forte del box set, quantomeno per i fan storici, è la doppia compilation RE:CALL 1, novità assoluta in cui sono raccolti i “non-album singles, single versions e B-sides” del periodo, versione bowiana dei PAST MASTERS dei Beatles. Due sole, in verità, le sorprese: la Holy Holy originale uscita su 45 giri nel 1970 e mai più ripubblicata e una versione “mono single edit” di All The Madmen inedita. Ma per chi nel corso degli anni ha dovuto raccogliere a spizzichi e bocconi tali rarità (tra cui mini-capolavori come Velvet Goldmine e Conversation Piece), l’occasione di trovarle raccolte su due Cd o Lp è ugualmente ghiotta. Non piccolo dettaglio: mentre gli altri album si potranno acquistare anche separatamente, RE:CALL 1 sarà incluso solo all’interno del box set. Mica scemi, Bowie e la Parlophone. Non si fa in tempo ad assimilare il primo annuncio che il giorno dopo, 23 giugno, viene diffuso un secondo comunicato: Il New York Theatre Workshop, sotto la direzione artistica di James C. Nicola, ha annunciato che Michael C. Hall – vincitore del Golden Globe e nominato sei volte per gli Emmy – ricoprirà il ruolo di Thomas Newton nell’imminente prima mondiale di Lazarus di David Bowie ed Enda Walsh. Le anteprime cominceranno al New York Theatre Workshop il 18 novembre 2015, prima dell’apertura ufficiale il 7 dicembre. Ulteriori dettagli creativi e di casting saranno annunciati in seguito.
Originario della North Carolina ma trasferitosi a New York negli anni Novanta per intraprendere la carriera di attore, Michael C. Hall (classe 1971) è noto al grande pubblico soprattutto per aver interpretato David Fisher e Dexter Gordon, rispettivamente nelle serie tv Six Feet
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Under e Dexter. Ma prima di questo, vanta una lunga esperienza in teatro. Nel 1999 ha ottenuto il primo ruolo in un musical di Broadway, nel Cabaret di Sam Mendes (dove interpretava il Maestro di Cerimonie). In seguito ha interpretato Billy Flynn durante il tour americano di Chicago, e John Jones nella commedia off-Broadway The Realistic Joneses. Di recente ha partecipato a Hedwig and the Angry Inch – il musical rock con musiche di Stephen Trask e libretto di John Cameron Mitchell in scena al teatro off-Broadway Belasco Theatre – assumendo il ruolo del protagonista tra il 16 ottobre 2014 e il 18 gennaio 2015. Un ruolo determinante – lo si può dare per certo – nella decisione di Walsh, van Hove, Fox e Bowie di proporgli di interpretare Thomas Jerome Newton in Lazarus. Hedwig è uno dei musical che Bowie ha amato di più in assoluto. L’ha visto in una delle prime rappresentazioni nel 1998 e ne è rimasto talmente impressionato da co-produrre una successiva messa in scena a Los Angeles nell’ottobre 1999. In quel periodo dichiarò: «Hedwig è la pièce di teatro rock più completa e soddisfacente che io abbia mai visto». Se van Hove ha avuto modo di assistere a Hall dal vivo in Hedwig nel gennaio 2015, Bowie e gli altri hanno certamente visto una qualche ripresa video della sua performance. Hall è bravo, di bell’aspetto, recita e canta bene, ed è famoso, cosa che non guasta. Non assomiglia affatto, né fisicamente, né nelle movenze, né nelle caratteristiche vocali, a Bowie. Ma questo non sembra rappresentare un problema. In seguito, Hall dirà che non è stato ingaggiato per “fare un’imitazione di Bowie”. Hall e Bowie, però, al momento in cui viene diramato l’annuncio della sua partecipazione in Lazarus, non si sono ancora incontrati. L’attore ha finora interloquito solo con van Hove, con Fox e probabilmente anche con Walsh. E non si incontreranno ancora per un bel po’: per almeno tre mesi. E intanto, il 16 luglio 2015, David Bowie Is approda a Melbourne, Australia, all’Australian Centre for the Moving Image, dove resterà fino al primo novembre.
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“i’m probably going to die” Ma Bowie deve tenere conto anche di altre questioni. Una di queste è BLACKSTAR. Il box FIVE YEARS (1969–1973) sta per uscire su Parlophone, controllata dalla Warner, ma per quanto riguarda il nuovo album si sceglie di tornare a stringere un accordo con Rob Stringer e con la Sony, anche in virtù dell’eccellente lavoro svolto per THE NEXT DAY. Si punta sul sicuro anche per la grafica e il packaging del disco, ricontattando Jonathan Barnbrook. L’artista ha in seguito raccontato a «Creative Review»: «Per quanto riguarda il coinvolgimento di Bowie nel processo, lui è strettamente coinvolto, ci sono un sacco di discussioni sui concetti sottostanti alle canzoni e sull’artwork. In questo caso ci siamo incontrati e abbiamo ascoltato l’album insieme a New York e abbiamo iniziamo a scambiarci idee. Ha tutto preso il via da qui. Questo processo è durato circa tre mesi in cui ci siamo sentiti spessissimo per e-mail. C’è tra noi – e spero di non apparire presuntuoso – una grande fiducia. Cerco di realizzare quello che lui vuole fare e di dare risposte che so che lui troverà intriganti». Una delle idee discusse – e poi approvate – è quella di usare al posto del titolo. «L’idea iniziale è venuta fuori dai confronti con Bowie sui modi di rappresentare l’album, quindi ha molto a che fare con la sua creatività e con la sua direzione», ha detto Barnbrook, «ma la discussione è stata in parte innescata da una conversazione che ebbi con William Burroughs quando lo incontrai, di cui gli ho parlato un migliaio di volte tanto per buttare là un nome importante. Gli chiesi del futuro della tipografia e lui disse che le forme delle lettere ritorneranno a essere dei geroglifici, simili a quelli degli antichi egizi. Si può vedere in effetti con gli emoji, stanno diventando molto comuni con gente che ci costruisce intere narrazioni, oltre a usarli per la comunicazione di tutti i giorni. Arriverà un giorno in cui useremo solo loro per esprimere il nostro pensiero? Comunque, per quanto riguarda questo album, era un modo per essere minimali con il titolo allo stesso modo in cui volevamo esserlo con il design e, così facendo, farlo spiccare in mezzo a tutte le altre cose che ci sono intorno. Era anche calcolato per funzionare con tutti i diversi tipi di tecnologia perché è un tipo di carattere Unicode ufficialmente riconosciuto».
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È inoltre partita– presumibilmente a metà giugno 2015 – la collaborazione con Johan Renck per il video di Blackstar. «Ha iniziato a mandarmi dei disegni sparsi, e anch’io ho mandato dei disegni a lui», ha raccontato il regista a Dylan Jones, «poi mi ha mandato una specie di finto documentario di Luis Buñuel su uno strano villaggio spagnolo sulle montagne, e io gli ho mandato un vecchio, oscuro film russo che pensavo fosse interessante. La collaborazione era straordinaria perché era una collaborazione nella forma più vera, come nulla che mi fosse capitato in passato. Ci sono sempre gli ego, c’è sempre gente che vuole avere ragione, o gente che ha bisogno di giustificare il proprio salario facendo critiche sulle cose, piuttosto che dicendo, “Questa cosa è valida, passiamo oltre”. Qui non c’era nulla di tutto questo; era proprio nel modo in cui dovrebbe essere». Sembra andare tutto a gonfie vele, quando, durante il mese di luglio, Renck viene messo a conoscenza di un fatto sconcertante. «Mi trovavo nella mia casa di campagna in Svezia e stavo girando in mutande, e lui mi manda un messaggio dicendo che ha bisogno di parlare con me via Skype», ha riferito Renck. «Così apro Skype e lui mi fa: “Devo dirti una cosa, devo dirti che sono molto malato e che probabilmente morirò”. Ed è stato uno dei momenti più assurdi e bizzarri che mi siano mai capitati. E un qualche stupido commento è uscito dalla mia bocca, tipo, “Ma cosa intendi?” o “Stai scherzando?”, perché non riuscivo ad arrivarci. E poi lui ha detto: “Ci ho pensato su e ho sentito di dovertelo dire perché non sono sicuro di poterci essere quando si girerà il video”. E mancavano due mesi allo shoot del video. Allora gli dico: “Cosa cazzo stai dicendo? Ti ho ammirato da lontano per tutta la vita, e adesso che ti ho conosciuto per davvero, improvvisamente mi dici che morirai?”. È la cosa più folle di sempre. Così questo è quello che mi dice, e poi parliamo per un po’, la conversazione diventa piuttosto seria, e a un certo punto mi dice: “È da un po’ che so questa cosa e sto facendo dei trattamenti”. Mi spiega tutto, ma da quel momento, dato che sono un tipo molto ottimista, il mio ragionamento è sempre stato che avrebbe fatto queste cure, combatterà contro questa merda, si tratterà di una battaglia, ma poi finirà tutto bene. Sinceramente non penso che me l’abbia detto solo perché così potevo attrezzarmi su cosa fare a livello pratico per il video, per trovare un rimpiazzo. Penso dav-
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vero che me l’abbia detto perché voleva che la morte fosse un terzo collaboratore per il video. Voleva che la morte fosse lì, che fosse una presenza mentre venivano formulate tutte le idee». Bowie non fornisce a Renck particolari dettagli sul suo tumore. Gli dice solo che dovrà fare dei cicli di trattamenti, il che significherà che avrà “buone giornate e cattive giornate”. Su richiesta esplicita di Bowie, Renck gli giura che manterrà il segreto (parlerà in pubblico di questa conversazione solo dopo la sua morte). Durante l’estate 2015 Bowie sente che sta perdendo la sua battaglia. L’aveva detto, del resto, a Tony Visconti di non cantare vittoria troppo presto: le cure, che per un po’ sembravano avere effetto, ora non riescono più a sgominare le cellule maligne, che hanno ricominciato a diffondersi. È in questo clima di ansia e di incertezza che arrivano due importanti ricorrenze: il 25 luglio sua moglie Iman compie sessant’anni, quindi il 15 agosto la figlia Lexi diventa quindicenne. Gli ultimi compleanni che potrà festeggiare con la sua famiglia. Nonostante ciò continua con tutta la forza che gli resta a portare avanti i progetti già avviati, che potrebbero essere i suoi ultimi in assoluto. Con il risultato che sia BLACKSTAR sia Lazarus si tingono sempre più di un palese senso di morte incombente. «Aveva detto a poche, pochissime persone della sua malattia», ha raccontato Johan Renck a Dylan Jones, «anche persone nella sua sfera ristretta non lo sapevano. A me l’ha detto perché doveva. Ovviamente la sua famiglia lo sapeva, così come i suoi stretti collaboratori, e Coco e Jimmy King e Bill Zysblat. Le nostre conversazioni vertevano su questioni che per molti versi erano collegate alla mortalità e alla morte. Lui ogni tanto mi messaggiava o chattavamo, ma questo non è per dire che ero diventato il miglior amico di David Bowie; non è per questo che lo dico. Quello che voglio dire è che a causa di quello che sapevo, c’erano conversazioni che aveva con me che magari non poteva avere con altre persone. Ovviamente su Blackstar la morte è presente con questa sorta di apparizione che viene evocata all’interno del video. Ma per me l’apparizione non è la morte; è più la malattia che bisogna combattere e con cui bisogna fare i conti, ma non è necessariamente la morte».
