Cura sotto controllo. Il diritto alla salute in carcere 884309100X, 9788843091003

Il volume affronta il tema della tutela della salute in carcere da una prospettiva socio-giuridica. Partendo da un'

224 64 2MB

Italian Pages 142 [143] Year 2018

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD PDF FILE

Recommend Papers

Cura sotto controllo. Il diritto alla salute in carcere
 884309100X, 9788843091003

  • 0 0 0
  • Like this paper and download? You can publish your own PDF file online for free in a few minutes! Sign Up
File loading please wait...
Citation preview

BIBLIOTECA DI TESTI E STUDI/ 1179 SOCIOLOGIA

Daniela Ronco

Cura sotto controllo Il diritto alla salute in carcere

Carocci editore

Il volume è stato pubblicato con il contributo del Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Torino, progetto I.Ri.D.E.

1' edizione, marzo 2.018

©copyright 2.018 by Carocci editore S.p.A., Roma Realizzazione editoriale: Studio Agostini, Roma

r.

Finito di starn are nel marzo 2.018 da Grafiche VD sr , Città di Castello (PG) ISBN 978-88-430-9100-3

Riproduzione vietata ai sensi di legge

(art. 171 della legge 22. aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione,

è vietato riprodurre questo volume

anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

Prefazione di Claudio Sarzotti

7

Introduzione

13

Sociologia della salute e sociologia del penitenziario : intersezioni teoriche

19

1.2. 1.3. 1.4. I. S. I.6. I.7.

La prospettiva costruzionista, tra sociologia della salute e sociologia del carcere Dimensioni di salute : il primato dell'illness? Processi di medicalizzazione e controllo sociale Evoluzioni della medicalizzazione e del dominio medico La relazione di cura in carcere : il controllo onnipresente Ricostituzione del sé e della cultura professionale in carcere Il terzo non escluso : l'amministrazione penitenziaria

19 23 26 28 30 33 35

2.

La materialità della detenzione

39

2.1. 2.2.

L'insalubrità carceraria: sovraffollamento e vivibilità degli spazi Cibo, aria e condizioni economiche. Tra carenze e responsabilità diffuse La gestione delle emergenze sanitarie e sociali Salute, premialità e infantilizzazione « Qui ci mancano i farmaci di fascia A!» : tra denunce di gravi carenze e less eligibility

39

I.

I. I.

2.3. 2.4. 2.s .

43 48 54 6o

INDICE 3·

Le relazioni

3·1.

Le relazioni istituzionali: amministrazione penitenziaria e servizio sanitario L'autonomia del medico « L'infermeria è un porto di mare » : la mancanza di privacy in carcere La relazione medico-paziente detenuto 3·4·1. Dentro vs fuori: la medicina difensiva l 3.4.2. Al lupo, al lupo ! Simulazione e strumentalizzazione l 3·4·3· La fiducia.

3.2. 3·3· 3·4·

67

67 72 79 85

«Fuori è più semplice, il medico è il medico»

3·5·

«Vestiti e puliti » : la violenza del controllo e del disciplin amento

98



La prevenzione e i grandi tabù del carcere

I07

4-I. 4.2. 4·3· 4·4· 4·5·

Prevenzione uguale controllo Prevenzione uguale ghettizzazione Qualche timida apertura Tra ostracismi e questioni di opportunità Imperativi di cambiamento strutturale e culturale

I07 112 115 118 I20

Conclusioni

I25

Appendice metodologica

I29

Riferimenti bibliografici

I33

6

Prefazione di

Claudio Sarzotti*

27 settembre 1841, Firenze, I I I Congresso degli scienziati italiani, un'assise nella quale si celebrano i fasti del positivismo scientifico e nell'ambito della quale Carlo Ilarione Petitti di Roreto, il penitenziarista sabaudo forse più noto del tempo, ha fatto inserire una specifica sezione relativa alla medicina penitenziaria al fine di far certificare dalla scienza medica i danni prodotti dal sistema filadelfiano e dal suo regime di isolamento prolungato1• Tra gli illustri medici penitenziari invitati, prende la parola Martino Steer, docen­ te di Patologia e Farmacologia all'ateneo padovano, membro dell�ccade­ mia delle Scienze Letterarie ed Arti di Padova, nonché medico esercitante la professione presso il locale carcere. La questione di cui si discute è rela­ tiva ai danni alla salute prodotti da quel nuovo regime di vita che prevede che un essere umano sia rinchiuso in dimore austere e ben regolate per esse­ re sorvegliato a vista senza poter avere relazioni con altri individui che non siano i guardiani e il cappellano. È indubbio, sostiene l'esimio cattedrati­ co, come qualsiasi regime penitenziario, sia esso filadelfiano o auburniano, produca «cambiamenti sinistri nell'umano organismo » . Ma questa è forse una ragione sufficiente per « risparmiare ai malfattori il tormento della pri­ gionia solitaria » ? Dobbiamo forse «proclamare l'impunità dei delitti per conservare la salute dei delinquenti » ? E se veramente questo nuovo siste­ ma di infliggere la pena ai condannati mantenesse la promessa di restituire al civile consesso dei « buoni cittadini » , rispettosi delle regole, se non per la morale riacquistata almeno per il timore della sanzione, non varrebbe forse la pena di correre il rischio di « averli un poco malaticci » ? Professore ordinario di Sociologia del diritto presso il Dipartimento di Giurispru­ denza dell'Università di Torino. 1. L'intera vicenda dei congressi nazionali degli scienziati italiani in merito alla que­ stione carceraria è ricostruita da A. Capelli, La buona compagnia. Utopia e realta carceraria nell'Italia del Risorgimento, FrancoAngeli, Milano 19 88, pp. 213 ss., da cui ho tratto gran parte delle citazioni testuali qui contenute. •

7

CURA SOTTO CON TROLLO

Un paio d'anni più tardi, un altro illustre medico veronese, Giovan­ ni Scapoli, membro dell�ccademia di Agricoltura, Commercio ed Arti, pone un'altra questione che terrà impegnati i medici penitenziari nei suc­ cessivi convegni nazionali di Padova e di Lucca : quali sono le condizioni minime a cui ci si deve attenere per regolare il regime di vita detentiva del recluso ? Per stabilire quali siano tali condizioni occorre partire dal profilo sociale del detenuto comune. Chi sono coloro che popolano le nuove isti­ tuzioni penitenziarie ? Si tratta per la quasi totalità di quella «plebe igno­ rante » che appare alla borghesia del tempo come un'entità collettiva in­ quietante perché poco conosciuta, che conserva nella sua indole qualcosa di primitivo e di antecedente al processo di civilizzazione, « un non so che di feroce » di quei contadini nei quali «l'ambizione è violenta e cieca la vendetta più che si crede » . Su questa descrizione della popolazione reclusa si innesta un ragionamento che recupera il razionalismo di matrice illumi­ nista sul tema dell'efficacia deterrente della pena e che non può non coin­ volgere anche la medicina penitenziaria: « sia pure il carcere solitario una pena grave ma non si ecceda nella compassione pei delinquenti, scordan­ dosi degli innumerevoli che tremano per loro cagione. Già i detenuti nelle prigioni politiche e criminali, e negli stessi ergastoli sono trattati più laura­ mente che non gli agricoltori sudanti onestamente nei campi. [...]. [N] o n manca alla casa di forza di Padova se non un teatro » . Emerge qui un tema molto sentito dai penitenziaristi ottocenteschi e che aveva fatto ingresso nel dibattito internazionale con il Poor Law Amendment Act del 1834 del governo inglese, quando si era posta la questione di come trattare le perso­ ne ospitate nelle workhouses e del paradosso che Charles Dickens aveva così efficacemente sintetizzato : «we have come to this absurd, this dangerous, this monstrous pass, that the dishonest felon is, in respect of cleanliness, order, diet, and accommodation, better provided for, and taken care of, than the honest pauper»l. Il tema viene battezzato con l'espressione less eligibility e ben presto conquista ampio spazio nel dibattito europeo dei penitenziaristi. Per rimanere al consesso scientifico fiorentino che ho citato all'inizio di questa prefazione, l'argomento viene ripreso in termini medici dall'intervento di Maurizio Bufalini, tra i più illustri clinici italiani dell'e­ poca e tutt'altro che reazionario sia dal punto vista politico che culturale. Nella sua relazione egli parte dalla constatazione che sebbene quasi tutti i medici siano concordi nel sostenere che il regime carcerario può nuocere p.

2. C. Dickens, A 204.

Christmas Carol, ed. by R. Kelly, Broadview Press, Calgary 2003,

P REFAZIONE

alla salute dei reclusi, ciò non è « sufficiente a risolvere la questione della convenienza o della non convenienza di tale istituzione » , in quanto « mol­ te delle consuetudini sociali » costringono gli individui « ad occupazioni dannevoli alla salute » , come quelle dei contadini o dei minatori « che assai mali contraggono, e di non poco abbreviansi la vita » . Se esistono profes­ sioni che espongono individui incolpevoli, e anzi meritevoli di lode per la loro funzione sociale, a rischi seri per la salute, come arrestarsi davanti alle conseguenze potenzialmente lesive della salute di persone che hanno meri­ tato la loro pena ? Ed allora ecco che ben si può sostenere «essere benissimo una necessità sociale quella di esporre i delinquenti a qualche danno alla salute » . Non è forse meglio « restituire alla società dei costumati uomi­ ni meno robusti di salute, che degli scellerati sanissimi » ? Se si ritiene che l'isolamento sia utile alla emendazione morale non è sufficiente chiedersi « se in genere nuocesse alla salute, ma bensì quanto nuocesse ; potendo solo un grave danno di quella, fare abbandonare un metodo di punizione, d'al­ tronde creduto necessario » . A distanza di quasi 180 anni da questi discorsi, la ricerca di Daniela Ronco sembra riprendere molte delle questioni che percorrevano il dibat­ tito ottocentesco, anche se un velo di ipocrisia sembra essersi depositato su di un tema che all'epoca veniva affrontato con cinico realismo e con mag­ giore convinzione nelle possibilità rieducative della pena detentiva. Il prin­ cipio dell'equivalenza delle cure tra persone recluse e cittadini liberi, car­ dine della riforma della sanità penitenziaria italiana la quale non ha fatto che recepire consolidate direttive degli organismi internazionali, contrasta profondamente con la cultura professionale di una larga parte degli opera­ tori sanitari e penitenziari. Cultura che affonda le sue radici nella storia che abbiamo visto e che è stata rivitalizzata da quelle teorie criminologiche, svi­ luppatesi a partire dagli anni Ottanta con la "crisi del modernismo penale", che David Garland ha chiamato « le criminologie dell'altro » . Si tratta di un modo di costruire socialmente il fenomeno criminalità che supera radi­ calmente l'idea positivistica che sia possibile comprendere tale fenomeno attraverso l'analisi dei fattori sociali, culturali o, su altro versante, psicolo­ gico/psichiatrico che spingono l'individuo all'azione delittuosa. Si tratta di teorie che recuperano l'antica concezione premoderna secondo la quale certi criminali sono "semplicemente malvagi", e per questa ragione sono diversi da tutti noi. [ ... ] Poiché sono intrinsecamente malvagi, certi rei non sono come noi. Essi sono "altri pericolosi" che minacciano la nostra sicurezza e non suscitano sentimenti di fratellanza. [ .. ] La loro connaturata alterità ha ricadute anche sulle .

9

CURA SOTTO CONTROLLO possibilità di "comprenderli". Il male intrinseco sfida tutti i tentativi di compren­ sione razionale o di spiegazione criminologica. Non ci può essere mutua intelle­ gibilità, né una reale comunicazione tra "noi" e "loro". Comprenderli - come ha fatto la criminologia tradizionale - significa accoglierli, umanizzarli, riconoscere noi stessi in loro e loro in no P.

È lo stesso atteggiamento che ha portato al disconoscimento della piena soggettività giuridica per i criminali plurirecidivi nelle teorie del diritto pe­ nale del nemico4• L'assenza del pieno riconoscimento dell'umanità comu­ ne al reo e a chi lo custodisce, nel significato etimologico del verbo "custo­ dire" che ricomprende in esso anche il curare, è l'ostacolo culturale più for­ te per far sì che il principio dell'equivalenza prenda corpo nella vita dell'i­ stituzione totale. lvan Illich, spesso opportunamente citato nel lavoro della Ronco, ci ha insegnato come «la medicalizzazione della vita » sia stata uno dei dispositivi più efficaci per imbrigliare e negare l'umanità del sofferente attraverso «la trasformazione del dolore, della menomazione e della mor­ te da cimento personale a problema tecnico » 5• Nella prigione tale medi­ calizzazione si è radicata e perfezionata. Come noto, infatti, a partire per lo meno dalla ricerca genealogica di Michel Foucault, carcere e ospedale, se non gemelli omozigoti, sono cugini molto stretti. Mentre alcuni settori del pensiero medico hanno cominciato a porre in discussione il paradig­ ma tecnocratico della medicina istituzionalé, la medicina penitenziaria in generale, e quella italiana in particolare, si sono mostrate timorose nel prendere le distanze dalla prospettiva securitaria dell'istituzione totale. Il lavoro di ricerca che qui si presenta è forse il primo che tenta di ricostruire, attraverso lo strumento della ricerca empirica di matrice socio-giuridica, il processo di attuazione della riforma e come essa abbia modificato le culture professionali e i modelli organizzati vi di un settore che necessariamente ve­ de coesistere strutture di potere e operatori assai diversi tra loro. Il quadro che ne emerge è articolato e a tinte non uniformi. La stessa conformazione 3· D. Garland, La cultura del controllo. Crimine e ordine sociale nelmondo contemporaneo, a cura di A. Ceretti, il Saggiatore, Milano 2004, p. 301 4· Come noto, secondo tali teorie, a questi soggetti "irrecuperabili" non dovrebbero essere applicate le garanzie poste dai nostri ordinamenti giuridici a tutela del cittadino. Cfr. per tutti M. Donini, M. Papa (a cura di), Diritto penale del nemico. Un dibattito internazionale, Giuffrè, Milano 2007. s. I. Illich, Nemesi medica. L'espropriazione della salute, Bruno Mondadori, Milano 2004, p. I S. 6. In questa direzione va il recente movimento della slow medicine (Cfr. M. Bobbio, Troppa medicina. Un uso eccessivo puo nuocere alla salute, Einaudi, Torino 2017 ) .

IO

P REFAZIONE

regionale del servizio sanitario nazionale ha prodotto una situazione che si definisce, con espressione giornalistica, "a macchia di leopardo': Il cli­ ma culturale complessivo in cui la riforma ha dovuto prendere avvio non è stato certo dei più favorevoli e le resistenze al cambiamento nelle dinami­ che di potere delle istituzioni totali sono notoriamente difficili da scalfire. Qualche anno fa, in una ricerca sull'impatto avuto nel mondo penitenzia­ rio dalla diffusione del virus HIV, avevo proposto una tipologia idealtipica di culture professionali degli operatori penitenziari incentrata sul binomio paterno/custodiale e materno/trattamentale. Nel presentare quel lavoro, scrivevo che « il sordo conflitto tra materno e paterno, tra custodiale e trat­ tamentale, sta superando le alte mura del carcere e deborda nelle cronache dei quotidiani. Padre e madre stanno litigando e non riescono, come molte altre volte è accaduto, a lavare i panni sporchi in famiglia » 7• In questi ulti­ mi mesi, con i lavori degli Stati Generali dell'Esecuzione Penale che hanno prodotto le proposte per la riforma del nostro ordinamento penitenziario, quel conflitto è tornato a emergere e segnerà certamente l'esito applicativo dei decreti delegati emanati dal governo. Che ruolo giocherà la medicina penitenziari a in tutto ciò ? Questo volume fornisce certamente molti ele­ menti per poter anticipare delle risposte.

7· C. Sarzotti, Codice paterno e codice materno nella cultura giuridica degli operatori penitenziari, in A. R. Favretto, C. Sarzotti (a cura di), Le carceri delLAIDS. Indagine su tre realta italiane, L'Harmattan Italia, Torino 1999, p. 9·

II

Introduzione

Il volume presenta alcune riflessioni sul tema della tutela della salute del­ le persone detenute. È stato scritto a quasi dieci anni dall'entrata in vi­ gore della riforma della sanità penitenziaria in Italia, che ha determinato il passaggio di competenze, in tema di erogazione del servizio sanitario nei confronti della popolazione detenuta, dal ministero della Giustizia a quello della Salute. La riforma, che risponde alle numerose sollecitazioni mosse da vari organismi internazionali sul tema, si inserisce nel quadro più ampio della tutela dei diritti delle persone detenute e, nello specifico, mira a garantire l'equivalenza delle prestazioni di cura dentro e fuori dal carcere. Il raggiungimento dell'equivalenza delle cure, tuttavia, pare partico­ larmente problematico per via del contesto carcerario di per sé, e spo­ stare la competenza sull'erogazione del servizio sanitario incide solo in parte sulle dinamiche di potere e sulle conflittualità insite nell'istitu­ zione totale. Le dimensioni sociologiche dello spazio, del tempo e delle interazioni sono oggetto di una marcata ristrutturazione all'interno del campo penitenziario, il che ha un significativo impatto sulla tutela della salute ampiamente intesa. Il contesto carcerario impone inoltre una mar­ cata rivisitazione delle dimensioni disease-illness-sickness, alla base della definizione condivisa fornita dall' O M S . Se, da un lato, il ruolo sociale del malato assume spesso connotazioni di doppia emarginazione ( malato e detenuto ) , al contempo sia l'interpretazione biomedica della malattia che la ricostruzione che di essa ne fa il paziente subiscono l'ingerenza di fattori attribuibili alla cultura penitenziaria. Si tratta di un concet­ to complesso e dalle svariate sfaccettature, fatto di regole scritte e non scritte, in parte condivise e in parte no, ma quasi sempre note a tutti gli attori sociali coinvolti e che in tal senso disciplinano l'agire quotidiano ( Goffman, 1959 ) . Sebbene in alcuni casi sia più corretto parlare di culture penitenziarie, per evidenziare le differenziazioni, con il termine « cultu13

CURA SOTTO CONTROLLO

ra penitenziari a» si intende sottolineare la dimensione del campo entro cui agiscono i vari attori socialP, inteso come luogo di competizione non libera fra agentP. Il potere particolarmente « inglobante » (Goffman, 1961) dell'istitu­ zione carcere determina un condizionamento sia di carattere strutturale che culturale. Da un lato, il degrado delle strutture, la coabitazione in spazi ristretti e sovraffollati, le pessime condizioni igieniche, la scarsa are­ azione e qualità del cibo, hanno un impatto devastante sulle condizioni di salute della persona che trascorre un certo periodo di tempo in carce­ re, come ha ben sintetizzato il medico francese Gonin nell'ormai classico Il corpo incarcerato (1994). Dall'altro lato, il contesto penitenziario im­ pone una ristrutturazione culturale a tutti gli attori che interagiscono al suo interno. Se, come la sociologia della pena ha messo in luce, i processi di prigionizzazione ( Clemmer, 1940 ), degradazione ( Garfinkel, 1956 ) e infantilizzazione (Goffman, 19 61; Sykes, 1958) determinano una ridefi­ nizione dell'identità della persona detenuta fin dal suo ingresso in carce­ re, la stessa cultura professionale medica viene significativamente ridise­ gnata nel contesto penitenziario, anche - soprattutto forse - in ragione del condizionamento strutturale entro cui si viene ad operare3• La tutela della salute non sembra sfuggire del tutto alla morsa della less eligibility (Sim, 1990 ) , principio cardine dell'approccio storico-materialista dell'e­ conomia politica della pena (Rusche, Kirchheimer, 1939 ; Melossi, Pava­ rini, 1977) secondo cui le condizioni di detenzione devono restare sotto la soglia delle condizioni di vita più disagiate fuori dal carcere, in modo da rendere la detenzione meno preferibile. La cultura penitenziaria mina così alla base il principio dell'equivalenza delle cure, inglobando in una 1. Come noto, quella di campo è una categoria introdotta da Pierre Bourdieu per spiegare l'agire del singolo all'interno di specifici contesti sociali. « Nelle società forte­ mente differenziate, il cosmo sociale è costituito dall'insieme di questi microcosmi so­ ciali relativamente autonomi, spazi di relazioni oggettive in cui funzionano una logica e una necessità specifiche, non riconducibili a quelle che regolano altri campi» (Bourdieu, 1992, p. 66). 2. La mancanza di libertà degli agenti deriva dal fatto che il campo « è uno spazio di gioco nel quale valgono regole che ciascun agente, pur potendo contribuire a modifi­ care, in principio trova, e dalle quali resta (almeno relativamente) vincolato» (Salento, 2009, p. 143). In questo emerge la propensione di Bourdieu a sottolineare la coercizione strutturale che incide sui comportamenti degli agenti. Per un'introduzione del concetto di campo giuridico applicato al penitenziario si rimanda a Sarzotti (2010 ). 3· Riprendendo Freidson (1970), con il concetto di cultura professionale medica fac­ ciamo riferimento all'insieme di atteggiamenti, conoscenze e pratiche dei clinici. 14

INTRODUZIONE

certa misura la cultura professionale medica, con ripercussioni nella rela­ zione medico-paziente detenuto. Il surplus di controllo sociale esercitato del medico ( Conrad, 1992; Chriss, 2oo8) nei confronti del paziente all'interno del carcere (Pont et al. , 2012; Sim, 20 02; Prout, Ross, 1988) si manifesta in molti modi che vanno dalla riduzione dell'autonomia del paziente (libera scelta del me­ dico, mancanza di autonomia nell'assunzione di farmaci ecc.) all'esclu­ sione dalla definizione dei bisogni sanitari. Su questo incide evidentemente la forte presenza del "terzo non esclu­ so", l'amministrazione penitenziaria, che in primo luogo pone questioni organizzative che impongono un'interferenza nella gestione del servizio sanitario (si pensi agli spostamenti, infra ed extra murari, per motivi sani­ tari) e, in secondo luogo, spesso continua a esprimere un'istanza di con­ trollo su tutta la quotidianità detentiva, compresa la tutela della salute, anche inglobandola nella più generale funzione attribuita alla pena. Le frequenti confusioni lessicali e ambiguità tra trattamento penitenziario e trattamento sanitario rivelano un'invasione della funzione disciplinare della pena nel campo della tutela della salute. La premialità, che da qual­ che decennio caratterizza la detenzione nel nostro paese, finisce così per incidere in una certa misura anche sull'esercizio del diritto alla salute, trasformandolo, nella percezione di molti attori del campo, da diritto a beneficio (Salle, Chantraine, 2009 ) . Il presente volume costituisce dunque un tentativo di far dialogare i principali postulati della sociologia della medicina di stampo interazio­ nista con la teoria del controllo penale esercitato all'interno dell'istitu­ zione penitenziaria di matrice costruzionista. Nel primo capitolo viene proposto il tentativo di intersezione teorica tra la sociologia della medicina e la sociologia del penitenziario, con par­ ticolare riferimento alla prospettiva costruzionista e, soprattutto, intera­ zionista. Le dimensioni di salute, la medicalizzazione e il dominio medi­ co vengono calati nel contesto penitenziario, nell'intento di porre le basi per interpretare la ridefinizione delle relazioni di cura. Il secondo capitolo si focalizza sulla struttura materiale del carcere. Nel descrivere la quotidianità detentiva vengono prese in considerazione in particolare le implicazioni che spazi e condizioni di detenzione hanno sulla salute. Ne emerge un quadro in cui le condizioni strutturali vengo­ no considerate da tutti gli attori del campo penitenziario il principale fattore di rischio per la salute. IS

CURA SOTTO CONTROLLO

Il terzo capitolo analizza invece la variabile culturale e la sua inciden­ za sulle relazioni interne al carcere. Nel riflettere sui fattori culturali che ostacolano una piena affermazione del principio di equivalenza delle cu­ re dentro e fuori dal carcere, prende in considerazione sia i rapporti tra amministrazione penitenziaria e servizio sanitario che, a livello micro, la relazione medico-paziente, per concentrarsi sulla definizione peculiare che la medicina difensiva e l'autonomia del medico assumono in carcere. Contiene una riflessione, inoltre, sul modo in cui i pregiudizi incidono sul controllo e sul più ampio processo di disciplinamento di chi si trova in stato di detenzione. Il quarto capitolo si focalizza infine sul tema della prevenzione, ne presenta le diverse accezioni che i vari attori del campo penitenziario le attribuiscono, che vanno dal controllo e dalla ghettizzazione fino a intra­ vedere qualche segnale di apertura ai principi della riduzione del danno. La questione della prevenzione dunque costituisce una particolare lente attraverso cui osservare l'influenza della cultura penitenziaria sulla tutela del diritto alla salute dentro al carcere. Gran parte delle riflessioni contenute nel presente volume derivano dalla realizzazione di una ricerca qualitativa realizzata tra la fine del 2015 e i primi mesi del 2017 4• La ricerca, commissionata dal ministero della Salute e volta ad analizzare l'implementazione della prevenzione e degli interventi di riduzione del danno dentro alle carceri italiane, ha consenti­ to di riflettere e dialogare insieme a quasi 200 persone ( tra operatori sani­ tari, persone detenute, operatori penitenziari ) sul concetto di tutela del­ la salute dentro al carcere e di raccogliere così le particolari angolazioni attraverso cui interpretare le criticità e gli ostacoli che si frappongono a una piena affermazione del principio di equivalenza delle cure. L'intento ultimo è di contribuire, attraverso la lente della tutela della salute, alla ri­ flessione più generale sulla violenza del carcere, sui meccanismi di esclu­ sione dall'accesso ai diritti che connotano tale istituzione e sulle possibili strategie di superamento, sullo sfondo della discussione mai sopita intor­ no alla sua riformabilità o meno.

4· Per una descrizione approfondita della metodologia utilizzata e del campione coin­ volto si rimanda all'Appendice metodologica.

16

INTRODUZIONE Ringraziamenti

Un ringraziamento particolare va a tutti coloro che hanno scelto di con­ dividere le loro opinioni su un tema non facile e su cui, per molti versi, aprirsi può significare attirare su di sé giudizi negativi e stereotipi, con­ siderato che molte delle attività di ricerca sono state svolte in gruppo, tramite focus group e interviste collettive. Con Perla Allegri e Giovan­ ni Torrente abbiamo condiviso svariate trasferte nei penitenziari italiani oggetto della ricerca e discusso a lungo di quanto osservato e assorbito nei vari incontri. Claudio Sarzotti è stato invece costante fonte di prezio­ si consigli e suggerimenti di ricerca.

17

I

Sociologia della salute e sociologia del penitenziario: intersezioni teoriche

I. I La prospettiva costruzionista, tra sociologia della salute e sociologia del carcere

Far dialogare oggetti di studio per molti versi distanti, come l'universo del­ la medicina, da un lato, e lo studio sociologico della privazione della liber­ tà, dall'altro lato, può risultare tanto stimolante quanto complesso•. I lin­ guaggi, in gran parte, fanno riferimento a vocabolari distanti e i significati possono risultare di non facile comprensione per i vari attori coinvolti. In secondo luogo, ci troviamo di fronte a un crocevia di obiettivi, interessi e motivazioni all'agire piuttosto variegato e di non facile ricomposizione. La complessità del frame è legata in primis alla compresenza e intera­ zione di una pluralità di attori portatori di differenti istanze, interessi e va­ lori e che possiamo per semplicità ricondurre a tre macrocategorie : l'area medica, erogatrice dei servizi sanitari, la popolazione detenuta, utente del servizio, e l'area penitenziaria. Quest'ultima, in teoria ormai tendenzial­ mente sempre più estranea per volontà legislativa e per logica di terzietà ri­ spetto all'autonomia del rapporto medico-paziente, nella realtà continua a impersonare un ruolo cogente e la cui presenza è avvertita con forza da tutti gli attori del campo di analisi. La riforma della sanità penitenziaria, che ha visto una lunga gestazione e, considerata la portata del cambiamento, può evidentemente dirsi ancora in corso di implementazione, pur superando la 1. Di recente Cardano (2015) ha tratteggiato l'avvicinamento tra le discipline sociolo­ giche e mediche partendo dal simultaneo sviluppo dell'attenzione sociologica verso il cor­ po e della narrazione in campo medico. 2. Per una descrizione del percorso che ha portato all'approvazione della riforma nel 1999 e alla sua entrata in vigore nel 2008, nonché dei suoi contenuti e delle principali in­ novazioni nell'organizzazione del servizio sanitario penitenziario da essa apportate, si ri­ manda a Libianchi (2oo 8). 19

CURA SOTTO CONTROLLO

logica dell'accentramento del controllo in capo all'amministrazione peni­ tenziaria, cui prima competeva la gestione del servizio sanitario, non può dirsi pienamente compiuta e permangono nodi critici di non facile sciogli­ mento. Tant'è che l'ipotesi già avanzata in altra sede (Ronco, 20I4) è se sia realisticamente ipotizzabile una riformabilità dell'istituzione penitenziaria nella direzione di quanto auspicato dai principi della riforma della sanità3• Il quadro, come intuibile, è complesso e, per districarsi in un tentativo di comprensione di un contesto peraltro piuttosto inesplorato dalla ricer­ ca e letteratura italiane, si è scelto di partire da un approccio che prova a far dialogare la sociologia della medicina di stampo interazionista con la teoria del controllo penale esercitato all'interno dell'istituzione peniten­ ziaria di matrice costruzionista. L'interazionismo simbolico\ come noto, è mosso da un'attenzione microsociologica verso le dinamiche relazionali che vengono osservate da vicino e nel loro quotidiano e ordinario dispie­ garsi. Differentemente dall'impostazione funzionalista, i sociologi intera­ zionisti non sono interessati agli aspetti finalistici dell'ordine sociale, bensì a « coglierne le articolazioni concrete nei rapporti sociali e individuali » (Sbraccia, Vianello, 20IO, p. 34). Lo sviluppo dell'attenzione per le interazioni quotidiane, per i signi­ ficati espressi e condivisi dagli attori sociali, come base per la creazio­ ne di senso e comprensione, si traduce nel campo della sociologia del­ la medicina in una crescente attenzione alla relazione medico-paziente. Il «sick role» coniato da Parsons (I 9 sI) nella sua descrizione strutturai­ funzionalista del social system, per i costruzionisti non va più inteso co­ me l'attore attorno al quale si creano aspettative in un quadro orientato all'ordine sociale, come prescriveva la classica visione organicista che ha caratterizzato a lungo tanto il campo medico quanto quello sociologico5, 3· L'interrogativo sulla misura in cui una riforma della sanità penitenziaria possa inci­ dere sulla trasformazione più ampia dell'istituzione penitenziaria è stato di recente posto da Robert e Frigon (2oo6). 4· George Herbert Mead (1934), padre dell'interazionismo simbolico, ha introdotto il concetto di "sé" come entità che si forma nell'interazione sociale e che va distinto dal "me" ( interiorizzazione del punto di vista dell'altro) e dall'"io" (l'elaborazione autonoma delle dinamiche interazionali). Mead pone così le basi per l'approccio costruzionista e una concezione di realtà che non ha nulla di oggettivo (Sbraccia, Vianello, 2010 ) . S· La visione funzionalista è stata a lungo dominante in sociologia e la figura di Tal­ cote Parsons ne incarna quella versione strutturai-funzionalista che si traduce nel tenta­ tivo dell'autore di « integrare le prospettive di Weber e Durkheim: da un lato si tratta di comprendere in cosa consista l'azione degli individui, dall'altro di vedere come l'azione si inserisca in un quadro di vincoli sovraindividuale » (Jedlowski, 1998, p. 214 ) . li limite

20

I.

SOC IOLOG IA DELLA SALUTE E SOC IOLOGIA DEL PEN ITENZIARIO

bensì acquisisce una propria individualità e legittimità nella costruzione di significati. L'analisi della "conoscenza" che i membri di una società o di un'istituzione hanno diventa essenziale per comprendere la società o l'istituzione stessa ( Berger, Luckmann, I 9 6 6 ) 6• Per i due autori di La realta come costruzione sociale, le teorie vanno prese seriamente in consi­ derazione, certo, ma costituiscono solo una piccola parte, e non certo la più importante, della conoscenza : il livello preteorico, quello della vita quotidiana, costituisce, tra le differenti sfere di realtà che compongono la coscienza, quello preponderante. Da qui si pongono le basi per la nascita e lo sviluppo della prospetti­ va della salute come costruzione sociale ( Ingrosso, I 994 ) e della "medici­ na narrativa" ( Kleinman, I988; Charon, 2006; Good, 2 oo 6 ) , che intende la medicina come un sistema culturale, fatto di « significati simbolici che modellano sia la realtà che definiamo clinica sia l'esperienza che di essa il soggetto malato fa » ( Maturo, 2007, p. 48 ) . Si tratta di una conoscenza narrativa, di tipo qualitativo ed emotivo, che si contrappone alla conoscen­ za biomedica, oggettiva, scevra da valori e volta a quantificare ( Vannatta, Vannatta, 20I3). Così lo stesso Kleinman la definisce nella prefazione a The Illness Narratives: «lllness narratives edify us about how life problems are created, controlled, made meaningful. They also tell us about the way cul­ tura! values and social relations shape how we perceive and monitor our bodies, label and categorize bodily symptoms, interpret complaints in the particular context of our life situation » ( Kleinman, I 988, p. X I I I ) 7. In tale definizione possiamo scorgere vari elementi che caratterizzano una lettura costruzionista della realtà sociale, così come teorizzata in parti­ colare da Berger e Luckmann ( I966 ) . Carricaburu e Ménoret, riprendendo Williams ( I984 ) e Hydén ( I997 ) , distinguono la «malattia come narrazio­ ne » , nel caso in cui narratore, malattia e narrazione afferiscano alla stessa principale di tale prospettiva, da più parti evidenziato, sta nella sua indifferenza rispetto alla comprensione dei conflitti sociali (liquidati come "disfunzioni") e nella conseguente difficoltà a spiegare il mutamento al di fuori di dinamiche evoluzionistiche. 6. Le teorie costruzioniste hanno origine nella sociologia fenomenologica di Schutz (19 32), secondo cui la realtà nella nostra vita quotidiana è ciò che noi crediamo reale e se tale credenza viene validata nell'interazione sociale allora ne deriva che la realtà è una co­ struzione sociale. 7· « Le narrazioni di malattia ci istruiscono su come i problemi quotidiani vengono creati, controllati e resi significativi. Ci dicono inoltre in che termini i valori culturali e le relazioni sociali modellano il modo in cui controlliamo e monitoriamo i nostri corpi, eti­ chettiamo e categorizziamo i sintomi corporali, interpretiamo i malesseri in una situazione specifica » .

21

CURA SOTTO CONTROLLO

persona, dalla «narrazione sulla malattia » , ossia quel tipo di narrazione che trasmette delle conoscenze e idee sulla malattia stessa e dalla «narrazione come malattia » , nel caso in cui sia la narrazione stessa, o la sua inadegua­ tezza, a produrre malattia. In tutti questi casi, raccontare la malattia consen­ te di approcciarsi a essa come costruzione sociale e culturale (Carricaburu, Ménoret, 2007, pp. 155-6) e tale approccio è stato di frequente utilizzato per comprendere i processi di ricostruzione dell'identità che si impongono per esempio in caso di malattie croniche (Bury, 1991; Williams, 1984). La prospettiva costruzionista è stata ampiamente ed efficacemente applicata anche per sviscerare la dimensione del controllo penale eser­ citato all'interno dell'universo carcerario. La letteratura di stampo co­ struzionista applicata a quella fase del processo di criminalizzazione co­ stituita dall'esecuzione penale è molto ampia, sia sul panorama interna­ zionale che, più di recente, su quello italiano8• Anche qui, la prospetti­ va interazionista assume un ruolo di primo piano all'interno della più ampia visione costruzionista. Più in generale, la sociologia carceraria9 si sviluppa soprattutto in seguito agli studi pionieristici condotti in due prigioni di massima sicurezza americane da Donald Clemmer ( 1940) e, nel decennio successivo, da Gresham Sykes (1958) . Entrambi gli autori realizzano dei case studies, osservando da vicino le pratiche e ponendo così le basi per uno studio microsociologico della vita detentiva. Da qui in poi numerosi studi si concentreranno sulla cultura penitenziaria e sul codice del detenuto (Morris, Morris, 1963) 10, dando espressione al pun­ to di vista del condannato (lrwin, 1970 ) , una pratica che sfocerà nello sviluppo della convict criminology (Ross, Richards, 2003; Degenhardt, Vianello, 2010; Ross et al., 2016 ) , con la quale si vuole "dar voce" ai de8. Per una disamina internazionale, un testo che, seppur di un po' di anni fa, presenta la prospettiva costruzionista in contrapposizione a quella correzionalista, con l'indicazio­ ne puntuale a numerosi riferimenti empirici, è quello di Hester e Eglin (1999 ) . Sul versan­ te italiano, tra le pubblicazioni recenti sul tema si segnalano in particolare : Rinaldi e Saitta (2017 ) , Cortino (2016), Sbraccia e Vianello (2010 ) . 9· Per una ricca e aggiornata panoramica sui principali contributi empirici alla so­ ciologia carceraria si rimanda all'introduzione del numero monografico di "Etnografia e ricerca sociale" dal titolo La ricerca qualitativa in carcere ( Sbraccia, Vianello, 2016). Numerose recenti ricerche etnografiche sul carcere a livello internazionale sono invece oggetto del corposo Handbook on Prison Ethography ( Drake et al., 2015), testo in cui si dibattono altresì le principali questioni metodologiche che caratterizzano la ricerca qua­ litativa in carcere. 10. Più di recente, in contesto anglosassone, gli studi sul codice sono stati ripresi e approfonditi dal punto di vista empirico soprattutto da Ben Crewe (2005; 2009; 2012).

22

I.

S O C I O LO G IA D ELLA SALUTE E SO CIO LO GIA D E L PENITENZIARIO

tenuti stessi, affinché siano loro in prima persona a produrre conoscen­ za sul carcere e a descrivere l'impatto della detenzione sulle persone che la sperimentano. All'interno del panorama costruzionista, la sociologia della pena di stampo interazionista, nello specifico, analizza gli effetti della carcera­ zione sulla formazione delle identità e sulle relazioni tra gli attori so­ ciali coinvolti nelle interazioni quotidiane. La teoria dell'etichettamen­ to (Becker, I 9 63 ) ha messo in luce come la persona etichettata come deviante riorganizza la propria identità attorno al concetto di devian­ za. La carcerazione rappresenta la soglia ( Cottino, I 9 9 8 ) oltrepassata la quale si passa dalla devianza primaria a quella secondaria (Lemert, I9SI ) , ossia lo status di deviante diventa egemone nella percezione sia del soggetto su di sé che degli altri nei suoi confronti. Vedremo, nel prosieguo del capitolo e del testo, in che modo con l'ingresso in carcere prenda avvio e si sviluppi il processo di ricostruzione del sé e come le interazioni quotidiane attorno alla questione della salute incidano in tal senso. Nell'e conomia del presente lavoro e nel tentativo di accorpare le teorizzazioni interazioniste sul tema della salute, da un lato, e l'approccio costruzionista alla privazione della libertà dall'altro lato, ci concentreremo sulle interazioni tra gli attori più sopra richiamati (opera­ tori sanitari, persone detenute, operatori penitenziari) e sul senso da loro attribuito sia alle questioni più specificatamente afferenti alla sfera della salute e della malattia, che al quotidiano della detenzione11•

1.2 Dimensioni di salute : primato dell' illness?

La nota triade disease-illness-sickness è piuttosto consolidata nella lette­ ratura internazionale e la sua formulazione richiama la stessa definizione di salute fornita dall'oMs nella sua carta fondativa del I948: uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente assenza di malattie o infermità. 11. La scelta di privilegiare la prospettiva interazionista è strettamente connessa alla metodologia e all'oggetto di studio della ricerca di cui qui si presentano alcuni risultati. Ciò non deve impedire, tuttavia, di volgere lo sguardo alla dimensione macro in cui le interazioni hanno luogo, come le prospettive realista, del conflitto e, in particolare, una teoria "fondata" dell'etichettamento ( Melossi, 19 85) hanno messo in luce.

23

CURA SOTTO CONTROLLO

Andrew Twaddle è stato il primo ad utilizzare tale triade nel 1967, affinandola più di recente e definendo come disease un « health problem that consists of a physiological malfunction that results in an actual or potential reduction in physical capacities an d/ or a reduce d life expectan­ cy » , illness come « a subjectively interpreted undesirable state of health. lt consists of subjective feeling states (e.g. pain, weakness), perceptions of the adequacy of their bodily functioning, an d/ or feelings of compe­ tence » , e sickness « a soci al identity. lt is the p o or health or the health problem(s) of an individuai defined by others with reference to the social activity of that individuai » ( Twaddle, 1994, pp. 8-u)n. Se il concetto di disease fa riferimento a un fenomeno organico e fisiologico, indipenden­ te dall'esperienza soggettiva e dalle convenzioni sociali, quello di illness abbraccia invece la percezione soggettiva dell'individuo descritta dai sin­ tomi, mentre quello di sickness rimanda a un fenomeno sociale che pone le basi per una serie di diritti e doveri ( Hofman, 200 2 ) . Il dibattito scaturito da tale concettualizzazione è ampio e comples­ so. Una parte di esso si è concentrato in particolare sull'esistenza o meno di corrispondenze e legami tra i tre elementi descritti, dato per assodato che la coesistenza di disease, illness e sickness è un caso piuttosto paradig­ matico e che nella prassi si riscontrano soprattutto casi spuri (ossia della presenza di soltanto uno o due degli elementi della triade). Se Twaddle sembra ipotizzare una sorta di consequenzialità tra una disease che sfocia in illness, che a sua volta sfocia in sickness, Nordenfelt (1994), all'opposto, considera i tre elementi come distinti e facenti parte di una tricotomia. Hofman evidenzia i limiti di entrambe tali posizioni, definendo la prima troppo semplicistica e la seconda difficile da difendere. L'autore indivi­ dua piuttosto la presenza di confini sfumati tra le dimensioni biomedica, soggettiva e sociale della salute e di reciproche influenze e interrelazioni, riconoscendo altresì il primato dell'illness13• Tale primato deriverebbe dal fatto che, da un punto di vista etico, i casi che vedono la presenza esclu12. Disease: «problema di salute che consiste in un malfunzionamento fisiologico che determina una concreta o potenziale limitazione delle capacità fisiche e/ o una ridotta aspettativa di vita » ; illness: « uno stato di salute soggettivamente considerato come indesi­ derato. Si tratta di percezioni soggettive (come la sofferenza, la debolezza) che riguardano il funzionamento e le capacità corporali»; e sickness: «un'identità sociale. Riguarda i pro­ blemi di salute di un individuo così come definiti da altri nell'ambito dell'attività sociale di quell'individuo». 13. Per una rassegna degli studi condotti sull'illness experience dagli albori fino a primi anni Duemila, cfr. Pierret (2003 ) . 24

I.

