Cultura scientifica degli antichi 8854800805, 9788854800809

Un veloce ma articolato resoconto della vicenda della prima globalizzazione dell'Occidente, vista nella prospettiva

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Cultura scientifica degli antichi
 8854800805, 9788854800809

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Mariano Malavolta

Cultura scientifica degli antichi

ARACNE

Copyright © MMV ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133 a/b 00173 Roma (06) 93781065 ISBN

88–548–0080–5

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: maggio 2005

Sommario

Premessa, 7 — 1. Storia, historia, icrrapta. Le connessioni fra indagine storica e "metodo" scientifico, 11—2. Nozioni di cronologia, 23 — 3. La parabola del mondo antico: póleis greche, stati ellenistici ed ecumene romana, 39 - 4. La nascita del pensiero scientifico: esordi della cosmologia e della matematica nel periodo arcaico (dai poemi omerici agli inizi del V secolo a.C), 53 — 5. Il periodo classico e l'egemonia culturale di Atene (480-323 a.C), 73 - 6. Uexploit della scienza greca nell'età ellenistica (323—31 a.C), 89 — 7. Scienza greca e mondo romano. Decadenza di Alessandria e sua rinascita in età romana imperiale, 107 — 8. Il declino della scienza antica nelle compilazioni degli enciclopedisti latini, 1 1 7 - 9 . Tecnologia e società antica, 121 - Nota bibliografica, 143 - Repertorio prosopografico, 147 - Figure, 171

Premessa Il mito della knowledge economy ha portato in primo piano, anche nel mondo della formazione accademica, la fondamentale esigenza della “condivisione di un modello di gestione della conoscenza”: questo concetto — così espresso con una formula che sembra quasi volutamente congegnata in modo da precluderne la comprensione — viene inteso dagli economisti nel senso che “la competitività di un’azienda è data soprattutto dalla competenza di ciascuno [un cultore del bello stile avrebbe magari preferito scrivere, forse fraintentendo, “da una inattesa sinergia delle competenze dei singoli”] e quanto più questa è dispersa e condivisa, tanto maggiore è il valore aggiunto che ne deriva”. Ma vediamo di meglio chiarire, con l’aiuto dell’autrice dello scritto or ora citato1, gli scopi di questa nuova metodologia formativa: “In questo contesto, la componente immateriale del patrimonio aziendale, rappresentata dal capitale intellettuale nelle sue espressioni formali ed informali, comunque legati alla conoscenza, tende a divenire per tutte le aziende il fattore strategico primario per la produzione diretta di valore, o indiretta, attraverso il patrimonio tangibile. Oggi la differenza non la fanno più le strutture, la catena di distribuzione, la materialità della presenza dell’azienda [o anche nell’azienda?], ma la gestione del processo per arrivare alla produzione”. La conseguenza di tutto ciò, in termini di strategia formativa, è efficacemente sintetizzata nell’apertura dell’articolo: “Una laurea in ingegneria, non importa quale specializzazione, può aprire anzi spalancare le porte del futuro, garantire un lavoro assicurato e una carriera promettente. Succedeva così fino a poco tempo fa. Ma oggi sembra non essere più così. Le nuove frontiere della tecnologia e del marketing richiedono anche una preparazione umanistico–economica: addio ingegnere tutto numeri, tavole e centimetro”.