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Due punti fermi del video, proposti da Bowie, sono la presenza di una figura con dei bottoni al posto degli occhi denominata “Button Eyes”, e quella di una tuta da astronauta al cui interno c’è uno scheletro. «Fin dall’inizio per me era chiaro che quell’astronauta era Major Tom», ha detto Renck a Francis Whately nel documentario The Last Five Years. Sulla base del lavoro comune tra Renck e Bowie, il video di Blackstar («uno shoot di grossa portata, complicato» l’ha definito Renck, «denso e incasinato») viene girato a settembre 2015 tra Bucarest e New York. Come riferito da Nicholas Pegg, «le sequenze in cui compare David sono state completate in una singola giornata in uno studio di Brooklyn». Più o meno in quei giorni vengono contrattualizzati gli attori che affiancheranno Michael C. Hall in Lazarus, e il 17 settembre il Nytw può annunciare il cast completo del musical, che comprenderà Cristin Milioti (che ha recitato in Once scritto da Enda Walsh), Michael Esper, Krystina Alabado, Sophia Anne Caruso, Nicholas Christopher, Lynn Craig, Bobby Moreno, Krista Pioppi, Charlie Pollock e Brynn Williams. Di lì a poco si viene a sapere che Cristin Milioti interpreterà un personaggio chiamato “Elly”, mentre Michael Esper sarà “Valentine”. Viene inoltre annunciato che i biglietti per il pubblico – a partire dal 7 dicembre, data della première – saranno messi in vendita il 7 ottobre. E il 22 settembre si dà ufficialmente la notizia che Bowie «ha registrato una nuova canzone inedita che farà parte dei titoli di testa dell’imminente thriller europeo The Last Panthers», sottolineando che è la prima volta in vent’anni che Bowie realizza della musica appositamente per il cinema o la tv. Per il momento, però, non vengono forniti ulteriori dettagli sul brano – che sembrerebbe, da come viene descritto, un’incisione solitaria ed estemporanea, alla Sue – di cui non si conosce ancora il titolo. Soltanto il 2 ottobre vengono diffusi i primi trailer contenenti la sezione di Blackstar in cui Bowie canta, su un sottofondo funereo, “on the day of execution only women kneel and smile”, e quindi il 6 ottobre viene comunicato che la canzone si chiama appunto Blackstar. Considerando che tre giorni dopo viene pubblicato il box set FIVE YEARS (1969–1973), è un momento in cui dall’esterno Bowie sembra più vitale che mai e attivissimo su più fronti. Anzi, nel frattempo si dif-
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fonde il rumor secondo cui avrebbe scritto una canzone inedita anche per il musical su SpongeBob SquarePants che è in preparazione a Broadway. Voce, però, prontamente smentita: Bowie ha solo concesso ai produttori dello spettacolo l’autorizzazione a usare il vecchio brano No Control, inciso nel 1995 con Brian Eno. Nulla traspare della tragedia che si sta consumando dietro le quinte. I biglietti per Lazarus vanno esauriti nel giro di poche ore. Si decide pertanto di estendere il calendario delle rappresentazioni fino al 17 gennaio 2016 per soddisfare tutte le richieste (ci sarà poi un’ulteriore estensione fino al 20 gennaio). Il 20 ottobre 2015 al Nytw iniziano le prove generali con il cast, annunciate dal teatro con il tweet “It’s gonna be a good day #firstrehearsal #lazarusnytw”. Dureranno quasi un mese, fino al 18 novembre, quando è prevista la prima di fronte a un pubblico selezionato. Bowie, nonostante i problemi di salute sempre più visibili, farà talvolta capolino durante le prove, sebbene non così spesso come in seguito qualcuno ha detto. «Veniva quando poteva», ha raccontato van Hove. «Qualche volta mi mandava un’e-mail – “Ho avuto una brutta giornata” – ma è stato molto vicino a tutto il processo». «Il lavoro è stato ottimo e lavorare con lui è stato meraviglioso», ha detto Robert Fox, «ma non è stato bello il fatto che non stesse bene. Ci sono stati dei giorni in cui non è potuto venire, però quando poteva, la malattia non ha mai interferito con il suo contributo. È stato orribile per lui, piuttosto che difficoltoso per noi». Circa un mese prima Michael C. Hall e David Bowie si sono incontrati per la prima volta, probabilmente nell’appartamento nell’East Village di Henry Hey. «Ero molto nervoso all’idea di incontrarlo», ha detto a Paul Trynka di «Mojo», «ma una volta che ha fatto il suo ingresso è stato come se mi avesse dato il permesso di rilassarmi. La sua presenza era magica, in molti sensi». Tuttavia, la prima volta che gli è capitato di cantare di fronte a lui, ha raccontato Hall al «Guardian», «ho sentito le farfalle nel mio stomaco che diventavano pipistrelli. E Bowie ha detto: “Adesso canta le mie canzoni per me”. In altre parole, stava evidenziando l’assurdità di quel momento, una cosa che ho davvero apprezzato. Penso che ce la mettesse tutta per far sentire la gente a proprio agio. Era così generoso e gentile».
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Quel giorno, Hall ha cantato Where Are We Now? rivolto verso Henry Hey che lo accompagnava al piano, e solo arrivato alla fine dell’ultimo verso si è reso conto che per tutto il tempo c’era stato un coro supplementare alle sue spalle. Si è voltato e ha visto Bowie, con gli occhi chiusi, impegnato a cantare a bassa voce, evidentemente trasportato dall’esecuzione. «E lì ho pensato», ha raccontato al «Guardian», «è fatta. Non ho più nulla di cui aver timore. E quella è stata una giornata fantastica. Ho mantenuto il controllo, ma quando lui se n’è andato, ero da solo nell’appartamento e le mie gambe hanno ceduto, sono quasi caduto sul pavimento». In seguito, ha detto Hall a «Mojo», Bowie gli darà dei consigli specifici solo su Killing a Little Time: «C’è il verso in cui dice “the monster fed, the body bled”… e Bowie ha detto: “È un verso un po’ maldestro, ma volutamente. E bisogna cantarlo come se tutto il mondo meritasse queste stronzate, bisogna sputarle fuori proprio così”. È stata probabilmente l’unica nota di recitazione che mi ha dato, ma è stata assolutamente brillante». Enda Walsh ha detto che Bowie «era molto presente durante le prove. Entrava e usciva, parlavamo spesso al telefono». E Cristin Milioti ha raccontato: «Ho dovuto spegnere una parte del cervello, credo, la prima volta che mi sono trovato in una stanza con lui e ho cantato le sue canzoni. Ma lui era così piacevole ed entusiasta del progetto, e di conseguenza un po’ di questa faccenda dell’icona rock è stata disinnescata». Nessuno al Nytw sa che Bowie è malato, tranne il gruppo ristretto composto da Robert Fox, Enda Walsh e Ivo van Hove. Non lo sanno gli attori, non lo sanno i musicisti e non lo sa la coreografa Annie-B Parson del gruppo newyorkese Big Dance Theater, che durante le prove lo nota discretamente seduto da una parte, vestito in maglione grigio e camicia bianca, mentre prende appunti con una matita su un pezzo di carta, le gambe costantemente accavallate. Bowie non interviene mai direttamente, ma il team creativo riceve il suo feedback e i suoi suggerimenti alla fine della giornata. L’impressione è che Bowie dissimuli, e ostenti ottimismo, anche di fronte alle persone più care. «Non stava bene ma non si lamentava», ha detto Robert Fox al «Times» di Londra. «Stava per iniziare un
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nuovo trattamento sperimentale che aveva avuto successo su altre persone. Era ottimista sulla possibilità che gli avrebbe potuto prolungare la vita, nella speranza che nel corso del tempo sarebbero venuti fuori trattamenti nuovi e migliori». Come tutto ciò che riguarda Lazarus, anche le prove sono top secret, fatta eccezione per alcuni incontri organizzati con rappresentanti della stampa, utili per creare interesse intorno all’evento ormai prossimo. L’articolo pubblicato dal «New York Times» il 10 novembre dal titolo Una visita al mondo bizzarro e riservato del Lazarus di David Bowie è una di queste rare eccezioni. Solo il 2 dicembre fuoriescono delle foto scattate – da Jan Versweyveld, scenografo e compagno di van Hove – durante le prove. Le pubblica Vulture.com e tra di esse, oltre a immagini del cast in azione, ce n’è una che ritrae Bowie in un momento di ilarità. Tre giorni dopo l’inizio delle prove di Lazarus, Will Hodgkinson sul «Times» fa filtrare la notizia di un “nuovo album di Bowie di cui tutti stanno parlando”, intitolato BLACKSTAR, la cui uscita sarebbe programmata per l’8 gennaio 2016, a coincidere con il sessantanovesimo compleanno del Duca Bianco (in una sorta di simmetria con il disvelamento di Where Are We Now? avvenuto l’8 gennaio 2013), registrato al Magic Shop di New York con dei “musicisti jazz locali”. Per una volta non sembrerebbe un leak voluto e istigato dalla Isolar o dalla Sony, ma piuttosto un’informazione fornita da qualche insider e sfuggita al controllo. Il 25 ottobre il rumor viene sì confermato da DavidBowie.com, ma solo in questi termini: è vero, Blackstar è il titolo sia del nuovo singolo sia del nuovo album di Bowie. Il singolo – la stessa canzone in parte usata per la serie tv The Last Panthers – sarà pubblicato il 20 novembre e non ha nulla a che vedere con Lazarus. L’album sarà pubblicato l’8 gennaio 2016. La notizia è accompagnata da una nuova foto di Bowie ritratto dal solito Jimmy King, in cui indossa una giacca bianca e una camicia ugualmente candida con una stella nera sul colletto. Si potrebbe obiettare sul taglio e sulla tinta dei capelli, in stile New Romantic anni Ottanta, ma l’impressione che dà è quella di un uomo che porta egregiamente gli anni che ha.
