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Italian Pages 160 [154] Year 1978
RAFFAELE
DI VIRGILIO
DALL’EPOS
AL ROMANZO
INTRODUZIONE ALLA GRECA ANTICA
3
NARRATIVA
DEDALO
LIBRI
Saggi / 36
Raffaele Di Virgilio
Dall'epos al romanzo (introduzione alla narrativa greca antica)
Dedalo
libri
© 1978 Dedalo libri, Bari Stampato in Bari dalla Dedalo litostampa
a
ma
moghe
Sintesi orientativa
L'Odissea può essere gustata solo come libro, l'Iliade invece ha due volti nettamente riconoscibili: la vernice libresca che nel testo a noi noto fa velo ai canti iliadici
genuini, infiltrandosi anche nel tessuto narrativo, è cosmesi odissiaca, cioè alfabetica. Il numero, l’estensione e la ‘ sintassi’ di quei canti sono adiápbora critici. La questione omerica, che ha un profondo significato culturale su cui
finora non si è insistito abbastanza, va risolta liquidando il problema
odissiaco
noi), e utilizzando
come
insussistente
(l'Odissea
siamo
alla rovescia, per l'Ilisde, la teoria dei
canti sparsi — penso al Lachmann e, in particolare, a G. Jachmann —, nel senso che la veste moderna dei Lieder iliadici non deve essere un baricentro critico, proprio perché non è una forza,
ma,
appunto,
un rivestimento,
arricchito
di imbottiture calibrate. Solo l’Odissea merita veramente di essere letta in tutti i suoi contrappunti strutturali — a proposito della analoga letterarietà dell'Aszigose di Sofocle, già nel 1967 parlai di aristocratici ‘ contrappassi ' di danza,
citando
Pitagora
(« Rivista
di Filologia
e di Istru-
zione Classica », pp. 142-156) —; studiare invece l'Iliade con la medesima ottica significa invischiarsi in una ragnatela, rinunciando di fatto a cogliere l'essenza della poesia orale autentica. A questa soluzione organica del problema omerico, la 7
quale consente di guadagnare alla storia della nostra cultura un settore poco esplorato della grecità pre-alfabetica, segue nella prima parte del presente lavoro l’indagine sugli sviluppi che lo spirito letterario-romanzesco dell’Odissea e lo spirito tribale-epico dell'I//ade hanno avuto nella letteratura post-omerica, articolata in modi e tempi che richiedono una storicizzazione alquanto diversa da quella tradizionale. Dedico particolare attenzione all’elegia, affrontando il problema delle sue origini in base ad un esame linguistico,
metrico
e socio-antropologico
incentrato
nei
poemi
omerici. Per quel che concerne la tragedia attica, dalla coesistenza dello spirito epico con quello ‘ romanzesco ’ evinco l'inserimento del coro nell’ambito dell'eredità culturale iliadica, storicizzando l’eroe tragico come antitesi dell’eroe epico, Esamino poi i rapporti tra oralità e politicità nella civiltà ateniese, illustrando l’oralità sui generis della cultura sofistica, nella quale è dato ravvisare i presupposti immediati (operanti in misura notevolissima nella storiografia tucididea, che è molto più romanzesca di quella erodotea, nonostante le apparenze) della letteratura ‘ visiva’ e libresca, il cui avvento crazia ateniese.
coincide
col tramonto
della demo-
Nella seconda parte del lavoro traccio le grandi linee dell’ulteriore letterarizzazione della cultura greca, in funzione del romanzo d’amore, il quale segna l’ultima fase di quel processo ed è ‘figlio’ egiziano del papiro nonché erede della letteratura comico-mimica — mi riferisco anche al mimo bucolico —, mentre eredita ben poco dall’elegia ellenistica, cui pensava il Rohde. Ed è esclusivamente in questa prospettiva genetica che l'slbog romanzesco risulta qui collocato: lo studio sistematico degli sviluppi tematici e strutturali del romanzo, comunque poco significativi, esula dall’àmbito della presente ricerca. Raffaele Di Virgilio
Parte prima Dalla
cultura
orale alla letteratura orale
Com'era prevedibile, la decifrazione e la pur sommaria esegesi delle iscrizioni micenee hanno avuto profonde ripercussioni nel campo degli studi storici e letterari, mentre le discipline di per sé estranee all'esame dei documenti scritti — prima fra tutte l’archeologia — sono uscite sostanzialmnte immuni dal sisma provocato dalla clamorosa scoperta del
Ventris.
E’
significativo,
la linguistica goda di va ravvisata nell’alto disciplina, la quale nel confermata la validità alla documentazione
peraltro,
il fatto
che
anche
tale immunità, e la ragione di ciò quoziente di scientificità di questa greco miceneo ha trovato ampiamente dei risultati da essa stabiliti in base tradizionale. Nella pagina conclusiva
di un suo libro! il Palmer auspica una proficua collaborazione tra archeologi e filologi (identificando la filologia con la linguistica), ma sembra ignorare i gravi rischi che lo studio dei primordi della cultura greca corre ad opera di certi storici i quali, da filologi inesperti, possono impan-
tanare di nuovo lo studio delle origini greche, sia violentando i dati testuali della lineare B sia stabilendo raccordi arbitrari tra la cultura micenea e quella omerica, distanziate, come
si sa, dal cosiddetto
medioevo
ellenico, che è
buio soprattutto perché è muto. E restituire la parola ai muti è difficilissimo, a meno che, nella fattispecie, presupposti oggettivi non autorizzino ad interpretare come « elo-
quenti » determinate forme asemantiche di linguaggio — ad 11
esempio le pitture vascolari —, e a meno che certi anelli di congiunzione tra la civiltà linguistica micenea e quella omerica non siano ricostruibili con sufficiente esattezza; questa ultima possibilità è, comunque, soltanto teorica, e poiché la novità e l’alto livello della poesia omerica inducono a pensare che nel corso di quei secoli oscuri sia avvenuta una vera e propria rivoluzione culturale, è ovviamente consigliabile esplorare il medioevo greco prendendo le mosse dagli esiti di quella rivoluzione piuttosto che dal mondo miceneo,
la cui facies risulta sostanzialmente
estranea
alla
grecità che ci è familiare. In altre parole, il germe della grecità classica non poté che essere ‘classico’, e tutto cospira a far ritenere — sia pure in termini di ipotesi di
lavoro da verificare —
che la fioritura di tale germe sia
iniziata verso la fine di quel lungo periodo intermedio. In questa direzione sarà particolarmente utile l’ausilio di studiosi sorretti da una preparazione linguistica specifica e collaudata, se è vero che proprio la linguistica è uscita indenne dal ciclone miceneo che ha spazzato via molti pregiudizi storico-letterari. Con ciò non voglio escludere dal tempio della verità tutti gli storici della cultura che non possano esibire un certificato di apprendistato filologico; voglio solo precisare che è difficile riconoscere nei veri storici i veri filologi, anche per il semplice fatto che l’ostilità dimostrata in passato da certa critica nei confronti della filologia può aver costretto anche gli scienziati del testo a non permettere il libero ingresso nella loro officina filologica, con gravi conseguenze per il progresso degli studi classici. E' naturale che gli storici della civiltà letteraria siano inclini agli arbitri critici meno degli storici della civiltà politica, poiché i primi in genere familiarizzano di più con la scienza linguistica, ma torno a ripetere che anche la storia letteraria dei primordi greci ha subíto un forte contraccolpo dalla decifrazione greca della lineare B, sebbene abbia cercato di mascherare i segni evidenti di quell'urto frontale. Non & di oggi l'affermazione del Gallavotti, se12
condo cui « il problema della possibile esistenza di forme letterarie nel mondo miceneo è una questione che bisogna
porsi. Ma la risposta affermativa, con cui viene di solito risolto il problema, è data quasi per dimostrata e per ovvia, senza addurre a riprova una qualsiasi testimonianza apprezzabile » ?. In merito alla questione il Gallavotti si è assunto un compito metodologicamente ineccepibile — ma anche un po’ imbarazzante, quasi da « avvocato del diavolo » —, consistente nello sgombrare il campo da ogni incrostazione storica e nel far quindi il vuoto fra età micenea ed età omerica, sottolineando la spaccatura che divide le due epoche — contrariamente ai succubi dell’« horror vacui », che cercavano affannosamente di riempire quel vuoto con mezzi di fortuna —, per poter poi anche recuperare, senza pregiudizi di sorta, tutte le indicazioni utili che la storiografia tradizionale potesse offrire per la soluzione corretta del problema. Si mediti su queste parole, scevre da illusioni,
ma
proprio
per
questo
rassicuranti:
« La
prova
di
un’eventuale tradizione poetica preomerica ha bisogno di essere ricavata ancora oggi dal testo stesso di Omero, se è possibile; ma tradizione poetica preomerica non significa per ciò stesso letteratura di età micenea »*. Coloro che dalla lettura della lineare B si aspettavano la soluzione del problema omerico sono rimasti delusi, ed è forse a causa di questa delusione che negli ultimi anni si è diffuso un inconfessato senso di sfiducia nella .possobilità d'impiego critico della parola scritta, e l’interesse di certi studiosi si è orientato verso il recupero della oralità non solo della tradizione epica, ma anche della migliore produzione letteraria greca d’età attica, con la conseguenza che gli studi sulla civiltà greca della scrittura hanno avuto lo scopo di abbassare il più possibile la fascia cronologica dell’avvento della civiltà del libro, e le indagini del Parry sullo stile formulare di Omero sono tornate d'attualità *. Ovviamente l’importanza della tradizione orale dell’epica non va né ignorata né sottovalutata, purché l’interesse per 13
l'oralità analfabeta della cultura greca non superi i limiti imposti dall’uso corretto della documentazione relativa, che
ovviamente può essere solo indiretta. Ma sul problema della tradizione orale tornerò fra breve. Ora mi preme sottolineare le ripercussioni che la scoperta del Ventris ha provocato nell’ambito degli studi storici, anche con la speranza che qualche storica certezza possa emergere a sostegno di un'interpretazione letteraria dell’epos omerico. Il nodo cruciale della questione sta nella definizione, storica appunto,
dell'invasione dorica. Dice il Rubinsohn che negli ultimi quindici anni si è affermata «la tendenza, soprattutto fra gli studiosi di lingua inglese, ad accettare la teoria del Miiller, basata sull’antica tradizione greca »°. Ma non è un caso che da più parti si sia avvertito anche il bisogno di riprendere in esame la teoria elaborata a suo tempo dal Beloch — e sviluppata da studiosi come il Niese, G. De Sanctis e il Pareti —,
secondo
cui l’invasione
dorica non
sarebbe mai avvenuta. E se da un lato il Rubinsohn ha cercato di liberare la questione dalle secche di quella contrapposizione drastica fra le due teorie, proponendo un
compromesso — più favorevole al Miller che al Beloch —, consistente nel negare una « diretta connessione tra la fine del mondo miceneo (c. 1200) e la venuta dei Dori (c. 1000) »,
dall’altro lato J. Chadwick ha cercato di attuare un analogo compromesso — pit favorevole al Beloch che al Miiller —, secondo cui sarebbe stata la stessa civiltà micenea ad esprimere dal proprio seno la preponderanza dell’elemento dorico, con la conseguenza che la cosiddetta invasione dorica non sarebbe altro che un ricongiungimento dei Dori di Creta con i Dori peloponnesiaci vissuti anonimi all'ombra dei loro dominatori micenei. Come ognuno può notare, è difficile stabilire da qual parte sia la verità; né la filologia — per le ragioni obbiettive sopra esposte — può pretendere di dare una risposta definitiva al problema: la scientificità dei procedimenti filologici, se vuole esser tale, deve, allo stato attuale della documentazione disponibile, lasciare
14
il debito spazio alla sospensione del giudizio, e può, semmai, dar credito all’univocità della tradizione antica, sia pure in via d’ipotesi e nella misura in cui le notizie fornite dagli antichi non contrastino con i pochi dati storici oggi universalmente acquisiti come sicuri. Secondo Tucidide l’invasione dorica avvenne 80 anni dopo la caduta di Troia”, e questa testimonianza non può essere contestata a cuor leggero.
Non mi nascondo le difficoltà che si oppongono al tentativo di ricostruire la genesi della poesia epica greca. Penso comunque di poter ripercorrere nelle linee essenziali lo svolgimento di quell’esperienza culturale straordinaria e individuarne i momenti più significativi, enucleando dai poemi
omerici — con i mezzi filologici e storici disponibili — gli aspetti tipici della civiltà epica, genuina e no, riconducibili ad epoche diverse, che, pur determinate in modo approssimativo, corrispondono fedelmente alle fasi evolutive dell'epos quali emergono dalle leggi che regolano il suo sviluppo. Si può esser certi che una poesia epica di età micenea non possa in alcun modo esser postulata come preludio diretto della poesia omerica. Il Gallavotti ha sottolineato con rigorosi criteri metodologici e con ricchezza di dati filo-
logici e linguistici la sostanziale impossibilità di far risalire all’età micenea una tradizione epica ininterrotta, ed ha precisato giustamente che «la raffinatezza artistica di un dato ambiente letterario non presuppone necessariamente un'esperienza calcolabile a secoli piuttosto che a decenni » *. Ciò significa che anche indipendentemente da ciò che ho già osservato esistono argomenti sufficienti per ritenere che
i primordi dell'epos omerico possano essere collocati in una fascia cronologica molto vicina alla redazione definitiva dell'Iliade e dell’Odissea. A questo punto si rende necessario stabilire in quale misura i due poemi possano convalidare ancor meglio questa dimensione cronologica ristretta, al di fuori delle indicazioni che essi hanno fornito al Gallavotti per quel che concerne la lingua, il metro e la fissità for15
mulare. A tale scopo ci soccorre il concetto stesso di epos quale è stato definito con acuto senso storico ed esattezza sistematica da Michail Bachtin, l’insigne studioso sovietico recentemente
scomparso,
che in un breve
saggio
risalente
al 1938 ma pubblicato solo nel 1970 — e in traduzione italiana nel 1976? —, ha esaminato i caratteri dell'epos e del romanzo, affiancandosi alla filologia nel porre con più
rigore di altri le premesse! per tutti gli sviluppi futuri della letteratura critica concernente la storia della narrativa: « L'uomo epico è privo di ogni iniziativa ideologica (ne sono privi sia i protagonisti sia l’autore). Il mondo epico conosce solo un’unica e unitaria concezione del mondo interamente compiuta, ugualmente obbligatoria e indubitabile per i protagonisti, per l'autore e per gli ascoltatori. L'uomo epico è privo anche di iniziativa linguistica; il mondo epico conosce un'unica e unitaria lingua compiuta » !. Chi legga il saggio del Bachtin non può sottrarsi all'impressione che la cultura occidentale abbia trovato in lui un singolare erede del proprio patrimonio più genuino e pi puro, disincrostato da tutte le scorie che l’hanno finora aduggiato. Tutte le osservazioni di questo critico sulla poesia epica hanno un tale rigore storico-sistematico, non so se più hegeliano o più aristotelico, da non ammettere repliche. Basta applicare alle origini dell'epos l’idea dell’unicità e unitarietà della lingua e della concezione del mondo, per convincersi che il concetto stesso di tradizione epica va ridimensionato, in quanto pone in crisi la stessa nozione del tempo che dovrebbe essere. il tessuto connettivo di tale tradizione, con la
conseguenza che una dilatazione temporale dell’esperienza epica genuina o risulta teoricamente superflua perché irrilevante — quell’esperienza non può avere una storia scandita dal passare degli anni, perché ferma il tempo e quindi è essa stessa immobile —, o è insostenibile perché contrasta di fatto con la dimensione, per cosí dire, sferica del
mondo epico, storicamente concentrato e compresso entro limiti cronologici molto ristretti, pena il venir meno delle 16
condizioni ideali di immobilità che rendono possibile la fioritura dell'epos. Come si può facilmente arguire, è lecito parlare di tradizione epica vera e propria solo nei limiti in cui la comunità epica riesce a mantenersi identica a se stessa, immune cioè dai cambiamenti che il succedersi delle
generazioni inevitabilmente comporta anche in seno alle società più conservatrici. Ciò significa che l’epos omerico genuino ha avuto una vita molto breve, durata presumibilmente non più di tre decenni, i quali ovviamente saranno stati gli ultimi del medioevo ellenico analfabeta: nei molti decenni precedenti si sarà avuta una tradizione di cantilene popolari non epiche, che potrebbero rivestire interesse pit per lo studioso del folclore, che per lo storico della let-
teratura. Pertanto va non solo scartata l'idea secondo cui « i fuggiaschi (scil. acheo-micenei) portano con sé nella Ionia i loro carmi eroici, e là, fra popoli stranieri, sotto l'influsso
di civiltà straniere, nel corso di tre secoli nasce l’epos » " — una
ininterrotta
tradizione
epica
miceneo-omerica
ἃ stata
dimostrata insussistente dal Gallavotti, come ho già ricordato — ma la stessa formazione dei primi embrioni epici. va collocata, ripeto, in un’epoca molto posteriore alla fine dell'età micenea. La lineare B presenta una facies dialettale
eolica arcaica P, e mi sembra addirittura ovvio che la guerra di Troia vada considerata come un episodio, divenuto esemplare, dell'emigrazione eolico-micenea nelle zone costiere settentrionali dell'Asia minore; e perché quegli emigrati prendessero pianta stabile in quei territori fu ovviamente necessario che trascorressero molti decenni, dato che le popolazioni locali opposero resistenza all’invasione: i dieci anni dell'assedio di Troia sono infatti .solo il simbolo di una pi lunga durata di quella dura guerra di conquista. Orbene, è assurdo immaginare che la deformazione epica di quelle imprese belliche sia avvenuta nel corso della guerra stessa: gli ascoltatori dell’ipotetico aedo che deformasse vicende storiche che essi ben conoscevano gli avrebbero riso in 17
faccia;
si noti, del resto, che la conclusione
vittoriosa
di
quella guerra fu agevolata da un terremoto ", che per essere trasfigurato nel famoso cavallo di Troia dovette attendere parecchio tempo. In genere è necessario che trascorra un periodo di almeno tre generazioni perché un popolo possa trasformare in μυϑῶδες le proprie imprese, configurandole come gesta quasi sovrumane P. I discendenti degli Achei, cioè gli appartenenti alla medesima stirpe eolica dei conquistatori achei, avranno elaborato già durante la guerra registrazioni orali di questa, appunto eoliche, ma esse non potevano avere niente di epico, per le ragioni suesposte: erano presumibilmente « stornelli sui temi del giorno » "^. D'altra parte il linguaggio omerico è eolico solo in misura assolutamente irrilevante; né è concepibile che d’un tratto
gli Ioni, dopo che gli Eoli ebbero costituito nel corso di qualche generazione una ipotetica tradizione epica vera e propria, decidessero di appropriarsi di quelle canzoni eoliche adornandole di una veste dialettale ionica: la natura stessa dell'epos non consente operazioni drastiche di questo tipo, cosí come non consente neppure il progressivo e graduale assorbimento di una cultura diversa. Tale assorbimento vi fu, ma è pur vero che fu anteriore alla nascita dell’epos. Gli Eoli possono benissimo aver eroicizzato i loro beniamini nei decenni successivi alla conclusione della guerra, ma questa è una mera ipotesi che, anche se dovesse corrispondere alla realtà storica, non avrebbe nessuna importanza per le origini dell'epos ionico-omerico, perché riguarderebbe una tradizione epica allotria, che andrebbe spiegata e gustata come un fenomeno culturale estraneo ad Omero come ogni altra tradizione epica non omerica, anche
posteriore alla grecità. D'altronde eroicizzare non significa necessariamente epicizzare, cioè stabilire rispetto al passato una distanza epica assoluta: il passato assoluto dell’epos
genuino" è creazione esclusiva della prima civiltà ionicoomerica, e quindi un suo doppione eolico è ancor meno concepibile e comunque apparterrebbe — se fosse esistito — 18
alla storia degli epe sfortunati, svaniti nell’aria perché non imbalsamati dalla scrittura. Gli eolismi omerici non sono dunque i residui di una tradizione epica eolica trasferita,
gradatamente o no, in ambiente ionico:
sono forme dialet-
tali entrate a far parte del linguaggio epico ionico soltanto perché erano cosî poche da non compromettere la sostanziale unità etnico-linguistica del mondo epico omerico ". Bisogna pertanto presupporre, nell’ambito del medioevo ellenico, un coinvolgimento diretto e preponderante dell’elemento etnico-tribale ionico nella lotta — quale che ne fosse la natura e l’entità — contro i popoli non greci dell’Asia minore, perché solo in tal modo si può spiegare l'esistenza di un'epopea appunto ionica. I primi embrioni dell'epos
omerico
sono sostanzialmente
estranei alla cultura eolica,
la quale puó solo aver offerto alla civiltà ionica pre-epica un materiale mitico-storico e forse anche determinati moduli metrici, che gli stessi Ioni pre-omerici elaborarono e fecero propri nella misura in cui riuscirono a prevalere culturalmente sulla stirpe eolica, assumendosi il ruolo di stirpe egemone investita del compito panellenico di guidare e difendere la grecità dal pericolo sempre incombente di una rivalsa delle popolazioni anatoliche. Solo in questa prospettiva ἃ possibile dare una spiegazione del fatto che tutta la Grecia si riconobbe in Omero e lo considerò suo maestro ^. Quanto ora osservato induce a ritenere che la formazione di quegli embrioni epici in ambiente ionico debba aver richiesto un lungo periodo d’incubazione, corrispondente ad un altrettanto lungo processo di osmosi pre-epica tra Ioni ed Eoli. E l’egemonia degli uni sugli altri può spiegare anche la scomparsa degli antroponimi acheo-micenei in ambiente eolico, senza la quale sarebbe stata impossibile la fioritura di una saga epica alimentata dal « passato assoluto ». Né è casuale che proprio la stirpe ionica abbia sottolineato la propria preminenza culturale « regalando » all'umanità, oltre che i poemi di Omero, l'alfabeto che li ha tramandati ai posteri”, 19
Va da sé che il presente discorso riguarda essenzial. mente la genesi dell'Iliade, ma nulla impedisce di estenderlo all’Odissea, almeno in linea preliminare. In origine l'Odissea non poté essere un νόστος nel significato speci fico del termine, dato che i viaggi di Odisseo erano ambientati in Oriente ?. Ció significa che questo poema, nella forma in cui ci è pervenuto, è il risultato di una profonda rielaborazione avvenuta in epoca posteriore ad un epos
odissiaco, che può essere considerato coevo a quello iliadico originario.
Va
precisato,
comunque,
che
mentre
quest’ul-
timo ha conservato nella sua redazione definitiva i caratteri arcaici essenziali dell'epos genuino, l'embrione originario dell'Odissea ha perduto nell'ultima redazione i ca ratteri tipici dell'epos vero e proprio e appunto per questo è difficilmente ricostruibile. Mi limito qui a sottolinearne solo qualche aspetto, traendo spunto dall'I//ade. Il primo Odisseo non poté essere che il fratello spirituale di Achille, simbolo eroico di quella medesima stirpe che trasfigurò in epopea — con l’Iliade — la propria ardimentosa impresa di conquista. Se Achille era l'eroe della conquista, Odisseo era l’eroe della esplorazione di terre da conquistare, e l’uno e l’altro esprimevano le istanze culturali di una stirpe bellicosa la cui economia agricola si fondava sul possesso stabile della terra e che nell’area pontico-anatolica cercava nuovi sbocchi alle proprie necessità di espansione. Il primo Odisseo era l’incarnazione del pioniere (anche navigante, ma non navigatore), e la sua odissea fu anche un « ritorno »,
ma fu soprattutto una ricognizione. Il secondo Odisseo invece — quello che grandeggia nel poema a noi noto — è il simbolo eroico di una nuova cultura, legata ormai alla vita sul mare e rivolta ad esaltare la propria forza di espansione economica e commerciale, ripercorrendo in una cornice epica gli itinerari di un eroe navigatore, lungo i quali si svolgeva un’altra attività di conquista, quella dell’accaparramento dei mercati dell’area mediterranea. Una medesima stirpe dunque esaltò in tempi diversi 20
l’ardore bellicoso di un antico popolo di eroi, collocandolo in un * passato assoluto ', e la propria intraprendenza commerciale, mitizzandola come conoscenza avventurosa di terre lontane; nel secondo caso, peraltro, poiché solo l’epica
lontananza spaziale suppliva alla contemporaneità sostanziale di Odisseo, la distanza epica assoluta non poté essere pienamente rispettata: per ovvi motivi l'Odisseo mercante tendeva insidiosamente a scoprire il suo vero volto « borghese », a configurarsi
cioè come
eroe
romanzesco
invece
che epico; né il voluto mascheramento delle località visitate dal re d'Itaca — normalmente camuffate in modo che nessuno potesse riconoscervi una precisa identità geografica — servi ad evitare la ‘ romanzizzazione ’ di quell’eroe. Definire l'Odissea il primo romanzo della letteratura occidentale significa dire una profonda verità, purché si enuclei dal poema — condizione, questa, pregiudiziale, e finora non rispettata dalla critica — l’intima essenza di una visione romanzesca
della vita, non
soltanto
alcuni
elementi
estrin-
seci della narrazione romanzesca. Non
è
mia
intenzione,
in
questa
sede,
affrontare
la
questione omerica in modo particolareggiato; mi preme soltanto porre in evidenza alcuni aspetti essenziali che caratterizzano la poesia epica greca nella sua stagione migliore.
Una volta definita la nozione di distanza epica assoluta, l’epicità dell'Odissea non può che risultare artificiale, cioè libresca,
cioè
romanzesca;
e la prova
di
tale
letterarietà
si ricava facilmente dalla profonda rielaborazione del primo epos odissiaco, dovuta alla colonizzazione greca dell’Occidente e all’incidenza diretta che questa ebbe sull’impiego della scrittura alfabetica come veicolo di conquista della realtà contemporanea. Mentre l'Iliade originaria ha sostanzialmente conservato nella redazione definitiva il suo spirito epico genuino, nell’Odissea l'elemento epico vero e proprio è un residuo arcaico irrilevante, che comunque non
può
essere
reinserito
in un
contesto
primitivo
reso 21
irriconoscibile da una profonda metamorfosi. Di conseguenza il problema della tradizione epica orale si pone quasi esclusivamente per l'I/iade, e coinvolge il poema di Odisseo solo in termini di anamnesi velleitaria e ingenua: per convincersi di ciò si consideri la dissoluzione del passato epico assoluto negli « arcaici » ᾿Απόλογοι, contenenti la materia epica primordiale, ma divenuti romanzeschi già per il semplice fatto che Odisseo li riferisce in prima persona, improntandoli ad un soggettivismo di stampo letterario e moderno ?, Anche nell’ipotesi che l'Odissea da noi posseduta sia stata composta tutta oralmente, il poema, di fatto, resta libro cioè scrittura letteraria, il primo e il più grande libro della letteratura occidentale, perché presuppone comunque l'influenza di una pur breve tradizione alfabetica ?. Lo spirito con cui l’Odissea è stata composta è molto diverso da quello iliadico, perché il poeta di Odisseo non ritrova pienamente
se
stesso
nella
comunità
cui
si
rivolge,
ma
vuole renderla simile a sé. Questa « iniziativa ideologica » — presente nell'Iliade solo come giustapposizione tardiva^ — dimostra che con l'Odissea è nata la letteratura, si è creata cioè una scissione, sia pure ancora latente, tra
autore e pubblico, destinata ad assumere forme macroscopiche nel secondo secolo dell’età attica e soprattutto in età ellenistica, per poi perpetuarsi fino ai tempi odierni. Secondo questa prospettiva l’Odissea e i Promessi Sposi sono espressione di una medesima facies culturale. Si sostiene da più parti che la letteratura, intesa nel senso tradizionale di manifestazione/comunicazione scritta delle idee, stia agonizzando, e grosso modo questa profezia di prossima morte si può condividere: quella che il McLuhan chiama civiltà elettrica ucciderà la letteratura visiva alfabetica, e penso che questa, come nell’ottavo secolo a.C. provocò la morte dell’epos autentico, cosi, morendo a sua volta, lascerà spazio all'avvento di un nuovo epos genuino *, fondato sulla caduta definitiva dell’ideologia del privilegio. Non è un caso, ad esempio, che il Lukfcs guardi come 22
ad
una meta suprema all’epicizzazione della cultura sovietica, e che il McLuhan apra una prospettiva parallela, sia pure di segno opposto, nell’ambito della democrazia occidentale. L’epos è totalitario — nel senso etimologico ed hegeliano del termine —, cosi come totalitaria è anche la perfetta democrazia; e se tutta la letteratura epica occidentale, posteriore all’Iliade originaria, è stata « artificiale », la ragione di ciò sta nel fatto che nessuno degli ordinamenti politici costituiti nel corso dei secoli è stato veramente
totalitario, cioè perfettamente democratico. Ed è significativo che la più ardita forma di democrazia che l’umanità possa vantare, quella ateniese del quinto secolo a.C., non abbia prodotto epos, ma pianto tragico. I massimi rappresentanti della civiltà letteraria di quel secolo evitarono la composizione di poemi epici non tanto perché il loro passato
ne
vantava
fin troppi,
ma
perché
erano
troppo
sen-
sibili alle istanze di una cultura veramente autentica, per non capire che l’epos era per loro una meta irraggiungibile. Solo a partire dal quarto secolo a.C. la cultura dell’Occidente ha subito una profonda scissione interna, che sviluppando le premesse poste dalla redazione scritta dei poemi omerici ha dato il via ad una tradizione epica letteraria costellata di nomi illustri come Apollonio Rodio, Virgilio, Turoldo, Tasso, Milton. Ma
allora, si può obiettare, la so-
cietà iliadica era perfettamente democratica. Potrei rispon-
dere con Marx” che in effetti l’Iliade autentica è lo specchio di una « democrazia guerriera », ma questa espressione
richiede un chiarimento. Tutto il mondo è paese, ed anche la società in cui visse l’aedo dell’Iliade originaria era caratterizzata dallo sfruttamento degli schiavi e delle classi inferiori « libere ». Il miracolo epico dell’Iliade sta però nel fatto che la consorteria aristocratica detentrice del potere ebbe l’attitudine singolarissima — forse disumana — a identificarsi con tutta la comunità
sociale di cui, in realtà, era
soltanto una parte. E tale identificazione era rigorosamente
selettiva: le classi inferiori erano escluse dal potere perché 23
erano ignorate dalla classe egemone; anche
essere
considerata
la quale pertanto può
democratica,
ma
solo
nel
senso
che affermava 1 ἰσοτιμία di tutti i propri componenti, rele-
gando
le classi subalterne in un’area
subumana,
non
di-
versa da quella servile o addirittura animale. I nobili terrieri, fra cui va annoverato lo stesso autore dell’Iliade genuina —
che non era, ovviamente, un aedo di professione,
ma un guerriero possessore di terre, proprio come gli « aedi » Achille e Patroclo —, potevano dire benissimo: «La società siamo noi », ma senza alcuna intenzione polemica che facesse pensare ad eventuali diritti accampati da altre classi, come invece avviene per l’analogo slogan che, mutuato dal « re sole », proclama i diritti dei proletari di oggi: « Lo stato siamo noi ». Penso
che non
sia necessario
documen-
tare con l’Iliade alla mano questa interpretazione del genuino epos omerico. Mi limito a richiamare l’attenzione sulla ferocia disumana dei veri eroi iliadici, parallela alla ferocia degli dèi che li proteggono: si pensi alla morte del
giovinetto
Licaone
per mano
di Achille?
e alla diversa
fisionomia spirituale di Atena nell’Iliade, dove è tremendamente spietata, e nell’Odissea, dove è umana e benigna ?.
E aggiungo che non è affatto casuale il fatto che l’episodio di Tersite sia palesemente secondario, come del resto la critica ha assodato già da tempo: la figura di Odisseo, si noti bene, era estranea all’Iliade primitiva”, e Tersite è un « nome parlante », come dice il Pasquali, e perciò di conio recente”; e non è neppure casuale che i λαοί dell’Iliade siano massa amorfa, indegna della pur minima considerazione. I Greci peraltro impararono molto presto che le classi subalterne non possono essere ignorate. L’autore dell’episodio di Tersite (Iliade, II, vv. 212 sgg.) rispecchia, in questo senso, la prima reazione documentabile — isterica
perché propria di una inveterata abitudine alla gestione insindacabile del potere — ad.un attacco mosso ai detentori del potere da una classe sociale che aspira ad una dimen-
sione politica e si affaccia alla storia.
24
La rettifica dell'espressione
« democrazia
guerriera » è
quindi indispensabile, se si vuol veramente comprendere il significato
storico
dell'epos
iliadico.
Né
sembri
sacrilego
trarre ispirazione da una primitiva aristocrazia guerriera per
costruire oggi l’edificio della democrazia, epica e no. Omero non ha bisogno della ferula del demagogo per farci da guida. Del
resto non
sono democratici
né Virgilio, né Dante,
né
Shakespeare, anche per il semplice fatto che sono dei letterat. Dovremo allora cancellare questi poeti dal novero dei grandi maestri di civiltà? Un classicismo che si rispetti deve saper selezionare i contenuti attualizzabili delle culture passate, soprattutto per ricavarne le leggi che presiedono alla dinamica del progresso umano; e per quel che concerne la ‘grecità in particolare, deve saper operare un altro tipo di selezione, consistente nel prescindere non solo dall’assetto
schiavistico
cultura latina), ma
di quella
anche
cultura
dalla costante
(come
tendenza
pure
della
etnocen-
trica che, almeno fino al IV secolo a.C., ha sempre isolato i Greci dal mondo dei βάρβαροι, Per quel che riguarda l’Iliade, infine, deve saper prescindere dall'analogo atteggiamento di chiusura cieca dimostrato dall'uomo iliadico nei confronti di una qualsiasi classe sociale inferiore. E’ impossibile e comunque sconsigliabile attualizzare i contenuti sociali dell'Iliade, mentre è possibile ed auspicabile ricavare orientamenti culturali dalla struttura ‘sferica’ dellepos, che fa tutt'uno con quei contenuti e solo da essi può emergere, ma che può essere applicata a contenuti di diverso colore, purché omogenei e di forma appunto ‘ sferica". Già il Cristianesimo ci ha insegnato a riconoscere un nostro fratello in ogni essere umano, anche di condizione servile, ed è per questo che la letteratura occidentale vanta una ricchissima fioritura epica essenzialmente
cristiana;
ma
è pur vero che tale produzione epica risulta ‘ artificiale ' per vari motivi, tra cui la trascendenza di Dio che rende fittizio il centro della ‘ sfera’ in questione, nonché la mancanza di omogeneità sociale ed economica nelle società cri25
stiane dei vari poeti epici, i quali hanno perciò contribuito a trasformare in piramide teocratica la sfera, tolemaica quanto si vuole, ideata dal Cristo. Gli dei dell’Ilizde invece hanno il loro centro nella vita dell'uomo ?. La borghesia capitalistica laica, d’altronde, è ancor meno
favorita
come compagine sociale produttrice di epos, dato che non ha nemmeno l’idea della sfericità epica; e solo nell’ambito della società borghese è valida l’affermazione di Hegel, secondo cui l'epos è morto per sempre; non vale invece per la società socialista, che tende consapevolmente a diventare sferica, e se vi riuscirà avrà le carte in regola per cantare la propria epopea. La parola scritta uccide lo spirito epico genuino, che può prosperare solo in seno ad una cultura esclusivamente ‘orale. Il motto anti-epico « verba volant, scripta manent » esprime la quintessenza della letteratura. Quando si afferma l'ideale culturale dello « scripta manent », come manifestazione, per cosí dire, di una psicosi del « verba volant »,
l'epos muore. E non è un caso che ad introdurre l'uso dell’alfabeto in Grecia siano stati dei mercanti ionici, parenti stretti di un eroe da romanzo come Ulisse. Se si cerca
di farla sopravvivere, la poesia epica è già morta. Ciò significa che un impiego puramente ludico e disinteressato della scrittura, od anche una sua utilizzazione per fini spiccioli di memorizzazione a sostegno delle capacità mnemoniche dell’aedo, non pregiudicano affatto di per sé il carattere orale della poesia epica autentica; lo pregiudica gravemente, invece, una registrazione scritta che implichi una visione letteraria, cioè antiepica e romanzesca, della vita e del mondo. Le prime redazioni scritte di poemi epici possono essere state pre-letterarie, nel senso che la scrittura alfabetica, non essendo stata inventata dai Greci ed essendo d’importazione recente o recentissima, può aver richiesto
un po’ di tempo perché le sue funzioni visive determinassero 26
una
vera
e propria
metamorfosi
della
civiltà
greca
« dell’orecchio ». Ciò
ovviamente
ridimensiona
in misura
notevole l’importanza di una esatta definizione cronologica dell’avvento materiale della scrittura alfabetica: anche se per ipotesi assurda si rinvenisse il testo originale dell'Iliade primitiva, vergato dall’autore stesso, tale redazione scritta potrebbe non avere alcun peso contro la natura orale di quell’epos, data la possibilità di un impiego non letterario della scrittura alfabetica, possibilità che invece sarebbe da escludere per una tradizione letteraria già adulta e comunque non ‘neonata’. La semplice adozione della scrittura è cosa
ben diversa dalla civiltà della scrittura. Solo la civiltà della scrittura può guardare all’avvenire come ad un territorio di conquista; l'epos genuino, invece, non può guardare al futuro come ad un mondo da conquistare, perché questo fa parte della medesima sfera omogenea epica cui sopra accennavo,
fa tutt'uno col presente. Orbene, non deve interessarci una ipotetica stesura scritta della Urilias, avvenuta quando l’epos era ancora vivo e perciò non ne aveva bisogno per soprav-
vivere, dato che la necessità stessa della sopravvivenza non poteva essere avvertita. Deve invece interessarci la scrittura caratterizzante, come medium di una cultura diversa, non
soltanto letterata ma letteraria. Anche l'Iliade che noi leggiamo ἃ letteratura come l'Odissez, ma ἃ particolarmente interessante perché mostra i segni di una trasformazione che non impedisce di riconoscere i lineamenti che l'opera aveva prima della sua mummificazione letteraria, quando era ancora viva, cioè puramente orale. L'autore di questa metamorfosi fu un poeta che guardava ai suoi simili come a persone, pur non tutte, diverse da lui, e che pertanto avvertí il bisogno di salvaguardare la propria identità culturale, anche nei confronti dei posteri, che a maggior ragione sarebbero stati diversi e quindi richiedevano di essere assimilati a lui da un rapporto di comunione rappresentato
appunto dalla parola scritta, la cui fissità, ben diversa dalla parola formulare, garantiva di rendere contemporaneo qualunque futuro. Come si può facilmente notare, nel momento 27
stesso in cui nasce la letteratura, si afferma anche una embrionale poetica pedagogica: al disinteresse edonistico dell'aedo Achille? subentra il didascalismo del poeta vate, che vuole cambiare il mondo, perché lo vede diverso e lo vuole conforme all'idea del proprio mondo. L'avvento della poesia esiodea è, in tale prospettiva, una splendida prova del nove: la controversia giudiziaria di Esiodo con suo fratello esprime l'esasperazione del diverso nel simile, ben lontana dal contrasto fra Achille ed Agamennone, i quali restano simili, cioè fratelli di tribá, sino alla fine (un Achille
odissiaco ucciderebbe sábito il suo offensore, in nome del. la... moderna
letteratura,
mentre
l'Achille
dell’Iliade
non
puó eliminare Ágamennone, perché l'aedo iliadico si riconosce in entrambi questi eroi; Odisseo invece può ster. minare i « cugini » proci — che bivaccano nella sua casa perché sono suoi ‘fratelli’, cioè perché accampano sacrosanti diritti di sangue —, in quanto l'aedo si riconosce soltanto nell'eroe protagonista, ed entrambi guardano scandalizzati ad aspetti tipici di una società arcaica che ignora il possesso istituzionalizzato del patrimonio domestico, l'unità moderna della famiglia e il lavoro) *; e i ‘ consigli a Perse” non hanno niente che vedere con l'Ilizde veramente epica, mentre sviluppano organicamente un atteggiamento didascalico il cui atto di nascita è dato dalla scrittura letteraria della poesia epica artificiale, odissiaca e, solo parzialmente, iliadica. I proci odissiaci, non solo come rivali di un eroe supremo, sono arcaici fratelli di Agamennone, e la loro strage indiscriminata é il simbolo della scomparsa di una famiglia tribale che ha perduto la sua miracolosa omogeneità epica. Odisseo é un
sopravvissuto
che
si traveste
da sterminatore.