1 FLAVIA ANGELINI, Ingegneria, nuove frontiere della professione, in “Periscopio” 2001, a.3, nrr. 44-45, p. 1.

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Cercheremo ancora, nel seguito di queste pagine, di immaginare cosa avrebbe potuto pensare il buon Aristotele della knowledge economy: ci pare di poter anticipare, senza tema di smentita da parte sua, che dall’alto delle sfere celesti del meritato iperuranio egli sogguardi con una certa sufficienza, mista a fastidio, questo procedere meschino della new economy (null’altro che mezzucci per far soldi, a conti fatti) e la relativa elaborazione di una knowledge economy che nel nuovo ordinamento degli studi si propone di “insidiare” il moderno sistema “tolemaico” del sapere scientifico, gerarchicamente costruito con notevole sforzo teoretico nel secolo scorso; quei confini del cosmo infinito, che l’umanità aveva da sempre immaginato con fantasia creativa e quindi indagato con sempre più sottile intelligenza, egli non potrebbe che commiserarli, vedendoli ormai coartati nel microcosmo ergastolare dell’azienda (ma Aristotele la chiamerebbe, con maggior vigore icastico, “bottega”) e definitivamente sottomessi alle leggi volgari del profitto. Senza dunque insistere in quest’ottica di aristocratico disprezzo ci limiteremo, per il momento, a notare che la materia che ci proponiamo di esplorare in queste nostre conversazioni è sufficientemente dispersa e condivisa e distante rispetto ai contenuti degli altri insegnamenti impartiti nel Corso di Informatica, e tale da giustificare ampiamente il nostro modesto tentativo di rivolgere lo sguardo all’indietro, e non allo ieri né all’altro ieri, ma oltre l’abisso dei millenni, sullo scenario di una umanità che ha lasciato di sé soltanto reliquie consunte dal tempo. Il mondo antico o, più precisamente con riguardo alla materia del corso che svolgeremo, il mondo grecoromano e dunque l’antichità classica, rappresenta un primo tentativo di affermazione di progettualità globale nella vita degli umani, che fino alle soglie della storia si era trascinata senza apprezzabili progressi per centinaia di migliaia di anni. Questo primo affermarsi della “civiltà” incominciò a trovare la sua definitiva espressione nel pensiero elaborato dai Greci in un momento felice di prodigioso exploit dell’intellettualità degli uomini, che costituì il seme ancor vivo ed operante nella nostra cultura occidentale, come mostrano l’origine greca di tutto il lessico scientifico e la sua perdurante vitalità ed attualità: si è notato che soltanto in Grecia la coscienza teoretica poté sorgere in forma indipendente, così come è vero che solo nella lingua

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greca2 i concetti scientifici poterono svilupparsi dalla lingua in modo organico ed in piena autoctonia. Tutti gli altri idiomi, a partire dal latino, si nutrirono obbligatoriamente per questo bisogno del greco prendendolo in prestito, trascrivendolo o traducendolo e in ogni caso dipendendone. Altrettanto vero è che il miracolo greco, che almeno in origine aveva interessato una parte tutto sommato assai ridotta dell’ecumene, difficilmente sarebbe sopravvissuto alla grande crisi della civiltà classica se quei fermenti originari non fossero stati assimilati stabilmente e all’infinito replicati nel canone “classicistico” dalla egemone cultura romana e italica, ciò che ne rese possibile la sopravvivenza dopo la buia notte dell’evo medio. Anche l’evento epocale della fine del mondo antico e il ripiombare dell’umanità in condizioni pericolosamente simili a quelle della preistoria devono farci riflettere — se ad essi si guarda come ad un primo sostanziale fallimento del tentativo di civilizzazione dell’ecumene — nel momento in cui il “nostro” mondo e la nostra umanità, quella del terzo millennio appena iniziato, imboccano speditamente la strada obbligata della globalizzazione: un’esperienza già vissuta dagli antichi a partire dall’età di Augusto, artefice di quel cosmo ordinato secondo i dettami della pax Romana che fu l’ecumene antica, e che nel periodo compreso fra il suo regno e quello degli Antonini ebbe modo di celebrare i suoi fastigi, per essere poi inghiottito tutto intero da tumultuosi movimenti migratorii di genti ‘barbare’, che lasciarono dietro di sé un mucchio di rovine (pur imponenti), e null’altro che lo scheletro delle gigantesche “infrastrutture” della grandezza di Roma; da allora la parte più preziosa dell’eredità residua dell’antico splendore dormì a lungo, per parecchi secoli, annidata nei fogli di cartapecora che i monaci benedettini e gli eruditi arabi andavano ricoprendo di una minuta scrittura che affidava al fragile presidio della pergamena l’inestimabile valore del codice genetico della civiltà divenuto in seguito il seme della rinascenza. A queste problematiche noi ci rivolgiamo — come già i nostri progenitori greci — utilizzando quella categoria della ‘storia’ che fu senza dubbio fra le più geniali loro creazioni, ed è piuttosto di questa categoria della “storia” (intesa come matrice caratterizzante ed originaria della nostra civiltà) che parleremo nel corso delle nostre conversazioni, cercando 2 BRUNO SNELL, La formazione dei concetti scientifici nella lingua greca, in “La cultura greca e le origini del pensiero contemporaneo”. Torino [Einaudi] 1968, pp. 313-334.