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“commencing countdown, engines on” «A novembre il tumore è improvvisamente ritornato», ha raccontato Tony Visconti a «Rolling Stone». «Si era diffuso su tutto il corpo, non c’era più possibilità di guarigione». E Ivo van Hove, contattato proprio quel novembre via Skype da Bowie, viene informato su quanto è diventato critico il suo stato di salute. «È stato immediatamente chiaro che la cosa era molto seria», ha detto il regista al «Guardian». Van Hove in seguito rivelerà alla radio olandese che Bowie gli ha parlato, entrando nel dettaglio, di un “tumore al fegato”. Su esplicita richiesta di Bowie, non ne dovrà far menzione con il cast dello spettacolo: «una confidenza è una confidenza», ha detto van Hove. Del team di Lazarus ne è al corrente certamente Robert Fox, ma non Enda Walsh. In questo frangente Bowie interrompe la chemioterapia. Non ha più senso continuare. Proverà una nuova cura sperimentale, ma adesso è chiaro che difficilmente ce la farà. Quello che non sa è quanto tempo gli rimane. Sono giorni senza dubbio drammatici, ed è paradossale che contemporaneamente siano anche quelli del suo massimo trionfo. L’11 novembre 2015 iniziano ad apparire in strada, in grandi metropoli quali Londra, Parigi e New York, i manifesti pubblicitari di Blackstar, con la grafica disegnata da Jonathan Barnbrook, e due giorni dopo viene diffuso un teaser di trenta secondi del video girato da Johan Renck. Il 18 novembre, di fronte a un pubblico selezionato, va in scena la preview di Lazarus al Nytw. E il giorno dopo è disvelato il video, della durata di quasi dieci minuti, di Blackstar. Quello che è ormai uno dei videoclip più visti di tutti i tempi (al momento ha 35,5 milioni di visualizzazioni solo su YouTube), si apre con la visione del cadavere ridotto a teschio di un astronauta, nel mezzo di un paesaggio spettrale su cui campeggia una stella nera. Si tratta evidentemente di Major Tom, l’alter ego di Bowie che in Space Oddity sceglieva di isolarsi dal mondo, in Ashes to Ashes confessava la sua tossicodipendenza e che ora è passato a miglior vita. Quando appare nel video, Bowie è nei panni del personaggio Button Eyes, con una benda e due bottoni al posto degli occhi, tremebondo, come del resto i tre ragazzi che lo af-
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fiancano. È la paura, anzi il terrore, della morte. Quello che scorre nel filmato è il cerimoniale funebre di una civiltà pre-cristiana (o, comunque, pre-religioni organizzate), con il teschio che viene ingioiellato e il rito della candela che si erge “al centro di tutto”. Il video è carico di simboli: la ragazza con la coda – Renck ha rivelato che fu Bowie a volere la coda, spiegando vagamente che «è qualcosa di sessuale» – che chiude il teschio dell’astronauta in una teca come fosse una reliquia, lo scheletro del defunto che fluttua verso la stella nera, le ragazze che ballano tremolanti disposte in cerchio. E poi Bowie che appare nella guisa di un secondo personaggio, l’Imbroglione Messianico. Si tratta di un predicatore, un profeta, un emissario della Stella Nera o, chissà, magari proprio la Stella Nera. Lo stesso giorno emergono tutti i dettagli sull’album: la tracklist, l’artwork, i nomi dei musicisti e di tutti coloro che vi hanno partecipato. E mano a mano, sulle principali testate musicali e non, iniziano ad apparire interviste a Tony Visconti, a Jonathan Barnbrook, a Donny McCaslin e agli altri musicisti, congiuntamente a ulteriori dettagli sulla registrazione e sulle singole canzoni. Bowie in queste settimane è ovunque, ed è più celebrato, amato e rispettato che mai. Anziano, affaticato e malato, sarebbe pienamente giustificato se si godesse a distanza gli effetti che stanno avendo tutti questi suoi prodigiosi coup de théâtre. Invece no. Ha ancora un lavoro da portare a termine. L’ultimo in assoluto di tutta la sua carriera artistica. E in quel fatidico novembre del 2015 gira, di nuovo insieme a Johan Renck, il video di Lazarus, brano che ha la funzione di essere il collegamento tra BLACKSTAR e il musical, due opere distinte ma che in effetti parlano della stessa tematica. Le riprese hanno luogo nello stesso studio di Brooklyn in cui sono state girate le sue scene di Blackstar. Renck ha detto di aver scoperto solo in seguito che «proprio prima che girassimo il video di Lazarus, David aveva ricevuto indicazione da parte dei suoi dottori di terminare le cure, non c’è più nulla che si possa fare, è la fine. Quindi sapeva di dover morire quando stavamo girando il video. Ma io ovviamente non lo sapevo». Eppure a Renck quel giorno sembra che Bowie sia di buon umore durante le riprese. Si stanca spesso e ha bisogno di fare delle pause, ma appare sereno. È una “buona giornata”, evidentemente.
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A differenza del video di Blackstar, che era stato frutto di una collaborazione, le idee per Lazarus sono quasi tutte farina del sacco di Renck. Sua è l’idea di riutilizzare il personaggio di Button Eyes, come anche quella di farlo risorgere dal letto di morte. «Ho semplicemente fatto riferimento al racconto biblico di Lazzaro che si solleva dal letto», ha raccontato il regista, «anche se con il senno di poi Bowie l’ha visto come il racconto delle ultime notti di un moribondo». Ma c’è anche spazio per l’improvvisazione, secondo quanto Renck ha raccontato a «Rolling Stone»: «Qualcuno sul set ha detto, “Dovresti terminare il video con Bowie che sparisce nell’armadio”. E ho visto David che ci ha pensato su per qualche secondo. Poi ha fatto un grande sorriso. E ha detto qualcosa del tipo, “Ma sì, questa cosa li farà tutti scervellare”». Il 7 dicembre 2015 viene annunciato che Sue (Or in a Season of Crime) è stata nominata ai Grammy nella categoria Best arrangement, instruments and vocals (opera di Maria Schneider). Ma il 7 dicembre è innanzitutto il giorno della première del musical Lazarus al New York Theatre Workshop di New York. La presenza di Bowie è in dubbio fino all’ultimo minuto. Il team creativo (Fox, Walsh e van Hove) non ci spera più di tanto, date le recenti notizie sul suo stato di salute. E quindi restano tutti piacevolmente sorpresi quando, all’approssimarsi dell’inizio della rappresentazione, lo vedono arrivare in teatro accompagnato da Iman e da Coco Schwab e prendere posto nell’area riservata, non distante da Tony Visconti e Kristeen Young, e da Susan Sarandon, tra i vari vip presenti. Tra gli spettatori c’è anche Michael Cunningham, che qualche tempo prima, passando davanti al Nywt, aveva visto il manifesto di Lazarus. «Stranamente la cosa non mi infastidì», ha scritto nel racconto pubblicato da La Nave di Teseo. «Vedere il manifesto, rendermi conto che David era andato avanti con un altro autore, fu come incontrare un amore del passato al braccio del nuovo compagno, e capire che avevi smesso di sentire la sua mancanza da così tanto tempo che ora non potevi che essere felice per lui. Quella sera scrissi a David, gli dissi che ero felice che il nostro progetto non solo era sopravvissuto, ma si era evoluto, e che mi sarebbe piaciuto andare alla prima. Rispose che anche a lui avrebbe fatto piacere».