Ho sotto gli occhi un libro di E.A. Havelock, il cui titolo italiano
Omero
suona
a Platone;
pretenzioso: presentatore 28
Cultura
orale
e civiltà
della
scrittura.
Da
il titolo originale è invece molto meno
Preface to Plato (Cambridge, Mass. 1963). Il dell’edizione italiana, Bruno Gentili, sostiene
che il titolo italiano è più appropriato. Penso invece che sia più appropriato il titolo originale, se è vero che l’attenzione dello studioso anglosassone è concentrata su Platone, mentre altre esperienze culturali di primissimo ordine, coeve od
anche
anteriori
a Platone,
come
il pensiero
sofistico,
restano fuori campo. Il nuovo titolo, comunque, fornisce utili indicazioni sul contenuto del libro, che traccia una cronistoria della grecità preplatonica, cercando di recupe-
rare all’oralità analfabeta il maggior opere comunemente
numero
possibile di
considerate letterarie. Si tratta quindi
di un lavoro chiaramente
provocatorio,
e il titolo italiano,
pur eufemistico, sottolinea le punte della provocazione. E.A. Havelock
sostiene
(p. 44),
che
sarebbe
inesatto
chiamare
letteratura gli scritti degli autori greci anteriori a Platone, e ribadisce
(p.
105)
che la poesia
non era «letteratura »,
ma « una necessità politica e sociale ». Perché non si creda di essere di fronte ad affermazioni originali e rivoluzionarie, mi sembra opportuno trascrivere qui dal Mestiere di vivere
di Cesare Pavese un pensiero risalente al 16 gennaio 1948 e nobilitato da una correttezza dossografica che purtroppo è assente nel libro di Havelock, ed è tanto più sorprendente, se si pensa che un artista come Pavese poteva benissimo non sentirsi obbligato a documentare gli spunti
offertigli da altri per le sue considerazioni critiche. Dice appunto Pavese: « I Greci hanno creato la recitazione, i Latini la letteratura. (Cfr. Bérard e Snell). Vedi, del resto, il 22 marzo ’47.
Narratori i Greci sono stati soltanto con gli storici (Erodoto,
Tucidide)
e anche
Olimpiadi.
Omero
Erodoto
componeva
veniva declamato,
per
leggere
alle
i lirici cantati, i tra-
gici recitati, gli oratori pronunciati, la filosofia discussa. Sempre la voce e il gesto... La celebre naturalezza dei Greci nasce dall'uso di un linguaggio parlato, in senso proprio. Non si può parlare in modo non naturale; si sentirebbe subito la stonatura con l’attore, il parlatore in carne 29
ed ossa. Il linguaggio letterario, composito, si ha soltanto quando il discorso viene filtrato e disumanato, spersonalizzato, sulla pagina scritta ». Come
soprattutto
Pavese,
le idee
Havelock
(ved.
di V.
Bérard?:
anche
p.
17)
ribadisce
far risalire la /ette-
ratura fino a Platone, non ἃ una vera novità. Con queste mie riserve non voglio negare l'importanza che detto libro ha per la storia della cultura greca preplatonica, né intendo negare l'importanza dell’oralità di quella cultura. Riporto qui un brano di p. 37 del libro in questione: « E’ lecito concludere che la situazione culturale descritta da Platone (scil. nella Repubblica) è tale per cui la comunicazione orale domina ancora tutti i rapporti importanti e le transazioni valide della vita. Naturalmente esistevano i libri, e l'alfabeto era in uso da più di tre secoli;
ma l’interrogativo è: quanti lo usavano? e per quali scopi? Fino a quest'epoca,
esso in pratica aveva
inciso ben
poco
sul sistema educativo o sulla vita intellettuale degli adulti. E’ una conclusione difficile da accettare, specie da parte di filologi avvezzi a studiare la parola scritta. Costoro infatti lavorano servendosi di documenti e di opere di consultazione, e trovano quindi difficile immaginare una civiltà degna del nome che non si avvalesse dei medesimi strumenti. E in effetti, quando rivolgono la loro attenzione al problema dell’esistenza di documenti scritti, tradiscono la tendenza a valutare al massimo le testimonianze a favore,
con una datazione la più antica possibile ». Cerco di immaginare come reagirebbe uno scienziato della tecnologia della comunicazione come il McLuhan, nel sentirsi dire che l'alfabeto, dopo essere stato usato per al cuni secoli, « aveva inciso ben poco sul sitema educativo o sulla vita intellettuale degli adulti ». Sembra che Havelock voglia farci credere che la scrittura alfabetica sia stata, fino al quinto secolo, un futile giuoco riservato ai bambini. A
p. 39 del libro di Havelock si legge che per i primi due 30
terzi del quinto secolo gli Ateniesi — pochi, naturalmente — sapevano scrivere, ma non sapevano leggere. D'altra parte è significativo che l’episodio del contadino che votò per l’ostracismo di Aristide, narrato da Plutarco (Arist., 7), sia
interpretato da Havelock come prova di analfabetismo *, sebbene E.G. Turner già nel 1952 abbia osservato: « Ora che gli scavi americani nell’agorà ateniese hanno riportato alla luce grandi quantità di ostraca bell’e pronti, evidentemente tenuti raccolti in mucchi, l’episodio deve essere modificato: quel che chiedeva il contadino era un coccio col nome di Aristide » "; quel contadino poteva anche essere analfabeta * — come del resto lo furono i contadini dei tempi di Plutarco e molti milioni di altri contadini europei fino a qualche decennio fa —, ma è anche vero che non è consigliabile tacciare di analfabetismo gli Ateniesi del quinto secolo, in base all'analfabetismo della letteratissima età plutarchea. Quel contadino che odiava Aristide era analfabeta
cosí come possono esserlo oggi tutti coloro che invece della
propria firma hanno l'obbligo di apporre la classica croce elettorale ‘ analfabeta’ sul «si» o sul «no» di un referendum. La conclusione di E.A. Havelock è quindi veramente « difficile da accettare ». Noi sappiamo, ad esempio, che dei semplici soldati mercenari greci agli inizi del sesto secolo a.C. sapevano scrivere la propria firma”. Orbene, Havelock è abbastanza corretto per ricordare le iscrizioni e le firme di Abu Simbel, ma tiene a precisare che quei mercenari non erano attici *, e per dimostrare l’analfabetismo ateniese ricorda l’aneddoto del contadino plutarcheo del quinto secolo", trascurando per di più il fatto che «la diffusa capacità di leggere e scrivere è un presupposto fondamentale della democrazia ateniese » *. Ovviamente per buona parte del sesto secolo l’analfabetismo in Atene dovette essere molto diffuso, ma nella seconda metà di quel secolo le cose cambiarono in modo sensibile, e proprio sotto Pisistrato — quindi in regime non democratico — si costituí un pubblico di lettori, certamente ristretto, ma co31
munque non diverso da quello di certi paesi europei letterati di uno o due secoli fa. La notizia riguardante Pisistrato,
alla quale
nessun
sofisma
finora
dito, è fornita da Gellio 9, ma
autorizza
non
a toglier
cre-
la trovo né citata né
discussa nel libro di E.A. Havelock: . Libros Atbenis disciplinarum liberalium publice ad legendum praebendos primus dicitur posuisse Pisistratus tyrannus, deinceps studiosius accuratiusque ipsi Athenienses auxerunt; sed omnem illam postea librorum copiam Xerxes, Athenarum potitus, urbe ipsa praeter arcem incensa, abstulit asportavitque in Persas. Hos porro libros universos multis post tempestatibus Seleucus rex, qui Nicanor appel. latus est, referendos Atbenas
curavit, con quel che segue.
Da ció si deduce che la differenza tra l'Atene pisistratea e quella periclea non va ravvisata nel tasso di analfabetismo
(considerato
in
sé e per
sé)
—
che
naturalmente
fu più elevato nella. prima —, ma nella qualità dell'impiego della parola scritta, meno diffuso ma, proprio per questo, più letterario ai tempi di Pisistrato, invece ampiamente diffuso in età periclea e, proprio per questo, fortemente condizionato dalla comunicazione orale. La democrazia diretta ha bisogno dell’alfabetismo, ma la concreta vita democratica tende a sopraffarlo, riducendone notevol. mente il potenziale letterario. La partecipazione attiva degli Ateniesi alla vita della polis faceva sí che la comunica zione orale — labile ed effimera, ma più rapida ed effi. cace, nonché meno esposta al pericolo dei malintesi — si affiancasse con pari dignità alla comunicazione scritta: tutto sommato, l’agorà non era molto diversa da una rumorosa piazza di paese. E a tal proposito un suggerimento di ordine psicologico ci viene fornito da un letteratissimo contemporaneo di Platone, Isocrate, il quale sostiene quanto segue *: «So bene che, per chi si accinge a dare consigli, è molto meglio stabilire contatti non per iscritto, ma presentandosi egli stesso; non soltanto perché sul medesimo ar32
gomento più facilmente si potrebbe parlare di persona, che manifestare il proprio pensiero per via epistolare, né perché tutti prestano fede alle parole più che agli scritti, e le une ascoltano come consigli, gli altri come opere letterarie; ma anche perché, nei colloqui, se qualcuna delle cose dette non sia compresa o creduta, essendo presente chi espone il discorso,
trova rimedio nell'un caso e nell'altro;
se invece
accade qualcosa di simile nelle lettere che sono state scritte o spedite, non c'é chi ponga rimedio, poiché essendo lontano colui che le ha scritte, non hanno chi le difenda » (trad. Α. Argentati e C. Gatti).
Come si può notare, l'oralità della cultura greca viene da Isocrate recuperata a livello di semplice confidenza personale, dato che ormai la letteratura libresca ha avuto il sopravvento; ma la radice psicologica di tale confidenza
è la stessa della comunicazione orale * politica’ del quinto secolo. Il peso eccessivo attribuito da E.A. Havelock alla cultura orale è dunque segno di intemperanza critica, ed è a causa di quell’eccesso che lo studioso suddetto viene a trovarsi in una ‘ impasse ' da cui non gli è possibile uscire, se non con una formula esplicitamente dubitativa, che investe il nodo cruciale della questione e pregiudica la validità dell’intero discorso critico fondato sull’oralità indiscriminata dell'I/jae e dell'Odissea: « Il totale analfabetismo della Grecia omerica » (da noi conosciuta, aggiungerei, attra-
verso poemi che ci sono pervenuti scritti), « lungi dal costituire uno svantaggio, era la condizione necessaria in cui il genio greco poteva venire a maturità. Questa condizione
della comunicazione ebbe un effetto che, si potrebbe affermare, si dimostrò nel campo delle arti figurative, e non viceversa. Lo stile protogeometrico in pittura non fu inizialmente un riflesso psicologico di quel rigoroso addestra-
mento ai moduli acustici che le esigenze del vivere e dell'ascoltare di ogni giorno richiedevano?... Questa interpretazione
può
apparire
controversa » ‘4. Altrettanto
« contro33
verse » appaiono le considerazioni di coloro che hanno pa-
ragonato gli schemi compositivi dell'Iliade agli schemi visivi dei vasi geometrici , in base a riscontri puramente estrinseci. La verità è che il principio rigorosamente unitario che presiede a quelle figurazioni grafiche vascolari presuppone un atteggiamento astrattivo inconciliabile col
primitivismo dell’epos tribale. Del resto basta rileggere il brano testé trascritto, per capire che il suo autore si sta arrampicando sugli specchi: il rigore compositivo dello stile geometrico lo costringe a parlare di «rigoroso addestramento
ai moduli
acustici », che ovviamente
è cosa ben
diversa dall’utilizzazione del principio razionale che ispira quelle decorazioni vascolari. La razionalità compositiva è del tutto estranea all’esecuzione aedica dell’epos vero e proprio. Sentiamo il Bachtin: « L'epopea è indifferente all’inizio formale e può essere incompleta (cioè può ricevere una fine quasi arbitraria). Il passato assoluto è chiuso e compiuto sia nel tutto sia in ogni sua parte. Perciò ogni parte può essere foggiata e presentata come un tutto. L’intero mondo del passato assoluto (ed esso è unitario dal punto di vista dell’intreccio) non può essere abbracciato in una sola epopea (ciò significherebbe narrare tutta la tradizione nazionale), ed è difficile abbracciarne persino un segmento appena ragguardevole. Ma in questo non c’è niente
di male perché la struttura del tutto si ripete in ogni parte e ogni parte è compiuta e tonda come il tutto. Si può cominciare il racconto quasi da ogni momento e si può finirlo in ogni momento. L'I/iade è un ritaglio casuale del ciclo troiano. La sua fine (l’inumazione di Ettore) dal punto
di vista romanzesco non potrebbe in alcun modo essere una fine. Ma la compiutezza epica non ne soffre per nulla » 5.
Il fatto che il Bachtin non parli dell'OZissez, perché non gli sarebbe possibile — questo poema ha un inizio, uno sviluppo e una fine articolati in modo profondamente uni.
tario e complesso — conferma la distinzione da me sopra stabilita tra Iliade e Odissea, cioè fra epos autentico e
34
forma aurorale di romanzo. Sembra, comunque, che anche lo studioso sovietico si lasci influenzare dall’impressione superficiale suscitata dal geometrismo vascolare, che invece
non può conciliarsi con la sostanziale diversità fra epos iliadico e epos odissiaco ad esso coevi. Già A. Hauser ha rilevato che «è difficile istituire un rapporto storico fra lo stile della poesia omerica e il geometrismo contemporaneo » 5, ed ha proposto una soluzione del problema, che opportunamente integrata e rettificata, corrisponde a quella
che emerge inevitabilmente dalle premesse del presente discorso storico. Se si vuole utilizzare l'equazione oraziana « ut pictura poesis », essa va ragionevolmente applicata soltanto all'Odissea, escludendo contatti storici significativi fra la cultura epica esclusivamente orale e la cultura rispecchiata dai vasi geometrici. La natura stessa dell’epos autentico, chiuso ad ogni influenza esterna che fatalmente lo disgregherebbe, avalla la presente interpretazione. Bisogna convincersi — in nome dell’ancora attuale concetto aristotelico di storia — che la storia greca si articola in settori particolari in cui singoli gruppi etnici possono anche non aver avuto rapporti tra loro, soprattutto in certi periodi dei secoli « bui» del medioevo ellenico. Si osservi, per giunta, che l’epos iliadico, oltre ad aver avuto una fioritura molto
breve,
deve
essere
molto
ristretta, nella
sbocciato
quale
in un’area
i comiponenti
territoriale
dell’aristocrazia
guerriera intrattenevano relazioni personali e quotidiane ed ignoravano la pratica dei traffici marittimi, traendo i mezzi di vita da un’economia
agricola rigorosamente
chiusa:
lo
specchio di tale situazione è offerto in modo esemplare dalle parole di Sarpedonte a Glauco nel libro 12° dell’Iliade (vv. 310 sgg.), dove risulta che «l'eroe riceve onore, terre e sussistenza dal suo popolo; in cambio egli
deve
combattere
significativo,
in
per esso nel fronte di battaglia » 9. E’ tal
familiarità col mare. dall’Iliade
subentra
senso,
che
l'aedo
Solo quando una
civiltà
iliadico
non
abbia
alla civiltà rispecchiata
marittima
e commerciale, 35
i contatti con i centri di produzione della ceramica geometrica (attica, direi, piuttosto
che dorica o beotica)
provo-
cano l’assorbimento da parte dell’epica ionica, di quel principio razionale e unificatore che ritroviamo alla base dell'Odissea. I vasi del Dipylon sono espressione di una cultura (pur di origine beotica o dorica), il cui nucleo è lo stesso di quella odissiaca; e non è un caso che già per altra via sia emerso un rapporto strettissimo tra l’avvento della scrittura alfabetica (sorella dell'« esprit de géometrie », come si vedrà qui di seguito) e la redazione ‘del poema di Ulisse.
Le
lettere
dell’alfabeto,
sono,
per
cosî
dire,
l’al-
gebra della realtà sociale della comunicazione, cosí come le figure geometriche sono la quintessenza astratta della realtà naturale ?; sia le une che le altre sono come ‘numeri’, cioè rapporti conseguenti ad un processo di astrazione. Con
l'Odissea si pongono le premesse del λόγος e del mondo moderno. E non è casuale che una conferma di ciò che qui si è stabilito in merito alla storia della poesia epica venga fornita da un esperto della statura di M. McLuhan, di cui mi sembra opportuno trascrivere alcune osservazioni esemplari, pur riconducibili in parte alle scoperte di Tobias Dantzig: «Se si fosse dato la briga di individuare l'origine del numero e dello spazio euclideo negli effetti psicologici dell’alfabeto fonetico, forse Spengler non avrebbe
mai scritto I/ declino dell'Occidente. Quest'opera si basa infatti sul presupposto che l’uomo classico, l’uomo apollineo, non fu il prodotto di una tendenza tecnologica della cultura greca (cioè del primo impatto dell’alfabetismo
su una
società tribale), ma il risultato di una particolare vibrazione della materia spirituale che avvolgeva il mondo greco » 5; e ancora: « Uno dei fattori principali che indussero i Greci ad adottare le lettere dell’alfabeto era il prestigio e l’efficienza del sistema numerico dei mercanti fenici » *; per non dire della constatazione dello stesso Dantzig, secondo
cui nella matematica antica è caratteristico il fattore alfabeta e visivo della corrispondenza 36
e della successione
(ti-
piche, aggiungo io, già dello stile figurativo protogeometrico), che sono principi «orditi nel tessuto stesso del nostro
sistema
numerico » ? e, secondo
il McLuhan,
«lo
sono anche nel tessuto della logica e della filosofia occidentali » *; ed infine: «La tecnologia fonetica favorí la continuità visiva e il punto di vista individuale... Ora entrambi questi concetti — la linearità e il punto di vista —
derivano
dalla scrittura, e in particolare da quella fone-
tica » 9, La civiltà occidentale
ἃ detribalizzato
con
à nata
quando
l'elaborazione
l'uomo
dell'alfabeto,
greco
si
il quale
non riproduce pedissequamente l'alfabeto fenicio, ma lo supera e lo perfeziona, come ho già ricordato. Ció equivale a dire che l’Iliade, quella genuina e arcaica, appartiene ad un mondo che è diverso da quello dell’Odissea almeno
quanto
lo è da quello miceneo.
Il medium
freddo della
parola parlata del vero epos cede con l’Odissea il posto al medium caldo della parola scritta, la quale coinvolge anche il destino letterario dell'Ilade. Ma nonostante la forma letteraria in cui anche questo poema ci è pervenuto, è possibile stabilire che il passaggio dall’Iliade all'Odissea
non è la semplice evoluzione di un mondo che si trasforma in termini
di normale
crescita culturale,
ma
è un
vero
e
proprio salto. In fin dei conti la teoria neo-unitaria si fonda su ragioni di ordine contenutistico, per sostenere che la realtà culturale rispecchiata dall’Odissea è un mondo più evoluto di quello iliadico, ma che comunque gli strumenti espressivi delle due culture sono praticamente gli stessi — o
soltanto orali, fissati poi nella scrittura più o meno casualmente,
o soltanto
letterari —.
Invece
la letterarietà
del.
l’Iliade è solo il rivestimento ibrido (odissiaco per la precisione) di una materia epica sostanzialmente
estranea alla
civiltà della scrittura, ed è per questo motivo — sotteso alla formularità comune ai due poemi — che l’analisi stilistica tradizionale non è in grado di definire uno stile 37
iliadico diverso da uno stile odissiaco. Ed ecco perché la critica contenutistica ancora oggi rivendica a sé il diritto quasi esclusivo di far luce sulla storia e sulla preistoria della poesia omerica. E solo utilizzando una nozione dello stile diversa e più ampia di quella tradizionale — penso anche alle novità, non proprio recenti, di critici come lo Spitzer e l'Auerbach, i quali hanno influito ben poco sulla letteratura critica omerica (si ricordi comunque il « metodo dei campioni » adottato da B. Marzullo) —, è possibile integrare utilmente gli spunti offerti dalla « Weltanschauung » dei due poemi, e sviluppare i suggerimenti offerti dalla tecnologia della comunicazione. « L'alfabetismo crea tipi di individui assai più semplici di quelli che si sviluppano normalmente nella complessa rete delle società tribali e orali. L'uomo frammentato crea
infatti l'omogeneo mondo occidentale, mentre le società orali si compongono di persone differenziate... da singole e inconfondibili miscele di sentimenti. Il mondo interiore dell'uomo orale è un groviglio di emozioni e sentimenti complessi che il pratico uomo d’occidente ha da tempo corroso
o eliminato a vantaggio dell’efficienza e della praticità » 5$. Qui probabilmente il McLuhan vuole dire altro da ciò che risulta dall’intellezione ovvia dei suoi enunciati. Mi sembra opportuno, comunque, apportare una chiarificazione, che può essere una rettifica solo apparente. Se l’alfabetismo produce il « punto di vista individuale », cioè « l'uomo frammentato », veramente omogenea può essere soltanto la cultura orale, proprio perché in seno ad essa non si è ancora creata una frattura, che è segno di eterogeneità e contiene solo le premesse per un tentativo di ricostituzione dell'omogeneità primitiva. Tale tentativo nasconde una concezione pedagogica della realtà sociale. La storia del mondo occidentale, la cui omogeneità non è caratterizzante come
quella del mondo
tribale, è quindi la storia stessa della
scuola. La cultura iliadica non può avere paideia, perché l’uomo tribale è equidistante da tutti gli altri componenti 38
della sua comunità. L’intenzione di avvicinarli a sé in termini di educazione è assolutamente superflua ed estranea a quella cultura: come l'aedo è anche eroe, cosí il maestro
è anche discepolo di se stesso, cioè della società che è identica in tutte le sue parti e che perciò non ha nessun
bisogno di educare gli individui che la compongono. Ecco perché l’aedo Patroclo può subentrare all’aedo Achille in qualunque momento dell’esecuzione aedica”. L’uomo tribale è destinato fin dalla nascita a diventare identico a se
stesso, cioè alla società che lo esprime: della scuola, intesa come
vello
di semplice
non ha bisogno
istituto educativo,
educazione
familiare.
neppure
L'eroe
a li-
dell’Iliade
non conosce i « consigli del nonno ». Il vero Achille non ha maestri: Chirone e Fenice sono invenzioni del rapsodo odissiaco (o della cultura letteraria che egli esprime), anche
per il semplice fatto che sono due e nell’economia epica l'uno dovrebbe escludere l'altro *. Nestore poi, il vecchio eroe saggio, e quindi maestro, tradisce ancor più chiaramente la sua origine ‘ romanzesca ’, cioè non iliadica e non epica, per due motivi fondamentali: 1) i suoi consigli non sono ascoltati da nessuno, perché egli è un intruso, un eroe entrato da un mondo, quello di Odisseo — che ha una sua paideia — in un mondo diverso, quello di Achille, che non vuole consigli da nessuno in quanto tutti i consigli
possibili fanno parte di un codice che ogni componente di quel mondo
suo nome
respira fin dalla nascita;
2) il fatto che il
abbia un significato chiaramente intelligibile —
sia un nome « parlante », come direbbe il Pasquali” — è segno di secondarietà, e — guarda caso — ‘Nestore’ significa ‘ colui che ritorna’, proprio come Odisseo, suo fratello spirituale, è véotwp per antonomasia. Naturalmente
con questo non voglio dire che al tempo di Omero epico non vi fossero adulti che dessero consigli ad altri adulti o
a minorenni. Intendo dire che quei consigli — da intendere anche come ammaestramenti musico-militari — erano il corrispettivo del comportamento delle madri che allatta39
vano i propri figli. Quei consigli non provenivano da scelte personali né comportavano possibilità di scelta da parte dei destinatarî: erano il ‘latte’ di quella cultura, perché mancava ad essi l’intenzione di salvaguardare un sistema di valori considerato esposto a pericoli, solo la consapevolezza dei quali poteva essere il presupposto di una ‘ istituzione’ scolastica. Il che equivale a dire che nel mondo iliadico autentico non c’era scuola, perché gli scopi di questa erano realizzati dalla vita sociale stessa con perfetta naturalezza: l’educazione poteva essere soltanto indiretta ed ognuno poteva scegliersi un modello da imitare (vedi Patroclo ed Achille) per realizzare la propria già potenziale omogeneità con l’ambiente. La « scuola » era vita, ed è questa la ragione per cui la cultura proletaria guarda oggi ad una dimensione epica del proprio avvenire. Nel mondo iliadico non c'erano uomini che potessero proporre un ideale di vita diverso da quello abituale; quando tali uomini vi furono,
nacque
l’Odissea,
e
Ulisse
bastonò
Tersite.
La
storia della scuola ἃ la rassegna di una serie ininterrotta di squilibri tra forze sociali e politiche all'interno delle varie società che si sono succedute nel corso di molti secoli,
dalla polis all'impero romano, dalle nazioni moderne alle odierne unità politiche sovranazionali. La scuola dunque è figlia dell'alfabeto, il quale è produttore di sapere, mentre la cultura orale non produce valori, ma riproduce costantemente se stessa. Qui è il limite, ma anche il fascino, della cultura iliadica, che appar-
tiene di fatto alla preistoria della nostra cultura ed è splendidamente immobile come un Eden popolato da soli dèi, ma si propone come un paradiso da riconquistare perché è stato l’uomo a produrla. Deucalione e Adamo non sapevano scrivere. La fissità della parola scritta è segno di dinamismo sociale, anche quando narcisisticamente si specchia nella fissità repressiva e gratificante dell'egemonia di classe, mentre la parola soltanto parlata & propria dell'uomo « socialmente statico » 9, che ignora sia la rivoluzione sia
40
la reazione: la formularità orale è quindi cosa ben diversa dalla fissità grafica. Qui è il vero motivo per cui il conservatore Platone polemizza contro la scrittura *: egli persegue un ideale di immobilità socio-politica pura, ed invece la parola scritta può assicurargli, nel migliore dei casi, una stabilità di forme sociali e politiche puramente repressive (psicanalisi a parte) e reazionarie (l'immobilismo del. l’Iliade insegna invece che la conservazione può non essere reazione). E non ἃ un caso che Socrate, un altro piá coe-
rente nemico della parola scritta ed emulo di Pitagora, abbia difeso
e coltivato
un
ideale
maieutico
della
cultura,
cosí
come i « maestri » dell'epos iliadico non potevano che avere compiti esclusivamente maieutici, cioè non produttivi. Il socratico ‘sapere di non sapere’ è essenzialmente un sapere di non volere (e quindi di non potere) produrre sapere ', ed è la versione « romanzesca », cioè moderna,
del-
l'epico ‘ non sapere '. Ovviamente sia la polemica platonica contro la scrittura sia la maieutica socratica vanno interpretate tenendo conto del fatto che l'uno e l'altro filosofo non possono prescindere dalla letterarietà del contesto culturale in cui operano.
L'uno polemizza
per iscritto contro
la scrittura; l'altro si trova ad applicare la maieutica ad uomini che ormai sono individui come lui e che perció possono come lui esprimere dal proprio seno valori che non necessariamente corrispondono in pieno a quelli della società in cui vivono. In tale prospettiva la morte di Socrate è di natura schiettamente letteraria, cioè « roman-
zesca », non solo antitragica 9, ma antiepica; e l'* archeologia’ platonica di un Crizia esprime il rimpianto di un paradiso perduto — l’Atlantide —, mitizzato quanto si vuole, ma corrispondente, negli aspetti essenziali, alla so-
cietà tribale che mondo iliadico.
emerge
dalla presente
ricostruzione
del
Quando dunque il McLuhan dice che l’uomo alfabetizzato ha una struttura interna meno complessa del « groviglio » che caratterizza l’uomo tribale, questa affermazione 41
va intesa solo nel senso che l’evoluzione dell’uomo è una semplificazione della sua vita affettiva. L'uomo tribale ha un ‘orecchio’ più sensibile che non l’uomo visivo alfabetizzato, e quindi dispone di un registro affettivo molto più vasto (non a caso il « vedere » è un'attività specifica della mente e non del cuore); ma in termini di vita interpersonale, cioè di comunicazione per mezzo di segni concettuali, quel registro diventa povero ed elementare, risulta cioè primitivo, e proprio per questo può estendersi in modo omogeneo a tutti i componenti della comunità tribale. Nella misura in cui, però, il registro intellettuale si amplia (per effetto dell’alfabetizzazione), cade la possibilità di una sua completa diffusione capillare e uniforme in seno alla società, e di conseguenza tutte le energie psichiche si concentrano nella tensione verso un adeguamento di natura riflessa, riducendo moltissimo il potenziale affettivo della vita interiore. Odisseo è un personaggio più evoluto di Achille, ma ‘sente’ molto meno di Achille, il quale è in serito in un tessuto sociale e ideologico omogeneo, dal peso
specifico uniformemente distribuito, e con ogni sua parola rispecchia la totalità del suo mondo, mentre la dimensione del mondo odissiaco è dinamica e eterogenea come quella di tutta la civiltà occidentale. Dire pertanto che l’Odissea è espressione di ‘omogeneità’ equivale a riconoscere che Odisseo è un uomo psichicamente semplificato, che impersona una società che tende ad essere omogenea, ma che di fatto non lo è; ha l’idea della totalità omogenea,
ma
non
la vive concretamente perché non la realizza come prassi sociale. Dice il Bachtin che nella civiltà letteraria post-epica del romanzo — che qui cerco di dimostrare esser nata con l'Odissea — «l'assenza di compiutezza e esauribilità interna porta a un netto rafforzamento delle esigenze di una compiutezza e esauribilità esterna e formale, soprattutto d’intreccio » 9, Orbene, l'Odissea ha una struttura vistosamente più unitaria di quella dell'I/iade, perché nasce quando la compiuta sfericità epica è ormai in crisi. Se dunque è
42
vero che ogni sviluppo culturale implica un’acquisizione di strutture cognitive ed ideologiche sempre piá articolate e complesse, e quindi tendenzialmente eterogenee, è anche vero che queste tendono costantemente a compaginarsi nel tessuto della comunicazione secondo un principio unitario di ‘omogeneità’, che chiamerei piuttosto organicità e che rispecchia l'unità pluralistica e organica della polis. La civiltà occidentale ha sempre cercato di realizzare unità sociopolitiche omogenee, senza mai riuscirvi: ha quindi affermato solo un ideale di cultura omogenea, che si ἃ concre-
tizzato soltanto in sede di dissociazione
‘letteraria’
nel.
l'unità formale dell'opera d'arte. E non ἃ un caso che la questione omerica sia la piá annosa disputa letteraria della cultura dell'Occidente: la ragione di questa longevità sta soprattutto nell’importanza vitale che l’unità della forma ha sempre avuto per il classicismo, che non ha saputo mai rassegnarsi a veder negata o a negare quell’unità proprio in due poemi in cui esso si riconosceva * e che erano univer-
salmente considerati il vertice della poesia mondiale $. Dopo l'Odissea, che risponde alla crisi centrifuga dell'epos con uno sforzo centripeto di concentrazione formale, la ricerca dell'omogeneo tenta la via ‘verticale’ della letteratura didascalico-teogonica esiodea per poi sfociare nella letteratura « fisiologica » dei filosofi segugi dell’arché. La filosofia dell’Uno è la gemma più preziosa di questa ricerca velleitaria, metafisica e aprioristica, dell'omogeneo. Dall'Odissea in poi, ogni ideale di omogeneità è un «a priori »; nell'Iliade invece l'omogeneità era la vita stessa dell'uomo, non ancora dissociata dal diaframma dell'« intelligenza ». La quale sem-
plifica ma insieme divide:
l'uomo
intelligente, cioè colui
che persegue l'ideale dell'unità scientifico-razionale, è un grande semplificatore ma & anche un grande produttore di scismi. La prima massiccia semplificazione, con la conseguente dissociazione astrattiva, si ὃ avuta con l'avvento dell'alfabeto e della parallela scienza del numero: pochi simboli per rendere potenzialmente fruibile tutta la realtà
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dello spirito e della natura. Quella semplificazione fu una rivoluzione culturale che stiamo vivendo ancora oggi. Per cultura, in senso non antropologico, intendiamo infatti la
capacità di cogliere le poche e semplici linee di forza della complessa ed eterogenea realtà che ci circonda: e l'umile precetto scolastico di «leggere, scrivere e far di conto » segna quindi un traguardo culturale di notevole valore, poiché concerne gli strumenti essenziali e indispensabili per semplificare, cioè dominare, qualunque realtà, anche la più complessa ed eterogenea, sia pure in termini di dissociazione. Nel mondo epico preodissiaco, invece, tali strumenti non erano necessarî, perché le linee di forza cui or ora accennavo non erano sopraffatte o mascherate da una realtà magmatica del tipo di quella in cui l’uomo occidentale è vissuto fino ad oggi. Achille era il guerriero pi prode ed insieme il più « colto », sebbene analfabeta $. I più alti livelli culturali raggiunti dalla civiltà occidentale sono stati comunque quelli caratterizzati da un notevolissimo indice di semplificazione razionale accompagnata da un tasso notevole di omogeneità, la quale però fu solo
il risultato di una ‘ catechizzazione ' delle masse e in effetti non fece che sottolineare la scissione di fondo dell’humus sociale su cui si estese. Perché nelle società post-epiche dell'Occidente emerga una certa omogeneità è necessaria la collaborazione fra intellettuali e potere: in virtá di questa la forza dirompente e rivoluzionaria dell’« intelligenza » viene imbrigliata e convogliata verso la neutralizzazione di tutto ciò che è eterogeneo e che si oppone alla gestione del potere costituito. Esempi cospicui di tale omogeneità
‘ pilotata’ sono offerti dalla classicità dell’Atene periclea e dal classicismo della Roma augustea, dell’Italia rinascimentale e della Francia illuministica: queste civiltà letterarie sono caratterizzate da un’estrema semplificazione di
forme, e la spia della loro omogeneità velleitaria è data dal mecenatismo,
che
tutte
le accomuna.
Particolare
inte-
resse riveste comunque la classicità periclea, proprio perché
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sviluppa un atteggiamento selettivo che è presente, in nuce, già nell'Odissea: la selezione delle forme espressive presuppone sempre una selezione di carattere sociale, e se non è avvertibile nell'Odissez, ciò è dovuto alla pesante ‘ inerzia” della tradizione formale epica: la punizione di Tersite e l’ingresso degli umili ‘buoni’ nel mondo odissiaco sono due aspetti di una medesima realtà sociale ormai dissociata. E per convincersi dell’inerzia sullodata si ponga mente al fatto che nell'Odissea personaggi come Filezio e Eumeo ricevono epiteti normalmente riservati agli eroi”. La classicità periclea non è dunque il prodotto esclusivo dell'epopea anti-persiana — quasi una nascita di Atena dal cranio di Zeus —, ma è figlia dell'Atena odissiaca; cosí come il senso dell’individualità, che nascerebbe con la lirica arcaica — idea, tutto sommato, banale: chi non sa
che lo specchio dell’individuo è il lirismo? —, è anch’esso il portato del punto di vista individuale del rapsodo odissiaco alfabetizzato. L'individuo occidentale è figlio dell'Odissea. L'età di Pericle sembra rinnovare il miracolo dell'omogeneità sociale e politica dell’Iliade, ma tutti sanno che l'unità realizzata da quel grande statista fu un semplice compromesso. Ecco perché la struttura dei prodotti artistici di quell'epoca
è rigorosamente
unitaria
e organica
e pre-
suppone la struttura, sia pure arcaica, dell’Odissea, mentre non ha nulla in comune con la struttura dell’Iliade, la cui
posticcia modularità è veste odissiaca come la trascrizione alfabetica. La storia dell'uomo occidentale, di questo ulisside che va in cerca della patria perduta, è la storia di un uomo ‘ semplificato’ che può guardare alla pienezza del mondo omogeneo dell'Iliade come a un modello, mutatis mutandis,
di vita futura. La civiltà elettrica, con la morte
inevitabile della letteratura — che è sempre stata strumento di discriminazione e di privilegio —, forse riuscirà a realizzare una nuova società orale, che si potrà chiamare neo-epica.
45
L'epos genuino si canta ad occhi chiusi. La mente dell'aedo si smemora nel passato ed ignora il presente, che è
il campo d'azione del romanzo
e vuole occhi per essere
esplorato. L’aedo epico deve chiudere gli occhi, altrimenti diventa romanziere. La cecità di Omero, del vero Omero epico, è una metafora dell’Iliade *, ma non è da escludere che egli fosse realmente cieco, anzi, tutto lo lascia pre-
supporre. Mentre la civiltà epica orale è al tramonto, sorge la figura dell’aedo. Non è difficile ricostruire la storia di questa affascinante figura. Il mondo tribale epico non conosce aedi di professione per il semplice fatto che è una comunità di guerrieri, omogenea nel senso già qui precisato. L’Achille storico, l’eroico discendente del misero Akirew dei testi micenei, era guerriero, era analfabeta e cantava canzoni
epiche: era poeta-soldato. Questa coesistenza delle due zioni, poetica e militare — documentata dall’Iliade sa — corrisponde perfettamente alla dimensione genea e indifferenziata della società iliadica. Ad un momento, peró, un guerriero dotato di straordinarie cità aediche diventa cieco, e quindi puó solo « dire mente
alte
cose », non
farle.
Nello
spietato
funstesomocerto capaalta-
e disumano
mondo tribale iliadico il guerriero menomato fisicamente è escluso dalla comunità dei suoi simili, e la stessa sorte dovrebbe toccare anche al guerriero cieco, ma ciò non avviene. Omero — questo è il suo nome — abbandona la lancia, ma poiché è un cantore eccezionale (se è giusta linterpretazione del nome Ὅμηρος proposta da M. Durante”, egli deve essersi distinto in tutti gli agoni cui ha partecipato), continua ad imbracciare la φόρμιγξ o la Κίϑαρις:
la comunità non vuole rinunciare a lui, che più di chiunque altro
sa
esaltarne
l’ardore
bellicoso,
e continua
ad
acco-
glierlo nel proprio seno. Avvenimento, questo, di portata rivoluzionaria nella breve storia dell’epos, del quale segna il trionfo e l’agonia. Ora si comprende veramente come mai nell’Iliade si respiri l'odore della mischia e del sangue,
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come mai il duello si chiami x&pun: dall’interno,
non
da
spettatore
come
Omero vive la guerra il rapsodo
che
im-
pugna il bastone, ma da attore; e in più aggiunge ai suoi canti di guerra il pathos drammatico e sconvolgente di chi si esalta al pensiero di una recente milizia, che per lui è una esperienza ormai tramontata per sempre. La distanza epica assoluta, di cui parla il Bachtin, si accentua nella patetica cecità di Omero. Ma intanto, nel chiuso e omogeneo mondo tribale iliadico si è prodotta la prima incrinatura, si è aperta una breccia. La parola di questo aedo ex-guerriero, che si è reso indispensabile alla sua comunità grazie ad una specializzazione tecnica che gli permette di reagire efficacemente al proprio handicap, determina a breve scadenza una vera e propria rivoluzione: sorge la figura dell'aedo veggente, che pur avendo l’uso degli occhi non è anche un guerriero, e in virtá della sua specializzazione scende a costituire una casta inferiore"; l’unità omogenea del mondo iliadico ormai non c’è più — perché d'ora in poi gli aedi hanno un peso sociale anche nella coscienza dei guerrieri aristocratici loro superiori, che invece ignorano ancora completamente i demiurghi —, e nasce una società nuova, quella dell'aedo Femio, la quale nella cecità
‘arcaica’
di Demodoco
tradisce e rivela ancora
evidenti
rapporti col suo passato veramente omerico. L’aedo odissiaco che nel secondo libro dell’Iliade bollava Tersite con un marchio d’infamia, non capiva che il primo passo verso « il potere delle masse » era stato compiuto non da un demagogo, ma da un aedo aristocratico. La società iliadica si era lasciata attrarre dal canto melodioso e suadente di quelle sirene che erano gli aedi, e ne era stata irrimediabilmente alterata, perdendo la propria « rotondità »; ma
sulla via aperta dagli aedi si mossero ben presto i capipopolo, i quali, per non essere specializzati in nessuna attività che servisse ai padroni, non erano esposti al rischio di essere integrati in una classe subalterna, manovrata dalla classe egemone e perciò destinata a scomparire nella miseria 47
come quella degli aedi divenuti rapsodi. Il compositore l'Odissea e dell’Iliade secondaria non si rese conto pure di questo, e poiché conosceva il servilismo delle ancora ignare tra cui ormai egli bivaccava, vide nei
delnepplebi figli
del popolo dei temibili rivali nella corsa verso i favori dei potenti, e volle colpire il simbolo di quei popolani, incarnandolo nella figura di Tersite; il quale non a caso è da lui chiamato
λιγύς
(B 246), proprio come
un aedo
« dalla
voce melodiosa ».