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di superare una plurisecolare barriera eretta fra scienze esatte e scienze umane e di rintracciare la comune radice di quell’insopprimibile istinto che spinse l’uomo greco a indagare la memoria del passato non meno che gli arcani della natura: delineare un pur elementare disegno dello sviluppo delle conoscenze scientifiche dell’uomo antico (e dei suoi metodi di indagine) sarà preliminare indispensabile all’ulteriore tentativo di chiarire nel concreto l’incidenza dell’uso di alcune tecniche (drenaggio e captazione delle acque, tecnica edilizia, agrimensura) sulla vita degli umani. È ovvio, del resto, che una storia della scienza propriamente detta (ossia un puntuale e sia pur conciso approccio epistemologico ai singoli saperi scientifici) sia da considerare materia assai più complessa, che non potrà mai non soltanto essere trattata, ma nemmeno accennata con qualche profitto in un corso di cultura generale.

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1 Storia, historia, iJstoriva: le connessioni fra indagine storica e “metodo” scientifico Cominciamo dunque a chiarire il concetto di storia osservando che questo vocabolo anche nella nostra lingua italiana si presenta in contesti diversi, anche di linguaggio corrente, con più di un significato: di una qualsiasi banale vicenda da raccontare si può dire che è “una lunga storia”, con allusione alla concatenazione di fatti correlati fra loro in maniera complessa, e allo stesso modo una relazione di qualsiasi tipo (non necessariamente amorosa) può essere definita “una storia”, mentre l’espressione “fare storie” può alludere a reticenze, spiegazioni o motivazioni complicate, per lo più pretestuosamente addotte. La storia insomma è una cosa da spiegare e da capire, con un prima, un dopo, azioni e reazioni dei protagonisti e, magari, rivelazioni illuminanti di retroscena ignoti agli stessi protagonisti. C’è poi la storia che si studia sui libri, che è quella che qui ci interessa, e che è stata anch’essa accomunata — nel giudizio di personaggi anche importanti, ancorché non specialisti — al significato corrente, illustrato sopra, di “insieme di frottole” o “chiacchiere”: così nello spicciativo giudizio di Henry Ford, il re americano dell’automobile “la storia è — più o meno — un fuorviante sproloquio3 (bunk). Essa è tradizione. Noi non abbiamo bisogno di tradizione: noi vogliamo vivere nel presente, e la sola storia che valga qualcosa è la storia che noi costruiamo giorno per giorno”4. D’altra parte, qualche anno dopo aver detto quest’idiozia, lo stesso Ford si riscattò tributando un suo personale omaggio alla storia, ossia promuovendo la fondazione di un museo dell’automobile, nel quale 3 Questa traduzione di bunk — forse un po’ lambiccata — cerca di rendere il valore pregnante dello slang: la vuota chiacchiera della storia, insomma, non è solo inutile, ma anche disonesta e imbastita con l’intento di imbrogliare chi ascolta. 4 History is more or less bunk. It’s tradition. We don’t want tradition. We want to live in the present and the only history that is worth a tinker’s damn is the history we make today.