S O C I O LO G IA D ELLA SALUTE E SO CIO LO GIA D E L PENITENZIARIO

sivamente di disease el o sickness sollevano questioni e interrogativi ben più profondi dei casi in cui sia presente invece una percezione da parte dell'individuo dell'esistenza di un problema di salute14• Il postulato del primato della dimensione dell' illness ( Hofman, 20 0 2 ) risulta quanto meno vacillare all'interno del contesto carcerario. Tale dimensione, si è visto, fa riferimento ai significati personali attribu­ iti alle proprie condizioni di salute e di malattia e incarna elementi che sono espressione della cultura in cui si è immersi. Se il modo in cui il sog­ getto malato attribuisce senso e significato alla propria condizione non sempre prevale sulla visione biomedica dello stato di salute e di malat­ tia, questo risulta accentuato all'interno del carcere, per via di un intrec­ cio tra fattori strutturali e fattori culturali che si frappongono alla pie­ na legittimazione del punto di vista del soggetto detenuto. Si vedrà, per esempio, come il rapporto di fiducia medico-paziente venga ampiamente ristrutturato all'interno del contesto penitenziario e come una sfiducia trasversale permei le interazioni tra i vari attori. Se la triade disease-illness-sickness costituisce un utile strumento ana­ litico per comprendere la varietà dell'oggetto salute/malattia, essa al con­ tempo può creare le condizioni per una lettura della medicina in termini di disuguaglianza di potere e aprire le porte alle considerazioni in tema di medicalizzazione delle società contemporanee. Come scrive Illich la sofferenza e l'infermità inflitte dai medici hanno sempre fatto parte della pra­ tica medica. L'insensibilità professionistica, la negligenza e la mera incompeten­ za sono forme di malapratica antiche come il mondo. Ma da quando il medico ha cessato di essere un artigiano che esercitata un'arte su individui che conosce­ va di persona ed è diventato un tecnico che applica regole scientifiche a classi di pazienti, la malapratica ha assunto un carattere anonimo, quasi rispettabile. Ciò che una volta era considerato un abuso di fiducia e una colpa morale ora può essere razionalizzato come una fortuita disfunzione dell'apparecchiatura o dei suoi operatori. Nella complessa tecnologia di un ospedale la negligenza diventa "casuale errore umano" o "avaria del sistema", l'insensibilità "distacco scientifi­ co" e l'imperizia "mancanza di attrezzature specializzate". La spersonalizzazione della diagnosi e della terapia ha cambiato la malapratica da problema etico a problema tecnico (Illich, 1 9 75 , trad. i t. p. 37 ).

14. Tale primato non è peraltro universalmente condiviso. Young (1982), per esempio, sottolinea come il concetto di sickness consenta di abbracciare la dimensione del potere e delle disuguaglianze sociali presenti in un dato contesto sociale che la mera attenzione sull'illness non consente ( cit. in Maturo, 20 07, p. uo ) .

25

CURA SOTTO CONTROLLO

La dimensione del potere assume una particolare rilevanza nella relazione medico-paziente detenuto, così come le evoluzioni dei processi di medica­ lizzazione intraprendono traiettorie specifiche spesso in controtendenza rispetto all'esterno, segnale, tra i tanti, della separatezza di tale istituzione dal contesto sociale in cui è inserita. La stessa definizione di salute fornita dall'oMs è di per sé sì avanzata ma altrettanto impegnativa e di non facile attuazione in un contesto glo­ bale sempre più in rapida evoluzione e con confini d'azione del campo sa­ nitario spesso fluidi; e questo sembra valere a maggior ragione nel contesto penitenziario, dove, come vedremo, l'intreccio tra la materialità del carcere e la cultura penitenziaria incide in maniera marcata sulla rinegoziazione dei confini tra area sanitaria e area penitenziaria auspicata dalla riforma richiamata, rendendo particolarmente difficile garantire il principio dell'e­ quivalenza della cure (Ronco, 2016).

1.3 Processi di medicalizzazione e controllo sociale

Il concetto di medicalizzazione trova spazio nella letteratura sociologica soprattutto a partire dagli anni Settanta e in gran parte in seguito alla pub­ blicazione del noto volume di lvan Illich Nemesi medica (197 5). Tale opera costituisce un'accusa alla dominanza professionale medica e alla sua esten­ sione, tale da assumere la forma di controllo sociale. Più in generale, Illich denuncia i processi di iatrogenesi sociale, che determinano « l'induzione di nuovi bisogni sanitari, l'ospitalizzazione di ogni forma di sofferenza, l'in­ vasione farmaceutica e l'imperialismo diagnostico, l'ampliamento della giurisdizione medica su episodi della vita definiti come "a rischio", o de­ scritti come vere e proprie sindromi, le derive medicalizzate nel campo del­ la prevenzione » (Bronzini, 2013, p. 53). Tramite la medicalizzazione, un problema viene costruito come pato­ logia e i linguaggi e le pratiche mediche vengono estese a vari ambiti del­ la vita quotidiana (Zola, 1983), attraverso un processo di « espansionismo medico » (Maturo, 2007, p. 98). Da un punto di vista istituzionale, i pro­ cessi di medicalizzazione sono correlati alla professional dominance svisce­ rata in primis da Freidson (197 0 ), che è tra i primi ad avere analizzato la relazione medico-paziente in termini di controllo ed esercizio di potere del primo sul secondo. Più di recente, Tousijn ( 2004) ha poi distinto tra quattro tipi di dominanza professionale : quella gerarchica, intesa come p o-

I.

S O C I O LO G IA D ELLA SALUTE E S O C IOLO GIA D E L PENITENZIARIO

tere dei primari ospedalieri su infermieri e tecnici: quella funzionale, intesa come il potere diagnostico e di scelta della terapia da somministrare; quella scientifica, ossia la prerogativa di decidere che cosa è salute e che cosa no ; quella istituzionale, che consiste nell'esercitare un controllo su alcune isti­ tuzioni di primaria importanza come i dipartimenti universitari medici. Il concetto di medicalizzazione è tuttavia ben più ampio rispetto al punto di vista strettamente istituzionale e abbraccia l'intero processo attra­ verso cui «problemi non medici vengono definiti e trattati come problemi medici » (Maturo, 2007, p. 98; Conrad, I992 ) 15• È chiaro come posto in questi termini il fenomeno risulti di particolare interesse per un approccio costruzionista, attento alla costruzione dei socialproblems. Scrivono Spec­ tor e Kitsuse : « Every experience of displeasure and dissatisfaction has its origins in the availability, if not premise, of remedies, cures, reforms, and solutions for such troubles. Those who promulgate standards and who claim expertise and healing methods may suggest that conditions previous­ ly thought to be unchangeable or p art of human nature can be ameliorat­ ed. By defining, giving a name to, and developing a theory to account for this trouble, they make i t possible for others to experience as unsatisfactory some aspects of their environment that previously they had been unaware of» (Spector, Kitsuse, 200 I, pp. 84- 5)16• In tal senso il sapere medico diven­ ta strettamente connesso al controllo sociale e il sapere degli esperti diventa dominante su un numero crescente di aspetti della vita quotidiana dei pa­ zienti. E che questo avvenga in un contesto di « neutralità morale della me­ dicina » , dove i dottori « agiscono in maniera affettivamente neutrale [ . .. ] ponendo gli interessi dei loro pazienti in cima ai loro interessi personali » , risulta quantomeno troppo ottimistico ( Chriss, 20 o 8). Lo stesso Parsons ( I 9SI; I 97S ) , in un'ottica funzionalista diametralmen­ te opposta a quella costruzionista, aveva posto le basi della figura del me15. Conrad (1992), in particolare, sottolinea come la medicalizzazione consista nel definire un problema in termini medici, ricorrere a un linguaggio medico per descriverlo, utilizzare un approccio medico per comprenderlo o ricorrere a un intervento medico per "trattarlo", attraverso un processo socio-culturale che non necessariamente chiama diretta­ mente in causa la professione medica. 16. «Ogni esperienza di dispiacere e insoddisfazione ha origine nella disponibilità di rimedi, cure, cambiamenti e soluzioni a tali problemi. Chi propone standard e sostiene l'importanza dell'esperienza e dei metodi di guarigione può far passare il messaggio che condizioni prima considerate immutabili o parte della natura umana possano essere mi­ gliorate. Definendo, etichettando e sviluppando una teoria per spiegare il problema, fanno sì che altri interpretino come inaccettabili alcuni aspetti del loro ambiente di cui prima erano inconsapevoli».

27

CURA SOTTO CONTROLLO

dico come controllore sociale ( Conrad, 199 2 ) : nel considerare la malattia una forma di devianza da neutralizzare per riportare la persona malata nelle condizioni di svolgere quelle attività sociali che svolgeva prima di amma­ larsi, l'autore attribuiva alla medicina il ruolo di controllo della devianza e di mantenimento dell'ordine sociale ( Carricaburu, Ménoret, 2007 ) . Tra le numerose critiche al concetto di sick role parsonsiano (una sorta di "devian­ te involontario") è frequente quella relativa all'unilateralità della cura e alla necessità di fatto, per il paziente, di subordinarsi pienamente al medico, dando peraltro per scontata la sua compliance (Maturo, 2007 ). È soprattut­ to grazie al contributo di Freidson (197 0 ) che può prendere avvio quell'o­ pera di rivalutazione dell'esistenza del paziente come «attore dell'impresa medica » ( Carricaburu, Ménoret, 2007 ), sebbene lo squilibrio di potere tra medico e paziente faccia sì che il professionista sia il primo imprenditore morale17 della salute. Nonostante infatti si tenda a considerare l'attività del medico quanto mai distante dalla morale e da qualsivoglia forma di giudi­ zio, secondo la prospettiva costruzionista la stessa definizione di malattia in quanto tale è un'impresa morale : quando il medico definisce l'alcolismo una malattia è un imprenditore morale al pari di un religioso che afferma che è peccato (Freidson, 197 0 ). Definire malattia un comportamento in precedenza considerato un peccato può perseguire lo scopo umanitario di evitare una reazione punitiva, ma non scoraggia dal condannare quel com­ portamento. Ciò che cambia, secondo Freidson, è l'oggetto del giudizio, che passa dall'individuo alla sua malattia, la quale tuttavia identifica co­ munque il soggetto come responsabile, soprattutto nell'epoca dell'indivi­ dualizzazione della responsabilità di prevenire i rischi.

1 .4 Evoluzioni della medicalizzazione e del dominio medico

Fin dai primi anni Novanta, parallelamente all'espandersi dei processi di medicalizzazione, si è assistito a qualche segnale di crisi della dominan­ za medica (Branzini, 2013 ) . Da un punto di vista teorico, in particola­ re, prende avvio un processo di distinzione tra medicalizzazione e do­ minio medico. Conrad ( 19 9 2 ) mette in luce come la prima vada con17. ll concetto di "imprenditore morale" è stato introdotto da Becker (1963) per de­ scrivere le attività di chi si fa fautore di "crociate morali" allo scopo di creare o applicare le leggi e in tal senso, in chiave costruzionista, crea la devianza.

I.

S O CIOLO G IA D ELLA SALUTE E SO CIOLO GIA D E L PENITENZIARIO

siderata un processo interattivo che non è necessariamente frutto del­ l'"imperialismo dei medici" e come i pazienti spesso siano attivamente coinvolti nei processi di medicalizzazione o comunque pongano delle resistenze alla medicalizzazione stessa. Da un lato lo sviluppo di pote­ ri professionali paralleli a quello medico (come quello infermieristico) e alternativi, come quello delle medicine non convenzionali (Branzini, 20I3 ) , dall'altro lato l'emergere della figura del paziente esperto (Furedi, 2oo 6 ) sembrano aver quanto meno incrinato il dominio dei medici così come originariamente inteso. Tali assunti non sono tuttavia pienamen­ te condivisi ( Tousijn, 20IS) e da più parti è stato messo in luce come il modello affermatosi del "paziente informato" altro non sia che un nuovo paradigma sulla salute che, pur rimodellandola, non fa che rinforzare la medicalizzazione stessa ( Fox et al. , 20 0 5 ). Altri autori (Chriss, 2oo8) mettono in luce le svariate sfaccettature che può assumere la funzione di controllo esercitata dalla medicina e come la medicalizzazione non abbia uno sviluppo unidirezionale : processi di de­ medicalizzazione, per esempio, coesistono e si intervallano a processi di medicalizzazione e di biomedicalizzazione. Quest'ultimo è quel fenomeno per cui il ruolo dell'essere umano perde progressivamente rilevanza nella cura e nel trattamento dei problemi di salute per cedere il posto al primato riconosciuto a interventi tecnologici e farmacologici. Accade così che «gli esseri umani fanno ricorso con regolarità crescente ai farmaci anche per i più piccoli mal di testa o dolori legati alla vita moderna. Questo costituisce il cuore della biomedicalizzazione, forma progressivamente crescente del controllo medico » (ivi, p. 52). Nelle società contemporanee, inoltre, sono spesso gli stessi individui a presentare istanze per una risoluzione medica di problemi che in altri contesti non venivano considerati in termini medici (Furedi, 2oo 6). Tale processo va di pari passi con la progressiva individua­ lizzazione della responsabilità in tema di salute che ha caratterizzato la fine del ventesimo secolo. Il welfare state di stampo liberale promuove un mo­ dello di salute pubblica che attribuisce al singolo la responsabilità di con­ durre uno stile di vita in cui la prevenzione dei rischi - anche di carattere sanitario - diviene una priorità del corpo sociale (Douglas, I996; Castel, I99I ) 1 8 • Il mito di una popolazione perfettamente in salute (e dunque de18. L'influenza dei concetti di biopolitica e governamentalità di matrice foucaultia­ na si evidenzia qui nella possibilità di gestire il corpo sociale attraverso l'interiorizzazione del mito della salute pubblica e della conseguente individualizzazione delle responsabilità (Nye, 2003). 29

CURA SOTTO CONTROLLO

medicalizzata) paradossalmente e ironicamente può essere raggiunto solo attraverso l'interiorizzazione e l'adozione di uno stile di vita pienamente medicalizzato (Nye, 2003). Quello dell'evoluzione del concetto di medicalizzazione è dunque un tema molto complesso e nel tracciarlo occorre tener conto di più ampie tra­ sformazioni delle società contemporanee : il profilarsi della figura del "pa­ ziente esperto", per esempio, ossia di colui che acquisisce competenze e in­ formazioni di carattere sanitario in rete o tramite l'appartenenza a gruppi di cittadini e organismi che promuovono l' empowerment dell'individuo in campo medico, è chiaramente connesso agli sviluppi della comunicazione e dell'interazione sociale del nuovo millennio. Se è indubbio che i proces­ si di medicalizzazione abbiano subìto trasformazioni significative anche in ragione delle più ampie evoluzioni globali, resta aperto il dibattito su quanto il dominio professionale medico sia stato scalfito da tali processi. Si è visto come accanto a posizioni più marcatamente orientate a sottolinea­ re la fine del dominio medico (almeno così come originariamente inteso) permangano posizioni più inclini a porre l'accento sulla mera riconfigura­ zione di tale dominio. L'economia del presente lavoro e le competenze di chi scrive non con­ sentono di sviscerare le variabili che incidono sull'esercizio della professio­ ne medica come controllo sociale nel suo complesso, tema ampio e artico­ lato. Nel prosieguo del testo ci limiteremo quindi a circoscrivere il campo di applicazione di tale frame al contesto penitenziario, per individuare le peculiarità dell'interazione medico-paziente detenuto e la particolare fun­ zione di controllo in capo al professionista sanitario che opera in un conte­ sto di privazione della libertà personale.

I .S La relazione di cura in carcere : il controllo onnipresente

La riforma della sanità penitenziaria italiana (D.Lgs. 22 giugno 1999, n. 230 ) , entrata in vigore il 1° aprile 2008, si inserisce in un quadro europeo e internazionale fatto di pressioni sugli Stati per l'integrazione del servizio sanitario penitenziario al servizio sanitario pubblico. Con l'approvazione della riforma l'Italia risponde dunque alle ripetute sollecitazioni a cui mol-

I.

S O CIOLO G IA D ELLA SALUTE E SO CIOLO GIA D E L PENITENZIARIO

ti altri Stati europei19 avevano risposto da tempo ( Coyle, 2004 ) , ottempe­ rando così alle prescrizioni sia dell'oMs ( Hayton et al., 20IO ) , sia delle Eu­ ropean Prison Rules ( E P R) , che prescrivono che «i servizi sanitari in car­ cere siano organizzati in stretta relazione con l'amministrazione ordinaria della salute nella comunità o nazione » ( art. 40.2 E P R) e che « le politiche sanitarie in carcere siano integrate con le politiche sanitarie nazionali e con esse compatibili » ( art. 40.3 ) . La normativa europea fa riferimento all'o­ biettivo specifico alla base di tali disposizioni : «l detenuti devono avere accesso ai servizi sanitari disponibili nel paese senza discriminazione sulla base della loro posizione giuridica » (ibid.), così come prescritto anche dal programma Health 20 20 ( Kickbusch, Behrendt, 20I3; WH O , 20I3 ) . Il principio dell'equivalenza delle cure è strettamente connesso al principio della salute come diritto fondamentale, contenuto nella Carta costituzionale italiana, che all'art. 32 recita « La Repubblica tutela la sa­ lute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettivi­ tà, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto del­ la persona umana » . La riforma della sanità penitenziari a ruota attorno al principio dell'equivalenza delle cure disciplinando così, all'art. I del D.Lgs. 23 0/!999, il diritto alla salute dei detenuti e degli internati : I detenuti e gli internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, effica­ ci ed appropriate, sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute e dei livelli essenziali e uniformi di assistenza individuati nel Piano sanitario nazionale, nei piani sanitari regionali e in quelli locali. Il Servizio sanitario nazionale assicura, in particolare, ai detenuti e agli internati livelli di prestazioni analoghi a quelli garantiti ai cittadini liberi.

Se il piano normativo è dunque chiaro e ormai uniforme a livello naziona­ le ed europeo in termini di quali principi debbano orientare la tutela del diritto alla salute in carcere, uno sguardo sociologico non può fermarsi al livello della legge scritta e si propone invece di produrre riflessioni sull'ap­ plicazione e/ o sull'applicabilità della norma. Per questo diventa prioritario analizzare le interazioni all'interno del campo sanitario penitenziario e ri19. Per una ricostruzione della riforma della sanità penitenziaria nella vicina Francia, entrata in vigore con più di dieci anni di anticipo rispetto al nostro paese, si rimanda a Milly (2oo1). 31

CURA SOTTO CON TROLLO

flettere sulle variabili che incidono sull'applicazione della norma in que­ stione, che di fatto rendono l'equiparazione tra paziente libero e detenuto «poco più che un miraggio » (Petrini, 2016, p. 182). La variabile numero uno a tal proposito è rappresentata dal controllo, onnipresente all'interno dell'istituzione totale. La tensione tra care e con­ tro/ connota una pluralità di tipi di relazioni operatore-utente, tanto nel campo dei servizi sociali quanto in quello medico ed è stata ampiamente discussa soprattutto dalla letteratura anglosassone. Nel campo dei servizi sociali, la tensione riflette la doppia lealtà che l'operatore è chiamato ad agire, nei confronti della società e nei confronti dell'utente, portatori di interessi tra loro spesso confliggenti (Bondeson, 1994). Gli operatori si tro­ vano così nel quotidiano a vivere un conflitto di ruolo : «tra lealtà istituzio­ nale e relativo rispetto dei vincoli e delle regole del risparmio, e gli obblighi della professione che richiede loro complicità con gli utenti e risposte riso­ lutive dei loro bisogni e problemi » (De Leonardis, 1990, p. 159 ) . Sul campo specifico della relazione tra operatore sociale della giusti­ zia e utente detenuto, controllo e assistenza sono stati letti altresì come espressioni della (presunta) contrapposizione tra cultura paterna e cultu­ ra materna (Sarzotti, 1999 ). Partendo dalle considerazioni sull'esistenza di un conflitto sommerso, all'interno di ogni istituzione totale, tra impe­ rativi custodiali e imperativi trattamentali, Sarzotti delinea le principali differenze tra i due modelli idealtipici individuati. Tuttavia, l'autore met­ te in luce come nella realtà codice paterno e materno si sovrappongano e le "amorevoli" cure della madre-prigione, simbolizzata dal trattamenta­ le, manifestino un potere di assoggettamento sottile e spesso ancor più pervasivo attraverso cui si esprime «l'ambigua dolcezza » della prigione. La "doppia lealtà", potenzialmente e frequentemente conflittuale, nei confronti delle istanze del paziente detenuto e di quelle dell'istituzio­ ne, connota anche la figura dell'operatore sanitario che lavora in carce­ re (Pont et al. , 2012; Prout, Ross, 1988). Il medico che opera in contesto penitenziario si trova ad un crocevia tra le istanze della professione che impongono di mettere al centro del suo operato la salute del paziente e le istanze securitarie che sono onnipresenti all'interno dell'istituzione penitenziaria. Detto in altri termini, il conflitto tra il mandato del Giu­ ramento di lppocrate e l'istanza punitiva può tradursi nella tensione tra il perseguimento del principio dell'equivalenza delle cure e quello che Cullen (199 5 ) ha definito «p enal harm movement» , quel movimento che raccoglie le istanze di chi ritiene che l'essenza della sanzione penale deb­ ba essere infliggere una sofferenza. Questa visione evidentemente stride 32

I.

S O CIOLO G IA D ELLA SALUTE E S O C IOLOGIA D E L PENITENZIARIO

con l'impegno per la promozione della salute dei detenuti e considera piuttosto l'assistenza sanitaria un «lusso » che la popolazione detenuta non merita di ricevere ( Vaughn, Carroll, I 998). L'esistenza per molti an­ ni, nel nostro come in molti altri paesP'0, di un servizio sanitario inglo­ bato dall'istituzione penitenziaria ha fatto sì che la professione medica si sia trovata a lungo nel bel mezzo di tali tensioni. La riforma della sanità penitenziaria è intervenuta su tale aspetto, prescrivendo una più marcata separazione tra le competenze di cura e quelle di sicurezza all'interno degli istituti penitenziari. Quello che oc­ corre appurare è se e in che misura lo strumento normativo possa effica­ cemente intervenire su una tensione che da più parti è ritenuta intrinseca all'istituzione totale e che non potrà essere superata fintanto che dentro al carcere esisteranno reti formali e informali di potere (Sim, 200 2) , il che equivale a dire finché esisterà tale istituzione.

1.6 Ricostituzione del sé e della cultura professionale in carcere

L'istituzione penitenziaria è il luogo della ricostituzione dell'identità per eccellenza. E questo vale sia, soprattutto, per il sé dell'individuo che entra in carcere e acquisisce lo status di detenuto, sia, in misura minore e variabi­ le, in termini di impatto sull'appartenenza e adesione a una specifica cul­ tura professionale che opera in tale contesto. In entrambi i casi, seppur in misura e modalità diversa, l'istituzione penitenziaria agisce riplasmando l'orizzonte normativo che orienta il soggetto. Per quanto riguarda il soggetto recluso, l'ingresso in carcere costitui­ sce una « cerimonia di degradazione di status » (Garfinkel, I9 56, p. 42I ). I processi di mortificazione del sé e spoliazione che accompagnano, simboli­ camente e materialmente, il momento dell'ingresso, sono stati ampiamen­ te sviscerati dalla sociologia delle istituzioni totali. La persona che entra nell'istituzione totale, scrive Goffman ( I96I, trad. it. p. 44), « è sottoposta ad una serie di umiliazioni, degradazioni e profanazioni del sé che viene si­ stematicamente, anche se spesso non intenzionalmente, mortificata » . È da questo momento che prende avvio il processo di p rigionizzazione ( Clem20. Una delle rare e approfondite ricostruzioni del consolidamento del potere medi­ co in carcere e delle sue evoluzioni nel tempo è stata scritta da Sim (1990), relativamente al caso inglese.

33

CURA SOTTO CONTROLLO

mer, 1940) e di ricostruzione del sé attorno allo status di detenuto. E il sé, nell'accezione di Mead (1934), non va inteso come spirito interiore, bensì è frutto dell'interazione sociale e dei processi di socializzazione. La condi­ zione della persona alla prima detenzione è molto simile a quella descritta da Schutz (1962) dello straniero che, entrando a far parte di un gruppo a lui sconosciuto, si trova in una situazione in cui nulla è più ovvio per lui ed en­ tra in crisi: deve abbandonare un senso comune e impararne uno nuovol.I. Tale processo assorbe in maniera totalizzante la persona che assume il ruolo di detenuto ma coinvolge in misura variabile chiunque entri a con­ tatto con l'istituzione penitenziaria per via del suo «potere inglobante » (Goffman, 1961, trad. it. p. 41) , attraverso la particolare forza che assumo­ no i processi di istituzionalizzazione all'interno del carcere. La lente so­ ciologica è attenta tanto alla ricostruzione del sé che caratterizza l'ingres­ so in carcere quanto al processo di influenza sulla cultura professionale di chi opera all'interno dell'istituzione. L'obiettivo primo del carcere, la sicurezza, è un mantra ricorrente tra gli operatori penitenziari e finisce per essere agevolmente interiorizzato in una certa misura da chiunque trascorra una parte del suo tempo (professionale, sotto forma di volonta­ riato ecc.) all'interno della prigione. Il punto di incontro tra i due aspetti (il sé e la cultura professionale) è rappresentato dalle norme e dai valori che influenzano gli attori sul cam­ po. Come hanno messo in luce Sbraccia e Vianello (2016 ) , una parte della ricerca etnografica sul carcere ha proposto il superamento della netta di­ stinzione tra il codice del detenuto (Sykes, 19 58; Crewe, 2012; 2005) da un lato e la cultura dello staff dall'altro lato. L'osservazione qualitativa dell'i­ stituzione penitenziaria consente infatti di avvalorare l'idea proposta dallo stesso Sykes già negli anni Cinquanta del xx secolo, secondo cui un'ampia adesione al codice del detenuto svolge in realtà una funzione di manteni­ mento dell'ordine istituzionale, che nelle società contemporanee assume sempre più la veste di un carcere il più possibile «pacificato » (De Vito, 200 9 ) . Vari sono gli spunti di riflessione in tal senso, per superare l'assun­ to che vi sia una netta contrapposizione tra l'adesione a regole informali contenute nel codice da parte dei detenuti, da un lato, e l'espressione delle 21. La sociologia fenomenologica, cui gli scritti di Schutz hanno dato avvio, defini­ sce il senso comune come il «pensiero in cui siamo immersi nel quotidiano» (Jedlowski, 1998, p. 238), ossia quell'insieme di automatismi che ci consentono di affrontare la vita quotidiana senza porsi domande non necessarie. Esso viene appreso attraverso i processi di socializzazione.

34

I.

S O CIOLO G IA D ELLA SALUTE E S O C IOLOGIA D E L PENITENZIARIO

regole formali da parte dello staff, dall'altro latoll. La realtà descritta dalla ricerca sul campo è fatta piuttosto di confini sfumati e di un modello ideale di comportamento del detenuto che è definito come tale sia dai prigionieri che dallo staff (Vianello, 20IS ) . Il "saper farsi la galera" finisce per mette­ re d'accordo detenuti e staff, nel momento in cui consente di perseguire, in ultima istanza, l'interesse dell'istituzione : il mantenimento dell'ordine. A tale processo di influenza dei valori e delle norme è esposta in qual­ che misura anche la figura del medico penitenziario. Il dibattito sul con­ flitto tra il mandato del Giuramento di Ippocrate e l'istanza punitiva che accompagna l'esecuzione penale è di lunga data, come si è visto nel para­ grafo precedente. Sim ( I 9 9 0 ) ricostruisce come storicamente la figura del medico in carcere sia sempre stata coinvolta nei processi di controllo e di­ sciplinamento. Il confine tra trattamento medico e disciplina non è sem­ pre così netto (Neisser, I 977 ) e se questo emerge soprattutto in ambito psichiatrico (si pensi alla contenzione, fisica o farmaceutica che sia) , nel prosieguo del testo vedremo come esso permei in realtà tuttora gran par­ te della quotidianità detentiva, chiamando in causa le condizioni strut­ turali della detenzione. L'influenza della cultura penitenziaria, da un lato, e la struttura car­ ceraria in sé, dall'altro lato, diventano due variabili che incidono sulla cultura professionale del medico e, conseguentemente, sull'esercizio del­ la sua professione.

1 .7 Il terzo non escluso : l'amministrazione penitenziaria

La riforma della sanità penitenziaria, si è detto, ha posto le basi per la sepa­ razione di competenze all'interno degli istituti penitenziari: al ministero della Sanità quelle in materia sanitaria, al ministero della Giustizia quel­ le in tema di sicurezza. Il principio di separatezza, tuttavia, è sottoposto dalla stessa legge a tutta una serie di limitazioni, che si materializzano nel­ le frequenti intersezioni tra i due ambiti. L'art. 4, comma 3°, del D.Lgs. 22. Sarzotti (200 7 ) suggerisce a questo proposito di tener conto di tutte quelle norme contenute nel cosiddetto « infradiritto» delle pratiche penitenziarie, ossia di tutte quelle relazioni in formali ( ma che comunque hanno a che fare con messaggi normativi di tipo giuridico) tra popolazione detenuta, operatori penitenziari e soggetti esterni all'istituzione penitenziaria. 35

CURA SOTTO CON TROLLO 230/1999, per esempio recita : « Il personale appartenente al Servizio sa­ nitario nazionale è tenuto all'osservanza delle norme previste dall'ordina­ mento penitenziario, dal relativo regolamento di esecuzione, dal regola­ mento interno dell'istituto penitenziario, nonché delle direttive impartite dall'amministrazione penitenziaria e dal direttore dell'istituto medesimo in materia di organizzazione e sicurezza » . Tale disposizione, in sé, impli­ ca sul piano concreto una forte limitazione del principio di autonomia nei confronti dell'area sanitaria. A livello operativo, questo significa che gli operatori penitenziari mantengono evidentemente un significativo potere di imporre il primato della sicurezza e di subordinarvi la tutela della salute. Questo avviene principalmente per due ragioni. Da un lato, svariati fattori organizzativi impongono un'interferenza nella gestione del servizio sanitario. Ogni spostamento della persona de­ tenuta, sia dentro il carcere che all'esterno, implica un intervento dell'am­ ministrazione penitenziaria. Per incontrare un medico, la persona detenu­ ta deve recarsi in infermeria e, salvo i rari esempi di libertà di movimento in autonomia tra le mura della prigione, dovrà essere accompagnata da un agente di polizia penitenziaria o, quanto meno, questi dovrà aprire le por­ te della cella e della sezione. Se, poi, per movimento si intende il trasferi­ mento in un presidio esterno per accertamenti o visite specialistiche non effettuabili all'interno del carcere, il sanitario dovrà informare la direzione del carcere affinché avvii l'iter burocratico per organizzare l'accompagna­ mento con scorta. La ricerca ha confermato, con una serie di esempi prati­ ci, i numerosi ostacoli che spesso si frappongono alla libertà di movimento dentro e fuori dal carcere. Il numero di visite da parte di un medico può ri­ dursi anche significativamente rispetto a quanto formalmente previsto dal suo orario di lavoro, perché, soprattutto negli istituti più grandi, i tempi per accedere alla stanza in cui si effettuano le visite, così come quelli per far "scendere il detenuto a visita" ecc., possono dilatarsi di molto. Alcuni me­ dici hanno lamentato per esempio l'impossibilità di far accompagnare in infermeria le persone detenute durante l'orario di pausa pranzo degli agen­ ti. Anche tutta una serie di prassi attinenti all'erogazione di cure all'interno del carcere, come la distribuzione dei farmaci, determinano un'interazione con la polizia penitenziaria che, a seconda dei contesti e degli attori coin­ volti, esercita un ruolo più o meno collaborativo nell'agevolazione dell'e­ rogazione di tutta una serie di servizi. Sul livello di cooperazione incidono sia le direttive inviate dalla di­ rezione dell'istituto, a dimostrazione della rilevanza della variabile lea­ dership nell'influenzare la vita detentiva (Buffa, 2013 ) , sia il potere di-

I.

S O CIOLO G IA D ELLA SALUTE E SO CIOLO GIA D E L PENITENZIARIO

screzionale del singolo operatore. Per quanto riguarda il primo aspetto, la direzione può mostrarsi più o meno coraggiosa nell'agevolare il mo­ vimento all'interno dell'istituto, per esempio consentendo l'accesso dei medici direttamente in sezione (in casi tuttavia piuttosto rari) oppure richiedendo l'accompagnamento di ogni detenuto nell'unica infermeria del carcere. Per quanto riguarda il secondo aspetto, l'operatore di polizia penitenziaria può essere più o meno solerte nell'accompagnare il detenu­ to, nell'aprire il cancello al medico ecc. Si tratta di esempi di carattere organizzativo spesso però influenzati a loro volta da manifestazioni della cultura penitenziaria. Questo emerge in particolar modo dalla volontà manifestata da vari attori penitenziari di continuare a voler essere coinvolti nella gestione della salute del detenu­ to, attraverso la messa a conoscenza di dati sanitari, delle motivazioni per cui un medico chiede un trasferimento presso un presidio esterno ecc. A fronte di frequenti istanze di deresponsabilizzazione da parte dell' am­ ministrazione penitenziari a in tema sanitario (che si traducono talvol­ ta anche nella richiesta di spostare all'esterno del carcere la gestione di alcune problematiche più spiacevoli da gestire, come la salute psichica) , permane un'istanza di controllo su tutto ciò che caratterizza la quotidia­ nità detentiva, tutela della salute compresa, anche inglobandola nella più generale funzione attribuita alla pena. L'istanza punitiva che spesso ne scaturisce può assumere molte sfac­ cettature, come il considerare inopportuna l'offerta di servizi sanitari in maniera analoga all'esterno ( Vaughn, Carroll, I 99 8 ) . Tale istanza proma­ na da una cultura penitenziaria che incarna una visione sostanzialmente punitiva della detenzione e che, come vedremo, si fonda su un approccio "premiale" che finisce per abbracciare anche l'esercizio del diritto alla salute. « Qua devi essere simpatico e gentile. Così ti passano per le visite mediche, scrivono la prossima settimana vieni al posto di lui che è antipa­ tico. Se ti prendono in mal a maniera sei fottuto » , è il commento di una persona detenuta durante unfocus group. L'affermazione rivela una lettu­ ra, tanto semplicistica e provocatoria quanto puntuale, della più grande evoluzione che ha caratterizzato il periodo post riforma del I 97S· vale a dire la premialità nell'elargizione del trattamento penitenziario. L'acces­ so a ogni tipo di risorsa (lavorativa, trattamentale, comunicativa ecc.) è permeato da tale fattore e vedremo come parte dei professionisti medici tendano a confondere talvolta trattamento sanitario e trattamento peni­ tenziario e ad assorbire le regole che caratterizzano la cultura penitenzia­ ria. L'ambiguità tra l'offerta di una cura e il potere disciplinare del carce37

CURA SOTTO CONTROLLO

re connota l'istituzione penitenziaria fin dalla sua nascita (Sim, 1999 ). Il rapporto «non fluido » , come lo ha recentemente definito Petrini (20 1 6 , p . 1 8 6 ) , tra amministrazione penitenziaria e sanitaria, rischia tuttora di produrre sofferenza e denota una incompiutezza del passaggio alla sani­ tà pubblica soprattutto per quanto attiene alla mentalità e all'approccio culturale di chi opera in carcere.

2

La materialità della detenzione

2.1 L'insalubrità carceraria: sovraffollamento e vivibilità degli spazi

L'esperienza della carcerazione, con la limitazione delle libertà che com­ porta, è, di per sé, un fattore di rischio per la salute (Neisser, 1977 ) I ri­ sultati della ricerca corroborano sia la teoria avanzata da alcuni studiosi delle istituzioni totali del carcere come fabbrica di handicap psico-fisi­ ci (Mosconi, 2o os; Gonin, 1994; Gallo, Ruggiero, 1989 )1 che il quadro riportato dagli organismi di monitoraggio, nazionali2. e internazionali�, sulle condizioni di detenzione. I riferimenti alle condizioni degradate delle strutture, connaturate alla funzione sociale della prigione e al conseguente impatto sullo stato di sa­ lute, sono molteplici. Si tratta, inoltre, dell'argomentazione su cui conver­ gono maggiormente le diverse culture osservate : persone recluse, operatori sanitari e operatori penitenziari sono concordi nel considerare le strutture detentive in sé come il principalefattore di rischio per la salute. Si leggano a titolo esemplificativo, le seguenti testimonianze, rappresentative di tutte le categorie coinvolte nello studio. .

1. Scriveva qualche anno fa Pavarini (2oo6, pp. 82-3) che « il carcere nella sua dimen­ sione materiale è produzione aggiuntiva e artificiale di handicap, cioè è produzione di sof­ ferenza come privazione e limitazioni di diritti e aspettative. E solo la metafisica romantica ha potuto immaginare una pena che si autocensurasse a quella sola dell'anima sofferente perché privata della libertà. La pena del carcere è e rimane, in questo non diversamente da ogni altra penalità, una sofferenza data intenzionalmente per finalità di degradazione» . 2 . Alcune recenti storie di malasanità penitenziaria sono riportate nel XIII Rappor­ to sulle condizioni di detenzione dell'Associazione Antigone (cfr. in particolare Filippi, Zecca, 2017 ). 3· L'ultimo rapporto sull'Italia del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, per esempio, evidenzia che « all establishments visite d suffered from structural materia! defi­ ciencies and extensive refurbishment should be undertaken» (Council ofEurope, 2017, p. 6).

39

CURA SOTTO CONTROLLO 1.: « Mah ... la struttura è fatiscente, il metallo è ruggine dovunque, gli spazi me­ dici sono totalmente... non esistono, e dove son stati messi è al posto di altre cose che a tutto servivano tranne a quello, l'organizzazione di tutto è estremamente carente » . S.: « Ci piove in cella, quando piove, piove i n cella » . 1.: «Un ambiente insalubre per definizione » ( focus group detenuti ) .

La struttura chiusa di per sé favorisce la diffusione di malattie infettive e non solo, però la coercizione è una cosa che di per sé peggiora la situazione di salute in ge­ nerale ( medico ) . Devono stare molto attenti alla situazione igienica perché il fatto che sia stata così ridotta la fornitura per la pulizia sia della camera che della sezione e poi anche il fatto che molto spesso abbiamo problemi strutturali. . . qualche tempo fa nel reparto infermeria mancava l'acqua calda, che poi le persone detenute nel reparto infermeria sono molto acciaccate, quindi il fatto che dovessero andare in un altro reparto a farsi la doccia e questo comportava che non avevano voglia di andarci, faccio per dire. Sembra una banalità, la situazione non è durata per molto tempo, per fortuna, perché il problema è stato risolto, però comunque è un problema perché poi la gente non si lava e crea ... per cui sicuramente bisogna stare molto attenti all'igiene e poi anche dal punto di vista strutturale noi abbia­ mo sempre le docce, una parte adesso è stata ristrutturata, l'altra parte è sempre messa male, cioè non riusciamo ad avere i fondi per la ristrutturazione e quindi sono sempre piene di muffa, bisogna stare attenti con l'igiene, con la pulizia, insomma ( direttore ) .

Tra gli elementi strutturali che impattano sulla salute non sono da anno­ verare solo le pessime condizioni degli spazi, sia delle celle che comuni, ma altresì alcune caratteristiche, anch'esse connaturate all'istituzione peniten­ ziaria così come oggi configurata nel nostro paese, che contribuiscono a in­ crementare la nocività del carcere. Tra queste spesso vengono annoverate il sovraffollamento e l'elevato turnover delle persone detenute in un contesto di coabitazione forzata. La ricerca è stata realizzata in una fase storica in cui gli effetti cor­ rettivi al sistema penitenziario incentivati dalla sentenza Torreggiani si sono ormai conclusi. La sentenza della Corte europea dei diritti dell'uo­ mo dell'8 gennaio 2013 , nel condannare l'Italia per trattamenti inumani e degradanti all'interno delle sue prigioni, ha infatti contribuito a inne­ scare un percorso di riforme che ha consentito di invertire la rotta della progressiva affermazione del mass imprisonment che aveva invece carat­ terizzato gli ultimi trent'anni ( Scott, 2013; Wacquant, 20 04; De Giorgi, 40

2.

LA MATERIALITÀ D ELLA D ETENZIONE

200 2; Garland, 200 1 ) . Una serie di provvedimenti in chiave deflattiva, tra cui l'impulso ad un maggiore utilizzo delle misure alternative sia in fase cautelare che esecutiva, ha consentito di passare dai quasi 6 8.ooo de­ tenuti nel 201 0 ai circa 5 2.000 del 201 5. Tuttavia, a partire dalla fine del 201 5, tale rotta si è nuovamente invertita : gli effetti del post Torreggiani si sono pian piano esauriti e i numeri hanno ricominciato a risalire pro­ gressivamente per arrivare a superare i 58.ooo a fine gennaio 201 84• E un carcere più affollato generalmente è un carcere in cui non aumentano le persone detenute per i fatti più gravi, ma quelle appartenenti alle fasce più marginali, e che generalmente commettono i reati di mi­ nor rilievo. Per questi detenuti ci sarà, ovviamente, meno spazio, ma anche meno la­ voro, meno formazione professionale, meno attenzione al diritto alla salute e meno sostegno psicologico. Il carcere per loro sarà più duro, più lontano dagli standard di legalità nazionale ed internazionale, e meno efficace nel promuovere il loro reinse­ rimento, producendo a sua volta una società meno sicura (Scandurra, 2017, p. 9 ) .

Che il sovraffollamento incida su tutta la vita detentiva, comprese le condi­ zioni di salute, è opinione condivisa e confermata dalla stessa amministra­ zione penitenziaria : Il sovraffollamento incide su tutto, quindi su qualsiasi aspetto della gestione, in negativo naturalmente e quindi incide negativamente anche sull'aspetto della salute, almeno a mio parere. Incide perché non ci sono gli spazi, perché gli spazi non ci sono se una sezione è sovraffollata mancano gli spazi sia vivibili per quan­ to riguarda la camera detentiva, ma mancano gli spazi anche per tutto il resto e quindi anche gli spazi per ambulatori ecc., perché se un istituto, una sezione è costruita per 1 0 0 persone anche tutti gli spazi correlati, cosiddetti locali di servi­ zio, sono strutturati per 10 0 persone. Se tu in quella zona ce ne metti 200 allora il sovraffollamento incide anche su tutto il resto e in questo momento a livello sanitario credo sia l'aspetto, almeno per me, più critico, perché comunque se la sanità investe risorse, investe operatori, però quello che noi non riusciamo a dargli sono gli spazi adeguati. Qualsiasi investimento, anche importante poi si scontra con il fatto che gli spazi sono quelli che sono. Idee per modificare que­ sta situazione ne avevamo, il problema è che inciderebbero sulla capienza, sullo spazio detentivo (direttore).

« C 'è qualche detenuto in più del dovuto » , è l'amara sintesi di uno psi­ chiatra intervistato. Anche le persone detenute descrivono una situazio4· Dati del ministero della Giustizia (cfr. www.giustizia.it, sezione Statistiche). 41

CURA SOTTO CONTROLLO

ne che sembra essere tornata agli anni di massimo affollamento in carce­ re, a conferma che la riduzione indotta dalla sentenza Torreggiani non è stata che una breve parentesi all'interno di una tendenza generale al « grande internamento » e alla «progressiva centralità guadagnata dal carcere » ( De Giorgi, 20 0 2, p. 1 1 3) , tra le varie possibili forme di esecu­ zione della pena. Puoi prendere anche una scabbia, andando in doccia, andando in cella, possiamo prendere tutte le malattie infettive, funghi ecc., purtroppo siamo tornati al tem­ po indietro, siamo di nuovo pieni, la struttura purtroppo è quella là, è vecchia, c'abbiamo ancora tante cose che stiamo chiusi, stiamo ... se uno in cella c'ha un raffreddore, dopo mezzora gli viene di tutto, perché io non posso tenere la finestra chiusa 24 ore su 24. [ . .. ] Il problema è sempre che partiamo dall'igiene, la struttu­ ra è vecchia. Io posso essere pulito quanto voglio in cella, ma non vivo da solo, ho altri 7 amici in cella mia (focus group detenuti).