Non sembri strano che la società dell’aedo iliadico abbia avuto la sua più grande epopea, quella appunto dell’Iliade, quando ha cominciato a perdere la sua omogeneità — presupposto dell’epos autentico — con l’avvento della specializzazione aedica. La società tribale rispecchiata dal primo Omero non cessa ovviamente di essere tale per il semplice fatto che un solo individuo si differenzia socialmente dal resto di essa comunità; perché intervengano sensibili mutamenti sociali, e quindi culturali, bisogna attendere che si formi, sull'esempio di quell'Omero, una vera e propria
casta di aedi —
investiti forse anche di funzioni magico-
sacerdotali " e provenienti per lo più da aree sociali inferiori —, e che in prosieguo di tempo salga alla ribalta poli-
tica il δῆμος —
composto
di demiurghi e soprattutto
di
mercanti tra le cui file emergono i demagoghi —, il quale
corrode il potere dell’aristocrazia terriera e guerriera rendendo inattuale la funzione aristocratica degli aedi cortigiani e riducendo la loro casta ad una schiera di poveri « cantori » itineranti al servizio sia dei nobili sia del po-
polo”.
In questo
ambiente
nasce l'Odissea, che è figlia
della polis ed insieme dell’alfabeto:
l'Omero
che è anche il revisore della vecchia Iliade — rato, e con lui nasce la letteratura occidentale.
odissiaco — è un lette-
Niente di strano, dunque, nel fatto che l’epopea autentica si sia manifestata pienamente solo quando il tarlo del primo Omero ha cominciato a demolirla esaltandone per l’ultima volta i caratteri più genuini. Anche a questo pro-
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posito, del
del resto, ci è d'aiuto un'osservazione
McLuhan:
barriera
del
« Poco suono,
prima
sulle
sue
che
un
aeroplano
ali si rendono
suggestiva superi
la
visibili onde
sonore » *. Allo stesso modo l’epos si rende visibile quando comincia a morire; e non mi riferisco, ovviamente, alla trascrizione alfabetica (cioè rapsodica) dell'Iliade, bensi al
nuovo volto che questa assume in virti della specializza zione aedica: nella forma in cui ci è pervenuta, l’Iliade è stata scritta dalla stessa mano che ha vergato l’Odissez, e pertanto la sua redazione scritta può servire soltanto a spiegare la revisione cui esso è stato sottoposto. Come si può
notare, la tradizione che attribuisce i due poemi ad un solo Omero dice una verità incontestabile, anche se non rilevante. Se comunque non si recupera questa povera verità,
il dato unitario offerto dalla tradizione diventa un assurdo che offende la dignità dello stesso popolo greco che lo ha tramandato unanimemente fino ai χωρίζοντες. Ogni tradizione,
anche
la
più
mitopoietica,
affonda
le radici
nella
storia: la tradizione che vuole Omero unico « autore » dei due poemi affonda le radici nella storia dell’alfabeto. Anche per le origini dell’epos letterario è dunque utilissima l’osservazione del Gallavotti: « Al principio c'era la storia » ” Tra l'Omero compositore orale e l'Omero redattore di poemi scritti corre dunque un periodo di tempo, corrispondente grosso modo all’ottavo secolo, nel quale la società greca dell’area microasiatica subisce una profonda trasformazione, passando da un ordinamento totalitario — nel senso che la gestione del potere politico è nelle mani di consorterie aristocratiche che « sono lo stato », in quanto
le altre componenti
sociali sono nullità allo stesso modo
della popolazione servile — ad un ordinamento articolato, direi pluralistico, fondato sulla divisione delle classi. In epoca anteriore a questo processo di trasformazione gli aedi erano anche guerrieri, come sappiamo dall’Iliade; poi, come ho già rilevato, si distinsero dai guerrieri per opera del
49
primo Omero, mantenendo però stretti rapporti, sia pure di subordinazione, con la bellicosa classe egemone; infine,
per mancanza di un potere economico corrispondente al prestigio che derivava loro dai precedenti legami con la classe aristocratica, furono sopraffatti dall’astro nascente della « borghesia » commerciale sostenuta dai ceti banausici pur ancora amorfi politicamente, e si ridussero a servire l'una classe e l’altra intrattenendo il pubblico nelle piazze e i potenti nelle loro ricche dimore, dietro promessa di miseri compensi. Le prime due fasi sono orali e corrispondono all'incirca, rispettivamente, all'ultimo trentennio del nono secolo e alla prima metà dell'ottavo; la terza, di cui abbiamo i documenti poetici scritti, ἃ alfabetica e coincide pressappoco con la seconda metà dell'ottavo secolo. Nella prima fase, preomerica — che teoricamente puó essere stata anche piá lunga di un trentennio; ma ho già esposto le ragioni per cui è sconsigliabile dilatarla — l’assorbimento della cultura eolico-micenea da parte degli Ioni è già definitivo e consente la fioritura di una poesia epica orale in dialetto ionico. D'altra parte questo dialetto è notevolmente differenziato rispetto alla « Umgangssprache » ionica locale — che noi comunque conosciamo adeguatamente solo da documenti posteriori —, e la ragione di ciò va ricercata nella netta discriminazione operata dalla classe egemone nei confronti delle altre componenti sociali. E’ lecito ritenere che il dialetto omerico,
ovviamente
comune
alle tre fasi testé ricordate, perché formulare, fosse impiegato dai guerrieri preomerici non solo nelle loro canzoni epiche, ma anche nella usuale e quotidiana comunicazione
sociale. Quei guerrieri non potevano parlare due linguaggi diversi, perché altrimenti non avrebbero potuto esprimersi in termini di epos: la vera poesia epica vuole un'unica lingua all’interno della comunità orale che la esprime, altrimenti viene meno il presupposto della omogeneità culturale necessaria alla fioritura di qualunque epos autentico. Oltre che per la cura dell’aspetto fisico e per l’abbigliamento quei 50
guerrieri si distinguevano da tutti gli altri componenti della
loro comunità per il modo di parlare, che restò immutato, come
medium
della
normale
comunicazione,
almeno
fino
all'avvento del primo Omero. Da ciò si deduce che o le madri di quei guerrieri parlavano il linguaggio di Omero, o erano allontanate dai loro figli maschi non appena questi cominciavano a balbettare le prime parole, in modo che acquisissero sin dall’inizio lo stesso linguaggio della casta guerriera cui appartenevano. Di conseguenza, un linguaggio
di origine composita risultava naturale e spontaneo. Forse il segreto ultimo della miracolosa naturalezza della poesia iliadica sta in questa « politica linguistica » * nata da uno
spirito
comunitario
rigidamente
conservatore:
il dialetto
omerico ha l'immediatezza della lingua nativa e la ricchezza aristocratica di un linguaggio d’élite. Se invece tale dialetto composito non era il normale «strumento del comunicare » di quella società tribale e guerriera, bisogna sostenere — sotto la propria responsabilità — che esso poté essere elaborato solo dall'Omero dell’Odissea — o da rapsodi vicinissimi a lui nel tempo — e applicato all’Iliade tradizionale; in ogni caso non può essere stato elaborato dal primo Omero, al quale non possiamo riconoscere alcuna iniziativa linguistica nonché ideologica, per i motivi
già esposti: una volta che l’epos genuino ha trovato il suo linguaggio, non può più mutarlo, se non morendo. L'ipotesi di una elaborazione seriore del linguaggio omerico mi sembra però da scartare, soprattutto perché renderebbe
inspiegabile la trasmissione dello stile formulare, che per costituzione dovrebbe essere sempre identico a se stesso e
comunque non subire trasformazioni radicali. Dunque possiamo esser certi che il linguaggio dell'Iliade e dell'Odissea è lo stesso che era stato parlato e cantato dai guerrieri preomerici, anche se dobbiamo riconoscere che è un linguaggio ancora spontaneo e nativo nell’Iliade composta dal cieco
Omero”,
mentre
è diventato
artificiale
nell'Odissea,
composta da un aedo che non poteva parlare nella vita quo51
tidiana il linguaggio di una consorteria guerriera cui egli non apparteneva e che era decaduta almeno tanto da non conservare il suo aristocratico idioma epico. Ciò significa che una medesima formula stereotipa dell'Ilade e del. l'Odissea non ha sempre lo stesso peso specifico culturale e poetico ?, A partire dalla metà dell'ottavo secolo lo stile formulare è un fenomeno d'«inerzia » e in breve diventa un modulo
solo
per
estrinseco,
protrarre
intimamente
l'eco
non
di una
necessario,
tradizione
che
che
serve
da
epica
si sta trasformando in romanzesca e che perciò comincia a non aver più bisogno della fissità espressiva indispensabile per assicurare la stabilità di un ordinamento socio-politico « totale » ormai tramontato: la parola parlata è di per sé fluida, e l’epos la solidifica nella formula per gli stessi motivi per cui cristallizza il proprio linguaggio in forme esoteriche e ricercate. La formula è un modulo fisso corrispondente alla fissità uniforme della cultura tribale preomerica e iliadica. Già ho avuto modo di sottolineare che la cultura epica, una volta assunta la sua fisionomia autentica, non può produrre valori nuovi né forme espressive
nuove, ma riproduce costantemente se stessa. Ed anche da ciò si deduce che lo stile formulare non è nato per essere applicato solo alla versificazione epica, ma appartiene al patrimonio espressivo di tutta una comunità, che ne fa uso anche nella pratica quotidiana, purché significativa, della comunicazione. A questo proposito può essere molto istruttivo un episodio registrato da E.A. Havelock, che dimostra come anche una cultura semi-orale si avvalga, per
la normale comunicazione, ritmici formulari:
purché
significativa, di moduli
in un pomeriggio
del
1915, durante
la
campagna di Gallipoli, dei soldati turchi rispondono all’addio di loro nemici con cui hanno familiarizzato in occasione di una tregua d’armi, con questa formula: « Col sorriso possa tu andare, e col sorriso ritornare » P.
Il guerriero 52
preomerico
e iliadico dispone
di un
for-
mulario ritmico che è in grado di definire gli aspetti essenziali di tutta la realtà naturale, sociale e spirituale che egli conosce. E certamente non è solo la fissa dimensione diacronica a determinare l’impiego della formula nella cultura epica; l'uomo epico appartiene ad un mondo sociale omogeneo, e pertanto non può che guardare la realtà con gli stessi occhi di tutti i suoi pari: la fissità della formula è quindi anche sincronica. Solo in subordine si può tener conto dell’aiuto mnemonico che la formula offre al par-
lante, abituandolo alla pigrizia mentale e distogliendolo dal pensare più del minimo indispensabile 9. E’ certo, comunque, che la formula, soprattutto perché presenta cifre equivalenti e flessibili *, non è di nessun aiuto per l'aedo
che voglia improvvisare; del resto, la poesia epica genuina, per sua natura, non ammette nessun tipo d'improvvisazione,
intesa come. ideazione estemporanea di temi e di moduli espressivi. Improvvisare significa scegliere e produrre novità, mentre l’epos non conosce il dramma della scelta ‘e della creazione originale *: le formule flessibili servono per
orientare la scelta, non presuppongono libertà produttiva di scelta. Nel mondo epico autentico ogni cosa è preordinata «da sempre » fin nei minimi particolari, e l'uomo non ha nessuna libertà d'azione 9; parimenti anche l'aedo epico è privo di libertà. Il cantore cieco che compose l’Iliade non improvvisò, ma si adeguò ai canoni della narrazione epica con una strenua μελέτῃ preparatoria: le sue capacità di concentrazione mentale, accresciute dalla sua cecità, gli servirono stente,
soprattutto per memorizzare un materiale alla cui sistemazione definitiva — durata,
preesipenso,
pochi lustri — aveva certamente contribuito egli stesso, utilizzando il repertorio espressivo del gergo aristocratico della sua classe; e si può facilmente ammettere che quella sistemazione riguardasse parti isolate dell’Iliade, che per le ragioni qui esposte avevano piena autonomia; ed infine, anche se la definizione formale di quei canti dovesse esser durata
più
di una
generazione,
questa
maggiore
ampiezza 53
cronologica dell'epos autentico avrebbe scarsissima . importanza, in quanto la storia deve guardare ai fenomeni culturali inserendoli in contesti ' metamorfici', e pertanto la
data della trasformazione del folclore in epos avrebbe un qualche senso solo se potessimo far luce sull’oscurità che ancora avvolge buona parte del medioevo ellenico. Ha invece un senso il fatto che nell’epos il tempo è fermo e la formula ne sigilla l'immobilità. Solo quando l’epos è prossimo a morire e si riscuote dalla sua splendida immobilità per merito di un geniale guerriero cieco, il tempo si ri-
mette in cammino,
e noi possiamo individuare in questa
svolta storica una pietra miliare della narrativa occidentale. Anche se quindi si riuscisse a dimostrare che questo poema è stato composto, nella sua versione orale definitiva, all'inizio del nono
secolo invece che dell’ottavo, ciò non com-
porterebbe alcun pregiudizio per la giusta intellezione dell’epos; ciò che conta è sapere che in quell'eventuale secolo
di vita in piá l’epos iliadico non potrebbe aver subito alcuna trasformazione sostanziale, proprio per il fatto, già assodato, che l’epos ferma il tempo. In seno al mondo epico autentico non può dunque esservi tradizione, perché in esso tutto è presente ed insieme tutto è passato. E quando col primo Omero — il quale fa appena in tempo a registrare il miracolo del presente assoluto che sta per tramontare per opera di lui stesso — il tempo riprende il suo corso, muore l’epos e nasce una nuova civiltà che dopo qualche generazione è rispecchiata documentariamente dalla redazione alfabetica dell’Odissea, dove non c’è più il presente
(o passato,
che
è lo stesso)
assoluto,
ma
regna
il
« presente storico », nel senso che la registrazione del passato riceve luce dal presente, mentre l’aedo iliadico poteva cantare ad occhi chiusi poiché era il passato ad illuminarlo 5. Quando il passato non vive più di luce propria, Achille muore, e la sua morte è preannunciata da un «ritorno di fiamma » — l’Iliade — che esalta e potenzia per l’ultima
volta lo splendore della breve ed intensa stagione epica. 54
Ho già ricordato l’esempio suggestivo del superamento del
muro del suono; ma se le leggi della fisica dovessero apparire poco pertinenti al presente discorso, richiamo l’attenzione su altri istruttivi fenomeni culturali analoghi a quello della poesia epica che « nasce » quando il mondo che l’ha
espressa è in agonia. Ad esempio, nessuno più fedelmente di Demostene ha rispecchiato i caratteri peculiari della splendida tradizione della polis ateniese, restando immune dalle sollecitazioni di istanze culturali nuove e diverse; orbene, le orazioni demosteniche sono coeve all’agonia della polis (Jaeger). E lo stesso dicasi di Platone e di Aristotele, pur
meno intransigenti di Demostene nel recuperare la quintessenza della cultura attica del quinto secolo. Del resto, proprio Platone può per altra via farci comprendere il meccanismo del « ritorno di fiamma » come appendice visibile e potenziata di certi fenomeni culturali, quando assume il canto dei cigni come preannuncio di morte. Come il canto dei cigni si fa più melodioso e gioioso quando la loro vita — che è musica e gioia — si sta spegnendo, cosí Omero intona il suo canto piá bello quando la bellezza del mondo epico, che è ancora il suo mondo, sta per «svanire » nell'immortalità. Parimenti
Seneca,
Ep.
osservatore acutissimo quando in
exitu
decor
est
(viene
in
ad Luc.,
afferma: mente
12, 4, si rivela
pueritiae maximus l'omerica
« infanzia
normale » di cui parla Marx).
Finora
mi
sono
soffermato
sul problema
della tradi-
zione epica, individuando in essa tre fasi, ricostruibili in base ai caratteri distintivi dell'epos vero e proprio e alle
leggi che regolano le sue manifestazioni. Data la mancanza di documenti scritti per le prime due fasi, i criteri da me
seguiti nel riportarle alla luce sono stati prevalentemente storico-culturali. Invece ora che si pone il problema della forma metrica dei canti epici corrispondenti alle due fasi suddette
—
della forma
linguistica non
si puó
e non
e
necessario dire piá di quanto ho già osservato sulla ionicità 55
originaria dell'epos autentico — si rende necessaria una anamnesi filologica, pur nei limiti imposti dall’assenza di una documentazione coeva alle epoche in questione. A tale scopo mi sembra indispensabile, per le ragioni metodologiche esposte all’inizio del presente lavoro, prendere le mosse dalle considerazioni metrico-filologiche —
saldamente
anco-
rate alla storia — di Carlo Gallavotti, il quale ha dimostrato in modo esauriente che né l’esametro né il formulario omerico possono esser fatti risalire all’epoca micenea; e tale dimostrazione concorda perfettamente con quanto ho
già qui stabilito per altra via. Resta quindi da studiare la possibilità che l’esametro risalga alla prima delle tre fasi cui or ora accennavo. E per far ciò si dovrà ovviamente esaminare in rapporto al metro la stessa dizione formulare, di cui ho già trattato e che « come il metro e la lingua, è un elemento tipico della composizione omerica, e con il
metro e la lingua è intimamente connessa » 5. Certamente non basta che un’espressione risulti ripetuta in più luoghi di uno o di entrambi i poemi, per essere
chiamata
formula”.
Essa deve
essere significativa, e per
di più epica, cioè arcaica, quindi non posteriore al primo
Omero,
altrimenti perde il suo significato di specchio di
un mondo cristallizzato in forme stabili, per il quale essa è nata. Le formule di conio seriore, soprattutto quelle nate in concomitanza con l'uso della scrittura, anche se più frequentemente ripetute di quelle preomeriche e ‘ uriliadiche ’, sono artificiali in quanto presuppongono una volontà letteraria di imitazione e di adeguamento ad un mondo ormai tramontato per sempre. D'altronde anche le formule fisse
arcaiche in prosieguo di tempo furono
affidate alla scrit-
tura, e di conseguenza è difficilissimo distinguerle da quelle arcaizzanti. In linea di massima gli aspetti linguistici della dizione formulare possono essere molto istruttivi ai fini della cronologia relativa: le formule con particolarità linguistiche seriori che siano presenti anche in una sola parola ricorrente in veste arcaica all’interno di altre formule, pos56
sono essere considerate secondarie, cioè non epiche, purché quelle
altre formule
tualmente
arcaici
si trovino
(non
in contesti
arcaistici).
Mi
anche
sembra
concet-
opportuno
precisare, comunque, che le innovazioni formulari fioriscono in seno ad un tessuto espressivo preesistente, al quale intenzionalmente si conformano, mimetizzandovisi. Sono perciò minime le possibilità di cogliere in fallo il compositore che innova senza rispettare le leggi e i meccanismi della vera composizione epica. Per quel che concerne la metrica — a parte le eccezioni alle varie leggi dell’esametro epico * —, si può dare per scontato che una formula che superi la misura
di uno dei due cola esametrici,
senza
coincidere
con
l’intero verso, è secondaria e quindi artificiale ?: essa dimostra che il rapsodo innovatore ha peccato di anacronismo,
ritenendo, a torto, che l’esametro fosse il verso di
narrazioni epiche molto antiche. E non è chi non veda la stranezza di una parola, ἀοιδός « cantore », che è estranea
all’Iliade” ed entra nella tradizione epica solo quando il canto è stato sostituito dalla recitazione, e il citarodo è di-
ventato
rapsodo”.
Tale
singolarità
può
essere
spiegata
e
vanificata solo se si tiene conto del fatto che nella società rispecchiata dall’Iliade l’aedo non esiste come figura autonoma, ma fa tutt'uno col guerriero. Ciò significa che anche la parola ἀοιδός è anacronistica”, e non è un caso che il verbo ἀείδειν διδειν e il sostantivo ἀοιδή ὠυνδὴ si siano perpetuati ben oltre l'Odissea per indicare non solo il canto di μέλῃ, o di formule magiche, ma anche la composizione e l'esecuzione di carmi recitati *. Il guerriero dell’epos autentico non recitava, ma
cantava, e nonostante ciò il primo
Omero, suo collega, non gli attribui la qualifica di perché questa poteva affermarsi solo in seguito alla lizzazione dell’arte aedica, che perciò divenne ben arte declamatoria (cioè rapsodica), probabilmente l'esercizio della musica e del canto restò appannaggio
sivo primo
dell’aristocrazia Omero,
guerriera
anche
dopo
aedo, speciapresto perché esclu-
l’avvento
del
i cui eredi « cantori », una volta costituitisi 57
a consorteria aedica, si differenziarono socialmente dai guerrieri, e per ragioni di discriminazione sociale si videro negato quel diritto di cantare che invece il primo aedo cieco aveva goduto, perché aveva ancora la dignità dei suoi compagni guerrieri. Invece di imbracciare uno strumento musicale, i nuovi « aedi » impugnarono un bastone, rbabdos, che forse era il « testimone » di una staffetta il cui primo atleta era stato proprio un cieco, il quale ovviamente si guidava con un bastone, deponendolo peró al momento della esecuzione aedica ?. La rbabdos dunque era il simbolo della cecità che era stata la musa del primo grande aedo, cosí come l'oscurità completa aiuta certi allevatori a rendere piá me-
lodioso il canto delle ἀηδόνες, cioè degli usignoli. Il primo «usignolo » cieco, l'aedo dell’Iliade tica, disponeva del metro già fissato per l'epos tradizione narrativa della sua comunità, ed è sare che in esso siano confluiti il cosiddetto l'enoplio, parente stretto del paremiaco ”, i essere
stati cantati
come
unità
metriche
auten-
dalla breve ovvio penhemiepes e quali, dopo
autonome,
furono
abbinati si da costituire una nuova e più ampia unità me-
trica, appunto l’esametro; e la parola ἔπος che indica proprio l'esametro, deve tica cantata, μέλος, poiché l’Iliade, come specializzati, mentre lare che subito dopo
risalire all'epoca in cui la parola poedivenne parola poetica recitata”. E già ho ricordato, non conosce gli aedi li conosce l'Odissea *, bisogna postuil ritiro del primo Omero dall’agone
poetico, si sia affermato, oltre alla figura sociale dell’aedo,
anche il nome ἀοιδός, Ciò significa che il primo guerriero cantore e i suoi immediati successori cantarono in esametri, ovviamente lirici; e le ragioni per cui tali esametri,
dopo il primo Omero, furono recitati, vanno ravvisate, oltre che in esigenze di carattere sociale — che fecero riaffiorare la dimensione, per cosí dire, popolaresca della παρακαταλογή inerente al paremiaco ” che era stato sostituito dall'enoplio
quando era nato l’esametro, all’inizio della stagione epica autentica —, 58
nelle enormi
difficoltà che un verso
ampio
come l’esametro opponeva a chi stava perdendo 1 ἐνδουσιασμός
dello spirito epico genuino e perciò non aveva pit lena psicologica sufficiente per reggere il tono del canto, con uno strumento musicale, per giunta (φόρμιγξ o Κίϑαρις che fosse),
difficilissimo da usare, perché nato per accompagnare misure ritmiche ridotte (come gli hemiepe e simili).
Il presente discorso, limitato ad un semplice binomio metrico, si fonda metodologicamente sul carattere conservatore dell’epica omerica in generale e su quello assolutamente conservatore
(ma non reazionario, nel senso qui già
precisato) del particolare epos da cui è fiorita la poesia del primo Omero e che pure è nato esso stesso da una « rivoluzione » selettiva e aristocratica, cioè non veramente
innovatrice. Anche l’hemiepes e l’enoplio sono « formule », e se in tutta la tradizione epica non ne troviamo altre, è perché non ve n’erano nemmeno in origine; e mi rife-
risco ovviamente all’origine dell’epos ionico autentico, non alla tradizione folcloristica precedente, ionica o eolica che fosse. L'esametro dunque — come risultato della giunzione
di un hemiepes e di un paremiaco trasformato in enoplio !9 — è un prodotto diretto della rivoluzione culturale operata da un’aristocrazia guerriera ionica, che una volta definito il proprio status sociale e politico si chiude rigorosamente nell'immobilità della sua dimensione epica demandando al passato assoluto il compito di assicurare l’ordinato svolgimento della vita comunitaria. Il primo Omero fu l’ultimo
grande
« intellettuale » di quella società eroica che ebbe
una vita breve e intensissima come quella di Achille, il suo eroe più grande. Come si può notare, il principio metodologico che deve ispirare la storia delle origini epiche dellesametro è quello della individuazione dei suoi elementi costitutivi inseriti in una linea non tanto evolutiva — l'epos
genuino non si evolve, come ha dimostrato il Bachtin —, quanto
ripetitiva; e solo per l'epoca che inizia col primo
Omero è possibile tener conto di un certo margine di sviluppo, del resto appena avvertibile: per fare un esempio, 59
si può tener conto di un barlume di unità compositiva per quel che concerne non tanto certe corrispondenze puramente meccaniche ed estrinseche, quanto la giustapposizione, nell’Iliade, di canti epici isolati che ricevono luce 'artificiale’ dal motivo dell’ira di Achille; infatti questo barlume di unità
« romanzesca », che
ha
fuorviato
molti
studiosi,
si spiega col fatto che il primo Omero potenzia l’epos nel momento stesso in cui egli comincia a sporgere timidamente
dalla ‘sfera’ epica. Chi ha chiamato Iliede il poema di Achille — non Acbilleide — è stato miglior critico di tanti critici moderni; e colgo l’occasione per far notare che l’Achilleide di Stazio è nata come figlia della romanzesca ed unitaria Odissea — vero poema di Odisseo —, non
certo dell’Iliade o di altro poema affine. Per quel che riguarda l'epoca anteriore all’avvento dell’epos autentico, gli hemiepe maschili e gli enopli, che ovviamente già esistevano, furono quasi certamente
impiegati,
a
livello di folclore, per usi specifici diversi: i primi per i canti di morte !, i secondi per i canti di guerra; gli hemiepe femminili nacquero dopo che gli enopli sostituirono i paremiaci presenti nelle prime forme rudimentali di esametri
che. avevano questo schema elementare: hemiepes maschi le + paremiaco!”. La cultura aristocratica portatrice dei valori
dell'epos
la morte
e della
dovette guerra,
poi
unificare
consociando
i due temi i due
moduli
del. me-
trici che nella tradizione precedente li esprimevano separatamente e forse anche in seguito continuarono ad espri-
merli negli strati inferiori della società epica;
quella no-
biltà guerriera fu sollecitata ad istituire una stretta connes-
sione fra i due motivi del « pianto » funebre e dell'esaltazione dell’ardore bellicoso, sia perché la morte — ovviamente gloriosa — di un guerriero non giustificava il pianto
vero e proprio, sia perché la lamentazione funebre era segno di debolezza tipicamente femminea , e nella comunità di quei guerrieri non c’era posto per la partecipazione della donna alla vita sociale. Il solo pianto consentito era quello 60
virile, che da tutto morte: ecco perché non c’era spazio per guerra come aspetto primo canto epico in in quel poema era
poteva essere causato salvo che dalla nell'ambiente in cui nacque l’Iliade le nenie, e la morte fu assorbita dalla positivo della vita. E' probabile che il esametri sia stato l’Etiopide '*, poiché narrata la morte di un grande eroe,
Achille, oltre che di Memmone
e di Antiloco;
ma natural-
mente l’Iliade primitiva — anche per l’analogo conio epico del titolo, noncurante dell’unità compositiva — dovette
essere composta nella stessa epoca, dato il collegamento tematico fra i due poemi e dato che anch’essa è un pianto funebre sui generis: la vicenda di Achille si snoda all'ombra di un presagio di sicura morte prossima; la quale pertanto è solo cronologicamente posteriore alla μῆνυς del. l'eroe. Ciò significa che la flebilis elegia, nata come canto di morte — questa è la sola cosa certa che sappiamo in-
torno alle sue origini, ricordate da Orazio, A.P., vv. 75-78 — muore quando nasce la grande poesia epica che l’assorbe. Ecco perché i Greci sapevano delle origini dell’elegia come di un lamento funebre, ma non conoscevano una tradizione
elegiaca corrispondente a quella epica; disponevano, invece, di una tradizione posteriore, che però non ebbe un preciso orizzonte tematico — potendo far proprio qualunque argo-
mento
—-, proprio per il fatto che l’unità tematica del
pianto funebre si dissolve progressivamente col sopravvento dell’epica 5, Come ognuno può notare, il quadro geneticoevolutivo
denze
di questi due
troppo
generi
poetici
presenta
precise, sia di contenuto
corrispon-
sia di forma,
essere considerate puramente
casuali. Penso comunque
poter
anche
fornire
riprova
un
contributo
dell’esistenza
dell’elegia
filologico-linguistico
funebre
— a
per
di a
livello di
folclore perpetuatosi forse ai margini stessi dell'epos — già
in epoca
anteriore
all'avvento della grande
Mi riferisco all'epiteto formulare omerico
poesia epica.
τανηλεγής.
La parola ἔλεγος compare per la prima volta nell’epi61
gramma che il flautista Echembroto
scrisse per commemo-
rare la sua vittoria aulodica dell'anno 582 (prima Pitiade; secondo Pausania, il Boeckh e il Bowra l’anno d'inizio dei giochi pitici sarebbe il 586); l’attestazione dei derivati
ἐλεγεῖον, ἐλεγεία ed ἐλεγεῖα, che
sottintendono
rispettiva-
mente μέτρον, ὠιδὴ ed ἔπη, nonché di ἐλέγεια (sost. femm.),
risale a non prima della fine del quinto secolo !”. L'elegia è però molto piá antica non solo di queste denominazioni ma anche dei primi poeti elegiaci (Callino, Tirteo, Archiloco) di cui possiamo leggere i distici: presso i Greci infatti durò ininterrotta la consapevolezza che l’elegia originaria fosse un genere poetico cui appartenevano
mente carmi lugubri.— origine erano chiamati
esclusiva-
gli ἔλεγοι appunto, che però in ἐλέγη
lamentazione dei morti;
—,
che venivano
cantati
gli antichi identificavano 1 ἔλεγος
col δρῆνος e ciò concorda col fatto che in 2 720 sgg. gli che piangono la morte di -Ettore intonano appunto (v. 721), che già per altra via sono risultati essere elegiaci ". Orbene, proprio come l’elegia originaria esclusivamente
connessa
a
con
le cerimonie
ἀοιδοί ὃρῆνοι canti risulta
funebri,
esclu-
sivamente congiunto alla parola morte compare in Omero l'epiteto τανηλεγής che ricorre otto volte nella formula fissa
τανηλεγέος
ϑανάτοιο 9.
In
base
a tale
riscontro
è
spontaneo collegare il composto τανηλεγής proprio con 4061} ἔλεγος che la tradizione riferisce costantemente al compianto
mente
dei morti. L’epiteto in questione è stato varia-
interpretato ἢ, e da due
e il Bechtel —
studiosi —
addirittura corretto,
il Roediger
rispettivamente,
nelle
forme τανηλυγής e ἀνηλεγής !!. Le correzioni proposte stanno solo a dimostrare la problematicità del vocabolo; le interpretazioni finora date, d’altra parte, non sono accettabili — almeno per quel che concerne il significato originario della parola —, perché viziate dal difetto pregiudiziale di identificare sul piano etimologico il secondo termine di τανηλεγής con quello degli « odissiaci » δυσηλεγὴς
ed 62
ἀπηλεγής "2,
nonché
di post-bom.
ἀνηλεγής "5,
Mi
sembra ovvio, infatti, che τανηλεγής, nonostante la speciosa parentela con gli aggettivi ora citati, esiga un’inter-
pretazione a sé, per motivi che ritengo di gran peso. In primo luogo, il fatto che il termine non abbia avuto séguito presso autori come Apollonio Rodio, Quinto Smirneo e Nonno è sintomatico, in quanto ci assicura che esso divenne incomprensibile nel suo significato primitivo agli stessi Greci,
che, divenuti completamente
estranei
ai con-
dizionamenti della tradizione rapsodica'*, non poterono tollrarlo con la condiscendenza degli ascoltatori odissiaci; altrimenti
non
riusciremmo
a
spiegarci
l’assenza
—
nei
poemi dei suddetti autori — di una parola di sapore cosí arcaico, che avrebbe senz’altro costituito una vera e propria ghiottoneria per i continuatori dell’epos omerico. Dirò di più: il vero significato dell’epiteto dovette sfuggire allo stesso Omero odissiaco, il quale trascrisse con fedeltà scrupolosa l’enoplio τανηλεγέος ϑανάτοιο facente parte, .nel-
l’Iliade, di un verso formulare, e solo per velleità d'arcaismo lo ripeté in analoghi versi formulari dell'Odissea, riservandosi di ‘correggere’ l’incomprensibile aggettivo nel-
le forme succitate. In secondo luogo, dei quattro aggettivi in -λεγής del lessico greco, τανηλεγής si distacca nettamente dagli altri tre che ho ricordati, anche per la particolarità molto so-
spetta che questi ultimi non hanno una fisionomia che li distingua l’uno dall’altro, ma sono unificati semanticamente da prefissi che conferiscono tutti lo stesso valore negativo all'idea espressa dalla base — ma come verbale —,
prefissi
negativi
sentita non come nominale,
presente in -ηλεγής
sono
facilmente
(da ἀλέγω);
riconoscibili
sia
tali
in
duo -ηλεγής sia in ἀν -λεγής sia in &m(o) -ηλεγής, ed è facile immaginare che sia stato l’alfa privativo di ἀνηλεγής — emerso da una interpretazione errata di τανηλεγής come τ᾽ ἀνηλεγής !5 — a dare il via alla ulteriore differenzia-
zione,
non
posti.
Anche
soltanto
in
formale,
base
esibita dagli
a queste
altri due
considerazioni,
com-
dunque, 63
τανηλεγής stesso.
Ma
afferma il proprio diritto di far parte per se entriamo
nel
merito
della
interpretazione
τανηλεγέος ϑανάτοιο. Che la formula sia arcaica —
di
a parte
l’uso arcaistico che ne fa l’aedo odissiaco — è dimostrato inequivocabilmente dal processo di cristallizzazione da essa subito, al punto da non ammettere alcuna variazione, neppure morfologica "δ; ed anche in base al presupposto di tale antichità si potrebbe teoricamente far risalire τανηλεγής ad una primitiva forma "“ϑανηλεγής !”, in cui la dentale aspi-
rata potrebbe
aver ceduto il posto alla tenue cortispon-
dente in seguito ad una dissimilazione regressiva a distanza esercitata sul fonema dall’aspirata di ϑανάτοιο: dissimilazione favorita sia dal fatto che la formula, proprio perché cristallizzata, costituisce un tutto unico quasi fosse una sola
parola, sia dalla tendenza alla perdita dell’aspirazione, postulabile in lingua generale per i dialetti eolico e ionico. Penso però che in linea di metodo la presenza in “ϑανηλεγής della radice di grado zero del verbo ὕνήσκω sia da escludere !5; il richiamo a gr. τείνω (tav- da *«v-; cfr. lat. zen-
dere) mi sembra obbligatorio, e l'epiteto significa « che fa intonare compianti (su uno strumento a corde) » '?. Ciò che qui interessa di piá & il secondo termine del composto,
che nasconde il segreto dell'elegia originaria, ed ἃ la parola ÉAeyoc;
la quale non significa « flauto » o « cannuc-
cia » — come la comparazione con l'armeno ha fatto credere finora —, ma è semplicemente una forma che equivale ad ἔλεος, « compianto ». E come ἔλεος à parola di genere sia maschile sia neutro, cosí ἔλεγος che noi conosciamo
solo come maschile, presuppone una forma neutra arcaica da cui è derivato τανηλεγής. E se non si è convinti di ciò,
. si pensi che Omero conosce soltanto la forma maschile di ἔλεος, ma
usa l'aggettivo νηλής
/ νηλεής,
n. vnAséc,
che
obbliga perentoriamente a presupporre il tema ἔλεεσ- di un neutro τὸ ἔλεος esistente già in età preomerica,
forse con
un originario digamma iritervocalico, diventato gamma in eolico !®. Se infine si considera che l’articolazione del gamma 64
intervocalico preceduto da vocale prepalatale (e, ἢ) in greco è soggetta a « momenti di debolezza » che provocano la caduta di questa velare sonora !, ci si convince che τανηλεγής non solo nasconde l’elegia nel proprio seno, ma aiuta anche a risolvere il problema del valore semantico della parola ἔλεγος. E mi sembra che non sia poco.
E’ lecito ritenere che la parola ἔλεγος, appartenente in origine al linguaggio comune del folclore, dopo la sostanziale esclusione dell'elegia funebre dall'area dell'epos — che ne assorbí solo qualche aspetto, riplasmandolo ed assimilandolo allo spirito epico — abbia continuato a vivere nell’uso popolare, per poi entrare nel lessico letterario solo . quando sorsero i presupposti diretti e concreti per l’avvento
della democrazia. Nel frattempo, però, l’elegia ebbe modo di assumere dignità letteraria (dunque prima ancora di veder letterarizzato il suo nome originario: ciò avvenne nel settimo secolo, quando essa prese significativamente il nome di ἔπη per modellarsi sulla poesia epica di cui volle imitare gli spiriti e le forme, pur differenziandosi da quel genere più elevato. Nacque cosí il distico elegiaco, consistente in un esametro arricchito da una appendice di due hemiepe (il cosiddetto pentametro) giustapposti 2 secondo un criterio analogo a quello seguito per la formazione dell’esametro epico; e probabilmente le prime elegie in distici furono «epitafi » del tipo dell’elegia a Pericle composta da Archiloco; la quale è di tono epico, poiché non è un normale lamento funebre, ma è un invito eroico a non abban-
donarsi al pianto delle donnette. Il passo da questa forma di elegia epicizzata alla parenesi guerresca fu breve, e nacquero le elegie di tipo « tirtaico » composte da Callino, che forse è l’inventor della ὑποδήκη. Questo salto qualitativo dell’elegia folcloristica non fu però senza conseguenze: lo stesso spirito di rivendicazione e di ascesa sociale che provocò l’asfissia degli elegi funebri tradizionali, causò anche
la promiscuità
tematica della nuova elegia, che infatti si 65
distinse dagli altri generi solo per il metro, e già nel sesto secolo assunse anche le dimensioni esterne del futuro epigramma ellenistico, cioè di una perla della letterarietà. Come s'é già notato, la formula τανηλεγέος ϑανάτοιο ricorre solo due volte nell’Iliade, in due versi formulari
identici, e questa scarsa frequenza avvalora l’idea secondo cui al tempo della composizione della parte fondamentale di questo poema l’elegia lirica in hemiepe era un genere
popolaresco,
che come
tale non
aveva
diritto di cittadi-
nanza nell’epos per intonare i canti di morte legati ad un magnanimo ed eroico passato. Quella formula, che dunque è un'intrusa già nell’Iliade primitiva —- e corrisponde agli ἀοιδοί di Q 720
(cantori di lamenti
funebri),
sia che
essi appartengano alla Urilias sia che risultino introdotti nella narrazione in età posteriore — dà la misura ridottissima dell'assorbimento del folclore da parte dell'aristocratica consorteria di guerrieri che produsse l'epos autentico. Nell'Odissea limpiego di tale formula & di natura letteraria e non ha niente di diverso dall'uso che ne fa Tirteo in un frammento che ci é pervenuto. Già ho chiarito in qual senso vada intesa la letterarietà del poema di Odisseo, e a questo punto mi sembra opportuno porre in risalto un aspetto socio-psicologico di tale dimensione letteraria, perché
risulti con maggiore evidenza la diversità della cultura odissiaca da quella veramente
epica.