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il visitatore potesse seguire le linee evolutive della produzione dei veicoli a quattro ruote, documentata dai modelli realizzati nei pochi decenni precedenti. Non meno interessante l’etimologia della voce gergale bunk (abbreviazione di bunkum), che nello slang americano indica appunto una fandonia, e trae la sua origine dal discorso che tal Felix Walker, delegato della contea di Buncombe (North Carolina) volle fare a tutti i costi il 25 febbraio del 1820 nella House of Rapresentatives a Washington (nel corso di una lunga ed estenuante sessione), sol perché il testo ne fosse pubblicato dai giornali e mostrasse agli elettori della sua contea che egli era membro attivo del Congresso: “I shall not be speaking to the House — egli avrebbe dichiarato — but to Buncombe” e da quel momento la voce bunkum, ossia il nome della suddetta contea, così storpiato dall’uso, divenne sinonimo di ogni “nonsensical language ”, e si diffuse al punto di produrre una forma abbreviata bunk, di uso comune. Assai più complessa e di ben altro spessore si presenta, ovviamente, l’indagine che possiamo imbastire sul vocabolo “storia”, che così si denomina dal derivato di una parola latina (historia) imprestata alla lingua volgare (‘istória’, poi ‘storia’), nella quale l’accento cade sulla o perché la i dell’iato ia è una vocale breve, e dunque la legge della prosodia latina fa ritrarre l’accento sulla terzultima sillaba. A sua volta il latino historia è trascrizione o, meglio, traslitterazione (nelle lettere dell’alfabeto latino) di una parola greca, iJstoriva, nella quale si deve notare lo spirito aspro sullo iota iniziale, che indica l’aspirata, e che si conserva nella h iniziale del latino historia. Intanto è significativo (si devono notare questi particolari apparentemente ovvii, visto che la storia è fatta di queste cose, e con questo metodo) che i Romani o Latini che dir si voglia, per dare un nome alla storia siano stati costretti a scegliere una parola greca, ossia straniera: è evidente che la cultura romana, allorché nel terzo secolo a.C. i Romani cominciarono a parlare di storia, non aveva ancora elaborato un vocabolo adatto a definire nella lingua latina un’attività teoretica così complessa. Tornando al greco iJstoriva, che significa correntemente indagine, ricerca, è da ricordare che l’origine di questo vocabolo è assai antica, e si riconnette al vocabolo i{stwr (= colui che sa, che conosce le leggi), che è presente già nel nucleo originario dei poemi omerici, nel libro 18° dell’Iliade; i glottologi lo fanno derivare dal tema vid di oida e orao [“vedo”]: dunque è histor “colui che sa” e che sa “per aver visto” o, come ve-

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dremo, “per aver investigato su ciò che non ha visto”, dal momento che il significato corrente di historeo è “indago”. Il luogo omerico di cui abbiamo parlato è la descrizione (che poi diventerà archetipo di un genere letterario, l’ékphrasis) delle scene istoriate5, ossia incise col bulino o a sbalzo dal dio Efesto (il Vulcano dei Romani), che è un bravissimo fabbro, sullo scudo che lo stesso Efesto fabbrica per volere della divina Teti, che dello scudo fa dono al figlio Achille (nato da Peleo e da Teti), che ne è rimasto sprovvisto per avere imprestato le sue armi all’amico Patroclo, ucciso in combattimento da Ettore. Omero, come per comodità chiameremo l’anonimo o gli anonimi poeti dell’Iliade, si mostra in questo caso orgoglioso del grado di civiltà raggiunto dal suo popolo e coglie il pretesto di questa descrizione dello scudo per immaginare rappresentate, in un contesto figurato, le occasioni più caratteristiche della vita civile della immaginaria comunità: una delle situazioni che meglio si prestano ad essere scelte per comporre questa specie di sintesi figurata della civiltà coeva è una questione giudiziaria: un processo, si direbbe oggi, che si svolge presso un tribunale, dinanzi al quale i cittadini della immaginaria città assistono ad una lite per il mancato pagamento di una somma che è dovuta, come risarcimento ai familiari di un ucciso, da un omicida, ciò che sta ad indicare l’avvenuto superamento del primitivo istituto della vendetta personale secondo la legge dell’occhio per occhio, dente per dente, superstite ancora ai nostri giorni, come abbiamo potuto constatare dal reportage televisivo andato in onda nell’autunno 2001, che ha mostrato lo sgozzamento in diretta di un omicida, operato direttamente dalla madre dell’ucciso sul colpevole, consegnatole legato mani e piedi dal tribunale islamico dello stato dei Talebani. Anche ai tempi della città immaginaria descritta nello scudo, in effetti, è ben verosimile che l’omicida non cadesse ancora sotto sanzioni di stato, ma fosse soggetto soltanto alla vendetta “privata” dei parenti del morto: ma nel contesto culturale presentato da Omero, già irrimediabilmente “contaminato” da fermenti evolutivi anticipatori della futura “civiltà”, poteva altresì accadere che i danneggiati dall’omicidio avessero convenienza a sanare la controversia mediante un compenso di beni, che offriva un’alternativa incruenta al primitivo rituale della faida o legge del ta5 Questo è un altro significato del vocabolo storia, derivato anch’esso dal latino volgare (i)storia, che significa “raffigurazione di un fatto”: dunque ‘istoriare’ = ‘decorare con una scena figurata’.