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«È stato strano», ha detto Robert Fox al «Telegraph», «guardare Lazarus, il musical, per la prima volta sulla scena, sapendo che David non stava bene, e sapendo che le altre duecento persone tra il pubblico, che non ne erano a conoscenza, lo stavano guardando in una luce differente. È molto più chiaro adesso con la scomparsa di David, perché Lazarus parla di questo poveruomo che non vuole morire, che vuole tornare indietro al suo pianeta e trovare pace». Secondo Michael Cunningham, «Il Lazarus del Nywt ricordava il nostro musical solo perché aveva come protagonista un alieno. Gran parte della colonna sonora proveniva dai precedenti album di David, e i nuovi brani non c’entravano nulla con i riff che avevo visto creare. Non era molto chiaro, almeno vedendo lo spettacolo, da dove venisse il titolo Lazarus, o comunque non era chiaro per nessuno, tranne che per me». Al termine dello spettacolo Bowie, incoraggiato dal cast, si alza e sale sul palco a ricevere la meritata ovazione del pubblico insieme a van Hove, a Walsh, a Hall e agli attori. Vengono scattate delle foto in cui Bowie – vestito con un blazer e una T-shirt – appare un po’ invecchiato e dimagrito, ma nulla più. E invece, dietro le quinte, si è rasentato il dramma. «È stato scritto che stava bene, che è apparso in salute», ha in seguito rivelato van Hove, «ma poi, nel retropalco, è collassato dalla stanchezza. È stato allora che ho capito che sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei visto». Enda Walsh ha dichiarato: «Non ero pienamente a conoscenza di quanto male si fossero messe le cose fino alla serata d’inaugurazione al New York Theatre Workshop. È allora che ho pensato, “Oh mio Dio, sta male, sta decisamente male”». «Aveva un aspetto bello e fragile e si è comportato come sempre in modo impeccabile», ha detto Robert Fox a «Vogue», «e nonostante il forte dolore che aveva si è unito al cast per l’applauso finale per la gioia di tutte le persone presenti. Poi è sgusciato via verso casa mentre tutti gli altri hanno festeggiato al party della serata inaugurale». Ha raccontato ancora Cunningham in Space Oddity: l’ultimo progetto segreto di David Bowie: «Alla fine aspettai David nel teatro. Quando emerse dal backstage era quasi irriconoscibile: pelle e ossa, enormi occhi nel volto scavato, respiro faticoso. Sembrava invecchiato di trent’anni da quando l’avevo visto l’ultima volta. Ci sedemmo insieme su due poltrone del teatro, solo per un minuto. Gli dissi che ero
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contento che la nostra idea non fosse del tutto svanita. Annuì. Gli presi la mano. La strinse, in risposta. Dopo un momento, una donna venne a prenderlo per portarlo fuori dal teatro». La sera stessa, Duncan Jones twitta da Los Angeles: «Sono tanto, TANTO orgoglioso di papà e di tutto il team di Lazarus! Una meravigliosa, unica gemma nel mondo del teatro». La mattina dopo, le recensioni sono positive («Teatro musicale come nulla che sia caduto prima sulla Terra», scrive «Newsday») sebbene qua e là si legga qualche critica per via della scarsa decifrabilità del testo («Non si vede l’ora che gli attori smettano di parlare e tornino a cantare» è uno dei commenti del «New York Times»). Bowie comunque ha di che essere soddisfatto: il “suo” musical – il sogno di tutta una vita, su cui aveva fantasticato fin dai lontani anni Settanta – è alfine stato varato e d’ora in poi vivrà di vita propria e potrà essere rappresentato, in futuro, da qualunque compagnia teatrale lo vorrà. C’è tempo, il 9 dicembre, per incontrare un’ultima volta Robert Fox, che ha raccontato al «Telegraph»: «Prima di andarmene da New York sono andato a trovarlo a casa sua. Ha parlato in termini ottimistici del futuro di Lazarus, e del nuovo trattamento che stava per iniziare, e non ha mai, neanche per una volta, mostrato un pizzico di autocommiserazione o di rimpianto. Sapevo che sarei potuto restare solo poco tempo, e quindi, quando mi sono alzato per andarmene, dal vero gentleman che era, si è alzato anche lui e mi ha accompagnato alla porta. Mi ha detto, “Sei un genio ad aver portato in scena Lazarus in così poco tempo”, e io ho detto, “No, io sono un facilitatore; tu sei un genio”. Abbiamo riso, ci siamo abbracciati e io ho realizzato, mentre tornavo a piedi verso l’East Village, che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrei visto David su questa Terra». Gli eventi si susseguono uno dietro l’altro, senza freno. L’11 dicembre 2015 la mostra David Bowie Is apre al Groninger Museum di Groningen, Olanda. Il programma prevede che vi resti fino al 13 marzo 2016 (ma sarà prolungata fino al 10 aprile, causa la massiccia richiesta di biglietti). Il 14 dicembre viene annunciato che il prossimo singolo tratto da BLACKSTAR sarà Lazarus, l’unico brano dell’album che fa parte anche
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del musical. Il download è reso disponibile dal 18 dicembre, ma già il giorno prima viene diffuso il preascolto trasmesso allo show di Steve Lamacq su Bbc6 Music. E il 17 dicembre Michael C. Hall appare allo Steve Colbert Show sulla Cbs dove interpreta, accompagnato dalla band diretta da Henry Hey, la propria versione del brano. Arriva Natale, trascorso con gli affetti. Iman, Lexi, forse pure Coco. E sicuramente anche Duncan e Rodene, che hanno una notizia da comunicare: David Bowie sta per diventare nonno; Rodene è incinta e partorirà ai primi di luglio. Qualche mese dopo, Duncan diffonderà il disegno che ha regalato al padre in quella circostanza, con la caricatura di un bimbo attaccato al cordone ombelicale che reclama: “Sto aspettando”. Terminano le feste e si entra nel 2016. Secondo quanto poi raccontato da Visconti a «Rolling Stone», intorno a Capodanno Bowie lo contatta via FaceTime per dirgli che vuol fare un altro album. Pare infatti che nelle ultime settimane abbia scritto e registrato i demo di cinque pezzi, e abbia voglia di tornare in studio per inciderli. «In quei giorni finali, stava pianificando il seguito di BLACKSTAR», ha detto Visconti, «e io ero entusiasta. E ho pensato, e lui ha pensato, che avesse almeno qualche altro mese, perlomeno. Ovviamente, se aveva voglia di fare un nuovo album, deve aver pensato di avere qualche mese in più. Quindi, la fine dev’essere stata molto rapida. Non conosco i dettagli, ma si dev’essere ammalato molto in fretta dopo quella chiamata telefonica». Visconti, fra l’altro, è indisponibile durante le prime settimane del 2016: a giorni si dovrà unire a Woody Woodmansey e agli Holy Holy per il loro primo tour negli States (undici date in tutto) che partirà il 7 gennaio da Portland in Maine e si concluderà il 21 del mese a Boston. Con una particolarità: la seconda data del tour si terrà l’8 gennaio allo Highline Ballroom di New York, ovvero a pochi passi da Lafayette Street e il giorno del sessantanovesimo compleanno di Bowie. Possibile che si tratti solo di una coincidenza? Possibile che Visconti abbia voluto suonare proprio lì, proprio quel giorno, nella speranza che il suo vecchio amico lo possa venire a vedere per festeggiare tutti insieme? Il 7 gennaio viene diffuso il video di Lazarus, che crea sconcerto sia per la crudezza delle immagini di Bowie/Button Eyes che si agita nel
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letto di morte sia per le strofe lugubri e cupe: “Look up here, I’m in heaven / I’ve got scars that can’t be seen / I’ve got drama, can’t be stolen / Everybody knows me now”. E l’indomani BLACKSTAR (o ) viene commercializzato sia in formato digitale che fisico, con quell’enorme stella nera che campeggia su sfondo bianco in copertina. È, in sostanza, un disco rock suonato da musicisti jazz d’avanguardia. «THE NEXT DAY era iniziato cercando di provare a fare qualcosa di nuovo, ma qualcosa di vecchio ha continuato a intrufolarsi» dice in quei giorni Tony Visconti a «Mojo». «Non quest’album. David ha utilizzato appositamente Donny affinché non succedesse. Se avessimo usato i precedenti musicisti avremmo avuto dei rocker che suonano jazz. Avere dei jazzisti che suonano musica rock ha messo tutto a soqquadro. Il loro approccio è stato così rinfrescante!». Nel corso della giornata DavidBowie.com e tutti i social bowiani diffondono una foto nuova di zecca di Jimmy King, in cui Bowie compare con un largo sorriso sul viso, elegante in giacca e cravatta e con un cappello fedora in testa (in seguito ne appariranno altre due realizzate nella medesima seduta, proprio sotto casa sua). «Come mai quest’uomo è così contento?» si legge nel post. «Sarà perché è il suo sessantanovesimo compleanno o perché oggi ha pubblicato il suo ventottesimo album di studio ed è una bomba? Chi lo sa, ma siamo sicuri che vorrete unirvi a noi nel congratularci con lui per entrambe le cose. Tanti, tanti auguri a David Bowie e a ». Sul momento nessuno ci fa caso, ma quello di Bowie nella foto sembra quasi un sorriso di sfida (nei confronti della malattia?). Quella sera gli Holy Holy suonano in uno Highline Ballroom stipato. Settecento spettatori, ma il biglietto omaggio per Bowie è rimasto al botteghino, nessuno è passato a ritirarlo. Ha raccontato Woody Woodmansey nella sua autobiografia: «Dopo che abbiamo suonato interamente THE MAN WHO SOLD THE WORLD, Tony ha fatto il suo consueto discorso di metà set sulle sedute di registrazione di tutti quegli anni fa, con alcuni aneddoti sul lavoro con Mick, David e me, che il pubblico apprezzava sempre. Poi ha sorpreso tutti noi, e Bowie, quando ha detto: “Facciamo una telefonata a Bowie”, al che il pubblico ha lanciato un grido di esultanza. Bowie ha risposto e Tony ha
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detto: “Siamo sul palco dello Highline in questo momento”. Quindi ha chiesto al pubblico di cantare Happy Birthday, e l’hanno fatto con entusiasmo mentre Tony teneva in alto il telefono per farlo sentire a Bowie. “Grazie” ha detto David, e poi ha aggiunto, “Chiedigli cosa ne pensano di BLACKSTAR”. Tony ha riportato la domanda e un altro grido di giubilo si è levato dal pubblico. “Buona fortuna con il tour” ha detto Bowie, e ha attaccato. È stato un bel momento e ho pensato che fosse stato molto carino da parte sua fare questa cosa». (Per la verità, sulla base dei video postati su YouTube, si vede solo Visconti che compone chissà quale numero mentre la folla, incoraggiata da Glenn Gregory, canta Happy Birthday, e non si sente affatto la voce di Bowie, ma è bello pensare che sia andata come la racconta Woodmansey.) Il giorno dopo chissà se Bowie fa in tempo a vedere che BLACKSTAR (o ) è fin da subito l’album numero 1 su Amazon Uk e numero 2 su Amazon Us, e che inoltre, nella classifica mondiale di iTunes, si trova al numero 2. Perché il giorno ancora successivo è il 10 gennaio 2016.