La forzata condivisione di spazi ristretti e in pessime condizioni, unita­ mente al sovraffollamento, viene unanimemente considerata tra i principa­ li fattori strutturali di rischio per la salute. L'equilibrio precario che si cerca di instaurare all'interno di una cella o di una sezione detentiva va peraltro frequentemente ridefinito, considerato l'alto turnover che caratterizza so­ prattutto le case circondariali. [ ... ] un mondo che è condiviso, cioè diciamo è una convivenza forzata e nelle con­ vivenze la diffusione di malattie infettive ovviamente è diversa rispetto a situa­ zioni come quelle che ci sono magari all'esterno del carcere, in cui i momenti di contatto sono più sporadici, per quanto ci possano essere ovviamente. Qui magari non si prende l'autobus [sorride] perché è difficile all'interno, però, insomma, c'è una convivenza continua, con molte persone e c'è un andirivieni di persone elevatissimo (educatore).

Il turnover peraltro incide non soltanto sulle dinamiche interazionali tra persone detenute, bensì anche nella relazione medico-paziente, con una ricaduta importante in termini di continuità delle cure, tanto in ingresso quanto in uscita. Qui in carcere c'è un turnover continuo, tu considera che il più anziano che sta qui, che sta da più tempo, sono due anni e mezzo, quindi. .. poi ci sono due se­ zioni, c'è la sezione circondariale dove il turnover è ancora più accelerato, dove praticamente tu vedi il paziente che c'ha l'epatite però dopo due mesi, tre mesi è fuori, quindi non lo puoi seguire. Invece al penale sono quelli defin itivi. Quindi 42

2. LA MATERIALITÀ D ELLA D ETENZIONE anche i dati vanno interpretati nell'ambito d i questo sistema. Comunque pa­ zienti H I V, che in media, diciamo, perché magari adesso ce ne hai 10 e tra un mese ce ne hai s . perché sono stati trasferiti o sono usciti o sono andati ai domi­ ciliari ( medico ) .

Quello del turnover è un tipico fattore strutturale che incide su una rela­ zione medico-paziente che, come vedremo nel prossimo capitolo, già per molti altri aspetti va profondamente ridisegnata all'interno del contesto carcerario. A dimostrazione di come la materialità del carcere incida sulla trasversale sfiducia nelle relazioni di carattere sanitario all'interno del con­ testo penitenziario.

2.2 Cibo, aria e condizioni economiche. Tra carenze e responsabilità diffuse

L'analisi delle tendenze della morbosità ha dimostrato, per più di un secolo, che è l'ambiente il primo determinante dello stato di salute generale di qualunque po­ polazione. La geografia sanitaria, la storia della patologia, l'antropologia medica e la storia sociale degli atteggiamenti verso la malattia hanno mostrato che il ruolo decisivo nel determinare come si sentono gli adulti e in quale età tendono a morire è svolto dal cibo, dall'acqua e dall'aria, in correlazione col livello di uguaglianza sociopolitica e con i meccanismi culturali che permettono di mantenere stabile la popolazione ( Illich, 1 9 75, trad. it. p. 23).

Nel suo celebre testo Nemesi medica, lvan Illich propone una definizione di salute in cui è centrale l'incidenza dell'ambiente, inteso come insieme di variabili che influenzano concretamente lo stato di salute di un sog­ getto, ben più di quanto possa fare lo sviluppo della medicina. Per avere un quadro dello stato di salute di un determinato contesto, occorre dun­ que in primis analizzare variabili come la disponibilità e varietà di cibo, la qualità dell'acqua e dell'aria, le disponibilità economiche che determi­ nano le condizioni socio-politiche di un dato gruppo di individui. L'am­ biente carcere è disegnato da una serie di determinanti emblematiche da questo punto di vista. Prendiamo per esempio in considerazione, seguendo la traccia di Illich, elementi quali il cibo, l'aria e l'acqua. Che il cibo passato dall'amministra­ zione penitenziaria sia scadente e di scarsa qualità, è un mantra ricorrente tra le persone detenute : 43

CURA SOTTO CONTROLLO Allora salute vuol dire anche mangiar bene, soprattutto, parte da lì. Ecco, pur­ troppo non solo qui ma in tanti altri posti il problema parte proprio da cosa mangiamo. Se mangi cose che sono, non so neanche come definirle, immangia­ bili, non le darei neanche ai miei maialini se avessi dei maiali. Qua tutti, almeno la maggior parte, mangiamo quello che riteniamo commestibile e poi per il resto ci cuciniamo le nostre cose in cella (focus group detenuti).

La mancanza di un « cibo gustoso oltre che in quantità sufficiente » di cui parla già da Sykes nel suo pioneristico studio degli anni Cinquanta, fa parte di quelle «pains of imprisonment » che connotano la prigione moderna e che «possono essere tanto dolorose quanto i maltrattamenti fisici che hanno sostituito » ( cit. in Santoro, 1997, p. 242) . Occorre con­ siderare, secondo Sykes, il sentimento individuale di privazione, che fa sì che per la persona detenuta l'impoverimento materiale subito costituisca una perdita dolorosa. Il cibo, chiaramente, non è che un esempio, insie­ me alla privazione di vestiti e mobilio personalizzati, riservatezza, liquo­ ri, relazioni eterosessuali ecc. La componente medica, tuttavia, affianca a questa lettura, espressio­ ne di una connotazione di malattia incentrata sul primato dell'illness ( cfr. PAR. 1.2) , delle considerazioni che possono essere inquadrate nella pro­ spettiva più marcatamente focalizzata sul concetto di disease. Se il cibo che viene offerto, cioè pane duro, latte allungato e cose di questo ge­ nere ... io per quanto son potuto intervenire pubblicamente, ho spiegato, uno, che non va buttato, due, che va rifiutato. Fai lo sciopero del latte, poi chiami il capoposto, chiami la cosa e dici, scusi, questo è latte ? No, è assolutamente evidente che è del latte allungato. [ . . . ] Se ti devono dare il latte ti devono dare il latte, non il latte allungato, perché se no dopo torniamo sull'avitaminosi, sulla denutrizione, e cose di questo genere (medico) .

Distribuire latte allungato, oltre a costituire una deprivazione che mina la dignità dell'individuo, costituisce un fattore di rischio per la salute nel momento in cui contribuisce a provocare disease. Il cibo inoltre assume spesso un significato simbolico e può essere utilizzato come pratica di resistenza all'interno del carcere, per esempio attraverso i frequenti scio­ peri della fame che, da un punto di vista sanitario, concorrono alla de­ nutrizione e al deterioramento delle condizioni di salute ( Gonin, 1994). Anche la mancanza di aria assume un significato simbolico e materia­ le di particolare rilievo all'interno della struttura carceraria. 44

2. LA MATERIALITÀ D ELLA D ETENZIONE Sicuramente l a struttura carceraria, faccio un esempio per chi non l a conosce, una finestra uguale in ospedale, in carcere ci passa meno aria perché ci son le sbarre, quindi passa meno ventilazione (medico) . La sanità è un po' scadente, o ha i suoi tempi che non sono quelli di fuori. E poi può essere anche un discorso psicologico, psicosomatico, anche l'aria che si respi­ ra, poi anche lì è soggettivo. Se fai tanti anni di galera, non è come se fossi stato in montagna! (focus group detenuti)

Ora, sebbene sia la struttura carceraria in sé a essere nociva in primo luo­ go per via del sovraffollamento, dell'elevato turnover e della coabitazione forzata, le condizioni degli istituti possono variare sensibilmente, così di conseguenza anche la vivibilità. Mosconi (2001), per esempio, ha messo in luce come il modo in cui viene vissuta la detenzione possa essere molto dif­ ferente sia perché a variare sono i regimi carcerari ( tanto in termini di linee amministrative quanto di caratteristiche strutturali ) , sia in relazione allo status sociale della persona ristretta. Di quest'ultimo aspetto, in particolare, sono ben consapevoli gli ope­ ratori sanitari, che descrivono un quadro di povertà che ha implicazioni significative sui rischi per la salute. Nella maggioranza dei casi non ci sono i k.it tipo bicchieri, scodelle, spazzolini e tutto quanto, per cui se va bene usano tutti più di una cosa in contemporanea. Perché c'è gente che forse un po' di soldi ce l'ha e qualche volta si può comprare, ma la maggioranza delle persone non c'hanno una lira per cui non credo si possan comprare nemmeno il dentifricio. Cioè io uso per esempio tutte le volte che vado in albergo raccattare tutte le saponettine perché non c'è nemmeno la saponetta per lavarsi. Per non parlare poi delle lamette e delle cose che poi vabbé vengano usati come armi improprie, però al di là di questo, questo è un altro grossissimo problema. Cioè proprio l'igiene a livello minimale ma minimale [ ... ] . La vedi la differenza per terra all'inizio del mese e alla fine del mese. Lo senti dall'odore, se siamo all'inizio o alla fine del mese (medico).

Il relativismo penitenziario ha dunque un'incidenza su tutta la vita de­ tentiva, salute compresa. Le diffuse disparità economiche che esistono tra carcere e carcere e tra le varie sezioni all'interno di uno stesso istituto fanno sì che la detenzione assuma « connotazioni diverse se si può con­ tare su somme di denaro che consentono di acquisire un comfort miglio­ re in termini di beni e servizi » ( Buffa, 2013, p. 145). Le disponibilità fi­ nanziarie contribuiscono così in maniera rilevante a modificare il vissuto personale, fisico e psicologico, della detenzione. Ma oltre all'individua45

CURA SOTTO CONTROLLO

lismo penitenziario, secondo cui "ogni carcere è un mondo a sé", occorre tener conto della grande variabilità che connota l'erogazione di servizi sanitari non solo tra regioni diverse, ma anche tra istituti diversi all'in­ terno della stessa regione. L'altra cosa è che ... il contesto, cioè ogni carcere è diverso, è molto eterogeneo, a tutti i livelli, perfino l'area sanitaria, della stessa regione, cioè a 20 minuti di macchina, cambian le terapie che vengon date, cambiano i bisogni. Un po' uno dei problemi del carcere è che ogni carcere è a sé e quindi è molto difficile anche dare una formazione per tutti i carceri perché noi magari qua abbiamo un carce­ re gigante, il più grande della regione e ovvio che è diverso da un carcere dove ci sono 70 persone. È un'altra guerra ( promotore salute ) .

Su questo entrano in gioco una serie di responsabilità in capo sia all'am­ ministrazione penitenziaria che ai servizi sanitari. Alla prima, infatti, continuano a competere per esempio la realizzazione di interventi strut­ turali che impattano sulla salute (manutenzione delle docce e dei sistemi di areazione, riscaldamento, per fare solo alcuni esempi) e la fornitura di beni minimali per l'igiene nei frequentissimi casi di indigenza. G.: «Tu arrivi dentro e ti dovrebbero dare una coperta sterilizzata, due lenzuo­ la sterilizzate, una federa sterilizzata, un materasso sterilizzato, un secchio, uno straccio, scopa, paletta, spazzolone e poi piatti e bicchieri. lo ti spiego cosa mi hanno dato quando sono entrato in carcere e mi conoscono anche abbastanza bene quindi sono privilegiato. Mi hanno dato una coperta pulita, perché era pu­ lita, ancora nel cellophane. Poi mi hanno dato mezzo materasso ma non ti dico cosa c'era su quel materasso perché mi viene lo schifo, ma sono compagni come me che l'hanno ridotto così. Lenzuola non se ne parla, bicchiere non se ne parla, roba per lavare la cella non se ne parla. lo sono arrivato in una cella, ho aperto la cella e dentro c'era ... hai presente quando una porcilaia che restano pezzi di carne, le ossa del pollo ... e non avevo nulla per pulire ! » . F. : «Non ho la possibilità perché appena arrestato ho i colloqui bloccati, non mi dai il bagnoschiuma, non mi dai un pezzo di sapone per lavarmi i panni. Mi hai mes­ so in una cella dove nella migliore delle ipotesi ci sono tutti i vetri, ma ci sono degli spifferi così, vedi tu se io alla fine di questo passaggio non mi ammalo » . G.: «Non abbiamo i l detersivo per lavare a terra, n o n abbiamo l'acido per puli­ re il wc ... sai la gente come disinfetta il bagno ? Fanno i rotoli con la carta igieni­ ca, gli danno fuoco e lo lasciano bruciare nel wc » . E.: «Poi come ha detto lui tutte queste condizioni portano ad essere più disabili, ed ecco che contrai la polmonite, la broncopolmonite, è quella che poi ti fa morire » ( focus group detenuti ) .

2. LA MATERIALITÀ D ELLA D ETENZIONE Insomma, arrivano d a situazioni... cioè arriva gente con l a scabbia p e r dire. Io la scabbia l'avevo studiata sui libri, poi l'ho ritrovata qua perché non l'avevo mai vista in vita mia. E quindi da un punto di vista igienico, insomma, sicu­ ramente bisogna battere un po'. Sia sull'utilizzo del prodotto, perché poi an­ che loro hanno a disposizione per pulire le celle dei prodotti che gli fornisce l'ammin istrazione penitenziaria, dilu iti, prodotti che non hanno senso, cioè noi abbiamo fatto anche una relazione poco tempo fa per chiedere di sostituire tutti gli aggeggi che utilizzano per pulire i pavimenti, perché usano il modo, non Vile da, ma una sotto marca del Vileda, che si asciuga in 7 giorni il pavimen­ to, no ? E soprattutto poi rimane lì, pieno di microbi, quindi insomma, dentro una cella di 8 metri compreso il bagno, magari se fosse arieggiato no, ma in una cella ! (infermiere)

Da un lato, quindi, gravi carenze dell'amministrazione penitenziaria nel fornire alle persone detenute il minimo indispensabile per garantire un livello di igiene accettabile. Il volontariato solo in parte contribuisce a sopperire a tali lacune e in genere questo avviene a macchia di leopardo : in alcuni istituti si riesce a sopperire in maniera abbastanza sistematica, in altri in maniera sporadica, in altri ancora anch'esso risulta assente da questo punto di vista. I servizi sanitari, dall'altro lato, raramente eser­ citano quel ruolo ispettivo sulle strutture detentive che compete loro e che da più parti, invece, la popolazione detenuta inizia a reclamare, per lo meno nelle sue componenti più consapevolizzate. Io penso che ci vorrebbe una presenza più forte dell'A SL e delle autorità sanita­ rie, sia nell'informazione, nella comunicazione, più forte e specifica per esem­ pio con l'informazione, la comunicazione, ma anche per il monitoraggio degli spazi, delle attrezzature, dei materiali. LÀSL non è che può dire « sì abbiamo un pezzo di ASL dentro il carcere, però - questa è una sensazione che abbiamo noi vivono una vita un po' loro, lì dentro si devono un po' arrangiare, noi facciamo a volte anche un po' finta di fare i controlli delle docce, delle celle, ci fanno vedere le cose belle e basta e stiamo zitti » , deve essere secondo me una presenza più incisiva, più forte, più diretta, per curare tutti questi aspetti. Comunicazio­ ne, gli spazi, le attrezzature, la preparazione del personale, gli aggiornamenti... (focus group detenuti). L'igiene sanitaria delle docce è indescrivibile eppure c'è un direttore sanitario, si dice che c'è ma non si sa dov'è. Dovrebbe essere compito suo passare una volta al mese, ogni tre mesi, ogni sei mesi, di passare a vedere in che condizione sono le docce, punto. Non dico dentro la cella, ma almeno quello, non si può lavare una doccia solo con l'acqua, per anni e anni (focus group detenuti). 47

CURA SOTTO CONTROLLO

Il mancato esercizio del ruolo ispettivo da parte dei servizi sanitari vie­ ne frequentemente messo in luce anche dagli organismi di monitoraggio europei. Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura, nella rela­ zione alla sua visita effettuata in alcuni istituti di pena italiani nel 201 6, si è detto « sorpreso di apprendere che non vi sia un controllo igienico e dietetico da parte del personale sanitario in servizio presso gli istituti penitenziari del cibo distribuito ai detenuti » ( Council of Europe, 201 7, p. 26). Non è che un esempio, questo, di quella che da più parti viene percepita come assenza di un intervento che, qualora attivato, potrebbe contribuire a implementare l'esercizio del diritto alla salute. In termini organizzativi, questo potrebbe essere visto come un problema di intera­ zione di due organizzazioni che sono tenute a collaborare entro la stessa struttura materiale (Sarzotti, 201 6). Al di là di tali responsabilità diffuse, resta tuttavia la questione di fondo sulla riformabilità di un'istituzione in sé insalubre (Ronco, 2014), che riproduce « deficit strutturali e organizzativi idonei a compromette­ re irrimediabilmente il benessere fisico e psichico delle persone detenu­ te » (Cherchi, 201 6, p. 230). Da più parti sono state presentate argomen­ tazioni secondo cui se davvero i servizi sanitari esercitassero il loro ruolo ispettivo, con ogni probabilità nessuna struttura penitenziaria potrebbe restare aperta. L'interrogativo correlato è in che misura e a quale prezzo un'istituzione come quella penitenziaria possa gestire da un lato le emer­ genze sanitarie e, dall'altro lato, le marginalità sociali che connotano gran parte della popolazione detenuta e che spesso sono intrecciate a proble­ matiche di tipo sanitario.

2. 3 La gestione delle emergenze sanitarie e sociali

Le paure legate alla mancata o ritardata gestione di un'emergenza sanitaria, soprattutto di notte, sono molto diffuse tra le persone detenute. Da più te­ stimonianze è emerso forte il timore di sentirsi male e di dover aspettare a lungo prima di poter essere soccorsi, senza la possibilità di uscire dal soffo­ cante spazio della propria cella. Mettiamo il caso che uno si sente male di notte e noi ci mettiamo a gridare e noi gridiamo «Assistente ! Assistente ! » di notte, dopo tutti quanti si svegliano e si preoccupano perché sappiamo che gli assistenti non hanno nemmeno una

2. LA MATERIALITÀ D ELLA D ETENZIONE formazione, dopo s i svegliano e vengono a vedere, vengono e gli dici « guardi non so che cos'ha, un infarto, qualcosa » . «Va beh aspetta che vado a chiamare il medico di guardia » , prima che viene il medico di guardia, noi su tre piani, ogni piano c'è l'infermeria, ma è chiusa. Il medico di guardia sta sempre giù, ma a volte è alle visite mediche, a volte devi stare s o 6 ore nelle celle giù al freddo, per la visita, per vedere se sei tossico, non sei tossico, se hai bisogno di qualcosa per dormire, ma da quando arriva il medico, io non so dove sta sto medico di guardia di notte. E allora niente, arriva il medico, prima viene l'infermiere, dopo venti minuti ma arriva, vede, « ah, apposto, mò vado a chiamare il medico » e poi va a chiamare il medico. Viene il medico, « ah sì, ci sono le chiavi ? » . Le chiavi non sono qui, quando ci chiudono alle otto, loro, ho saputo dopo, prima non sapevo, loro hanno l'ordine di togliere le chiavi e le devono lasciare giù quindi le devono prendere e perdono tempo e comunque troppo tempo si perde da quando uno chiama che sta male a quando devono intervenire. E comunque anche l'agente cosa può fare ? Può aprire, ma non c'ha manco le chiavi per dire, quello è un problema molto serio, perché non vale niente la dignità umana, se muore qualcuno loro nemmeno ... (focus group detenuti). Io penso che il problema più grande è che dovrebbero magari i turni degli infermieri essere più costanti, quando uno va a mangiare deve entrà un altro, perché succede delle volte che qualcuno se sta a senti' male, con una sola al terzo piano, al secondo, al primo, ci mettono tanto, ma tanto. Noi detenute ormai stiamo imparate, tutte le cose che c'hanno, quella che c'ha attacchi per quello, quella che c'ha attacchi per quell'altro, e sappiamo noi come prenderli ormai. Ma prima che arriva l'infermiere ! Se entra una nuova giunta e non sapemo che fa: che c'ha ... capito, io parlo di quelle che già ce stanno e ormai le sappiamo prendere, però se ce mettono troppo e non sai che è successo ... quello secondo me è il problema più grande. [ ... ] Il pronto soccor­ so non esiste proprio, e come diceva bene lei siamo noi che dobbiamo soccorrere e conoscere magari che cos'ha e dirlo magari dal ballatoio, chi sta male. Attenzione, forse prima sale solo l'assistente a vedere, poi chiama l'infermiere e non è detto che sia tutto al reparto e che quindi ci vogliono s -10 minuti. Ma se ce fosse un'emergenza vera i 10 minuti più gli altri, diciamo i 6 minuti di vita, possibili per... poi non so se c'è un defibrillatore, questo non l'ho mai capito (focus group detenuti).

Le paure descritte dalle persone detenute richiamano quella dimensione temporale coartata e dilatata e i labirinti mentali ben descritti dall'archi­ tettura carceraria piranesiana (Gallo, Ruggiero, 1989 ) , dove l'immobilismo forzato e la mancanza di vie di fuga rappresentano una forma di violenza impalpabile ma che produce effetti concreti e materiali su chi vi è sottopo49

CURA SOTTO CONTROLLO

sto5• Una violenza che è tutta strutturale e per la quale non è sempre faci­ le individuare le responsabilità. «E comunque l'agente cosa può fare . .. » , commenta in maniera amaramente realistica un intervistato. Uno dei fattori di maggiore ansia per le persone recluse è rappresentato dall'immobilismo forzato, che determina un significativo aumento di sof­ ferenza rispetto a una situazione di malessere vissuta all'esterno, potremmo dire un surplus di «pains of imprisonment » , usando la terminologia in­ trodotta da Sykes (1958). Potremmo definirlo uno degli esempi più eviden­ ti di riconfigurazione dell' illness dentro il carcere. Un immobilismo tanto più afflittivo in termini di deprivazione relativa se consideriamo le spinte al movimento che caratterizzano l'età contemporanea e che contribuiscono ad aumentare la distanza tra chi può permettersi di spostarsi liberamente e chi no (Bauman, 2001). Psicologico è che ovviamente al di là dell'aria, al di là della palestra, al di là dei gruppi e non gruppi, devi ricordarti dove sei. Non è facile, c'è tutto un discorso di gabbia, diciamo. Noi non siamo animali ma siamo persone umane, ribadiamo che siamo entrati noi per nostre scelte, però psicologicamente ti stressa, per i tuoi familiari, per tutte le cose ... perché se sei fuori e oggi hai male vai dal tuo medico e gli dici «è così » . Ti serve una medicina, bene o male o vai te o va qualcuno a prendertela, la trovi sempre, la medicina. Dopo, farne un abuso anche è sbagliato, perché anche qua dentro, a volte bisognerebbe togliere quell'abuso che viene dato, in più, perché non serve assolutamente a niente, non ci capisco, lasciamo stare. Però fuori se hai un dolore parti, vai all'ospedale o vai dall'infermiere, ti muovi, qua non puoi muoverti ( focus group detenuti ) .

All'universo penitenziario è demandata tuttavia anche la gestione di una pluralità di "emergenze sociali" che spesso si intersecano a criticità di ca­ rattere sanitario. Su questo aspetto occorre sottolineare che il sentimento di sfiducia riguardo alle capacità di fronteggiare tali situazioni in maniera adeguata è ampiamente diffuso, sia tra l'amministrazione penitenziaria che tra il personale sanitario. Lo straniero, lo psichiatrico e il tossicodipendente sono le categorie più frequentemente richiamate quando si tratta di ripor­ tare l'inadeguatezza della gestione penitenziaria dei problemi socio-sanita­ ri che queste persone manifestano. s. Matthews ( 1999) ha messo in luce come la detenzione modifichi la percezione e l'e­ sperienza del tempo, dal momento che si vive una negazione del tempo vissuto, sia quello attivo lavorativo che quello libero, e si è costretti a « far passare » o « ammazzare » il tem­ po. Sul punto cfr. anche Mosconi (1998).

so

2. LA MATERIALITÀ D ELLA D ETENZIONE E poi ecco c'è d a dire che spesso gli stranieri, appena arrestati, oramai molti sono persone che vivono in strada e che quindi, come dire, ci sono anche delle proble­ matiche igieniche perché arrivano che non c'hanno i vestiti, no ? [ ... ] Un altro problema è quello delle oramai sempre più diffuse patologie di carattere psichia­ trico, perché su quelle veramente ... cioè noi abbiamo tutta una serie di soggetti che poi lo psichiatra ti dice « ah ma in realtà non sono di mia competenza » perché voglio dire loro alla fine si occupano solo dello schizofrenico, ecco, però c'è tutta una serie di altre situazioni che per noi sono veramente ingestibili, perché noi ab­ biamo persone che veramente ... cioè oramai le conosciamo, abbiamo imparato un po' a gestirle, però non abbiamo gli strumenti per affrontare quelle situazioni. Poi sono soggetti che magari, come dire, vengono inviati in osservazione a un reparto di osservazione psichiatrica, stanno lì un mese e poi ritornano indietro e siamo punto e da capo. Cioè uno che, come dire, ti riveste la cella di escrementi, e che lo psichiatra ti dice « ma non è di mia competenza » , però è una persona disturbata, adesso per fare un esempio limite, però come questo ce ne sono tantissimi. Ed è un problema quello, è un problema perché il personale non sa come gestire queste cose ma ne ha anche paura, perché a tutti noi fa un po' paura il disturbo psichia­ trico perché non sai come gestirla questa cosa insomma, ecco. E quindi quello sicuramente è un problema (direttore). Al di là del fatto che molte persone entrano già con disagi psichici, anche perché poi già solo il fatto che molti sono tossicodipendenti e quindi ci sono già proble­ matiche di vario genere, poi ritrovarsi comunque in una struttura di questo genere, buttati un po' così allo sbaraglio, perché qui poi sovraffollamento significa anche che dove c'è posto ti metto, tanto per capirci, non c'è un'attenzione per cui un ragazzo giovane non sta con una persona d'una certa età, che questo sarebbe do­ veroso ma francamente direi quasi impossibile, perché insomma ti entran 20 per­ sone, diventa difficile, quindi è chiaro che la situazione è molto complessa, molto, molto complessa, perché poi spesso e volentieri chi si ritrova ad entrare qui per la prima volta, è veramente uno shock e ci si butta poi alla fine fondamentalmente sulla speranza dell'auto-aiuto. Un po' è questo, se c'è la possibilità dell'auto-aiuto è bene, perché altrimenti il personale, non saremo mai neanche lontanamente nel­ la possibilità di fare una cosa del genere. Il personale di sostegno diventa difficile, ci vuole, cioè son sempre troppo pochi. Educatori, si fa un colloquio e poi chissà chi lo rivede. Quindi effettivamente entrare qua dentro è un trauma per chiunque, quindi tutto ciò, poi che ti ritrovi in una cella fatiscente, col fatto che sei l'ultimo arrivato e probabilmente devi andare nella branda di cima vicino al soffitto, che se tu non stai attento al mattino batti il capo e sei intontito nel vero senso della parola (psichiatra) .

La gestione di problematiche psichiatriche non certificate, in particola­ re, viene presentata come una criticità che spesso determina un rimpallo SI

2. LA MATERIALITÀ D ELLA D ETENZIONE E poi ecco c'è d a dire che spesso gli stranieri, appena arrestati, oramai molti sono persone che vivono in strada e che quindi, come dire, ci sono anche delle proble­ matiche igieniche perché arrivano che non c'hanno i vestiti, no ? [ ... ] Un altro problema è quello delle oramai sempre più diffuse patologie di carattere psichia­ trico, perché su quelle veramente ... cioè noi abbiamo tutta una serie di soggetti che poi lo psichiatra ti dice « ah ma in realtà non sono di mia competenza » perché voglio dire loro alla fine si occupano solo dello schizofrenico, ecco, però c'è tutta una serie di altre situazioni che per noi sono veramente ingestibili, perché noi ab­ biamo persone che veramente ... cioè oramai le conosciamo, abbiamo imparato un po' a gestirle, però non abbiamo gli strumenti per affrontare quelle situazioni. Poi sono soggetti che magari, come dire, vengono inviati in osservazione a un reparto di osservazione psichiatrica, stanno lì un mese e poi ritornano indietro e siamo punto e da capo. Cioè uno che, come dire, ti riveste la cella di escrementi, e che lo psichiatra ti dice « ma non è di mia competenza » , però è una persona disturbata, adesso per fare un esempio limite, però come questo ce ne sono tantissimi. Ed è un problema quello, è un problema perché il personale non sa come gestire queste cose ma ne ha anche paura, perché a tutti noi fa un po' paura il disturbo psichia­ trico perché non sai come gestirla questa cosa insomma, ecco. E quindi quello sicuramente è un problema (direttore). Al di là del fatto che molte persone entrano già con disagi psichici, anche perché poi già solo il fatto che molti sono tossicodipendenti e quindi ci sono già proble­ matiche di vario genere, poi ritrovarsi comunque in una struttura di questo genere, buttati un po' così allo sbaraglio, perché qui poi sovraffollamento significa anche che dove c'è posto ti metto, tanto per capirci, non c'è un'attenzione per cui un ragazzo giovane non sta con una persona d'una certa età, che questo sarebbe do­ veroso ma francamente direi quasi impossibile, perché insomma ti entran 20 per­ sone, diventa difficile, quindi è chiaro che la situazione è molto complessa, molto, molto complessa, perché poi spesso e volentieri chi si ritrova ad entrare qui per la prima volta, è veramente uno shock e ci si butta poi alla fine fondamentalmente sulla speranza dell'auto-aiuto. Un po' è questo, se c'è la possibilità dell'auto-aiuto è bene, perché altrimenti il personale, non saremo mai neanche lontanamente nel­ la possibilità di fare una cosa del genere. Il personale di sostegno diventa difficile, ci vuole, cioè son sempre troppo pochi. Educatori, si fa un colloquio e poi chissà chi lo rivede. Quindi effettivamente entrare qua dentro è un trauma per chiunque, quindi tutto ciò, poi che ti ritrovi in una cella fatiscente, col fatto che sei l'ultimo arrivato e probabilmente devi andare nella branda di cima vicino al soffitto, che se tu non stai attento al mattino batti il capo e sei intontito nel vero senso della parola (psichiatra) .

La gestione di problematiche psichiatriche non certificate, in particola­ re, viene presentata come una criticità che spesso determina un rimpallo SI

2. LA MATERIALITÀ D ELLA D ETENZIONE

espressa su tali pratiche è piuttosto disomogenea, sia tra operatori che nei confronti di diverse categorie di persone detenute. Si legga a tal proposi­ to la seguente testimonianza. Concentrare anche i tossicodipendenti nello stesso posto non ... in realtà non, noi abbiamo una sezione di tossicodipendenti, non facilita una loro diciamo uscita dalla droga, anzi magari uno entra che non ha niente e se ne esce che è un tossico per dire, quindi no, per le siringhe sono assolutamente contrario e invece andrebbero sparsi un po' ovunque, separati, non concentrati in un re­ parto, in un ghetto, e comunque cercare di puntare di più di tenerli impegnati, a fare delle attività lavorative, ma anche ricreative, insomma ... purtroppo invece stando ... allora, capita che loro, io ho quattro sezioni, quindi riesco a far bene le differenze, tra cui c'ho il polo universitario e la squadra di rugby, quindi vedo che sono detenuti che sono fortemente impegnati e stanno lontano da tutto. E loro invece stanno in sezione, non si possono mettere comunque in dei posti chiave, tipo MOF7 o altro perché comunque non sono affidabili. [ ... ] Secondo me bisognerebbe creare, se questi non possono uscire dal carcere perché magari non sono proprio diciamo dei soggetti considerati proprio pazzi tra virgolette, però comunque di istitu ire nell'ambito degli istituti delle sezioni dove mettere delle persone che hanno dei problemi mentali che siano di più gestiti comunque dall'area sanitaria, comunque che magari ci sia presenza più di uno psichiatra, e che abbiano una gestione diversa, perché non possiamo gestire queste persone allo stesso modo degli altri, andrebbe fatta una differenza diciamo di gestione, di trattamento (ispettore).

In questo caso l'operatore penitenziario intervistato si dice contrario alle sezioni apposite per tossicodipendenti, mentre è d'accordo sull'accorpare persone detenute che manifestano disagi psichici. Nel primo caso prevale, nell'argomentazione da lui fornita, l'esigenza "trattamentale" dell'uscita dalla tossicodipendenza, mentre nel secondo caso la necessità di tutelare il personale dai rischi e dall'incapacità di gestire talune problematiche, de­ legando la gestione all'area sanitaria. Non è che un esempio della disomo­ geneità che caratterizza le opinioni sulle sezioni apposite : se in alcuni casi gli operatori intervistati si dicono tendenzialmente favorevoli o contrari a qualunque tipo di accorpamento, nella maggior parte dei casi gli intervi­ stati si dicono favorevoli a sezioni apposite per alcune categorie ritenute problematiche e contrari ad altre, senza una visione d'insieme. Da tali testi7· Con l'acronimo MOF si intendono i servizi di manutenzione ordinaria dei fabbrica­ ti, cui vengono assegnati detenuti con competenze più qualificate dentro al carcere, come elettricisti, idraulici, falegnami, riparatori radio-tv, giardinieri, imbianchini.

53

CURA SOTTO CONTROLLO

monianze si evincono interessanti elementi di comprensione delle culture penitenziarie, che riflettono l'intersezione tra l'idea generale della funzio­ ne della pena e le proposte operative che derivano direttamente dalla quo­ tidianità detentiva, ossia l'esigenza di sgravare il proprio lavoro da quelli che sono ritenuti gli aspetti più sgraditi, difficili da trattare e che pertan­ to vanno o ghettizzati o, in alcuni casi, trasferiti fuori dal carcere, in linea con quanto emerso dalle prime ricerche condotte sul tema della gestione dell'HIV in carcere (Favretto, Sarzotti, 1999 ). Istanze di depenalizzazione, diversion ecc. , non provengono dun­ que soltanto da quella parte di amministrazione penitenziaria partico­ larmente progressista, bensì anche da una cultura professionale stanca di sporcarsi le mani con il disagio, nelle sue varie forme, e che lamenta l'assenza di strumenti ( in termini di competenze, formazione, risorse) per gestirlo, a dimostrazione dell'inadeguatezza del sistema penitenzia­ rio nell'affrontare le emergenze sociali. Tale inadeguatezza, unitamente all'assenza di una visione d'insieme, spesso finisce per contribuire a produrre quei fenomeni di infantilizzazio­ ne che connotano tutto l'ambiente carcerario e che incidono anche sul di­ ritto alla salute.

2.4 Salute, premialità e infantilizzazione

La mortificazione del sé che subisce chi trascorre un certo periodo in un'istituzione totale assume svariate sfaccettature. Goffman ( 1 9 6 1 ) ha descritto meglio di qualunque altro autore le umiliazioni, le profanazioni del sé e le degradazioni che hanno luogo fin dal momento dell'ingresso. Tali fenomeni provocano un cambiamento radicale nella carriera morale del soggetto, che riguarda il tipo di credenze che ha di sé e su coloro che lo circondano. Abbracciando una lettura propria della teoria dell'etichet­ tamento, il soggetto inizia a ricostruire la propria identità (Lemert, 1 9 5 1 ) attorno allo status d i detenuto, che diventa egemone rispetto agli altri ruoli ricoperti all'esterno (Becker, 1963). Questo processo ha un impatto rilevante sulla vita detentiva nel suo complesso, anche in termini di effet­ tivo esercizio dei diritti. Al contempo, il sistema di regole e punizioni (Sykes, 1958) attraver­ so cui viene gestita la sicurezza in carcere è un meccanismo che tende a espandersi e ad abbracciare tutta la quotidianità detentiva dei soggetti 54

2. LA MATERIALITÀ D ELLA D ETENZIONE

reclusi: dalle attività "trattamentali" (Sarzotti, 1999) all'esercizio dei di­ ritti che tendono ad essere percepiti sempre più come " benefici" (Crewe, 201 2; Salle, Chantraine, 2009; Vianello, 2015), secondo il sistema dei pri­ vilegi descritto da Goffman. Tra questi diritti va annoverato anche quello alla salute. L'ambivalenza del concetto di cura nel luogo per eccellenza deputato al controllo è fenomeno ampiamente sviscerato ( Chriss, 2 0 0 8 ; Pont et al. , 201 2; Prout, Ross, 1 9 88). Quello che qui c i interessa appro­ fondire è l'aspetto premiale che caratterizza l'accesso al diritto e la diffu­ sa tendenza a considerarlo piuttosto come un beneficio. L'idea di fondo che l'accesso alla salute sia un beneficio più che un diritto all'interno del carcere viene riportata in maniera indiretta da alcuni operatori peniten­ ziari e sanitari ma talvolta anche dalle stesse persone detenute, in genere in maniera più diretta. Sì, io ho fatto carcere nel mio paese, cinquanta persone in cella. Lì non c'è dot­ tore. Loro curano persone che hanno bisogno. È diverso carcere, qui è come un albergo. lo sono stato anche in Libia. E qui chiami il dottore, chiami l'assistente e loro dicono ora, e ora. Io già due anni qui, io quando mi serve dottore per la visita me la fa subito. Perché a me non mi fanno aspettare un mese, due mesi ? Perché dipende dalla persona. Io faccio casino ? Per favore. E quelli due mesi perché fan­ no casino. Fai il bravo, siamo in carcere, non siamo fuori. Non è dottore che non ascolta, ascoltano tutti. Arrivano da fuori e vengono qua per fare casino e pren­ dere medicine e fuori nessuno prende medicine. Io sto male, qua, ascoltano tutti ! Ogni giorno quasi 20 persone fanno la visita, certo che ti fanno aspettare perché ci sono delle persone prima. Così non va, siamo in carcere, loro non hanno visto altri carceri. Se loro vanno in altri carceri scappano dopo dieci giorni. Siamo in Europa, io sono stato anche in India, ma chiami una volta, dopo non chiami più anche perché ti ammazzano. Qui urlano fanno casino, anche fuori è così, quelli non sono malati ? Loro ascoltano tutti, fai tu il bravo. [ ... ] quando io sto male un'ora, chiamo assistente « assistente per favore chiama il dottore » , entro cinque minuti arriva. Chiama un altro e perché non arriva il dottore ? Chi, dipende dalle persone. [ ] Lì fanno sempre casino, lì. Chiamano sempre assistente anche capo posto, ispet­ tore. Chi risponde ? Nessuno. Meglio il rispetto, siamo in carcere, non siamo fuori (focus group detenuti) . ...

La testimonianza di cui sopra sembra rappresentare l'e sito di una strategia di disciplinamento efficace nel far interiorizzare uno status egemone di de­ tenuto che, in quanto tale, può vedersi riconoscere dei benefici più che dei diritti. « Fai il bravo, siamo in carcere, non siamo fuori » è una frase dietro ss

CURA SOTTO CONTROLLO

alla quale si scorge l'interiorizzazione di una condizione di inferiorità che sospende l'accesso ai diritti. Da un altro estratto di un focus group si evince la pluralità di posizioni espresse dalle persone detenute e la tensione tra la rassegnazione all'essere trattati da cittadini di "serie B" e una pacata rivendicazione di diritti8• A.: «Forse ci stiamo scordando che siamo in galera » . «Ho capito che siamo in galera, però u n po' d'aria ... [ ... ] » . F.: « Più o meno sono d'accordo con lui perché se dobbiamo cambiare da qualche parte dobbiamo cominciare, non possiamo dire dimentichiamo che siamo in carce­ re. No, non abbiamo dimenticato che siamo in carcere, ma non possiamo neanche soffrire. Siamo persone, siamo esseri umani, non è perché siamo in carcere che dob­ biamo essere dimenticati dall'altra parte della popolazione » . A.: « Il carcere deve essere rieducativo » . F. : «Se uno è stato condannato non è che deve subire una tortura psicologica » . A . : «Ma l a tortura psicologica qual è che non vai all'aria aperta? Qual è ? » . Y.: « Quello che ho detto prima che non funziona » . A . : «Andate a Poggioreale, andate a Rebibbia » . Y.: «Noi non abbiamo nessuna alternativa. Perché dobbiamo subire tutto questo. Già sono stato condannato, sto facendo la mia galera per bene, devo subire tutto ? Queste cose no, così scoppio anch'io » . W.: « Quello che dicevi prima, noi stiamo in carcere, questo è vero, però anche il carcere dovrebbe essere un posto per potersi riabilitare fuori » . S.: «Il carcere deve educare, non è che uno passa la galera e poi dopo esce fuori ancora più incattivito di prima, cioè è normale che andrà a fare altri casini » (focus group detenuti). W.:

Non sono rari i riferimenti alla finalità rieducativa della pena e di frequente l'esercizio del diritto alla salute viene narrato attraverso il ricorso ad argo­ mentazioni che sfociano nelle funzioni attribuite alla pena. È in tale confu­ sione semantica che si configura quella tensione tra diritti e benefici che vin­ cola la soddisfazione di una richiesta che rientra nella sfera della tutela della salute al mantenimento di un comportamento disciplinato.

8. La "pacatezza" delle rivendicazioni espresse sembra dipendere in gran parte dalle caratteristiche del campione oggetto della ricerca. Le persone detenute incontrate solo in alcuni casi possono essere considerate rappresentative della popolazione detenuta, poiché in molti altri casi l'amministrazione penitenziaria, nel fare da Hltro nel procedimento di selezione del campione, ha coinvolto gruppi di persone detenute già inserite in vari proget­ ti di trattamento, progetti che in molti casi svolgono, tra le tante funzioni, anche quella di sopire istinti di rivendicazione e modalità comunicative indisciplinate.

s6

2. LA MATERIALITÀ D ELLA D ETENZIONE Io penso che questo sia il momento i n cui lavorare i n comune a livello alto, e comun­ que chiarirci sul ruolo della sanità, su qual è la mission, perché alla fine la mission della sanità è uguale alla nostra, anche se può sembrare una minimizzazione, e cioè la riabilitazione della persona in tutti i suoi aspetti. Logicamente loro sono più mi­ rati all'aspetto sanitario, ma non è proprio così, perché l'aspetto trattamentale della persona è insito, basta guardarsi le linee guida, l'allegato A insomma, il D.P. C.M. è chiarissimo su questo no ? E in fondo il nostro obiettivo qual è ? Il nostro obiettivo è il famoso reinserimento no ? Che di fatto poi significa riabilitazione in tutti i suoi aspetti. Il problema è capire attraverso quali passaggi fare queste cose e bisogna an­ che comprendersi sul fatto che queste persone stanno in un carcere, cioè c'è un mo­ tivo per cui non stanno in un ospedale o in una comunità terapeutica, è un motivo che discende da una normativa che in qualche modo è superiore, non voglio dire che è prevalente rispetto al sanitario, è un'altra cosa, dev'essere complementare e superiore, perché altrimenti non ci sarebbe motivo di avere le sbarre e tutto il resto. Forse su questo dobbiamo ancora intenderei pienamente, ma voglio dire ci sta pure questa difficoltà (educatore ) .