Achille à portatore di valori culturali propri di una comunità guerriera, per la quale il disprezzo della morte
rientra in un preciso codice
d'onore:
al di sopra
della
morte, infatti, c'è la gloria che accompagna l'épeciü ^^. Achille deve scegliere di morire giovane, perché sia sottolineata la funzione esemplare del suo valore di guerriero. La morte dunque non puó essere per lui qualcosa di spaventoso: lo sarebbe solo se intaccasse la sua grandezza eroica;. ed invece Achille muore — mi riferisco alla profezia dell’Iliade e all'Etiopide — colpito non in duello da 66
una lancia, ma da un dardo, guidato per giunta da un dio. L’uomo
epico non può temere la morte, perché non è pa-
drone del presente e quindi non è individuo nel senso mo-
derno e odissiaco del termine:
solo chi vive il presente
può temere la morte, che gli appare come interruzione di
una continuità in cui egli ravvisa il vero significato della esistenza; né si dimentichi che lo stesso individuo odissiaco
è senza déi'/, e perciò non ha i mezzi per attuare una gratificante saldatura fra vita terrena e aldilà. L'uomo epico
non ha bisogno di salvarsi nella continuità ‘sferica’ dell’arte, che sotto forma di unità compositiva è un surrogato della precaria continuità della vita: egli vive il passato assoluto, che non conosce interruzioni e perciò non ha bisogno di surrogati. Ecco perché l’Iliade, nonostante l'intervento ‘ unificatore’ del redattore odissiaco, continua ad es-
sere una serie di rapsodie autonome: essa è ‘sferica’ e completa in ognuna delle sue parti, le quali pertanto non sono organicamente indispensabili alla totalità dell’insieme. Una o più parti possono cadere, e l’Iliade resta intatta, cosî come uno o più guerrieri possono cadere uccisi, e la società iliadica resta intatta, piena e « rotonda ». Nel mondo epico
genuino la vita e l’arte costituiscono un’unità indifferenziata: solo una società veramente epica può vivere se stessa nell’arte; la società moderna vive invece nell’arte la propria ombra. Il mondo occidentale non è riuscito finora a riconquistare la pienezza del paradiso epico, perché è stato sempre dissociato e perciò ha sempre dissociato la realtà della vita dalla
realtà dell’arte;
e tutti
i tentativi
di ricostituire
la
loro unità epica primigenia sono stati delle semplici velleità letterarie. Soltanto l’uomo epico sconfigge la morte, senza l’aiuto divino; invece l’uomo post-epico non ha mai potuto sconfiggerla, perché la portava e la porta nel cuore, come dissociazione appunto « letteraria »: Socrate, Platone, Epi-
curo sono stati dei letterati, e perciò hanno sconfitto solo il fantasma della morte. Diversamente da Achille, Odisseo ha paura della morte, 67
che per lui è il male supremo '*. La società che si specchia in questo eroe vive prevalentemente di pirateria e di commercio, è una società di ‘ parvenus’ che hanno accumulato ricchezze in breve tempo con l’astuzia o la fortuna, e sanno che solo il possesso — instabile in verità — di quei beni garantisce loro il potere, che però essi sanno altrettanto instabile. L'uomo
diventa succubo dell'« hic et nunc », im-
para a sentirsi diverso dagli altri, cioè isolato, e perciò a temere la morte. La morte è temibile quando è solitudine, e l'uomo diventa solo, cioè individuo, quando diventa mer-
cante e sacrifica al dio denaro !”. Il possesso dei beni venali ha sempre diviso un uomo dall’altro, un gruppo dall’altro; ma nell’ottavo secolo avanti Cristo gli scambi commerciali basati sulla registrazione scritta delle merci, la quale grazie all'uso dell’alfabeto e all'ampia articolazione delle piazze commerciali era cosa ben diversa dai baratti a voce ed
anche dagli inventari burocratici micenei, produssero rivoluzione
senza
precedenti,
sociale umanistico —
non
dato
il particolare
condizionato
una
contesto
cioé da un potere
religioso fortemente accentratore e repressivo di eventuali istanze individualistiche —, nel quale il nuovo umanesimo
sorse e si scontrò col vecchio. Ad Apollo, il dio epico di una società immobile come le ἄρουραι da cui essa traeva sostentamento, subentrò come principale e congeniale maestro
di vita
il dio
Ermes,
simbolo
del
commercio,
della
misteriosa mutevolezza delle forme e — si noti bene — della catabasi verso il regno della morte, metamorfosi su-
prema ?, Lungi
da me, ovviamente,
un giudizio
morali-
stico sull’« auri sacra fames ». A me interessa ripercorrere l’iter letterario della nascita dell’uomo
occidentale, e tutto
cospira a far ritenere che il primo individuo della cultura europea sia stato Ulisse (o l’autore dell’Odissea, che è lo stesso), pur mascherato di oggettività epica. Basta leggere
attentamente le parole di Achille nella Nekyia odissiaca, per capire che il nuovo aedo vuole polemizzare con l'Achille
(e l’autore) dell’Iliade, quando fa sottolineare proprio da 68
Achille che la morte è il male supremo, queste
parole
zone un uomo
(X 489-491):
« Preferirei
pressappoco servire
come
con gar-
non ricco, piuttosto che essere re di tutti
i morti ». Parallelamente,
sotto
la formula
cambia
significato
la ‘penna’
oppure
è corretta in maniera
conforme
τανηλεγέος
ϑανάτοιο
del poeta
odissiaco,
a quel mutamento
semantico. E tra le morti possibili la più spaventosa qual è per il poeta di Ulisse? Non certo la morte ingloriosa sul campo di battaglia, ma quella provocata da inedia '?. Ancora una volta l’« hic et nunc » emerge con evidenza impressionante. L’uomo odissiaco vive alla giornata, e per lui i valori ‘lunghi’, come la virtá bellica e l'onore, non sono
più valori supremi e quindi sono anch'essi « formule » che si perpetuano per tradizione in un mondo che non le vive più e può solo ‘ riviverle’ letterariamente. Se i Greci avessero sviluppato esclusivamente i connotati tipici della cultura odissiaca ignorando l’epos autentico, la loro letteratura posteriore all'Odissea avrebbe potuto vantare come suoi massimi esponenti solo poeti come Archiloco e i suoi affini. E non è un caso che Bruno Snell abbia ravvisato i segni macroscopici dell'avvento dell’individualità proprio in Archi-
loco, un soldato mercenario che si fa pagare per sopravvivere alla fame e che al precetto epico di tornare dalla battaglia « con lo scudo o nello scudo » risponde che la cosa più importante è evitare la morte e che per ristabilire un equilibrio di valori etici è sufficiente possedere il de-
naro per l’acquisto di un nuovo scudo. L’uomo è ormai uscito fuori di sé ed è diventato χρήματα ?, Va da sé che lo Snell a motivo di un certo schematismo, non ha avvertito
la vera origine omerica, e precisamente odissiaca dell’individualità dell'omericissimo Archiloco. L'oggettività estrinseca dell'epos tardo-omerico — mi riferisco all’Odissea —
il quale sembra ignorare la profondità della vita interiore, é un
residuo arcaico, un fatto di tradizione come
lo ἃ la
stessa formularità; ma ἃ anche vero che proprio dalla coesistenza di quella oggettività con la dimensione soggettiva 69
della
narrazione
—
si
pensi
alla
Ich-Erzéblung
degli
᾿Απόλογοι — emerge anche una novità metamorfica, sia pure
embrionale, che preannuncia l’oggettività della scienza.
Il
limite delle pur meritorie analisi dello Snell sta nell'aver eluso la considerazione del contesto culturale che ha prodotto la lirica arcaica. Il sentimento dell’individualità è un fenomeno irrilevante se non viene storicizzato come atteggiamento tipico di una determinata cultura: la teoria eliocentrica anteriore a quella tolemaica non interessa nessuno
proprio perché non fu un fatto di cultura. Nel settimo secolo
avanti
Cristo
non
si verificò
nessuna
novità
sensa-
zionale nella vita del popolo greco, tale da giustificare l’insorgere di una rivoluzione culturale: la nascita della polis, l’avvento dell’alfabeto e la colonizzazione erano fenomeni
rivoluzionari già intervenuti da tempo, e quindi la teoria dello Snell va rettificata per difetto di storicità! e per eccesso di formalismo: l'individuo nasce in seno all'epos coevo ai fenomeni culturali ora ricordati, e in prosieguo di tempo elabora gli strumenti formali per esprimere in
modo
adeguato le istanze del lirismo. Non
si ignori che
proprio la cultura ionica, in seno alla quale è avvenuta la metamorfosi odissiaca dell’epos iliadico, ha prodotto il soggettivismo non melico del giambo e dell’elegia, mentre la melica è sostanzialmente estranea all'area culturale ionica **,
per il semplice fatto che la musica nega l’individuo in quanto nega il λόγος. Ecco perché la prosa, che è appunto λόγος, è nata presso gli Ioni; essa è il prodotto della ma-
turazione dell'io, la quale è il presupposto
indispensabile
di ogni dominio intellettuale della realtà. La scienza, la filosofia e la storiografia, che sono notoriamente oggettive e normalmente si avvalgono della prosa, sono nate dalla scoperta
dell’individualità;
ἐμαυτόν,
«ho
e
indagato me
a
tal
proposito
l’é&tnodunv
stesso », di Eraclito è molto
istruttivo perché dimostra che l'«apollineo » principium individuationis, di cui parlava il Nietzsche, è il padre di
tutti gli atteggiamenti razionali ed è quindi il lievito della 70
prosa; ma dimostra anche che la prosa nel mondo greco può travestirsi da poesia per « inerzia » di tradizione, esametrica e no. Da ciò si deduce che l’oggettività dell’epos autentico non è quella a cui ci ha abituato l’oggettivo ra-
zionalismo storico, dal quinto secolo avanti Cristo ad oggi. L'« infanzia normale » dei Greci di cui parlava Marx a proposito dei poemi omerici è rispecchiata dall’Iliade, non dall’Odissea, e trova riscontro nella scoperta psicopedagogica della fruizione globale della realtà da parte del fanciullo.
L'oggettività epica genuina tologica, che assorbe
è un’unità indiscriminata,
la soggettività
7i-
senza residui. Quando
i residui soggettivi cominciano ad emergere e diventano corpo della coscienza, nasce il lirismo, che da un lato porta alla lirica intesa come forma letteraria e dall’altro è il pre-
supposto della corsa alla conquista dell’oggetto, dell’altro da sé; nasce cosí il linguaggio adulto della prosa. La quale
peraltro
ha
avuto
una
l'Odissea è un romanzo
lunga
in versi, sebbene
diversamente da un poema lonio Rodio.
incubazione,
dato
che
già
vada storicizzata
come gli Argonautici di Apol-
Se l'Odissea è letteratura, lo è nel senso che
è anche recitazione, mentre il poema di Apollonio è solo letteratura libresca, ed è il primo esempio illustre di epos esclusi-
vamente artificiale fra i tanti che vanta la letteratura europea. La civiltà europea è dunque nata in Asia con l'Odissea, come
letterarizzazione di una cultura tribale, la cui oralità
epica non è scompatsa d’un tratto, ma si è gradatamente ridotta e trasformata nel corso di tre secoli, facendo registrare una maggiore vitalità fuori dalla Ionia, nelle aree eolica, dorica ed attica. A partire dall'epoca di Platone tale oralità
diventa
irrilevante,
e con
l’avvento
dell’ellenismo
scompare del tutto ed è destinata a non risorgere più. La
modernità e l'attualità dell'ellenismo stanno essenzialmente nel comune denominatore libresco che unisce quella civiltà alla nostra. Ciò significa che per comprendere Teocrito o Callimaco
non è necessario
il coraggio
di sentirsi diversi 71
da loro; essi infatti parlano un linguaggio culturale molto simile al nostro. Bisogna invece saper misurare le distanze con gli autori da Omero ad Aristofane, ma non fino al punto da considerarli tutti analfabeti o quasi. La letteratura classica preplatonica è grande perché è orale, ma è ancora più grande perché è una letteratura che ha saputo essere libresca salvaguardando la propria oralità e riscattandosi dal potere discriminante ed alienante della parola scritta. L’Odissea e le Rane sono libri « parlati ». Forse il segreto della classicità è tutto qui: la stessa genialità di quei grandi autori può essere spiegata come socialità che arricchisce di vaste risonanze il timbro della loro voce individuale. Nulla impedisce di considerare artigianale la loro produzione letteraria, cosí come Fidia ai suoi tempi era considerato non
più che uno scalpellino, sia pure pit abile, che so io, del padre di Socrate. Il genio è una novità esclusivamente bresca,
e
nasce
nell'ellenismo,
mentre
l'aedo
li-
dell'I/zade
autentica non potrebbe, a rigore, essere qualificato geniale —
cioè eccentrico, in fin dei conti —,
dato che in lui
la
socialità sferica dell'epos fa tutt'uno con la potenza fantastica. Nella società greca preplatonica, che non conosce e non riconosce la privacy del cittadino, non c'é posto per i geni, intesi come ‘ outsiders ': grande è l’autore che meglio
di altri adegua il suo linguaggio ai contenuti culturali elaborati dalla sua comunità; ecco perché poeti tragici diversi hanno scritto tragedie omonime o comunque incentrate sullo stesso. tema, senza temere di non apparire geniali Ma è
pur vero che l’Odissea non è passata invano, e pertanto quello sforzo di adeguamento espressivo è esso stesso una elaborazione di contenuti culturali nuovi, che in miura della
loro novità dovrebbero esser segno di genialità — e per noi infatti lo sono —, mentre per i loro ideatori sono soltanto
un
recupero
di valori
già esistenti
ma
non
ancora
innalzati al livello della coscienza collettiva. Come ognuno può notare, si tratta di un’operazione altamente sociale ed insieme 72
individuale,
non
diversa
da quella del poeta
del.
l'Odissea, il quale gabellava — diremmo noi — per omeriche e tradizionali molte idee e tendenze e forme espres-
sive completamente nuove. Quando si esalta la civiltà greca classica come civiltà della forma, non si chiarisce abbastanza il motivo sostanziale per cui un’estrema attenzione rivolta ai valori formali non incorre mai in deviazioni estetizzanti,
se non da parte di autori che, come i
sofisti, si fondano
su un distacco esplicito dalla tradizione; e non è un caso che proprio la letteratura sofistica sia stata esclusa per tanti secoli dal tempio della classicità; e non è neppure casuale che proprio il pensiero sofistico — come osserverò fra breve — abbia introdotto nella cultura greca una dimensione nuova della socialità. La forza della classicità è come un alibi ideato per creare valori nuovi senza vederseli rifiutare dalla propria società. Quando Eschilo si vanta modestamente di utilizzare i teudyn del banchetto omerico, vuole
rendere omaggio non ad Omero — che infatti non può offrirgli molto — ma alla propria città, per predisporla ad accettare come patrimonio ‘avito’ le novità culturali che in
parte essa stessa sta vivendo, pur senza averne la consapevolezza che solo un grande
poeta
può
darle. Riconoscere
quindi l’oralità della cultura preplatonica — nel senso che i vari autori postiliadici, chi più chi meno,
si immettono
nel respiro
non
sociale della parola parlata —
significa
affatto negarne il risvolto letterario e negare quindi al filologo il diritto di interpretarla attraverso i documenti /etterari che ce la fanno conoscere. Anzi è proprio la lettura filologica di quei documenti — soprattutto se poetici —
a fornire elementi decisivi per stabilire la natura dei rapporti tra gli autori ed il loro pubblico, letteraria ed insieme orale. Né può essere altrimenti, dato che le stesse notizie antiche sulla diffusione
del libro e sull’esistenza di
biblioteche già nel sesto secolo possono per difetto di autopsia essere prese sotto gamba dagli scettici come invenzioni anacronistiche. Invece la ricostruzione di un ambiente sociale basata sull'esame interno — cioè filologico — degli 73
stessi testi letterari che lo rispecchiano non ammette repliche o contestazioni: si pensi alla squisita letterarietà di una tragedia come i Persiani di Eschilo, rappresentata nel 472, che sarebbe assolutamente incomprensibile — sia pure come semplice fabula — per uno spettatore non letterato !*.
D'altra parte mi sembra che sia sufficiente considerare l'ampio orizzonte prospettico
in cui spazia il pensiero classico
greco — costantemente proteso verso il superamento di sé —, per convincersi che proprio la letteratura alfabetica è stata l'ancora di salvezza per un popolo che avvertiva con insoddisfazione la precarietà della voce « orale » del presente, e affidava alla parola scritta il compito di dilatare i confini spaziali e temporali di quella voce; compito di cui la cultura orale dell'epos non aveva sentito il bisogno, perché l'oralità epica ha la voce autosufficiente del passato assoluto. La civiltà della forma è nata da un'ansia di perennità, che in quanto letteraria caratterizza anche la civiltà moderna, ma che nessuna società ha vissuto più drammaticamente di quella greca classica, proprio perché la dimensione schiettamente politica della sua vita sembrava insidiare la sopravvivenza di valori universali irrinunciabili. La politica infatti à l'arte del provvisorio e del contingente, anche quando è politica integrale come quella degli Ateniesi del quinto secolo, che ci hanno tramandato per via letteraria il più insigne esempio di democrazia statuale diretta, cioè « orale », che l'umanità possa vantare (la « democrazia » tribale dell’epos iliadico è ovviamente cosa ben diversa, perché anteriore ‘alla diffusione dell’alfabeto e all’avvento
della città-stato). A tal proposito è significativo che i pur poco scrupolosi sostenitori dell’esclusiva oralità del mondo greco postiliadico non riescano a protrarla cronologicamente oltre la fine del quinto secolo, la quale segna l’inizio dell’agonia dell'Atene democratica, con la morte della tragedia e della parabasi aristofanea "*. Ed è altrettanto significativo che il più grande promotore politico ateniese del quarto secolo sia un letterato puro, Isocrate, il quale rispecchia
74
la crisi della democrazia
ateniese
rinunciando
alla parola
parlata e creando movimenti di opinione pubblica esclusivamente con gli scritti; né ci lasceremo ingannare dalla sua complessione malaticcia e dalla sua timidezza per spiegare la letterarietà suprema della sua opera:
ciò che conta
è proprio il fatto che un uomo incapace di partecipare alla vita politica orale della sua città diventi personaggio politico di prim'ordine e non risulti handicappato 5; ed è penoso per noi moderni rilevare che in un contesto culturale molto simile al nostro — perché manovrato da un intellettuale, che comunque non è il solo — la vita democratica stia boccheggiando per lasciare il posto ad una forma di qualunquismo borghese in seno al quale per la prima volta fiorisce la letteratura nel significato deteriore (e pavesiano)
del termine. Di conseguenza la stessa tragicissima oratoria politica di Demostene è letteratura, anche "6 perché cerca di riproporre un'ideologia ormai bruciata dai tempi: chi volta le spalle alla storia è sempre un letterato, perché non sa trarre alimento vitale dalle vere e concrete istanze del mondo in cui vive. Secondo questa prospettiva Platone è fratello spirituale di Demostene, sebbene sia molto pi let-
terato di lui oratore politico e sebbene polemizzi addirittura contro l’uso della parola scritta: contraddizione, questa, che è anch'essa segno di letterarietà (ed è comune purtroppo a tutti coloro che non hanno altro mezzo se non la scrittura per combattere il potere alienante della pagina scritta). La spia anticipata della consapevolezza critica di tale letterarizzazione — prescindo quindi dalle indicazioni di poetica emergenti dai testi letterari in quanto prodotti artistici — può essere offerta sia dalle Rane di Aristofane, che pur sono un testo di squisita critica letteraria — inconcepibile in seno ad una cultura
essenzialmente
orale!
—,
sia so-
prattutto dal 22° capitolo del primo libro di Tucidide,
il
quale polemizza contro il μυϑῶδες della storiografia di tipo erodoteo in nome della veridicità storica, ed esalta la propria opera come
Κτῆμα
ἐς αἰεὶ μᾶλλον
ἢ ἀγώνισμα
ἐς τὸ 75
παραχρῆμα
ἀκούειν.
E°
evidente
che
questa
polemica
col-
pisce nel cuore non solo la storiografia tradizionale, che tutto sommato era il genere letterario meno suscettibile
di fruizione orale '* proprio perché il μυϑῶδες di origine epica non
ne era l’ingrediente
fondamentale,
ma
colpisce
anche e soprattutto — ingiustamente, direi — la « provvisorietà » orale dell’epos e della tragedia, avversati, come si sa, dallo stesso Platone. La verità è che i poeti del passato postiliadico avevano lottato vittoriosamente proprio
contro il rischio della estemporaneità dell’effimera parola parlata, con un linguaggio alfabetico coadiuvato dapprima dalla formularità — che per essere strumento di una immunizzazione dai mutamenti provocati dal tempo e dallo stesso spazio era cosa ben diversa dalla formularità epica originaria, che pur sembrava la stessa — e poi diventato
prevalentemente letterario, una volta smesso l’equivoco abito formulare. Se quindi si vuol parlare di transizionalità per il passaggio dalla cultura orale alla civiltà libresca, nel senso
che gli autori della fase intermedia usano la scrittura ma praticano anche una massiccia comunicazione orale, il pe‘riodo di transizione andrà ravvisato non certo nello scorcio del quinto secolo ? — in cui il rapporto fra la letteratura e oralità è già sostanzialmente quello dell'era moderna, soprattutto preelettrica —, ma, per l’area ionica, nell’epoca in cui la formularità epica perde la sua funzione primitiva (già qui definita) e diventa modulo letterario, a partire dall’Odissea e dall’Iliade odissiaca fino a certi poeti ele-
giaci come Callino e Tirteo, seguiti a distanza da altri elegiaci come Teognide e Focilide i quali, apponendo la propria firma,
σφρηγίς,
a loro componimenti
con
l’intento
di sal-
vaguardarne la proprietà letteraria fanno capire che l’ora-
lità epica è già in grave declino !*. La cultura veramente orale
pretende
guenza
l’aedo che compose
chiamiamo
gnazione 76
l’anonimato
Omero,
di una
non
poté
dei
suoi
« bardi »;
l’Iliade primitiva, avere
individualità poetica,
un
nome
di conse-
e che noi come
e ciò significa
desi-
che
l'antroponimo « Omero » in origine era un semplice nome comune !!. Per quel che concerne, infine, le altre aree cul-
turali in cui si ebbe la cosiddetta «transizione » di cui sopra, questa coinvolge solo in misura esigua la formularità epica, per ovvie ragioni di metro *, fatta eccezione per Esiodo; mi limito pertanto a precisare che la produzione poetica « transizionale » in dialetto eolico e dorico risulta meno esposta di quella ionica al tracollo dell’oralità, e che,
comunque, l’ultimo stadio della grande letteratura orale di « transizione » è prevalentemente attico: l’oralità letteraria ionica, già praticamente esaurita e diventata letteratura vera e propria nel sesto secolo, è rinverdita dagli Ateniesi e a sua volta si esaurisce definitivamente nel quarto secolo. Da quanto esposto finora risulta che la cultura greca ha attraversato tre fasi nettamente distinguibili: una fase orale, corrispondente alla civiltà epica della Urilias, una fase letteraria-orale corrispondente all’epoca « transizionale » che va dall’ottavo a tutto il quinto secolo, e una fase letteraria tout
court,
che
va
dal
quarto
secolo
a tutto
l’ellenismo.
Ovviamente questa periodizzazione ha i pregi ed i difetti di ogni schematizzazione cronologica; ad esempio, il momento « odissiaco » della seconda fase, proprio perché segna l’inizio del distacco dall’oralità precedente, inaugura un’epoca che solo progressivamente si configura come letteraria-orale. Va ribadito inoltre, che all’interno della seconda fase l’evo-
luzione non avvenne in modo lineare e uniforme per tutte le aree territoriali greche: ad esempio Archiloco, Ipponatte, Minmermo bruciarono le tappe della piena « romanzizzazione » individualistica dell'epos, mentre Solone si attardava
su posizioni arcaiche, soprattutto esiodee, ma cercava anche di sostituire ad una civiltà tribale ormai decrepita, una civiltà dello stato più matura ed evoluta di quella che suscitava il risentimento del non integrato Mimnermo !*: Τὴν σαυτοῦ φρένα τέρπε © δυσηλεγέων δὲ πολιτέων ἄλλος τίς σε Κακῶς ἄλλος ἄμεινον ἐρεῖ. 77
La civiltà attica, ancora essenzialmente
agricolo-pasto-
rale, si misurava per opera di Solone con la sorella civiltà ionica, essenzialmente mercantile-marinara. E la « tenzone »
di Solone e Mimnermo, comunque squisitamente letteraria, data anche la distanza spaziale fra i due, pone in evidenza due diversi orientamenti ideologici, l'uno portato all'esasperazione dell’individualismo, con la conseguente asfissia della cultura orale, l’altro rivolto a costituire una rete di rap-
porti di partecipazione civica, che dopo la tirannide anche letteraria di Pisistrato avrebbero dato nuovo alimento orale
alla letteratura
alfabetica già trionfante
anche
in Attica.
Dianzi ho avuto modo di indicare le ragioni sociali ed economiche della rapida involuzione della cultura orale in ambiente ionico, e ciò che ora ho osservato consente di defi-
nire meglio
i caratteri di quella letterarizzazione,
che
sulta accelerata da due fattori schiettamente politici:
ri-
l'av-
vento delle tirannidi, fra cui si distinsero quella di Policrate a Samo e quella di Aristagora a Mileto, e i rapporti
di sudditanza che alcune città ioniche ebbero con il regno di Lidia e poi con le dinastie dei Medi e dei Persiani. Entrambi
questi fattori hanno contribuito in misura note-
vole all'esaurimento della oralità civica, che poteva prosperare solo nella libertà. Ed ἃ significativo il fatto che le notizie antiche sulle prime biblioteche della Grecia si riferiscano esclusivamente al mecenatismo di tiranni come Pisistrato e Policrate; cosí come ἃ significativa la notizia secondo cui proprio Pisistrato fece curare una sorta di recensione dei poemi omerici. Senza la considerazione dei fattori
sociali, economici e politici qui elencati, non riusciremmo mai, del resto, a spiegarci le simpatie che i poeti e i prosatori ellenistici ebbero per la letteratura ionica tardo-arcaica: la ragione di tali simpatie, talvolta provocatorie e polemiche, sta essenzialmente nel fatto che l'una e l'altra cultura furono decisamente letterarie e permeate dallo spirito della scienza, non arricchite cioè abbastanza dall'oralità
che caratterizzò la cultura letteraria ateniese del quinto se78
colo, la quale infatti fu praticamente ignorata e addirittura
osteggiata dagli autori ellenistici più rappresentativi. E la comune letterarietà di quelle due culture presuppone ovviamente analoghi contesti socio-politici: il dispotismo dei
diadochi, illuminato quanto si vuole, fu erede del dispotismo persiano che nel sesto secolo aveva stroncato lo sviluppo democratico delle « libere » poleis ioniche; e del resto basta considerare anche sommariamente le fasi della rivolta ionica, per convincersi che questa fu prodotta dall’abilità manovriera di tiranni e avventurieri che miravano esclusivamente ad imporre il proprio potere personale su città ormai abituate alla serviti politica e, al più, dotate della sola autonomia amministrativa: ecco perché Callimaco ed Eroda guardano ad Ipponatte come ad un loro fratello spirituale, e il vero padre dell’epigramma ellenistico è Teognide, come si può dedurre da quanto ho già avuto modo di rilevare — sulle tracce di altri —, a proposito dell’elegia tardo-arcaica *. In attica invece la situazione è diversa: la tirannide pisistratea va considerata una semplice parentesi, che non soffoca lo spirito embrionalmente democratico già tenuto desto dall’insegnamento soloniano; e se da un lato essa favorisce una prassi letteraria simile a quella della Ionia e non del tutto estranea al contributo
dello stesso Solone,
d’altro canto determina per contrasto l’instaurazione di nuovi rapporti sociali, promossi dalla riforma di Clistene,
i quali preludono all’avvento di una cultura letteraria rinnovata dall’apporto decisivo di orale alla vita dello stato. Le ionica, invece, non ebbero modo una nuova fioritura culturale: serviti politica aveva spento in
una intensa partecipazione sciagurate poleis dell’area di aprirsi come Atene ad la lunga assuefazione alla esse ogni vero anelito alla
libertà; è per questo che dopo la vittoria greca sulla Persia anche le poleis che non restarono suddite del gran re dovettero adattarsi ad un regime di pur velata schiavitá, entrando nell'orbita dell'imperialismo ateniese. La ripresa e
lo sviluppo della civiltà ateniese dopo la tirannide fu possi79
bile perché Pisistrato non poté cancellare le istanze di una fiera e tenace cultura agricola e pastorale, già da Solone portata ad un notevole livello di coscienza civica. Non per nulla gli Ateniesi si proclamavano autoctoni, e il sinecismo che aveva permesso già in età regia la costituzione di un tessuto sociale particolarmente omogeneo !* fece sí che la loro cultura tribale, non sottoposta all’azione addirittura traumatica esercitata sulla cultura epica dalla diffusione della scrittura alfabetica e dalla formazione della polis commerciale, restasse a lungo immune da rapidi cambiamenti e maturasse con agio i presupposti per l’elaborazione di una forma statuale molto più evoluta di qualunque altra. Il
primo passo verso la conquista dell’idea di stato fu compiuto con la costituzione dell’Areopago, che avocando a sé il diritto di punire i reati più gravi, inferse un colpo durissimo all’anarchismo della vendetta privata e pose le premesse per il definitivo superamento della tribalità '5. Ecco perché solo in Atene poté nascere la storiografia politica di un Tucidide, che è cosa ben diversa dalla storiografia erodotea: Tucidide partecipa dall’interno al dramma della storia, perché Atene ha imparato da Solone il civismo dell’impegno politico, mentre Erodoto scrive guardando alla storia « dalla ‘riva sicura » ", Alla fine del sesto secolo gli Ateniesi erano ancora, per la maggior parte, rozzi contadini e pastori !*, che guardavano con sospetto e incredulità alle manifestazioni dell’alta cultura, cosí come i contadini e i pastori italiani del secolo scorso vegetavano all'ombra della letteratura ufficiale. Questi Ateniesi erano ancora troppo ‘ arcaici' per guardare con interesse alla letteratissima tavola geografica che Aristagora di Mileto avrà forse esibito a qualcuno di loro con malcelato sussiego. Ma quell’arcaismo, che li avvicina all'omogeneo e primitivo mondo dell’epos iliadico — il surrogato della antica omogeneità tribale è dato dalla solidità della compagine statale — fu il lievito della loro prossima letteratura orale e della loro grandezza. Era solo 80
necessario
che
alla
loro
natura,
per
cosí
dire,
« ilia-
dica » si sovrapponesse quella « odissiaca »: ciò avvenne quando essi diventarono prevalentemente uomini di mare. D'altronde
tale
sovrapposizione
di un
atteggiamento
cen-
trifugo a quello centripeto tradizionale simboleggiato dal sinecismo si ebbe in troppo breve tempo, e dalla coesistenza — che fu uno scontro — di quelle due tendenze
si sprigionò la scintilla della tragedia, che nacque con Eschilo e nell’eroe tragico racchiuse l’intima essenza della contrad-
dittoria condizione umana. L’eroe tragico è un prodotto culturale squisitamente ateniese: presuppone l’eroe epico, ma lo distanzia da sé rintuzzandone lo spirito arcaico in un limbo di comodo, che trova la sua sede più appropriata nell'orchestra del teatro: attraverso il coro la tragedia riconduce lo spirito greco alla sua dimensione originaria di totalità indiscriminata, che non essendo più una realtà viva ed attuale viene relegata in
una zona marginale dell’esistenza. L'eroe epico — che esiste come
individuo
soltanto
perché
è più
facile ricavare
singolo i connotati della comunità che lo esprime —
dal
non
ha il diritto di sporgere dalla « sfera » della sua società, e poiché la società epica è stata superata dai tempi, egli non ha più neppure il diritto di emergere come campione di essa, e ‘perciò assume un volto corale — vorrei poter dire « formulare » — che è quello della tradizione comunitaria; il solo diritto che egli ha di ‘sporgere’ è quello di affermare una sua anodina individualità come corifeo, ma solo quando recita e non canta, solo cioè come soggetto di un λόγος aurorale. Prima ancora che nella miracolosa
bellezza della forma poetica, la grandezza
della tragedia,
cioè della civiltà ateniese, sta nella pertinenza e nella lucidità intellettuale con cui i poeti tragici hanno definito i limiti di una possibile attualizzazione della civiltà omerica, e precisamente iliadica. Sotto questo profilo la distinzione nietzschiana tra apollineo e dionisiaco va riveduta e ridimen-
sionata ^, In un mondo ricco di slanci e di fermenti ideali 81
come quello ateniese del quinto secolo, l’immobilità culturale dell'epos non può trovare una collocazione di rilievo: il coro della tragedia è solo la voce della tradizione, ed è per questo che preferibilmente esso è composto di anziani, cioè di persone che per la loro età ed esperienza sono le più idonee ad esibire alle nuove generazioni il passato della stirpe. E non è casuale che il coro tragico funga da semplice « cassa di risonanza » dell’azione drammatica *: non ha e non può avere alcuna iniziativa che determini delle novità nello sviluppo delle vicende. Il personaggio che fa da tramite fra l’eroe epico genuino e il coro tragico è Nestore, l’eroe anziano, saggio e non ascoltato. Lo spirito della musica,
da cui secondo
il Nietzsche
sarebbe
nata
la
tragedia è lo spirito epico della Urilias lirica, e solo in subordine è l’empito del ditirambo. La rapida involuzione ionica dello spirito epico autentico, scandita dal lirismo giambico ed elegiaco, dalla narrativa in prosa e dallo spi-
rito dissacratore della Βατραχομνομαχία,
se non trova un
riscontro parallelo nell'ambiente attico, non lo trova neppure nell'ambiente dorico. La civiltà dorica, agricola e guerriera per eccellenza, era la meglio predisposta a recepire le istanze dell'epos genuino; ed il ditirambo, che appartiene alla tradizione dorica ?', va interpretato come espressione di un atteggiamento culturale influenzato dallo spirito epico. Chi consideri gli aspetti sociali e ideologici dell'epos genuino
non
ha
difficoltà
a riconoscerli,
mutatis
mutandis,
nella società spartana del quinto secolo; la quale peraltro risulta nettamente diversa da quella ateniese coeva, solo
perché si attarda ancora su posizioni di immobilismo e di isolamento — tipiche dell'epos primitivo —, assunte dopo la splendida fioritura legata alla epopea della seconda guerra messenica,
mentre
la
società
ateniese
ha
progressivamente
modificato il proprio assetto arcaico — e tendenzialmente epico —, rendendosi idonea ad esperire la rivoluzione cul. turale rispecchiata dalla tragedia. Non mi sembra azzardato sostenere che la guerra del Peloponneso fu uno scontro fra 82
tragedia ed epos, quest’ultimo ovviamente inteso come cultura che si caratterizza per un adeguamento intenzionale — e quindi artificiale‘ — ad alcuni vistosi aspetti tipici della società tribale omerica; il guerriero spartiata, ad esempio, è modellato sull’eroe iliadico. Ciò significa che Atene (la quale sviluppa la tragedia dall’epos sia in termini di prassi letteraria sia in sede di crescita storica della propria struttura civica), combattendo contro Sparta combatte anche contro se stessa e contro il proprio passato. Il « coro » dei
trenta tiranni ateniesi è anch’esso un residuo dell’arcaico eroe epico, che sembra rinascere sulle ceneri della tragedia e dell’Atene democratica, ma ha vita effimera perché è fuori tempo: la tragedia e l'Atene democratica lo hanno già stroncato molti anni prima. Ho già avuto modo di osservare che l'epos ἃ diventato letteratura — e Odisseo è subentrato ad Achille —, quando l'uomo greco ha cominciato a vivere il dramma angoscioso della morte. Un fenomeno analogo si verifica in Atene con l'avvento della tragedia, la quale è appunto una risposta al'attacco
della
morte.
Tutta
l’Odissea
è una
Nékwa,
e
lo stesso si puó dire della tragedia; ma mentre l'Omero odissiaco e i lirici arcaici hanno cercato e trovato degli antidoti « letterari » contro la morte — ad esempio, Odisseo nel calore
dell'unità
fesa della patria, morte
stessa,
familiare,
Mimnermo
Solone
nel
Callino
nel
e Tirteo
potere
διδάσκεσθαι
—,
nella
liberatorio gli Ateniesi
di-
della del
quinto secolo hanno usato armi letterarie ancor piá raffinate, e proprio per questo non sono riusciti ad altro se non a scavare più in profondità e a riconoscere la vita stessa come morte, cioè come tragedia, come solitudine prodotta da una dissociazione letteraria. L'eroe tragico si caratterizza essenzialmente per la sua solitudine culturale, mentre il vero eroe epico ha sempre l'appoggio totale di una cultura che non lo lascia solo, perché è la sus cultura e lo esalta per riconoscersi pienamente
in lui. L’eroe
epico
è sempre
vittorioso, ed anche quando appare isolato e vinto non co83
nosce tragedia, non conosce morte: la stessa morte di Ettore, nemico dei Greci, non è una sconfitta. Ecco perché gli eroi della fede cristiana, i paladini di una cultura saldamente istituzionalizzata, hanno alimentato una ricchissima
letteratura epico-cavalleresca, ma non una letteratura tragica, e il fatto che quei poemi cristiani debbono essere considerati epos artificiale significa solo che i loro autori non hanno potuto, perché letterati nel senso che qui ho già chiarito, diventare veri aedi di quella cultura: non hanno saputo possedere una patria fotale, di cui pur avevano una
idea ben precisa, ma che purtroppo non esisteva se non in termini di velleità, letteraria appunto. Il vero eroe epico ha sempre una patria reale e concreta, l’eroe tragico è sempre ἄπολις, E° pur vero, comunque, che la vicenda di ogni eroe tragico ha sempre una durata epica, sia pure parziale, sottolineata dalla consonanza degli ideali dell’eroe con quelli del coro, cioè appunto di una figura ‘ epica’; ma è anche vero che tale durata epica è inevitabile per motivi pratici, dato che la situazione tragica è solo un punto di incontro-scontro tra forze opposte ?, e come tale non è suscettibile di sviluppo lineare, né dieghematico né, tanto meno,
drammatico
(cioè ‘mimetico ’):
emblema
espressivo
di quel punto è l’aoristo cosiddetto « tragico », e in sede critica nessuna formula definisce meglio della schilleriana
« analisi tragica » il carattere peculiare del genialissimo modulo drammatico ideato per dilatare la puntualità dell’urto tragico. Inoltre la situazione tragica non è mai un fatto edificante, come invece lo è — e sempre — la situazione epica; e ciò significa che lo spettatore ateniese poteva par-
teggiare per l’eroe del dramma
solo nella misura
in cui
quest’ultimo diventasse epico. La gloria futura dell’Oreste eschileo e di Edipo è un'eredità dell’epica, e di fatto è fuori dalla vera tragedia di cui essi sono protagonisti. L’oralità della letteratissima tragedia attica sta nel suo carattere epico, e secondo questa prospettiva la catarsi " — che ristabilisce ogni equilibrio compromesso dalla letteratura, 84
cioè dalla dissociazione culturale —, è un'esperienza epica che dissolve la tragedia, proprio perché questa non è fruibile come positiva acquisizione sociale. Immagine viva e concreta di questa oralità epica è il coro — di cui ho già indicato gli episodici rapporti d’identità con la vicenda epica dell'eroe —;
e non
è affatto
casuale
che
l'avvento
della
letteratura — intesa nel significato moderno del termine — coincida con la morte del coro, sia tragico sia comico (depositario della oralità epica), proprio alla fine del quinto secolo. Da quanto osservato si può comprendere che non
basta leggere il titolo di un’opera di Antimaco —
Δέλτοι,
«tavolette » — per convincersi che poco dopo Egospotami la letteratura è diventata visiva: anche l’Iliade e l'Odissea erano state vergate su tavolette. Solo una lettura filologica, cioè veramente
storica, dei caratteri distintivi delle
opere letterarie inserite nei loro contesti culturali consente di definire i rapporti tra oralità acustica e ‘ graficità’ visiva. La tragedia in quanto tale, dunque, non solo non
sconfigge la morte; ma la sottolinea dilatandone i confini, e poiché ἃ un'operazione altamente letteraria riesce a rispecchiare con lucidità estrema la scissione culturale di cui si nutre: l'eroe tragico muore sempre suicida, anche quando . non avventa le mani contro se stesso; muore perché la morte è esclusione dalla ‘ sfera ' epica, che è vita ed armonia; :
la sua vera morte ἃ una terribile dissonanza interiore che produce un vuoto spaventoso e lo rende ἄπολις, perché la polis integrale, quella che non conosce ‘sporgenze’ o scissioni e da cui egli proviene, lo ripudia o comunque gli è estranea: tra l'eroe tragico e la sua comunità — letterariamente mitizzata ma anche degradata dall'autore come armonica unità epica — non c'é possibilità di dialogo. Sofocle ha approfondito progressivamente il senso della tragedia,
dal suicidio di Aiace e di Antigone al « suicidio » del primo e del secondo Edipo, con una genialità impressionante. Quando
l'epos
cerca
di sopravvivere,
lo ripeto,
è già 85
morto;
e se cerca
di resuscitare
in seno
ad
una
cultura
prevalentemente letteraria come quella ateniese del quinto secolo, a maggior ragione è artificiale e si colora di lette rarietà: ciò vale sia per la perfetta ed esemplare omogeneità del coro, sia per l’epicità secondaria dell’eroe tragico. E quando il tracollo della potenza ateniese alla fine del secolo dà l’avvio alla letteratura puramente visiva, Platone rispecchia in modo macroscopico la profonda dissociazione sottesa a quella cultura visualizzata, affidando alla scrittura esclusivamente letteraria non solo l’oralità socratica del dialogo, ma addirittura la polemica stessa contro l’uso della scrittura. Il potere alienante della letteratura si è fatto sentire fin troppo presto nella storia della cultura occidentale e il primo impatto decisivo nella pista letteraria non è stato un atterraggio morbido. Platone esce fuori di sé ed elucubra accademicamente — mai avverbio è stato più appropriato di questo — sulla ricostituzione di un'umanità integrale, il cui modello è di stampo schiettamente epico, cioè totalitario nel senso sopra precisato: anche per Platone i filosofi possono dire benissimo che lo stato sono loro !. Ovviamente, quel modello, proprio perché tale, è artificiale e letterario: l’epos autentico, invece, si modella su se stesso.