6 lost in streams of sound (2016-…)
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10 gennaio 2016 «David Bowie è morto in pace oggi circondato dai suoi familiari dopo una coraggiosa battaglia di diciotto mesi con il cancro. Mentre molti di voi condivideranno il lutto, vi chiediamo di rispettare la privacy della famiglia in questo momento di dolore». (DavidBowie.com)
Lo shock della notizia, successivamente confermata con un tweet da Duncan Jones, è amplificato dal fatto che è assolutamente inattesa. Se fosse arrivata tre anni prima, quando tante voci davano Bowie per debilitato, stanco e malato, forse verrebbe assorbita con più facilità. Ora, invece, lascia scombussolati, increduli e in qualche modo anche arrabbiati, se si pensa che appena due giorni prima è stato pubblicato e diffuso il video di Lazarus, e che il 7 dicembre scorso la star aveva presenziato alla première del suo musical, salendo perfino sul palco con il cast a fine performance. Per non parlare della “foto del compleanno” di Jimmy King, quella in cui Bowie guarda in camera e sorride beffardo: si fa fatica – a tutt’oggi – ad associare quell’immagine a una “battaglia di diciotto mesi con il cancro”. Forse è anche per questo che l’onda emotiva che si alza dopo l’annuncio diventa man mano un vero e proprio tsunami. Facebook e Twitter sono i primi a deflagrare quasi subito con una profusione di ricordi, commemorazioni e “R.I.P.” a tutto spiano. A New York i fan si riversano commossi sotto il palazzo di Lafayette Street, a Berlino si dirigono verso la Hauptstrasse, dove Bowie ha vissuto a fine anni Settanta, a Londra si ritrovano a Brixton, dove è nato, e a Heddon Street, dove furono scattate le iconiche foto dell’Lp ZIGGY STARDUST. A Los Angeles viene creato un tempio di immagini e di fiori intorno alla stella dedicata a Bowie sull’Hollywood Boulevard. Le radio non trasmettono altro che canzoni di Bowie. Le tv, tra un servizio mono-
DAVID BOWIE. L’ARTE DI SCOMPARIRE
grafico e l’altro, fanno altrettanto. David Bowie Is a Groningen diventa da un giorno all’altro una sorta di santuario per il pellegrinaggio di migliaia di bowiani in lutto, tanto che nel giro di qualche giorno si decide di estendere la mostra di ulteriori quattro settimane, fino al 10 aprile 2016. Un’ondata di commozione fortissima – assai più di quanto ci si potesse aspettare – che dura per settimane e poi per mesi, senza dare l’impressione di diminuire. Si cercano paragoni con casi analoghi del passato, ma in definitiva se ne riescono a trovare solo due: l’omicidio di John Lennon nel 1980, che pure ebbe un impatto globale considerevole, ma poi soprattutto – per via dell’elemento irrazionale della faccenda, che coinvolge perfino quanti fino al giorno prima non sapevano nemmeno chi fosse David Bowie – la morte della Principessa Diana in un incidente stradale a Parigi nel 1997. E così è nel momento del trapasso che Bowie ottiene il suo massimo trionfo. La sua morte, come nel film di Darren Aronofsky The Fountain, libera energie vitali straordinarie, come nemmeno lui avrebbe osato immaginare. “Everybody knows me now”, aveva cantato in Lazarus. È vero: adesso lo conosce proprio chiunque. Come i Beatles e addirittura più di Elvis, il suo idolo assoluto, uno alla cui fama e grandezza aveva sempre aspirato. Anche coloro che in precedenza non erano stati mai toccati dalla sua musica hanno improvvisamente una o due o anche più canzoni preferite di David Bowie, tanto è vasto e variegato il suo catalogo discografico. Non è solo per via dell’emozione del momento, poi, che arriva a essere considerato, nel corso del tempo, uno dei cardini della sua discografia, uno dei dischi imperdibili al pari di quelli dell’epoca glam e della trilogia berlinese. Vende tanto: circa due milioni di copie, che per i tempi che vive il music business non sono proprio noccioline. E anche la stampa è concorde sul suo valore, tanto è vero che a fine 2015 compare in cima alle liste annuali di quasi tutte le più importanti testate. Grazie a , Bowie torna anche a vincere dei Grammy: nel 2017 gli vengono assegnati i premi per Best Alternative Music Album e per Best Recording Package. “Non male per un vecchio rocker”, avrà pensato sicuramente Bowie, ovunque egli si trovi.
E tutti, quel 10 (o 11, in Europa) gennaio, sono improvvisamente in grado di fare due più due, e di ricollegare il travaglio interiore di Bowie in questi ultimi mesi alle tematiche toccate in e nel musical Lazarus. Riascoltare fa ora un effetto totalmente diverso rispetto a ventiquattr’ore prima. Adesso è chiaro che quelle canzoni sono il testamento di Bowie, le ultime comunicazioni di una stella morente. Altresì, adesso si va a vedere Lazarus al New York Theatre Workshop – e poi, dall’8 novembre 2016 al 22 gennaio 2017, al King’s Cross Theatre di Londra – nella consapevolezza che si tratta di un lavoro profondamente autobiografico, e che ora è forse possibile dare un senso a ciò che fino a qualche giorno prima era stato definito “oscuro” e “indecifrabile” dal «New York Times». È ovvio che Thomas Jerome Newton, l’alieno che passa le sue giornate da recluso nell’appartamento di Manhattan contornato da ricordi, che non può tornare nel suo pianeta ma non può neanche morire, “alla ricerca di pace”, non è che una metafora di come doveva sentirsi David Bowie più o meno da metà 2007, quando iniziò a scomparire dalla vita pubblica. E tutto ciò che avviene intorno a lui è un sogno – o piuttosto un incubo – che ha luogo nella sua mente tormentata, in cui ciascun personaggio va interpretato in chiave metaforica. Michael, il vecchio amico di Newton – quello che nella prima scena, quando lo va a trovare a casa, gli chiede: «E cosa fai tutto il giorno qui? Leggi tutti i libri che hai sempre desiderato leggere?» – rappresenta il glorioso passato da Dio del Rock di Bowie, da Ziggy Stardust al Reality Tour, un’epoca che il protagonista sente ormai lontana. Le vecchie foto, come quella che Michael gli mostra, gli danno perfino fastidio, tanta è la distanza, ormai, tra quei tempi e la sua attuale realtà. Il “killer seriale” Valentine sembra essere l’incarnazione del cancro, della malattia e, in generale, di tutto il male che c’è nel mondo. La sua prima vittima è Michael, ovvero, traslando, il “Bowie entertainer”, stroncato per sempre dal quasi fatale infarto a Scheeßel nel 2004. Poi ci sono Ben e Maemi, una coppia di giovani innamorati che stanno per sposarsi, e la mente non può non andare a Duncan e a Rodene, soprattutto nel momento in cui i due subiscono un violento attacco da parte di Valentine (vedi: il tumore, poi sconfitto, che ha aggredito Rodene). In questa pièce intrisa di pessimismo cosmico, la Ragazza quindicenne che appare a
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Newton (o che forse è solo nella sua testa) e il cui ruolo è quello di aiutarlo a lasciare questa terra costruendo un simbolico razzo, rappresenta la Speranza. È abbastanza evidente come Bowie abbia scritto questo personaggio avendo in mente Lexi, ed è forse questa la ragione per cui non ha voluto che sua figlia vedesse, in alcun modo, nessuna rappresentazione di Lazarus. Tanto più che un dialogo tra Newton e la Ragazza (che poi, si viene a sapere, si chiama Marley) sembra un ricordo tratto dalla vita reale, forse qualcosa che padre e figlia si sono davvero detti tra i paesaggi montani della casa sulle Catskill: «Avevi una figlia della mia età», dice la Ragazza a Newton. «Eravate soliti fare delle passeggiate insieme, camminavate verso questa collina vicino alla vostra casa e una volta raggiunta la cima della collina vi sedevate nello stesso punto e guardavate il cielo che si riempiva di stelle. Tu inventavi delle storie sui viaggi nello spazio e quando ti interrompevi un attimo, tua figlia ti diceva: “Continua a parlare un altro po’, così possiamo continuare a viaggiare”». Restano ancora diversi punti oscuri. Che senso dare al personaggio di Elly, l’assistente di Newton, infelicemente sposata con l’informatico Zach? A prima vista potrebbe entrarci qualcosa Coco Schwab, che di Bowie è stata l’assistente personale prima di diventare amica, confidente e quant’altro, ma l’impressione è che Elly sia metafora di qualcosa di più vasto e complesso, considerando inoltre che il personaggio era nato come “Emma”, ovvero, una donna che “pensa di poter essere Emma Lazarus, una donna che in questo caso vuole aiutare e si innamora del più immigrato degli immigrati: Thomas Newton”. Forse, quindi, Elly rappresenta una sorta di America mitica che accoglie e coccola chi si rifugia da lei, una nazione vista, oggi, in piena crisi di identità. Ma è solo una delle tante ipotesi possibili. Manca, peraltro, un “interesse romantico” femminile in Lazarus (Elly per Newton non ha questa funzione). Metaforicamente, “non c’è Iman”, il che pare strano, perché tutti gli altri affetti di Bowie sono in qualche maniera presenti. C’è, invece, in effigie, un amore del passato remoto di Newton, la Mary Lou con cui aveva convissuto nel prequel L’uomo che cadde sulla Terra, che viene spesso citata e per cui l’alieno ancora si strugge. Qui – anche se è possibile che sia un azzardo – la mente va a Hermione Farthingale, il primo amore giovanile di