Non si tratta, evidentemente, di meccanismi espliciti di selettività nell'elargi­ zione di un servizio sanitario e non è intenzione di chi scrive puntare il dito contro il professionista che opera sul campo, tanto sanitario quanto peni­ tenziario. La riflessione si riferisce piuttosto ad una cultura penitenziaria che spesso esprime una confusione tra rieducazione e cura sanitaria che può in­ cidere sia sulla relazione medico-paziente9, come avremo modo di vedere nel prossimo capitolo, che sul processo di ricostruzione dell'identità e sull'agire della persona detenuta. Gli studi a cavallo tra la sociologia delle emozioni e la sociologia della salute hanno messo in luce come la struttura sociale e il controllo sociale che connota le interazioni siano determinanti nel vissuto di « stress drammatur­ gico» di un individuo (Freund, 1990 ) . È soprattutto sull'autostima che le re­ lazioni esercitano un impatto emotivo e la differente distribuzione di risorse di controllo produce facilmente una percezione di sé come persona di status inferiore (Cardano, 201 3). Questo è particolarmente evidente nel contesto carcerario, dove il senso di inferiorità è accentuato dal processo di etichettamento della persona dete­ nuta e dall'infantilizzazione che connota tutto il vissuto penitenziario e che dunque abbraccia ampiamente anche la gestione del proprio stato di salute. Un esempio calzante è rappresentato dall'assunzione dei farmaci. L'autono9· Sul punto Neisser (1977, p. 941) ha messo in luce come dentro al carcere considera­ zioni non mediche possano diventare parte delle decisioni mediche. 57

CURA SOTTO CONTROLLO

mia del paziente detenuto è fortemente compromessa dall'impossibilità di assumere la terapia al di fuori della sorveglianza di un operatore sanitario. Qua per esempio un grosso problema, ecco un grosso problema, è quello della terapia. Mentre un soggetto fuori, proprio ieri si parlava degli ipnotici, no, men­ tre un paziente che viene nel nostro ambulatorio, che ha un problema organico e ha anche un problema così di difficoltà nell'addormentamento, noi possiamo dire « va beh, ti do questo principio attivo, questa compressa, che tu devi pren­ dere però 10 minuti prima di addormentarti >> . Ecco qui, per esempio, per motivi proprio organizzativi, non è che noi possiamo dare al paziente il blister e dire « allora al mattino devi prendere queste, al primo pomeriggio queste e alla sera, a che ora vai a letto, alle I I ? alle II meno un quarto di prendi questa compres­ sa » , perché insomma la farmacologia, la dinamica delle terapie farmacologiche fanno sì che determinate patologie, determinati disturbi possano essere curati in determinati momenti del giorno e non in altri, i farmaci hanno un effetto crono biologico, no, come si fa ad assicurarlo qui ? Cioè in teoria si dovrebbe assicurare, però ecco l'infermiere dovrebbe fare un ulteriore giro, cosa che ma­ terialmente diventa ... cioè tutto si può fare, però oggettivamente ci sono ecco queste limitazioni (medico) .

Le « limitazioni » di cui parla il medico intervistato riflettono esatta­ mente quel processo di infantilizzazione per cui nella cultura peniten­ ziaria è impensabile consegnare dei medicinali (di qualunque tipo) al pa­ ziente detenuto, la cui assunzione dipenderà quindi dall'organizzazione del servizio sanitario (con tutto ciò che riguarda i turni, la disponibilità della farmacia ecc.). La libera assunzione di farmaci costituisce uno dei tabù più radicati nella cultura penitenziaria ed è legato, come vedremo nel capitolo seguente, alla volontà di impedire l'accumulo e lo scambio, una delle preoccupazioni maggiori degli operatori del carcere. Nel perse­ guimento di tale imperativo, trovano spazio dunque modalità infantiliz­ zanti come quelle descritte. Dal punto di vista del soggetto, le ricadute delle prassi organizzati­ ve di distribuzione delle terapie interferiscono altresì con la violazione della privacy. Io penso che sia anche opportuno guardare quando viene distribuita la terapia. Ci sono posti dove la terapia viene distribuita personalmente, come Rebibbia, vieni chiamato in un posto specifico e ti viene data da solo, ci sono altri posti, come tutti i carceri d'Italia [ride], come qua, dove qualsiasi tipo di terapia che tu prendi ti viene consegnata davanti ad un altro detenuto, ecco. [ . . . ] Perché la terapia è distribuita nelle infermerie, prima passava infermiere cella per cella

ss

2. LA MATERIALITÀ D ELLA D ETENZIONE anche più, s i più l a privacy, perché nessuno sapeva chi in questa cella prendeva quale terapia, adesso siamo tutte in fila, c'è la porta trasparente, le gocce per dormire, le pastiglie per così, la peretta per altre cose . . . invece adesso volevano risparmiare lavoro agli infermieri, pur di passare un'ora e mezzo a distribuire i farmaci, fanno tutto in mezzoretta e noi che ci accalchiamo nelle code chilome­ triche . . . ( focus group detenuti ) . Una prassi no ? Io prendo la pastiglia per il cuore. Non voglio far sapere niente a lui, l'infermiere «la CARDIO-ASPIRINAAA ! » , non so se ho reso l'idea, per­ ché devo far sapere a lui che sono malato di cuore, non è giusto, non è corretto, o no ? ( focus group detenuti )

Per quanto la tutela della privacy sia uno degli aspetti di cui più si dibatte tra operatori sanitari, penitenziari e persone detenute, si tratta evidente­ mente di uno dei molti ambiti in cui le esigenze di sicurezza prevalgono sulla garanzia di diritti e sulla tutela della dignità della persona detenuta, la cui violazione spesso avviene proprio attraverso le pratiche penitenzia­ rie ( cfr. PA R. 3.3). Un'altra manifestazione dell'ambivalenza tra prestazione sanitaria e esercizio del controllo disciplinare riguarda le visite esterne. Spesso i tra­ sferimenti all'esterno vengono presentati dal personale ( sia penitenziario che sanitario ) come problematici per via di fattori organizzativi, primo fra tutti la predisposizione di una scorta che accompagni la persona dete­ nuta nei presidi ospedalieri esterni. Anche in conseguenza di tali criticità organizzative, la visita può diventare agli occhi di alcune persone detenu­ te un'occasione di disciplinamento. No, la scorta c'è sempre, anzi, se tu prenoti una visita poi sei obbligata ad andare se no prendi rapporto disciplinare. Perché comunque fai venire la scorta dal pe­ nale, quindi ci devi andare per forza. È capitato che poi quando vai a fare la visita poi non c'è la cartella, o se sbagliano la cartella, o manca qualche foglio, come l'ultima visita della mia compagna nel reparto ( focus group detenuti ) .

Le argomentazioni presentate dagli operatori fanno unanimemente rife­ rimento a questioni di carattere prettamente organizzativo, ma la distan­ za tra la libera scelta che caratterizza il cittadino libero e la costrizione cui è di fatto sottoposto il cittadino detenuto balza agli occhi e chiama in causa una concezione di trattamento sanitario ad hoc che in molte delle testimonianze viene dato per scontato. 59

CURA SOTTO CONTROLLO

I processi di infantilizzazione e la confusione semantica tra il diritto alla salute e la concessione di un beneficio riflettono dunque uno degli ostacoli più grandi all'implementazione del principio dell'equivalenza delle cure.

2. 5 « Qui ci mancano i farmaci di fascia A ! » : tra denunce d i gravi carenze e

less eligibility

L'esclusione delle persone detenute dalla definizione dei bisogni sanita­ ri, la mancanza di autonomia e di controllo sulle determinanti di salute, i processi di mortificazione e umiliazione che permeano la detenzione non sono che alcune sfaccettature degli squilibri nella distribuzione di potere all'interno dell'istituzione penitenziaria (Sim, 2002 ) . Gli studi sulle dise­ guaglianze di salute, intese come il legame tra la posizione sociale degli indi­ vidui e il loro stato di salute, hanno messo in luce come la probabilità di vi­ vere eventi e relazioni sociali stressanti cresca muovendo dalla cima alla base della scala sociale (Cardano, 2013, p. 41). L'istituzione penitenziaria rientra appieno in una definizione di ambiente "tossico" sia per le relazioni sociali e gli squilibri nella distribuzione delle risorse di controllo che la permeano, sia per la diffusa probabilità di vivere al suo interno eventi di vita stressanti. Vaughn e Carroll (1998) hanno definito il conflitto di mission tra Giura­ mento d'Ippocrate e imperativi della repressione penale in termini di tensione tra il principio dell'equivalenza delle cure e quello della less eligibility. In base a quest'ultimo principio, come noto introdotto dalle teorizzazioni di Rusche e Kirchheimer ( 1939) e ripreso nel panorama italiano in primis dall'importante contributo di Melossi e Pavarini (1977), le condizioni di detenzione devono essere peggiori rispetto a quelle in cui si trovano a vivere le persone più in bas­ so sulla scala sociale fuori dal carcere, in modo da rendere la detenzione meno eligible, preferibile. La pena può così esercitare appieno la sua funzione di de­ terrenza generale, costringendo altresì le fasce più marginali della società ad accettare condizioni di vita e di lavoro estremamente precarie. Applicato all'esercizio del diritto alla salute (Sim, 1990 ), tale princi­ pio contrasta con uno dei capisaldi della riforma della sanità penitenzia­ ria, quello dell'equivalenza delle cure dentro e fuori dal carcere, suggerendo dunque cautela nell'ottimismo nei confronti delle potenzialità riformiste in 6o

2.

LA MATERIALITÀ DELLA D ETENZIONE

tal senso10• Il mantenimento di condizioni di detenzione particolarmen­ , te painful e afflittive, attraverso la riduzione dell erogazione di servizi allo , stretto necessario e il considerare rassistenza medica parificata all esterno un «lusso » che i governi non possono permettersi ( Vaughn, Carroll, 1998, , , p. 6), sono la manifestazione dell applicazione della less eligibility all ambi­ to della salute in carcere. Inoltre, l'autorità nel definire quali malesseri siano seri e quali no è espressione del potere della classe medica ( Maynard, 1991; , Conrad, 1992) che, all interno di un carcere, diventa parte del controllo so­ ciale esercitato sulle persone detenute. La condivisione di tale principio raramente viene espressa in maniera diretta ed esplicita dagli attori professionali coinvolti nella ricerca. Tutta­ via, la carenza di " beni essenziali, per garantire un livello igienico sanitario minimamente accettabile viene spesso riportata per argomentare e giustifi­ care la mancata promozione della salute in un senso più ampio. « Occorre prima partire dal basso » e « qui ci mancano le cose basilari » sono frasi ri­ correnti, in risposta alla proposta di interventi considerati meno essenziali. La ricerca ha avuto come focus specifico la prevenzione e la riduzione , del danno all interno degli istituti penitenziari, intesa, quest'ultima, co­ me la prevenzione della diffusione di malattie infettive. Come si vedrà nel dettaglio nel quarto capitolo, uno degli obiettivi specifici della ricerca era la mappatura del livello di applicazione dei 15 principi guida contenuti in un documento condiviso da vari organismi internazionali impegnati nella promozione della salute e della prevenzione11• Tra questi, oltre ai più con­ , venzionali temi della formazione/ informazione e dell offerta di terapie e trattamenti, figurano anche alcuni interventi considerati particolarmente , delicati e problematici all interno del contesto penitenziario, come la di­ stribuzione di siringhe, aghi sterili e di preservativi, quali strategie di ridu­ zione del danno. Tra le varie giustificazioni addotte da molti tra gli operatori, peniten­ , ziari e sanitari, contrari all implementazione di tali interventi, più volte è emersa la logica del " bisogna partire dal basso,. 10. Scrive Foucault (1975, trad. it. p. 337) in merito alla più generale irriformabilità della prigione : « Se non fosse stata che uno strumento di rigetto o di annientamento al servizio di un apparato statuale, sarebbe stato più facile modificarne le forme troppo vi­ stose, o trovarle un sostituto più confessabile. Ma conficcata com'è al centro di dispositivi e strategie di potere, può opporre a chi vorrebbe trasformarla una grande forza d'inerzia». 11. Si tratta, nello specifico, del documento del 2013 a firma UNODC, ILO, UNDP, WHO, UNAIDS intitolato HIVPrevention, Treatment and Care in Prisons and Other Closed

Settings: A Comprehensive Package oflnterventions. 61

CURA SOTTO CONTROLLO Allora, si son dette tante cose belle però vi dico qualcosina che non va. Per esem­ pio, al secondo piano io ho ancora certi in ambulatorio che hanno sta fobia di prendere le malattie, quindi bisogna ricominciare da zero, da zero, da zero, no­ nostante i gruppi, nonostante gli incontri, libricini vari, c'è ancora questa fobia, oltre che, vogliamo passare a un livello superiore che sia il preservativo o la siringa, ma siamo ancora all'unico rasoio per barba e per capelli per 200 persone. A me arrivano persone che mi dicono « infermiera mi dai il disinfettante, il rasoio ha le croste » , le CROSTE ! Quindi vogliamo passare a questo livello, però bisogna partire da piccolezze, stessa lametta, stessi spazzolini, è da lì che bisogna partire (infermiere) .

La fotografia di un carcere fortemente carente dal punto di vista della for­ nitura dei beni considerati essenziali in qualunque contesto di vita comu­ nitaria è riportata da molti operatori, che, comprensibilmente, denunciano tali carenze come la priorità su cui intervenire anche e soprattutto da un punto di vista sanitario. In quest'ottica, la proposta di introdurre corsi per fare i tatuaggi in maniera sicura e, addirittura, un tatuatore, viene accolta da qualcuno non solo come una questione secondaria ( « quando manca il sapone » ) , ma anche come un potenziale rischio di creare delle aspettative che possano scemare una volta concluso il progetto sperimentale di turno. Benissimo, organizziamo un tatuatore volontario, basta che lo dici e scoprirai che c'è uno che viene in carcere perché è un'esperienza, verrà per fare il tatuatore e ver­ rà per quanto tempo ? Sei mesi, 2 anni ? 1 2 2 anni ? Per un tempo limitato. Oppure, ci regalano la macchina ? Ci regalano un tot di pezzi ? Non riusciamo a dargli il sapone, non riusciamo a fargli avere il sapone, i piatti, gli asciugamani. .. la vedo difficile ... (medico) .

Altra questione riportata da una parte dei medici è la scarsa disponibilità di alcuni farmaci di base, considerati anche in questo caso prioritari. Qua dentro ci mancano i farmaci, di fascia A, quindi se ci parlate addirittura di distribuzione del condom ... qui non abbiamo proprio le cose base. Per dire, siamo nella necessità di cose basilari, parliamo proprio di farmaci ripeto, quindi parlare del di più, tra virgolette eh di più, è essenziale, però è di più in questo caso se non ci forniscono le cose base. Io per esempio nelle irregolarità mestruali, adesso la pillola è andata in fascia C, quindi nelle irregolarità mestruali ho donne con me­ struazioni che durano tantissimo e non posso intervenire, se non coi prodotti che non sono comunque pillole perché non ce ne abbiamo, sono in fascia C. Quindi, per dire, mancano questi, il preservativo diventa... (medico) .

2.

LA MATERIALITÀ D ELLA D ETENZIONE

Di frequente emerge anche la retorica riguardante la convinzione che le per­ sone detenute siano molto più attenzionate rispetto a chi sta fuori dal carcere. Qui sono molto controllati a livello sanitario. È una fascia di popolazione che fuori non capita neanche per sbaglio a un poliambulatorio, capito ? Quindi gli dai anche tante informazioni rispetto al fuori (promotore salute).

Se è indubbio che l'ingresso in carcere rappresenti per molti una prima occasione di contatto con i servizi sanitari, accade che uno dei rarissimi ri­ svolti positivi della detenzione viene dipinto da molti soggetti intervistati come una sorta di « lusso » ( Vaughn, Carroll, 199 0 ) , una condizione da evidenziare come privilegio. Mi pare che ultimamente ci sia un'attenzione esagerata nei confronti del detenuto il quale, ovviamente non voglio fare di tutta un'erba un fascio, perché non sono tutti uguali, però soprattutto la stragrande maggioranza di stranieri cosa fanno ? Strumentalizzano molto questa cosa, e allora il pensiero che mi viene, se noi ades­ so andiamo anche a distribuire certi articoli, non lo so, eh? Cioè, vedendo così mi sembra che abbiano un potere ormai che noi non abbiamo più, cioè non abbiamo più gli strumenti per dire, cioè per dire, uno di questi due che ha scritto è entrato, rifiuta la terapia da mille anni, in tutte le carceri ha rifiutato, ci parliamo, gli faccia­ mo di tutto e di più per l'assistenza ecc., fa la terapia due giorni, il terzo giorno la sospende, ci minaccia, ci denuncia, allora poi diventa difficile andare a dargli una mano per prevenire le malattie sessualmente trasmissibili perché può darsi che tra di loro ... , non so se rendo l'idea. Ci sono, voglio dire, a volte uno mette l'accento su alcune cose che sono importanti, per carità, però ci sono delle cose che a nostro avviso, ne parliamo spesso, andrebbero svolte in maniera diversa, proprio per au­ mentare il benessere loro ma anche di chi ci lavora, che non è attenzionato da nes­ suno. Per esempio la polizia penitenziaria è in una situazione di sofferenze ormai cronica, però nessuno si preoccupa del suo stato di salute e diventa la conseguenza logica. Se il personale che ci lavora sta bene ed è in una situazione di benessere, è ovvio che ci sia anche una ricaduta positiva, oppure sulla sanità, noi siamo sotto scacco a volte (infermiere) .

Quella che viene considerata « un'eccessiva attenzione » nei confronti del­ le persone detenute viene così messa a confronto con la presunta indiffe­ renza riservata al personale di polizia penitenziaria e allo stesso personale sanitario. In quest'ottica, c'è chi ritiene in una certa misura un problema l'assenza di ticket all'interno delle istituzioni penitenziarie, considerando­ lo una sorta di incentivo ad abusare del sistema sanitario più che in chiave preventiva e come prima occasione di diagnosi e cura.

CURA SOTTO CONTROLLO Medico di pronto soccorso : « Loro qui sono coperti dall'esenzione totale, numero uno, quindi più volentieri fanno tutti gli accertamenti che vuoi » . Medico di reparto : « È u n problema perché fuori magari devono pagare il ticket, qua dentro gli accertamenti vengono fatti senza ticket. Io ho visto un detenuto entrato da poco che ha detto proprio apertamente "adesso che sono qua inizio a fare gli accertamenti", proprio in questi termini ! » (focus group area sanitaria).

Un altro tema su cui è emersa una fotografia dei servizi offerti in termini di privilegio e opportunità non scontata riguarda il trattamento delle dipen­ denze. Da un lato, alcuni medici dei servizi per le dipendenze esprimono due pesi e due misure nei confronti della riduzione del danno a seconda che si sia dentro o fuori dal carcere. Eh lo so, però in un ambiente come questo ... nell'ambiente esterno fornire una si­ ringa pulita, in qualche maniera ... parlo sempre di unità mobile no, loro fornisco­ no le siringhe, fanno il cambio della siringa, però fondamentalmente quello che poi succede . . . non succede che gli danno un ufficio e gli dicono «prego, è lì, vai » , qui dovrebbe succedere quasi tutto nell'ambito penitenziario, a quel punto, anche le implicazioni giuridiche, si inietta cosa? Muore per un'embolia o un'overdose, di chi è la colpa ? Di te che gli hai dato pure la siringa per farsela? No, è un concetto un po' complesso ... (medico SerD).

La contrarietà alla distribuzione di siringhe all'interno del carcere vie­ ne giustificata da argomentazioni che rimandano alla medicina difensiva ( che sarà ampiamente trattata nel capito successivo ) e che determinano un forte squilibrio tra dentro e fuori che contrasta con il principio dell'e­ quivalenza di offerta di trattamenti e, più in generale, ignora l'interesse del paziente, restringendo appunto la discussione alla questione della re­ sponsabilità. Non è l'unica testimonianza, peraltro, da cui emerge la pres­ sante preoccupazione che il detenuto non muoia, a fronte della morte di persona tossicodipendente fuori senza che questo costituisca un proble­ ma di responsabilità. Nella situazione per cui un soggetto decide di autosomministrarsi, ipotizziamo, eroina all'esterno di un carcere, se si nasconde purtroppo viene a mancare da solo, se è in giro qualcuno lo vede. Ipotizziamo il soggetto che decide di farlo in carcere, decide di farlo alle 9 di sera, il cancellino [nel gergo carcerario, il detenuto con cui si condivide la cella, N.d.A.] dorme, l'agente fa il giro ma lo vede fermo per cui non riesce a distinguere se questo sia in overdose o se ci sia un altro problema, per cui a quel punto c'è un problema per cui noi non abbiamo tutelato la sua salute, lui è venuto a mancare in carcere (medico) .

2.

LA MATERIALITÀ D ELLA D ETENZIONE

In carcere, quindi, è più forte che fuori l'idea di tutelare la salute attraverso il controllo e il proibizionismo, mentre fuori sembra esserci maggiore spa­ zio per interventi di riduzione del danno e per il riconoscimento dell'auto­ nomia decisionale del paziente da cui tali interventi muovono. La seguente testimonianza costituisce invece un esempio di come la premialità che connota l'ambiente carcerario, e di cui si è trattato nel pre­ cedente paragrafo, talvolta si estenda all'erogazione di servizi sanitari, an­ dando a incidere sulla relazione terapeutica in maniera indubbiamente dif­ ferente rispetto all'esterno. Abbiam avuto tre casi qua di tossicodipendenti dichiarati e gestiti benissimo senza metadone, quindi se hanno voglia comunque di rimanere a Bollate ci rimangono anche senza metadone (infermiere).

Il carcere di Bollate, da più parti considerato il fiore all'occhiello dell'am­ ministrazione penitenziaria italiana, viene dipinto da molti operatori sani­ tari come un istituto ambito dalle persone detenute, per cui "si ha molto da perdere" se si viene allontanati. E questo talvolta incide anche nelle relazio­ ni terapeutiche, che, soprattutto negli istituti ad alto livello trattamentale, vengono in qualche misura connesse al percorso riabilitativo generale, ge­ nerando quella confusione semantica e materiale cui si accennava tra l'ese­ cuzione di una condanna e l'e sercizio del diritto alla salute. C'è anche il presupposto di a che cosa serve il carcere. Cioè secondo me il circon­ dariale ha le sue grosse difficoltà perché arrivano a qualsiasi ora, non mi conosci, cioè devi impostare tutto, magari il detenuto tossico, va beh, ci sarà il metadone che cerca di compensare. Però quando poi tu vieni trasferito e hai la pena defini­ tiva e vieni trasferito all'interno di una reclusione, tu ti devi fare la tua galera ma perché ? Perché c'ha un obiettivo principale che è quello del reinserimento sociale. Se io all'interno di una casa di reclusione vado ad inserire un progetto di questo tipo [si riferisce all'ipotesi di sperimentare una distribuzione di aghi o siringhe, N.d.A.] io non faccio comprendere al detenuto « guarda che il passaggio alla re­ clusione è per farti la tua pena in maniera disciplinata, di supporto del tuo benes­ sere, di inserimento nella società » . Cioè secondo me c'è il rischio che poi. .. non so, la vedo così. Per me è una roba che non dovrebbe starei. Sarebbe un paradosso. Anche perché se mi dicono che io vado a mettere un detenuto che si sia fatto di eroina, lo vado a mettere a lavorare con i cavalli, che qua praticamente la maggior parte, il 9 9 % esce, quindi va da un reparto all'altro, la biblioteca, che ne so, fa il vo­ lontario in infermeria, l'area industriale, utilizzano a livello di volontariato, poco tempo fa uno si è tranciato un dito per levigare il legno ... cioè allora se crediamo in un reinserimento attraverso il lavoro, il fatto di Bollate, eh ? - poi esperienze fuori 6s

CURA SOTTO CONTROLLO non ne ho - dove il 9 9 % qualcosa fa, cioè addirittura firmano alcuni contratti per andare in alcuni reparti perché devono stare in movimento, anche l'attività fisica, la palestra, io non so, la vedo un po'... ( infermiere ) .

L'incidenza della cultura penitenziaria sulla cultura medica che opera in car­ cere continua a produrre degli effetti e il medico veste spesso i panni dell'im­ prenditore morale (cfr. CAP. 1). Vedremo nel prossimo capitolo come allo staff sanitario tocchi fare uno sforzo particolare per proteggere la relazione medico-paziente da un'impropria influenza da parte dell'amministrazione penitenziaria (Neisser, 1977, p. 941). Non è semplice a questo proposito di­ stinguere tra "vecchi" e "nuovi" medici ossia tra le posizioni espresse dagli operatori in servizio da prima dell'introduzione della riforma e dal personale assunto dopo. La contrarietà alla sperimentazione di progetti di riduzione del danno particolarmente strong per la cultura carceraria viene talvolta giu­ stificata da questioni strutturali di "economia sanitaria", nonostante si tratti di sperimentazioni che non incidono sulle risorse sanitarie specifiche dell'i­ stituto in questione e non costituiscano in alcun modo un'alternativa ad altri tipi di servizi. La mancanza dei beni minimi viene utilizzata come giustifi­ cazione ricorrente per non promuovere la salute a livelli più alti. In secondo luogo, la proposta di interventi (come la distribuzione di preservativi) quan­ to meno tollerati all'esterno diventa «il troppo che poi sfocia nel ridicolo » , come dichiarato da un agente della polizia penitenziaria, all'interno del car­ cere. Un esempio di diritti che vengono trasformati in benefici (Salle, Chan­ traine, 2009) che, in quanto tali, vanno concessi con parsimonia e secondo la logica della premialità, che sembra permeare tutto il contesto penitenziario attuale e da cui in una certa misura non è esclusa l'interazione tra professioni­ sta sanitario e paziente detenuto. ll ,

12. Un tentativo di tipizzazione in tal senso è stato proposto da Milly (2001) sul caso francese. L'autore distingue tra consensuels, organicistes, spécialistes pénitentiaires e puristes. I medici consensuels sono essenzialmente quelli che vogliono evitare lo scontro con l'ammini­ strazione penitenziaria e mostrano il più alto livello di subordinazione. Gli organicistes sono coloro che assumono un atteggiamento altrettanto passivo, ma richiamandosi a una conce­ zione tecnicistica e meccanicistica della medicina. Gli spécialistes sono coloro che tendono a sottolineare la specificità della medicina penitenziaria e dunque attribuiscono maggior peso alla totalità della persona rispetto agli organicistes. I puristes, infìne, sono coloro che mettono al primo piano i postulati del codice deontologico della professione medica. La mancanza di una misurazione, da pane dello stesso autore, del peso specifico delle singole categorie indivi­ duate (Sarzotti, 2016) è a parere di chi scrive indice della difficoltà di individuare degli indi­ catori quantitativi volti a dimostrare, con la ricerca empirica, l'adesione a uno degli idealtipi individuati, e di come la realtà mostri evidentemente maggiori sfumature e zone grigie.

66

3

Le relazioni

3·1 Le relazioni istituzionali: amministrazione penitenziaria e servizio sanitario

Tra il 20 0 8 e il 2014 ho avuto l'occasione di partecipare ad alcune ricer­ che sull'applicazione della riforma della sanità penitenziaria (cfr. Ronco, 201 3 ; 201 4; 20 1 6 ) che hanno avuto come oggetto principale le percezioni e le opinioni di detenuti, operatori sanitari e penitenziari rispetto alla ri­ forma, seguendo il filone metodologico delle ricerche KOL1• In genere tali ricerche partivano dal chiedere ai vari attori incontrati di fare una sorta di bilancio sui pro e sui contro della riforma stessa. Se, per lo meno nei primi anni, si è riscontrato uno scarso livello di conoscenza dei contenuti della normativa entrata in vigore, sia nella popolazione detenuta che in molti operatori dell'amministrazione penitenziaria, spostandoci sul pia­ no delle opinioni, la situazione è da sempre risultata piuttosto variegata. Il tema è stato in parte trattato anche dalla presente indagine e le percezioni espresse da operatori sanitari e penitenziari rispetto alle evo­ luzioni pre e post riforma vanno dal riconoscimento di un significativo miglioramento nell'erogazione del servizio sanitario in carcere (grazie ad una migliore organizzazione, all'affermazione di una maggiore autono­ mia dei medici, all'accesso più agevole a una serie di servizi esterni) , ad una sostanziale staticità, fino ad arrivare a un peggioramento, in genere motivato con la burocratizzazione della gestione del servizio.

I. n Hlone di studi delle ricerche KOL (Knowledge and Opinion about Law), così defi­ nito sulla scia del classico testo di Podgorecki ( 1973 ) , si propone di analizzare il livello di conoscenza e le opinioni che membri della cultura giuridica esterna esprimono nei con­ fronti di specifiche norme giuridiche.

CURA SOTTO CONTROLLO Siamo sempre investiti dalla burocrazia che ci porta via un sacco di tempo, do­ veva diminuire in realtà è aumentata, tutti che ci chiedono dati, tutti i minuti, prima ogni mese, adesso ogni IS giorni, è davvero una roba infinita, non se ne può più, relazioni. .. ( infermiere ) .

La domanda, da parte di chi fa ricerca sul tema, è dove vada a finire questa gran mole di informazioni che verrebbero richieste a scadenza addirittura quindicinale agli operatori sanitari, considerata la grande difficoltà ad avere un quadro epidemiologico di partenza sul contesto carcerario. Se su questo incide in misura significativa il decentramen­ to del servizio sanitario nazionale, l'indisponibilità di una lettura ag­ gregata dei dati sulla situazione sanitaria all'interno dei penitenziari italiani costituisce un grosso scoglio in termini sia di conoscenza del contesto penitenziario che di programmazione delle politiche sanitarie in carcere. Il rischio che ne consegue, come di recente ha messo in lu­ ce Petrini ( 201 6, p. 176), è di sviluppare delle prassi più orientate a esi­ genze di custodia e disciplina che di prevenzione, cura o riabilitazione. Altro aspetto della burocratizzazione riguarda più precisamente la comunicazione tra amministrazione penitenziaria e area sanitaria, di cui spesso vengono sottolineati sia i pro che i contro e da cui, soprattut­ to, emergono varie strategie di superamento della formalità che possia­ mo racchiudere nella formula dei classici "scambi in corridoio". Si è più burocratizzato il rapporto. E magari è anche così perché adesso io ho l'educatore che deve fare la richiesta all'organo competente, al dirigente sanitario, cioè la richiesta la deve fare formale, mentre prima bastava che lo incontrassi in corridoio, però è uguale perché lo incontro in corridoio e glielo dico lo stesso, quindi, dipende sempre dai rapporti personali che si. .. cioè io preferisco che ci siano però ... questa differenza, questa distinzione delle due organizzazioni consente anche che si metta nero su bianco quali sono le pro­ cedure. Cosa questa che prima non avveniva, dipendeva molto dal direttore, dipendeva molto dal dirigente, dipendeva molto dal comandante, adesso, ma­ gari, si pretendono delle linee guida scritte. Secondo me va bene formalizzare ( direttore ) .

La lettura fornita dall'amministrazione penitenziaria richiama spesso il senso di rivalsa manifestato da molti operatori sanitari per il fatto di non dover più "rendere conto" agli operatori penitenziari. Si tratta di uno dei nodi più problematici e condivisi e delinea i confini offuscati tra le esigenze di cura e le esigenze di sicurezza nel contesto penitenzia68

3 · LE RELAZIONI

rio ( Sim, I 999 ) Si legga a tal proposito il seguente scambio tra un diret­ tore e un educatore. .

Direttore : « molti operatori sanitari improvvisamente si sono sentiti comple­ tamente staccati dalla struttura, soprattutto quelli vecchi, cioè quelli che sono passati. L'errore grosso è stato quello, questo passaggio di persone direttamente alla ASL, probabilmente dovevano essere smistati in qualche altra cosa. [ .. ] Il passaggio è avvenuto così, queste persone sono passate direttamente, quindi con mentalità e con idee appunto un po' vecchie e sono passate sotto l'A SL e secon­ do loro l'unico aspetto di cambiamento per queste persone che adesso non ci sono praticamente più, nessuno è rimasto, l'idea era "ah, finalmente non faccio più parte dell'amministrazione penitenziaria, quindi io a te non rispondo più di niente, tu mi chiedi ma io non sono più dipendente dell'amministrazione peni­ tenziaria". E questo è stato deleterio i primi anni perché soprattutto con queste persone che erano state nostre dipendenti, e anche un po' un senso di rivalsa » . Educatore : « In questo momento penso che la difficoltà più grossa sia a livel­ lo interistituzionale, non noi con la sanità, ma proprio l'amministrazione della giustizia con la sanità, tanto che tanti protocolli istituzionali ancora sono in ballo, non sono stati firmati perché si sono arenati su tanti piccoli particolari che magari per la sanità so n piccoli e per noi so n grandi o viceversa » . Direttore : « da una parte la sanità pubblica chiede certe cose all'amministrazio­ ne, che non riesce a dargliele ; l'amministrazione penitenziaria a sua volta chiede sempre più impegno, e quindi adesso in questo momento lo scontro è a livello più alto, anche per quanto riguarda le risorse finanziarie, e quindi siamo arrivati poi ai nodi » (intervista collettiva operatori penitenziari) . .

Emergono quindi sostanzialmente due livelli d i attrito : u n primo sul pia­ no istituzionale ( tra amministrazione penitenziaria e aziende sanitarie locali competenti per territorio ) e un secondo sul piano personale, sia a livello dirigenziale ( tra direttore del carcere e direttore sanitario ) che tra operatore sanitario e operatore penitenziario su tutti i livelli. Se, sul pia­ no istituzionale, le differenti culture hanno determinato e continuano a determinare casi di inerzia e stallo dei protocolli d'intesa e dei documen­ ti operativi volti a regolare prassi e procedure, nel secondo caso la proble­ maticità o meno di una relazione viene spesso ricondotta alla disposizio­ ne personale a superare le formalità e le burocrazie. Dipende poi dai medici, perché alcuni non hanno alcun problema a farcelo sapere, anche perché noi non è che, cioè, lo so e vado a raccontarlo alla sezione «guarda che tizio c'ha questo, quello e quell'altro» , insomma me lo tengo per me, perché cioè lavoro pure io in quell'ambito, quindi che so se uno ha delle malattie infettive

CURA SOTTO CONTROLLO io devo usare la maschera quando gli vengo a contatto, qua abbiamo i dispositivi di protezione anche no ? [ ... ] Il problema è che magari finché si inizia a sapere questa cosa a volte passano dei giorni che non ci viene detto, quindi magari chi ci è stato a contatto prima, da quando viene fatta l'immatricolazione, che viene fatta subito, di­ ciamo in questo lasso di tempo ... [ ... ] generalmente ce lo dicono i medici se bisogna usare dei dispositivi di protezione e quindi il personale del nucleo viene dotato di queste cose insomma, per quanto riguarda le malattie infettive diciamo (ispettore).

L'esigenza di "sapere" è riferita sì alla premura che il personale peniten­ ziario ha nel tutelarsi dalla possibile contrazione di malattie infettive, ma in alcuni casi viene espressa anche una volontà di essere messi al corrente sulle emergenze e sulla effettiva necessità, per esempio, di trasferire all'e­ sterno una persona detenuta. Qui emerge l'idea che l'amministrazione penitenziaria, per certi aspetti, non voglia sentirsi esclusa dal controllo generale delle questioni sanitarie, riprendendo quanto si proponeva in chiusura del primo capitolo1• La strategia è quella di collaborare insieme, cioè di far sì che il problema non diventi soltanto di una parte o dell'altra, ma che sia comune. Cosa che non è fa­ cile perché poi io vedo, continuano ad essere vissuti sempre più come due mon­ di separati. Poi magari il confronto c'è fra me e il dirigente sanitario, c'è fra il comandante e i vice-comandanti, però poi a livello della base in realtà son due mondi che procedono in maniera separata. [ ... ] Qua invece il personale è quello che non capisce certe cose, né gli vengono spiegate. Perché per dirti, l'altra sera, mi chiamano no quando qualcuno deve uscire di sera o di notte per andare in ospedale, per cui mi chiama l'ispettore e dice « eh, ma questo perché lo fanno uscire ? » , no, e mi legge un certificato medico, [ ... ] capisco che magari pur se sembra che lì non c'è nulla, cioè sembrerebbe .. invece in realtà deve andare in ospedale. Però giustamente magari l'ispettore non capisce, né il medico glie­ lo spiega perché è importante ... adesso è ovvio che quella è una situazione di emergenza, però in generale non c'è questo tipo di informazione, di. . . è vero che nessuno di noi c'ha tempo di mettersi lì a spiegare all'altro quello che sta facendo, però poi dopo la conseguenza è che chiaramente dall'altra parte c'è sempre più un ritrarsi perché non conosci, vedi che gli altri non ... , come dire, non condividono (direttore).

In generale, l'amministrazione penitenziaria continua ad esprimere un'i­ stanza di condivisione delle problematiche sanitarie che riflette sia la vo2. Scrive Foucault (197 5 , trad. it. p. 337 ) : «La rete carceraria costituisce una delle ar­ mature del potere-sapere che ha reso storicamente possibile le scienze umane» .

70

3 · LE RELAZIONI

lontà di tutelarsi che di avere il controllo della situazione nel suo com­ plesso. Quest'ultimo aspetto viene in parte motivato da questioni orga­ nizzative ( in primo luogo la predisposizione di una scorta in caso di visite esterne) , ma, tra le righe, altresì da una generale presunzione di dover essere messi al corrente su tutto ciò che riguarda la vita detentiva, tutela della salute compresa. A questo proposito chiaramente si apre tutta una serie di questioni riguardanti l'autonomia professionale del medico, la segretezza del rapporto medico-paziente e la tutela della privacy. Vedre­ mo nel dettaglio questi aspetti nei prossimi paragrafi. Dal punto di vista organizzativo, invece, è chiaro come numerose questioni riguardanti spe­ cificatamente la tutela della salute continuino a dipendere "dal conteni­ tore". L'esempio da più parti riportato è quello delle visite mediche, che, secondo molti intervistati, sarebbero aumentate notevolmente nel tem­ po, sia per la presenza di un gran numero persone detenute che hanno pa­ tologie richiedenti interventi specialistici, sia, probabilmente, per via di un'intensificazione del ricorso alla medicina difensiva dentro il carcere. La scarsità di risorse, evidentemente tipica di tutte le organizzazioni, sug­ gerisce, seguendo Elster ( I 9 9 S ) , di analizzare i meccanismi discrezionali di selezione e i conflitti tra amministrazione sanitaria e penitenziaria che ne derivano. Nel caso specifico, la scarsità di risorse a disposizione per le traduzioni nei presidi esterni (soprattutto in termini di scorte) determi­ na due tipi di situazioni: o l'operatore sanitario prescrive comunque un gran numero di visite esterne che in molti casi però non vengono mate­ rialmente effettuate per indisponibilità di uomini della polizia peniten­ ziaria, o, come avviene nella maggior parte dei casi, il medico si trova co­ stretto a individuare delle priorità. Medico : « La difficoltà è proprio dovuta ecco al contenitore, perché mentre il cittadino libero viene valutato dal medico dopo di che gli dice "guardi, dobbia­ mo fare questo, questo e quest'altro", e quindi c'è una certa rapidità, ecco nel nostro caso c'è tutta una parte amministrativa, burocratica, la comunicazione all'autorità giudiziaria che forse rappresenta il lavoro più difficile. Un'altra cosa, almeno qui presso il nostro istituto, è la limitazione del numero delle visite o degli accertamenti che possono essere fatti quotidianamente, ma questo non dipende dall'area san i taria, ma dipende ovviamente da ... » . lntervistatore : «Ma una limitazione che è proprio formalizzata o . . . » . Medico : «Nel senso che l'amministrazione dice "guarda non possiamo garan­ tire più di due visite, massimo tre visite". E allora anche noi dobbiamo fare i salti mortali per dire "vabbè, oggi son quattro", faccio un esempio ovviamente grossolano, quale possiamo rimandare, non so, la visita oculistica di uno che non 71

CURA SOTTO CONTROLLO è che cambia se la fa adesso o la fa tra un mese ... , ecco. Questo sicuramente rap­ presenta un fattore ... non dipende dall'area sanitaria, dipende dal contenitore (focus group operatori sanitari) .

Oltre alle questioni organizzative d i competenza dell'amministrazione penitenziaria che impattano sull'erogazione dei servizi sanitari, non so­ no infrequenti le ambiguità e le interferenze tra gestione carceraria e ge­ stione sanitaria. Si legga a tal proposito la seguente testimonianza. È molto importante poi far capire al detenuto che deve affidarsi e fidarsi del medico che non è della struttura e questo dovrebbe tendere a favorire questa coppia, perché magari si tende ad avere un atteggiamento differente ; sarebbe bello che si potesse fidare in maniera tale da dire quello che lo affligge dal pun­ to di vista patologico e mentale, perché così riusciamo anche a gestirlo meglio, cioè, se ci chiede aiuto è più facile gestirlo (ispettore) .

L'importanza di fidarsi del proprio medico viene ricondotta non tanto alla possibilità di curarsi nella maniera più adeguata, quanto a problemi di ge­ stione. A dimostrazione che, nella cultura professionale degli operatori pe­ nitenziari, l'aspetto sanitario continua a essere sostanzialmente connesso all'andamento della detenzione e a questioni più ampie riguardanti la sicu­ rezza e il controllo. Gli estratti di interviste qui citati esprimono quel con­ trollo onnipresente e quella ritrosia dell'amministrazione penitenziaria nel cedere una fetta di potere cui si è accennato nei PARR. 1.5 e 1.7. Le ricadute di tali interferenze riguardano principalmente il modo in cui l'operatore sanitario interpreta ed esercita la propria autonomia professionale.

3 ·2 L'autonomia del medico

Innanzi tutto occorre evidenziare che non è soltanto l'amministrazione peni­ tenziaria a contribuire a produrre quella confusione semantica tra esecuzione penale e tutela della salute. Molti operatori sanitari mettono in luce l'impos­ sibilità di prescindere dal fatto che si ha a che fare con pazienti che stanno vi­ vendo in un contesto di detenzione e la relazione di cura sarebbe inscindibile da questo. Si tratta di posizioni che possono essere considerate antitetiche a quelle che Milly ( 2001) definisce « spécialistes penitentiaires » , ossia di colo­ ro che non si limitano ad affrontare lo specifico problema sanitario attraverso 72

3 · LE RELAZIONI

una diagnosi e una terapia, in chiave tecnicistica (come farebbero gli organici­ stes), bensì tengono conto della persona nel suo complesso. Beh credo che i due aspetti comunque non siano scindibili, perché le persone che son qui hanno delle problematiche [di salute, N.d.A.] ma hanno anche delle problematiche giuridiche, quindi non possono essere scisse e bisogna portarle avanti contemporaneamente. Quindi in certe situazioni è, mi verrebbe da dire, quanto io lo vivo come strumentale il loro atteggiamento e quanto invece siano due parti che non possono essere separate. Assolutamente, hanno dei problemi giuridici e quindi va preso in considerazione, anzi, un ulteriore ambito di ag­ gancio per poi cominciare a parlare anche su un altro piano, su un altro livello, anche per quanto riguarda delle problematiche per cui loro hanno bisogno co­ munque dell'operatore presente (medico) .