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glione, che in ambiente romano è documentata ancora (talio) nella lex duodecim tabularum del 451–450 a.C. Ma vediamo cos’è esattamente questa ‘storia’ raffigurata sullo scudo, leggendo la traduzione italiana del Monti: D’altra parte nel foro una gran turba convenir si vedea. Quivi contesa era insorta fra due che d’un ucciso piativano la multa. Un la mercède già pagata asserìa; l’altro negava. Finir davanti a un arbitro la lite chiedeano entrambi, e i testimon produrre. In due parti diviso era il favore del popolo fremente, e i banditori sedavano il tumulto. In sacro circo sedeansi i padri su polìte pietre, e dalla mano degli araldi preso il suo scettro ciascun, con questo in pugno sorgeano, e l’uno dopo l’altro in piedi lor sentenza dicean. Doppio talento d’auro è nel mezzo da largirsi a quello che più diritta sua ragion dimostri. [vv. 690–706] Dunque, di fronte alle pretese di uno dei familiari dell’ucciso, che reclama il risarcimento, l’omicida (a sua volta attorniato dai suoi familiari) oppone di aver già provveduto al pagamento della multa, e dunque si origina la lite fra due partiti i quali alla fine decidono di rivolgersi ad un “arbitro” che dirima la controversa questione, ossia, nel testo greco (S501): ejpi; i{stori pei'rar ejlevsqai [epì hístori péirar elésthai]; ed ecco entrare in ballo questa primgenia quanto enigmatica figura di histor. Il discorso che abbiamo in mente di fare sulla “storia” di questo vocabolo non può ovviamente prescindere da una accurata analisi delle sue occorrenze nella più antica letteratura del popolo greco6. Oltre che 6 L’indagine è stata affrontata più d’una volta, ma basterà qui rinviare alle pagine scritte su questo argomento da C. DEL GRANDE, Nascita della iJstoriva. Prolusione al corso di Letteratura greca pronunciata nell’Università di Bologna il 16 febbraio 1949. Napoli [Ricciardi] 1952, pp. 5-22, lavoro del quale citeremo ampi stralci.

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nel diciottesimo libro dell’Iliade il vocabolo histor ricorre anche nel libro ventitreesimo del poema, nella rapsodia sui giochi funebri in onore del defunto Patroclo. Anche in questi versi vediamo delinearsi una disputa — rinforzata da una scommessa — fra due “tifosi” di opposte fazioni che assistono alla gara delle bighe: Nel circo assisi intanto i prenci achei stavansi attenti ad osservar da lungi i volanti cavalli che nel campo sollevavan la polve. Idomeneo re de’ Cretesi gli avvisò primiero, che fuor del circo si sedea sublime a una vedetta. E di lontano audita del primo auriga, che venìa, la voce, lo conobbe, e distinse il precorrente destrier che tutto sauro in fronte avea bianca una macchia, tonda come luna. Rizzossi in piedi e disse: O degli Achei prenci amici, m’inganno, o ravvisate quei cavalli voi pure? Altri mi sembrano da quei di prima, ed altro il condottiero. Le puledre che dianzi eran davanti forse sofferto han qualche sconcio. Al certo girar primiere le vid’io la meta; or come che pel campo il guardo io volga, più non le scorgo. O che scappar di mano all’auriga le briglie, o ch’ei non seppe rattenerne la foga, e non fe’ netto il giro della meta. Ei forse quivi cadde, e infranse la biga e le cavalle devïar furïose. Or voi pur anco alzatevi e guardate: io non discerno abbastanza, ma parmi esser quel primo l’ètolo prence argivo Dïomède. Che vai tu vaneggiando? Aspro riprese Aiace d’Oïleo. Quelle che miri da lungi a noi volar son le puledre.