Bowie, che nel 1969 lo lasciò per andare a recitare in un musical (Song for Norway, che, guarda caso, era la scritta ostentata sulla sua T-shirt nel video di Where Are We Now?) e per cui lui compose le canzoni in assoluto più romantiche della sua carriera, Letter for Hermione e An Occasional Dream. E perché inoltre, a un certo punto si scopre che la Ragazza (Marley) in realtà è una sorta di zombie sospesa tra la vita e la morte, che Newton dovrà aiutare a morire definitivamente? Che poi, sul finale, è quello che fa, quando, incoraggiato dal malefico Valentine, uccide, con lei, anche la Speranza. Entrambi – Newton e Marley – ormai liberi da catene, possono finalmente abbandonare questa terra e dirigersi con mente serena verso la pace e l’eternità, cantando insieme una “Heroes” dai toni elegiaci. Dovrebbe essere – ed è – il momento più toccante di tutta l’opera, in special modo sapendo che quanto Bowie aveva immaginato (e temuto) nella sua testa è a breve giro arrivato a compimento. Lazarus resta qualcosa di imperfetto e forse di incompiuto, anche a causa dei tempi stretti della sua realizzazione. Possiede tuttavia un indubbio punto di forza: l’eccellente corredo musicale di 17 canzoni (13 tratte dal catalogo bowiano tra il 1970 e il 2013 e 4 scritte ad hoc), inciso a futura memoria dal cast originale del Nytw agli Avatar Studios di New York in una sola, già programmata, giornata: l’11 gennaio 2016. Come da comunicato ufficiale, «al loro arrivo in sala, i musicisti e il cast rimasero scioccati e addolorati nell’apprendere la devastante notizia: David Bowie era morto la sera prima». LAZARUS – OFFICIAL NEW YORK CAST RECORDING, prodotto da Henry Hey, è uscito il 21 ottobre 2016, particolarmente atteso anche per via del disco supplementare allegato contenente “le ultime registrazioni di David Bowie” con il Donny McCaslin Group dei quattro pezzi composti appositamente per il musical. Il 17 febbraio 2017 il disco in questione è stato pubblicato a parte con il titolo di NO PLAN E.P., e alla canzone No Plan è stato anche associato un bel video evocativo sia di L’uomo che cadde sulla Terra sia di Lazarus realizzato da Tom Hingston. E Lazarus ora vivrà di vita propria. Forse un giorno diventerà anche un film – sarebbe bello se venisse diretto da Darren Aronofsky, o, perché no, da Duncan Jones – ma intanto potrà essere messo in scena
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da chiunque lo vorrà, come da anni avviene per Jacques Brel Is Alive and Well and Living in Paris, che Bowie vide a Londra nell’estate del 1968 restandone intimamente colpito. Al momento, sono già previste rappresentazioni in tedesco, al Volkstheater di Vienna dal 4 maggio 2018, e in olandese, al Del Mar Theater di Amsterdam a partire dal settembre 2018. E, non c’è dubbio, ne seguiranno altre. Continua a vivere di vita propria anche la mostra itinerante David Bowie Is. Dopo essere stata ospitata dal museo MAMbo di Bologna tra il 14 luglio e il 13 novembre 2016, ha traslocato a Osaka in Giappone tra l’8 gennaio e il 9 aprile 2017, quindi al Museo del Disseny di Barcellona tra il 25 maggio e il 15 ottobre 2017, e il 2 marzo 2018 farà tappa al Brooklyn Museum di New York dove si prevede che rimanga fino al 15 luglio in quello che è stato definito “the final stop”. In seguito, secondo quanto affermato dai responsabili del V&A Museum, potrebbe diventare una mostra permanente, forse a Dundee in Scozia dove si sta finendo di dare gli ultimi ritocchi a una succursale del V&A. In ambito discografico, continueranno a uscire Cd e Lp (e download) di David Bowie. La serie di box set antologici dovrebbe arrivare a coprire tutta la sua carriera fino al 2016, con la supervisione di Tony Visconti, dato che questi, come egli stesso ha raccontato di recente a Mark Paytress di «Mojo», dal 2013 è in possesso di tutti i master originali. Ogni tanto verrà tirata fuori qualche rarità, come l’album inedito dal vivo CRACKED ACTOR (LIVE LOS ANGELES ‘74) uscito nella primavera del 2017, o, prima o poi, il disco di cover del 2001 TOY rimasto fino a ora nel cassetto. Ci saranno antologie, concerti celebrativi, cover band, libri monografici, articoli su riviste, documentari su Dvd, forse anche biopic. Come ha scritto qualcuno: Bowie non muore, ma diventa classico. Il 29 gennaio 2016 è stato reso noto il testamento redatto da David R. Jones in arte David Bowie nel 2004 – quindi, presumibilmente, subito dopo il suo primo infarto – di fronte al noto avvocato di Manhattan Herbert E. Nass. Si è venuto così a sapere che Bowie ha lasciato il suo appartamento di SoHo – le due penthouse di Lafayette Street acquistate nel 1999 – alla sua vedova, Iman Abdulmajid Jones. Per quanto riguarda il resto del patrimonio, pari a 100 milioni di dollari, il 50 per
cento è andato a Iman, il 25 per cento a suo figlio Duncan Jones, e il 25 per cento a sua figlia minorenne Alexandria (“Lexi”) Zahra Jones, che potrà accedervi al compimento dei diciotto anni. La casa di montagna nelle Catskill è stata ugualmente lasciata a Lexi, alle medesime condizioni. A Corinne (“Coco”) Schwab, Bowie ha lasciato 2 milioni di dollari, oltre alla propria quota di azioni in una società chiamata Opossum Inc. Bowie ha infine lasciato un milione di dollari a Marion Skene, che negli anni in cui Bowie era in giro per il mondo a fare la rockstar era stata la babysitter a tempo pieno di Duncan, quindi praticamente una persona di famiglia (la scozzese Skene, già gravemente malata, è poi deceduta nel marzo 2017). Bowie avrebbe inoltre fornito delle specifiche sul funerale, indicando che avrebbe voluto che il corpo fosse inviato a Bali e ivi cremato, “in conformità con i rituali buddisti di Bali”, aggiungendo tuttavia che laddove la cremazione balinese non fosse stata possibile, avrebbe gradito che le sue ceneri fossero comunque disperse lì. Il suo certificato di morte, reso noto insieme al testamento, indica che il suo corpo è stato cremato nel New Jersey il 12 gennaio 2016. Gli esecutori testamentari nominati da Bowie sono due: William Zysblat e l’avvocato londinese Paddy Grafton Green. Ma a quanto pare Green si è fatto da parte, lasciando Zysblat quale unico esecutore. È quindi Bill Zysblat, capo della Rzo Entertainment e amico e partner in affari di Bowie fin dagli anni Ottanta, che ha fatto filtrare tutte queste informazioni alla stampa. Il che spinge a chiedersi: quanto c’è di vero? Non si fa menzione, in queste ultime volontà, della Isolar Enterprises Inc., che pure possiede un capitale sociale. A meno che le quote nella “Opossum Inc.” (una società inesistente) ereditate da Coco non siano effettivamente quelle nella Isolar. In questi due anni la società ha continuato a operare dagli uffici di Lafayette Street, sempre in stretta connessione con la Rzo, e ora è quanto mai probabile che a capo di tutto ci sia Coco Schwab, mentre Tony Visconti – sempre più stimato e richiesto come produttore – ha apparentemente assunto un ruolo di rilievo in merito allo sfruttamento del catalogo: molte delle scelte relative ai box set e alle altre uscite sembrano, oggi, fare capo soprattutto a lui. Visconti seguita inoltre a suonare con Woody Woodmansey e gli
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Holy Holy, e a ricreare la musica bowiana dei tempi di THE MAN WHO SOLD THE WORLD, di fronte a platee sempre più larghe. Lexi e Iman continuano, intanto, a risiedere a Lafayette Street e a condurre la loro vita da Manhattanites. Lexi ha da poco compiuto sedici anni e inizia a essere presente sui social avendo aperto un profilo Instagram. Iman seguita a dirigere con successo la Iman Cosmetics e da qualche anno ha anche varato una propria linea di abiti, la Global Chic, in collaborazione con lo Home Shopping Network. È molto presente anche lei su Facebook, Twitter e Instagram, e ogni tanto posta qualche pensiero che sembra avere attinenza con il defunto marito, senza mai dimenticare una loro ricorrenza. La sua prima figlia Zulekha, intanto, ha lasciato l’azienda materna andando a lavorare per altre ditte del settore “beauty”, e nel settembre 2016 è andata a fare l’analista di inventario per la Portu Sunberg di Minneapolis. Ha però mollato tutto qualche mese più tardi, perché dopo essersi sposata, il 14 agosto 2017 ha reso Iman nonna per la prima volta mettendo al mondo una bambina chiamata Lavinia Rose Young. E a febbraio 2016 tutti hanno appreso, con sorpresa e una certa commozione, che anche David Bowie era sul punto di diventare nonno. Il figlio di Duncan e Rodene, nato il successivo 29 luglio 2016, è stato chiamato Stenton David Jones in onore del nonno e del padre. Il primo ottobre 2017 Duncan ha reso noto via tweet che Rodene è di nuovo incinta, questa volta di una bambina. Sul piano lavorativo, dopo aver chiuso il capitolo Warcraft (giunto nei cinema durante l’estate 2016), Duncan è riuscito a trovare i finanziamenti per il suo vecchio pallino Mute, la storia di fantascienza semi-autobiografica da lui scritta ambientata a Berlino. Girato tra il 2016 e il 2017, Mute (con Alexander Skarsgård nel ruolo del protagonista) dovrebbe essere trasmesso a breve nel circuito Netflix. La letteratura su Bowie si è finora concentrata sul periodo glam e sul triennio berlinese, ma gli anni della “scomparsa”, tra il 2004 e la morte, sono un pezzo ugualmente importante della sua epopea. Quegli undici anni e mezzo sono stati senza dubbio i più difficili e sofferti della sua vita, il che rende ancora più sorprendente la maniera in cui li ha terminati: trentasei mesi senza precedenti iniziati con Whe-