Si tratta, presumibilmente, di appurare fino a che punto l'intersezione tra i due piani risponda a una logica di tutela di un concetto ampio di sa­ lute, che tenga conto dei complessivi fattori di benessere e malessere, con un'attenzione non solo alla dimensione della disease, ma altresì dell'ill­ ness e quindi della ricostruzione della malattia da parte del paziente (cfr. PAR. 1. 2) , e fino a che punto, invece, non si tratti di una dimensione di controllo che il medico contribuisce ad esercitare. Ma, al di là della predisposizione e della specificità del singolo ope­ ratore sanitario, in che modo si manifesta la limitazione dell'autonomia del medico nel quotidiano ? Molto dipende, ancora una volta, dal contenitore. Le caratteristiche della quotidianità detentiva influenzano in toto l'erogazione del servizio sanitario e il medico si trova a dover tener conto necessariamente di una serie di fattori che, nel mondo dei liberi, non entrano nella relazione sa­ nitaria tra operatore e utente, manifestazione del forte potere che l'orga­ nizzazione penitenziaria ha nel limitare l'autonomia decisionale del sog­ getto che vi opera, seppur per conto di un'organizzazione altra (la sani­ tà). In carcere, più che fuori, i medici ritengono infatti di non poter igno­ rare il contesto sociale entro cui si realizza la presa in carico senza mettere a rischio gli stessi obiettivi di cura (Carricaburu, Menorét, 20 07, p. I03 ) . Noi stiamo facendo molta fatica a ridurre quello che è l'utilizzo delle benzodia­ zepine, che sono delle sostanze che possono essere paragonate all'uso di sostanze stupefacenti, poi alla fine quando noi abbiamo ridotto queste sostanze il dete­ nuto ti viene a chiedere «e adesso che cosa faccio ? » , cioè « come impegno la mia giornata? Cosa faccio, non posso lavorare, non posso . . . » , allora il discorso è

73

CURA SOTTO CONTROLLO che un discorso del genere è molto più complesso e riguarda un'organizzazione che non è solo all'interno dell'istituto ma è un'organizzazione al livello del pa­ ese, cioè di prendere queste situazioni e affrontarle, cosa che noi non facciamo (medico).

Qui entrano in gioco gli effetti patologici della carcerazione in sé. Gallo e Ruggiero ( 1 9 8 9, p. 9) hanno messo in luce come il carcere implichi un certo quantum di « sofferenza legale » in quanto « fabbrica di handicap psicofisici » e come la reclusione sia di per sé una sofferenza « inelimina­ bile e irriformabile ». Foucault (1975, trad. i t. pp. 1 8-9) a questo proposi­ to fa riferimento a quel « postulato che non è mai stato chiaramente ab­ bandonato : è giusto che un condannato soffra fisicamente più degli altri uomini. La pena ha difficoltà a dissociarsi da un supplemento di dolore fisico » . Se nella lettura dei riformatori illuministi il carcere è strumento di esecuzione penale meno cruento delle pene corporali, nella descrizio­ ne di chi osserva le attuali condizioni di detenzione esso comporta in­ vece sofferenza, malattia e tortura psichica e fisica. Soprattutto in caso di condanne molto lunghe, la persona detenuta va incontro ai numerosi danni alla salute ben descritti dal medico francese Daniel Gonin ( 1994) : oltre ai problemi alla vista legati all'impossibilità di guardare lontano per via delle mura che circondano continuamente i detenuti, dermatologici per le carenze igieniche, all'apparato respiratorio per il fatto di vivere a stretto contatto gli uni con gli altri in spazi angusti e sovraffollati, all'ap­ parato digerente per l'alimentazione scorretta, le condizioni di vita in­ tramuraria favoriscono stress, depressione e soprattutto solitudine. Il fat­ to che un individuo possa sentirsi solo in un ambiente in cui non esiste privacy e si è continuamente a contatto con altri è solo apparentemente una contraddizione, in quanto i rapporti, seppur continui, sono in gran parte superficiali e la vita carceraria può essere ben rappresentata dalla contrapposizione tra vuoto e pieno di cui parla Gonin (sul punto cfr. an­ che Mosconi, 1998). Tale quadro influenza la scelta di molti operatori sanitari se prescrive­ re o meno degli psicofarmaci e, più in generale, qualunque farmaco. Gli operatori sanitari spesso parlano a tal proposito di « amplificazione del sintomo » all'interno del carcere. Il contesto è importante certo, perché diciamo che in carcere può darsi che si amplifichi un po' il sintomo. Il mal di testa che uno avverte in carcere porta a pensare "chissà che c'ho ?". Magari se uno ha mal di testa fuori, magari preso da altre cose, non ci fa tanto caso, quindi... (medico) .

74

3 · LE RELAZIONI

Un medico che tiene conto del "contenitore" in genere è consapevole di svolgere un ruolo particolare di interlocutore verso il quale la perso­ na detenuta va a "scaricare" tutta una serie di problematiche e questioni che non attengono alla sfera sanitaria intesa in senso stretto. Da un la­ to, quindi, è corretto affermare che in carcere si riscontri un alto livello di medicalizzazione, intesa come alta propensione dei pazienti a chie­ dere un intervento sanitario per risolvere problemi non medici (Fure­ di, 2o o6). Questo tuttavia deriva direttamente dalla violenza strutturale della vita detentiva e, come vedremo, da una scarsa possibilità di accedere ad altre forme di comunicazione e ascolto. Termini ricorrenti di alcuni medici sono in questo senso « empatia » e « rapporto empatico » , usati talvolta in maniera retorica e paternalistica per descrivere il rapporto con il paziente. Medico SerD : « io volevo dire soltanto una cosa, che spesso il medico diventa l'interlocutore principale del detenuto no, insomma, è la persona che ... cioè è ovvio che ci sono anche altre figure, per carità, gli agenti, gli educatori, però spesso capita che diventa anche la persona con cui uno reclama, tutta una serie di cose che magari, insomma si va anche un po' a scaricare no ? Dal medico, io tengo questo, tengo questo, tengo questo . . . » . Medico : «lo distinguerei il ruolo nostro, in particolare noi siamo u n po', ma proprio per modo di fare, un po' i medici di famiglia, di questi ragazzi, che non conoscono i loro medici di famiglia e anche nei servizi periferici noi siamo il riferimento principale per qualsiasi tipo di patologia. lo mi occupo anche di en­ docrinologia, faccio terapia endocrina, faccio di tutto, all'esterno, per dire. È un rapporto a 360 ° . Abbiamo una possibilità secondo me che altri colleghi o me­ dici non hanno, che il rapporto con il nostro paziente è un rapporto totalmen­ te diverso, noi riusciamo a convincere di farsi degli esami quando per esempio all'ingresso questi esami non vengono accettati dall'utente che entra. Vediamo nascere questo rapporto empatico, che lo è e ci caratterizza un po', in 30 anni di esperienza in carcere ha creato proprio questa . . . » ( focus group area sanitaria) .

L'autonomia professionale medica è influenzata dunque in primis dalla struttura carceraria in sé e da ciò che connota la quotidianità della vita detentiva. L'amplificazione del sintomo, lo stress che deriva dalla deten­ zione, il maggior bisogno di ottenere ascolto, sono tutti fattori peculiari della carcerazione e che influenzano le scelte del medico. Tuttavia, talvol­ ta sono stati riportati anche dei condizionamenti più di carattere istitu­ zionale. È il caso per esempio delle terapie di disintossicazione per tossi­ codipendenti. Se, da un lato, spesso i servizi per le dipendenze vengono 75

CURA SOTTO CONTROLLO

dipinti dall'amministrazione penitenziaria e dalla medicina generale co­ me una «parrocchia a parte » (direttore), per via dell'ampia autonomia che li connota da ben prima dell'entrata in vigore della riforma della sani­ tà penitenziaria3, dall'altro lato alcuni operatori di tali servizi hanno pre­ sentato un quadro di forte condizionamento esercitato per esempio sulle terapie da somministrare e sui programmi di trattamento. Sicuramente la normativa ha aiutato ad andare in una certa direzione però credo che la componente persona poi faccia la differenza, perché in teoria noi non abbiamo mai avuto nessuna limitazione, nella teoria, poi nella pratica quando mi si dice, mi si chiede perché, per esempio sui mantenimenti, fino a non molto tempo fa c'erano sicuramente delle forti riserve, che magari non si traduceva­ no in un « non li devi fare » però nella pratica non c'erano le condizioni per poi poterli fare, comunque ti trovavi in qualche modo in una posizione difficile quando facevi certe scelte ( medico SerD ) .

La scelta di somministrare metadone a scalare piuttosto che a manteni­ mento attiene evidentemente all'autonomia professionale del medico che ha in carico il paziente, ma all'interno del contesto carcerario emergono condizionamenti riconducibili in una qualche misura alla cultura peniten­ ziaria. Le stesse persone detenute non tossicodipendenti, o che hanno con­ cluso un percorso di disintossicazione, tollerano a fatica quello che descri­ vono come uno « stato di torpore » o « catatonico » della persona in fase di mantenimento con cui si trovano costretti a condividere la cella o la se­ zione. La questione è complessa, ma una lettura che provi a interpretare la convergenza tra vari attori nel condannare terapie a mantenimento riman­ da ai confini offuscati tra il trattamento del problema della dipendenza e il trattamento penitenziario. Il dovere di "ripulirsi" viene in genere associato a un comportamento disciplinato che accetta il trattamento offerto dall'i­ stituzione penitenziaria in toto, con frequenti confusioni tra trattamento sanitario e trattamento penitenziario (Sissons, 1976). Educatore : « Nell'ottica d i riduzione del danno, sempre rimanendo nell'ambito trattamentale, secondo me esiste un percorso ideale dal punto di vista tratta3· Occorre sottolineare, infatti, che il trasferimento di competenze ai servizi per le tos­ sicodipendenze è avvenuto in via sperimentale molti anni prima dell'entrata in vigore della riforma della sanità penitenziaria ( 1° aprile 200 8 ) . Anche per questo nello svolgimento del­ la loro attività questi servizi hanno sviluppato un'autonomia dalla gestione penitenziaria ben più marcata rispetto al resto della sanità. Per una ricostruzione delle varie tappe attra­ verso cui è entrata in vigore la riforma si rimanda a Libianchi (2oo8).

3 · LE RELAZIONI mentale che riguarda i l percorso comunitario perché, come ben sapete, tutti i detenuti tossicodipendenti vengono allocati nel padiglione X, nella sezione Y, e sottoposti a scalare metadonico, dopodiché non tutti ma alcuni, coloro che lo vogliono, perché l'adesione deve essere strettamente volontaria, chiedono di accedere al padiglione Z, all'interno del quale vi è una comunità, che si divide in due percorsi a seconda del fine pena dei detenuti pazienti che risultano ivi allo­ cati e quindi è proprio il percorso comunitario il vero banco di prova, superato il quale il detenuto può dire di essere un po' più pronto all'uscita, anche attingere a quelle rare offerte da parte dei SerT di appartenenza che riescono poi a far consentire l'accesso alla misura alternativa » . Ispettore : «Anche secondo me bisogna puntare proprio sul trattamento, sulla rieducazione perché la direzione, la polizia penitenziaria può puntare sull'in­ tensificazione dei controlli, però deve essere endospettrico da parte dell'utenza detenuta che si capisca che deve disintossicarsi da questo problema » . Direttore : « Deve capire che questo tempo della detenzione possa essere utiliz­ zato anche in quel modo >> (intervista collettiva operatori penitenziari) .

I toni retorici e paternalistici che emergono in molte delle interviste (sia da parte di operatori sanitari che penitenziari), unitamente ai condi­ zionamenti messi in luce da alcuni operatori sanitari, denotano dunque un'interferenza con l'autonomia professionale del medico che caratteriz­ za precisamente il contesto carcerario. Chiaramente non tutti gli opera­ tori sanitari reagiscono allo stesso modo a tale tipo di influenza e le loro posizioni possono essere collocate su un continuum che va dalla marcata istituzionalizzazione a un'azione piu orientata all'autonomia professiona­ le (Ronco, 20I4). Il medico può dunque rispondere in maniera differente alle frequentemente conflittuali istanze che gli arrivano dall'istituzione e dal paziente detenuto e che caratterizzano la richiesta di una "duplice lealtà" di non facile ricomposizione (Pont et al., 20I 2; Prout, Ross, I 9 88). Dal punto di vista delle relazioni istituzionali tra amministrazione penitenziaria e servizio sanitario, accade che alcune questioni vengano risolte con " bracci di ferro" tra dirigenti, e i progressi rispetto all'autono­ mia decisionale che aveva il dirigente penitenziario su questioni sanitarie prima della riforma sono tanti e significativi. Ad esempio, un tema che da sempre desta preoccupazioni nell'amministrazione penitenziaria è quel­ lo dell'accumulo e dello scambio di farmaci. Si legga la seguente testimo­ nianza, emblematica del passaggio di competenze dall'amministrazione penitenziaria a quella sanitaria. Il discorso dell'accumulo dei farmaci ... io sarei più favorevole a una gestione a questo punto di... siccome il farmaco è una cosa legale, a questo punto dai

77

CURA SOTTO CONTROLLO la gestione del farmaco al singolo ... il detenuto in quel momento è un pazien­ te, si gestisce il farmaco, però a quel punto devi esonerare l'amministrazione penitenziaria sul fatto che lui ha venduto il farmaco, punto. [ ... ] Il detenuto deve essere sempre più considerato come un soggetto attivo, senziente, non più un bambino, deve assumersi le sue responsabilità, e siamo già partiti alla fine, perché i detenuti tutti, quasi tutti insomma firmano patti di responsabilità, di assunzione di... fra questi ci metti anche la gestione del farmaco, io ti do, devi prendere le pastiglie, ti do il farmaco per una settimana e te lo gestisci, poi se il farmaco viene usato ... perché non è tanto diverso dal fatto della cessione delle sigarette o dei francobolli, sia chiaro che ... però se tra i farmaci sono previsti anche psicofarmaci, può essere che tu lo cedi ad altri e la situazione può ... però deve essere responsabilità della singola persona ... [ . . ] sono delle persone che fir­ mano dei patti di responsabilità, hanno delle regole, quindi sanno che il farmaco lo devi gestire come tua terapia, se poi ti scopro che hai violato le regole, quindi il farmaco non l'hai preso e l'hai regalato a qualche tuo compagno, allora quella è una violazione del patto generale e noi lo valuteremo [ ... ] . Quando la sanità penitenziaria era nostra, io avevo fatto la disposizione, avevamo comprato gli strumenti che qualsiasi farmaco era in pastiglia veniva sbriciolato. Questa cosa qua, noi lo facevamo, adesso la sanità non ce lo permette, perché ci sono farma­ ci che non possono essere sbriciolati e quindi la sanità non l'ha accettato più. Quando la responsabilità era mia, noi avevamo comprato le macchinette ed era un modo per riuscire vagamente almeno a contrastare, perché se ce l'hai sbri­ ciolato gli puoi passare un po' di bricioline, ma non riesci a passargli le pastiglie intere. Adesso questa cosa qua l'A sL non la accetta e quindi, questo è, non puoi pensare, dovresti mettere con la ... una persona che gli controlla la bocca come ... e quindi diventa un po'... le tecniche per riuscire ad accumulare le medicine sono molte (direttore) . .

La gestione del farmaco è uno degli aspetti che più tipicamente richiede un confronto e uno scambio tra le due amministrazioni. Qui sono in bal­ lo sia l'autonomia del sanitario che prescrive che quella del paziente per quanto concerne le modalità di assunzione. La testimonianza qui sopra riportata da un lato esprime una delle rare aperture da parte della dire­ zione verso il riconoscimento dell'autonomia del paziente nell'assunzio­ ne di farmaci (posizione, occorre sottolinearlo, piuttosto rara nel pano­ rama dell'amministrazione penitenziaria italiana) , dall'altro riconduce comunque il rispetto di una corretta assunzione al patto di responsabilità con la persona detenuta e al rispetto delle regole. Si tratta di un ulteriore esempio di un comportamento, quello della cessione di una sostanza le­ gale, che all'interno del contesto carcerario assume una connotazione del tutto peculiare rispetto all'esterno e per il quale viene richiesto all'opera-

3 · LE RELAZIONI

tore sanitario ( in particolare alla figura dell'infermiere) un ruolo di con­ trollo che in altri contesti non assume. Già Goffman ( I 9 6 I ) distingueva lo staff tra coloro che sono in prima linea a contatto con gli internati e coloro che invece stanno in secondo piano e possono permettersi anche atteggiamenti più liberali con loro. Nel caso dell'istituzione penitenzia­ ria, l'infermiere è, tra tutti gli operatori sanitari, quello più presente nella quotidianità detentiva, sia per il numero di ore in cui è presente in istitu­ to, sia per la sua vicinanza fisica con la popolazione detenuta, avendo, a differenza del restante personale sanitario, in genere accesso alle sezioni detentive. Se la distribuzione di farmaci e i rischi di accumulo e scambio costi­ tuiscono uno degli aspetti che generano più ansia nell'amministrazione penitenziaria, la questione su cui convergono le principali preoccupazio­ ni in termini di maggior interferenza da parte dell'istituzione peniten­ ziaria riguarda la garanzia della privacy.

3 ·3 « L'infermeria è un porto di mare » : la mancanza di privacy in carcere

Non esiste privacy, a prescindere dalla privacy che dovrebbe esserci tra detenuto e medico perché comunque [ride] eh, eh, c'è segreto d'ufficio, quindi... ma, an­ che fosse, tutti sanno tutto di tutti, quindi non c'è privacy, non esiste privacy. In teoria sì, ma in pratica no. Belle parole, tante sulla privacy, ma non esiste privacy, anzi ! C'è proprio un latitare ! (detenuto)

La distanza tra norma e prassi è estremamente ampia in tema di garanzia della privacy. A fronte di timide dichiarazioni formali di rispetto della privacy, per lo più da parte di alcuni rappresentanti dell'amministrazione penitenziaria, la maggioranza degli interlocutori che hanno partecipato alla ricerca ha rilasciato dichiarazioni analoghe a quella riportata poco sopra, delineando un quadro di quotidiana violazione di tale diritto. Le ragioni delle frequenti e sistematiche violazioni sono essenzialmente due, ancora una volta riconducibili a questioni in parte strutturali e in par­ te culturali. Da un lato, emerge infatti la criticità di strutture inadatte a ospitare spazi sanitari e di prassi che non consentono il rispetto di que­ sto diritto, considerato che la violazione della privacy è connaturata alla carcerazione, a partire dai rituali di degradazione ( Garfinkel, I 9 5 6 ) cui è 79

CURA SOTTO CONTROLLO

sottoposta la persona detenuta fin dal momento dell'ingresso ; dall'altro lato sono frequenti le istanze di forme di controllo ad opera degli agen­ ti, che possono provenire sia dall'amministrazione penitenziaria, che da parte medica, che, più sorprendentemente, talvolta anche dalle persone detenute stesse. Per quanto riguarda il primo aspetto, quello strutturale, l'immagine dell'infermeria «porto di mare » descrive bene la quotidianità dell'ero­ gazione di servizi sanitari in contesto penitenziario. Gli spazi, in primo luogo, sono mediamente ridotti in proporzione al numero di persone che necessitano di incontrare il personale sanitario4• In secondo luogo, varie prassi diffuse in ambiente carcerario contribuiscono alla violazione di ta­ le diritto, con particolare riferimento a due situazioni : le visite mediche e la distribuzione di terapie. Nel caso delle visite, la denuncia di mancanza di privacy può essere correlata sia alla presenza di agenti dentro o in prossimità delle stanze in cui il paziente incontra il medico, che, talvolta, alla presenza o vicinanza di altre persone detenute. Diciamo che siamo sempre tutti in fila, ognuno sente qualsiasi cosa. Anche l'a­ gente sta dentro, solo quando gli squilla il telefono e deve andare a rispondere esce, dopo torna (detenuto). Vuoi dire che mentre uno è a visita c'è quello che bussa, c'è quello che... abbiamo messo il cartone perché la gente non guardi (medico) . Durante le visite spesso accade che anche lì viene meno perché comunque l'in­ fermeria spesso e volentieri è un porto di mare, per cui c'è gente fuori che aspet­ ta, c'è gente che si infila nonostante ci sia un trattamento, quindi anche lì ci sarebbe da ridire, per quanto gli operatori cerchino, si sforzino di tutelarla, però è inevitabile che insomma ... Poi qui se una voce scappa è di pubblico dominio un secondo dopo e quindi... io in particolare, parlo di me, non ho particolari cose a cui tengo (detenuto).

Anche per quanto concerne la distribuzione delle terapie, da più parti vengono lamentate violazioni (cfr. PAR. 2. 4) e anche nei casi in cui l'isti­ tuzione provi a individuare delle strategie per garantire una maggiore ri­ servatezza (come la distribuzione in infermeria o nelle celle piuttosto che 4· Si rimanda, ancora una volta, alle considerazioni contenute nei rapporti sull'I­ talia del Comitato europeo sulla prevenzione della tortura (Council ofEurope, 201 7 ) .

8o



LE RELAZIONI

nei corridoi) ci si scontra con dei fattori strutturali ( infermerie con porte trasparenti, celle sovraffollate ecc.) che sostanzialmente non consentono il rispetto della privacy. La descrizione delle prassi contribuisce a delineare un quadro problema­ tico a questo proposito e in un caso ci è capitato di osservarlo direttamen­ te. In uno degli istituti coinvolti nella ricerca ci siamo trovati in una stanza dell'infermeria durante una pausa-caffè prima di iniziare un focus group con gli operatori sanitari. Nella stessa stanza, in cui abbiamo trascorso circa una mezzoretta, abbiamo osservato un via vai di operatori e persone detenute, a una delle quali è stata consegnata la terapia metadonica. La scena cui abbia­ mo assistito ci dà la misura della normalità che caratterizza la distribuzione di terapie di fronte ad altri soggetti, in quel caso peraltro del tutto estranei all'istituto. Un altro esempio di prassi che incide sulla garanzia della privacy riguarda la prenotazione di visite mediche. Nelle visite mediche bisogna che il detenuto dica all'infermiere, la sera prima, di segnare la visita medica. L'infermiere automaticamente dice « qual è il problema? » . Qualche volta c i sono cose che non s i possono dire, perché c'è una guardia di fronte a te che sta accompagnando il carrello della terapia, c'è il tuo compagno di cella che è dietro di te, e magari tu vuoi tenerti il problema per te, tra te e il tuo dottore, no ? Allora lui insiste, dice «cosa c'ha ? » . Questa cosa qua, quando uno dice « ho proble­ mi personali » , non vogliamo che venga ignorata la persona che non viene chiamata alla visita, perché uno dice «ho problemi personali, ho problemi a un'altra cosa » , la dottoressa dice così, per sua esperienza i detenuti usano i dolori dell'addome o i do­ lori del petto per venire a chiedere della terapia. Invece quando una persona sta male veramente e viene ignorato, allora lì è proprio grave. Noi chiediamo che quando uno dice «ho problemi personali, devo parlare con la dottoressa » , non venga ignorato, che venga chiamato. E questa è privacy (focus group detenuti) .

Nelle prassi consolidate in carcere, l'infermiere viene sempre più spesso inve­ stito del ruolo di mediazione tra la persona detenuta e il medico. Si tratta di un'espressione della più generale assunzione di poteri professionali paralleli a quello medico ( Branzini, 20I3), fenomeno che ha, se non scalfito, quan­ tomeno rimodellato la dominanza medica così come originariamente intesa ( Freidson, I970 ). Sappiamo un po' le pecche di tutti, sappiamo chi ne ha bisogno veramente di una cosa, chi meno, quindi bene o male mediamo molto tra loro e i medici (in­ fermiere) . 81

CURA SOTTO CONTROLLO Allora, prima funzionava: sto male, mi segno visita medica; adesso invece passa l'infermiera e le dici « mi segni a visita medica? » . Se l'infermiera ritiene op­ portuno segnarti dal medico ti segna, sennò non ti segna. Ma non è una cosa corretta. Uno tu sei un'infermiera, due perché la mia patologia la devi sapere tu ? Tanto per iniziare, no ? ( detenuto )

La figura dell'infermiere non è l'unica a fare da intermediario tra le istanze del paziente detenuto e il medico. Sempre più spesso emergono situazioni in cui una pluralità di attori si trova di fatto a fare da filtro. In alcuni casi ta­ le ruolo viene svolto da personale comunque sanitario o para-sanitario : è il caso per esempio dei promotori di salute, figure introdotte in alcune realtà osservate con il compito di fare da intermediari tra i vari servizi ( sia interni che esterni, considerato che molte persone detenute sono già in carico a dei servizi, si pensi al caso delle dipendenze ) e di realizzare una promozione della salute essenzialmente attraverso la gestione di gruppi di formazione su specifiche tematiche sanitarie. Tra le varie attività svolte da queste figure, spesso c'è proprio una forma di raccordo con il personale sanitario. Tante volte ci troviamo a mediare anche tra il medico e la persona detenuta ( promotore salute ) .

Tali figure restano tuttavia una rarità nel panorama italiano e nella stra­ grande maggioranza dei casi accade che siano altri soggetti dell'ammini­ strazione penitenziaria a esercitare il ruolo di filtro, soggetti che afferi­ scono sia all'area trattamentale che a quella custodiales. Spesso, diciamo, i detenuti ci investono di problemi che magari non sono di nostra stessa competenza non essendo noi dei medici e però, come dire, essen­ do comunque rappresentanti dell'istituzione abbiamo il dovere di occuparci, di dare delle risposte, fosse anche, come dire, mettendoci a disposizione come facilitatori tra le varie figure che interagiscono con il detenuto e quindi insom­ ma ... ( educatore ) . s. li più recente rapporto del Comitato europeo per la prevenzione sulla tortura ( Council of Europe, 201 7 ) evidenzia a questo proposito le rimostranza di alcuni detenuti che, durante la visita di una delegazione all'istituto penitenziario di Ivrea, lamentavano di dover indirizzare oralmente le loro richieste di incontrare i medici agli agenti di polizia penitenziaria e di come tali richieste venissero fùtrate e spesso discrezionalmente respinte. Nel rapporto il CPT raccomanda a questo proposito di consentire ai detenuti di entrare in contatto con gli operatori sanitari in maniera riservata, in modo da evitare l'esercizio di qualunque attività di fùtro da parte della polizia penitenziaria.



LE RELAZIONI

Abbiamo u n buon rapporto coi medici, non ci lottiamo contro e s e c'è d a lavo­ rare insieme lavoriamo e cerchiamo di..., a volte segnaliamo noi anche, spesso, segnaliamo noi delle persone, per sentito dire, o questa persona non si sente bene, per un qualsiasi motivo è ... , non solo riguardo alle malattie infettive. Ma­ gari ha paura di comunicare col medico, quindi lo comunichiamo noi al medico o all'infermiere, guarda questa persona, parlando con qualcuno ha detto questa cosa e quindi... (agente polizia penitenziaria). In alcune realtà, inoltre, sono in corso esperimenti di peer education che, tra le altre funzioni, attribuiscono anche ad alcuni detenuti il compito di filtrare i bisogni. Fatta salva l'utilità di uno strumento di promozione della salute at­ traverso la trasmissione di informazioni di carattere sanitario (in chiave quin­ di di educazione sanitaria), le esperienze di detenuti coordinatori di sezione, facilitatori o figure analoghe, che in qualche modo vengono investite del ruo­ lo di raccogliere istanze di carattere sanitario per poi trasmetterle alle figure sanitarie, pongono non pochi interrogativi in tema di tutela della privacy.

No, allora, inizialmente è stato fatto, però quello non è piaciuto gran che, perché l'i­ dea di andare a dire a un compagno, ancorché identificato come punto di riferimen­ to, anche solo andare a dire voglio andar dal medico che c'ho un problema, men che meno dirgli la motivazione hai capito ? Per fare una cosa del genere, anche perché poi mi rendo conto che il rappresentante di sezione si trova sotto pressione. È successo una volta che si stava facendo una vaccinazione per il meningococco che [il facili­ tatore, N.d.A.] venne a farsi la vaccinazione e poi rientrò chiedendo di mandarci in sezione "perché mi stanno chiedendo se io so n malato perché sono andato a fare una punturà', non so se rendo l'idea. Oppure qualcuno che va a chiedere al facilitatore mettendogli pressione chiedendogli «perché lui vuole andare dal dottore ? » , maga­ ri ieri ci siamo menati, lui vuole andare dal dottore, «come mai va dal dottore ? » . Diverso è l'infermiere perché chiaramente è una figura fuori da. . . (medico).

Esperienze spesso identificate come buone prassi, come quelle di peer education, possono quindi essere messe in discussione qualora vengano intese e utilizzate anche come filtro tra un medico e un paziente-detenu­ to che magari non ha alcuna intenzione di far conoscere ai compagni di detenzione il proprio stato di salute. Spostandoci sul piano delle culture penitenziarie, spesso sono gli stessi operatori (penitenziari e sanitari) a fornire giustificazioni - per quelle situazioni che costituiscono a tutti gli effetti violazione della pri­ vacy - che ruotano attorno alle esigenze di sicurezza e di controllo. Fre­ quentemente emerge in tal senso la discrezionalità degli agenti nell'indi-

CURA SOTTO CONTROLLO

viduare quali detenuti siano più "problematici" e pertanto richiedano la presenza dell'operatore durante la visita. C'è il grosso problema della privacy, però dipende anche un po' dal detenuto no ? Talvolta è lo stesso poliziotto che si rende conto se la persona può stare da sola con il medico oppure se è un caso particolare, ma non è che è proprio pre­ sente all'interno dell'infermeria, sì, sta più o meno diciamo all'uscio. Vede non vede, diciamo (medico).

Il quadro è tuttavia piuttosto complesso e quello che da più parti è con­ siderato problematico in tema di privacy, da alcuni viene addirittura au­ spicato. È il caso riscontrato per esempio in una sezione detentiva femmi­ nile, dove gli operatori e le detenute convergono nell'attribuire un ruolo di testimone all'agente di polizia penitenziaria durante le visite con il medico. Si leggano a tal proposito le due testimonianze, di un sanitario la prima, di una detenuta la seconda. Le visite si fanno alla presenza dell'agente, ci vuole un testimone per ovvie ra­ gioni. [ ] no le specialistiche no, però le nuove giunte per esempio la detenuta viene visitata in presenza dell'agente. Però non è che uno si mette lì a discutere con l'agente delle malattie, l'agente è presente soltanto per un fatto di testi­ monianza. Questo al nuovo ingresso. Invece le visite specialistiche si fanno in infermiera, il medico e la paziente, come in un ambulatorio al di fuori di questo contesto. Loro arrivano da sole qui, solo in alcuni casi vengono accompagnate dagli agenti e comunque aspettano fuori, non entrano, sono loro a dire « noi non entriamo, è ? » (medico) . ...

A volte tra detenuto e medico o tra detenuto e infermiere ci può scappare un diverbio, quindi si alzano i toni della voce, si arriva poi a un punto dove non si potrebbe arrivare, però poi la parte del coltello dalla parte del manico ce l'ha il dottore o l'infermiere, perché io son detenuta, l'assistente non c'era e tra virgo­ lette chi se la piglia nel sacco è il detenuto (detenuto) .

Si tratta tuttavia di un caso sporadico e che presumibilmente chiama in causa questioni di genere, mentre nella stragrande maggioranza dei casi la presenza dell'agente durante le visite, tuttora frequente negli istituti di pena, viene riportato come un fatto altamente lesivo del diritto alla pri­ vacy da parte delle persone detenute. Un diritto, ancora una volta, siste­ maticamente subordinato alle esigenze di controllo. Le opinioni espresse dagli operatori sanitari sono piuttosto difformi in termini di livello di gravità della violazione : abbiamo visto come ci sia chi



LE RELAZIONI

denuncia senza reticenze la violazione, chi minimizza e chi la giustifica sul­ la base di superiori esigenze di tutela e sicurezza. Anche tra gli operatori pe­ nitenziari c'è chi ammette una costante violazione, giustificandola o meno, e chi invece minimizza. Il punto fermo è che nelle descrizioni delle prassi e nelle maglie delle testimonianze raccolte, si delinea un quadro di criticità che fa della violazione della privacy uno dei principali nodi problematici in tema di tutela della salute all'interno dei contesti penitenziari. Una delle implicazioni più importanti in tema di violazione della privacy riguarda la sua stretta connessione con la prevenzione e la denuncia di vio­ lenze. Sebbene, attraverso la ricerca, raramente si sia potuto sviscerare questo tema in maniera approfondita6, è chiaro come la violazione della privacy e della riservatezza nella relazione medico-paziente detenuto possa costituire un forte ostacolo all'emersione di casi di maltrattamenti e violenze. Nel più recente rapporto sulla visita all'Italia da parte del Comitato europeo per la prevenzione della tortura ( Council of Europe, 20I7 ), si legge che la delega­ zione ha riscontrato negli istituti oggetto del monitoraggio una totale man­ canza di « medicai confldentiality » durante le visite mediche ai detenuti e di come numerose persone detenute vittime di maltrattamenti abbiano espres­ samente ammesso che la presenza di personale penitenziario durante le visite abbia un effetto dissuasivo nel denunciare gli abusi.

3 ·4 L a relazione medico -paziente detenuto

Ulteriore aspetto problematico, con un impatto significativo sul principio dell'equivalenza delle cure alla base della riforma della sanità penitenziaria, continua a essere la relazione tra medico e paziente detenuto. L'analisi della relazione terapeutica è per alcuni autori (Kuty, I97S) centrale e gli orienta­ menti culturali dei medici avrebbero un peso ben più determinante nelle re­ lazioni di potere che non le differenze strutturali. L'autore individua due for­ me di gestione dei servizi sanitari, quella egualitaria e quella gerarchica, la pri6. Gariglio (2016) ha messo in luce come la ricerca qualitativa sul carcere in Italia (a differenza per esempio dei casi inglese e francese) si connota per la possibilità, da parte del ricercatore, di realizzare interviste generalmente solo con detenuti "selezionati" dall'am­ ministrazione penitenziaria, come nel nostro caso. Questo, evidentemente, rappresenta un grosso limite all'emersione del fenomeno. Sulla violenza intrinseca alla carcerazione, si ri­ manda al bel libro di Scraton (2009 ) .

ss

CURA SOTTO CONTROLLO

ma caratterizzata da una relazione più diretta con il paziente e dalla promo­ zione dell'autonomia e dell'affettività; la seconda da una relazione mediata e fondata sulla tecnica. Per Kuty sono «il tipo di orientamento culturale del primario e le sue scelte ideologiche a influenzare il tipo di relazioni fra perso­ nale e pazienti, così come le relazioni fra le diverse categorie del personale » ( Carricaburu, Ménoret, 2007, p. 42). Pare interessante provare ad applicare tali considerazioni all'analisi delle differenze nella relazione terapeutica tra dentro e fuori il contesto penitenziario. In tal senso, i processi di iniziazione dei medici, come li definirebbe Hughes (1955), ossia la socializzazione alla professione della medicina penitenziaria, assumono particolare rilievo all'in­ terno del carcere, soprattutto in riferimento all'influenza esercitata dalla cul­ tura penitenziaria di cui abbiamo riportato vari esempi. Le European Prison Rules prescrivono all'articolo 40.3 che tutti i de­ tenuti devono avere accesso ai servizi sanitari disponibili nel paese senza discriminazione sulla base della loro situazione giuridica. Se, come abbia­ mo visto nel capitolo precedente, vari fattori strutturali rendono proble­ matica la piena applicazione di tale norma, vedremo in questo paragrafo come alcuni fattori culturali contribuiscono a influenzare il modo in cui viene a configurarsi una relazione tra medico e paziente detenuto che, per molti aspetti, manifesta tratti distinti rispetto all'esterno. Ma come si manifestano le principali differenze dentro/fuori e in che modo le culture penitenziarie contribuiscono a determinarle ? Dal punto di vista della relazione utente-professionista, le peculiarità del contesto carcerario riguardano una serie di pregiudizi e stereotipi che caratteriz­ zano le interazioni. 3 · 4 ·1. DENTRO VS FU ORI : LA MEDICINA D IFENS IVA

lo ho sempre avuto la convinzione che la medicina difensiva è nata in carcere. Mentre fuori, se io faccio il medico curante e mi muore uno per infarto e magari non c'eravamo accorti che lui c'aveva un colesterolo alto perché lui non era venuto da me, cavoli tuoi, no, in una certa maniera. Qui il discorso è che noi invece abbia­ mo una certa responsabilità di andare verso il paziente, quindi la responsabilità da questo punto di vista è sicuramente maggiore, ti viene attribuita (medico).

Con «medicina difensiva » si intende la prescrizione da parte del medi­ co di un numero eccessivo di esami e accertamenti per cautelarsi da even­ tuali denunce. È quell'approccio medico che subordina il bene del pa­ ziente alla percezione del rischio legale che il professionista corre nell'at­ tivare o omettere un determinato intervento ( Bobbio, 2017, pp. 99-100 ). 86



LE RELAZIONI

La ricerca ha rilevato una tendenza diffusa ad adottare questo ap­ proccio all'interno del contesto penitenziario. Una delle prime regole che l'operatore sanitario apprende nel processo di socializzazione alla professione all'interno del carcere riguarda il come tutelarsi da eventuali denunce. Le due situazioni in cui più spesso viene esplicitato, in forma più o meno diretta, il riferimento alla medicina difensiva, riguardano i rischi di autolesionismo e suicidio, da un lato, e quelli connessi all'uso di droghe - illegali o legali - dall'altro. Per quanto riguarda il primo aspetto, un approccio difensivo permea la generalità degli operatori all'interno del carcere, non solo sanitari, ma altresì penitenziari. Si legga la seguente affermazione, emblematica da questo punto di vista. Il suicidio è una sconfitta per lo Stato. Un detenuto s'ammazza, c'abbiamo perso tutti quanti (polizia penitenziaria) .

Al pari dell'operatore sanitario che fin dal suo ingresso in carcere impara la regola del "tutelarsi" prima di tutto, ogni operatore penitenziario ap­ prende immediatamente a scrivere tutto ( Chantraine, Sallée, 20I5; Tor­ rente, 20I4). Per prevenire i gesti di autolesionismo e i tentativi di suici­ dio, l'approccio cautelativo può determinare una deprivazione completa e l'isolamento totale e prolungato, pratiche che evidenziano tutta l'am­ biguità della « violenza del proteggere » ( Torrente, 20I6, p. 275). L'obiet­ tivo principale è tutelarsi dalle possibili accuse di non essersi attivati per prevenire tali gesti e questo mette in subordine il benessere della persona considerata a rischio. Altro rischio da scongiurare a tutti i costi, all'interno del carcere, è l'overdose. Anche in questo caso siamo di fronte ad un atteggiamento tendenzialmente compatto da parte sanitaria e penitenziaria. La droga non deve entrare in carcere, no ? Innanzitutto faccio un'attività di pre­ venzione, assolutamente sì, attraverso i controlli, le perquisizioni, sia delle cose che entrano, dei familiari e dei detenuti. [ ... ] Il problema è qui che anche la gente che entra in carcere è in astinenza da parecchio, quindi se entra della droga tu rischi che la persona che l'assume, è quello è ancora più grave, ti va in overdose (direttore).

Abbiamo già visto, nel PAR. 2.5, come alcuni medici mettano in luce il diverso peso che un caso di overdose assume dentro e fuori dal carcere. Ma non si tratta soltanto di un diverso modo di tutelare la salute ( in car-

CURA SOTTO CONTROLLO

cere con più controllo e proibizionismo, fuori con maggiore spazio per interventi di riduzione del danno e di riconoscimento dell'autonomia del paziente ) . Si tratta piuttosto di cautelarsi dalla responsabilità che, all'interno del carcere, viene attribuita all'istituzione, in caso di morte per overdose per esempio, per non aver attivato i dovuti controlli. Da qui l'approccio della sorveglianza all'ingresso, sia, da parte penitenzia­ ria, affinché non si introducano sostanze illegali, sia, da parte sanitaria, attraverso esami per appurare l'eventuale assunzione di sostanze. Ma da qui si sviluppa anche il diffuso timore verso lo scambio di farmaci legali, che determina quella lesione dell'autonomia e della privacy nella distri­ buzione di cui abbiamo ampiamente trattato nel paragrafo precedente. Più in generale, l'approccio difensivo connota l'esercizio in toto del­ la medicina all'interno del carcere e, come si legge nella lunga e attenta testimonianza che segue, sembra essere tornato particolarmente in auge in tempi recenti. Una visione culturale che era stata un po' superata, che a livello dei sanitari non si sentiva più moltissimo. Che poi sostanzialmente è questa: è pensare al carcere come un luogo chiuso, essendo un luogo chiuso se io ho dei problemi in carcere non li posso buttare fuori i problemi, devo gestirli dentro. I problemi in carcere me li danno essenzialmente le persone che ci stanno, le persone che ci stanno sono persone di scarso valore, e sono persone di cui io non mi posso fidare. Date queste premesse, ne deriva una visione della sanità in carcere che è « questi sono costretti a star qui dentro, io devo stare pronto se capita qualche casino a pararmi le spalle » . Quindi evitare che mi muoia uno qui, che si faccia un infarto in qualche modo ecc. Questa è una visione della sanità penitenziaria di cui, come dire, si sente un po' la ripresa, si sente un po' il riaffermarsi come di una sanità razionale, di una sanità che gestisce i problemi, di una sanità che risparmia, di una sanità che effettivamente non sta lì a sbrodolarsi con tutte queste robe lì e così. Viceversa una cultura che andrebbe un po' più d'accordo con il movimento dell'amministrazione penitenziaria, che tenga conto del fatto che le persone che sono lì sono di tipo diverso, che per carità ci saranno dentro quelli che uno non ci si può fare niente, irrecuperabili, o tutto quello che volete, ma che invece ne­ cessariamente ci sono dentro tutta una serie di persone che invece devono essere attentamente discriminate, nel senso positivo, del discernimento, riconosciute e sulle quali è opportuno fare un investimento riabilitativo. Quindi non soltanto una persona che tu guardi come un potenziale pericolo perché o ti fa delle grane oppure, se non sono delle grane pretestuose, ti fa la malattia vera, ti muore dav­ vero e tu sei nei pasticci, ma una persona che come dire merita, che ha un valore e che quindi rispetto alla quale merita fare un investimento di tipo riabilitativo 88



LE RELAZIONI

che non sia soltanto dargli i l farmaco. Questo è u n problema assolutamente cri­ tico, attuale e centrale. Ed è il problema del quale quando poi si parla di relazio­ ne con gli utenti, con i pazienti, con i detenuti, è il problema nel quale si ficcano dentro loro, i pazienti detenuti. Nel senso che loro si rendono perfettamente conto di queste due culture e cercano di usarle nel modo o nell'altro, allora se tu sei un medico che fa la medicina difensiva ti fanno delle grane, se sei un medico che fa la medicina diciamo riabilitativa, chiamiamola così per capirci, toccano le tue corde, come dire, più umane eccetera (medico SerD) .

Uno dei fattori che comporta un maggior ricorso alla medicina difensiva in carcere piuttosto che fuori viene da alcuni operatori sanitari ricono­ sciuto e giustificato attraverso l'idea diffusa che le persone detenute si­ mulino malattie o stati di sofferenza. Affronteremo nel dettaglio questo tema nel paragrafo che segue, ma quello che qui preme sottolineare è che tale pregiudizio contribuisce a determinare quell'iperprescrizione di ac­ certamenti che, a sua volta, determina un prolungamento dell'attesa che, in contesto carcerario, diventa ossessione per « l'infinito senza tempo in cui la mente si perde » ( Gallo, Ruggiero, I 9 8 9, p. 7 ) . 3 · 4 · 2 · AL LUPO, AL LUP O ! S I MULAZIONE E STRUMENTALIZZAZ I ONE

Molti di loro veramente simulano e quindi per noi diventa pericolosissimo, per­ ché se da una parte tu non devi sopravvalutare, devi stare attento a non sottova­ lutare le cose, perché al lupo al lupo, poi arriva la volta ... Fortunatamente ecco io lo dico sempre anche ai miei infermieri, attenzione quando vi chiamano, anche se è la centesima volta, voi comunque ci andate, perché non puoi mai sapere, il rischio è abbassi la guardia, è capitato due giorni fa, abbiamo avuto un detenuto che ha avuto un infarto, qu indi è stato preso e ha portato a casa la pelle, però per dire che qualche volta succede anche insomma no quindi... (infermiere).