Non per nulla le simpatie del filosofo vanno alla dorica Sparta, che certamente non è governata da filosofi « platonici », ma che ha il merito di richiamargli alla memoria la cultura iliadica e che — con coerenza degna di nota — non ama affidare alla parola letteraria scritta il suo spirito epico; anzi parla poco, da laconica che è, e preferibilmente con « economia » formulare. Del resto il pellegrinaggio « archeologico » nell’antica Atlantide — descritta come uno « stato » fondamentalmente epico — è affidata a un dialogo, il Crizia, che prende
il titolo dal nome
di uno
trenta tiranni, aristocratici terrieri ligi a Sparta. ideale
di Platone
non
conosce
la lotta
di classe,
dei
Lo stato mentre
proprio la differenziazione attiva delle classi ha ucciso l’epos iliadico, provocando l’avvento della letteratura romanzesca 86
odissiaca. Platone ha nel cuore il male di Ulisse, ma cerca
scampo nella utopica sanità integrale di Achille; e se aveva i suoi buoni motivi per accompagnare Omero alla porta della sua città, ne aveva di ottimi anche per ospitarlo con tutti gli onori. Ho già accennato ai rapporti che collegano l’oralità con la politicità, e potrei addurre molti altri esempi a comprova di questo legame. Per economia di spazio mi limito a precisare che l’oralità è tanto più evidente — pur nell’ambito della letterarietà,
che è l’elemento
distintivo
della cultura
greca postiliadica — quanto più esteso è l’uso della formula fissa e — dopo che questa cade in disuso — del verso lirico. Il μέλος infatti è il naturale erede della formularità: la formula è ritmo, e sottostà alle stesse leggi psicologiche della musica. Si pensi a certe ‘formule’ ripetute dai poeti tragici in funzione squisitamente ritmica, cioè musicale, soprattutto nelle parti recitate dei loro drammi. Quelle
‘formule’
sono
destinate
anche
all'orecchio
loro vera funzione drammatica è mediamente solo attraverso la lettura:
ma
la
riconoscibile
esse trasferiscono la musica, ren-
dendola « apollinea », nel tessuto logico delle immagini concettuali portatrici dell’azione scenica. La formula omerica primordiale è canto vero e proprio e realizza una perfetta fusione tra arte e vita, mentre la formula ‘ stilistica '
del poeta ateniese adulto nasce dalla letteratura e si immette nel canale della oralità; la formula odissiaca, invece,
non nasce dalla letteratura, ma si sovrappone ad essa come residuo
tradizionale,
tramato
di musica
e tendenzialmente
alogico. Ecco perché è dato incontrare nei poemi omerici delle formule che appaiono assurde, come ad esempio, ἀμύμονος Αἰγίσδϑοιο (a 29) — cui ho già fatto riferimento (ved. n. 80) —, che presenta Egisto come « irreprensibile », in un contesto che accenna proprio alla sua colpa infamante; oppure χειρὶ παχείῃ — formula anch'essa già qui citata —, che è nata per indicare la mano massiccia e robusta del87
l'eroe, ma che per νυσταγμός intellettuale, viene riferita anche alla mano di Penelope; per non dire dell’epiteto δῖος o dell'adonio ὄρχαμος ἀνδρῶν
a personaggi
nient’affatto
riferiti, come
eroici
come
s’è già notato,
Eumeo
e Filezio.
Quando la formula, che come la musica è contraria al ‘ prin-
cipium individuationis ', decade, è proprio la musica ad ereditarne lo spirito, resuscitando il melos epico pur in forme metriche diverse. Secondo questa prospettiva è tendenzialmente epica la melica corale — cui va ascritto ovviamente il coro tragico qui già esaminato — ed anche la monodica: gli stessi omerismi di Saffo, se esistono — ma la cosa è improbabile, e comunque quantitativamente irrilevante — vanno interpretati alla luce della omogeneità epica del tiaso, sottolineata dall’eros omosessuale, che è la versione ammo-
dernata dell’eros (comunque anche platonico: ved. Symp., 179 A) che lega Patroclo ad Achille; e la poesia di Alceo ha a questo riguardo un valore addirittura esemplare, in quanto la politicità dei μέλη alcaici non poteva che essere espressa dal canto, inteso come voce « epica » di una consorteria tribale aristocratica che durante il simposio si estraniava nel passato della stirpe per potenziare la propria coesione interna. Alceo è l’erede spirituale — letterato, perché ormai la ‘ruggine’ del presente corrode il suo cuore
e trasforma la politicità in στάσις — di quegli eoli micenei, la cui cultura epica era stata assorbita dalla cultura ionica; e solo se si tien conto dei rapporti fra queste due culture è possibile spiegare la melica ibrida di Anacreonte "5. Inoltre non è casuale che l’oralità epica riappaia nella parabasi comica:
il Κῶμος falloforico, da cui questa deriva, racchiude
l'epos degli umili. La polis uccide l’epos autentico, ma produce un altro epos, che va molto oltre l'Odissea e costituisce il lievito orale di tutta la letteratura « romanzesca » preplatonica.
La
simbiosi
tra
‘epos’
e
‘romanzo’,
cosi
realizzata, è un’esperienza culturale difficilmente ripetibile: il classicismo, giustamente rivolto a quella letteratura come ad un modello non trascurabile, può trarre da essa uno 88
stimolo ciata.
ad esperire
forme
più
umanizzanti
Se non si potrà realizzare una
di vita
asso-
società epica genuina
— concretamente possibile, a mio avviso, soltanto ai superstiti di una guerra atomica totale —, si potrà almeno cooperare per la formazione di una nuova πόλις, che ovviamente dovrà essere una cosmopoli e in cui miliardi di uomini saranno in grado di comunicare tra loro, grazie ad un ulteriore sviluppo della civiltà elettrica che abolirà le distanze spaziali, con la naturalezza e la facilità orale con cui comunicavano tra loro i ‘ diecimila ’ cittadini di Atene. La bronzea tavola geografica di Aristagora di Mileto non era sostanzialmente diversa dalle sofisticate carte geografiche di oggi; ma oggi esistono le condizioni perché la terra intera di-
venti « una carta geografica di se stessa » !”, Se Platone sancisce l’avvento della letteratura e l’agonia
dell'oralità P,
è pur
vero
che
egli
subisce
passivamente
questa profonda trasformazione culturale, non ne è l’arte-. fice: egli è ancora nostalgicamente legato ad un passato ignaro di scrittura. I veri artefici del trapasso alla letteratura vera e propria sono gli avversari di Platone, i sofisti, anch'essi prosatori e per giunta tecnici della prosa. I sofisti sono gli eredi dei fondatori ionici del λόγος, i quali a loro volta hanno sviluppato, come ho già chiarito, le premesse individualistiche, intellettualistiche e roman-
zesche dell’Odissea:
il μοι dell'invocazione con cui si apre
questo poema, « Dimmi, o Musa » è una clamorosa novità — su cui non si è finora insistito abbastanza da parte della
critica '* — rispetto all'impersonalità del primo verso dell’Iliade,
« Canta,
o dea »'9;
ed ho
anche
chiarito che
la
nuova oggettività del razionalismo ionico nasce da un rapporto dialettico di distacco dell'io dall'oggetto: distacco che
prelude alle soluzioni estreme ideate da Protagora e Gorgia. Era dunque inevitabile che il colpo decisivo all’oralità della cultura — pur sempre letteraria, perché ‘ odissiaca’ — rinsanguata per circa un secolo dall'apporto « epico » della 89
letteratura
attica,
fosse inferto
dai maestri
del λόγος,
fra
i quali può essere annoverato lo stesso Socrate pre-delfico: sotto questo profilo l’ultimo Socrate e Platone, entrambi avversari dei sofisti, vivono di riflesso e sono già superati dai tempi. E’ comunque interessante notare che l'agonia della cultura orale post-ionica è anch’essa un ‘canto del cigno ’. La prosa dei sofisti è diversa da quella degli storiografi, poiché è strettamente legata alla viva e concreta comunicazione parlata, anzi ne è l’espressione diretta.
Non si dimentichi che il sofista vuole essere maestro di politica, intesa come arte di stabilire rapporti orali di persuasione con i propri simili. Ciò significa che la parola parlata cerca d’indossare il suo abito più bello prima di morire:
essa non
può
sopravvivere
perché
il soggetto
ri-
flette su di essa e vuole imbrigliarla in schemi intellettualistici,
cioè
letterari;
del
resto
nessun
pensatore
più
del
sofista è animato dall’ansia della novità ideologica, che come si sa contrasta nettamente con lo spirito epico orale in quanto è lo sbocco di una dissociazione letteraria; la stessa persuasione retorica, non solo presuppone una differenziazione ideologica che già di per sé è « romanzesca », ma non si accontenta neppure di neutralizzare la voce del dissenso adeguandola al proprio livello cognitivo — procedimento, questo, tipico delle ideologie conservatrici come quella del Socrate maturo e di Platone —: pone addirittura in discussione la validità delle proprie acquisizioni, mirando alla conquista dell’ * hic et nunc’, chiudendosi verso il passato e aprendosi verso un avvenire che è un continuo presente poiché si rinnova istante per istante, da un individuo all’altro, da un gruppo all’altro. Questo relativismo, che in quanto tale ha in comune col pensiero eracliteo solo motivi estrinseci, è ovviamente agli antipodi della prefilosofica — quindi anche non eleatica — immobilità ed omogeneità della cultura orale. I sofisti sono grandi letterati perché sono innovatori radicali; invece nell’ambito dell’oralità analfabeta anche una sola idea nuova — come valore 90
sociale
significativo
—
è inconcepibile,
comunicata e recepita, provoca
perché,
se viene
inevitabilmente la disinte-
grazione del gruppo sociale portatore dell’oralità stessa. Il sofista che si vanta di essere venale — perché nel denaro e non nella nobiltà di sangue è la forza della intraprendente classe commerciale che egli rappresenta !! — è veramente figlio spirituale del ‘ mercante’ Odisseo (inteso anche lui come portavoce di una comunità), ma lo supera di
molto in quanto opera in un contesto politico ben diverso dalla primitiva città-stato, nella quale la divisione delle classi non poteva produrre ideologie evolute e coerenti: basti pensare che il rapsodo odissiaco era al servizio sia dei potenti terrieri, sia del popolo; ed era alquanto condizionato da una tradizione che perpetuava atteggiamenti propri dell’antica aristocrazia terriera poco disposta ad accettare il valore positivo della ricchezza come prodotto di scambio. Il presente, che comunque già nell’Odissea rende artificiale ed uccide l’epico passato assoluto, è il tempio del denaro, e pertanto non può ospitare se non totalità epiche effimere, cioè letterarie: Aristotele deve aver compreso tutto questo,
se con intuito geniale giudicò l'Odissea una sorta di commedia €, Pericle, il grande oratore venale, l’aristocraticissimo che come e piá dell’Alcmeonide Clistene tradí la causa dei nobili, il letterato che non ci ha lasciato nulla di scritto !9, è il simbolo di questa ambiguità epico-romanzesca rispecchiata dalla sofistica. L’epica coesione di gruppo prodotta dal lievito della parola parlata, la quale è capace — se-
condo i sofisti — di creare moduli di comportamento super-individuali in forza di una magia che rende più forte il λόγος più debole *' entra in crisi con la guerra del Pe-
loponneso,
che la sfata come
un'illusione
morta
con
la
morte di Pericle. Socrate si accorge presto dell’equivoco — del quale comunque non sono personalmente responsabili i
sofisti — e si getta fra le braccia di Apollo delfico, patrono degli aristocratici, innamorati di un'altra oralità, quella di origine
iliadica,
anch’essa
però
già da
tempo
trasformata 91
dal contatto con la letteratura. Del resto lo stesso Gorgia, che tra i sofisti fu il più attento e sensibile ai valori culturali della parola, nel momento stesso in cui esaltava il potere addirittura sovrumano del λόγος !9 come parola parlata, ne registrava anche l’impotenza squisitamente letteraria, escludendolo
dalla
sfera della
comunicabilità
del
sa-
pere. E quando un tradizionalista come Aristofane scrisse: « Quest'uomo lo ha rovinato un libro, o Prodico », avverti
chiaramente il tarlo della letterarietà che la sofistica aveva introdotto nell’atto di potenziare l’oralità rivoluzionaria (non formulare,
quindi)
della parola
nata
dalla
scrittura.
Pari
menti nel Pluto il « divin calvo » volle colpire nei sofisti quella che a lui sembrava disonestà, auspicando che la ricchezza fosse selettivamente cioè fra i kaXoké&vaot.
distribuita
solo fra i virtuosi,
Data la stretta dipendenza di Tucidide dalla sofistica, la
letterarietà tucididea è fuori discussione, anche indipendentemente da ciò che ho già osservato a proposito dello ktfipa ἐς αἰεί. La politicità del grande storico ateniese è la stessa dei sofisti, per i quali retorica e politica coincidono: si pensi ai celebri discorsi politici abbinati per illustrare una medesima situazione da due angoli visuali opposti. E una volta assodato che l’oralità retorica è segno di alta letterarietà — giacché non può sussistere indipendente-
mente da una strenua μελέτη letteraria —, aggiungerei che la storiografia tucididea è più « romanzesca » di quella erodotea (nonostante le apparenze), proprio perché è storiografia politica nel senso che coinvolge l’autore stesso come ‘ demiurgo’ di una realtà le cui linee di forza egli inserisce in un contesto da interpretare in funzione dell’immediato
avvenire di Atene; lo splendido elogio posto sulle labbra di Pericle, che esalta Atene
come
« scuola
« Ellade dell’Ellade » non deve ingannare:
dell’Ellade » e
il valore esem-
plare e perenne della polis ateniese è un ingrediente retorico, cioè politico, che serve come avallo ideologico per le 92
scelte che essa ha operato e per quelle che ancora la attendono. L'idea crociana di storia contemporanea è un'idea
romanzesca, perché assorbe il passato nel presente, escludendo la distanza epica assoluta; e la storia tucididea è an-
cor più romanzesca, perché è contemporanea — quasi fosse una commedia — anche nel significato letterale del termine. Tucidide guarda al presente con una lente d’ingrandimento che glielo avvicina ancora di più, mentre Erodoto tende ad allontanare il passato delle guerre persiane, perché esso gli appare troppo recente — sebbene ormai quasi leggendario — per poter essere guardato « dalla riva sicura », con l’occhio trasognato di Omero. Ovviamente questa tensione epica non raggiunge lo scopo, perché Erodoto deve fare i conti, oltre che con l’impiego della prosa, con lo spirito odissiaco che fa di questo storico un grande ulisside e che sappiamo portatore del demone letterario già nella fonte omerica. E’ pur vero, peraltro, che Erodoto recitava i suoi λόγοι come un rapsodo epico, e ciò non va sottova-
lutato. Le Storie di Erodoto sono letteratura orale come le
tragedie di Sofocle suo amico o di Eschilo, anche
se si
caratterizzano per una oralità di tono minore, che però a volte si avvicina di più all'epos e fa pensare alle colorite e
suggestive narrazioni dei cantastorie siciliani e del folclore epico in genere. Mi riferisco al racconto dell’esposizione di Ciro il Grande bambino '#: alcune battute dei protagonisti
di quella vicenda hanno il tono di una didascalia orale del tipo di quella che certi cantastorie adottano per commentare la narrazione visiva contenuta nei riquadri dei loro ingenui pannelli illustrativi. Nel capitolo 111 del primo libro
delle Storie il bovaro che ha ricevuto l’ordine di esporre l'illustre neonato porta il bimbo
a casa propria e.narra il
tutto alla moglie, concludendo il suo resoconto con queste parole: « Ed ora eccolo qui loro valore dittico-gestuale, drammatico che segnano in Un'altra didascalia, che fa
», interessanti non solo per il ma anche per il deciso stacco rapporto alle scene successive. pensare all’impiego di ‘cartel93
loni’ illustrativi da parte del narratore, si trova, poco dopo, alla fine del capitolo 114: Artembare medo conduce in presenza di Astiage il proprio figlio maltrattato e percosso dal piccolo Ciro, e dice: « O re, da un tuo schiavo, dal figlio di un bovaro, cosí siamo stati oltraggiati »; Erodoto aggiunge: «e mostrava le spalle del figlio ». Parimenti il capitolo successivo si conclude con le parole di Ciro che in presenza del suo sedicente padre si giustifica di fronte
ad Astiage:
«Se dunque per questo io merito una puni-
zione, eccomi qua ». In tutte queste scene, che sono incon-
cepibili al di fuori del rapporto vivo dell’autore con il pubblico, la narrazione epica prevale sulla descrizione roman-
zesca *', Tra Erodoto e Tucidide corre una distanza enorme. Il romanzesco
l'Odissea, Argonautici
di Erodoto
è epos
è ancora
intermedio
di Apollonio
vicino
a quello
fra l'Iliade primitiva
Rodio.
Il romanzesco
del-
e gli
di Tuci-
dide, invece, nonostante le apparenze che indicano il contrario — data l'assenza dell'elemento fantastico-avventuroso — prelude a Senofonte, il quale con le Elleniche si fa continuatore pedissequo e triviale dell’opera tucididea, ed insieme scrive una narrazione che può essere considerata « un romanzo nel senso sostanziale di questa parola » !9: la Ciropedia, il cui spirito romanzesco, peraltro, è cosa diversa dalla struttura tematica e formale del romanzo ellenistico d'amore '?, La nudità odissiaca e letteraria del ro-
manzo trova una veste perfettamente appropriata solo quando il letteratissimo ambiente alessandrino cancella ogni residuo dello spirito epico (istruttiva à in tal senso la partenza da Alessandria di Apollonio Rodio, un « romanziere » non
abbastanza à la page). La satira invece resta « nuda » sino alla fine.
Come
si è potuto notare, nelle pagine che qui prece-
dono ho adottato una nozione di epos diversa da quella corrente, senza per questo voler rivoluzionare il quadro ordinato e riposante dei generi letterari canonici. Un proce94
dimento analogo è stato già seguito da altri per quel che concerne il romanzo, e qui è stato da me esteso ad aree
«romanzesche » finora inesplorate. spirito epico orale (che è diverso letterario) in opere che dal punto non sono epiche, è stata sollecitata l'Odissea, che pur è comunemente stregua dell'I/iade. Penso infatti di sufficiente come i due poemi — a
L'individuazione
dello
dall’epos come genere di vista ‘eidografico ' dalla esigua epicità delconsiderata epos alla aver chiarito in misura parte la revisione odis-
siaca dell’Iliade '" — vadano distanziati molto più di quanto si sia creduto finora; e penso anche di aver dimostrato che per risolvere l'enigma di Omero non basta una sola chiave. Nel seguito del presente lavoro ripercorrerò per sommi capi l’iter della ulteriore e progressiva « romanzizzazione » della letteratura greca, soffermandomi ovviamente sul romanzo canonico, che rispecchia la fase estrema di quel processo, e a tal fine non sarà inopportuno desumere sinteticamente proprio dal Bachtin i dati integrativi sulle manifestazioni letterarie dello spirito romanzesco, per poi considerare il genere romanzesco erotico nella sua fisionomia storica derivante dal compaginarsi di disparati elementi in una fissità strutturale che nessun altro genere letterario ha mai avuto.
Parte seconda
Dalla letteratura orale al romanzo d'amore
Il Bachtin ha puntualizzato che il vivo volto della realtà contemporanea
non può essere oggetto di rappresentazione
da parte dei ‘generi letterari alti” come l’epos e la tragedia, ma solo da parte dei generi ‘ bassi ', portatori della comicità popolare. « E’ proprio qui — nel riso popolare — che vanno cercate le vere radici folcloriche del romanzo » !. Questa comicità di estrazione popolaresca e di innesto * classico* produce frutti letterari di carattere serio-comico (vedi lo σπουδογελοῖον): i mimi di Sofrone, la poesia bucolica, la favola, la prima memorialistica, i pamphlets, i ‘ dialoghi socratici’ di tipo cinico-stoico, la stessa satira romana in versi, i ‘ simposî ’, la satira menippea
(ovviamente
greca e
romana) e i dialoghi di tipo lucianeo ?. Secondo il Bachtin « tutti questi generi letterari sono i veri predecessori del romanzo » (lo studioso sovietico pensa comunque al romanzo moderno, che secondo lui deve poco al romanzo canonico
antico),
in
quanto
si incentrano
nel
presente,
e
in ogni caso desumono * il punto di vista’, cioè quelle che chiamerei coordinate assiologiche, dall’età contemporanea.
Mentre nell'epos la memoria è tutto ?, qui nel ‘ romanzo’ si deride ‘ per dimenticare ', e l'oggetto è ravvicinato per essere « spezzato e denudato: domina la logica artistica dell’analisi, dello smembramento, dell’uccisione ». Nei ‘ dialoghi socratici’ Socrate diventa personaggio romanzesco (ma 99
ho già chiarito che tale carattere inerisce, sia pure per connotazioni
culturali
diverse,
anche
al Socrate
storico),
co-
mica maschera popolare ed insieme figura eroicizzata, mentre nella satira menippea la peculiarità romanzesca è data « dall’incontro di tempi sul piano dell’età contemporanea », cioè dal fatto che eroi del ‘ passato assoluto’ e personaggi storici vissuti in diverse epoche conversano e addirittura si azzuffano con i vivi contemporanei all’autore. In quasi tutti i generi suelencati è presente, inoltre, un « elemento autobiografico e memorialistico » che fa invadere alla persona stessa dell’autore il campo della rappresentazione; ed anche
questo
rientra,
come
dato
episodico
esterno,
nella
tipologia del romanzo. Il quale, purché abbia l’età contemporanea come « nuovo punto di partenza per l’orientamento artistico », può benissimo rappresentare anche il passato storico ed eroico: il Bachtin pensa alla Ciropedia di Senofonte e fa notare che, sebbene in quest'opera il passato sia travestito e modernizzato, «la raffigurazione veramente oggettiva del passato come passato è possibile sol-
tanto nel romanzo » *. Ciò concorda perfettamente con ciò che per altra via ho già osservato a proposito della letterarizzazione dell'epos da parte dei primi prosatori ionici: l’oggettivismo scientifico embrionale dei cosiddetti logografi, ad esempio, è segno di mentalità romanzesca, cioè letteraria. Né è casuale che i ‘ romanzi’ di cui parla il Bachtin rispecchino una facies culturale sostanzialmente, anche se non cronologicamente in tutti i casi, post-classica, in seno alla
quale nasce la scienza moderna e in particolare la filologia — ciò vale espressamente per l’ellenismo — intesa come disciplina che studia i fatti culturali registrati con la scrittura ed oggettiva il passato in maniera ben diversa da come l'aveva ‘oggettivato ’ l'aedo dell'epos genuino. Sotto questa angolazione storica i rapporti qui già stabiliti fra l'età tardo-ionica e l'età ellenistica ricevono maggior luce; e si può comprendere ancor più facilmente il motivo per cui,
ad esempio, Cicerone nel De legibus chiama la storia « opus 100
oratorium
maxime »; il ‘sofista’
l’attualizzazione
della
Tucidide
storia nel presente
retorica, cioè politica. Quando
ha fatto testo:
è un’operazione
il Rohde ha collegato il ro-
manzo con la retorica dei nuovi sofisti, non si è preoccupato di cercare le ragioni profonde di quel collegamento. Il difetto della acutissima teoria del romanzo elaborata dal Bachtin sta nell'aver praticamente escluso dalla storia di questo genere letterario — pur inteso « non in senso formalistico, ma come zona e campo di percezione e raffigurazione assiologica del mondo » * — quelli che egli chiama significativamente i «cosiddetti romanzi greci». Qui il Bachtin non ἃ aiutato dal suo antiformalismo, che insieme con
un altro fattore inibente, cui accenneró fra breve, gli preclude la volontà stessa di cercare lo spirito romanzesco nel genere narrativo in questione. Nel ricordare che il romanzo greco canonico non ha avuto un nome greco in età ellenistica, faccio notare che esso ἃ stato pur chiamato romanzo, sebbene
tardi e con parola... romanza;
divenuto
stabile
a differenza
e questo
di altri come
nome,
ormai
il bizantino
σύνταγμα δραματικόν e il calco greco μυϑιστορία (dal ‘ latino mythistoria) proposto dal Korafs$, risulta abbastanza
appropriato, al punto che nessun altro genere letterario antico — salvo la satira che, se non è ‘tota’ dei Romani”, non ha comunque neppur essa una fisionomia eidografica specifica — presenta ingredienti appunto romanzeschi nel significato corrente e moderno del termine. Naturalmente ció non é molto, ma non é nemmeno poco e comunque rinvia ad una sostanza romanzesca non banale, come si
vedrà fra poco. Quado dunque il Bachtin istituisce un rapporto genetico fra il romanzo moderno e le forme letterarie romanzesche antiche succitate, compie opera altamente meritoria; non possiamo invece consentire con l'insigne studioso sovietico quando nega al vero e proprio romanzo greco un sostanziale spirito romanzesco, e gli riconosce soltanto
la veste del romanzo*.
Questo
limite critico ha co101
munque una sua precisa giustificazione sia nel non alto valore formale dei romanzi greci d'amore — valore paragonabile alla facile ricercatezza di certi moderni romanzi di
appendice;
e il Bachtin ha una sensibilità squisita per i
valori espressivi — sia soprattutto nell’assenza di un impegno ideologico esplicito (che sarebbe segno visibile di un
rispecchiamento
della
vita
sociale)
da
parte
dei
vari
protagonisti’. Sotto questo aspetto, che possiamo chiamare contenutistico, il giudizio del Bachtin coincide con quello del Lukács, il quale sostiene appunto che « le storie d'amore dei romanzi greci... sono idilli staccati da tutta la vita della società » δ, Se però su questo punto il Bachtin non dissente dal critico ungherese, perché in ogni caso quei romanzi non sono suscettibili di fruizione positiva nella società socialista, su altri punti fondamentali il dissenso c’è. Il critico sovietico è meno hegeliano in quanto radicalizza la distinzione tra epos e romanzo, facendo di quest’ultimo un genere letterario in divenire e negando la possibilità di un incontro dei due generi sul piano dell’« epopea borghese », mentre il Lukács è più vicino ad Hegel quando afferma che il romanzo, appunto, è l'« epos della società borghese » !, anche se precisa che, poiché detta società — divisa dal contrasto fra produzione sociale e appropriazione privata — non può produrre epos (che hegelianamente è totalità indiscriminata), è appunto tale contraddizione che permette al romanzo di aprire «la via ad un nuovo rigoglio dell'epos »; per Hegel invece l'epos ἃ morto per sempre. L'ortodossia staliniana fa incorrere il Lukács
in evidenti forzature critiche, giusti-
ficate dalla foga del suo impegno di ideologo militante;
il
Bachtin invece, ideologo come lui, ma meno ortodosso, non
puó attendersi indulgenza per eventuali smagliature del pensiero critico, e pertanto adotta una linea interpretativa rigo-
rosissima ed insieme prudente:
tiene presenti le idee dello
sfortunato ed incauto Pereverzev,
ma
non
lo dà a vedere
(non é un caso che anche quest'ultimo si sia soffermato sulla storia del romanzo antico, tenendo a precisare che 102
il
romanzo può essere anche « non borghese » ", mentre per Lukács il romanzo antico e quello medioevale non hanno nessuna importanza perché non possono essere (hegelianamente) borghesi prima dell’avvento storico della borghesia, che come tutti sanno nasce in età moderna), cosî come non
dà a vedere chiaramente,
dico il Bachtin,
le proprie
sim-
patie trotskiste (Trotskij nel '38 era già in Messico da un anno, e due anni dopo sarebbe stato ucciso) e nel momento stesso in cui si appropria dell'idea hegeliana secondo cui il romanzo ha la funzione di educare l’uomo a vivere
nella sua società, dimostra con letteratissima finezza la propria adesione all’ideologia trotskista: la società a cui pensa il Bachtin è quella della rivoluzione permanente, ed è ovvio
che solo un genere letterario in divenire, quale è definito il romanzo, può rispecchiare fedelmente quella mobilissima
società P. Come s'é avuto modo di capire, il romanzesco è tendenzialmente comico perché rappresenta la realtà a distanza
ravvicinata. L'uomo che si accosta allo specchio toccandolo col naso, ride. La comicità è figlia del realismo, ma anche e soprattutto dell’eccessiva confidenza col reale, la quale disintegra la realtà stessa. Avviene lo stesso con l’eccessiva dimestichezza con le cose sacre, che rende sacrileghi. La comicità (il cui aspetto meno distruttivo è quello romanzesco) è quindi analisi, quindi prosa, quindi letteratura. Non a caso il riso nasce tardi nella letteratura greca. Il riso vuole l'uomo adulto — si pensi alla teoria del Kierkegaard —, ma soprattutto vuole l’uomo dissociato: di qualunque cosa si rida, si ride sempre di se stessi; e ciò significa che il verbo ridere si può coniugare solo al presente. I conti tornano: il romanzo ha come teatro il presente, anche quando usa i verbi al passato. Bachtin ha fatto centro, anche se qualche coordinata per l’aggiustamento della mira gli è stata fornita da Hegel e dallo stesso Lukács. Una
tradizione
millenaria,
che
da
Menandro
e
Teo103
irasto giunge fino a Pirandello ci ha abituato a dissociare il comico dal ridicolo, la raffigurazione ‘ neutra’ della realtà ‘ bassa’ dalla sua deformazione giocosa. La lente deformatrice di Aristofane, e della Παλαιά in genere, fornisce invece ad Aristotele gli elementi per la classica definizione indifferenziata del comico data nel capitolo 5° della Poetica. Ma Aristotele è ancora troppo legato, pur con nostalgia letteraria, alla classicità dell'Atene del quinto secolo, per guardare con simpatia alla privacy della vita quotidiana, che infatti appare in Aristofane violentemente « stravolta », διεστραμμένη (direbbe lo Stagirita). Perché il comico originario perda la sua carica distruttiva, è necessario che conquisti il presente, non lo eluda soltanto in termini di ri-
pudio:
non si dimentichi che la commedia
Παλαιά
vive
dell’elogio del passato. La conquista del presente, avviata in modo esplicito dal giambo ionico arcaico, è ritardata dal notevole tasso di oralità epica della grande letteratura ateniese dell’epoca che va da Eschilo ad Aristofane, e riprende il suo corso durante il tramonto di Atene, per diventare definitiva con l’avvento dell’ellenismo: una ragione di più, questa, per capire che la comicità ‘seria’, intesa come specchio neutro della realtà contemporanea è un aspetto tipico della letteratura pienamente visiva. Già gli Ateniesi, e gli altri che nella prima età ellenistica parlavano greco, assistevano alla rappresentazione di commedie di Menandro,
gustandole come testi letterari, esattamente come farebbero spettatori di oggi dinanzi alla messinscena storico-filologica, che so io, del AjckoXoc. Se è vero, dunque, che i generi comico-romanzeschi elencati dal Bachtin preludono al romanzo moderno — e sono padri e fratelli, aggiungo, del romanzo greco canonico ! — è pur vero che la commedia nuova — e con essa i mimi di Teocrito e di Eroda — occupa un posto di grande rilievo nella zona di parcheggio degli ingredienti destinati ad entrare nel crogiuolo del romanzo vero e proprio. In questa direzione l’indagine del Rohde è ancora fondamentale, ma va integrata da un inse104
rimento organico del romanzo nella dimensione « comica » della cultura ellenistica; la quale sa che cosa sia il sublime (si pensi al Περὶ ὕψους e alla perduta opera omonima di Posidonio), ma non sa più produrlo, perché si preoccupa soltanto di trovare la distanza giusta, cioè quella media, tra
il proprio ‘ naso’ e lo specchio di se stessa. La commedia nuova, priva del coro e quindi del residuo epico che esso aveva mantenuto in vita, offre al romanzo
antico non tanto
un repertorio tematico, soprattutto erotico, che pure ha im-
portanza,
quanto
un
tipo
‘ neutro ’, caratterizzato
della
inmocuità,
ma
da
non
particolare una
di
rispecchiamento
dimensione
comica
della deformazione
(erede
aristofanea,
l'una e l’altra individuate da Aristotele), che esclude sia la
rappresentazione del fittizio mondo mitologico sia lo stravolgimento della realtà prodotto dalla risata, disinteressata o no, e dall’indignazione satirica (che distorce il reale anche
per il semplice fatto che vuole distruggerlo). L’elegia, ad esempio, non può fornire al romanzo se non un astratto modulo tematico, che però, essendo legato al mito, non ha
né storicità, né verisimiglianza storica, le quali invece sono
indispensabili sia alla commedia ellenistica sia al romanzo. Naturalmente l’equilibrio neutro di cui or ora parlavo è instabile, perché costantemente minacciato dall’istinto della deformazione;
non ci si deve
critica ha elencato
meravigliare,
diverse forme
pertanto,
di romanzo,
se la
da quella
satirica a quella agiografica *. La quale, peraltro, è la più vicina al romanzo canonico d’amore, proprio perché esclude sia il ridicolo comico sia il ridicolo satirico, ed esprime una volontà di edificazione morale che solo quantitativamente si distingue dal moralismo più o meno garbato e discreto del romanzo vero e proprio ”. E proprio il fatto che quest’ultimo riesca a salvaguardare quell’equilibrio precario e difficile, dimostra che il romanzo greco d’amore è commedia
come
la Néa,
mentre
il romanzo
moderno
ri-
produce molti aspetti di quella piá vasta commedia che è il romanzo antico nelle sue varie forme. A tal proposito 105
non mi sembra inopportuno gico’ di Dante è intitolato Balzac, dopo due tentativi titolo definitivo di Comédie
ricordare che il ‘ romanzo teoloCommedia, e che i romanzi del insoddisfacenti, hanno avuto il bumaine *. Nonostante le appa-
renze, dunque,
greco canonico
il romanzo
vita », proprio come la commedia
è « specchio
menandrea
βίου per Aristofane di Bisanzio,
filologo
di
è kácvomtpov
di intuito
critico
non comune, il quale seppe guardare in profondità quando scrisse:
imitò
l’al-
tro? » ?, intendendo per ‘ vita’ non certo i Realien —
che
sono
« O
Menandro,
elementi
o vita, chi di voi
estrinseci
inseriti
in contesti
due non
realistico-
documetari, che esattamente come quelli del romanzo appaiono inventati anche al lettore inesperto —, ma un ἔδος culturale caratterizzato dalla fruizione gratificante di una realtà
sociale
statica,
le cui
linee
di forza
(idee,
consue-
tudini, relazioni umane, privilegi) vengono proiettate come
'exempla' nel mondo dell’arte per catechizzare la società e per essere preservate da ogni erosione nella prassi della vita associata. Mentre ad Aristofane comico si offre un amplissimo registro per l’esplosione della risata, perché egli osserva
‘ dall’acropoli’
la magmatica
società
ateniese ed
è
quindi nella condizione ideale per investire con la forza dirompente dell’irrisione una fascia molto vasta di una realtà sociale che si trasforma a vista d’occhio e lascia sempre meno spazio e respiro alla tradizione degli &Yadoi,
per Menandro è disponibile solo il ristrettissimo e irrilevante margine di riso scommatico corrispondente alla fascia sociale degli infimi, dato che ormai anche l’uomo medio è suo ‘ fratello’, ed egli perciò non può irriderlo: la comicità aristofanea
(e aristotelica)
con
Menandro
scende
dal-
l’acropoli e si ammanta di humanitas per circolare fra la gente ‘bene’ e gli εὖ φρονοῦντες, conservando però il suo antico mordente per colpire sulla scena i personaggi minori,
quelli cioè che sono di rango sociale infimo ". La commedia nuova è diversa dalla Παλαιά perché è classista: alla fine del quarto secolo la classe media, in armonia con 106
i ceti alti, detiene un’egemonia stabile —
i monarchi elle-
nistici possono cadere, la società resta — e utilizza la letteratura, ovviamente libresca perché selettiva, come rispecchiamento del proprio potere”. La vittoria di una classe sull’altra è sempre comica — cioè romanzesca — finché è la classe vittoriosa a scrivere la propria storia, cioè a ridere contemplandosi nella propria vittoria, che è il presente. Orbene, il romanzo greco d’amore è il vero erede di questo atteggiamento culturale classista, e la tipicità dei suoi personaggi è la stessa dei personaggi della commedia nuova ?, Poco importa che i protagonisti dei romanzi siano spesso persone di altissimo rango: Menandro sons può presentare sulla scena personaggi che siano re o figli di re, perché altrimenti le sue commedie diventano tragedie, data anche la sostanziale identità della forma metrica recitativa nei due generi poetici ?. Importa molto, invece, il fatto che quei protagonisti si comportino come i rappresentanti di
una classe sociale egemone, portatrice di un'ideologia — che potrebbe ‘anche essere chiamata « borghese » — fondata sull'unità speciosa della famiglia (solo per questo la fedeltà delle protagoniste innamorate ἃ a prova di bomba) ^, sulla difesa del patrimonio privato e sul rispetto formale delle etichette della buona società: tutti motivi, questi, che ricorrono monotonamente anche nella commedia nuova. Del resto la stessa storicità dei personaggi di certi romanzi — derivante dall'analogia formale con le storie romanzate elle-
nistiche e col loro capostipite che è il romanzo biografico scritto su Ciro il Vecchio da Senofonte — ha un corrispettivo, però fuori dalla scena per le ragioni suesposte, anche nella Νέα ^, ed in entrambi questi generi letterari funge da cornice ‘realistica’ alla evidente stilizzazione del materiale trattato; e se nella commedia nuova è meno cospicua ”, ciò è dovuto al fatto che i commediografi della Νέα ne avvertono un bisogno meno impellente, dato che le vicende di quei personaggi drammatici hanno maggior sapore di realtà viva, sia perché essi agiscono sulla scena 107
come persone in carne ed ossa, sia perché l'elemento avventuroso in genere non fa parte della « fabula » drammatica, ma viene relegato nell'antefatto e pertanto non richiede di essere compensato da un ampio recupero di storicità concreta. Come si può constatare più da vicino, l'elegia ellenistica poteva offrire ben poco al romanzo; il quale d’altronde presenta un'altra caratteristica fondamentale qui già ricordata, la staticità interiore delle vicende, che è comune alla letteratura drammatica comico-mimica, mentre è estranea
all’elegia. Nella commedia
menandrea
l’azione è movimen-
tata solo esteriormente: i caratteri non subiscono nessuna evoluzione e le situazioni mutano soltanto perché sono
provvisorie e spiacevoli e debbono quindi necessariamente far posto al ristabilimento (che quindi non è una novità) dell’ordine ‘naturale’ delle cose: Cnemone resta sostanzialmente SvokoXog e, si noti bene, δοῦλος sino alla fine — anche per questo la sua vicenda si conclude in modo aristofanesco ? — e tutti i protagonisti delle altre commedie, dopo aver agito e reagito in vario modo alle situazioni che di volta in volta li coinvolgono, vengono a trovarsi in una | situazione finale che è esattamente identica a quella del. l’inizio, oppure è nuova solo nel senso che quella novità era nelle intenzioni iniziali dei protagonisti stessi; e ciò significa che la loro non è neppure storia di caratteri, che se si sviluppassero drammaticamente comporterebbero alla fine o il perseguimento di scopi diversi da quelli voluti all’inizio o l’insoddisfazione per il raggiungimento di detti scopi. E ancor più evidente è questa staticità nei mimi
di
Teocrito e di Eroda, soprattutto a causa della maggior brevità di questi componimenti drammatici. Si pensi al primo mimiambo
di Eroda, dove Gillide e Metriche risultano alla
fine psicologicamente identiche alla mezzana e all'onesta moglie che erano all’inizio: Metriche congeda Gillide con la stessa cortesia nient'affatto ironica con cui l'ha ricevuta in casa, facendole
mescere
dalla schiava del vino schietto,
&kpntos, con qualche goccia d'acqua 108
in una tazza debita-
mente pulita all’atto della mescita; e la rbesis indignata con cui l’onesta donna risponde alle sapientissime battute della mezzana ha solo la funzione di sottolineare che l’onestà della circuita è a prova di bomba e a priori non ammette
cedimenti di sorta; ciò equivale ad assenza di svolgimento drammatico interiorizzato, il quale solo può produrre un carattere. Da parte sua Gillide non dimostra nessun rammarico per l’insuccesso, e si accomiata da Metriche con la stessa dolcezza materna con cui è entrata; e come Metriche
si dimostra soddisfatta di continuare a scaldare lo sgabello, cosí la vecchia mezzana
(figura sociale indispensabile
fuori
dall’onorato gineceo) si dichiara soddisfatta di tornare alle sue normali occupazioni, col benestare dell’autore. Questo mimo di Eroda è un esempio cospicuo di libresca arte allusiva ἢ, in quanto è esemplato sul prologo del Filottete di Sofocle ®, dove però Neottolemo alla fine cede ad Ulisse, ponendo le premesse per uno sviluppo drammatico che consiste in un processo di redenzione del giovane eroe, progressivamente maturato dall’esperienza del dolore e dall’abiezione morale. Eroda invece vuole sottoli-
neare proprio l'impossibilità di una dialettica nella vita interiore dell’&vipwror, e ciò significa che la classe sociale di cui l’autore è portavoce — vale a dire la società « bor-
ghese » del suo tempo —
è fatta di benpensanti che affi-
dano al congelamento di una ben precisa ideologia sociale e morale la conservazione dei loro privilegi. Come avviene
generalmente,
un autore minore come Eroda
consente
di
definire i caratteri di un'epoca molto più facilmente che non autori grandi come Menandro e lo stesso Teocrito; il
quale si lascia prendere la mano anche lui dal demone del dramma a tesi, ma rende piá difficile l'individuazione della sua poetica perché sembra prendersi giuoco degli stessi clichés etico-sociali, in cui del resto crede.