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Più non sei giovinetto, o Idomenèo: la vista hai corta, e ciance assai, né il farne molte t’è bello ov’altri è più prestante. Quelle davanti son, qual pria, d’Eumèlo le puledre, e ne regge esso le briglie. E a lui cruccioso de’ Cretesi il sire: Malèdico rissoso, in questo solo fra noi valente; ed ultimo nel resto, villano Aiace, deponiam su via un tripode e un lebète, e Agamennòne giudichi e dica che corsier sian primi, e pagando il saprai. [vv. 583–625] Il signore di Creta, Idomeneo, è in disaccordo con un altro dei capi, Aiace Oileo, su chi è in testa, ed è da costui schernito e chiede quindi che fra loro due sia Agamennone, anche per la sua autorevolezza di comandante in capo degli Achei, a fare da histor (Y 486). Dunque, già in Omero le valenze del vocabolo si presentano con sfumature diverse (come mostra un elementare confronto fra i due contesti narrativi) per le quali nel seguito della sua evoluzione la lingua greca principiò a distinguere, dentro il generico concetto di “giudice”, fra il significato di “uomo capace di indagine” (krités) e quello di “custode e conoscitore delle leggi” (dicastés o thesmothetés). Per l’histor omerico i più autorevoli lessici giudicano unanimemente che esso sia formato dalla radice id [leggi: vid] di oráo e di óida (= “ho visto”, e quindi, “so”), radice indoeuropea conservata nel verbo latino video (= “io vedo”); quanto al significato si registra — negli stessi lessici — una oscillazione fra “colui che sa” (perché ha visto: una traduzione che aderisce all’etimologia) e “giudice” (traduzione desunta dai contesti dei luoghi citati). Agamennone, nel secondo dei due contesti, può fare da histor fra Idomemeo e Aiace “perché conosce meglio degli altri i cavalli dei concorrenti, perché ha una buona vista a scorgere i segni a distanza, e soprattutto perché, moderatore supremo dell’esercito, è l’unico ad avere posizione preminente tra due eroi, capi di schiere anch’essi”. Nella scena dello scudo di Achille, invece, histor è colui che sa di costumanze e leggi e contemporaneamente è capace di inquisire sulla verità di un fatto tra versioni contraddittorie e diverse, e dunque uno che sa un mestiere, una disciplina di cui altri discute, e

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la sa al punto da essere buon giudice di quello che sia il vero, anche se questo vero è da individuare fra pareri e testimonianze contrastanti. Giudice e conoscitore è anche l’histor menzionato da Esiodo7, che istruendo i suoi sceltissimi lettori sulle qualità dei singoli giorni del mese dice che ogni “grande ventesima” nasce un uomo che possa essere histor, ossia un giudice fornito di tutti i requisiti: saggio, prudente, accorto, equilibrato, onesto; in un verso di Sofocle, invece, a proposito della morte di suo padre, Elettra (v. 850) afferma di essere histor, anzi, yperhistor, ossia una che ha visto con i propri occhi come sono andate le cose, e dunque il termine scende al significato più umile di testimone oculare, che sa perché ha visto: una accezione che resta anche nel linguaggio giuridico di età romana, come mostra un’iscrizione di Tespie nella quale, per giunta, il vocabolo è attestato nella presunta forma originaria i{stwr 8. Ma il confronto più illuminante ai fini del nostro discorso sul nesso originario fra indagine storica e metodo scientifico è offerto da un frammento di Eraclito (avremo modo di parlare di lui ancora più avanti), nel quale il vocabolo appare mostrando per intero la “pregnanza” del suo valore, allorché si afferma che “di ben molte cose conviene che siano indagatori (historas) gli uomini che professano filosofia”. Si è notato, a questo riguardo, che “chi conosce la dizione di Eraclito e sa come egli ritenesse che la polumaqiva, ossia l’avere imparato molte cose, non fa nou'" (ossia non fa “mente”, non fa “intelletto”, non fa vera scienza, insomma), comprende bene come egli intendesse qui histor, oltre che con il significato spicciolo di “colui che sa”, anche con quello più specifico di “ricercatore”, e non tanto di leggi umane, come era per l’histor di Omero e di Esiodo, quanto delle forme e delle leggi della vita fenomenica, per giungere ad un assoluto da mirare come verità: histor è dunque, per Eraclito, chi ricerca, chi indaga ciò di cui si può giungere alla scienza. Ed è questa infatti, nella maggioranza dei casi, la valenza semantica originaria dei derivati di histor, ossia del verbo iJstorei'n e del sostantivo iJstoriva; il verbo si presenta con il significato di cercare di sapere, indagare, inquisire, e nella forma ajnistorei'n è documentato nel Prometeo di Eschilo (v. 956) con il significato di “chiedere per sapere”, analogo a quello del lati7 In ESIODO, Le opere e i giorni, (composto fra VIII e VII secolo), al v. 792 sg. leggiamo: Eijkavdi d∆ejn mega;lh/, plevw/ h[mati, i{stora fw'ta geivnesqai (= “Grande è il ventesimo [scil. giorno del mese]! Al suo culmine potrai generare un bel maschio, ed esso sarà di mente molto accorta”). Curioso il riscontro con il 21 maggio, sacro a Giano agonio nel calendario romano. 8 I.G. VII 1779, 1780 cfr. S CHWYTZER 492.