Un'ampia parte delle interviste e dei focus group con gli operatori sanita­ ri è stata dedicata alle differenze riscontrate tra lavorare dentro e fuori dal carcere. In risposta alla sollecitazione a esprimersi e confrontarsi su tali differenze, nella stragrande maggioranza dei casi gli intervistati hanno individuato come principale criticità i meccanismi di simulazione che la persona detenuta metterebbe in atto in maniera capillare e quotidiana. Il detenuto che "finge" è un'affermazione ricorrente e sostanzialmente con­ divisa da gran parte degli operatori, la cui cultura è dominata dall'idea che la persona detenuta provi continuamente a fregare le autorità ( Sim, 200 2, p. 307 ) Al pari di ogni operatore penitenziario, tra le prime regole .

CURA SOTTO CONTROLLO

che il professionista sanitario impara al suo ingresso in carcere, oltre alla necessità di tutelarsi da possibili denunce di malasanità, c'è proprio l'ac­ quisizione di consapevolezza della tendenza alla simulazione da parte del paziente-detenuto. Nella percezione degli operatori sanitari, la tendenza alla simulazio­ ne è ciò che differenzia maggiormente la relazione con il paziente rispet­ to all'esterno. Nelle testimonianze raccolte la strumentalizzazione può collocarsi tra due estremi: da un lato, c'è chi ritiene che la strumentaliz­ zazione della salute sia sostanzialmente un meccanismo messo in atto, spesso inconsapevolmente, per uscire dalla cella ed esprime un bisogno di essere ascoltati ( Neisser, 1977 ) . Il medico diventa una figura cui con­ vogliare richieste che non riguardano necessariamente la salute in senso stretto, ma, in un contesto di sostanziale s-comunicazione e difficoltà a trovare degli interlocutori, il numero di richieste di visite mediche si im­ penna per rispondere a tale bisogno, non tanto quindi perché ci sia una maggiore istanza di medicalizzazione in senso stretto. più bisogna anche dire che qui il medico non è visto solo come un medico. Al di là di noi in particolare, e questo !asciamolo lì, ma in generale dal dottore tu ci vai un po' perché hai l'occasione di uscir da quella cella, un po' perché comunque qui qualunque cosa non sai a chi chiederla, cioè l'unico elemento che c'è un po' al di là del carcerario è il dottore. Quindi a volte tu ci vai per dirgli «oh, ma io sono agitato perché non posso fare le telefonate » , cioè il dottore è diventato un pochi­ no ... , lo psichiatra ancora di più, per l'amor di, lasciamo perdere, ma va chiunque, tante volte ne parliamo anche col medico incaricato, vengono a visita ma perché non sanno dove andare a battere il capo, perché se mai non c'hanno a chi chiedere (psichiatra). In

Dall'altro lato, gli atteggiamenti simulativi sarebbero messi in atto in ragione del fatto che tutto l'agire della persona detenuta è orientato al conseguimento della libertà e per ottenerla è disposta a tutto. I compor­ tamenti della popolazione detenuta vengono così considerati come mag­ giormente razionali, lucidamente messi in atto in vista del perseguimen­ to del fine della libertà. Medico : « Manca la libertà, no ? Che è quello per cui si muove un detenuto, il detenuto si muove in primis soprattutto per uscire fuori, cioè tutto quello che fa tende a uscire fuori dal carcere, quindi anche questo è uno dei parametri da con­ siderare, cioè nel senso che noi spesso non ci rendiamo conto ma anche come sanitari veniamo strumentalizzati da questo punto di vista, cioè il detenuto, poi



LE RELAZIONI

gran parte, eh, i o intendo, parlo sempre molto in generale, l o scopo è quello comunque di uscire fuori dal carcere e in nome di questo è capace di tutto, di simulare, di fare, tutto quello che vuoi, cercare di lavorare » . Infermiera: « Qua i detenuti hanno tantissimo tempo e i n questo tempo loro ogni minimo problema, anche il non problema viene ingigantito in una maniera tale che diventa una montagna e queste questioni così ingigantite e riversano sul per­ sonale sanitario, che è quello che forse in qualche modo vedono come una figura di aiuto. Quindi a livello relazionale c'è un peso enorme da parte del personale sanitario, non so se anche penitenziario che può anche essere, ma forse in maniera diversa. Oltre questo, la difficoltà del sanitario rispetto al sanitario fuori è che qui, come diceva il dottor X è che i detenuti cercano di strumentalizzare ogni cosa per poter uscire. Quindi la salute per loro diventa il "perdere la salute" o il simulare la perdita della salute, però diventa un motivo per potere forse uscire dal carcere, quindi tu devi fare la fatica doppia, cioè valutare la persona e capire se veramente quella sintomatologia è vera o meno, quindi c'è questa doppia faccia che fuori non esiste, fuori se uno sta male sta male, cioè non c'è ombra di dubbio. Qui è così, non è così ? E a volte il rischio è di sottovalutare dei casi che hanno un certo valore, una valenza, perché molte persone simulano. Caso... H. [tutti sghignazzano] , per me che ci lavoro, H. prima o poi chiamerà che ha veramente bisogno e nessuno ac­ correrà, non si accorrerà per tempo perché lui finge in continuazione ed è la volta buona che ci lascia le penne » (focus group area sanitaria).

Da questo punto di vista, la salute viene da alcuni identificata come uno strumento di potere che la persona detenuta esercita nei confronti dell'i­ stituzione. Ben consapevole delle responsabilità in capo a operatori sani­ tari e penitenziari in caso di morte di un detenuto, la persona detenuta sarebbe, nella percezione degli operatori, incline a strumentalizzare la sua salute, per conquistare uno spazio di contrattazione dell'ampliamento della libertà. Vari operatori penitenziari descrivono per esempio in questi termini episodi di autolesionismo o di rifiuto delle terapie. Agente polizia penitenziaria: « Sono un'arma di ricatto nei nostri confronti "non prendo la terapia retrovirale" » . lntervistatore : «Una forma di potere ? » . Agente : « Sì, una forma d i potere, sia per farsi del male, quindi ecco questa è un'altra forma di autolesionismo, io mi faccio del male così, non c'ho più biso­ gno di tagliarmi. Metto in evidenza il mio problema così non mi curo. Aumento la mia carica virale, quindi potrei essere molto più ... questo è quello che usano adesso. Quindi come cura, non posso dire che, anzi pure troppo ! Sono costante­ mente, tant'è vero che molte persone rifioriscono. Rifioriscono, le vedi, magari entrano smagrite, sciupate e tutto e poi si riprendono, sembrano apparentemen­ te persone non ammalate, ecco » (polizia penitenziaria) . 91

CURA SOTTO CONTROLLO

Più che come una forma di potere, alcuni detenuti descrivono piutto­ sto i gesti dimostrativi di autolesionismo come una disperata ed estrema richiesta di aiuto che viene messa in atto quando diventa chiaro che at­ traverso i canali consueti di richiesta di ascolto da parte dello staff pe­ nitenziario o sanitario non si ottiene nulla. Una delle prime regole che la persona detenuta impara entrando in carcere è infatti esattamente la stessa regola imparata dagli operatori, ossia che la più grande preoccupa­ zione dell'amministrazione penitenziaria è che il detenuto evada o muo­ ia, e che pertanto un gesto autolesionista risulta particolarmente efficace nell'ottenere un'attenzione, seppur momentanea e con possibili conse­ guenze molto negative per il detenuto stesso. S.: « Mica è pazzo uno che si taglia per avere una medicina ? » . P.: «E perché quando uno s i taglia . . . allora succede qua che quando uno s i taglia dopo e giustamente i suoi vicini lo sanno, gli altri lo sanno che l'unico sistema è quello perché quando esce sangue che uno si taglia va subito in infermeria inve­ ce prima gentilmente dice mi fai chiamare il dottore ? Uno sta male "no aspetta, aspetta, aspettà', appena si taglia uno subito arriva il medico, l'accompagnato­ re del medico, tutti quanti vengono, si preoccupano, perché l'hai fatto ? E poi il bello è che ti prendi anche il rapporto, per autolesionismo. Il bello è quello dopo. Poi c'è magari quello che lo fa apposta e che lo fa sempre, veramente ha bisogno e si è tagliato veramente quel giorno solo per avere ... » ( focus group detenuti ) .

Che si legga il tentativo di autolesionismo come espressione di una si­ mulazione o meno, quindi, non dovrebbe fare una grossa differenza in termini di reazione, poiché in ogni caso è il risultato di un disagio che il semplice buon senso richiederebbe di trattare molto diversamente da co­ me fa la rigidità burocratica dei protocolli di sicurezza che permeano il contesto carcerario ( Torrente, 201 6 ). In maniera speculare agli operatori penitenziari e sanitari, inoltre, molte persone detenute interpretano la giustificazione della simulazio­ ne come una forma di potere nelle mani dell'istituzione, in quanto essa fornisce una sorta di legittimazione all'inerzia e al mancato intervento. C'è gente che si è sentita male, sdraiata in terra, hanno chiamato dottori, in­ fermieri, tutti, che loro venivano lì e invece che con un kit di pronto soccorso stavano lì e contrattavano : sta facendo finta o sta facendo davvero ? E c'è gente che c'ha lasciato le penne per queste cose. Chi è andato in infermeria a misurare la pressione e gli han detto « no, stai bene » e tempo che torna in sezione casca in terra e muore ( detenuto) . 92



LE RELAZIONI

In questa lettura, la retorica della simulazione costituisce quindi piut­ tosto una forma di potere nelle mani dell'operatore sanitario che può così « decidere quali sono i dolori autentici, quali hanno una base so­ matica e quali una psichica, quali sono immaginari e quali simulati » ( Illich, I973, trad. it. p. I S 2) e di conseguenza il dolore diventa oggetto di controllo da parte del medico che può definire quali malattie sono gravi ( Conrad, I992). Da un punto di vista strettamente sanitario, il rischio è quindi di sopravvalutare situazioni non problematiche, secondo un primo punto di vista, o di sottovalutare situazioni potenzialmente gravi, dal secondo punto di vista. Se il primo scenario ha evidentemente dei costi per mol­ ti versi difficilmente sostenibili dall'attuale sistema sanitario, il secon­ do può portare a casi di malasanità che il pregiudizio della simulazione contribuisce a determinare. In questo scenario la medicina difensiva si trova così a coesistere con i frequenti casi di malasanità in carcere7• Se tuttavia ampliamo la riflessione alle conseguenze non stretta­ mente sanitarie, vediamo che il potere del medico abbraccia un insie­ me di situazioni che vanno dalla gestione della quotidianità detentiva alla possibilità di scontare la pena fuori dal carcere8• Su questo secondo aspetto, la disponibilità di risorse personali e sociali ( Berzano, I994) da parte del detenuto incide sul modo in cui si vive la fase dell'esecuzio­ ne penale e in una certa misura l'aspetto sanitario non è estraneo a tali meccanismi. Basti pensare alla possibilità di effettuare una perizia da parte di un medico di fiducia esterno che può agevolare la sospensione condizionale della pena per motivi sanitari. Le disuguaglianze socia­ li nell'accesso alla salute ( Cardano, 20I3; Lolli, 20 04; Foschi, 2004) si riscontrano evidentemente anche all'interno del contesto peniten­ ziario, dove peraltro sono sovrarappresentate alcune categorie sociali portatrici di disagio ed emarginazione ( tossicodipendenti, immigrati, persone con varie forme di disagio psichico ). Le stesse risorse persona­ li, connesse alle capacità comunicative che derivano da un più o meno elevato grado di istruzione e di integrazione sociale e dal livello di com­ prensione linguistica per esempio, hanno un'incidenza sulle relazioni, comprese quelle con il personale sanitario, e dunque sulla capacità di 7· Cfr. il contributo di Filippi e Zecca (2.017) pubblicato sul XIII Rapporto sulle con­

dizioni di detenzione dell'Associazione Antigone. 8. Una ricostruzione storica del contributo dei medici al dibattito sulle funzioni della pena e sulle sue pratiche, nell'ottica di legittimare il disciplinamento, nonché delle pratiche di resistenza messe in atto dai detenuti, è fornita da Sim ( 1990 ) .

93

CURA SOTTO CONTROLLO

intervenire in maniera più o meno marcata nella dimensione di potere che connota la relazione medico-paziente (Freidson, 1970 ). L'ossessione per la simulazione caratterizza specificatamente tale re­ lazione all'interno del carcere insieme all'onnipresente clima di paranoia che si dipana nella sfiducia trasversale tra amministrazione e detenuti, tra agenti e detenuti, tra detenuti stessi (Prout, Ross, 1 9 8 8 ) , e che influenza inevitabilmente anche la relazione medico-paziente detenuto. 3 · 4 · 3 · LA F I D U C IA. « FU O RI È PIÙ SEMPLICE, IL MEDICO È IL MEDI C O »

I processi di costruzione e ricostruzione delle regole che si applicano nel­ la relazione terapeutica sono oggetto specifico di quella parte della socio­ logia della medicina attenta all'implementazione del diritto alla salute inteso in senso soggettivo e partecipato (Favretto, 2015). Per la compren­ sione di tali processi occorre partire dalla questione dell'asimmetria di poteri e saperi tra coloro che interagiscono (Maynard, 1 9 9 1 ) , in conse­ guenza della quale l'esperienza che il paziente fa della malattia soccombe di fronte alla prospettiva clinica presentata dal professionista, incrinando così il postulato del primato della dimensione dell' illness (cfr. PAR. I. 2). La relazione terapeutica all'interno del carcere si connota per quella peculiare forma di sfiducia trasversale cui si accennava nelle ultime ri­ ghe del precedente paragrafo : da un lato, il pregiudizio della simulazione è espressione della mancanza di fiducia da parte dell'operatore sanita­ rio nei confronti della persona detenuta. Dall'altro lato, la sfiducia del paziente nei confronti del medico rende particolarmente problematica « l'identificazione del professionista come punto di riferimento da parte del paziente » , considerata una delle variabili che più incidono nella ne­ goziazione di tale contesto interattivo (Favretto, 201 5, p. 1 40 ). Alcuni operatori sanitari esplicitano le criticità nel costruire relazio­ ni di fiducia con il paziente detenuto, soprattutto durante il difficile mo­ mento dell'ingresso. Nel mio caso per forza devo instaurare un rapporto di fiducia, perché altrimenti non è possibile assolutamente comunicare con queste persone. E quindi è fon­ damentale parlare, dialogare, ma fargli capire che da questa parte c'è una figura forte, non debole, perché loro chiaramente sono manipolativi, cercano a tutti i costi di prendere terapie che assumono fuori ma per proprio conto, quindi in maniera eccessiva e sbagliata. Quindi è fondamentale all'inizio cercare di par­ lare, no ? Dialogare e farlo sentire a suo agio. Non sempre è possibile, perché quando arrivano, magari arrivano in astinenza, arrivano in condizioni... e quindi 94



LE RELAZIONI

all'inizio è abbastanza difficoltoso e quindi devi mantenere l a calma, devi cer­ care di non creare un muro, devi cercare di capire che hai a che fare con dei tos­ sicodipendenti, all'inizio hanno degli atteggiamenti anche abbastanza pesanti alcuni, però dopo quando capiscono e si tranquillizzano ecc., poi diciamo che chiedono assistenza e la cosa incomincia ad assumere un aspetto diverso, no ? Sanno che possono contare su di me e io gli do fiducia (medico SerD) .

In altri casi, la questione viene minimizzata e prevale la retorica dell'empa­ tia, di una relazione che ricalca quella con il medico di famiglia all'esterno. La figura del medico "amico", con cui confidarsi e che si può incontrare quotidianamente, emerge in alcune testimonianze di operatori sanitari. Il primo ingresso è un po' più difficile l'approccio, perché il ristretto si trova di fronte a persone che non conosce. E quindi è un po' restio, poi c'è la tensio­ ne dell'arresto, non c'è quella partecipazione. Tant'è che noi abbiamo diciamo esteso questo periodo diciamo di prova, questo periodo di conoscenza, l'abbia­ mo deputato al medico del padiglione. Con il medico del padiglione invece si crea proprio un rapporto molto stretto, c'è la possibilità di essere visti anche tutti i giorni. E quindi si crea quel rapporto come abbiamo noi all'esterno con il proprio medico di famiglia, quindi ci si apre di più, ci si confida di più e diciamo si tende ad avere maggiore adesione anche al nostro progetto di fabbisogno di salute. Con i medici presenti nei singoli padiglioni come diceva giustamente il collega, veramente si crea un rapporto di empatia con il detenuto, anzi in quel momento di contatto fisico con una persona amica tra virgolette, una persona con la quale ci si può confidare. Ci sono momenti anche però di tensione, eh, pure questo può capitare, parliamo comunque di una popolazione un po' parti­ colare, però tutto sommato ecco come numeri possiamo dire che effettivamente si crea un rapporto di adesione tra il medico e il paziente, su questo non ci sono dubbi (medico) .

La visione retorica dell'empatia viene puntualmente decostruita dalle persone detenute, che, al contrario, individuano tra le principali critici­ tà nella relazione medico-paziente proprio l'impossibilità di scegliere il medico, uno dei principi alla base del servizio sanitario nazionale. L'au­ tonomia di scelta, sia del medico di fiducia che di un eventuale specialista a pagamento, sono, formalmente la prima, di fatto la seconda, precluse alla persona detenuta. Fuori te lo scegli, qua no. Qua qualsiasi cosa ... deve starti bene ! O ti sta bene o non ti sta bene. Fuori hai la facoltà si scegliere, di valutare, di confrontare un me­ dico piuttosto che un altro. Uno specialista piuttosto che un altro (detenuto). 95

CURA SOTTO CONTROLLO Il rapporto medico-paziente fuori è più semplice, il medico è il medico ( dete­ nuto). All'esterno c'è ovviamente più empatia e più interesse, sia che vai da un medico a pagamento, dove l'interesse sono i soldi quindi il lavoro te lo fa, sia l'interesse perché ti ha visto nascere, perché è il medico di tutta la tua famiglia. Qui proprio non ti guardano neanche in faccia, tanto per farci capire. Cosa c'hai ? Sì, prendi questo, vai. lo li posso anche capire, eh, da un certo punto, perché comunque lavorano in posizioni non consone, sia per il via vai, sia per la carenza magari di materiali, in una situazione di confusione, in una situazione in cui tanti gli rompono le scatole perché prendono una cosa e invece ne vogliono un'altra. Tutto comprensibile, fatto sta che questi vivono una frustrazione che la si legge negli occhi e quindi quando ci arrivi di fronte, non ti sembra proprio di andare dal tuo medico di famiglia, non ti sembra neanche lo specialista che hai pagato a peso d'oro, tanto meno. Un po' è comprensibile (detenuto) .

Il quadro riportato dagli utenti è dunque piuttosto lontano dalla retorica del medico di famiglia empatico. Quello che emerge più nettamente è un rapporto caratterizzato dalla diffidenza9, atteggiamento che, in misura variabile, viene messo in atto nei confronti di tutto il personale che opera nell'istituzione penitenziaria. Spesso si fatica a distinguere tra ammini­ strazione penitenziaria e area sanitaria e su questo aspetto la riforma sem­ bra aver inciso poco sulla percezione della popolazione detenuta. Per esempio quando sono entrato, io ho temuto di fare le analisi perché, avendo una brutta nomea Poggioreale, ho pensato che facendo le analisi avrei potuto prendere qualcosa (detenuto) . Medico : «A volte sono bugiarde [si riferisce alle detenute, N.d.A.] , magari a te come medico di guardia ti dicono così, poi vengono a visita da me che faccio le visite in reparto e mi dicono che non hanno capito [ .. ] noi glielo chiediamo, poi se lo rifiutate è normale dire che non le posso costringere. Il problema qua è che tutte le volte che ci troviamo nella necessità di costringere il paziente a fare qualcosa, ci scontriamo con la situazione, che è quella che è, nel senso che noi possiamo chiedere al giudice di intervenire per costringere il paziente per esem­ pio a fare un ricovero, noi abbiamo situazioni di pazienti che hanno perso 40 chili di peso, che continuano a stare malissimo o altre problematiche simili, che .

9· L'atteggiamento di diffidenza nei confronti dello staff è stato indicato in primis da Sykes ( 19 s 8) come una delle componenti più ricorrenti nel codice del detenuto. Il non mo­ strarsi mai solidali con il personale e, viceversa, il non tradire mai i compagni di detenzione è una massima analizzata più di recente da Crewe (2oo s ).

3 · LE RELAZIONI rifiutano qualsiasi tipo d i approccio medico e nel momento in cui noi riterrem­ mo opportuno eventualmente un trattamento sanitario obbligatorio in questi casi, nessuno, ma nessuno proprio, interviene per darci una mano » . Infermiere : « Qui fanno le matte, arrivano lì e son gli unici che non glielo puoi fare ... » . Medico : « Cioè noi non possiamo costringere la paziente perché lei h a facoltà di curarsi, però nello stesso tempo abbiamo l'esigenza di preservare il resto, quindi se ci fosse la possibilità di coordinarci con i magistrati, con chi sta dall'altro lato rispetto a questo tipo di problema e collaborando, diciamo, per la salute ... » (focus group area sanitaria) .

La sfiducia trasversale è evidentemente connessa al controllo che per­ mea tutta l'istituzione carcere. Il medico viene coinvolto nelle esigen­ ze generali di sicurezza e condivide spesso con gli operatori penitenziari le opinioni su come affrontare le criticità portate da alcune persone de­ tenute ritenute particolarmente problematiche. Questo, unitamente al pregiudizio della simulazione, evidentemente contribuisce ad inficiare la possibilità di sviluppare un rapporto fiduciario e distaccato dal contesto dell'esecuzione penale e, più in generale, di applicare un approccio narra­ tivo della medicina, che ponga al centro l'interpretazione che il paziente dà del proprio stato di salute (cfr. PAR. I . I ) . Un altro elemento che esprime la frequente sintonia della cultura professionale medica con quella penitenziaria riguarda l'uso di un lin­ guaggio tipicamente carcerario da parte del personale sanitario, soprat­ tutto se opera da tanto tempo dentro al carcere. [ . . . ] o gravide che magari capitano, a parte il fatto che le gravide vengono scarce­ rate per il periodo della gravidanza, ce ne sono alcune che magari, specialmente le zingarelle che hanno reiterato 27. 0 0 0 furti per cui il magistrato magari gli ha fatto il cumulo, arrivano e c'han tre anni, nel frattempo come entrano sono in­ cinte perché sembra che ci prendano le misure e magari qualche volta fan tutta la gravidanza, vanno a partorire e poi rientrano dentro con nasci turo o la nasci tura dentro, per cui siamo organizzati anche da, c'abbiamo il pediatra, quindi c'è già una bella fortuna ! (medico)

I termini specifici utilizzati (il « cumulo » 10, per esempio) , unitamente agli stereotipi di genere ed etnia, vanno ricondotti più alla cultura peni10. ll cumulo materiale e il cumulo giuridico delle pene sono disciplinati dal codice di procedura penale (art. 663) e dal codice penale (are. 78) e fanno riferimento dunque ad un sapere giuridico applicato al campo dell'esecuzione penale.

97

CURA SOTTO CONTROLLO

tenziaria che al sapere medico e rappresentano una perfetta manifestazio­ ne del processo di istituzionalizzazione che anche l'operatore sanitario rischia di subire, soprattutto se in servizio in carcere da molti anni. Ci sono tutte le domande che ci poniamo dentro al carcere, perché quello che si fa fuori è bello, però qua dentro ci sono delle regole non scritte (medico) .

Anche l'area sanitaria viene abbracciata dall'infradiritto ( Sarzotti, 2010 ) che governa il carcere. Gli operatori che svolgono larga parte della loro attività professionale all'interno del contesto penitenziario si trovano ad agire in un ordine negoziato da norme che sono principalmente espres­ sione della cultura punitiva e del primato della sicurezza. Gli stereotipi, i pregiudizi e i linguaggi che connotano tale contesto permeano tutte le relazioni, governate da regole non scritte ma note a tutti gli attori. Resta da appurare in che misura tali regole orientino l'azione del singolo ope­ ratore sanitario, che può sì talvolta esercitare forme di resistenza, le quali comunque fanno riferimento ad un orizzonte normativo per sua natura cogente e inglobante.

3 ·5 «Vestiti e puliti » : l a violenza del controllo e del disciplinamento

Varie volte nel testo si è fatto cenno all'interferenza tra penitenziario e sanitario per quanto concerne il trattamento. Diversi operatori, rappre­ sentanti di entrambe le aree, hanno in molti casi manifestato una sorta di confusione tra quello che è il regime penitenziario, inteso come insieme di opportunità offerte a fini rieducativi, con tutte le sue regole e strutture di disciplina, da un lato, e il trattamento sanitario, intesto come offerta di cure e terapie in relazione a specifiche problematiche sanitarie, dall'altro. Un primo aspetto importante, in questo senso, riguarda il rispetto delle regole. Le espressioni usate dal personale sanitario riflettono spesso l'immersione nella cultura penitenziaria, che è fatta di regole non scritte, infantilizzazione della persona detenuta e premialità nella gestione della quotidianità detentiva ( cfr. PA R. 2.4). L'infantilizzazione emerge di frequente nelle parole dell'amministra­ zione penitenziaria, che, per esempio affrontando il tema della distribuzio­ ne di aghi e siringhe come strategia di riduzione del danno, si dice ovunque



LE RELAZIONI

contraria in primo luogo per questioni di sicurezza, ma talvolta emerge l'ar­ gomentazione paternalistica del "farlo per il bene del detenuto". Non è la cattiveria nostra che vi togliamo gli strumenti, ma che voi capiate che queste cose sono nocive, però se lo fanno con le siringhe rubate dalla spazzatura delle infermerie, con la penna. lo penso che se uno bombarda con una campa­ gna . . . ( direttore ) .

L'atteggiamento paternalistico di un'istituzione che presume di sapere cosa è bene o male per la persona detenuta permea tutto il regime pe­ nitenziario, riducendo il recluso ad un soggetto che va riorientato sulla retta via, il che implica il non nuocere agli altri e neanche a se stessi. Tale atteggiamento viene applicato spesso anche alla gestione delle problema­ tiche sanitarie, la cui competenza dovrebbe invece essere sostanzialmen­ te esclusiva della parte medica. Questo avviene molto spesso in tema di trattamento delle dipendenze, sulla cui gestione anche l'amministrazio­ ne penitenziaria si dimostra sempre molto interessata a esprimere le pro­ prie opinioni. Un elemento frequente di ambiguità a questo proposito riguarda la recidiva, spesso intesa (o, per meglio dire, fraintesa) a cavallo tra il sanitario e il penale. La recidiva. È un po' un parallelo con i sex offinders, bisogna lavorare molto bene con questi detenuti, non in misura maggiore rispetto agli altri detenuti perché tutti hanno pari dignità, bisogna però proprio focalizzare l'attenzione a non farli ricadere perché sennò poi quando il detenuto esce, se non ha altri strumenti, ricade nella droga, torna a delinquere per pagarsi la sostanza, quindi molta attenzione però il tentativo di introduzione purtroppo c'è, anzi chi maga­ ri cerca di gestire il traffico va proprio a ingolosire le persone un po' più deboli ( polizia penitenziaria) .

Sul tema del trattamento delle dipendenze emerge spesso l'istanza, da parte dell'amministrazione penitenziaria, di avere una maggiore cono­ scenza dell'entità del problema e talvolta si lamenta la scarsa disponibilità del personale dei SerD a condividere le informazioni, aspetto evidente­ mente connaturato alla dimensione del potere. Il SerT è una parrocchia a parte, quindi noi non abbiamo idea, cioè abbiamo sol­ tanto il numero dei tossicodipendenti ma non abbiamo gli elenchi. Tra l'altro ci son state delle richieste anche da parte del dipartimento, proprio per disegnare dei percorsi possibili in comunità terapeutiche, in misura alternativa ecc., allora 99

CURA SOTTO CONTROLLO questo è un problema che deve essere risolto, perché è ovvio che se noi non sap­ piamo chi sono, o meglio, lo sappiamo rispetto a dei casi specifici, però, se non abbiamo questa lista, come fai a progettare un percorso diverso rispetto a quella persona ? Poi il SerT è presentissimo, interviene ecc. però ecco c'è questo pro­ blema, ma anche rispetto alla direzione sanitaria stessa, capito ? Cioè loro sono proprio un mondo a sé, ecco. Quindi questa per me rappresenta una criticità e tra l'altro, come dire, è la prima volta che mi capita (direttore).

Da un lato, l'istanza dell'amministrazione penitenziaria è per molti versi legittima e un certo livello di cogestione del problema delle dipendenze pare necessario, per due ragioni. In primis, per i numeri : è noto come da un paio di decenni ormai la popolazione detenuta sia composta per al­ meno un terzo da tossicodipendenti, dunque la questione, anche a livello di gestione interna, non è di secondaria importanza. In secondo luogo, essendo il nostro sistema di esecuzione penale strutturato in parte diver­ samente a seconda che si intraprenda un percorso di disintossicazione o meno, è evidente che la possibilità per l'amministrazione penitenziaria di avere un quadro preciso del fenomeno contribuisce a individuare un trattamento globale dello stesso ( in termini di attivazione di affidamenti in prova per tossicodipendenti e quant'altro). Un nodo critico riguarda tuttavia l'aspetto del controllo da parte dei medici, che, nel momento in cui si innesta in un percorso di esecuzione penale, ha delle ripercussioni ben maggiori rispetto all'ordinario, in quanto ha delle implicazioni rile­ vanti sul percorso di detenzione. I diversi medici sembrano reagire in ma­ niera diversificata a tale stato di cose. C 'è chi dichiara di attuare pratiche di controllo moderate, per non aumentare il livello di controllo da parte della polizia penitenziaria. Noi in un ambiente penitenziario quando andiamo a fare dei controlli in corso di detenzione allertiamo dei meccanismi di osservazione da parte delle guardie che dicono . . . e allora noi a volte ci difendiamo non facendoli ma semplicemente instaurando una relazione terapeutica nella quale ci diciamo delle cose (medico) .

La "visibilità" continua della persona detenuta, soprattutto da parte degli agenti di polizia penitenziaria e degli infermieri, è invece in molti casi un fattore che determina una sorveglianza più capillare cui può conseguire l'attivazione di controlli specifici da parte dei medici. Sì noi purtroppo, ormai è una cosa risaputa insomma, che girano le sostanze in carcere. Noi sì, con l'ausilio anche della collaborazione degli infermieri veniamo 100



LE RELAZIONI

anche a conoscenza d i situazioni che si verificano perché loro stanno sempre a contatto tutto il giorno con le pazienti e quindi chiaramente noi ci consultiamo anche con loro che ci sono proprio h24 giustamente. E quindi se c'è qualche problema di situazioni, di persone che magari vanno ad assumere la terapia e vanno in stato soporoso, e quindi chiaramente io poi li chiamo a visita e vedo un attimino com'è la situazione, se ridurre la terapia, gli faccio i controlli coi test rapidi, ultimamente ne sto facendo tanti per verificare anche se c'è un residuo di sostanze. Quindi diciamo che li teniamo sotto controllo (medico).

Il momento in cui il livello di attenzione è massimo è quello dell'usci­ ta-reingresso. Si legga a tal proposito la seguente testimonianza, relativa al carcere di Bollate, tra gli istituti considerati più vivibili nel panorama penitenziario italiano, in cui tuttavia il raccordo penitenziario-sanitario pare per molti versi più ambiguo che altrove. Medico : « Il guaio qui è quello, che escono » . Medico P S : «Esiste un controllo randomizzato per detenuti permessanti che ha una storia di positività alle sostanze, lo sanno che in qualsiasi momento loro possono essere controllati anche a sorpresa a volte, perciò hanno anche un po' paura » . Infermiere : «Noi facciamo la bellezza di tot. morfinurie al mese, eh? Per quello abbiamo la certezza. Cioè a San Vittore e a Opera ne faranno 10 al mese. Noi spesso le superiamo anche 1 0 0. Cioè tutti i permessanti, tutti gli articoli 21, tutti quelli che vanno in permesso anche 3 ore, e non solo, perché poi vengono fatti a sorpresa anche su richiesta dei reparti, della sorveglianza, del commissario, hanno comunque la morfinuria da fare. Sapete benissimo che se io diluisco la pipì, comunque a livello di creatina si vede subito. Noi facciamo tantissime mor­ fin uri e al mese » . Medico : «E hanno tanto da perdere, nel senso la grossa cosa è quella, che se poi ti beccano positivo ti chiudono e ti rimandano al mittente, nel senso che ormai si vede il flusso di ritorno da Bollate, c'è gente che arriva e torna indietro al mittente [ride], perché ha fatto qualcosa che non doveva, per cui hanno tanto da perdere. [ ... ] Il problema sostanziale è uno, gli istituti non sono più quelli di una volta, non esistono più gli istituti chiusi. Se noi, Opera che è un carcere di massima sicurezza, ormai è un istituto a trattamento avanzato, per cui noi tran­ ne in reparti ultra sicurezza che sono l'alta sicurezza e il 41, poi tutti gli altri sono aperti, eh ? Cioè ormai... » (focus group area sanitaria) .

« Il guaio è che escono » è il riflesso di un atteggiamento paternalistico e infantilizzante nei confronti del paziente. Non stiamo parlando di perso­ ne che si trovano in un contesto di comunità terapeutica all'interno di un carcere, come ce ne sono molte nel sistema penitenziario italiano, e dove 101



LE RELAZIONI

anche a conoscenza d i situazioni che si verificano perché loro stanno sempre a contatto tutto il giorno con le pazienti e quindi chiaramente noi ci consultiamo anche con loro che ci sono proprio h24 giustamente. E quindi se c'è qualche problema di situazioni, di persone che magari vanno ad assumere la terapia e vanno in stato soporoso, e quindi chiaramente io poi li chiamo a visita e vedo un attimino com'è la situazione, se ridurre la terapia, gli faccio i controlli coi test rapidi, ultimamente ne sto facendo tanti per verificare anche se c'è un residuo di sostanze. Quindi diciamo che li teniamo sotto controllo (medico).

Il momento in cui il livello di attenzione è massimo è quello dell'usci­ ta-reingresso. Si legga a tal proposito la seguente testimonianza, relativa al carcere di Bollate, tra gli istituti considerati più vivibili nel panorama penitenziario italiano, in cui tuttavia il raccordo penitenziario-sanitario pare per molti versi più ambiguo che altrove. Medico : « Il guaio qui è quello, che escono » . Medico P S : «Esiste un controllo randomizzato per detenuti permessanti che ha una storia di positività alle sostanze, lo sanno che in qualsiasi momento loro possono essere controllati anche a sorpresa a volte, perciò hanno anche un po' paura » . Infermiere : «Noi facciamo la bellezza di tot. morfinurie al mese, eh? Per quello abbiamo la certezza. Cioè a San Vittore e a Opera ne faranno 10 al mese. Noi spesso le superiamo anche 1 0 0. Cioè tutti i permessanti, tutti gli articoli 21, tutti quelli che vanno in permesso anche 3 ore, e non solo, perché poi vengono fatti a sorpresa anche su richiesta dei reparti, della sorveglianza, del commissario, hanno comunque la morfinuria da fare. Sapete benissimo che se io diluisco la pipì, comunque a livello di creatina si vede subito. Noi facciamo tantissime mor­ fin uri e al mese » . Medico : «E hanno tanto da perdere, nel senso la grossa cosa è quella, che se poi ti beccano positivo ti chiudono e ti rimandano al mittente, nel senso che ormai si vede il flusso di ritorno da Bollate, c'è gente che arriva e torna indietro al mittente [ride], perché ha fatto qualcosa che non doveva, per cui hanno tanto da perdere. [ ... ] Il problema sostanziale è uno, gli istituti non sono più quelli di una volta, non esistono più gli istituti chiusi. Se noi, Opera che è un carcere di massima sicurezza, ormai è un istituto a trattamento avanzato, per cui noi tran­ ne in reparti ultra sicurezza che sono l'alta sicurezza e il 41, poi tutti gli altri sono aperti, eh ? Cioè ormai... » (focus group area sanitaria) .

« Il guaio è che escono » è il riflesso di un atteggiamento paternalistico e infantilizzante nei confronti del paziente. Non stiamo parlando di perso­ ne che si trovano in un contesto di comunità terapeutica all'interno di un carcere, come ce ne sono molte nel sistema penitenziario italiano, e dove 101



LE RELAZIONI

Infermiere : « Ci rimane male, qualche volta c i rimane male >> ( focus group area sanitaria) .

In altre interviste, si fa riferimento alla regola del presentarsi "vestiti e pu­ liti" dall'operatore sanitario. Abbiamo iniziato addirittura che venivano in pigiama a prendere la terapia, quindi li abbiamo obbligati piano piano a venire vestiti, puliti, pettinati e così via, no ? Piano, piano per cercare di raggrupparli, perché quello è il problema ! ( medico SerD ) Io se posso dire, lavoro qui da 8 anni, e ho visto da 8 anni a questa parte un cambiamento enorme nel comportamento del detenuto. Allora, senza essere polemica, eh? Lungi da me, sto facendo una fotografia di quello che vedo. Però mentre 8 anni fa, per dire, che è l'altro ieri, c'era sorta di educazione, tra vir­ golette, nel senso che noi avevamo un ruolo preciso e eravamo visti come un paziente che vede la sanità in ospedale, e c'erano delle regole di comportamento da parte del detenuto, ovviamente anche da parte nostra che abbiamo sempre mantenuto mi pare ... il rispetto deve essere reciproco naturalmente, perché se tu non rispetti non puoi ricevere. Però, si è ribaltato tutto. Mentre 8 anni fa non esisteva che un detenuto si presentasse in mutande o in pigiama a ricevere la terapia dall'infermiere, adesso succede questo e altro ( infermiere ) .

Si tratta di esempi di forme di disciplinamento in cui l'operatore sanitario assume i panni dell'imprenditore morale (Freidson, I970) e applica giudizi che indicano come «la medicina si è progressivamente sostituita al dirit­ to e alla religione secondo un processo di reinterpretazione del comporta­ mento umano » (Carricaburu, Ménoret, 2007, p. 6 8). Occorre sottolineare che non sono stati rari i casi di espressioni di autodisciplinamento da parte di alcune persone detenute incontrate. Su questo aspetto pesa indubbiamente una delle principali criticità metodo­ logiche di tutto l'impianto di ricerca : la selezione del campione. Come indicato nell'appendice metodologica, nella formazione dei gruppi per svolgere i focus l'amministrazione penitenziaria ha fatto necessariamen­ te da filtro e questo costituisce una criticità che accomuna gran parte del­ le ricerche empiriche in contesto carcerario. Come spesso accade, i grup­ pi selezionati sono stati quasi sempre (con un paio di rilevanti eccezioni) composti da persone già inserite in percorsi trattamentali di alto livello o addirittura con ruoli di peer educator in campo sanitario. Questo, se da un lato ha agevolato la comunicazione tra ricercatore e oggetto della 103

CURA SOTTO CONTROLLO

ricerca ( in termini di condivisione di linguaggi, disponibilità ad aprirsi ecc. ) , d'altro canto fornisce un quadro non pienamente rappresentativo della realtà penitenziaria. Inoltre, l'inserimento in percorsi trattamentali di alto livello determina in molti casi un grado di istituzionalizzazione ben più alto della media : la premialità che connota il sistema peniten­ ziario fa sì che chi accede a contesti di detenzione meno disumani più probabilmente adatti il suo comportamento al fine di non rischiare di perdere quanto ottenuto. Da questo punto di vista, sono emerse qua e là forme o manifestazioni di autodisciplinamento. Alcune, ancora una vol­ ta, dall'istituto di Bollate. Perché è nato, come diceva l'assistente, con un progetto. Era bellissimo quel progetto lì: determinati requisiti, determinate regole, determinate cose da segui­ re, chi sbagliava pagava due volte e non veniva favorito, oggi non si capisce più Bollate che cosa è, si sta andando a chiudere a tutto. Anche perché il pericolo è che Bollate è grande, se va alla deriva Bollate, sarà un luogo all'ammasso, si svilupperà tanta violenza, tante malattie e tante cose, si vanno sviluppare perché non viene più curato come si deve da tanti punti di vista: dall'ordine alla disci­ plina a tutto il resto (detenuto) .

E in molti casi sono le stesse persone detenute a confondere il trattamento penitenziario e quello sanitario, soprattutto in caso di percorsi di disintos­ sicazione intesi come integrati a quelli volti al reinserimento sociale. È vero che come tossicodipendenti dobbiamo accedere alla comunità, però devi fare un percorso d'avvicinamento. Perché non ti possono prendere dalla strada direttamente che stai in astinenza e ti portano in comunità. Dalla comunità c'è la possibilità di andarti a fare. Allora tu facendo un percorso qui al padiglione Roma, parliamo di Napoli, di Poggioreale, al reparto Roma ci mettono in tera­ pia, prima di metterei in terapia, passiamo dal SerT, ci fanno le analisi, e vedono di che cosa facciamo uso. Da quello che noi facciamo uso e dalla quantità della sostanza ci mettono della terapia, c'ha bisogno di Subutex, c'ha bisogno di ... ci mettono per un periodo della terapia. Abbiamo i nostri psicologi, le nostre psi­ chiatre che ci chiamano, ci fanno discorsi, quando ci vedono, hanno proposto a me, hanno proposto a lui, poi dipende sempre dal magistrato, per il reato, loro ci hanno proposto, visto che qua stiamo facendo questo percorso, per me sei pronto ad andare in comunità. Però la comunità te la do io perché a te serve la comunità terapeutica, a lui serve quella là lavorativa, a me serve quella là psichia­ trica, ti faccio un esempio, e loro sanno dove mandarti (detenuto) .

104



LE RELAZIONI

Le forme di disciplinamento e di autodisciplinamento (anche nei casi in cui questo sia strumentale) che toccano da vicino anche la gestione della salute all'interno del carcere sono una manifestazione della distanza tra le retoriche e la realtà. Diritti sempre più percepiti come benefici (Salle, Chantraine, 200 9 ; Crewe, 200 5 ; 20I 2) , la premialità che connota tut­ ta l'esperienza della detenzione, la sfiducia che permea le interazioni tra tutti gli attori (Prout, Ross, I 9 8 8 ) sono aspetti strettamente connessi a un modello penitenziario intrinsecamente conflittuale e disarmonico e che impone cautela nel mostrare ottimismo su una sua possibile riformabilità nella direzione dell'equivalenza tra i servizi offerti all'interno e all'ester­ no (Sim, 200 2).