Si consideri
il
mimo L'amore di Cinisca dove Eschine, non vedendo pi corrisposto il proprio amore per Cinisca da lui schiaffeg-
giata perché innamorata
di un altro che ora la possiede 109
tutta — e quindi ha dei diritti « sacrosanti », la cui violazione pregiudicherebbe l’ordinato svolgimento della vita sociale —, si rassegna e pensa di espatriare: l’amico interlocutore coglie la palla al balzo e invita Eschine ad arruolarsi mercenario nell’esercito di Tolemeo Filadelfo. Sembra che per un istante Teocrito ammicchi malizioso, ma anche qui le norme sociali vanno rigorosamente rispettate: Tionico
non si presta a intercedere per l’amico presso la donna, che probabilmente è un'etera (si chiama « cagnetta »), soprattutto perché questo è un compito sociale riservato alle mezzane?; Eschine si è comportato da bifolco schiaffeggiando una donna, e l’etichetta vuole che egli paghi le conseguenze del suo atto. Né vale a scusarlo il suo carattere dichiaratamente impulsivo, che d'altronde — sempre per ragioni d’etichetta — non può essere esploso in gesti violenti se non in una ben determinata occasione: in nome del decoro Eschine ha schiaffeggiato Cinisca durante un ἁδὺς πότος, cosí come, in proporzione, il Carisio menandreo usa
violenza carnale a Panfila nell'atmosfera ebbra ed orgiastica di una festa notturna e il pur rozzo Polemone non può far altro, nel vedere la propria donna, Glicera, baciata da Moschione, se non tagliarle la chioma; non può picchiarla, perché l’etichetta sociale e letteraria non prevede atti di violenza
materiale
al
di
fuori
dell’area
« dionisiaca »
e,
ovviamente, dell’area servile: nel quinto mimiambo di Eroda il povero Gastrone le prende di santa ragione, e non si tratta di busse innocue appartenenti alla leggera e pulcinellesca tradizione aristofanea. Ovviamente non si può pretendere che a distanza di secoli la sottile e rigorosa etichetta del primo ellenismo qui descritta resti perfettamente immutata: nel romanzo di Caritone il protagonista Cherea fa materialmente, in un analogo accesso d’ira e di gelosia, ciò che il Polemone della Perikeiromene ha soltanto desiderato di fare: picchia Calliroe — che però è sua moglie, non una semplice amante, e perciò ha doveri sociali molto più vincolanti — cosí violentemente da farla cadere a terra 110
priva di sensi. Troppo
poco è dunque
cambiato, per non
convincersi che nella commedia nuova (e nella drammaturgia mimica coeva, senza la quale non potremmo mai spie-
gare l’esistenza di un romanzo pastorale come quello di Longo Sofista, che presuppone i mimi agresti di Teoctito) è la parte più cospicua dell'amalgama del romanzo d'amore. I Realien possono mutare, l’ideologia che li avvolge è la stessa. Si pensi alla Τύχῃ ellenistica, che è una forza motrice esterna e perciò non può produrre vera azione, e si osservi come essa ispiri sia i romanzi d’amore sia le com-
medie di Menandro ?; per economia di spazio rinuncio qui ad
un'analisi
dettagliata
dei
temi
d'intreccio
su cui
s'in-
centra l’idea della ‘ fortuna’, e mi limito a considerare un
brano della rbesis di Τύχη nell'Aspis di Menandro, perché risulti evidente che la staticità drammatica, all'immobilismo
conservatore
della
società
corrispondente menandrea
(co-
mune al mimo e al romanzo), si configura esplicitamente come cliché di poetica: « Questo vecchio malvagio ha sentito or ora parlare di seicento stateri d'oro, ha visto schiavi barbari, bestie da soma, ragazze; poiché la fanciulla à divenuta ereditiera, essendo il più anziano, vorrà far valere
i suoi diritti. Ma dopo essersi procacciato invano noie e molestie, dopo essersi fatto conoscere meglio di tutti, che
razza d'uomo è, ritornerà alla situazione di prima, ἐπάνεισι ἐπὶ τἀρχαῖα. Non rimane da dire se non il mio nome:
sono
la Fortuna, arbitra di decidere e di disporre tutto » (trad. F. Sisti; il corsivo e la trascrizione greca sono miei). Non soltanto Smicrine, ma tutti i personaggi delle commedie menandree
(nonché del mimo
e del romanzo)
« ritornano »
— cioè, drammaticamente, restano — nella « situazione di prima ». La Τύχη di Euripide (si pensi soprattutto allo Ione)
è simile a quella di Menandro;
quella
di Sofocle
e
di Eschilo no, sebbene, ad esempio, il primo Edipo sofocleo risulti ἴσος dopo
la catastrofe, cioè « identico
prima » ?, Euripide la stasi;
è un
il Nietzsche non
rivoluzionario ebbe
che
a quello
di
preannuncia
tutti i torti a considerarlo 111
uccisore della tragedia. Qualche tempo prima della rappresentazione dell’Aspis, Teofrasto fu processato per aver espresso sulla Fortuna le stesse idee che Menandro avrebbe posto sulla bocca della Fortuna stessa; e l'autore della γραφή contro Teofrasto —
sconfitto,
ovviamente, e in sede
pre-
iudiciale, come è dimostrato fra l’altro dalla tranquillità con cui parla la Tóyn menandrea — era fratello spirituale dello sconfitto Demostene, cioè del paladino dell’Atene di Eschilo e di Sofocle. Con l’avvento della letteratura visiva e dell’ellenismo la cultura greca cambia veramente volto. L’ideologia che presiede alle opere di Menandro Teocrito Eroda è dunque sostanzialmente la stessa dei romanzieri, i quali hanno in comune con i loro illustri predecessori l'appartenenza ad una società che per alcuni secoli non subisce mutamenti di rilievo: ai despoti eredi di Alessandro
Magno
subentrano,
nel lungo periodo della fioritura del
romanzo, i non meno dispotici monarchi imperiali romani, con la sola differenza che questi ultimi esercitano un potere meno precario — indipendentemente dai loro destini individuali —, in quanto l’impero romano ha, per cosí dire, il fiato più lungo e dispone di un apparato amministrativo più solido, anche se qualitativamente non diverso da quello, parimenti burocratico, delle monarchie ellenistiche. E’ molto significativo, comunque, che le origini del romanzo siano legate alla dinastia dei Tolemei e presentino punti di contatto col culto egizio di Iside ed Osiride *: l’Egitto, infatti, fu sede della sola monarchia
ellenistica che riuscisse
a sopravvivere fino all’avvento dell’impero augusteo, da cui fu assorbita e, diciamolo, perpetuata. La storia del romanzo risale oltre il principato di Augusto, e il cosiddetto Romanzo di Nino
sta a dimostrarlo;
ma è pur vero che l’ori-
gine di questa forma letteraria — intesa come genere specifico — non può esser fatta risalire fino all'età di Teocrito o di Eroda suo contemporaneo, e tanto meno all'età
di Menandro
o ancora più indietro nel tempo:
le storie
romanzate del quarto e del terzo secolo non avrebbero la112
sciato autonomia di respiro a componimenti
rativa simile alla loro.
E’ lecito pertanto
romanzo
secondo
sia
nato
nel
secolo
di matura nar-
ritenere che
avanti
Cristo,
il non
tanto come risultato della disgregazione di certa storiografia deteriore * — uccisa dall'attacco massiccio mossole da Polibio (non mi riferisco alla polemica contro Timeo ed altri,
ma al peso che l’opera polibiana ha avuto nel restituire alla storiografia la dignità di genere ‘ alto’) —, ma come surrogato della letteratura drammatica comica, che non poté sopravvivere a lungo *: ogni forma di teatro che non sia destinata alla sola lettura, ha bisogno di una società in evoluzione,
e non
è un
caso
che
il dramma
esclusivamente
libresco di Teocrito e di Eroda fiorisca in un’area culturale estranea all'ambiente attico e alla tradizione teatrale ateniese. Intendo dire che la commedia nuova è meno libresca del mimo in quanto è destinata anche ad un normale pubblico di spettatori, ma in fondo è più artificiale perché è alquanto anacronistica: il vero dramma può prosperare solo nella libertà e nella democrazia, perché è sempre scontro dialettico di forze culturali; e la partecipazione del pubblico che si affolla nel teatro ha significato solo se presuppone una comune volontà di confronto dialettico delle idee. Nell'Atene di Menandro, invece, si va a teatro per forza
di tradizione: la πόλις è morta anche nel cuore degli Ateniesi, e sopravvive solo in una consuetudine teatrale mantenuta in vita per illudersi e per dimostrare al mondo che Atene è ancora quella di prima e conserva ancora il prestigio del passato. La prova di ciò è data proprio dalla staticità delle commedie di Menandro, la cui poetica pertanto è coerente nel rispecchiare il volto immobile della società
contemporanea, ma pecca di incoerenza nel vestire un abito drammatico che non le si addice. L’equivoco non poteva durare molto, anche perché Roma — una potenza non ellenistica — premeva alle porte e rendeva inattuale l'esibizione di un prestigio che poteva avere un senso solo per altri Greci o ‘barbari’ di lingua greca. Del resto il mimo 113
vive all'ombra della commedia, come parente povero, e una volta che quella si toglie il suo abito di circostanza e muore, anch’esso è coinvolto nella caduta ”: resta la comicità nuda,
intesa come rispecchiamento fedele delle istanze culturali e sociali celate nelle manifestazioni esterne della vita contemporanea. Tale comicità, lo sappiamo,
è romanzesca,
e cerca
un abito nuovo, che le si addica di più: finalmente lo trova nel guardaroba della storia, più o meno romanzata; l’abito non è propriamente
nuovo,
ma non
sfigura, e poiché con-
serva anche l’odore esotico dei suoi viaggi orientali, lo trasmette inevitabilmente alla nuova proprietaria, che si appassiona ed abbandona anche lei alle avventure straordinarie e alla esplorazione di terre lontane di cui in pas sato ha dimostrato una conoscenza soltanto sommaria... soprattutto nei prologhi della Néa. Berosso, Manetone ed altri ne sanno di più, ed è bene approfittare. La commedia nuova, comunque, non subisce solo la metamorfosi del trapasso alla forma romanzesca specifica: essa rinasce, ma è il caso di dire che nasce veramente, a Roma, dove trova un terreno
favorevolissimo ad una fioritura autentica nel tessuto sociale altamente ‘ drammatico" ed articolato della ‘res pubblica’ quiritaria. Vede risorgere al suo fianco la tragedia, che in Grecia
essa
aveva
visto boccheggiare
esangue;
si riscuote
dal suo torpore, ma trova difficoltà ad adeguarsi al nuovo mondo.
Plauto se ne accorge e chiede aiuto ad Aristofane,
da cui mutua
il disprezzo
per l'organicità della ‘ fabula’
(donde la ‘ contaminatio ’) e lo spirito della musica ammo-
dernato dalle innovazioni di Euripide: il tutto, naturalmente, condito da un aceto saporosamente italico e da una miracolosa inventiva lessicale e metrica. Con l’avvento del circolo degli Scipioni, peraltro, la commedia comincia ad aver
nostalgia del suo greco passato menandreo, e ciò significa che l'età eroica della repubblica sta tramontando.
L'atteg-
giamento selettivo dimostrato da Terenzio in campo
lessi-
cale e metrico corrisponde ad una selettività sociale favorita dalla netta prevalenza della classe senatoria. Alla voce 114
‘ epica’ della società romana impegnata in uno sforzo titanico di coesione per far fronte al pericolo mortale della guerra annibalica, subentra, qualche tempo dopo Zama, la
voce
‘romanzesca’
dell’aristocrazia impegnata
nelle facili
guerre d’Oriente come in scampagnate militari; e, subito dopo la vittoria di Pidna, Terenzio riflette una situazione di stasi che prelude alla crisi graccana e ai suoi sviluppi destinati a sfociare nell’avvento del principato: Lucilio, Cornelio Sisenna, Catullo e Varrone Reatino rispecchiano pi fedelmente di altri autori le tappe fondamentali di un processo
di
‘romanzizzazione ’ della
cultura
romana,
iniziato
vistosamente quando l’ ‘olio’ dell'aristocrazia terenziana si è dissociato dall’ ‘ aceto ' popolare, sovrapponendosi ad esso per neutralizzarlo. Pressappoco parallelo a questo processo è lo sviluppo del romanzo nell’Oriente ellenistico, sviluppo che avviene in sordina per lo scarsissimo prestigio di cui gode quella forma narrativa rispetto ad altre come la ‘ fabula Milesia’ e la satira menippea: a queste infatti riservano le proprie simpatie esclusive i ‘ romanzieri’ Sisenna e Varrone.
Il romanzo rispondeva perfettamente alle esigenze di un pubblico di lettori, che nel secondo secolo avanti Cristo occupava una fascia sociale piá ampia di quella in cui si erano mossi i poeti ellenistici del secolo precedente; d'altronde l'ampliamento della zona sociale di fruizione della letteratura comportava un abbassamento del tono aristocratico che aveva contraddistinto la stagione aurea dell'ellenismo, e ciò anche per effetto di una certa romanizzazione politica della cultura greca: l'ellenismo egiziano, che qui interessa, non poté restare immune dall'influenza indiretta del romanesimo repubblicano che già si imponeva direttamente su una parte cospicua del mondo ellenizzato. Dopo la conquista romana della Siria e della Macedonia, del resto, solo l'Egitto poteva continuare a rispecchiare fedelmente i valori
dell'ellenismo,
elaborando
una forma
letteraria,
il 115
romanzo appunto, che non a caso riassume e condensa — sia pure, e inevitabilmente, a livello di comune denomina tore, che esclude le « celsitudines » del genio — molti aspetti tipici di quella cultura che sono romanzeschi nel senso lato qui già chiarito e si aggrumano, per cosí dire, in una compagine narrativa che compensa l’eterogeneità dei suoi elementi con una struttura fissa ed uniforme, quasi a preservare un’eredità culturale dal pericolo della disgregazione completa. Un
genere
di vasto
consumo
bisogno di un materiale
come
il romanzo
scrittorio di largo
aveva
impiego
e di
basso costo, accessibile anche ai ceti sociali inferiori (corri-
spondenti pressappoco alla nostra borghesia impiegatizia): orbene, soltanto l'Egitto, patria del papiro, poteva soddi sfare questa esigenza vitale per le sorti del romanzo, e fu « merito » dei Tolemei comprendere l'importanza dell’impiego del papiro riservandosene il monopolio e adottando forse misure ancor più restrittive per gli importatori *; gli storici del romanzo antico debbono tener conto di questa politica del papiro da parte dei Lagidi, e gli storici della scrittura debbono convincersi che nell’Egitto ellenistico preromano quel materiale scrittorio costava molto meno che all'estero. Piá che di altre forme letterarie, il romanzo è erede della drammaturgia comica e della storiografia (so-
prattutto locale) ellenistiche, ma è principalmente figlio del papiro;
e sono grato a M. McLuhan
per avermi
orientato
nella direzione giusta, sottolineando l’importanza della carta nella storia dell'umanità ”. Va osservato inoltre che solo in Egitto, area nodale degli scambi e delle comunicazioni con l’Oriente, poteva diffondersi ampiamente l’interesse, tipico del romanzo, per i viaggi avventurosi e per le terre esotiche 9. Il romanzo si muove nell’area del presente, senza prospettive « lunghe », e se non fosse per la sua ingombrante
estensione,
materiale
sarebbe
scrittorio più
vergato
sulla
vile e deperibile;
creta‘,
cioè
sul
ecco
perché
in
tempi recenti hanno avuto molto successo e ancora oggi sono 116
in voga i romanzi a puntate sui rotocalchi. Il romanzo, in
fondo è un « giornale » e vuole la carta effimera dei giornali. Né ci si lasci ingannare dal carattere fantastico delle vicende romanzesche: lo studio della letteratura conservatrice e reazionaria è una palestra utilissima perché esercita il critico a guardare sotto la superficie grezza, cioè a capire che il presente è sempre un presente di idee, che spesso sono mascherate, distorte o eluse dai fatti concreti della vita sociale.
L’ideologia del privilegio — chiaramente rispecchiata anche
dalla monopolizzazione
di cui sopra —
non può, ovvia-
mente, voler ‘cantare’ se stessa come istigazione al sopruso: di conseguenza o evade da se stessa — come nei romanzi in questione —, recuperando velatamente i raccordi col presente che le sembrano edificanti, oppure cerca
di rappresentare direttamente come
totalità, appunto edi-
ficante, solo una parte di quel presente. La letteratura romanzesca reazionaria non può mai essere realistica perché è mistificatrice,
mentre
la narrativa veramente
realistica
ri-
specchia sempre con fedeltà documentaria il presente nella sua dimensione totale. Solo in quest’ultimo caso la raffigurazione dei concreti aspetti della vita sociale è anche rappresentazione delle idee che li determinano: il narratore realista non è mai un mistificatore. Nei romanzi greci d’amore la mistificazione consiste nel proiettare gli aspetti della realtà contemporanea, considerati edificanti e vitali
—
l’unità borghese
della famiglia,
il rispetto della pro-
prietà privata etc. — in un mondo fantastico nel quale il lettore possa facilmente ritrovare « se stesso », cioè la propria società purificata con la rimozione di tutti gli aspetti deteriori, che nella realtà concreta fanno tutt'uno con quei valori sociali (e perciò li rendono equivoci), mentre nella realtà dell’arte risultano nettamente separati da quei valori e incarnati soltanto dai « cattivi ». Con la caduta della monarchia egiziana e l'assorbimento dell’Egitto da parte dell'impero romano, il romanzo si avvia verso la sua stagione più splendida. La stabilità dell'appa117
rato politico e amministrativo di Roma imperiale è il presupposto fondamentale per il rigoglio di questo genere letterario, ed è perciò naturale che esso trovi un terreno
particolarmente favorevole alla sua fioritura nell’età degli Antonini, celebrata dai contemporanei come una vera e pro-
pria età dell’oro *. La figura ideale del governante filosofo, definita da Platone quando la letteratura visiva moderna aveva fatto da poco il suo ingresso nella storia dell’Occidente, sembra incarnata storicamente nella persona di Marco Aurelio, un letterato della piá bell’acqua; e come sei se coli prima i sofisti avevano detronizzato la letteratura orale
portando alle estreme conseguenze l'ideologia dell'* hic et nunc', cosí nell'età degli Antonini lo spirito romanzesco della letteratura visiva emerge con evidenza assoluta e raggiunge un grado di estrema intensità, negando spazio ai generi ‘alti’ e manifestandosi in forme appunto romanzesche come la confidenza autobiografica — si pensi all'intimismo di quel Secretum sui generis che sono i Ricordi di Marco Aurelio —, l'epistolografia, la letteratura comicosatirica di tipo lucianeo e, naturalmente, il romanzo, il quale
ultimo assume un ruolo primario proprio perché è destinato al vasto pubblico e perció rispecchia piá ampiamente la temperie culturale dell'epoca. Subito dopo il romanzo, comunque, il genere letterario più significativo è l'epistolografia, che entrata nella sfera della letteratura vera e propria con Platone ed Isocrate e portata a più alti fastigi da Epicuro “, acquista un significato paradigmatico, per la squisita letterarietà che la caratterizza, proprio nel secolo degli Antonini. La privacy della lettera — soprattutto quando questa è fittizia (ed è il caso pit frequente) — rispecchia un atteggiamento confidenziale legato all’ideologia dell'istante, per cosí dire, ed elusivo dei veri problemi della società. I nuovi sofisti scrivono lettere anche quando l’argomento, di per sé, non richiede la forma epistolare, e spesso trattano temi particolarmente futili, come gli elogi della chioma 118
(Dione
Crisostomo)
o della
mosca
(Luciano)
cor-
rispondenti alle Laudes fumi et pulveris e alle Laudes neglegentiae scritte da Frontone in forma di lettere. Un cospicuo esempio di epistolografia ‘ romanzesca ’, erotica per giunta, è offerto da Alcifrone: nei suoi quattro libri di lettere fittizie, respira lettera razione perché
fra le quali due portano la firma di Menandro, si aria di romanzo, e non è casuale che proprio la d’amore sia un ingrediente tipico inserito nella narromanzesca (dal secondo secolo dopo Cristo in poi), congeniale allo spirito di questa. Parimenti non è
privo
d’importanza,
nell’ideologia Bachtin —
del
ai fini
presente
dell’assunzione —
quale
è stata
del
romanzo
definita
dal
il sostanziale atticismo dello stile, che accomuna
già il romanzo di Nino con gli altri romanzi successivi 5, anche se presenta caratteristiche del linguaggio poetico e della prosa gorgiana. Lo stile ‘ tenue’ o ‘umile’ — cioè « comico » — degli atticisti può essere chiamato romanzesco proprio perché è un modulo particolarmente adatto per rispecchiare lo spirito del presente: Lisia, fons et caput dell’atticismo,
riusci ad elaborare
una
cifra
retorica esem-
plare in tal senso, perché, anche a motivo della sua condidizione
di meteco,
si dedicò
quasi esclusivamente
all’ora-
toria giudiziaria, il cui baricentro è l'« hic et nunc » della controversia penale e civile, legata ad interessi immediati
meno ampi (anche nel caso di processi di stato) di quelli che ispirano l’oratoria politica ed epidittica, che pur sono ‘romanzesche’ (non a caso la grande oratoria greca è,
appunto, attica). Ed è altamente significativo che il più grande prosatore atticista romano, Giulio Cesare, abbia scritto Commentarii, cioè ὑπομνήματα 5, che sono molto piá ‘ ro-
manzeschi ’ delle opere di Tucidide o di Senofonte, perché ripudiano il blasone della storia come ‘genere alto’ (cui non sa rinunciare nemmeno Sallustio) ed hanno il sapore di
una traduzione simultanea della vita presente in atto: segno di finissima letterarietà, questo, riscontrabile anche nei Ricordi di Marco Aurelio, meno atticista di Giulio Cesare
ma suo imitatore nel vergare i propri scritti sotto tende mili119
tari ”. Orbene, l’atticismo ricercato e fiorito dei romanzieri
è certamente diverso da quello lisiano, ma proprio per questo è molto istruttivo: ci assicura che il romanzo è pervaso dallo spirito del presente ed insieme ne elude le istanze dirette ed esplicite; al mascheramento della realtà contemporanea — quale è stato qui definito — corrisponde il mascheramento della nuda prosa che dovrebbe rispecchiarla. La scrittura esclusivamente letteraria, non solo quando è prosa arricchita dal linguaggio poetico, ma anche quando è in versi (si pensi ai trattati scientifici versificati dei primi secoli dell’ellenismo), è sempre e soltanto prosa, perché è ‘romanzesca ’, mentre
l'epos
autentico
è sempre
e sol
tanto poesia, perché conosce una sola parola, il canto del ‘ passato assoluto ' 5, che è musica e trova la sua genuina espressione nella misura melica del verso. Non a caso il quarto secolo avanti Cristo è universalmente riconosciuto come il ‘ secolo della prosa’: nei decenni che vanno dalla morte di Socrate alla morte di Aristotele visse la giovane letteratura visiva, che proprio perché giovane e inesperta di artifici non senti né ebbe bisogno del belletto del verso, ed è qui il motivo dell’altissimo livello di quella produzione letteraria (artificiale perché letteratura, ma non artificiosa e incoerente). Quando la prosa, già nel secondo secolo avanti Cristo, ebbe di nuovo il sopravvento, ciò fu segno di coerenza con lo spirito romanzesco dei tempi, estraneo alla « fissità formulare » del verso. Grazie ai nuovi sofisti della prima stagione, il secolo degli Antonini si distingue in modo particolare per questa coerenza « adulta »,
e forse è qui il motivo per cui il Leopardi guardò a quel secolo con tanta simpatia. Ma forse il Leopardi non riuscí a vedere i risvolti di quella letteratura adulta. Il romanzo,
i cui rappresentanti sono in genere letterati di modesta estrazione sociale 9, offre a noi moderni un esempio di stru-
mentalizzazione dall'alto (cosí come i premi letterari d'oggi monopolizzano il mercato librario e manipolano i gusti degli autori e del pubblico orientandone le tendenze in funzione 120
preordinata),
e presentandosi
in veste
idillica
e bonaria,
presuppone che l’impero romano sia il migliore degli. imperi possibili, cosî come in passato ha presupposto che la monarchia egiziana fosse la migliore delle monarchie possibili: ad esempio, le esposizioni di neonati (piaga dolorosa della società antica) non sono poi un gran male, dato che... non ogni male viene per nuocere, e alla fine tutto si accomoderà, con piena soddisfazione degli ex-neonati. Siamo esattamente agli antipodi (ma il modulo del mascheramento è identico) della satira feroce nascosta nei bonari e idillici
Viaggi di Gulliver.
.
Nella sua introduzione a Problemi di teoria del romanzo Vittorio Strada registra una confidenza di Federico Schlegel, il quale ebbe a riferire l'opinione singolare di Fichte, secondo cui in un ordinamento statale « perfetto (quando lo stato del commercio sia chiuso del tutto e il passaporto dei
viaggiatori sia munito di una compiuta biografia e di un ritratto fedele della persona) sarebbe assolutamente impossibile un romanzo: poiché nulla potrebbe presentarsi nella vita reale, che somministrar gli potesse qualche soggetto, o verosimile
materia » ?. Lo
stato
commerciale
chiuso
a
cui pensava il Fichte non era molto diverso dalla monarchia egiziana ellenistica o dallo stato romano imperiale, che però, ovviamente, non potevano essere perfetti, anche se tali
apparvero agli autori dei romanzi, i quali infatti non vi trovarono
molti
« soggetti,
o verosimile
materia ». Quel
poco che vi trovarono giustifica la monotonia dello schema narrativo, e corrisponde ad un margine d’imperfezione, cioè d'« incompiutezza », senza la quale nessun romanzo può essere scritto.
giugno-settembre 1977
Νοῖε
Parte prima ! Minoici un’accezione
logia, raria 2 «Atti Roma l'art.
e micenei ampia
(trad. it. di N. Neri), Torino
(wolfiana
e
boeckhiana,
per
1969, p. 287. Per
intenderci)
della
filo-
ved. le osservazioni di V. Branca in La filologia e la critica lette(di V. Branca e J. Starobinski), Roma-Milano 1977, p. 92. C. GALLAVOTTI, Tradizione micenea e poesia greca arcaica, in e Memorie del Primo Congresso Internazionale di Micenologia », 1968, p. 832. Il medesimo studioso è tornato sull'argomento con I documenti micenei e la poesia omerica (1969), in «Atti del
convegno
Roma
internazionale
1970,
micenei
sul
tema:
pp. 79-89. Ved.
La
anche
ed egeo-anatolici » (fasc.
poesia
Note
XV),
epica
omeriche
Roma
1972,
e la sua
formazione »,
e micenee, pp.
in «Studi
7-32.
3 Tradizione micenea, cit., p. 834. 4 Si pensi a The making of homeric verse: tbe collected papers of Milman Parry, edited by Adam Parry, Oxford 1971; in questa raccolta
figurano
ovviamente
anche
i due
saggi fondamentali
di M.
Parry
sul-
l'epiteto tradizionale e sulle formule e la metrica di Omero. Si veda anche l’utilissima guida Libri, editori e pubblico nel mondo antico, a cura di G. CavALLo, Bari 1977. 5 Z. RuBiNsOHN, Tbe Dorian invasion again, «La Parola del Passato » (fasc. CLXI) 1975, p. 113. 6 J.
CHapwick,
Who
were
tbe
Dorians?,
(fasc. CLXVI) 1976, pp. 103-117. Questo un'idea espressa da G. PucLiese CARRATELLI sv.
Cretese-micenea
«La
Parola
del
Passato»
articolo sembra sviluppare in E.I., App. III, p. 453,
civiltà.
7 1,112,5: Δωριῆς te ὀγδοηκοστῷ ἔτει ξὺν Ἡρακλείδαις Πελοπόννησον ἔσχον. Ved. C. GALLAVOTTI, Tradizione micenea, cit, ibid. e jJ. CHADWICK, art. cit., p. 105. 8 Tradizione micenea, cit., ibid.
125
9 In
Problemi
di
teoria
del
romanzo
(metodologia
letteraria
e
dia
lettica storica), a cura di V. SrkADA, Torino 1976, pp. 181-221. 10 Il metodo di ricerca segufto dal Bachtin si rivela particolarmente utile per far luce sui primordi dell'epos, proprio perché la mancanza di una documentazione coeva non permette alla filologia — almeno allo stato attuale delle sue disponibilità scientifiche — di svolgere i propri compiti in misura esauriente. 1 Epos e romanzo, in Problemi di teoria, cit. p. 215. 12 A. Hauser, Storia sociale dell’arte, Y (trad. it. di A. Bovero), Torino 1964, pp. 86-87. Ved. anche C.M. Bowra, Homer, Bristol 1972, p. 27, dove viene rettiîicata un'idea, ancor meno accettabile, espressa dallo stesso autore in Homer and bis forerunners, Edimburgh 1955, p. 36. B Ved. C. GattavotTiI, Il carattere eolico del greco mericeneo, in « Rivista di Filologia e di istruzione classica », (n.s. 86) 1958, pp. 113 sgg. Un folclore epico in dialetto eolico-miceneo può benissimo essersi svilup pato nell’area eolica microasiatica, ma è ovvio che quel dialetto subi profonde trasformazioni, e comunque non condizionò in misura rilevante i moduli lessicali e metrici dell'epos ionico, per le ragioni che esporrò nel seguito della presente opera. In Tradizione micenea, cit, p. 837 il GALLAVOTTI sembra tener conto delle «differenti coloriture dialettali che si ritiene di potere scorgere nella lingua micenea », ma nega giuste mente che tale ipotetica varietà possa essere paragonabile con «la mi stione di alcuni caratteri eolici arcaici nel contesto ionico e innovatore della lingua omerica ». 14 Il cavallo di Troia è simbolo di Posidone « scuotiterra », ἐννοσίγαιος;
com'è noto, in origine Posidone era una divinità teriomorfa, con sem bianze equine, e quando assunse aspetto antropomorfico gli fu consacrato il cavallo (il teonimo miceneo En(w)esidao(m), non E(r)nesidao(n), forse indica il dio dei terremoti — distinto da Pose(i)}da0(n) — le funzioni del quale furono in séguito assorbite dal Posidone ‘storico ’). Piá che l'archeologia, la quale ha creato parecchia confusione in merito all'individuazione della Troia omerica (la scelta fra ben quarantasei « infra strati » non è tale da ispirare fiducia), può esserci d'aiuto nel ricostruire l'« ultimo quarto d'ora » di Troia la considerazione che alla distruzione della città non partecipa nessun grande eroe acheo (L. Pareti): ciò significa che la πέρσις di Troia non ebbe bisogno di grandi eroi giacché gli eolimicenei conclusero vittoriosamente l'assedio della città approfittando di un terremoto. La sismicità della Troade è arcinota. 15 Si tenga conto, inoltre, del fatto che soprattutto nel medioevo ellenico l’evoluzione del costume e delle idee fu lentissima (in merito ved. A. FANFANI, Poemi omerici ed economia antica, Milano 1965, p. 13; ved. anche P. Guiraup (citato dal Fanfani), La main-d’ouvre industrielle dans l’ancienne Grèce, Paris 1900, p. 10). 16 Ved. M. BACHTIN, op. cit, p. 193: «Le ipotetiche canzoni originarie, che hanno preceduto la formazione delle epopee e la creazione della tradizione epica come genere letterario e che erano canzoni sui contemporanei
e
costituivano
un’eco
immediata
ad
eventi
appena
com
piuti, queste ipotetiche canzoni non ci sono note. Sulla natura di queste
126
' :
originarie canzoni degli aedi o cantilene possiamo quindi fare congetture soltanto. E non abbiamo alcuna ragione di credere che esse fossero piü simili ai più tardi canti epici (a noi noti) che, ad esempio, al nostro corsivo di attualità o agli stornelli sui temi del giorno». 17 Il Bachtin mutua la formula «passato assoluto» da Goethe e Schiller, in sottintesa polemica con Hegel. 18 E' molto probabile che gli eolismi «odissiaci » (presenti anche nell’Ilizde secondaria) siano più numerosi — in quanto arcaismi non censurati dallo spirito epico — di quelli veramente arcaici. 19 Può essere utile, a questo proposito, ricordare che la migrazione ionica ebbe carattere «piuttosto greco che regionale », come osserva F. CassoLA, interpretando Tucidide, I, 2 (La Ionia nel mondo miceneo, Napoli 1957, pp. 101-02). Il Cassola parla anche di una guerra fra Ioni ed Eoli. « Il fatto che nelle scritture semitiche non esistano segni particlari per indicare le vocali © che i| suono vocalico sia inso mei segni delle consonanti, porta, di conseguenza, che tali scritture non possono essere lette ma devono essere interpretate: e ciò contravviene al principio fondamentale dell’alfabeto. La scrittura semitica, quindi, diventerà alfabeto soltanto quando i Greci, dopo avenla appresa, vi apporteranno sostanziali modifiche per adattarla alle esigenze della loro lingua» (M. BurzacHECHI, L'adozione dell'alfabeto nel mondo greco, in «La Parola del Passato » (fasc. CLXVI) 1976, p. 82). 21 La trasposizione delle avventure di Odisseo dalle regioni del Mediterraneo orientale e del Ponto Eusino nei mari occidentali è un fatto ormai pienamente assodato (ved. M. Sompr, La Grecia classica, in «Nuove questioni di storia antica», Milano 1974, p. 127: ivi sono pre supposti gli scritti di L. PARETI Poesie e storia nell'epica omerica, « Responsabilità del Sapere », (XXI) 1950, pp. 34 sgg. e Omero e la realtà storica; questo opuscolo è citato da C. GALLAVOTTI in Tradizione micenea, cit., p. 833, n. 1). Per quel che concerne il mascheramento delle località dell'Occidente mediterraneo nell'Odissea, ved. R. Sion, Géographie odysséenne, « Annales », (XXVII) 1972, pp. 158-162. 2 Per il soggettivismo del «romanzo in prima persona» ved. G. LukÁcs, Il Marxismo e la critica letteraria (trad. it. di C. Cases), Torino 1964, p. 296. Ovviamente il soggettivismo di Odisseo è ancora «gesto », conserva cioè una sua dimensione oggettiva e drammatica, quasi che l'aedo voglia *mimare" il su oeroe. Invece «la tendenza contemporanea (scil. odierna) a marrare in prima persona è un inconscio conato verso la naturalezza che però vuole restare pagina, racconto, non ‘gesto’ » (CESARE PAVESE, Il mestiere di vivere, 16 gennaio 1948). Da quanto osservato si deduce che gli ᾿Απόλογοι non possono assolutamente essere anteriori all'IJiade originaria, dato che «sono stati sempre in prima persona» (G. Pasquari, Pagine stravaganti, II, Firenze 1968, p. 296); l'evoluta forma. narrativa con cui essi sono nati ci assicura che appartengono ad una tradizione recentissima, anche se attingono al folclore universale (si pensi alla favola di Polifemo, ricordata dal Gallavotti, con pertinenza e sensibilità, in I documenti micenei e la poesia
127
omerica, cit., p. 88). Ricordo inoltre che nell’Iliade raccontano in prima persona soltanto Nestore e Fenice, due personaggi che anche per altra via risultano estranei all’Ilizde originaria. Rilevo infine che va inserita nella presente prospettiva l'osservazione del MarzuLro (1 problema omerico, Milano- Napoli 19702 — 12 ed. Firenze 1952 —, p. 156), se condo cui le Peripezie, «se non il primo nucleo dell’Odissez, certo però ne sono la parte più antica». 23 L'Odissea nasce destinata all'esecuzione orale, ma risulta composta secondo i moduli cerebrali della scrittura alfabetica. L'Ilizde invece resta sostanzialmente una composizione orale anche nella sua veste alfabetica (a parte le aggiunte odissiache ed il conseguente cerebralismo dei loro collegamenti estrinseci con i canti originari). Pertanto l’idea del BETHE, secondo cui « l’Iliade e l'Odissea sono i primi libri destinati alla lettura in tutta la letteratura mondiale » (Die griechische Dichtung, WildparkPotsdam 1929, p. 23, ap. G. PasquaLi, Pagine stravaganti, 11, cit., p 288), va rettificata precisando che i due poemi sono soprattutto desti nati alla recitazione, e che l'Iliaede conserva i caratteri tipici dell’epos esclusivamente orale. % Tutti i brani di contenuto didattico presenti nell’Ilizde vanno considerati odissiaci: mi riferisco soprattutto al didascalismo del primo libro, con buona pace di E.A. HaveLock, Cultura orale e civiltà della scrittura - Da Omero a Platone (trad. it. di M. Carpitella), Roma-Bari 1973, p. 73. 5 Com'è noto, l’idea della morte dell’epos nel mondo moderno risale ad Hegel. Secondo HonkHEIMER e Aporno, che come R. Borchardt non vedono l'abisso che separa l'Iliade dall’Odissez, l'epos e il mito hanno in comune «sfruttamento e dominio» (Dialettica dell'illuminismo (trad. it. di L. Vinci), Torino 1976 (2* ed. «Reprints »), p. 54). E' chiaro invece che lo sfruttamento rispecchiato dall'Iliede è tranquillamente attualizzabile, poiché corrisponde allo sfruttamento non dell'uomo, ma della realtà animale, vegetale, minerale e cosmica da parte della futura società epica (ved. in merito il séguito immediato della presente trattazione). 2% L’Iliade è un poema ‘artificiale’ solo nella misura in cui il suo redattore odissiaco l'ha sottoposto a revisione e l'ha ampliato ai fini della redazione alfabetica. Le parti odissiache del poema sono comunque molto meno rilevanti, quantitativamente, di quelle calcolate da B. Marzutto (I! problema omerico, cit., p. 412) nella misura di un terzo del poema stesso. 27 Il concetto di «democrazia guerriera» è ripreso e utilizzato da G. LuxAcs in Problemi di teoria del romanzo, cit., p. 145. 2 Ved.
moderna
B.
di
Croce,
taluni
2 La differenza
Poesia
giudizi
posto
in
antichi),
e moderna
Bari
19664,
tra l'una e l’altra Atena
mente da B. ManzuLLo
ha
antica
risalto sia
(Omero.
pp.