re Are We Now?, proseguiti con THE NEXT DAY, David Bowie Is e Sue (Or in a Season of Crime), e culminati con il musical Lazarus e il testamento in musica . Nel mentre, Bowie ha operato l’ennesima, ultima trasformazione, diventando per il mondo e per tutti, il “recluso”, o meglio: “ridiventando” l’alieno Thomas Jerome Newton. Stavolta, però, nella versione di Lazarus, quella che il bando per il casting del Nytw ha definito «un uomo di un’età indefinibile – un tempo una potente mente affaristica – oggi solitario, strambo – che si sta avvitando rapidamente verso la follia. Se ne resta isolato nel suo caotico appartamento. Un animo dal cuore spezzato – ossessionato da un amore perduto – un uomo che vuole disperatamente trovare la pace. Non è del nostro mondo». Nel musical, Zach chiede a sua moglie Elly (l’assistente di Newton): «Insomma, lui com’è?». Ed Elly risponde: «Un po’ malinconico. Un po’ inconoscibile, nella maniera in cui ti puoi aspettare che siano questi uomini reclusi ricchi ed eccentrici». Una descrizione quanto mai accurata di David Bowie in questi anni, direttamente dalla fonte. Una scelta, quella della reclusione, che però non è stata voluta, almeno inizialmente. Tra il 2004 e il 2007 Bowie ha dato più volte l’impressione di voler tornare a calcare le scene e a godere della sua fama di Dio del Rock. Qualcosa però deve essere intervenuto – quasi certamente un nuovo, grave problema di salute – e pian piano Bowie ha iniziato a scomparire dalla vita pubblica. Potrebbe esserci entrata anche una forma di depressione – chi lo sa – ed è ugualmente possibile che Bowie abbia iniziato a non piacersi più. Per uno storicamente attento al look come lui, la sua nuova, inevitabile immagine (il signore di mezza età con lo sguardo vitreo e le borse sotto gli occhi) doveva essere deprimente o, quantomeno, disturbante per la sua vanità. Meglio non apparire, piuttosto. David Bowie peraltro aveva già sperimentato, con sommo piacere, la possibilità di sparire dalle rotte e di vivere nell’anonimato, quando alla fine degli anni Settanta si rifugiò a Berlino, dove passeggiava tranquillamente in tenuta da operaio con Coco Schwab e Iggy Pop, senza che nessuno lo riconoscesse. C’era stato poi l’esempio di Scott Walker, da sempre sua ispirazione, che dagli anni Settanta aveva rinunciato alla fama e, quasi del tutto, ai tour e ai giri promozionali,
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preferendo comunicare con la propria musica, sempre più ostica e sperimentale. Tra il 1984 e il 1995, Walker aveva fatto perdere le sue tracce, e da allora si era mostrato in pubblico molto di rado. Ma comunque Scott Walker, ogni tanto, qualche intervista l’aveva rilasciata. Bowie decide di fare molto di più del suo vecchio mentore e mette in atto la sparizione totale, come mai nessun artista popolare della sua caratura aveva osato prima. È stato un processo lento, però. Prima (dall’estate 2004) nessuna intervista, poi (dalla fine del 2006) nessuna apparizione live. Per un po’ lo si è visto solo a qualche serata mondana, poi anche queste sono andate scemando, e Bowie si è come dissolto, invisibile per lunghissimi tratti anche ai paparazzi. Ma non è stato, questo, un periodo passato in casa a far nulla. A differenza di Thomas Jerome Newton, Bowie l’ha utilizzato per meditare, riflettere, studiare e gradualmente gettare le basi dei suoi successivi progetti, che sono poi sfociati nella straordinaria esplosione creativa e mediatica degli anni 2013-2016. Sono stati, certo, anni tormentati e pesanti. Non dev’essere stato facile per Bowie starsene rintanato in casa, sia che vi sia stato costretto per motivi di salute, sia che sia stata una scelta derivante da questioni strategiche oppure legata alla sua vanità di ex star del rock (ma, più probabilmente, per un mix di tutto quanto). Aldilà di tutti gli eventi fin qui raccontati o ipotizzati c’è una singola immagine che sintetizza meglio di tante altre gli ultimi anni della sua vita e della sua carriera. Gliel’ha scattata, non visto, un anonimo fotografo il 9 settembre 2013 di fronte alla libreria McNally Jackson a Prince Street, a un passo da casa sua. Bowie, ritratto di tre quarti, sta osservando i volumi esposti in vetrina e ha l’aria di esserne completamente rapito, ignaro in quell’istante del mondo che lo circonda. C’è, lì, tutto un patrimonio di letteratura, di arte e di conoscenze. E no, non sarà mai possibile leggere e sapere tutto, ma vale almeno la pena di provarci, fino alla fine. È questo che David Bowie sta pensando?
sound & vision (2004-2016)
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sound John Adams – NIXON IN CHINA (Elektra Nonesuch, 1988) Air – POCKET SYMPHONY (Virgin, 2007) Animal Collective – FEELS (Fat Cat, 2005) Antony And The Johnsons – I AM A BIRD NOW (Secretly Canadian, 2004) Arcade Fire – FUNERAL (Merge, 2004) Arcade Fire – NEON BIBLE (Merge, 2007) Arcade Fire – REFLEKTOR (Merge, 2013) Arctic Monkeys – WHATEVER PEOPLE SAY I AM, THAT’S WHAT I’M NOT (Domino, 2006) Artisti Vari – ALL SHOOK UP – ORIGINAL BROADWAY CAST (Sony BMG, 2005) Artisti Vari – THE LIFE AQUATIC WITH STEVE ZISSOU (Hollywood Records, 2004) Artisti Vari – MONTY PYTHON’S SPAMALOT (Decca Broadway, 2005) Artisti Vari – MUSIC FROM SPIDER-MAN TURN OFF THE DARK (Mercury, 2011) Artisti Vari – SCOTT WALKER – 30 CENTURY MAN – MUSIC INSPIRED BY THE FILM (Lakeshore Records, 2009) Clap Your Hands Say Yeah – CLAP YOUR HANDS SAY YEAH (Wichita, 2006)
DAVID BOWIE. L’ARTE DI SCOMPARIRE
Phil Collins – DISNEY PRESENTS TARZAN – THE BROADWAY MUSICAL (Walt Disney Records, 2006) D’Angelo And The Vanguard – BLACK MESSIAH (Rca, 2014) Deerhoof – FRIEND OPPORTUNITY (Kill Rock Stars, 2007) The Flaming Lips – THE FLAMING LIPS AND HEADY FWENDS (Warner Bros, 2012) Franz Ferdinand – FRANZ FERDINAND (Domino, 2004) Franz Ferdinand – YOU COULD HAVE IT SO MUCH BETTER (Domino, 2005) Gnarls Barkley – ST. ELSEWHERE (Warner/Atlantic, 2006) Osvaldo Golijov – LA PASIÓN SEGÚN SAN MARCOS (Deutsche Grammophon, 2010) Mark Guiliana – BEAT MUSIC – THE LOS ANGELES IMPROVISATIONS (Agate, 2014) Daphne Guinness – OPTIMIST IN BLACK (Agent Anonyme, 2016) Holy Holy – THE MAN WHO SOLD THE WORLD LIVE IN LONDON (Maniac Squat Records, 2015) Interpol – ANTICS (Matador, 2004) Scarlett Johansson – ANYWHERE I LAY MY HEAD (ATCO, 2008) Kashmir – NO BALANCE PALACE (Columbia, 2005) Kendrick Lamar – TO PIMP A BUTTERFLY (Interscope, 2015) The Killers – HOT FUSS (Island, 2004) Lorde – PURE HEROINE (Universal, 2013) Donny McCaslin – CASTING FOR GRAVITY (Greenleaf, 2012) Donny McCaslin – FAST FUTURE (Greenleaf, 2015) Colin Meloy – COLIN MELOY SINGS LIVE! (Kill Rock Stars, 2008) Mumford And Sons – SIGH NO MORE (V2, 2009) Muse – BLACK HOLES AND REVELATIONS (Warner Bros, 2006) Lou Reed – BERLIN LIVE AT ST. ANN’S WAREHOUSE (Matador, 2008) Lou Reed & Metallica – LULU (Vertigo, 2011) Maria Schneider Orchestra – LIVE AT THE JAZZ STANDARD – DAYS OF WINE AND ROSES (ArtistShare, 2000) Maria Schneider Orchestra – CONCERT IN THE GARDEN (ArtistShare, 2004) Maria Schneider Orchestra – SKY BLUE (ArtistShare, 2007) Maria Schneider, Dawn Upshaw, Australian Chamber Orchestra,
SOUND
& VISION (2004-2016)
The Saint Paul Chamber Orchestra – WINTER MORNING WALKS (ArtistShare, 2013) Secret Machines – NOW HERE IS NOWHERE (Reprise, 2004) Secret Machines – TEN SILVER DROPS (Reprise, 2006) TV On The Radio – DESPERATE YOUTH, BLOOD THIRSTY BABES (Touch & Go/4AD, 2004) TV On The Radio – RETURN TO COOKIE MOUNTAIN (Touch & Go/4AD, 2006) Scott Walker – THE DRIFT (4AD, 2006)
vision Darren Aronofsky – L’albero della vita (The Fountain) (20th Century Fox Italia, 2008) Stevie Chick – August (Emylia, 2009) Stephen Daldry – The Hours (Eagle Pictures, 2011) Ricky Gervais – Extras: The Collection (Universal, 2008) Ricky Gervais – The Office: Stagione 1 (CG Entertainment, 2008) Ricky Gervais – The Office: Stagione 2 (CG Entertainment, 2008) Ricky Gervais – The Office: Speciale Natale (CG Entertainment, 2008) Todd Graff – Bandslam – High School Band (Video Delta, 2010) Duncan Jones – Moon (Universal, 2010) Duncan Jones – Source Code (StudioCanal, 2011) Duncan Jones – Warcraft (Universal, 2016) Stephen Kijak – Scott Walker – 30 Century Man (Verve Pictures, 2010) (ideato da) Stephen Knight – Peaky Blinders – Series 1 (BBC, 2013) (ideato da) Stephen Knight – Peaky Blinders – Series 2 (BBC, 2014) Anthony Minghella – Giacomo Puccini: Madama Butterfly – The Metropolitan Opera (Sony, 2009) Christopher Nolan – The Prestige (Warner Bros, 2007)
bibliografia
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Autori Vari, Rebels. David Bowie in 6 ritratti d’autore, La Nave di Teseo, Milano, 2017. Bonini, Alessandro e Tamagnini, Emanuele, The Prettiest Star. A Tribute to David Bowie 1947/2016 (Expanded), Lulu Self Publishing, 2017. Bowie, David, Sono l’uomo delle stelle, Il Saggiatore, Milano, 2016. Bowie, David e Walsh, Enda, Lazarus. The Complete Book and Lyrics, Nick Hern Books, 2016. Broackes, Victoria e Marsh, Geoffrey (a cura di), David Bowie Is, Rizzoli, Milano, 2013. Buckley, David, Strange Fascination. David Bowie. The Definitive Story, Virgin Books, 2005. Cann, Kevin, Any Day Now – David Bowie. The London Years 19471974, Arcana, Roma 2011. Compo, Susan, Earthbound. David Bowie and The Man Who Fell to Earth, Edition Olms, 2017. Critchley, Simon, Bowie, Il Mulino, Bologna, 2016. Donadio, Francesco, David Bowie. Fantastic Voyage. Testi commentati, Arcana, Roma, 2017. Garrò, Luca, David Bowie, Hoepli, Milano, 2017. Goodman, Lizzy, Meet Me In The Bathroom. Rebirth and Rock’n’Roll in New York City 2001-2011, Faber & Faber, 2017. Haywood, Spencer, The Rise, The Fall, The Recovery, Amistad, 1992.