IOS

4

La prevenzione e i grandi tabù del carcere

4·1 Prevenzione uguale controllo

L'attività di ricerca svolta nell'ambito del progetto ha inteso analizzare se e come vengano applicati, all'interno degli istituti di pena italiani, i principi e le strategie di riduzione del danno intesa come prevenzione della diffusio­ ne di malattie infettive, con un focus particolare sull'HIVl AIDS1• Nelle interviste e nei focus group con le persone coinvolte, quindi, si è discusso a lungo del significato attribuito al concetto di prevenzio­ ne, per arrivare, gradualmente, a toccare il tema più specifico della ri­ duzione del danno. Le definizioni di prevenzione fornite dai vari attori coinvolti nello studio costituiscono una chiave di lettura particolarmen­ te efficace del più generale approccio al diritto alla salute in carcere, in quanto consentono di riflettere attorno a un concetto ampio di salute e sulle negoziazioni e ridefinizioni dello stesso da parte di tutti gli attori che partecipano (Favretto, 201 5 ) , dunque anche in relazione alla cultura penitenziaria. Un primo elemento ricorrente nelle definizioni e nelle considerazio­ ni fornite dagli intervistati rimanda all'idea del controllo volto a impedi­ re o quantomeno ridurre i comportamenti a rischio. La diffusione di ma­ lattie infettive avverrebbe sì principalmente a causa di fattori strutturali tra cui l'insalubrità delle celle, la promiscuità, la coabitazione forzata in spazi inadeguati (su questo, come abbiamo visto nel CAP. 2, convergono sostanzialmente le opinioni di tutte le categorie di attori intervistati) , ma 1. Nello specifico, l'analisi si è concentrata sul livello di applicazione delle IS azioni raccomandate nel documento congiunto di UNODC, ILO, UNPD, WHO, UNAIDS DAL TI­

TOLO HIV Prevention, Treatment and Care in Prisons and Other Closed Settings: A Com­ prehensive Package oflnterventions, in alcuni ambiti territoriali individuati. 107

CURA SOTTO CONTROLLO

altresì in ragione di diffusi comportamenti a rischio. Occorre sottolineare però, come ha messo in luce Sim ( 200 2 ) , che enfatizzare le responsabilità individuali nell'insorgenza di malattie, soprattutto in carcere, significa ignorare o attribuire meno peso al contesto e il continuo riferimento ai riskJactors può portare a stigmatizzare alcuni comportamenti e oscurare invece i fattori socio-economici e strutturali che hanno il maggiore im­ patto sulla salute. I comportamenti a rischio individuati dalle linee guida internazionali sulla riduzione del danno coincidono peraltro con i due grandi tabù della cultura carceraria : l'uso di droghe e la sessualità (Sarzotti, 2001 ) . In relazio­ ne a tali comportamenti, la ricerca conferma sostanzialmente l'esistenza di stereotipi e ritrosie nell'affrontare determinati argomenti (soprattutto da parte della popolazione detenuta e della polizia penitenziaria), una mag­ giore apertura a prendere in considerazione l'ipotesi di mettere in sicurez­ za la sessualità attraverso la distribuzione di preservativi da parte degli ope­ ratori sanitari e dell'amministrazione penitenziaria e una ferma chiusura da parte dell'amministrazione penitenziaria a sperimentare la distribuzio­ ne di aghi e siringhe (su cui converge peraltro larga parte dell'area sanitaria, anche, in alcuni casi e per certi versi sorprendentemente, quella afferente ai servizi per le dipendenze). Nelle argomentazioni utilizzate per esprimere le proprie opinioni a proposito, i vari attori hanno fatto riferimento ad accezioni molto diverse di prevenzione. Rispetto al tema dell'uso di sostanze, per alcuni operato­ ri, sia penitenziari che sanitari, prevenire significa innanzitutto controlla­ re, per vietare il consumo. Larga parte dell'amministrazione penitenziaria, superata ormai «l'illusione proibizionistica » (ivi, p. 36), ormai ammette l'ingresso e la circolazione delle sostanze all'interno del carcere, ma ritiene che il modo principale per impedire il consumo sia potenziare i controlli all'ingresso e le perquisizioni. Però l'altra cosa fondamentale è che qui il reato prevalente per cui entrano in isti­ tuto è tutto legato allo spaccio di sostanze stupefacenti. Ruota tutto intorno alla droga insomma. E quindi le sostanze entrano, c'è poco da fare, l'unico strumento credo efficace per evitare l'ingresso . . . dovremmo avere le unità cinofile permanen­ temente perché entra, è talmente facile nascondere la sostanza... adesso è un feno­ meno in diminuzione, non capisco bene perché, ma c'è stato un periodo che da noi arrivavano tutti i corrieri della droga, quelli che avevano ingoiato ovuli, allora quelli che venivano intercettati, che sapevamo, bene o male si riuscivano ... tranne in alcune situazioni, per esempio ci è capitato di alcune persone che erano state arrestate, noi non sapevamo che avevano gli ovuli, qualche anno fa qui ci fu un 108



LA PREVENZIONE E I G RANDI TABÙ DEL CARCERE

disastro praticamente, una persona che era entrata con diverse decine di ovuli, lo abbiamo saputo solo dopo, noi per un anno, due anni trovavamo droga in carcere nascosta, e droga pesante, e fu un disastro perché siamo riusciti a scoprire che era stata nascosta in tutto l'istituto, dappertutto. Era una persona che l'abbiam saputo mesi dopo e per recuperarla ci fu . . . saltava fuori di continuo e per recuperarla ... non so quanta roba aveva addosso, e anche persone che sono controllate, poi ma­ gari. .. adesso il fenomeno è lievemente in diminuzione, credo almeno negli ultimi 6 mesi non è entrato più nulla (direttore).

Il punto di vista della componente medica risulta più frammentato in te­ ma di contrasto alle dipendenze da mettere in atto. Da un lato, c'è chi si dimostra più propenso alla sperimentazione di strategie di riduzione del danno che prevedano anche la distribuzione di aghi e siringhe, sebbene in forma protetta e sperimentale in quanto consapevole delle implicazio­ ni che questo può comportare all'interno di un carcere ( « il consumo di droga in carcere è un reato » , « la siringa può diventare un'arma » ecc.). Ma c'è anche chi, soprattutto in ragione di tali implicazioni, si dice so­ stanzialmente contrario. Si legga, a tal proposito, il seguente scambio. Intervistato re : «Tra le proposte dell' OMS c'è il suggerimento di provare a distri­ buire anche aghi e siringhe all'interno del carcere come si fa in alcuni istituti in Europa » . Medico : «Ma farebbero che cosa ? » . Medico SerD: «No ! Ma non ho capito, per quali sostanze ? Fatemi capire ! Qui non ci risulta che ... » . Infermiera SerD: « Così aumenteremmo il danno i n carcere ! » . In tervistatore : « In che senso ? » . Infermiera SerD : « E perché già con le malattie tutti. . . » [viene interrotta, c'è mol­ to vociare] . Medico SerD: « Ma noi stiamo lottando per togliere il più possibile gli psicofar­ maci proprio perché ne fanno misuso già all'esterno, già da fuori, quindi noi stia­ mo cercando di eliminare il più possibile, nei limiti chiaramente, se però poi gli diamo pure la siringa, la sera farebbero i festini con gli psicofarmaci, si sciolgono la pastiglia... » . Medico SerD2: « Ma anche per una questione di sicurezza, comunque il carcere è un contenitore, però ci sono dentro dei criminali, dargli in mano una siringa con cui ti può minacciare non è assolutamente ... » . Infermiera SerD2: «Un'arma bianca, eh, sarebbe un'arma bianca per loro » . Infermiera SerD : « Ma è assurdo anche il pensiero, secondo me, cioè hanno sba­ gliato qualcosa nella traduzione perché fuori sì, somministrate le siringhe, gli aghi fuori sì ! Perché hanno la sostanza ! Ti vuoi bucare ? Bucati con la tua siringa e non darla ad un altro, ma non in carcere » (focus group area sanitaria) . 109

CURA SOTTO CONTROLLO

Parallelamente alla ritrosia legata al possibile utilizzo della siringa come ar­ ma, da un lato, emergono argomentazioni che rimandano alla medicina difensiva, che denotano come l'operatore sanitario viva, al pari dell'ope­ ratore penitenziario, nel continuo timore che il detenuto muoia ( Torren­ te, 2016). L'influsso della cultura penitenziaria si fa sentire soprattutto in quella parte della categoria professionale medica che Milly (2001) defini­ rebbe « consensuel » , ossia quella particolarmente attenta a non entrare in conflitto con l'amministrazione penitenziaria e che di conseguenza ne ha assimilato maggiorente i valori e assume un atteggiamento passivo e col­ laborativo. Anche la categoria, ben più numerosa, che l'autore definisce « organicistes », tuttavia, svolge un ruolo ancillare rispetto alla cultura car­ ceraria (Sarzotti, 201 6 ) , in quanto mette in atto una concezione tecnicisti­ ca e meccanicistica della medicina che si limita a curare il singolo problema senza tener conto della globalità della persona. Il più o meno marcato processo di istituzionalizzazione dello staff sanita­ rio fa sì che si sviluppino strategie di controllo medico per appurare la man­ cata assunzione di sostanze ogni volta che il detenuto rientra da un permesso o quando viene visto un po' "intontito" in sezione, anche avvalendosi della collaborazione di infermieri e agenti di polizia penitenziaria che hanno mag­ giori occasioni di osservare quotidianamente le persone detenute. In secondo luogo, emerge frequentemente quella confusione tra tratta­ mento sanitario e trattamento penitenziario di cui abbiamo parlato nel pre­ cedente capitolo : nelle parole di alcuni operatori sanitari il carcere deve esse­ re occasione per "ripulirsi" sia dai reati commessi che da una dipendenza e c'è chi ritiene che distribuire siringhe infici a monte tale processo1• E alla parola siringa a noi ci si sono rizzati i capelli perché è come legittimare anche l'utilizzo di droghe dentro al carcere anche, allora non ha più senso fare prevenzione, o avere il SerT ecc. Sulle siringhe abbiamo messo proprio la x ( infermiere ) .

Ovviamente le posizioni espresse sono variegate, alcune distanti tra loro, ma tale confusione semantica è piuttosto frequente. Quello che ne scatu­ risce è un'idea di prevenzione strettamente connessa a quella di controllo. Contrariamente a quanto suggerito dalla riduzione del danno, per preve­ nire la trasmissione di malattie infettive tramite uso di una stessa siringa, 2. La distribuzione della siringa finisce così per incidere anche sulla moralità degli istituti penitenziari poiché significa « introdurre elementi di disordine comportamenta­ le proprio nel luogo dove dovrebbe regnare il massimo rispetto della legge » ( Sarzotti, 2001, p. 67 ) .

I IO



LA PREVENZIONE E I G RANDI TABÙ DEL CARCERE

occorre implementare il controllo per impedire o limitare il consumo. Le perquisizioni e gli esami clinici sono i due principali strumenti attraverso cui, rispettivamente, amministrazione penitenziaria e area sanitaria posso­ no intervenire a tal fine. Per quanto riguarda l'altra questione tabù, la sessualità, emergono qua e là posizioni di maggiore apertura a sperimentazioni di distribuzione di pre­ servativi, in particolare tra le direzioni penitenziarie, le aree trattamentali e il personale medico, a fronte di consuete chiusure da parte della polizia peni­ tenziaria e di larga parte della popolazione detenuta. Distribuire preservativi sembra "spaventare" meno la direzione di un carcere in quanto la sessualità non è più punita se non dal punto di vista disciplinare e i preservativi sono strumenti che non possono essere usati per aggredire come una siringa. La parte medica sostanzialmente si allinea su tali posizioni, aggiungendo in ge­ nere il potenziale in termini di prevenzione della diffusione di malattie infet­ tive. Tuttavia, pressoché ovunque, pur ammettendo l'esistenza del fenomeno in forma sommersa ma diffusa, raramente la questione viene considerata una priorità e spesso si esprime una sorta di rassegnazione di fronte alle barricate che la polizia penitenziaria solleverebbe. A livello istituzionale non viene ventilato assolutamente perché questo vorrebbe dire ... d'altra parte in un istituto maschile l'idea prevalente che penso che si abbia anche come amministrazione è che se avvengono rapporti omosessuali o sono impo­ sti e quindi violenti e quindi non ci devono essere, o se sono consenzienti meglio non saperlo, non è un argomento facile, basta vedere quello che sta succedendo con l'idea solo dell'affettività, che stanno alzando le barricate. n personale è molto lontano dall'accettare questo tipo di discorsi (direttore ) .

Anche alcuni operatori sanitari hanno fatto riferimento al frequente ricorso alla sessualità come merce di scambio all'interno del carcere e alla contrarietà ad avallare, mettendo a disposizione dei preservativi, forme di violenza. Si è visto nel CAP. 2 come, dal punto di vista medico, spesso si utilizzi l'argomen­ tazione della mancanza di beni essenziali per la cura dell'igiene o di farmaci di base, per cui il preservativo viene considerato un "di più", non essenziale in un contesto, quello carcerario, in cui sostanzialmente non pare necessario o auspicabile che vengano offerti tutti i servizi presenti sul territorio (Vaughn, Carroll, I998). Anche in questo caso, dunque, la sessualità viene sostanzialmente sottoposta a una forma di controllo, volto, se non a impedire, quantome­ no ad ostacolare un comportamento a rischio, negando di fatto la posIII

CURA SOTTO CONTROLLO

sibilità di accedere a uno strumento di protezione dalla contrazione di malattie infettive. Perché dunque insistere su proposte, quali la distribuzione di aghi e si­ ringhe o preservativi, sulle quali lo stesso utente finale, la persona detenuta, si esprime in maniera spesso contraria o indifferente ? Può essere davvero con­ siderata una priorità, tenuto conto delle obiettive condizioni di gravi carenze che caratterizzano tutto il carcere ? Per rispondere a tali interrogativi occorre sviscerare in maniera più compiuta il punto di vista della popolazione reclu­ sa, partendo dalle diffuse istanze di segregare malati e indesiderati.

4 ·2 Prevenzione uguale ghettizzazione

La paura di contrarre malattie in carcere continua ad essere diffusa e lega­ ta in primo luogo alle questioni strutturali descritte nel C A P. 2. In un'ac­ cezione di salute che rimarca la dimensione soggettiva e interazionale oc­ corre tenere in massima considerazione gli aspetti relazionali, i contesti di vita e i significati attribuiti alla malattia e al contagio dei soggetti che popolano un determinato luogo (Favretto, 1999 ) . Nel contesto carcera­ rio, la convivenza forzata in spazi ristretti e insalubri costituisce il prin­ cipale fattore di rischio di contrarre malattie infettive nella percezione della popolazione detenuta. La sezione apposita per persone sieropositi­ ve o che hanno contratto l'epatite C, le due malattie infettive che destano maggiore preoccupazione tra le persone detenute, diventa pertanto la so­ luzione condivisa dai più in quanto consente di tutelare le "persone sane". Una volta che entri in carcere, prendo l'esempio anche suo che ha famiglia, e chi ha bambini, come io che son padre, speri sempre di non prendere mai niente, di star pulito, però bisogna partire già dall'interno del carcere, dalla direzione carceraria, che dice tu quando fai l'esame col dottore hai questo e questo problema, dispiace perché se uno prende una malattia non fa piacere a nessuno, perché non è bello, però tu devi far dei reparti, dei reparti dove metti in sicurezza le persone sane. E quelle che hanno una problematica, una sfortuna, le devi mettere insieme. Perché io se son pulito, noi siam tutti puliti, te, giustamente come dice lui, tu metti una persona che non è facile chiedere a quella persona se è malata, perché anche una persona può sentirsi in imbarazzo a dirtelo, anche se una persona che è malata dovrebbe stare più attenta già lei, perché dovrebbe avere già un minimo di uma­ nità, di dire « guarda, ho questo, non ti metto in repentaglio ecc. », però bisogna I12



LA PREVENZIONE E I G RANDI TABÙ DEL CARCERE

partire dal regime carcerario, fare delle sezioni apposite per queste persone qua, perché in carcere è un attimo a prendersi queste cose qua (focus group detenuti) .

L'istanza rivolta all'amministrazione penitenziaria d i creare sezioni appo­ site viene in genere motivata in quanto strumento di prevenzione per "met­ tere in sicurezza le persone sane", mentre quasi mai emerge l'argomentazio­ ne di offrire condizioni di cura adeguate a chi è malato, cosa che appunto le sezioni speciali e i centri clinici riescono a garantire meglio rispetto a quelle ordinarie, seppur in violazione del diritto alla salute di cui dovrebbe godere ogni cittadino (Favretto, I999, p. I 3 4). Nel contesto carcerario occorre te­ ner conto tuttavia anche dell'alto livello di conflittualità che caratterizza la quotidianità detentiva e che talvolta viene messo in evidenza per giustifica­ re la richiesta di confinare le persone malate in spazi ad hoc. Pensa che uno che c'ha l'HIV non possono metterlo con uno che è normale, ma non per giudizi perché anche i bambini a scuola lo sanno, vanno a scuola studia­ no, si danno la mano si danno tutto. Ma qua se succede una lite in cella, con un compagno di cella tuo, una lite che fai a pugni, sai che il sangue è contagioso. Cioè tu aumenti il rischio di contagio di una persona così, loro ti scrivono non usare il tagliaunghie degli altri, non usare il dentifricio, non usare cose, noi sappiamo che non si trasmette cosi, lo scrivono, lo so perché l'hanno scritto in infermeria come si trasmette, ma solo sangue e sangue si trasmette, non è che c'è un problema. Qua c'è sempre il problema che uno può fare lite con un compagno di cella, se tu fai lite e c'è sangue e sangue, e c'è contatto si può prendere, poi la cella quella è una (focus group detenuti).

Da tale testimonianza emerge un'altra sfaccettatura del clima generale di mancanza di fiducia che caratterizza il contesto carcerario e che influen­ za tutte le interazioni al suo interno. Il tema salute diventa perno attorno al quale si sviluppa la diffidenza tra persone detenute, così come abbiamo visto nel capitolo precedente tra persone detenute e operatori dell'area sa­ nitaria e penitenziari. Altrettanto frequente è a questo proposito l'istanza rivolta generalmente a chi è malato di rivelare il suo stato di salute. In molte interviste emerge un richiamo all'onesta, alla lealtà, come valori che le persone dovrebbero mani­ festare nei confronti di coloro con cui condividono una cella. Ma tanti che ce l'hanno lo vogliono nascondere. Quello che dobbiamo cercare di fare con queste persone è mandare il messaggio che se ci si incontra con me e con te, deve dire, se viene in cella mia, deve dire, perché negli spazi del carcere sono 113

CURA SOTTO CONTROLLO costretto a convivere con la persona che mi mettono in cella, e allora devo essere sì da parte mia di accoglierlo, però tu che hai il problema me lo devi dire se vuoi che conviviamo insieme perché purtroppo è così (focus group detenuti) .

I l valore della lealtà richiama l a massima individuata già d a Clemmer e Sykes negli anni Quaranta e Cinquanta di « non tradire mai un compagno detenuto » (Sykes, 1958). Vari autori tuttavia hanno evidenziato la mitiga­ zione di tale massima nella quotidianità dei rapporti tra detenuti : lo stesso Goffman (1961) parla dell'istituzione totale come di un ibrido sociale che contiene gli aspetti deteriori della vita comunitaria e di quella regolata da un apparato burocratico. Più di recente, Quadrelli ( 2oos) ha evidenziato i meccanismi di desolidarizzazione che caratterizzano il carcere della "pre­ mialità", in cui il codice del detenuto, per quanto vivo e forte nelle reto­ riche, appare applicato in maniera attenuata e negoziata nelle interazioni quotidiane, permeate invece da sfiducia e diffidenza trasversali. Come abbiamo visto sempre nel CAP. 2, la gestione di categorie di per­ sone detenute considerate per vari motivi "problematiche" spesso determi­ na la creazione di sezioni apposite. È il caso, per esempio, delle persone tos­ sicodipendenti, che l'amministrazione penitenziaria in alcuni casi sceglie di collocare in sezioni ad hoc anche in ragione della scarsa tolleranza che viene mostrata nei loro confronti da parte di chi magari ha già concluso un percorso di uscita. Perché poi dopo sai che succede in questo carcere e in altri carceri ? Stanno met­ tendo anche persone che vogliono smettere, che non prendono niente, cioè tipo io è un anno e mezzo che non uso sostanze e sono con uno che prende meta­ clone, cioè io faccio discorsi al ragazzo con terza media di non drogarsi più, vengono cioè non mi possono mettere con uno che prende pasticche, pillole, col telecomando messo così che dorme così e io voglio stare lucido che non mi voglio drogare, con uno che sembra uno zombie che mi ricorda me quando mi drogavo che chiudevo gli occhi. Cioè secondo me è una cosa che non è idonea, non è naturale che tu mi metti uno che si droga, perché il metadone è una droga, è sintetica ma è una droga, uno sta fatto. [ ... ] Quelli che la notte gridano, quelli che si addormentano con la televisione accesa a tutto volume ... anche quella è salute mentale (focus group detenuti). La ghettizzazione, dunque, è una deriva più ampia del sistema penitenziario

e la richiesta di confinare in luoghi separati del carcere persone che hanno una malattia infettiva va di pari passo con la richiesta di allontanare perso­ ne tossicodipendenti, con problemi psichiatrici, di una particolare etnia ecc. I 14

CURA SOTTO CONTROLLO costretto a convivere con la persona che mi mettono in cella, e allora devo essere sì da parte mia di accoglierlo, però tu che hai il problema me lo devi dire se vuoi che conviviamo insieme perché purtroppo è così (focus group detenuti) .

I l valore della lealtà richiama l a massima individuata già d a Clemmer e Sykes negli anni Quaranta e Cinquanta di « non tradire mai un compagno detenuto » (Sykes, 1958). Vari autori tuttavia hanno evidenziato la mitiga­ zione di tale massima nella quotidianità dei rapporti tra detenuti : lo stesso Goffman (1961) parla dell'istituzione totale come di un ibrido sociale che contiene gli aspetti deteriori della vita comunitaria e di quella regolata da un apparato burocratico. Più di recente, Quadrelli ( 2oos) ha evidenziato i meccanismi di desolidarizzazione che caratterizzano il carcere della "pre­ mialità", in cui il codice del detenuto, per quanto vivo e forte nelle reto­ riche, appare applicato in maniera attenuata e negoziata nelle interazioni quotidiane, permeate invece da sfiducia e diffidenza trasversali. Come abbiamo visto sempre nel CAP. 2, la gestione di categorie di per­ sone detenute considerate per vari motivi "problematiche" spesso determi­ na la creazione di sezioni apposite. È il caso, per esempio, delle persone tos­ sicodipendenti, che l'amministrazione penitenziaria in alcuni casi sceglie di collocare in sezioni ad hoc anche in ragione della scarsa tolleranza che viene mostrata nei loro confronti da parte di chi magari ha già concluso un percorso di uscita. Perché poi dopo sai che succede in questo carcere e in altri carceri ? Stanno met­ tendo anche persone che vogliono smettere, che non prendono niente, cioè tipo io è un anno e mezzo che non uso sostanze e sono con uno che prende meta­ clone, cioè io faccio discorsi al ragazzo con terza media di non drogarsi più, vengono cioè non mi possono mettere con uno che prende pasticche, pillole, col telecomando messo così che dorme così e io voglio stare lucido che non mi voglio drogare, con uno che sembra uno zombie che mi ricorda me quando mi drogavo che chiudevo gli occhi. Cioè secondo me è una cosa che non è idonea, non è naturale che tu mi metti uno che si droga, perché il metadone è una droga, è sintetica ma è una droga, uno sta fatto. [ ... ] Quelli che la notte gridano, quelli che si addormentano con la televisione accesa a tutto volume ... anche quella è salute mentale (focus group detenuti). La ghettizzazione, dunque, è una deriva più ampia del sistema penitenziario

e la richiesta di confinare in luoghi separati del carcere persone che hanno una malattia infettiva va di pari passo con la richiesta di allontanare perso­ ne tossicodipendenti, con problemi psichiatrici, di una particolare etnia ecc. I 14

CURA SOTTO CONTROLLO

Due fattori vanno tenuti in considerazione : in primo luogo, l'esisten­ za di sanzioni legate al consumo di droghe e alla sessualità in carcere. In secondo luogo, l'intolleranza culturale nei confronti del comportamento. Il primo aspetto, quello delle sanzioni, pesa evidentemente maggiormente sul consumo di droghe, che si configura tuttora come reato all'interno di un istituto di pena. L'intolleranza culturale è invece rivolta maggiormente al tema sessualità. Anche il consumo di sostanze viene comunque spesso poco tollerato, sia per le conseguenze che esso ha sulla convivenza, sia per la diffusa introiezione dell'idea del carcere come luogo per ripulirsi. In en­ trambi i casi, tuttavia, sono emersi alcuni segnali di apertura. Si legga a tal proposito il seguente estratto di un focus group, da cui emergono posizioni divergenti su entrambi i temi. lntervistatore : «Tra gli interventi di riduzione del danno, vengono proposte an­ che la distribuzione di siringhe o di preservativi, voi da questo punto di vista sare­ ste favorevoli ? Pensate sia utile ? » . A.: «Ma qui non può essere assolutamente che passi una siringa. La droga qui è tutta un'altra cosa, non è la droga droga, qui sono i farmaci le droghe. Preso per via orale è un conto, bucarsi è un altro conto. Farlo lo stesso vuol dire il metadone, per chi prende il metadone, chi prende il Subutex, queste sono droghe » . Y.: « Qui invece di andare a curare, c'è il danno facendo sta cosa, b oh , poi non lo so, per l'epatite va bene, poi, per l'amor di Dio, però per le siringhe. . . la gente prenderà la terapia, farà mille cose che non ha mai fatto, inizierà qua ad assumere delle cose che non ha mai fatto» . A.: « Invece i preservativi alle caserme li dovrebbero dare » . Y.: « Forse, forse, c i sta. L e siringhe. . . non c'ha proprio senso » . A.: « È proprio vietato » . Y. : «Allora, s e diventa la siringa accessibile a tutti quanti, allora fa il danno la sirin­ ga. Chi non l'ha mai usata la trova in mano. Se qualcuno c'ha una certa esperienza e ha fatto un'altra cosa prima e la fa vedere a quello lì, quello lì inizia a fare delle cose che non sa. Ma il preservativo come ho detto, alzo le mani, non lo so, forse va dato a chi sotto sotto con la privacy quello che vuole glielo danno, ma la siringa non credo che sarebbe una soluzione. Se hai dei problemi diventa più problema che soluzione » . F. : «Volevo dire qualcosa per tornare u n po' indietro, perché come h a detto lei prima, la droga entra nel carcere, questo è poco ma è sicuro. Allora se questa perAbbiamo visto nel CAP. 1 come vari autori abbiamo proposto un'attenuazione della con­ trapposizione tra il codice del detenuto e le regole seguite dallo staff e come i confini tra i due universi normativi siano in realtà sfumati, cosa che rende possibile il perseguimen­ to dell'interesse ultimo dell'istituzione, ossia il mantenimento dell'ordine ( Sykes, 1958; Crewe, 2012; 2oo s ).

116



LA PREVENZIONE E I G RANDI TABÙ DEL CARCERE

sona trova una maniera, di bucarsi in un altro modo, perché lo trova, di sicuro lo trova, non so come, però ho sentito un caso due tre giorni fa, secondo me sì, per le siringhe sì, perché se lo deve fare perché lo deve fare in quella maniera, almeno lo penso io, non lo so, perché che succeda succede, a quanto pare succede » . A . : «Chi t i porta l'eroina ti premunisce anche d i siringa >> . F. : « Su questo non sono d'accordo perché in infermeria sotto sotto li rubano in un'altra maniera, non è che li prendono cosÌ » . A . : « Son stati smascherati, ci son state inchieste. Tempo fa a Lucca, dieci guardie so n state arrestate » . F. : « Poi per i preservativi non l o so, non m i sembra il caso » . W. : « lo penso che il problema con le siringhe, se vengono distribuite, poi c i sa­ rebbe anche lo spaccio, perché ci sarebbe lo scambio di siringhe, non è che la gen­ te dice "Io sono intelligente': sì, vabbè, ci sarebbe anche chi dice "io ho rotto la mia ...". Se già non riusciamo a mantenere un certo ambiente pulito ... » . lntervistatore : «Anche fuori per esempio i progetti s i possono strutturare in modo che si va in infermeria, bisogna restituire l'altra siringa usata per avere quel­ la nuova, insomma ci sono vari tipi di proposte per evitare appunto che diventi poi... » . S . : « Ma esiste qualche posto i n cui avviene ? » . lntervistatore : « In Italia no, però in altri paesi europei sÌ » . A . : « Si presume che quando s i fa un'azione del genere le celle siano da 3 o da 6. Se magari abbiamo una siringa e ci dobbiamo fare in 3 o in 4 non stiamo a veder tanto per il so t tile ... » . F. : «Chi lo fa lo fa di nascosto, però per evitare che s i infettano l'uno con l'al­ tro ... » . A.: « Ma proprio non entra nella mentalità, secondo me » . F. : « Questa è un'altra cosa, però s e s i parla d i che cosa s i può fare ... » (focus group detenuti).

Dalle opinioni raccolte emerge come entrambe le questioni siano affronta­ bili solo se spersonalizzate : le timide aperture all'accettazione di un inter­ vento di distribuzione di siringhe e preservativi sono possibili solo rimar­ cando il fatto che la distribuzione venga fatta per altri. La ritrosia cultura­ le dunque permane, ma al contempo occorre sottolineare la rilevanza di un'apertura che è avvenuta di fronte a soggetti terzi e di fatto sconosciuti (i ricercatori) e in gruppo, dove è chiaramente più difficile far emergere opinioni personali distanti dalla cultura della comunità in cui si è immersi, particolarmente inglobante all'interno di un'istituzione totale ( Clemmer, I940; Goffman, I96I). Un altro aspetto rilevante che emerge dall'estratto del focus group è il progressivo spostamento dalle posizioni iniziali, fermamente contrarie alla distribuzione di preservativi e siringhe, a posizioni più complesse e mor117

CURA SOTTO CONTROLLO

bide che manifestano quindi l'esistenza di spiragli di apertura. Questo di­ mostra l'importanza della comunicazione e del confronto anche su temi spinosi e difficili da trattare in gruppo, cosa che può contribuire a mitigare la pregnanza di quelli che vengono considerati i postulati del codice del de­ tenuto e a disegnare un quadro più complesso e variegato della subcultura penitenziaria (Sykes, 1958; Crewe, 2005; 201 2).

4·4 Tra ostracismi e questioni di opportunità

Abbiamo visto come le retoriche sugli ostacoli alla promozione della ridu­ zione del danno all'interno delle carceri ruotino attorno a quelli che ven­ gono all'unanimità sbandierati come argomenti tabù per la popolazione detenuta. Se, da un punto di vista culturale, molta strada sembra ancora da percorrere prima di parlare di accettazione e condivisione da parte delle persone recluse di proposte di interventi di questo tipo, dalla ricerca risulta come il principale ostracismo sia in realtà rappresentato da un altro attore del campo : la polizia penitenziaria. Non è emerso sostanzialmente alcuno spiraglio di apertura da parte degli operatori della sicurezza né per quan­ to riguarda l'uso di sostanze né in tema di protezione della sessualità. Di fronte alle barricate che ci si aspetta tale attore innalzerebbe in caso di spe­ rimentazione di distribuzione di siringhe o preservativi, né l'area sanitaria, né, soprattutto, le direzioni penitenziarie osano considerare praticabili in­ terventi di riduzione del danno di questo tipo. In particolare l'amministrazione penitenziaria, organizzazione forte­ mente centralizzata e gerarchizzata, è compatta nel sostenere di non poter intervenire in alcun modo in mancanza di un input dall'alto. L'area sanita­ ria, d'altra parte, anche qualora si esprima in maniera più coraggiosa e pro­ gressista, si dimostra sostanzialmente inerme di fronte agli ostracismi posti dall'amministrazione penitenziaria. Molto spesso, poi, si fa leva sulla con­ trarietà da parte della popolazione detenuta, da molti data per scontata. Al di là delle diffuse inerzie di fronte alla macchina penitenziaria, ab­ biamo visto come tra le righe di molte opinioni espresse da operatori sani­ tari emerga altresì un'idea di fondo che non sia così necessario e opportuno proporre interventi di questo tipo. Abbiamo notato come, di fronte alla richiesta di esprimersi sulla fattibilità e rilevanza di interventi di riduzio­ ne del danno, in molti casi gli operatori sanitari abbiano sviato il discorso evidenziando la mancanza di beni, farmaci e servizi ben più essenziali negli II8



LA PREVENZ IONE E I G RANDI TABÙ D EL CARCERE

istituti di pena e come la proposta di distribuire siringhe o preservativi ven­ ga percepita da più parti sostanzialmente come naif. Prevenire la trasmissione di malattie infettive, di conseguenza, signifi­ ca sostanzialmente evitare e impedire determinati comportamenti. Il con­ trollo esercita così un ruolo di primo piano per la prevenzione, in un'ottica proibizionista che non considera per esempio prioritario riflettere su come contrastare le deprivazioni della carcerazione che Sykes ( I 9 58) ha definito efficacemente « pains of imprisonment » , in primis la sessualità. Dare per scontato che il sesso in carcere sia un tabù per le persone dete­ nute, senza mai interrogarle a proposito né proporre sperimentazioni atten­ te al rispetto della privacy, significa di fatto portare avanti un'idea di salute che tiene poco conto dei significati attribuiti dagli utenti al concetto in sé di salute, una delle tante sfaccettature che in carcere assumono il dominio me­ dico (Furedi, 2006; ) e la relazione medico-paziente di stampo gerarchico e asimmetrico (Kuty, I975; Maynard, I99I), esasperata in questo particolare contesto. In una lettura interazionista, tutte le situazioni sociali sono inve­ ce oggetto di negoziazioni e ridefinizioni, e, per dirla con Freidson ( I970), occorre svincolare la relazione medico-paziente dall'ottica medicocentrica. Si pone, inoltre, un problema basilare di diseguaglianza nell'accesso alla salute in quanto si impedisce alle persone recluse di avere a disposizione degli strumenti di prevenzione invece consentiti nella società dei liberi. E occorre sottolineare come l'accesso alla sanità e al diritto alla salute non sia ostacolato soltanto dalle diseguaglianze sociali (che il carcere di per sé ben rappresenta) ma « allo stesso tempo, le scelte sanitarie, sia a livello individuale che di or­ ganizzazione, possono concorrere a determinare la crescita (e quindi anche la riduzione) delle disuguaglianze nelle fasce più deboli della popolazione » (Lolli, 2004, p. I 82). E questo può essere fatto sia irrobustendo le capacità dei singoli e delle comunità di adottare dei comportamenti sani che migliorando l'accesso ai servizi e incoraggiando il cambiamento culturale ed economico, in modo da favorire l'accesso alla sanità per tutti. Presupposto del perseguimento di tale obiettivo, tuttavia, è la condi­ visione del principio di equivalenza delle cure. Ma abbiamo visto come vi siano, anche tra il personale medico, diffuse resistenze a riconoscere piena titolarità di diritti, non nelle retoriche ma nell'esercizio concreto del dirit­ to alla salute. Questo sembra derivare dal processo di costruzione dell'i­ dentità sociale del recluso, dove lo status di soggetto che deve scontare una pena perché ha commesso un reato prevale su quello di paziente che, pur rinchiuso in un'istituzione totale, mantiene tutti i suoi diritti. II9



LA PREVENZ IONE E I G RANDI TABÙ D EL CARCERE

istituti di pena e come la proposta di distribuire siringhe o preservativi ven­ ga percepita da più parti sostanzialmente come naif. Prevenire la trasmissione di malattie infettive, di conseguenza, signifi­ ca sostanzialmente evitare e impedire determinati comportamenti. Il con­ trollo esercita così un ruolo di primo piano per la prevenzione, in un'ottica proibizionista che non considera per esempio prioritario riflettere su come contrastare le deprivazioni della carcerazione che Sykes ( I 9 58) ha definito efficacemente « pains of imprisonment » , in primis la sessualità. Dare per scontato che il sesso in carcere sia un tabù per le persone dete­ nute, senza mai interrogarle a proposito né proporre sperimentazioni atten­ te al rispetto della privacy, significa di fatto portare avanti un'idea di salute che tiene poco conto dei significati attribuiti dagli utenti al concetto in sé di salute, una delle tante sfaccettature che in carcere assumono il dominio me­ dico (Furedi, 2006; ) e la relazione medico-paziente di stampo gerarchico e asimmetrico (Kuty, I975; Maynard, I99I), esasperata in questo particolare contesto. In una lettura interazionista, tutte le situazioni sociali sono inve­ ce oggetto di negoziazioni e ridefinizioni, e, per dirla con Freidson ( I970), occorre svincolare la relazione medico-paziente dall'ottica medicocentrica. Si pone, inoltre, un problema basilare di diseguaglianza nell'accesso alla salute in quanto si impedisce alle persone recluse di avere a disposizione degli strumenti di prevenzione invece consentiti nella società dei liberi. E occorre sottolineare come l'accesso alla sanità e al diritto alla salute non sia ostacolato soltanto dalle diseguaglianze sociali (che il carcere di per sé ben rappresenta) ma « allo stesso tempo, le scelte sanitarie, sia a livello individuale che di or­ ganizzazione, possono concorrere a determinare la crescita (e quindi anche la riduzione) delle disuguaglianze nelle fasce più deboli della popolazione » (Lolli, 2004, p. I 82). E questo può essere fatto sia irrobustendo le capacità dei singoli e delle comunità di adottare dei comportamenti sani che migliorando l'accesso ai servizi e incoraggiando il cambiamento culturale ed economico, in modo da favorire l'accesso alla sanità per tutti. Presupposto del perseguimento di tale obiettivo, tuttavia, è la condi­ visione del principio di equivalenza delle cure. Ma abbiamo visto come vi siano, anche tra il personale medico, diffuse resistenze a riconoscere piena titolarità di diritti, non nelle retoriche ma nell'esercizio concreto del dirit­ to alla salute. Questo sembra derivare dal processo di costruzione dell'i­ dentità sociale del recluso, dove lo status di soggetto che deve scontare una pena perché ha commesso un reato prevale su quello di paziente che, pur rinchiuso in un'istituzione totale, mantiene tutti i suoi diritti. II9



LA PREVENZIONE E I G RANDI TABÙ DEL CARCERE

principio universale di uguaglianza (Petrini, 20I 6 ) , da cui deriva la piena equiparazione delle garanzie di protezione del diritto alla salute. Nonostante ciò, tale principio fatica ad affermarsi nel sistema peniten­ ziario italiano, anche in ragione di una cultura restia ad applicarlo in ma­ niera estesa. La riduzione del danno è in tal senso un esempio "estremo" che ben dimostra come nella cultura professionale di chi opera in carcere il concetto di uguaglianza va pur sempre mitigato da questioni di oppor­ tunità che rispecchiano la less eligibility: se le condizioni dentro al carcere fossero migliori rispetto all'esterno, il rischio è che qualcuno possa appro­ fittarne, facendo perdere alla prigione il suo effetto deterrente. Abbiamo visto nel CAP. 2 come, per esempio, l'assenza di ticket in carcere venga da alcuni medici considerata una criticità, un privilegio con effetti perversi, poiché spingerebbe alcuni detenuti ad abusare degli accertamenti, cosa che fuori non avverrebbe proprio per via della necessità di dover pagare per le stesse prestazioni. Al di là del fatto che ogni accertamento va comunque prescritto da un sanitario, è chiaro come un'opportunità, per il servizio sa­ nitario, di agganciare persone che fuori sono più restie, per varie ragioni, ad avvicinarsi al servizio sanitario sia considerata uno spreco piuttosto che un'occasione per fare prevenzione. Tali posizioni potrebbero essere interpretate nell'ottica del contrasto al processo di medicalizzazione di cui sono state presentate alcune rilevan­ ti criticità nel CAP. 1. È notorio come dentro il carcere molte questioni che andrebbero affrontate in altro modo vengano "medicalizzate': Questo av­ viene da un lato per l'impossibilità o incapacità dell'amministrazione pe­ nitenziaria di gestire altrimenti le sofferenze provocate dalla detenzione : l'altissimo numero di psicofarmaci prescritti denota la dannosità della car­ cerazione in sé, con tutto il corollario di assenza di prospettive, attività in cui impegnare la mente e quant'altro. Al contempo, i medici sono piutto­ sto concordi nel riscontrare un surplus di richieste di visite e colloqui da parte della popolazione detenuta rispetto agli utenti liberi e questo eviden­ temente denota sia l'ipocondria causata dalla detenzione, sia l'estrema po­ vertà di comunicazioni e di possibilità di ottenere ascolto, per cui il medico si trova a sopperire a tale mancanza. Finisco per dedicare due minuti alle visite vere perché mi son perso tutto il resto del tempo in cose che non erano del dottore (medico).

Neisser (I977) ha messo in luce come la popolazione detenuta esprima ef­ fettivamente una domanda maggiore di servizi sanitari e questo dipendeIli

CURA SOTTO CONTROLLO

rebbe da vari fattori. Oltre al fatto che chi finisce in carcere tipicamente ha più problemi sanitari rispetto al cittadino medio (basti pensare a due categorie ampiamente sovrarappresentate come i tossicodipendenti e chi presenta disturbi psichiatrici) , lo stress della detenzione amplifica le nor­ mali preoccupazioni psico-fisiche e malesseri che fuori sarebbero ragione­ volmente ignorati. Se poi, da un lato, è indubbio che il surplus di richieste di parlare con un medico risponda in gran parte alla semplice volontà di trovare un ascolto o di uscire dalla cella, è altresì vero che l'istituzione pe­ nitenziaria impedisce per esempio di risolvere un dubbio sanitario telefo­ nando al proprio medico o di fronteggiare un malessere specifico con un medicinale "da banco" come può fare il cittadino libero. Anche per questo il numero di richieste di visite mediche si impenna. Infine, secondo Neis­ ser, la prescrizione di un gran numero di esami, che dà al personale peni­ tenziario l'impressione di un'eccessiva attenzione verso il detenuto, deriva altresì da esigenze di controllo che nulla hanno a che fare con la risposta ai bisogni sanitari della persona (si pensi ai test sulle urine per chi rientra dai permessi ecc.). La questione dunque sembra vada posta non tanto in termini di mag­ giore o minore medicalizzazione, quanto di violenza strutturale della quo­ tidianità detentiva, che impone una lettura dei bisogni sanitari in chia­ ve differente rispetto all'esterno. Per questo, per parlare di uguaglianza nell'accesso al diritto alla salute, non è possibile fermarsi al piano formale, ma occorre tenere a mente le numerose privazioni insite nella detenzione che impattano sul benessere psico-fisico-sociale della persona. Il punto diventa quindi come intervenire sulla violenza intrinseca all'i­ stituzione totale. E questo chiama in causa due principali questioni, che so­ no state utilizzate come filo conduttore di tutto il presente lavoro. In primo luogo, l'aspetto culturale. La ricerca ha confermato quella che è una sostanziale impreparazione culturale ad affermare pienamente il principio di equivalenza delle cure. La visione punitiva che connota la carcerazione si riflette in una certa misura anche sulla tutela della salute, al pari di ogni altro diritto in capo al detenuto, e provoca quella confusione tra diritti e benefici (Salle, Chantraine, 2009) trattata nel C AP. 2. Per que­ sto si crea una distanza tra la retorica dell'equivalenza e gli interventi per concretizzarla, e la riduzione del danno ne è un esempio emblematico. Le difficoltà poste nella realizzazione di tali interventi riflettono quell'impre­ parazione culturale a ridurre la distanza tra retorica e pratiche. Su questo, dunque, solo un rinnovamento culturale che riguardi il senso stesso della 122



LA PREVENZIONE E I G RANDI TABÙ DEL CARCERE

pena, nella direzione di invertire la rotta della diffusa istanza punitiva, può creare un terreno per la piena affermazione del principio di equivalenza. In secondo luogo, il rinnovamento culturale può realizzarsi e produr­ re degli effetti solo se accompagnato da interventi strutturali sulla quo­ tidianità detentiva. Abbiamo visto come tra gli effetti patogeni della de­ tenzione spicchi la coabitazione forzata in spazi ristretti e sovraffollati. Tali condizioni sono evidentemente esacerbate dal fenomeno del mass imprisonment (Scott, 20I3; Wacquant, 2004; Garland, 200I ) che ha ca­ ratterizzato anche il nostro paese negli ultimi anni, nonostante la breve parentesi deflattiva del periodo immediatamente successivo alla sentenza Torreggiani. Gli effetti del sovraffollamento e della detenzione delle mar­ ginalità sociali sono ben presenti a tutti gli attori coinvolti nel presente studio (popolazione detenuta in primis, ma anche operatori penitenziari e sanitari) e l'impatto sulla salute è tale da far percepire il degrado del­ le strutture come il primo fattore di rischio. Si tratta di per sé di ottime ragioni per sottoscrivere quelle autorevoli posizioni che propongono un diritto penale minimo, volto a limitare al massimo la violenza punitiva e a sviluppare strategie alternative di controllo sociale (Baratta, I 9 8 s ; Fer­ rajoli, I 9 8 9 ). Il diritto alla salute costituisce in tale prospettiva un limite all'esercizio della giustizia penale e impone la promozione di una visione garantista che commisuri l'utilità che deriva dall'esecuzione di una con­ danna in carcere ai costi sociali della stessa. In una lettura costruzionista, l'obiettivo dell'equivalenza delle cure di­ venta, se non raggiungibile, quanto meno perseguibile, solo immaginando un contesto penitenziario fortemente e strutturalmente deflazionato, at­ traverso coraggiose politiche di depenalizzazione e decarcerizzazione. In altre parole, un diritto penale improntato al garantismo e orientato a ridur­ re drasticamente i numeri della detenzione.