Interpretazione
34-35.
è stata rilevata
efficace
(I| problema omerico, cit., pp. 158 sgg.) il quale
la
scarsa
perspicuità
fisionomica
della
Κόρη
odissiaca, sia gli aspetti odissiaci (cioè secondari) dell'Atena iliadica soprattutto in V 783 e A 129 sgg.) E’ ovvio pertanto ritenere che la
redazione
128
scritta dell’Odissea
preceda
quella
dell’Iliade,
effettuata
dallo
stesso rapsodo (o dalla stessa scuola rapsodica). Per quel che concerne la gentilezza borghese del mondo odissiaco va comunque puntualizzato che essa è ben diversa da quella che appare, per non citare altri, a HORKHEIMER e Aporno (Didettica dell'illuminismo, cit., pp. 50-31). Quella gentilezza fa tutt'uno con l'odio fratricida, che invece l'eroe iliadico non conosce. Odisseo si abbandona con lucidissima gioia al facile e gratuito massacro dei proci suoi fratelli (un intero libro, il 20°, è dedicato alla preparazione della strage). E se il supplizio delle ancelle dura poco, ciò non è dovuto alla gentilezza d'animo del rapsodo — altrimenti non sapremmo spiegare da lunga e atroce tortura inflitta a Melanzio, che come figura sociale è collega di Filezio e quindi non suscita scandalo come relitto arcaico —, ma al fatto che le ancelle sono donne e schiave, cioè troppo deboli fisicamente per resistere al supplizio più di qualche attimo, e troppo insignicicanti per meritare una punizione ‘epica’. La φιλανθρωπία odissiaca è una realtà incontestabile, ma è anche irriducibilmente faziosa. 3 Ved. B. MARZULLO, op. cít, p. 151: «Odisseo dall'altra parte non è mai stato sotto Troia, poiché solo secondariamente introdotto nel ciclo troiano ». 31 Ved. G. PasquaLi, Pagine stravaganti, II, cit., p. 113; G. MURRAY, Le origini dell'epica greca (trad. it. di G. De Angelis), Bologna 1964, p. 270: «Il nome Tersite ha tutte le apparenze di essere inventato ». 3 Ved. in merito B. Marzutto (op. cit, pp. 164 sgg.) il quale peraltro ricostruisce la storia della religiosità omerica in modo alquanto macchinoso. La verità è che gli eroi dell'U/iade sono piá δῖοι del divino Odisseo e ancor piá di costui escludono la presenza attiva della divinità nella vita dell'uomo. Gli eroi iliadici sono troppo grandi per essere superstiziosi, e troppo primitivi per avere un minimo di religiosità evoluta. Più dell'Odissea l’Iliade è senza dèi. 3 I vv. 182 sgg. del libro 9° dell’Ifiade sono evidentemente un relitto arcaico mal suturato con elementi nuovi della narrazione: si pensi all’incongruo duale tw βάτην del primo verso, che esclude non sol. tanto Fenice — che in quanto maestro non può che essere odissiaco — ma ovviamente anche Odisseo, e pertanto allude ai due personaggi, degradati a funzione subalterna e forse indicati con nome diverso — Odio ed Euribate, per la precisione, v. 170 — i quali nell'Iade primitiva facevano visita ad Achille, e lo trovavano φρένα τερπόμενον φόρμιγγι λιγείῃ mentre cantava Κλέα ἀνδρῶν; e Patroclo sostituiva l’Eacide, ὁπότε λήξειεν ἀείδων. 34 Le pagine dedicate a Penelope da J.P. VERNANT in Le mariage en Grèce archaique (« Problemi della Grecia arcaica», in «La Parola del
Passato »,
(fasc.
CXLVIILCIL)
1973,
pp.
70-74)
prescindono
dalla
necessaria distinzione tra l’arcaicità dell’Elena weramente iliadica e la modernità della moglie di Odisseo. 35 V. Bérarp, Introduction à l'Odyssée, I, Paris 1933 (18 ed. 1924), pp. 75 sgg. (l'occasione per rimeditare il pensiero qui in esame di C. Pavese mi è stata offerta da un seminario estemporaneo cui hanno partecipato la primavera scorsa i miei alunni dell'ultima classe (sez. A) del Liceo di Ortona a Mare).
129
36 Cultura orale, cit., p. 269, n. 10. 37 Athenian Books in the Fifth and Fourth Centuries B. C., London 1952, ap. G. CAVALLO, Libri, editori e pubblico nel mondo antico, cit, p.
9.
38 Secondo Cornelio Nepote (Arist, 1), quel tale sapeva scrivere: Aristide lo notò scribentem, ut patria pelleretur. Il biografo latino non sapeva degli ostraka bell'e pronti, ma conosceva ovviamente molti altri aspetti
della
vita
ateniese
del
quinto
secolo,
che
noi
non
conosciamo.
In ogni caso è mia convinzione che solo un esame della struttura interna delle opere letterarie di quel secolo consenta di dirimere la que stione; e in tal direzione mi sembra decisiva l'analisi filologica dei Persiani di Eschilo (in merito mi sia consentito rinviare al mio studio 1] vero volo dei «Persiani» di Eschilo (Bibliotheca Athena, 13), Roma 1973).
3 Ved. L.H. JerrERv, Tbe local scripts of archaic Greece, Oxford 1961, pp. 345-55; E.A. HavELocEk, Cultura orale, cit., ibid. Ὁ Ibid. i 41 Ricorda anche «la scena di cui si avvalsero Euripide, Agatone e Teodette dove un campagnolo analfabeta descrive i segni che compongono il
nome
‘Teseo’
(Ateneo
454
b-e)»
(ibid.;
ved.
anche
E.G.
TURNER,
cit., ibid.). € E.G. TURNER, cit, ibid. 9 N.A, VII, 17. 4 Ep. 1,2-3. Anche per chi è scettico sull'autenticità di questa lettera, le considerazioni ivi esposte restano ugualmente istruttive. Rinvio comunque ad Ep. II, 25-26, dove è espresso un concetto analogo a quello della lettera A Dionisio. 4 E.A. HAVELOCK, op. cit, pp. 106-07. *6 Ved. C.H. WurrMAN, Homer and the beroic tradition, Cambridge (Massachussets)
1958,
cap.
V;
U.
WiLAMowiTz-MOELLENDORFE,
Die
grie-
chische Literatur des Altertums, 19123, p. 17. * M. BAcHTIN, Problemi di teoria del romanzo, cit, p. 211: ivi l'autore sviluppa un concetto già espresso da G. Lukács in Teoria del romanzo (introd. di A. Asor Rosa, trad. e note di A. Liberi), Roma 1975, pp.
98,
80,
67.
4. Op. cit., I, p. 91. 9 S.B. HaiNswogTH, Omero: problemi critici e interpretativi, nel 3* vol. della «Introduzione allo studio della cultura classica », Milano 1975, p. 635. 9 L’analogia tra i segni linguistici da un lato e «i segni aritmetici e algebrici, le classi e denominazioni geometriche o le formule chimiche» dall'altro, è posta in evidenza da T. DE Mauro in Fantasia delle grammatiche (Introduzione a La natura della comunicazione, a cura di R.A. Hinpe
Bari
(trad.
it.
di
R.
Simone),
ora
in
«Universale
Laterza»,
Roma
1977, p. XXXII). 5 M. McLuHan, Gli strumenti del comunicare (titolo originale: Understanding Media, New York 1964), Milano 1976, p. 118. 52 M. McLuHan, op. cit., p. 120.
130
533 Ap. M. McLuHan, op. cit., p. 119. % M. McLunaN, op. cit., ibid. 55 M. McLunaN, op. cit., p. 120. 356 M. McLuHAN, op. cit., p. 56. 5! Gli schemi modulari in cui è imbrigliato il poema, nella misura in cui sono documentabili per tutti i libri e complicano la modularità elementare della composizione orale (ved. C.F. Russo in « Belfagor », (XXVI) 1971, pp. 493-501, (XXVIII) 1973, pp. 635-640, (XXX) 1975, pp. 497-504), restano pur sempre 'orizzontali', e sono dovuti a interventi redazionali facilitati
dall’aggiunta
di
parti
nuove
(anche
minime),
calibrate
in
modo
tale da far quadrare i calcoli numerici nei limiti consentiti dalla versione orale tràdita; la prova di ciò è data dal fatto che, quando il rapsodo è a corto di fantasia ‘pitagorica’, ricorre al poco matematico deus ex machina del rapporto analogico. 58 Non è da escludere che anche l'antroponimo Φοῖνιξ, come Θερσίτης, sia un «nome parlante», e voglia indicare allusivamente l’assorbimento del mondo di Achille da parte della civiltà della scrittura, sorta in epoca odissiaca grazie al ‘discepolato’ degli Ioni presso i ‘maestri’ Φοίνικες. La secondarietà di detto antroponimo può essere confermata dall'assenza di Φοῖνιξ come nome proprio nelle iscrizioni micenee, che invece presentano sia la forma del nome comune (ponike-ge, poniki-pi) sia le forme derivate (ponikijo, ponikija, ponikeja, ponikea), sui cui rispettivi significati non mi soffermo. Chirone invece può anche essere personaggio iliadico, ma non certo con funzione di maestro (non è escluso, comunque, che anche Χείρων sia un «nome parlante »). 5 Per Θερσίτης «nome parlante» ved. sopra, n. 31. L'interpretazione di Νέστωρ come « Reduce » mi sembra più ovvia di quella proposta dal GaLLAvorTTI (Tradizione micenea, cit, p. 845). ὦ Ved. M. McLuHan, op. cit, p. 45: ivi l'autore non tiene conto della funzione di arma a doppio taglio che differenzia la scrittura dalla « iconica » oralità epica. 61 Tale polemica, condotta da Platone nel Fedro e nella Settima lettera, viene commentata giudiziosamente da G. Corti in La nascita della filosofia, Milano 1975, pp. 111 sgg. A p. 103 del medesimo saggio il Colli sostiene che «la scrittura nel suo uso letterario si diffonde dopo la metà del sesto secolo e rimane anzitutto legata alla vita collettiva della città». Questa affermazione va rettificata precisando che l’uso letterario della scrittura inizia con l’Odissea, anche se nei primi due secoli è meno diffuso che in séguito. L'ostilità di Platone nei confronti della scrittura è ricordata anche da T. De Mauro in Fantasia delle grammaticbe, cit., p. XVIII. Alla polemica di Platone aggiungerei anche la Κατηγορία mossa contro i γραπτοὶ λόγοι da Alcidamante (Contro i sofisti, 1-2 e in particolare 27-28). € L'ironia socratica è, per cosí dire, il sigillo di questa dissociazione letteraria che si riscatta da un’antinomia, che altrimenti sarebbe tragica. Socrate riesce a ridere degli squilibri che rendono contaddittoria la realtà, perché li neutralizza col supremo equilibrio di un λόγος che non può non essere letterario: solo in questa prospettiva si può dire
131
che egli è personaggio antitragico, condividendo la teoria di K. von Fritz sviluppata da V. Di BENEDETTO in Ewripide: teatro e società, Torino 1971, p. 13 sgg. $9 Problemi di teoria del romanzo, cit., p. 211. L'unità interna origi naria dell'Odissea è stata sottolineata da A. MADDALENA nella presenta. zione premessa agli Studi sull'Odissea (Torino 1966) di G. Bona. 64 L'assenza della classicistica unità nell’Iliade presuppone l’unità armonica
della
vita
nell’arte;
l’unità
dell'Odissea
(e
di
tutte
le
opere
classiche e classicistiche successive) è segno di una volontà di ricostituire quell'unità armonica ammantando la realtà disorganica della vita col velo «organico » dell'arte; l'anti-unità delle opere anticlassicistiche e «anti letterarie » è indice di una velleità di risuscitare l’unità primigenia di vita ed arte, senza che sussista il presupposto di un inserimento organico (cioè epico) dell’uomo nella vita associata. Questa velleità, che sembra presupporre istanze genuine di vita autentica, di fatto è squisitamente letteraria, perché letterario è lo squilibrio culturale su cui si fonda: l’individuo è sempre un letterato, e la poetica del ‘ ‘rammento’ è lo sbocco artificiale di quella falsa ricerca di autenticità. 6 Il vero motivo per cui Seneca e Luciano hanno preso sotto gamba la questione omerica, cioè il problema dell’unità dei poemi omerici, va ricercato nella loro animosa anti-letterarietà, che si risolve però, ine vitabilmente, in letterarietà estrema per le ragioni or ora esposte. $6 Una vera e propria amenità è quella ideata da F. Ferrucci (L'as sedio e il ritorno, Milano 1974, p. 27), secondo cui Achille sarebbe il « primo eroe problematico », un ‘antenato’ dell'Amleto shakespeariano. quindi. Tale intemperanza critica non è diversa da quella di S. Butler, difensore del sesso femminile di chi compose l’Odissea. 6 Com'è noto, tali qualifiche sono δῖος e ὄρχαμος ἀνδρῶν (cito, ad apertura di libro, t 461, o 234 e 240, o 351, v 185 e 254). Per quel che concerne il significato di ὄρχαμος ἀνδρῶν e la «pietosa» εὐγένεια di Eumeo ricordata dagli scoli antichi, ved. B. MARZULLO, op. cit. p. 37. $6 Sulla cecità di Omero ved. A. Hauser, Storia sociale dell'arte, I, cit., p. 81.
9 Rinvio alle osservazioni sui vv. 182 sgg. del libro nono, esposte nella nota 33. In merito all'attività aedica di Achile e Patroclo ved. H. FnAENKEL, Dichtung und Philosophie des frueben Griechentums, Muenchen 19622, p. 9. ? I] nome Ὅμηρος significherebbe « gareggiante» (M. DURANTE, Il nome di Omero, «Rendic. Acc. Linc.», 1957, pp. 24 sgg.) e questa interpretazione è adottata da A. PacLiaro in Origini liriche e formazione agonale dell’epica greca, « Atti del Convegno internazionale sul tema: La poesia epica e la sua formazione», Roma 1970, p. 52. Non va tre scurata comunque l’interpretazione di L. Derov (Le mom d’Homère, « Antiquité Classique », (XLI) 1972, pp. 427 sgg.), secondo cui “Ὅμηρος designerebbe qualunque membro di un gruppo solidale. 71 A quest'epoca di transizione risale la non più misteriosa figura di ‘cantore’ cui si riferisce D. PAcE (The mystery of tbe minstrel at tbe
132
Court
of Agamennon,
Catania
1972,
pp.
72 Ἰρἀοιδή magica,
« Studi
dovette
proprio
classici in onore
di Quintino
Cataudella »,
127-131). come
essere non /af.
solo canto
poetico,
ma
anche
formula
«carmen ».
73 Che la revisione sia stata effettuata da un singolo rapsodo o da un'équipe rapsodica, non fa differenza. La dipendenza del rapsodo dagli aristooratici
e dal
popolo
é registrata
anche
da
Z.
Rrroók
(Tbe
epitbets
for minstrels in tbe Odyssey, « Acta Archaeologica Academiae Scientiarum Hungaricae », (XVI) 1968, pp. 89 sgg.). Ricordo infine che solo all'epoca di transizione di cui alla n. 71 puó essere ascritta la situazione secondo cui (L. PARETI, arf. cit., p. 44) «gli aedi (sic) non ma fermi ognuno in una città ed in una corte ». 7^ M. McLuHan, op. cit., p. 16.
75 I documenti motto
fa
da
micenei
contrappunto
e la poesia l’altro,
con
omerica, cui
si
erano
cit.,
chiude
p.
dei
girovaghi,
83.
A
l’articolo
questo (p.
89):
«In
principio c'era il poeta ». 76 Chiudo l'espressione tra virgolette, perché la consuetudine in questione dovette necessariamente essere un’eredità del passato, acquisita e perpetuata — nel breve arco della stagion epica vera e propria — come νόμος privo di ogni finalità pedagogica che presupponesse la volontà di salvaguardare la compagine tribale da possibili rischi di erosione o di sfaldamento. Come la fonicità « permette nei piccoli il gioco della ripe tizione », così l’oralità epica permette in Omero (fanciullo normale, per dirla « vichianamente » con Marx) il «gioco» della ripetizione formulare. E in questa prospettiva si comprende anche che la fonicità serve non tanto ad «attutire le differenze sociali» Mauro, Fantasia, cit., p. XIX), che nel chiuso
senti, quale
ma
amalgamare
ancor
più
un
tessuto
sociale
già
è appunto quello rispecchiato dall’Iliade. ΤΙ Per convincersi di ciò si pensi alla cosiddetta
diectasi) bito
ad
(cito ancora da T. DE mondo iliadico sono as-
della
omerica, cultura
inconcepibile alfabetica,
—
come
fatto
e spiegabile
di
soltanto
distrazione
pronuncia come
omogeneo, —
(0
nell’am-
fenomeno
tipico
della lingua parlata, stula che la formula
comune anche all'esecuzione aedica. Solo se si poiliadica appartiene anche alla normale comunicazione
di
può
tutti
i giorni,
si
spiegare
in
quel
modulo
ritmico
la
riduzione
metrica provocata dalla contrazione. 78 Ciò concorda con quanto è stato puntualizzato da C. GALLAVOTTI (I documenti micenei e la poesia omerica, cit., p. 84): «Il suo (scil. della tecnica espressiva) significato è di volta in volta differente»; inoltre. «Non si può affermare che la formula è sempre espressione di poesia orale ». Ad integrazione di questi enunciati e di altri espressi dal Gallavotti, preciserei che la formula è espressione di oralità solo quando è autenticamente epica, appartiene cioè all'Ilade preodissiaca (ricostruibile soltanto nelle linee essenziali, non nella sua perfetta veste formulare: in altre parole non sarà mai possibile un'edizione critica di quell’Iliade; per di pit, gli stessi ascoltatori del revisore alfabeta di quel poema non potevano distinguere tutte le formule genuine da quelle ‘alfabetiche ’). Inoltre la lingua omerica è una ‘lingua d'arte" (Gar-
133
LAVOTTI, Cit, p. 87) e ciò non si può disconoscere; si può solo preci sare che la lingua d'arte dell’Iliade alfabetica riproduce e destina ad un pubblico odissiaco molti moduli espressivi che in origine non erano artificiali. In tal senso il carattere composito di quella lingua non fa difficoltà: la compagine sociale che si sviluppò fino al nono secolo pro ducendo
l'epos
iliadico
poté
benissimo
conflare
elementi
linguistici
di
origine diversa, già per il semplice fatto che la migrazione ionica fu pangreca (quella compagine si formò in regime di parità sociale delle sue componenti, cioè di parità appunto epica — si pensi alla ‘demò crazia guerriera’ di Marx —, e fu quindi una sorta di ‘asilo di Ro molo’
non
classista;
fu
infatti
il classismo
identità linguistica della Roma originaria, composita, perché condizionata dall'etrusco p.
7? Cultura orale, cit., p. 113 188, di ALAN MOooREHEAD).
(ivi
a salvaguardare
la sostanziale
identità comunque e dall'osco-umbro).
è trascritto
un
brano
anch'essa
di
Gallipoli
9 Si pensi a clausole come χειρὶ παχείῃ e ἀμύμονος Αἰγίσϑοιο, di cui tratterò nel seguito del presente lavoro. 98! Mi riferisco a S.B. HamswortH, The flexibility of tbe Homeric formula, Oxford 1968. 82 L’improvvisazione, intesa nel senso qui precisato, ma anche nel senso corrente, è un mito che può essere tollerato solo dagli ingenui. Sembra che il bardo improvvisi, solo perché non ha preparato il suo canto
il giorno
pima.
La
verità
è che
egli
«respira»
i suoi
canti,
che
sono impressi nella sua mente in ‘forma definitiva già molto prima dell’esecuzione; e se egli non si ripete sempre in modo identico, questo è un limite dovuto o a scarse capacità mnemoniche o a velleità di esibizionismo, o a premeditazione di rifinitura formale (mi riferisco ovviamente
alle
culture
orali
moderne,
che
non
sono
veramente
epiche
e a
mio avviso vengono usate spesso a sproposito come modelli comparativi). 8 La libertà dell’uomo omerico (quindi anche odissiaco) è un argo mento su cui la critica si è cimentata in vari modi e con interpretazioni spesso molto divergenti. Per ragioni di spazio non mi soffermo sulla questione,
e mi limito
a precisare
che solo l'Odissea
e le parti odissiache
dell'Iliade autorizzano una discussione sulla natura e i limiti di detta libertà. 8 L’epos autentico presuppone una condizione di estrema tensione ed esaltazione in seno al gruppo tribale che lo esprime, e pertanto non può protrarsi a lungo: anche per questo motivo è consigliabile circo scrivere i suoi limiti cronologici nel giro di una generazione, nonostante la già ricordata lentezza dei mutamenti nelle compagini sociali del me dicevo ellenico. 85 Il presente epico, o presente assoluto, come ognuno può notare, è sinonimo del passato assoluto e non coincide col presente reale, in quanto è lo specchio di esso passato, nel quale — si noti bene — è il baricentro della stessa vita sociale in seno a cui l’epos fiorisce. E una volta stabilito che nel mondo epico genuino non può esservi tradizione, l’equivalenza di ‘formulare’ e ‘tradizionale’ non ha senso
134
(in merito ved. C. GaArLavoTTI, Tradizione e I documenti micenei e la poesia omerica, 86 C.
GALLAVOTTI,
8? Ved. cit.,
pp.
C.
Tradizione
GatLtavoTTI,
micenea,
I documenti
micenea, cit, p. 840 cit., p. 83. cit.,
micenei
p.
e n. 1
839.
e la
poesia
omerica,
83-84.
88 Per una chiara trattazione dell’argomento, con bibliografia essenziale, ved. P. Maas, Metrica greca (trad. e aggiornamenti di A. Ghiselli), Firenze 1976, pp. 79 sgg.. In linea di massima si può ritenere che le eccezioni riguardanti le misure metriche delle formule depongano a favore della secondarietà di queste ultime. 89 Il cosiddetto verso ;ormulare non può che essere l'insieme di due formule distinte, e pertanto non merita particolare considerazione. 9 Ad esempio le cosiddette espressioni formulari Τροίης ἱερὸν πτολίεδρον ἐπερσε e Κικόνων ἱερὸν πτολίεϑρον ἑλόντες, registrate da C. Ono Pavese in Studi sulla tradizione rapsodica, Roma 1974, p. 27, o sono artificiali o non sono formule (a meno che non siano private parola iniziale). 91 Ved. B. Marzutto, I| problema omerico, cit., p. 57 (in
della nota
sono esaminati f) 720 e Σ 604). 92 C. Opo PAVESE, op. cit., pp. 20-21, sostiene che « non νὰ dubbio che rhapsoidos sia un composto di rhaptó e di ἀοιδός. L'etimologia da rhabdos (rappresentata da Pind. 1,4,38, Call. fr. 26,5, Scbol. Pind. N. 2, ld, etc.) è una etimologia popolare, suggerita dall'immagine popolare del rapsodo che recitava impugnando il bastone della sua arte». Il PagLiaro invece difende proprio la cosiddetta etimologia popolare (Ori gini
liriche,
cit., p.
53)
che
non
va
affatto
trascurata.
93 Essa non è attestata in miceneo (C. GALLAVOTTI, Tradizione micenea, cit., p. 831 e n. 1), e tale assenza ha un suo valore, sia pure relativo. % Mi limito a ricordare che Solone chiama personalmente ὠιδὴν la propria elegia Salamina (2, Diehl): Κόσμον ἐπέων ὠιδὴν ἀντ᾿ ἀγορῆς δέμενος. 95 Naturalmente quel bastone, che l’aedo cieco deponeva quando imbracciava lo strumento musicale, non era un normale σκῆπτρον per invalidi: era appunto una rbabdos, cioè una verga maneggevole ed alta pressappoco quanto la persona che l'impugnava. 96 Va postulata, a mio avviso, una parentela originaria di questo enoplio col paremiaco, dato che la misura di quest’ultimo verso è sempre rigorosamente rispettata nella seconda parte dell’esametro, quando 1] primo colon è un hemiepes maschile. E’ lecito ritenere, pertanto, che quando è nato l’esametro dalla giustapposizione di due versetti lirici, la loro fusione sia stata sottolineata da un legamento musicale costituito dall’aggiunta di una sillaba breve all’hemiepes maschile; il quale, diventato femminile, si è, per cosf dire, inserito nello spazio riservato alla prima misura breve del paremiaco, provocando la «trasformazione » di questo in enoplio (che in caso di cesura femminile manca infatti di una sillaba breve iniziale). L’elegia, invece, che certamente in ori-
gine era solo in hemiepe maschili, li ha conservati come residui arcaici
135
nel secondo verso del distico, esemplato, come si vedrà fra poco, sul l’esametro epico secondo un elementare criterio di giustapposizione (ved. anche infra, n. 101). . 9] Rinvio al verso di Solone qui trascritto nella nota 94. Ricordo inoltre che un procedimento analogo a quello qui segufto è stato adottato, com'é noto, dal Pasquali nella ricostruzione delle origini del saturnio.
9$ Femio e Patroclo
e
del
Demodoco nono
libro
sono
professionisti,
dell’Ilizde
(vv.
182
mentre sgg.,
cit.)
gli
aedi sono
Achille dilettanti
nel
significato più puro e piá nobile di questa parola. 99 L'origine popolaresca del paremiaco si deduce facilmente dal significato stesso del nome, derivante, com'è noto, da παροιμία, «pro verbio ». 100 La presente ‘archeologia’ metrica presuppone e sviluppa, con sostanziali rettifiche e integrazioni, le teorie del Bergk e dell'Usener, giudicate meritevoli di considerazione da B. ManzurL.o (Il! problema omerico, cit., pp. 39-40); e non contrasta. con la complessa ipotesi del GALLAVOTTI (Tradizione micenea, cit., p. 839), il quale guarda a forme di versificazione molto anteriori alla prima epica omerica. La divisione
dell'esametro in due cola è stata giustamente riaffermata da A.M.
DALE
(« Lustrum », (II) 1957, pp. 29 sgg.) contro la teoria dei quattro cola, risalente ad H. FRAENkEL (« Gótt. Nachr.», 1926, pp. 197-229; Wege und Formen des friibgriech. Denkens, München 19602, pp. 100-156; Dicbtung und Philosophie des friiben Griechentums, München 19622, pp. 32 sgg), e sviluppata in vari modi da E.G. O’NerLL Jr (1942), HN. ῬΟΚΤΕΚ (1951) e dallo stesso G.S. Κικκ (1966), che pur l’ha contestata. 101 Mi riferisco alle forme liriche originarie dell’elegia, su cui mi soffermerò nel seguito della presente trattazione. Che esse fossero in hemiepe ‘esclusivamente maschili (e questo rilievo convalida ancor più la presente ricostruzione delle origini dell’esametro omerico) è dimostrato in modo inequivocabile da un frammento di Crizia (2,3 Diehl),
in cui la parola ἐλεγεῖον indica non il distico elegiaco, ma il solo pentametro, che com'è noto è composto di due hemiepe maschili. 102 Qualunque sia stata la struttura originaria del paremiaco, quenza
lirica
da
identificare
col
dimetro
anapestico
catalettico
(che
se poté
essere composto di sette sillabe lunghe: ved. P. Maas, op. cit., p. 58), ciò che conta è che la sua «originaria parentela» con l’enoplio è il risultato diretto della ‘gestazione’ dell'esametro: dire con Efestione che «il paremiaco può assumere la forma U—-UUtULUT-U (lar chilocheo ’EpacpoviBn Xapi)ae), che è un perfetto enoplio » (B. Gen TILI, La metrica dei Greci, Messina-Firenze 1952, pp. 193-94), signilia presupporre l’incastro del versicolo con l’hemiepes femminile dell’esametro; la genesi del quale è dunque responsabile dell’episodica identi ficazione del paremiaco con l’enoplio anche in età post-omerica. In origine il paremiaco era distinto dall’enoplio, non era una semplice varietà di esso, come invece ritiene lo ScHROEDER, Vorarbeiten zur griechischen Versgeschichte, Lipsia 1908, p. 160; parimenti era distinto dall'enoplio
136
l'hemiepes (l’errata interpretazione di v. 651 delle Nuvole di Aristofane già da parte degli antichi ha prodotto finora troppa confusione). 338 11 canto funebre degli ἀουδοί nell'ultimo libro dell'Iliade (vv. 720-21), i quali uniscono la loro voce a quella delle donne piangenti, va forse considerato estraneo all’Iliade primitiva (ved. B. Marzotto, op. cit., p. 57 e nota, cit), e in ogni caso rispeochia una consuetudine estranea al mondo epico autentico: quegli ἀοιδοί erano probabilmente cantori di elegie funebri in hemiepe (ecco perché nell’epos iliadico è assente la qualifica ἀοιδός indicante il cantore epico). 10 Questo poema «si trova nella stessa linea di tradizione di Omero: de scene comuni ai due poemi (scil. Etiopide e Iliade) sono nella stessa maniera prove del comune bagaglio tematico di quella tradizione che di dipendenza letteraria » (S.B. HaiNswoRTH, Omero: problemi critici e interpretativi, cit., pp. 626-27 dove si ripropone un'idea del Fenik). Ved. anche H. PestALOZZI, Die Achilleis als Quelle der Ilias, Zurigo 1945: in merito si osservi, però, che chiamare Achilleide l'Etiopide è già renderla odissiaca, cioè posteriore all’Ilizde veramente epica. 105 La varietà tematica dell’elegia, com'è noto, aumenta nel sesto secolo, per poi ridursi in modo vistoso in età ellenistica, quando l’elegia — dopo il preludio antimacheo di un secolo prima — diventa narrazione di dolorose vicende d'amore di personaggi mitici. 106 Un residuo arcaico, come si vedrà fra breve, della elegia lunebre primitiva,
è
l’Elegia
a
Pericle
di
Archiloco,
che
naturalmente
metro elegiaco, ben diverso da quello lirico originario. 107 [a documentazione più antica è quella di ἐλεγεῖον, nel
fammento
di
Crizia
(2,3
Diehl)
qui
già
che
è
in
figura
citato.
108 1] δρῆνος della melica corale va ovviamente considerato una forma molto evoluta rispetto agli elegi originari e non influenzata dal metro dell'epos. 19 ἐν δὲ rider δύο Κῆρε τανηλεγέος ϑανάτοιο (0 70, X 210); μοῖρ’ ὀλοὴ Καϑέλῃσι τανηλεγέος ϑανάτοιο (β 100, y 238, τ 145, w 135); τίς νύ σε Κὴρ ἐδάμασσε τανηλεγέος ϑανάτοιο; (X 171, 398). La formula è attestata anche in Tirteo (ap. Stob., Flor., 51, 5, 48). 110 Per l’etimologia del secondo termine di τανηλεγής da λέχομαι (col
significato
di
gr.
Κοιμῶμαι),
ved.
il
Thesaurus,
s.v.
(«longum
somnum afferens »). L'etimologia da λέγω (con lo stesso significato di λέχομαι), sostenuta nell'Etym. Magn., è conîutata nel Lexicon Homericum (Lipsia 1876), dove si precisa che bom. λέξαι, ἐλέγμην, λέχος sono forme corradicali di λέχειν non di λέγειν. L'interpretazione di Esichio (τανηλεγέος ᾿ παρατεταμένην ἔχοντος τὴν ἀλγηδόνα), è stata sostanzialmente ripresa dal BEZZENBERGER (τανηλεγὴς da τείνω ed ἄλγος, in Beitrige zur Kunde der indogermanischen Sprachen, 4, pp. 358-59). 1l Per τανηλυγῆς il RoEpIGER, De prior. membr. in nomin. Graec. comp. conformatione finali, Lipsia 1866, pp. 28 e 32, utilizzò (forse
preceduto dal Porson:
cfr. il Thesaurus, s.v. cit.) uno scolio dell’Odissea
(X 398, ed. Dindorf) che rinvia ad una glossa esichiana (ἠλύγην ᾿ τὴν νύκτα). Tale tentativo di correzione, giustamente ignorato dalla critica,
137
non merita nemmeno di essere discusso. Per quel che concerne poi la tentata correzione ἀνηλεγὴς risalente al BEcHTEL (Be. Lex., 307, « Hermes », 1904, pp. 155-56) — il quale, dietro comunicazione orale di F. Blass, si basava sulla preferenza che la lezione ἀνηλεγέος secondo Erodiano (Schol. Apoll. Rod., I, 785, II, 17), meritava rispetto ad ἀπηλεγέος — rinvio a M. LeuMAnn, il quale (Homerische Worter, «Schweiz. Beitráge zur Altertumwissenschaft », Heft 3, p. 45), con rigore critico stranamente non condiviso dal Frisk (Gr. Et. Wort, s.v. ἀλέγω), pre cisa che «Keine Homerstelle erlaubt, die Umgestaltung von ἀνηλεγής zu τανηλεγής durch Umgliederung eines elidierten te zu erkliren ». 12 Da ἀπηλεγέως (a 373, 1309). La forma ἀπηλεγής è attestata solo in Gregorio Nazianzeno (Vol. 2, p. 93 B). 113 L'aggettivo ricorre in Quinto Smirneo (II, 75; XIV, 398), che usa l’avverbio ἀνηλεγέως (II, 413; V, 168; XI, 252). Che questo poeta abbia conosciuto ἀνηλεγής dalla tradizione epica (F. BECHTEL, « Hermes », 1904, loc. cit.) può anche essere vero, purché da tale tradizione si escluda Omero. E’ stata l'oscurità di hom. τανηλεγής a provocare la creazione di ἀνηλεγής come modello di δυσηλεγής e ἀπηλεγής. 14 Diverso é invece, ovviamente, il caso di Tirteo (ved. n. 109). 155 Ved. sopra, n. 113. 6 Si noti invece δυσηλεγέα ϑάνατον in X325 e δυσηλεγέος πολέμοιο
(con
sostituzione)
in
Y 154.
H7 Per l'allungamento della vocale iniziale del secondo termine nei composti, ved. M. LEJEUNE, Traité de pbonétique grecque, 1955, pp. 190, 293 e n. 1, 317. Per quanto concerne il suffisso -Ὡς proprio dei nomi con tema in σ-, ved. E. ScHwyzer, Griecb. Gramm., I, p. 513, P. CHANTRAINE, La formation des noms en grec ancien, pp. 426 sgg. M. Leumann, Kleine Schriften, 1959, p. 208. 118 [/aggettivo significherebbe, comunque, «accompagnata (scil. la morte)
da compianti
funebri ».
11? Non sull’aulo, quindi; e ciò concorda perfettamente con la na tura melica dell'elegia originaria, intonata come il canto epico sulla qóppvyE o sulla cetra. 120 In tal caso la parola ἔλεγος è un probabile eolismo da *#AeFoc: cfr. γάλλοι per Ἑάλλοι (att. fior), da *FpoXo). 121 Si pensi, per esempio, ad att. ολιος per ὀλίγος (M. LEJEUNE, Traité, cit., p. 47). 12 Ved. P. Maas, Metrica greca, cit., p. 11. 123 Essa si è insinuata nel punto della narrazione epica che presen tava minore resistenza alla pressione di elementi estranei all'epos autentico: mi riferisco al libro ventiduesimo, dove il destino τανηλεγέος ϑανάτοιο è ormai segnato per Ettore, la cui morte, per quanto eroica è pur sempre la morte di un nemico che appartiene ad una civiltà diversa. Invece la presenza della medesima formula nel libro ottavo puó essere dovuta all’intervento del redattore odissiaco, poiché lo stesso Grote avanzò dubbi sull’appartenenza di detto libro al nucleo originario dell’Iliade (Ved. F. Conino, Introduzione a Omero, Torino 1965, p. 40). 124 Solo apparentemente contrasta col presente discorso la tesi di
138
MG.
Ciani
classica
(Destini di morte.
e medievale », (XVI)
Gli
eroi dell'Iliade,
1974, pp.
115
« Rivista
di Cultura
sgg.).
' 125 Ved. le già citate pp. 164 sgg. del Problema omerico, di B. MARZULLO. 126 Il coraggio di Odisseo non è epico: è quello dell’astuzia e, in subordine, dell’abilità e della forza. Quando in occasione della tempesta marina del quinto libro dell'Odissez nessuna di queste tre doti può aiutarlo, egli dice πρὸς ὃν μεγαλήτορα (!) ϑυμόν" : "Ὦ μοι ἐγὼ δειλός" (vv.
298-99);
e
se chiama
«tre
e quattro
volte
felici»
i Danai
morti
sotto Troia (vv. 306-07), non è chi non veda come il Κλέος di quegli eroi sia un motivo letterario che sottolinea la distanza incolmabile da un mondo nel quale la gloria non è un palliativo per chi muore, ma è la sola ragione per cui valga la pena vivere. 127 Naturalmente intendo la parola ‘mercante’ in senso lato. Per analogia col meccanismo del processo di trasformazione avvenuto nella società omerica, mi sembra utile rinviare a S. DonaponI (Χρήματα ἀνὴρ. Ricchezza e stato sociale mell'Egitto più antico, «La Parola del Passato » (fasc. CLXIX), 1976, pp. 273-85), il quale osserva giustamente che «esser possidenti in Egitto non è l’esser possidenti nella Grecia arcaica, non è l’esser possidenti nel secolo dei lumi» (p. 273); ma oltre che le differenze contano le analogie: la civiltà egizia è diversa dalla cultura iliadica, soprattutto perché questa non è letterata; ma questa è più vicina alla civiltà menfita e alla civiltà delle dinastie XI e XII, perché è rigorosamente aristocratica; la civiltà odissiaca è invece simile a quella egizia del primo evo intenmedio, e per entrambe queste civiltà
si può dire che «la gente... ha trovato... la vivacità della esperienza del concreto, il gusto dell'abilità personale, la formulazione dell'individuale come realtà autonoma» (p. 283). E se l’autobiografismo delle iscrizioni tombali menfite dovesse lasciar perplessi, si tenga conto del fatto che
anche
quella civiltà aristocratica
è «romanzesca », perché
è letterata
e
quindi non può non specchiarsi nel presente, sia pure in misura molto limitata (il limite è dato dall’arcaicità del sistema grafico non alfabetico e dalla parallela repressione quasi totale da parte del potere monarchico, che permette all'individualismo di affiorare soltanto in questi termini: «Io sono perché il re è ». Per quel che concerne il rapporto denaro:so‘cietà ved. i rinvii di M. McLuHAn a K. Rodbertus e H. Pearson in La Galassia Gutenberg. Nascita dell'uomo tipografico (trad. it. di S. Rizzo), Roma 1976, pp. 22-23. 128 Rinuncio alla esemplificazione di questi aspetti, del resto noti a tutti, e mi limito a ricordare che la loto radice ultima sta nel fatto che Ermes «crea da sé la contraddizione (diverso da Dioniso che porta in sé e da sé rivela i dissidi della realtà) » (M. UNTERSTEINER, Le origini della tragedia e del tragico, Torino 1955, p. 494; ved. anche p. 94, n. 1). Se può essere utile ricordo che secondo lo June Ermes-Mercurio ‘“ rappre senta da un lato il «Selbst», dall’altro il processo di individuazione, e ‘anche l'inconscio collettivo grazie alle sue illimitate qualificazioni ” (La simbolica dello spirito, trad. it. di O. Bovero Caporali, Torino 1975, 12 ed. « Reprints », p. 92).