DAVID BOWIE. L’ARTE DI SCOMPARIRE
Jones, Dylan, Bowie. A Life, Preface Publishing, 2017. Jones, Lesley-Ann, Hero: David Bowie, Hodder & Stoughton, 2016. Leigh, Wendy, Bowie: 1947-2016. La biografia, Sperling & Kupfer, Milano, 2016. Morley, Paul, The Age of Bowie, Simon & Schuster, 2016. Pegg, Nicholas, Bowie. Le canzoni, gli album, i concerti, i video, i film: l’Enciclopedia Definitiva, Arcana, Roma 2012. Pegg, Nicholas, The Complete David Bowie, Titan Books, 2016. Rennis, Fernando, Scream & Shout. La storia e la musica degli Arcade Fire, Arcana, Roma, 2017. Reynolds, Simon, Polvere di stelle. Il glam rock dalle origini ai giorni nostri, Minimum Fax, Roma, 2017. Seabrook, Thomas J., Bowie. La trilogia berlinese, Arcana, Roma, 2009. Sounes, Howard, Notes from The Velvet Underground. The Life of Lou Reed, Doubleday, 2015. Spitz, Marc, Bowie: a Biography, Crown Publishers, 2009. Trynka, Paul, Starman – David Bowie. The Definitive Biography, Little, Brown Book Limited, 2011. Visconti, Tony, The Autobiography. Bowie, Bolan and the Brooklyn Boy, Harper, 2007. Wilcken, Hugo, Low. David Bowie, No Reply, Milano, 2009. Woodmansey, Woody, Spider from Mars. My Life with Bowie, Pan, 2017.
fonti dirette Nella scrittura del testo è stata di basilare importanza la corrispondenza via e-mail (in parte incorporata nel libro) con Michael Cunningham. Nel periodo di stesura ho avuto inoltre modo di fare una serie di interviste/chiacchierate con Woody Woodmansey, Mark Guiliana, Steve Norman, Rick Wakeman, Simon Reynolds, Page Hamilton e Mark Paytress, che sono tutte risultate utilissime, se non altro a livello di “atmosfera”.
BIBLIOGRAFIA
altre fonti Sono stati consultati i seguenti periodici: «Mojo», «Uncut», «Record Collector», «Q», «New Musical Express», «Classic Rock», «Classic Rock Italia», «Rolling Stone Italia», per menzionare solo i più importanti. Sono stati inoltre consultati svariati quotidiani inglesi, americani e italiani, on line e cartacei, troppo numerosi per essere citati. Tra le fonti web, sono risultati essenziali il sito ufficiale di David Bowie (www.davidbowie.com) e in particolare la sezione dedicata alle news, il sito italiano Velvet Goldmine, David Bowie Blackstar, Bowie WonderWorld, Cracked Actor e il blog Pushing Ahead of the Dame.
ringraziamenti
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In primis, ringrazio Federico Pancaldi, che per primo ha creduto in questa idea di “indagine” sugli ultimi anni di Bowie, Gianluca Testani (il miglior editor che un autore possa avere) e in generale tutta la famiglia di Arcana. Un grande grazie va a Maurizio Becker e alla rivista «Classic Rock», che in questi anni hanno ospitato, fra gli altri, i miei scritti su Bowie, consentendomi di restare “caldo” sull’argomento. Un ringraziamento particolare va a Michael Cunningham per la cortese disponibilità con cui ha risposto ai miei quesiti, e alle altre persone dell’universo bowiano con cui mi ho avuto modo di interloquire in questo periodo: Mark Guiliana, Steve Norman, Mark Paytress, Woody Woodmansey, Simon Reynolds, Rick Wakeman e Page Hamilton. Grazie anche a Rita Rocca, che mi ha spesso affiancato durante queste interviste, e il cui film-tributo su Bowie, Bowienext, dovrebbe vedere la luce a breve. Last but not least, un grazie di cuore a Matteo Tonolli della fanzine «David Bowie Blackstar» (su web: www.davidbowieblackstar.it) con cui mi sono frequentemente raffrontato durante la lavorazione del libro e che mi ha dato tanti preziosi suggerimenti. David Bowie. L’arte di scomparire non finisce qui, ma si tratta, bensì, di una vera e propria indagine in progress, che potrà essere migliorata e integrata in eventuali future edizioni. Sarò dunque grato a chi mi vorrà segnalare eventuali sviste e a chi mi vorrà, invece, fornire nuovi ele-
DAVID BOWIE. L’ARTE DI SCOMPARIRE
menti per una ricostruzione più esatta degli eventi nella vita e nella carriera di David Bowie tra il 25 giugno 2004 e il 10 gennaio 2016. E approfitto fin d’ora per lanciare un appello: se qualcuno tra i lettori ha conoscenza dell’ebraico moderno ed è in grado di reperire la famosa “rivista letteraria israeliana” in cui Michael Cunningham avrebbe menzionato la sua collaborazione con Bowie tra il 2005 e il 2011, può contattarmi a questo indirizzo di posta elettronica: [email protected].
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l 10 gennaio 2016 l’improvviso annuncio della morte di David Bowie ha lasciato sconcertati tutti i suoi fan, che fino a qualche ora prima avevano avuto modo di apprezzare il ritorno sulle scene di una star forse invecchiata ma comunque sempre al passo con i tempi, in grado di realizzare negli ultimi mesi di vita due opere che hanno lasciato il segno. La verità è che Bowie era scomparso dai radar già molto tempo prima. A partire dal 25 giugno 2004 – quando sul palco dell’Hurricane Festival a Scheeßel, in Germania, avvertì un lancinante dolore al petto che si rivelò essere un infarto in atto, trattato con un urgente intervento di angioplastica – e per undici anni e mezzo, Bowie aveva smesso di essere la rockstar presenzialista dei decenni precedenti, non rilasciando più interviste e assumendo un bassissimo profilo per uscire di casa solo raramente per eventi selezionati. Un po’ come Greta Garbo, Scott Walker, J.D. Salinger o il nostro Lucio Battisti. Questa è la visione comune. Ma è andata veramente così? Cosa è realmente accaduto in questa dozzina di anni, tra complicazioni di salute, passeggiate in incognito per Manhattan e progetti avviati e poi cancellati? C’è ancora qualcosa che può – anzi che deve – essere raccontato? Questo libro si propone di far luce su quei mesi, tra il 2004 e il 2016, che l’Uomo delle Stelle ha voluto (o dovuto?) passare lontano dalla luce dei riflettori. Una ricostruzione per quanto possibile accurata, sulla base delle testimonianze dei suoi collaboratori e della cronologia dei suoi avvistamenti, dei dodici anni “misteriosi” di David Bowie. Gli anni senz’altro più tormentati e difficili della sua vita e della sua carriera, ma assai meno vuoti di quanto comunemente si pensi dal punto di vista artistico, sfociati negli splendidi ritorni di the next day e blackstar, oltre al musical Lazarus.
Francesco Donadio
Ricercatore e scrittore, autore dei saggi Teddy-boys, rockettari e cyberpunk (con Marcello Giannotti), Edoardo Bennato. Venderò la mia rabbia (Arcana, 2011) e David Bowie. Fantastic Voyage. Testi commentati (Arcana, 2013, n.e. 2016). Scrive di musica per «Classic Rock» e «Vinile» ed è caporedattore della testata «Extra! Music Magazine» (www.xtm.it).
In copertina: Fehmi Baumbach, THE SADDEST STARMAN IN THE WORLD Art direction e cover layout: Bruno Apostoli
€ 19,50