123

CURA SOTTO CONTROLLO

In secondo luogo, la reciproca diffidenza che permea le relazioni all'in­ terno del carcere, che determina la scarsa fiducia nella possibilità di trovare delle risposte alle proprie istanze di tutela della salute. Il mezzo inadeguato a salvare ( il salvagente forato) ben rappresenta quella distanza percepita tra la relazione terapeutica che si instaura dentro e fuori dal carcere. L'agire dell'operatore sanitario è fortemente influenzato dalla cultura penitenzia­ ria. La restrizione dell'autonomia del medico, la violazione della privacy, i pregiudizi sulla simulazione da parte dei pazienti-detenuti, il disciplina­ mento che traspare talvolta nella relazione di cura, sono solo i tratti più evidenti e critici di un rapporto medico-paziente che subisce l'invasione di campo da parte di una cultura penitenziaria punitiva. In terzo luogo, la percezione dell'impossibilità di curare dentro al car­ cere, sintomatica di un'irriformabilità dell'istituzione nel suo complesso. Qui il dibattito si apre alla questione più generale della « lotta per i diritti dei detenuti tra riduzionismo e abolizionismo carcerari » (Pavarini, 2oo6). Nel caso specifico della tutela della salute all'interno del contesto peniten­ ziario la domanda è duplice. In primis, occorre interrogarsi sulla riformabi­ lità del carcere nella direzione di migliorare l'offerta del servizio sanitario, adeguandola agli standard esterni, come previsto e auspicato dalla riforma della sanità penitenziaria entrata in vigore nel 2008. Trasferire la gestione del servizio sanitario dal ministero della Giustizia a quello della Salute può consentire l'adattamento dell'istituzione penitenziaria a dinamiche ester­ ne e, in ultima istanza, migliorare l'offerta del servizio ? In caso di risposta affermativa (per quanto messa in dubbio dall'ineliminabile conflittualità che connota le relazioni dentro al carcere) , la seconda domanda che si po­ ne, più specifica, è se lo strumento normativa sia adeguato e sufficiente a plasmare un servizio sanitario rinnovato e maggiormente in grado di tute­ lare la salute, in un contesto in cui abbiamo visto essere forte il condiziona­ mento della cultura penitenziaria. Tale condizionamento, unitamente alla descrizione del degrado strut­ turale degli istituti penitenziari, fa propendere per un forte pessimismo sulla possibilità di raggiungere l'equivalenza delle cure tra dentro e fuori. Al contempo non si intende sminuire la rilevanza e la portata della riforma della sanità penitenziaria, segno di civiltà arrivato semmai troppo tardi nel nostro paese rispetto a tanti altri paesi europei (Coyle, 2004) e che indub­ biamente pone le basi per introdurre nell'istituzione penitenziaria margini di apertura e di autonomia nei confronti di un soggetto terzo. La sociologia della pena ha tuttavia messo in luce la produzione di sof­ ferenza che è insita nell'istituzione carceraria in sé, a prescindere dai tenta126

CONCLUSIONI

tivi correttivi che possono derivare dai pur encomiabili intenti riformisti. Il dibattito mai sopito tra riformismo e abolizionismo carcerario abbraccia dunque anche la questione della tutela della salute in carcere, sulla qua­ le impattano la degradazione, i processi di infantilizzazione e le numerose «pains of imprinsonment » che accompagnano inesorabilmente la deten­ zione. Avendo in mente il diritto alla salute, collocarsi ai due estremi non è scelta che possa farsi a cuor leggero. La lettura costruzionista dell'ese­ cuzione della pena, filo conduttore teorico del presente lavoro, suggerisce però quanto meno l'applicazione di un diritto penale minimo (Ferrajoli, I989; Baratta, I985 ) che promuova politiche volte a ridurre la detenzione a extrema ratio. Ben venga, dunque, l'ingresso di un soggetto esterno ai fini dell'implementazione di un diritto rilevante quale quello alla salute, che tuttavia si ritiene possa produrre effetti in termini di garanzia di uguaglian­ za nell'acceso alle cure solo se accompagnato da un processo di rinnova­ mento della cultura della pena e, soprattutto, da un marcato cambio di rot­ ta nella gestione della penalità, che consenta di "ridurre il danno" prodotto dalle carceri sovraffollate dell'era dell'incarcerazione di massa.

1 27

Appendice metodologica

La ricerca è stata svolta nell'ambito del progetto dal titolo lRi.D.E. : Inter­ venti di riduzione del danno efficaci secondo le Linee Guida Internazionali 2 0IJ. Una ricerca-intervento nelle carceri italiane, finanziato dal ministero della Salute al Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Torino e con il coinvolgimento di una rete di associazioni ( CNCA, Anlaids, Associa­ zione Antigone, Arcigay, LILA, Gruppo Abele, Mario Mieli, MIT) • . Si è trat­ tato infatti di una ricerca-azione nella quale l'analisi qualitativa non è stata che una delle fasi progettuali, a cui ha fatto seguito un intervento da parte delle associazioni coinvolte in alcuni dei territori oggetto della ricerca. Lo studio si è focalizzato sulla tutela della salute in carcere partendo dal focus specifico della prevenzione. In particolare, l'analisi ha preso le mos­ se dal livello di applicazione delle 1 s azioni raccomandate nel documento congiunto di UNOD C -ILO-UNPD -WH O -UNAIDS dal titolo HIV Prevention, Treatment and Care in Prisons and Other Closed Settings: A Comprehensive Package ofinterventions, in un campione di istituti di pena dislocati sul terri­ torio nazionale. Tale documento fa riferimento a 15 interventi chiave speci­ fici, di cui le linee guida raccomandano l'implementazione anche all'inter­ no del contesto carcerario, in parallelo a una serie di ulteriori interventi che abbracciano aspetti più generali riguardanti la tutela della salute in carcere. La metodologia utilizzata è di carattere qualitativo e ha visto il coinvolgi­ mento di un campione di persone detenute, operatori sanitari e operatori pe­ nitenziari. Nello specifico, si è scelto di utilizzare gli strumenti dell'intervista semistrutturata (individuale e collettiva) con gli operatori penitenziari, del focus group e dell'intervista individuale con gli operatori sanitari e del focus group con le persone detenute. Sono stati coinvolti 9 istituti di pena scelti in maniera tale da coprire una rappresentanza territoriale ampia e diffusa. Il campione complessivo è rappresentato dalla TAB . 1. I. n progetto è stato realizzato grazie al finanziamento del ministero della Salute, Dire­ zione generale della prevenzione sanitaria, capitolo di spesa 4023/p.g.l.

1 29

APPENDICE METODOLO GICA TABELLA I

Campione ricerca Istituto penitenziario

Torino Milano Bollate Padova Bologna Firenze Roma Rebibbia femminile Perugia Napoli Poggioreale Lecce Totale

Persone detenute

Operatori sanitari

Operatori penitenziari

2 12 18 18 6 12

3 6 2

7 7 12

4

13 8 6 8

7 8 7 90

IO

30

76

Totale

12 25 32 26 23 23 16 19 20 196

Per quanto riguarda le modalità di selezione delle figure da coinvolgere nella ricerca, in quasi tutte le realtà si è operato in stretta sinergia con gli operatori sul territorio delle associazioni coinvolte nel progetto. Si è trattato, in gene­ re, di figure che a vario titolo già operavano all'interno del carcere di riferi­ mento, nell'ambito di progetti realizzati dall'associazione di appartenenza. In molti casi, sono stati proprio questi operatori a creare i primi contatti con le figure apicali sanitarie e penitenziarie che, a loro volta, ci hanno permesso di coinvolgere i vari operatori, sanitari e penitenziari. In alcuni casi è stato molto incisivo il coinvolgimento in prima persona di operatori sanitari (di­ rigenti sanitari, medici del SerD ecc. ) , anche nell'attività di intermediazione con le direzioni penitenziarie, in particolare per quanto riguarda la selezio­ ne del campione di persone detenute da coinvolgere nei focus group. Nella maggioranza dei casi ci siamo trovati di fronte a gruppi di persone detenute inserite in attività progettuali, spesso di "alto livello", talvolta già facenti parte di progetti di educazione sanitaria, con un grado di consapevolezza sui temi trattati indubbiamente superiore alla media, ma proprio per questo talvolta scarsamente rappresentativi dell'universo penitenziario. In tal senso emerge una criticità insita in gran parte della ricerca in am­ bito penitenziario, riguardante l'impossibilità per il ricercatore non solo di accedere liberamente agli spazi osservati, ma altresì di scegliere chi intervi­ stare e coinvolgere nella ricerca. Nonostante si fosse esplicitamente richiesto

APPENDICE METODOLO G I CA

all'amministrazione penitenziaria di coinvolgere un campione di persone il più possibile rappresentativo della popolazione detenuta nel suo complesso (e dunque per la gran parte digiuna di conoscenze specifiche sui temi tratta­ ti) , è altresì vero che in questi casi la macchina penitenziaria tenda a coinvol­ gere gruppi già in una certa misura "strutturati" (vale a dire inseriti in pro­ getti trattamentali) in modo tale da agevolare la realizzazione degli incontri. Se questo ha in effetti in molti casi facilitato la comunicazione (avevamo di fronte persone già in una certa misura abituate a incontri di gruppo ecc.), al contempo mina in parte la rappresentatività del campione. Tuttavia, in 3 istituti abbiamo avuto la possibilità di organizzare focus group con perso­ ne detenute "comuni" e non inserite in progetti trattamentali di "alta soglia", di conseguenza maggiormente rappresentative dell'universo penitenziario complessivo. Tre focus group hanno coinvolto donne. Le tracce delle interviste semistrutturate e dei focus group hanno tocca­ to temi in parte comuni e in parte adattati alle figure coinvolte. In tutti i casi sono stati affrontati i fattori di rischio per la salute in carcere, la trasmissione delle malattie infettive e gli interventi di riduzione del danno. Nel caso degli operatori sanitari ci si è concentrati inoltre sul ruolo del professionista sanita­ rio all'interno del carcere e sulle sue evoluzioni, sull'autonomia professionale e sulle specificità del paziente detenuto. Nel caso degli operatori penitenziari si è focalizzata l'attenzione altre­ sì sull'impatto organizzativo del riordino della medicina penitenziaria, sulle istanze di carattere sanitario da parte della popolazione detenuta e sulle inte­ razioni detenuto-operatore penitenziario-operatore sanitario. Infine, nel caso delle persone detenute, i temi toccati includono anche la percezione del servizio sanitario (in termini di informazione, prevenzione e trattamento), i bisogni sanitari e informativi e le relazioni all'interno del car­ cere tra detenuti e con gli operatori. Per quanto riguarda gli strumenti utilizzati, nel caso degli operatori sa­ nitari si è privilegiato quello del focus group, affiancato da un certo numero di interviste semistrutturate. L'utilità di tale strumento è legata alle rare oc­ casioni di confronto tra operatori sanitari che svolgono ruoli profondamen­ te diversi tra loro (dirigenti sanitari, infermieri, medici di guardia, specialisti ecc.), per cui esso si è rivelato proficuo e apprezzato anche in termini di con­ divisione e scambio. Questo peraltro ha consentito di coinvolgere un nume­ ro ben maggiore di operatori sanitari rispetto a quanto previsto dal disegno della ricerca (90 anziché 3 5). Nel caso degli operatori penitenziari, invece, oltre ad alcune interviste collettive, sono state organizzate anche interviste individuali, per evitare che

APPENDICE METODOLO G I CA

la gerarchizzazione dei ruoli che connota tipicamente l'amministrazione pe­ nitenziaria potesse incidere in maniera marcata sulla libertà di espressione. In quasi tutti gli istituti i focus con le persone detenute sono stati realiz­ zati senza la presenza della polizia penitenziaria. Tale condizione, indispen­ sabile per la buona riuscita di uno strumento di indagine quale il focus group, non è stata rispettata soltanto in due casi: a Milano, dove la compresenza di uomini e donne ha reso necessaria la supervisione di un'agente (effetto "per­ verso" quindi di una maggiore apertura alle attività in comune, laddove può costituire una limitazione alla massima libertà di espressione che con il focus si intendeva incentivare) e a Torino, dove il focus si è svolto nel grande teatro e un agente ha supervisionato a distanza tutta l'attività. Tra le altre figure che hanno partecipato talvolta ai focus ci sono stati un'educatrice, un'insegnante, una mediatrice, i promotori della salute, alcu­ ni rappresentanti delle associazioni sul territorio. Per i fini della ricerca, tali figure possono aver esercitato un'influenza (in misura maggiore o minore a seconda del ruolo svolto all'interno dell'istituto penitenziario e della pre­ gressa conoscenza o meno da parte delle persone detenute), ma, al contempo, talvolta hanno svolto un'attività di supporto nell'accesso al campo di studio e alla creazione di un contesto empatico ed aperto alla discussione. Il campo penitenziario è notoriamente un contesto complesso in cui svolgere attività di ricerca, soprattutto di carattere qualitativo2.. Se, da un la­ to, l'interesse alla partecipazione e il coinvolgimento da parte dei soggetti in uno studio possono risultare spesso superiori ad altri tipi di contesti, l'imper­ meabilità dell'istituzione totale, il livello di diffidenza che essa impone e le dinamiche di potere che caratterizzano in una certa misura tutte le relazioni, sono solo alcuni tra i fattori che ostacolano la predisposizione di uno scena­ rio che favorisca il più possibile la piena libertà di espressione. Tutto ciò, uni­ tamente alla particolare delicatezza dei temi trattati e ai numerosi tabù che tuttora li accompagnano, ha fatto sì che il rigore metodologico sia stato in una certa misura allentato per poter consentire la messa in atto di strategie di avvicinamento alla comprensione del campo di analisi.

2. Cfr. il numero monografico della rivista "Etnografia e ricerca sociale" (n. 2, 2016) e, in particolare, l'introduzione dei suoi curatori (Sbraccia, Vianello, 20 16)

Riferimenti bibliografici

(2004), Rapporto medico-paziente, in C. Cipolla (a cura di), Manuale di sociologia della salute, FrancoAngeli, Milano, pp. 308-31. BARATTA A. (1985), Principi del diritto penale minimo. Per una teoria dei diritti umani come oggetti e limiti della legge penale, in "Dei Delitti e delle Pene': 3· pp. 443-74· ID. (a cura di) (1986), Il diritto penale minimo. La questione criminale tra ridu­ zionismo e abolizionismo, E S I, Napoli. BAUMAN z. ( 20 o 1 ), Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sullepersone, La­ terza, Roma-Bari (ed. or. 1998). BECKER H. (1963), Outsiders: Studies in the Sociology ofDeviance, The Free Press, Glencoe (trad. it. Outsiders. Saggi di sociologia della devianza, Edi­ zioni Gruppo Abele, Torino 1987 ) B ERGER P. L., LUCKMANN T. (1966), The Social Construction of Reality: A Treatise in the Sociology ofKnowledge, Doubleday, New York (trad. it. La realta come costruzione sociale, il Mulino, Bologna 1997 ). BERTOLAZZI A . (2004), I paradigmi sociologici della salute, in C. Cipolla (a cura di), Manuale di sociologia della salute, FrancoAngeli, Milano, pp. 4994· B O B B I O M . (2017 ) , Troppa medicina. Un uso eccessivo puo nuocere alla salute, Einaudi, Torino. B ON D E S ON u. v. ( 1994 ) , Alternatives to Imprisonment: Intentions and Reality, Westview Press, Oxford. BOURDIEU P. (1992), Risposte. Per un'antropologia riflessiva, Bollati Boringhie­ ri, Torino (ed. or. 1992). B RADSHAW R. et al. (2017 ) , The Health ofPrisoners: Summary ojNICE Gui­ dance, in "British Medical Journai': 35 6. BRONZINI M. (2013), Le.frontiere indefinite della medicina e la medicalizzazio­ ne del vivere, in G. Vicarelli (a cura di), Cura e salute. Prospettive sociologi­ che, Carocci, Roma, pp. 51-8 6. AGNO LETTI v.

.

133

RIFERI M ENTI BIBLIOGRA FI C I

(2013), Prigioni. Amministrare la sofferenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino. BURY M. (199I), The Sociology ofChronic Illness: A Review ofReseach and Pro­ spects, in "Sociology ofHealth & Illness': 13, pp. 45 1-68. CARDANO M . (2oo6), Le narrazioni e la loro analisi, in "Rassegna italiana di Sociologia': 2, pp. 361-70. ID. (2013), Disuguaglianze sociali di salute, in G. Vicarelli (a cura di), Cura e salute. Prospettive sociologiche, Carocci, Roma, pp. 25-50. ID. (2015), Corpi e storie. Traiettorie di un confronto interdisciplinare, in "Salute e società': 3, pp. 34-43. CARRICABURU D., MÉNORE T M. (2007 ), Socio/ogia della salute, il Mulino, Bologna (ed. or. 2005). CASTEL R . (1991), From Dangerousness to Risk, in G. Burchell, C. Gordon, P. Miller (eds.), The Foucault Ejfect: Studies in Governmentality, Harvester Wheatsheaf, London, pp. 28 1-98. CHANTRAINE G., SALLÉE N. (2015), Ethnography ojWritings in Prison: Pro­ fessiona/ Power Struggles Surrounding a Digita! Notebook in Prisonfor Mi­ nors, in D. H. Drake, R. Earle, J. Sloan (eds.), The Palgrave Handbook on Prison Ethnography, Palgrave, London, pp. 99-123. CHARON R. (2oo6), Narrative Medicine: Honoring the Stories ofIllness, Ox­ ford University Press, New York. CHAUVENETTE A. (1973), Idéologie et statuts professionells chez !es médecins ho­ spitaliers, in "Revue française de sociologie': 14, 1, pp. 61-76. CHAUVIN 1. (2ooo ), La santé en prison. Les enjeux d'une véritable riforme de santépublique, E S F Éditeurs, Paris. CH ERC H I c. (2016), Curare il carcere. Note sul passaggio di competenze in ma­ teria di sanita penitenziaria, in ''Antigone': 1-2, pp. 219-3 1. C H RI S S J. J. (a cura di) (2oo8), Medicina e controllo sociale, Kurumuny, Cali­ mera (ed. or. 2007). C H RISTIE N. ( 1996), Il business penitenziario. La via occidentale algulag, Elèu­ thera, Milano (ed. or. 1994). C I P O LLA c . (a cura di) (2004), Manuale di sociologia della salute, FrancoAn­ geli, Milano. CLEMM ER D. (1940), The Prison Community, Christopher Publishing House, Boston. CONRAD P. (1992), Medicalization and Social Contro!, in ''Annua! Review of Sociology': 18, pp. 209-32. C OTTINO A. (1998), Vita da clan. Un collaboratore di giustizia si racconta, Edi­ zioni Gruppo Abele, Torino. ID. (a cura di) (2016), Lineamenti di sociologia del diritto, Zanichelli, Bologna.

B UF FA P .

134

RIFERI M ENTI BIBLIOGRA FI C I

(2017 ), Report to the Italian Government on the Visit to Italy Carried out by the European Committee on the Prevention o/Torture and Inhuman or Degrading Treatment or Punishment (ePT) (from 8 to 2I April2oi6), s.e., Strasbourg (https:/ /rm.coe.int/pdf/I68o7412c2). COYLE A. (2004), Prison Health and Public Health: The Integration ofPrison Health Services, International Centre far Prison Studies, London. CREWE B. (2005), Codes and Conventions: The Terms and Conditions ofCon­ temporary Inmate Values, in A. Liebling, S. Maruna (eds.), The Ejfects of Imprisonment, Willan Publishing, Cullompton, pp. 177-208. ID. (2009 ), The Prisoner Society: Power, Adaptation and Social Life in an En­ glish Prison, Oxford University Press, Oxford. ID. (2012), Prison Culture and the Prisoner Society, in B. Crewe, J. Bennett (eds.), The Prisoner, Roudedge, London, pp. 27-39. CULLEN F. T. (1995), Assessing the Penal Harm Movement, in "Journal ofRese­ arch in Crime and Delinquency': 32, 3, pp. 338-58. DEGENHARDT T., VIANELLO F. (2oio ), Convict Criminology: provocazioni da oltreoceano. La ricerca etnografica in carcere, in "Studi sulla questione cri­ minale': v, I, pp. 9-23. D E G I ORGI A. (2002), Il governo dell'eccedenza. Postjordismo e controllo della moltitudine, ombre corte, Verona. DE LEONARD I S o. ( 1990 ), Il terzo escluso. Le istituzioni come vincoli e come risorse, Feltrinelli, Milano. DE VITO c. (2009 ), Camosci e girachiavi. Storia del carcere in Italia, Laterza, Roma-Bari. D O U GLAS M. (1996), Rischio e colpa, il Mulino, Bologna (ed. or. 1992). D RAKE D. H., EARLE R., S L OAN J. (eds.) (2015), The Palgrave Handbook on Prison Ethnography, Palgrave, London. ELSTERJ. ( 1995), Giustizia locale. Come le istituzioni assegnano i beni scarsi e gli oneri necessari, Feltrinelli, Milano (ed. or. 1992). E S P O SITO M . (2007 ), Malati in carcere. Analisi dello stato di salute delle perso­ ne detenute, FrancoAngeli, Milano. FAVRETTO A. R. (1999), LAIDS in carcere:fenomenologia di una ''malattia par­ ticolare", in A. R. Favretto, C. Sarzotti (a cura di), Le carceri dellAIDS. In­ dagine su tre realta italiane, L'Harmattan Italia, Torino, pp. 90-I39· ID. (2015), Costruire l'ordine negoziato in contesti incerti: l'esperienza della ma­ lattia nei servizi sanitari, in "Sociologia del diritto': 2, pp. 115-46. FAVRETTO A. R., SARZOTTI C. (a cura di) (1999 ), Le carceri dellAIDS. Indagi­ ne su tre realta italiane, L'Harmattan Italia, Torino. FERRAJ O LI L. (1989 ), Diritto e ragione. Teoria delgarantismo penale, Laterza, Roma-Bari. C OUNCIL O F EURO P E

135

RIFERI M ENTI BIBLIOGRA FI C I

(20I7 ), Dall'esperienza del difensore civico: riflessioni sui rapporti tra medico e detenuto. Tre storie di malasanita nelle carceri italia­ ne, in AA.VV., Torna il carcere. XIII Rapporto sulle condizioni di detenzione, Antigone, Roma, pp. II4-2I. FOSCHI w. (2004), Epidemiologia ambientale ed epidemiologia sociale, in C. Cipolla (a cura di), Manuale di sociologia della salute, FrancoAngeli, Mi­ lano, pp. 185-201. F O UCAULT M. ( 1963 ) , Naissance de la clinique. Une archéologie du regard médi­ cal, Presses Universitaires de France, Paris (trad. it. Nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo medico, Einaudi, Torino 1998). I D . (1972), Histoire de lafolie a l'age classique, Gallimard, Paris (trad. it. Storia dellafollia nell'eta classica, Rizzoli, Milano 1976). ID. (I97S), Surveiller etpunir. Naissance de la prison, Gallimard, Paris (trad. i t. Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1993). ' F OX N. J . , WARD K . J . , o RO URKE A. J . (2004), The 'Expert Patient': Empo­ werment or Medica! Dominance? The Case ofWeight Loss, Pharmaceutical Drugs and the Internet, in "Social Science and Medicine': 6o, pp. 1299-309. F REID S O N E. ( 1970 ), Professional Dominance: The Social Structure ofMedica! Care, Atherton Press, New York. FREUND P. (1990), The Expressive Body: A Common Groundfor the Sociology ofEmotions and Health and Illness, in "Sociology of Health and Illness': 12, 4· pp. 452-77· FUREDI F. (2oo6), The End ofProfessional Dominance, in "Society': 43, 6, pp. 14·8. GALLO E., RUG G IERO v. (1989), Il carcere immateriale. La detenzione come fabbrica di handicap, Edizioni Sonda, Torino. GARFINKEL H. (1956), Conditions ofSuccessful Degradation ofCeremonies, in "American Journal of Sociology': 6I, s. pp. 420-4. GARI G LI O L. (2016), Threats ofForce by Prison Officers in a Male Custodia! Institution: An Ethnographic Account, in "Etnografia e ricerca qualitativa': 2, pp. 285-303. GARLAND D. (2oo1), Mass Imprisonment: Social Causes and Consequences, Sage, London. G E RMANO 1., M O RI L. (2004), Multiculturalismo e salute, in C. Cipolla (a cura di), Manuale di sociologia della salute, FrancoAngeli, Milano, pp. 333-94. G O FFMAN E. (1959 ), The Presentation of Self in Everyday Life, Doubleday, Garden City (trad. i t. La vita quotidiana come rappresentazione, il Mulino, Bologna 1969 ). FILI P P I s . , ZECCA s .

RIFERI M ENTI BIBLIOGRA FI C I

(I96I), Asylums: Essays on the Social Situation ofMental Patients and Other lnmates, Random House ( trad. it. Asylums. Le istituzioni totali: i meccani­ smi dell'esclusione, Edizioni di Comunità, Torino 2ooi). G ONIN D. (I994), Il corpo incarcerato, Edizioni Gruppo Abele, Torino (ed. or. I99I). G O O D J. B . (2oo6), Narrare la malattia. Lo sguardo antropologico sul rapporto medico-paziente, Einaudi, Torino (ed. or. I993). HAYTON P., GATHE RE R A . , FRA S E R A. ( 20I0 ), Patient or Prisoner: Does /t Matter which Government Ministry fs Responsiblefor the Health ofPriso­ ners?, WHO, Copenhagen. H ERZLICH c. (I973), Types de clientele etfonctionnement de l'institution hospi­ taliere, in "Revue française de sociologie': I4, I, pp. 4I-S9· H E S T E R s., EGLIN P. ( I999 ), Sociologia del crimine, Piero Manni, Lecce (ed. or. I992). H O FMANN B. ( 2002 ) , On the Triad Disease, Illness and Sickness, in "Journal of Medicine and Philosophy': 27, 6, pp. 6s i-73· H U G H E S E. c. (I94S), Dilemmas and Contradictions of Status, in "American Journal of Sociology': so, s. pp. 3S3-9· ID. (I9S8), Men and Their Work, The Free Press, Glencoe. HYDÉN L. c. ( I997 ), Illness and Narratives, in "Sociology of Health and Ill­ ness': I9, I, pp. 48-69. ILLICH 1. (I97s), Medica! Nemesis: The Expropriation of Health, Calder & Boyars, London ( trad. i t. Nemesi medica. L'espropriazione della salute, Mondadori, Milano I977 ) . I N G RO S S O M. (a cura di) (I994), La salute come costruzione sociale, Franco­ Angeli, Milano. ID. (20I3), La salutefra media e relazioni di cura, in G. Vicarelli (a cura di), Cura e salute. Prospettive sociologiche, Carocci, Roma, pp. III-43· IRWIN J. ( I970 ), The Felon, University of California Press, Berkeley. JEDLOWSKI P. (I998), Il mondo in questione. Introduzione al/a storia delpensie­ ro sociologico, Carocci, Roma. KAWAC H I 1. et al. (I997 ), Social Capita/, Income Inequality and Mortality, in "American Journal of Public Health': 87, 9, pp. I49I-8. KICKBUSCH I., B E H RENDT T . (20I3), Jmp/ementing a Hea/th 2 02 0 Vision: Go­ vernancefor Health in the 2rt Century. Making it Happen, WH o, Copen­ hagen. KLEINMAN A. (I988), The Illness Narratives: Suffering, Healing, and the Hu­ man Condition, Basic Books, New York. ID.

l

37

RIFERI M ENTI BIBLIOGRA FI C I

( 1975 ) , Orientation culturelle etprofession médicale. La relation théra­ peutique dans les unités de rein arti.flciel et son environment, in "Revue française de sociologie': 16, 2, pp. 189-214. LEM ERT E. ( 1951 ) , Social Pathology, McGraw-Hill, New York. LIBIAN C H I s. ( 2oo8 ) , La medicina penitenziaria e la riforma della tutela della salute in carcere: il D.P.C.M I 0 aprile 2ooS, in "Antigone': 1, pp. 1 15-40. LOLLI s. ( 2004 ) , Salute e disuguaglianze sociali, in C. Cipolla (a cura di), Ma­ nuale di sociologia della salute, FrancoAngeli, Milano, pp. 168-84. MATTHEWS R. ( 1999 ) , Doing Time: An Introduction to the Sociology oflmpri­ sonment, Palgrave Macmillan, London. MATURO A. ( 2004 ) , I precedenti nella storia del pensiero sociologico, in C. Ci­ polla (a cura di), Manuale di sociologia della salute, FrancoAngeli, Milano, pp. 17-48. ID. ( 2007 ) , Sociologia della malattia. Un'introduzione, FrancoAngeli, Milano. MAYNARD D. w. ( 1991 ) , lnteraction and Asymmetry in Clinica/ Discourse, in ''American Journal of Sociology': 97, 2, pp. 448-95. MEAD G. H. ( 1934 ) , Mind, Se/fand Society, University of Chicago Press, Chi­ cago (trad. i t. Mente, sé e societa. Dalpunto di vista di uno psicologo compor­ tamentista, Giunti-Barbera, Firenze 1972 ) . M E L O S S I D. ( 1985 ) , Overcoming the Crisis in Criticai Criminology: Toward a Grounded Labelling Theory, in "Criminology': 23, pp. I93-208. MELO S S I D., PAVARINI M. ( 1977 ) , Carcere e fabbrica. Alle origini del sistema penitenziario, il Mulino, Bologna. M ILLY B. ( 2001 ) , Soigner en prison, Presses Universitaires de France, Paris. M I RAVALLE M., TORRENTE G. ( 2016 ) , La normalizzazione del suicidio nelle pratiche penitenziarie. Una ricerca sui fascicoli ispettivi dei Provveditorati dell'amministrazione penitenziaria, in "Politica del diritto': 1-2, pp. 217-58. M ORRI S P., M O RRI S T. ( 1963 ) , Pentonville: A Sociological Study ofan English Prison, Roudedge and Kegan Paul, London. M O S C ONI G. ( 1998 ) , Dentro il carcere, oltre la pena, CEDAM, Padova. ID. ( 2ooi ) , La crisi postmoderna del diritto penale e i suoi effetti sull'istituzione penitenziaria, in "Rassegna penitenziaria e criminologica': 1-3, pp. 3-35. ID. ( 2005 ) , Il carcere come salubre fabbrica della malattia, in "Rassegna peni­ tenziaria e criminologica': I, pp. 59-76. NEISSER E. ( 1977 ) , fs There a Doctor in the]oint? The Search for Constitutio­ nal Standardsfor Prison Health Care, in "Virginia Law Review': 63, 6, pp. 921-73· N O RDENFELT L. ( 1994 ) , On the Disease, Illness and Sickness Distinction: A Commentary on Andrew Twaddle's System ofConcepts, in A. Twaddle, L. Nordenfelt (eds.), Disease, Illness and Sickness: Three Centrai Concepts in

KUTY o .

138

RIFERI M ENTI BIBLIOGRA FI C I

the Theory ofHealth, Studies on Health and Society I8, Linkoping Uni­ versity, Linkoping, pp. I9-36. N Y E R. A. (2003), The Evolution ofthe Concept ofMedicalization in the Late Twentieth Century, in "Journal of History of Behavioral Sciences': 39, 2, pp. IIS-29. PAR S O N S T. (I9SI), The Social System, The Free Press, Glencoe (trad. it. Ilsiste­ ma sociale, Edizioni di Comunità, Milano 1965). I D . (1 975), The Sick Role and the Role ofthe Physician Reconsidered, in "Health and Society': 53, 3, pp. 257-78. PAULY M ., RED I S C H M. (1973), The Not-For-Profit Hospital as a Physicians' Cooperative, in "American Economie Review': 63, I, pp. 87-99. PAVARINI M. (2oo6), La lotta per i diritti dei detenuti tra riduzionismo e aboli­ zionismo carcerari, in "Antigone': I, pp. 82-96. PETRINI D . (2oi6), La tutela del diritto alla salute in carcere nell'esperienza di un garante comunale, in "Antigone': I-2, pp. 175-87. P IERRET J. (2003), The Illness Experience: State ofKnowledge and Perspective for Research, in "Sociology of Health and Illness': 25, 3, pp. 4-22. PILNICK A., H INDMARS H J., G ILL V. T. (2009 ), Beyond 'Doctor and Patient:· Developments in the Study ofHealthcare lnteractions, in "Sociology ofHe­ alth and Illness': 3 I, 6, pp. 787-802. P O CAR v. (2009 ), Sessant'anni dopo. L'art. 32 della Costituzione e il diritto all'autodeterminazione, in "Sociologia del diritto': 3, pp. I59-69. P O D G O RECKI A. (I973), Knowledge and Opinion about Law, Robertson, Lon­ don. PONT J., STOVER H., WOLFF H. (20I2), DualLoyalty in Prison Health Care, in "Health Policy and Ethics': I02, 3, pp. 475-80. PROUT c., RO S S R. N. (I988), Care and Punishment: The Dilemmas ofPrison Medicine, University of Pittsburgh Press, Pittsburgh. QUADRELLI E. (2oos). Gabbie metropolitane. Modelli disciplinari e strategie di resistenza, DeriveApprodi, Roma. RINALDI c., SAITTA P. (a cura di) (20I7 ), Devianze e crimine. Antologia ragio­ nata di teorie classiche e contemporanee, PM Edizioni, Savona. RO BERT D., FRI G O N s. (2oo6), La santé comme mirage des transformations carcérales, in "Déviance et société': 30, 3, pp. 305-22. RONCO D. (20I3), La percezione della salute in carcere, in AA.VV., Salute libera tutti, INMP, Roma, pp. SS-I24. ID. (20I4), La salute negata. Processi di esclusione nelle carceri italiane, in "Studi sulla questione criminale': IX , 3, pp. 107-25. ID. (2oi6), Rappresentazioni su salute, malattia e carcere, tra struttura e cultura penitenziaria, in "Antigone': I-2, pp. IS9-74 · 139

RIFERI M ENTI BIBLIOGRA FI C I

( 2oi6 ) , Convict Criminology and the Strugglefor Inclusion, in "Criticai Criminology': 24, pp. 489-50I. RO S S J. 1., RICHARDS s . c., ( 200 3 ) , Convict Criminology, Thomson Learning­ Wadsworth, Belmont. RUS C H E G., KIRCH H EIMER O. ( I939 ) , Punishment and Social Structure, Rus­ se! & Russel, New York ( trad. i t. Pena e struttura sociale, il Mulino, Bolo­ gna 1978 ) . SALENTO A. ( 2009 ), Pierre Bourdieu. La socioanalisi del campo giuridico, in G. Campesi, I. Pupolizio, N. Riva (a cura di), Diritto e teoria sociale. Introdu­ zione alpensiero socio-giuridico contemporaneo, Carocci, Roma, pp. 13 1-64. SALLE G., C HANTRAINE G. ( 2009 ), Le droit emprisonnée. Sociologie des usages sociaux du droit en prison, in "Politix': 22, 87, pp. 93-I I7. SARZOTTI c. ( 1999 ), Codice paterno e codice materno nella cultura giuridica degli operatori penitenziari, in A. R. Favretto, C. Sarzotti (a cura di), Le carceri dellAIDS: indagine su tre realta italiane, L'Harmattan Italia, Tori­ no, pp. 9-84. ID. ( 2ooi ) , Prevenzione AIDS in carcere: il ruolo della cultura professionale degli operatori penitenziari, in F. Faccioli, V. Giordano, C. Sarzotti (a cura di), LAIDS nel carcere e nella societa. Le strategie comunicative per la prevenzio­ ne, Carocci, Roma, pp. 15-82. ID. ( 2010 ), Il campo giuridico delpenitenziario: appunti per una ricostruzone, in E. Santoro (a cura di), Diritto come questione sociale, Giappichelli, Torino, pp. 18 1-238. ID. ( 2016 ) , Per un'analisi socio-giuridica della riforma della sanita penitenzia­ ria: appunti per un modello teorico di ricerca, in "Antigone': 1-2, pp. 143-58. S B RACCIA A. ( 2oi6 ) , Galere clandestine. La linea del colore, in M. Miravalle, A. Sbraccia, A. Scandurra, V. Verdolini (a cura di), Galere d'Italia. Dodice­ simo rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione, Infinito Edizioni, Roma, pp. 63-70. S B RACCIA A., VIANELLO F. ( 2010 ), Sociologia della devianza e della criminali­ ta, Laterza, Roma-Bari. IDD. (a cura di) ( 2016 ) , La ricerca qualitativa in carcere, numero monografico di "Etnografia e ricerca sociale': 2. S CANDURRA A. ( 2017 ), Il ritorno del sovraffòllamento. Aumentano i detenuti e peggiorano le condizioni di detenzione. L'Italia si avvia di nuovo verso lo sta­ to di emergenza?, in AA .VV. Torna il carcere. XIII Rapporto sulle condizioni di detenzione, Antigone, Roma, pp. 5-13. S C H UTZ A . ( 1932 ) , Der sinnhafte Aujbau der sozialen Ulelt. Eine Einleitung in die verstehende Soziologie, Springer, Wien ( trad. i t. La fenomenologia del mondo sociale, il Mulino, Bologna 1974 ) .

RO S S ] . I., J ON E S R., LENZA M., RIC HARD S S. C.

RIFERI M ENTI BIBLIOGRA FI C I ( I962), CollectedPapers, Nijhoff, Den Haag, vol. I (trad. it. Saggisociologici, UTET, Torino I979 ) . S C OTT D. (ed.) (20I3), Why Prison ?, Cambridge University Press, Cambridge. S C RATON P. (2009 ) , The Violence ofincarceration, Roudedge, London. S IM J. ( I990 ) , Medicai Powers in Prison: The Prison Medicai Service in England I774-I989, Open University Press, Philadelphia. ID. (2002), The Future ofPrison Health Care: A Criticai Analysis, in "Criticai Sociai Policy': 22, 2, pp. 300-23. S I S S ONS P. L. ( I976), The Place ofMedicine in the American Prison: Ethical Issues in the Treatment of Offenders, in "Journai of Medicai Ethics': 2, 4, pp. I73-9· S PAGG IARI E. (2007 ) , Il nuovo paziente: un navigatore riflessivo, in "Salute e società': I, pp. I68-74. S PECTOR M ., KITSUSE J. (2ooi), Constructing Social Problems, Transaction Publishers, New Brunswick-London. STEUDLER F. (I973), Hopital, profession médicale et politique hospitaliere, in "Revue française de sociologie': I4, I, pp. I3-40. SUC HMAN A. (I96s), Stages ofillness and Medicai Care, in "Journal of Health and Human Behavior': 6, 3, pp. 114-28. SYKE S G . M . (I9 S 8), The Society ofCaptives: A Study ofa Maximum Security Prison, Princeton University Press, Princeton. T O RRENTE G. (20I4), Il ruolo dell'educatore penitenziario nel processo di cri­ minalizzazione. Osservazioni da una ricerca sul campo, in "Studi sulla que­ stione criminale': IX, I-2, pp. I37- SS· I D . (2oi6), "Mi raccomando non fategli del male': La violenza del carcere nelle pratiche decisionali degli operatori, in "Etnografia e ricerca qualitativa': 2, pp. 267-83. TO RRES E., VAS QUEZ-PARRAGA A. Z ., BARRA C . (2009 ) , The Path ojPatient Loyalty and the Rose ofDoctor Reputation, in "Health Marketing Quar­ terly': 26, pp. I83-97· TOUSIJN w. (2004), Le professioni della salute, in C. Cipolla (a cura di), Ma­ nuale di sociologia della salute, FrancoAngeli, Milano, pp. 229-44. ID. (2ois), I rapporti inter-professionali in sanita: dal vecchio al nuovo professio­ nalismo, in "Salute e società': 3, pp. 44- SS · TWADDLE A. (I 994), Disease, Illness and Sickness Revisited, in A. Twaddle, L. Nordenfelt (eds.), Disease, Illness and Sickness: Three Centrai Concepts in the Theory ofHealth, Studies on Health and Society I8, Linkoping Uni­ versity, Linkoping, pp. I-I8. VANNATTA S., VANNATTA J. (20I3), Functional Realism: A Dejense ojNarrative Medicine, in "Journal ofMedicine and Philosophy': 38, I, pp. 32-49.

ID.

RIFERIM ENTI BIBLIOGRAFICI ( I999), Penai Harm Medicine: State Torture Remediesfor De­ laying and Denying Health Care to Prisoners, in "Crime, Law and Social Change': 3 I, pp. 273-302. VAUG H N M . s., CARRO LL L. (I998), Separate and Unequal: Prison versus Free­ World Medicai Care, in "Justice Quarterly': I5, I, pp. 3-40. VIANELLO F. (20I5), Communauté carcerale et transformations de la prison, in "Déviance et société': 39. 2, pp. I5I-69. VI CARELLI G. (a cura di) (20I3), Cura e salute. Prospettive sociologiche, Carocci, Roma. WAC QUANT L. (2004), Punir /es pauvres. Le nouveau gouvernement de l'insécu­ rité sociale, Agone, Marseille. WH O (20I3), Good Governance for Prison Health in the 2r1 Century: A Policy Brief on the Organization of Prison Health, WHO, Copenhagen (http:/ /www.euro.who.int/_data/assets/pdf_file/oOI7 /23 I506/Good­ governance-for-prison-heal th-in-the- 2I st-century.pdf ?ua= I). WILKIN S O N R. G. (I997), Socioeconomic Determinants ofHealth. Health lne­ qualities: Relative or Absolute Materia/ Standards?, in "British Medicai Journal': 3I4, pp. 59I-5. WILLIAM S G. (I984), The Genesis ofChronic Illness: Narrative Re-Construc­ tion, in "Sociology of Health and Illness': 6, 2, pp. I75-98. YOUNG A. (I982), The Anthropologies ofIllness and Sickness, in "Annua! Re­ view of Anthropology': II, pp. 257-85. ZOLA 1. K. (I983), Socio-Medicai Inquiries, Tempie University Press, Phila­ delphia. VAUG H N M . s .