139
129 i 341-42: «Ogni morte è terribile per i miseri mortali, ma la cosa più spaventosa è morire di fame ». Colgo l’occasione per far notare
che il letterarissimo catechismo politico dei Persiani di Eschilo trova uno dei suoi punti di forza nel presupporre queste parole di Euriloco (circa lo sviluppo drammatico del tema della morte per fame in quella tragedia (del 472) e l’occupazione ateniese di Bisanzio (con i suoi granai) nel 471, ved. il mio studio I/ vero volto dei «Persiani » di Eschilo, cit., p. 63 e n. 83). Ricordo inoltre che la cronologia relativa della Nékua rispetto al libro successivo, qui chiamato in causa, non ha nessuna importanza ai fini dell’assunto che sto sviluppando: l'Odissez non ha una storia metamorfica, perché pet noi il primo Odisseo è morto per sempre; Achille invece passa per rispetto
attraverso verso un
l'Odissea che non ne deforma i connotati epici, epos prestigioso che cantava una conquista non
velleitaria, ma concreta ed ancora gratificante. 130 Poco importa che alcuni esponenti di questa
stessa cultura
mizzino
piangono
contro
la
ricchezza:
Alceo
e
Pindaro,
che
pole-
χρήματα
ἀνὴρ (ved. S. DONADONI, art. cit., p. 273 e n. 1), e tutti gli altri aristocratici, a partire da Aristodemo Spartiate (cui risale quello slogan) sono χρήματα anche loro, perché dalle vere rivoluzioni culturali nes suno
resta
immune:
essi,
di
fatto,
possono
solo
dissociarsi
letteraria
mente dalla nuova condizione che coinvolge in modo diretto anche loro. Una analoga contraddizione «ermetica », cioè letteraria, è ravvisata, se non erro, dallo stesso Donadoni (art. cit, p. 283) nella cultura egizia post-menfita, il cui dinamismo economico contrasta con la deplorazione letteraria dello stesso da parte dei passatisti aristocratici. In questa prospettiva Teognide è figlio spirituale anche di Archiloco, cioè di un uomo di punta della rivoluzione operata dalla tecnologia alfabetica: « nessun conservatorismo resiste a una nuova tecnologia » (G. CAVALLO, Imtroduzione a Libri, editori e pubblico, cit. p. XXI). 131 La differenza tra l'epica e la lirica viene definita dallo SNELL in modo estrinseco (La cultura greca e le origini del pensiero europeo (trad. it. V. Degli Alberti e A. Solmi Marietti), Torino 1963, p. 89). 12 La melica di Anacreonte (cui accennerò di nuovo in séguito) è un ibrido, che si spiega tenendo conto dei rapporti storici fra Eolide e Ionia. La poesia eolica affonda le radici nello stesso background eolico dell'epos iliadico, ma assume toni e forme alquanto diverse: nonostante la sostanziale purezza nativa del suo linguaggio, Alceo intona canti monodici che sono squisitamente letterari (anche se meno di quelli saffici), perché esprimono un ideale epico mutilo. La melica dorica d'altronde, cerca di recuperare la sfericità dell'epos dilatando la ‘monodia’ dell'aedo iliadico nel canto corale e ottenendo risultati ‘epici’ più vistosi di quelli alcaicij ma pur sempre artificiali: l'aedo iliadico poteva cantare da solo, perché non c'era necessità di unire (per mezzo del canto corale) ció che non era diviso. 133 Ved.
14 Com'è di parabasi.
n.
129.
noto,
il Pluto
e le Ecclesiazuse
135 E' interessante notare come
140
anche
di Aristofane
sono
privi
a Sparta, che cerca di rinno
vare il miracolo della di Isocrate, Agesilao, di storpio, che invece gato nella schiera dei 136 Quell’oratoria
società epica iliadica, un guerriero contemporaneo non sia affatto handicappato dalla sua condizione nella società epica vera e propria lo avrebbe rele demiurghi armaioli, con protettore Vulcano. è letteratura già per l’accuratissima μελέτη (equi
valente
di Cicerone)
alla
meditatio
su
cui
si basa.
137 L'osservazione di E.G. TurnER su Rz. 1028 (Libri, editori e pubblico, cit., p. 23) è alquanto ingenua e incongrua. 138 E' noto, comunque, che Erodoto si esibí ad Olimpia nella lettura di λόγοι delle sue Storie (ved. sopra, p. 21). 19 C, Opo Pavese, Studi sulla tradizione epica rapsodica, cit., p. 51, parla di transizione pensando a poeti che già sono letterati puri, come Cherilo di Samo e Antimaco di Colofone. Come si può notare, per lette ratura «transizionale » io intendo ciò che altrove ho chiamato letteratura orale, con un’accezione diversa da quella voluta da H. Levin (ap. M. McLuHan, La galassia Gutenberg, cit., p. 22). 140 Per l'uso della parola σφρηγίς ved. Teognide, I, 19. Si ricordi, anche, che lo stesso Esiodo sembra voler salvaguardare la sua proprietà letteraria adottando come « sigillo » l’apostrofe a Perse; ugualmente istruttivo, anche se non... esiodeo, è il nome di Esiodo nel v. 22 della Teogonia. 141 Ho già accennato in precedenza alla proposta ermeneutica di M. Durante, accettata dal Pagliaro. Ved. anche B. MARZULLO, op. cit., p. 415, n. 2. 12 Penso agli esametri degli epitalami di Saffo. Quei versi erano destinati al canto corale, mentre gli esametri lirici dell’epos primitivo erano cantati solo dall’aedo. 143 Anth. Pal, 9, 50 (fr. 7 Diehl, cit. da G. PASQUALI, Pagine stravaganti, cit., 1, p. 320). Atteggiamenti analoghi a questo di Mimnermo è dato ravvisare anche in frammenti di altri elegiaci. 14 Per l’epigramma in Omero, ved. O. Vox, in «Belfagor», (ns. XXX) 1975, pp. 67-70. M5 Ved. G. GLorz, La città greca (trad. it. di P. Serini), Torino
19564, p. 146. 14 In
merito
dotto amico confronto rino
1949,
|
alla
questione
Salvatore Impellizzeri,
con pp.
147 Mutuo di L. Emery),
G. 388
THoMsoN
mi
sono
stati
forniti
suggerimenti
il quale mi ha rinviato ad un
(Eschilo e Atene
(trad.
dal
utile
it. di L. Fuà),
To
sgg).
la suggestiva Bologna
1967
immagine
da
W.
JAcER,
Paideia,
I (trad.
it.
(38 rist.), p. 643.
M8 Quasi tutti quelli fra i paralî che praticavano il mare erano umili pescatori. 19 Un attacco frontale alla teoria del Nietzsche è stato mosso da G. Corti (La nascita della filosofia, cit., pp. 14 sgg.), ma con argomentazioni troppo generiche, intese a sostenere che «Apollo e Dioniso hanno un'affinità fondamentale, proprio sul terreno della mania» (p. 21). 19 Ciò risulta con assoluta evidenza dall'analisi dei Persiani di Eschilo — forse la piá antica tragedia greca « noi pervenuta (per cui
rinvio
al mio
saggio sopra
citato)
—
e dell'Edipo
re di Sofocle
(ved.
141
il mio art. La sintassi tragica del primo «Edipo» di Sofocle, « Dioniso » (n.s. XLIV), 1970, p. 36). Mutuo la metafora della ‘cassa di risonanza’ da, I. ERRANDONEA, il quale, dopo aver seguito Aristotele in Εἰ coro como elemento integrante en la tragedia de Sòfocles, « Emerita », (n.s. X) 1942, pp. 28-65, ha rettificato parzialmente la propria opinione in Filoctetes, « Emerita», 1956, pp. 72-107.
(ns.
XXIII)
1955,
pp.
12264
e
(ns.
XXIV)
131 Si sa, comunque, che anche Archiloco compose ditirambi, sui quali forse Arione modelló i propri. 12 La ragione di questo atteggiamento mimetico sta nel fatto che l’Atride Menelao aveva regnato proprio su Sparta. 13 In Eschilo e in Sofocle questo punto si configura come τύχῃ (ved. M.
ad
UNTERSTEINER,
op.
cit., p. 515, e il mio art. cit., p. 33, n. 56).
15 Ved. C. Garravorrr, I| piacere della mimesi catartica (Appendice Aristotele. Dell'arte poetica, Milano 1974), pp. 227-40. 55 Ciò è dimostrato dal mito dell'auriga applicato allo stato. 156 Ved. sopra, n. 132. 157 M. McLuHan, Gli strumenti del comunicare, cit., p. 57 (ved.
anche
l’intera
umanità »).
158 L’agonia di cui parlo riguarda ovviamente l'oralità sua dimensione epica, non certo la semplice lingua parlata, nelle comunità altamente letterate »... «serve in una gamma comunicative più vasta di quelle della lingua scritta» (J. linguaggio umano, in La natura della comunicazione, a
p.
intesa nella che « anche di funzioni Lyons, Il c. di RA.
Hinpe,
53:
« Nell'era
cit., p.
19 Ved, n. 2. Cfr. G.
elettrica
abbiamo
come
pelle
89).
B.
ManzuLLOo,
PasquaLi,
19 Il verbo
ἄειδε
Il
Pagine
problema stravaganti,
omerico,
18
II, cit., p.
ed.,
cit,
p.
482,
294.
che indica il canto dell’aedo iliadico, è ben
di-
verso da ἔννεπε che indica il recitativo del rapsodo (questa distinzione fra aedo e rapsodo mi sembra la più convincente, ed anche la più utile ai fini della chiarezza espositiva). 161 «La divisione dell’umanità in classi sociali ne spiega la storia infinitamente meglio della divisione in razze o in popoli » (S. TrMPANARO, Sul materialismo, Pisa 1970 — ora anche in traduzione inglese —, p. 19).
12 Ved.
S.B.
HarnswortH,
Omero:
problemi
critici
e
interpre
tativi, cit, p. 636. 18 Ved. comunque la notizia della Suda (registrata da E.G. TURNER, op. cit., p. 19), secondo cui «Pericle fu il primo a pronunciare in tribunale un discorso scritto, avendo i suoi predecessori improvvisato i loro discorsi ». 164 L'argomento è trattato da E. De Carti in Aristofane -e la sofistica, Firenze 1971, pp. 11 sgg. 16 Nell’Encomio di Elena, 8, Gorgia scrive che il λόγος «è un signore possente, che in un corpo piccino e quasi impalpabile riesce a compiere le cose più straordinarie » (brano riportato dal GALLAVOTTI in Aristotele. Dell'arte poetica, Introd., cit., p. XX. 16 Il tema dell’esposizione ritorna, com'é noto, nell’Edipo re di Sofocle, ed appattiene comunque alla tradizione popolaresca, non sol
142
tanto greca e persiana. Sofocle innalza quel tema ad un livello di squisita letterarietà: l'Edipo re è un dramma alla rovescia, un grande γποποίοφο dell’uomo sul proprio destino di «esule». L'esposizione e l’esillo sono due aspetti di una medesima realtà (ved. il mio art. cit, p. 44), la cui dissociazione è rispecchiata in modo esemplare dalla frequente formula ironica « quest'uomo », per dire, inconsapevolmente, «io», mentre Erodoto utilizza l’espressione ἀνδρὶ τῷδε per dire «a me» (I, 108), a livello di linguaggio primitivo (forse per influsso di un identico modulo della lingua persiana). Nello Ione di Euripide, invece, quel tema perde il suo profondo significato sofocleo. 167 Bisogna tuttavia tener conto di una eventuale dipendenza della forma narrativa da quella di un racconto popolare persiano, forse conosciuto da Erodoto bambino nella sua Alicarnasso. Questa particolare tecnica della narrazione erodotea non appare, infatti, negli altri libri delle Storie. Ricordo inoltre che la distinzione fra « narrare» e « descrivere » fatta dal LukÁcs in ll marxismo e la critica letteraria (trad. it di C. Cases), Torino 1964, pp. 269 sgg., -u già messa a frutto dal LEoPARDI
in
un
suo
giudizio
negativo
sul
descrittivismo
della
tecnica
narrativa di Ovidio (Zibaldone, ed. Flora, pp. 1544-45, cart. nn. 25992600); ved. anche Hecet, Estetica (ed. N. Merker, trad. it. N. Merker e N.
Vaccaro),
Torino
1967,
p. 478).
18 M, BACcHTIN, Problemi di teoria del romanzo, cit., p. 209. 16 Il LAVAGNINI, Studi sul romanzo greco, Messina-Firenze
1950,
p. 200 (in quest'opera è riportato senza correzioni o aggiunte il saggio Le origini del romanzo greco, risalente al 1921), nega giustamente alla
Ciropedia (e all'Odissea) la forma specifica del romanzo, la quale è un prodotto tipico dell'età ellenistica, ma presuppone comunque una lunga incubazione extra-eidografica. 10 La natura del presente lavoro mi impedisce di addentrarmi in una ricerca analitica di tutte le parti secondarie dell'Jliade; penso comunque di aver posto le premesse metodologiche per l'individuazione di esse.
Parte
seconda
1 Problemi
di
teoria
del
romanzo,
cit.,
p.
200.
2 Op. cit., pp. 200-01. E’ interessante notare che B.E. PERRY prende in esame i «comic romances » del tipo dei Milesiaca di Aristide, escludendoli dal novero dei romanzi veri e propri e precisando che anche nel caso dell' "Ovoc attribuito a Luciano (ma il Perry scrive « Lucian's Onos»), «there is no. gradual transition in literary practice from one purpose to another» (Tbe ancient romances, Berkeley and Los Angeles 1967, p. 81). Già il Rohde, comunque, negó la dipendenza del romanzo dalla novella. Tale dipendenza è invece ammessa dal LAVAGNINI (op. cit., p.
98).
3 L'importanza straordinaria che gli antichi davano alla μνήμη, al punto da indicarne anche 1 εὑρετής nella persona di Simonide, si spiega
145
tenendo conto dell’influenza massiocia che la poesia epica — affidata alla memoria — ha esercitato sulla cultura greca suocessiva. Per «la memoria
del poeta », ved.
M.
DETIENNE,
I maestri
di verità
nella
Grecia
arcaica (trad. it. di A. Fraschetti), Roma-Bari 1977, pp. 1-16 (con rela tiva bibliografia). + Op.. cit., p. 209. In merito mi sembra utile ricordare che il Romanzo di Nino, secondo il Perry (op. cit, p. 166), è stato concepito come una Nimopedia. 5 Op. cit., p. 207. $ Ved. V. Rororo, Adamanzio Koraís e il romanzo greco, « Atene e Roma» (n.s. XI) 1966, pp. 5-6; ivi risulta che su μυϑυιστορία si è mo dellato il nome μυϑιστόρημα indicante il romanzo in greco moderno. Per quel che concerne il termine δραματικόν ved. p. 9 del medesimo articolo; ma mi sembra opportuno precisare che Fozio nella sua Biblio teca usa l’espressione σύνταγμα δραματικόν (cod. 73; in merito ved. S. IMPELLIZZERI, La Letteratura bizantina, Firenze-Milano 1975, p. 350; e per una storicizzazione dell'ampio contesto culturale illuminato dalla Biblioteca di Fozio, ved., oltre all'opera ora citata, il saggio, del medesimo autore, L'umanesimo bizantino del IX secolo e la genesi della « Biblioteca » di Fozio, «Studi storici in onore di Gabriele Pepe », Bari 1969, pp. 211-66. 7 La celebre affermazione di Quintiliano prescinde dall'ovvio collegamento della satura con i σάτυροι e il σατυρικόν dei Greci. Fuori strada, perché troppo quintilianeo, è a questo proposito U. KNocHE (La satira romana, trad. it. di A. Alcozer, Brescia 1969, pp. 16 sgg.).
8 Op. cit., p. 201.
? Op. cit., p. 218: «Il protagonista del romanzo, di tegola, è in diverso grado un ideologo ». 10 Problemi di teoria del romanzo, cit., pp. 145-46. Il medesimo giudizio negativo è espresso dal LukÁcs sul romanzo decadentistico, anch'esso caratterizzato dal «distacco dalla vita» (Il romanzo storico (trad. it. di C. Cases), Torino 1965, p. 490. ! Op. cit, p. 142 (cir. Hegel, Estetica, cit., pp. 334, 1223, 1243; per l’epos come totalità, ved. pp. 1222-23). In merito all’influenza dell’idealismo hegeliano sul pensiero critico di Marx ed Engels, ved. le acute osservazioni di S. TrMPaNARO in Ij lapsus freudiano. Psicanalisi e critica testuale, Firenze 1975 (I9 ed. 1974), p. 3, n. 2. 2 Op. cit, p. 41: «In generale la tesi che il romanzo sia specifico nella società borghese... a dire il vero è alquanto dubbia». 13 L'idea del Bachtin presuppone la teoria stilistica della «do manda ininterrotta », rinfacciata al Pereverzev e ai suoi sostenitori già dalla Aristova (Problemi, cit., p. 82). La chiaroveggenza di Trotskij sui rischi impliciti nella linea politico-culturale staliniana, è posta in risalto da S. Timpanaro in Ii lapsus freudiano, cit., p. 186. M Naturalmente il quadro della letteratura comico-romanzesca delineato dal Bachtin può essere integrato con la ricerca dei Vorláufer del romanzo, condotta da varî studiosi, fra i quali meritano il posto d'onore l'abate HueT (Traité de l'origine des romans, Paris 1685), E. RouHpE
144
(Der griechische Roman und seine Vorláufer, Lipsia 19145) e B. LavaGNINI (Studi sul romanzo greco, cit.). Alcuni aspetti e temi critici della teoria del Rohde sono stati riproposti e sviluppati in modo personale da E. ParatoRE in La novella in Apuleio, Messina-Firenze 1942. Per una dettagliata bibliografia sul romanzo rinvio a L. PepE, La narrativa, « Introduzione allo studio della cultura classica », cit., I, pp. 466 sgg. 15 L'innocuità del comico, rilevata da Aristotele nella Poetica (il γελοῖον ἃ un αἶσχος ἀνώδυνον Καὶ οὐ φϑαρτικόν, 49a), era stata intuita con genialità già da Socrate, se è vero che costui aveva afiermato di non essere stato offeso dalle Nuvole di Aristofane, perché questo poeta lo aveva attaccato in teatro, cioè «in un grande simposio ». Ecco perché nel Simposio platonico Socrate e Aristofane conversano amabilmente tra loro sull’arte drammatica, poco tempo dopo la rappresentazione (e la riedizione) delle Nuvole. Gli accenni di Socrate ad Aristofane nell’Apologia vanno quindi interpretati come segno di una reazione istintiva, e quindi poco meditata, di Platone all’ingiustizia perpetrata contro il maestro. Il quale, dopo aver aderito alla causa dei moderati, non aveva comunque alcun interesse a inimicarsi Aristofane, che militava nella stessa corrente. Non si dimentichi che Socrate fu condannato a morte
dai democratici
radicali,
non
dai
moderati
come
Aristofane.
16 Un amplissimo registro classificatorio è fornito da R. HELM in Der antike Roman, Gottinga 195€, pp. 12 sgg. (ivi si distinguono otto tipi di romanzo, fra i quali il cristiano e il biografico). Y Mi riferisco non soltanto al Romanzo di Nino, alle Avventure di Cherea e Calliroe di Caritone, alle Pastorali di Longo Sofista, o alle Etiopiche di Eliodoro, bensi anche al romanzo di Achille Tatio, che il Korafs chiamò «turpe romanzo», sulle tracce di Fozio. Osserva l’ImPELLIZZERI (La letteratura bizantina, cit., p. 351) che «sia il più casto romanzo di Eliodoro sia la più «spinta» narrazione di Achille Tatio hanno avuto tanti lettori nella «prude» Bisanzio che sono giunti fino a noi». Dal che si deduce che l’autore delle Avventure di Leucippe e Clitofonte è un moralista come gli altri: in lui c'è meno «pruderie », ma ci sono anche tutti i tabá morali e sociali che ispirano e condizio nano gli altri autori di romanzi; Leucippe, ad esempio, è una figura idealizzata come le eroine degli altri romanzi d'amore, e difende la
propria virtá con una fermezza ancor pi ostinata .che non Calliroe. 18 Com'è noto, la qualifica di «romanzo teologico» è stata data alla struttura della Commedia dal Croce. Ved. anche La «commedia umana» della Russia prerivoluzionaria di G. LukÁCs, in Saggi sul realismo (trad. it. di M. e A. Brelich), Torino 1950, pp. 294 sgg. 19 Sull’argomento ved. R. CANTARELLA (Aristofane di Bisanzio, Menandro e la mimesi, ora in Scritti minori sul teatro greco, Brescia 1970, pp. 443-48), il quale riconosce al filologo alessandrino «una profonda e anticipatrice sensibilità estetica ». Rinvio ad altra sede la trattazione dettagliata della questione, e mi limito a precisare che l'imitazione dell’arte da parte della vita (cioè della natura) è affermata in modo esplicito da Ovidio nel terzo libro delle Metaziorfosi (vv. 152-500): simulaverat
artem
| ingenio
natura
suo
(in
merito
mi
sia consentito
rinviare
145
al mio art. Vita e metamorfosi di Pigmalione, «Trimestre», ed. Ca rabba, (ns. VIII) 1975, p. 75, n. 23). Ved. anche il romanzo di Longo Sofista (I, 15). Ὁ Il sapore aristofanesco di certe scene di cui è protagonista Cnemone nel Avokodoc si spiega col fatto che questo personaggio è uno zotico a cui l'urbana società menandrea non può guardare con simpatia. Per la comicità dei personaggi minori nelle commedie di Menandro, ved. R. CANTARELLA (Il nuovo Menandro, ora in Scritti minori, cit., p. 388), il quale rettifica lievemente un'osservazione del Martin. Faccio notare del resto, che l’equazione Cnemone=schiavo risulta dal fr. 642 Kock: « E’ da schiavi dedicarsi alla campagna». 21 Lo stesso vale per la letteratura mimica, la cui funzione di ri specchiamento concerne una fascia della classe media corrispondente pressappoco alla nostra piocola borghesia e detentrice di un potere stru mentalizzato dalla fascia egemone (si pensi, per analogia, al peso po litico avuto dalla piocola borghesia italiana nel favorire l’avvento del fascismo e nel sostenerne l’assetto). 2 Sulla tipicità dei personaggi del romanzo moderno ha insistito il LukÁcs (Problemi di teoria, cit., pp. 144 sgg.) sulle tracce di Engels. 2 L'uso della prosa consente invece ai romanzieri di attingere con una certa libertà al repertorio prosopografico dei generi 'alti"; ed anche quando uno dei protagonisti è un uomo comune, viene facilmente assimilato a personaggi illustri del mito e della storia: all'inizio del romanzo di Caritone, per esempio, Cherea ha un aspetto che ricorda le raffigurazioni artistiche di Achille, Nireo, Ippolito e — si noti bene — Ald biade (se nella presente trattazione faccio più spesso riferimento alle Avventure di Cherea e Calliroe, è perché questo romanzo mi sembra pii rappresentativo degli altri; anche B.E. Perry lo privilegia dedicandogli ampio spazio nel suo libro The ancient romances, cit., pp. 96 sgg.). 2 Se la castità di uno dei due innamorati ἃ insidiata pericolosa mente, lo scrittore interviene per scagionare la vittima da ogni respon sabilità, come nelle Avventure di Cherea e Calliroe (II, 8): «La donna non cedeva da nessuna parte e restava fedele al suo Cherea. Ma fu soggiogata dalla Fortuna, contro la quale non vale il calcolo degli uomini... La Fortuna tese un'insidia alla castità della donna» (trascrivo da G. MarcovaLpi, I romanzi greci, Roma 1969, p. 112: ivi l'autore confronta I, 1 con II, 8 del romanzo di Caritone, per dimostrare che in II, 8 la Fortuna è «letteralmente sostituita all’Amore» (che agisce in I,1), «con una perfetta analogia di attributi e di funzioni»). 25 Spesso i personaggi delle commedie menandree — che in ge nere sono ambientate, come del resto i mimi, in località storicamente determinate — acquistano sapore di contemporaneità perché risultano collegati con qualche monarca ellenistico. Per quel che concerne i rap porti (negati a torto dal Rohde, che considerava la Νέα dramma di ce rattere) tra romanzo e commedia nuova, un utile spunto critico è offerto da
B.
LAVAGNINI
(Premessa
a Studi
sul
romanzo
greco,
cit.,
p.
IX),
il
quale parla di una «predilezione del gusto borghese, attestata già dalla commedia nuova» per «un patrimonio di novelle e leggende d'amore»
146
26 Una funzione analoga — nonostante l'assenza della stilizzazione delle vicende e dei personaggi — ha la cornice storica della peste nel Decameron del Boocaccio (a proposito del quale ved. E. RoHpE, Der griechische Roman, cit., pp. 521 sgg.). 2? Lo stesso dicasi del mimo, che rispetto alla Νέα vive, per cosí dire,
di seconda
mano.
25 Ved. sopra, n. 20. 2 Sul concetto di ‘arte allusiva’ ved. G. PASQUALI, Pagine stravaganti, cit., II, pp. 275-82. 3 Il carattere squisitamente letterario dell’allusione al Filottete emerge dalla sapiente variazione apportata al modello: Gillide dice a Metriche (vv. 39-40): ἡμέρας μετάλλαξον «τὸν;» νοῦν δύ ' ἢ τρεῖς, e Odisseo dice a Neottolemo (vv. 83-84): εἰς ἀναιδὲς ἡμέρας μέρος βραχὺ δός μοι σεαυτόν; analogamente Gillide dice (v. 64): δοιὰ πρήξεις, e Odisseo (v. 117): δύο φέρῃ δωρήματα. 3 La funzione di Gillide nel primo mimiambo di Eroda corrisponde a quella della nutrice di Fedra nell’Ippolito di Euripide e a quella dell'eunuco persiano Artaxate nel romanzo di Caritone, con le debite diferenze: Artarate — che può svolgere un ruolo riservato in Grecia alle mezzane, perché è un barbaro — si contrappone alla nutrice di Fedra (che propone alla padrona l’uso di filtri amorosi, cui ricorre la
stessa
Simeta
teocritea),
dicendo
che
per
Eros
non
c'è
nessun
ri-
medio, φάρμακον, se non la persona amata (VI,3). 32 Per uno studio dettagliato della τὐχῃ esaminata nella tradizione letteraria greca in funzione del romanzo, ved. E. RoH»E, op. cit, pp. 276 sgg.; una trattazione interessante dell’argomento è anche in G. MARCOVALDI, op. cit., pp. 107 sgg. 33 In merito ved. il mio art. Le sintassi tragica, cit., pp. 16, 36-37. * La
nota
teoria
del
KERÉNYI
(Die
griecbiscb-orientaliscbe
Roman-
literatur in Religionsgeschichtlicher Beleuchtung, Tubinga 1927), anche se viziata da notevoli intemperanze ed arbitrî critici, consente in certa misura di recuperare l'innegabile impegno ideologico dei romanzieri greci, nascosto sotto la veste del disimpegno. E' molto probabile che anche i romanzi più ‘evasivi’ nascondano allusioni — facilmente riconoscibili per i lettori cui erano destinate — a vicende e personaggi contemporanei. In tal senso è molto istruttivo lo scritto Αἰγύπτιοι λόγοι ἢ περὶ προνοίας (fine del quarto secolo), «una specie di romanzo a chiave, nei cui protagonisti, il dio solare egiziano Osiride e il suo avversario Tifone, bisogna riconoscere rispettivamente i prefetti del pretorio Aureliano, « nazionalista » e antibarbaro, protettore di Sinesio, e Cesario, alleato dei barbari; uno scritto ermetico, dunque, che descrive eventi della politica contemporanea e gli intrighi della corte imperiale» (S. IMPELLIZZERI, La letteratura bizantina, cit., p. 130). 35 Lo studioso che ha privilegiato. l'aspetto storiografico e storicobiografico del 'preromanzo' è stato E. Schwartz, su cui ved. però B.E. PERRY, op. cit., pp. 37-38. Nella sua opera, ormai classica (Finf Vortráge über den griechischen Roman, Berlino 19432) lo ScHwARTZ esamina anche i precedenti
epici
del
romanzo,
ma
si
limita
ad
una
analisi
estrinseca,
147
non diversa comunque da quella di O. WeInrEIcH (Nacbwort zur Heliodor-Ubersetzung, Zurigo 1950) sulla quale ha espresso un giudizio sostanzialmente negativo L. PEPE (La narrativa, cit, pp. 431-32).
'
46 Come è
noto, in età ellenistica la tragedia intisichisce per man-
canza di nutrimento «civico ». La commedia invece è meno condizionata da questo «handicap », perché sviluppa una tematica sociale troppo legata alla bassa realtà quotidiana perché possa « mordere » direttamente nella gestione del potere politico, sia pure in termini di coinvolgimento inconsapevole delle responsabilità. Manca alla commedia l’« approfondimento problematico », come direbbe l'AuERBACH (ved. Mimesis. Il rea lismo nella letteratura occidentale (trad. it. di A. Romagnoli e H. Hinterháuser), Torino 1956, p. 35), delle forze storiche che agiscono nella società ellenistica, ed è per questo che il teatro comico ha vita facile sotto i diadochi, almeno fino a quando, esaurito il misero potenziale civico rappresentato dalla pura e semplice struttura «dialettica » del dramma, cede il posto ad una forma letteraria più adeguata al rispecchiamento di uno squallore civile ormai irreversibile: mi riferisco appunto al romanzo, la cui nascita si colloca dunque agevolmente nel secondo secolo avanti Cristo: collocazione cronologica, questa, che, pur diversa da quella corrente, corrisponde grosso modo a quella già proposta da altri per altra via (B. LAVAGNINI, Studi sul romanzo greco, cit, pp. VII e VIII della Premessa e Ρ. 200). 37 Il mimo bucolico resiste meglio, ma insieme subisce una trasformazione radicale per quel che concerne la struttura drammatica, che tende a dissolversi e scompare del tutto (si pensi a certi componimenti dello Pseudo-Teocrito e a quelli che vanno sotto il nome di Mosco e di Bione), e preannuncia direttamente il romanzo bucolico di Longo Sofista, la cui presenza nella letteratura ellenistico-romana può essere spiegata, lo ripeto, soltanto in base alla presente ricostruzione storicoletteraria. 38 Dalla notizia di Varrone — registrata da Plinio il Veochio, Nat. bist, XIII, 21,70 — secondo cui Eumene II di Pergamo (prima metà del II secolo a.C.) avrebbe cominciato a servirsi della pergamena dopo che il re Tolemeo aveva bloccato le esportazioni di papiro, è facile desumere che un Tolemeo (V Epifane o VI Filometore) si riservò il di ritto esclusivo di vendita del papiro. L'egittologo E. ScAMUZZI conferma questa conclusione, forse in base ad altri dati documentari: «Circa il III secolo a.C. i Tolemei, signori d'Egitto, compresero appieno l'importanza del largo uso del papiro e ne avocarono a proprio vantaggio i pri vilegi della vendita» (Grande dizionario enciclopedico UTET, s.v. pa piro). Se invece il monopolio esisteva già prima dell'avvento dei Tolemei (F. SARTORI, Libri e librai nel mondo antico, « Atene e Roma » (n.s. XIII), 1968, p. 2), quelle misure restrittive vanno interpretate come politica dei prezzi sfavorevole agli importatori; ed ovviamente questo provvedi mento non esclude l’altro. 39 « Nell’antica Roma... quando cessarono i rifornimenti della carta, le strade rimasero vuote come oggi nei periodi di razionamento delia benzina » (M. McLunan, Gli strumenti del comunicare, cit., p. 97; ved.
148
anche
p.
107:
il Mediterraneo,
«Quando
gli
che per
molto
arabi
troncarono
tempo
i rifornimenti
era stato un
lago
di
romano,
papiro, divenne
un
lago musulmano e il centro romano crollò »). 4 Tale interesse è comunque assente nel romanzo di Longo Sofista, e pertanto non è un elemento essenziale della narrazione romanzesca, come giustamente osserva il LAVAGNINI (op. cît., p. 200). Proprio per questo motivo il rinvio alla drammaturgia comica ellenistica, che comprende anche gli idilli pastorali di Teocrito, mi sembra particolarmente utile. Colgo l'occasione per rilevare che il cosiddetto «Romanzo di Alessandro » dello Pseudo-Callistene, tradotto in latino da Giulio Valerio (fine III-inizio IV secolo d.C.) e forse inteso a celebrare i monarchi egiziani attraverso il loro illustre antenato Nectanabo-Ammone (‘ vero’ padre di Alessandro Magno), può benissimo essere stato elaborato in Egitto già nel secondo secolo a.C. (D. Romano, Giulio Valerio, Palermo 1974, p. 7, parla infatti del testo greco del « Romanzo» a noi pervenuto come di un’« ultima redazione »). * M. BacurIN, Problemi di teoria, cit., p. 198. L'estrema letterarizzazione della cultura greca è rappresentata appunto dal romanzo, perché in questo il presente è contento di sé e non ama guardare al futuro, previsto come un mondo che non riserva sorprese, data la stabilità dell'apparato politico-amministrativo e sociale, nient'affatto pregiudicato dagli intrighi di palazzo. 4 L'Orazione a Roma di Elio Aristide rispecchia l'atteggiamento ufficiale della cultura nei confronti dell'impero romano, mentre il Nigrino lucianeo è una voce isolata. 43 Segno dello spirito ‘romanzesco’ dei tempi è il fatto che in quest’epoca i soli poemi in esametri che vengono composti e letti sono quelli didascalici di un Dionigi il Periegeta o di un Oppiano di Anazarbo (si ricordi ciò che si è osservato carattere antiepico del didascalismo).
4 Non
va
dimenticato
all’inizio
il notevolissimo
del
presente
contributo
lavoro
dato
sul
all'epistolo-
grafia da San Paolo e da Seneca, nonché dallo stesso Plinio il Giovane. 4 Ved. C. MorescHINI, Il romanzo greco, Firenze 1973, p. 83: « Anche questo ignoto romanziere mostra nel suo stile e nel suo lessico le stesse caratteristiche che offrono i romanzi più noti, come quello di Eliodoro o di Longo Sofista ». 46 La letteratura memorialistica nasce con l'avvento della letteratura visiva ed ha i suoi primi rappresentanti in Isocrate (Antidosi) e nello stesso Senofonte (Arabasi), per poi assumere una fisionomia ben precisa per opera di Demetrio Falereo (Sul decennio) alla fine del
quarto secolo. 41 Scrisse
piena
il terzo
libro
del
suo
aureo
opuscolo
atmosfera di mobilitazione militare. 4 Si pensi alla celebre distinzione aristotelica
Erodoto
non
cessa
di
essere
uno
storico,
anche
a Carnuntum,
ira poesia se
la
tradotta in versi (Poetica, 510); ved. anche 470 dove una mirabile e originale intuizione, ha dimostrato che
sua
in
e storia:
opera
viene
« Aristotele, con il metro non è
149
distintivo di poesia, anche se (48b) è inscindibile dal mestiere di poeta» (C. GALLAVOTTI, Aristotele. Dell'arte poetica, Introd., cit., pp. XX-XXI). 59 Caritone, addirittura, si presenta all'inizio della sua opera come « segretario
del retore
Atenagora ».
% Problemi di teoria del romanzo, cit., Introd., p. XXX. Un'interessante considerazione personale di Federico Schlegel, secondo cui «i romanzi sono i dialoghi socratici del nostro tempo», è registrata da A. PLEBE in Discorso semiserio sul romanzo, Bari 1965, p. 40.
Bibliografia essenziale
Poiché la bibliografia sugli argomenti qui trattati è troppo vasta, rinvio alle citazioni fatte di volta in volta nelle note e mi limito ad elencare solo alcune pubblicazioni più strettamente attinenti ai temi centrali del presente lavoro: Dal sillabario minoico all'alfabeto greco (autori vari), «La Parola del Passato » (fasc. CLXVI), 1976, pp. 128. La
questione
omerica,
(antologia
critica,
preceduta
da
una
Illustrazione
del problema, a cura di F. Copino), Roma 1976, pp. 202. Libri, editori e pubblico nel mondo antico (antologia critica, con una Introduzione e illustrazioni a cura di G. CavALLo), Roma-Bari 1977, pp. XXIV-167.
Problemi
di teoria del romanzo.
Metodologia
letteraria
e dialettica sto-
rica (raccolta di relazioni e interventi di G. LuxAcs, M. BAcHTIN e altri, preceduta da una Introduzione, a cura di V. STRADA), Torino 1976, pp. LI-221. D.M. Mackay-W.H. THorpe-J. Lyons, La natura della comunicazione (trad. it. di R. Simone) a cura di R.A. Hinpe, con una Introduzione (Fantasia delle grammatiche) di T. De Mauro, ora in « Universale Laterza», Bari 1977, pp. XLVIIL129 (18 ed. in «Nuova Scienza», Bari 1974; ed. originale Cambridge 1972). Rendo atto, infine, degli spunti storico-critici offertimi dagli scritti
di C. GaLLavoTTI e di B. ManzuLLo sulla poesia omerica, e colgo l'occasione per ringraziare S. IMPELLIZZERI, che in pur fugaci conversazioni mi ha dato suggerimenti, anche bibliografici, molto utili, sollecitando in me l'interesse per le nuove prospettive aperte alla «galassia» degli studi classici dagli Understanding Media di M. McLuhan.
Indice
7
Sintesi orientativa Parte seconda
9
Dalla
cultura
orale
alla letteratura
orale
Parte seconda 97
Dalla letteratura orale al romanzo
123
Note
151
Bibliografia essenziale
d’amore
Se la civiltà odierna è romanzesca — cioè ' siede’ sulla propria contemporaneità — e il romanzo è ovviamente la forma letteraria
più
congeniale
al
nostro
tempo,
è
perché
il mondo
occi-
dentale è tuttora una ‘galassia’ greca, nonostante l'intervento di varie metamorfosi nel tessuto della società medievale, moderna e contemporanea: oggi il romanzo ha ancora le caratteristiche essenziali
del romanzo
antico, né esistono generi
letterari
nuovi o moduli sostitutivi dei generi classici tradizionali. Nel presente libro l'autore storicizza la narrativa greca attualizzandola e coinvolgendone la cosiddetta 'purezza' in una rete di intime connessioni con le più significative manifestazioni, letterarie e no, della civiltà intermedia e coeva all'epos e al romanzo. Tale sinossi storico-critica, resa possibile dal ‘fuoco incrociato’ della filo-. logia, della storia e della tecnologia della comunicazione — che tra l'altro consentono una soluzione nuova e ragionevole dell'annosa questione omerica, con l'ausilio di Aristotele —, privilegia il collegamento tra forme letterarie e presupposti politico-sociali, che dall'esame qui esperito risultano rispecchiati con fedeltà ineccepibile.
Raffaele Di Virgilio è nato a Ortona a Mare nel 1938. Come ricercatore si è dedicato prevalentemente agli studi sulla tragedia greca, pubblicando articoli su Sofocle nella « Rivista di Filologia e di istruzione Classica » (1966 e 1967) e in «Dioniso » (1970) e un saggio su Eschilo netla collana « Bibliotheca Athena » (1973) dell'Università di Roma. Proviene dagli studi di filologia micenea ed ha pubblicato anche una ricerca sulla poetica antica e moderna in « Trimestre » (1975). RE
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ΜΘ
ἢ