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no quaero, per il quale è da confrontare il quaistor o quaestor paricidas della lingua latina arcaica, che designa il magistrato che indaga sull’omicidio di un cittadino (il paricidium perseguito dalla legge, e non il semplice homicidium, che non sempre è considerato reato). Il vocabolo iJstoriva, al suo primo apparire, significa dunque “ricerca per giungere a qualcosa” che sia possibile conoscere, a vantaggio e a frutto di patrimonio comune del sapere, e anche in questa forma di sostantivo ricorre in un frammento dello stesso Eraclito, conservato da una citazione di Diogene Laerzio9: “Pitagora (figlio) di Mnesarco più di tutti gli uomini curò l’iJstoriva, e avendo fatto una scelta di queste esposizioni (cioè delle suggrafaiv, gli scritti composti prima di lui) creò la propria sapienza, erudizione, possesso di mezzi a fini malvagi”. Dal momento che la tradizione è concorde nel non attribuire a Pitagora interessi che noi oggi diremmo “storici”, è chiaro che il fisico Eraclito intendeva riferirsi ad una ricerca nel campo dei medesimi problemi che assillavano le menti degli altri “presocratici”, con la stessa accezione che — del resto — ritroviamo nel Fedone platonico, dove Socrate ne parla in modo negativo, quasi come di una malattia infantile di quel genio che poi si sarebbe evoluto verso la vera speculazione filosofica: “Vedi, Cebete, quand’ero giovane io mi sentivo trasportato in modo straordinario verso quella scienza che indaga sui misteri della natura, quella che chiamano storia naturale (peri; fuvsew" iJstorivan). Oh! Sapere le cause di ciascuna cosa! Sapere il perché ciascuna cosa viene alla vita, perché si dissolve, perché esiste. Quante volte mi sentivo tutto sconvolto, quando cercavo la risoluzione di problemi come questi: non è forse vero che quando un misterioso processo, che par di putrefazione, interviene nel caldo e nel freddo, taluni affermano che allora appunto i viventi prendono tutti insieme consistenza e forma? Oppure è forse il sangue l’elemento che consente il pensiero all’uomo? L’aria, forse? Il fuoco? Oppure nessuno di questi elementi, e invece il cervello è suscettivo di produrre le sensazioni dell’udito, della vista, dell’odorato? Da queste sensazioni proviene il ricordo (mnhvmh), l’opinione (dovxa); e a sua volta dal ricordo e dall’opinione, resi tranquilli e profondi, si viene formando, appunto con questo processo, la scienza (ejpisthvmh)10”. Da questo significato originario di storia come “storia naturale”, quale doveva essere magistralmente illustrato nell’opera di Anassagora 9

Vita dei filosofi VIII 6 = fr. 129 D. 96b, p.332 FOWLER; trad. di E. TUROLLA.

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(che di fatti è citato subito dopo da Socrate nel prosieguo delle sue argomentazioni in risposta a Cebete) e ancora superstite nella locuzione italiana a motivo della fortuna del titolo della Naturalis historia di Plinio, si passò poi al significato divenuto predominante di storia quale oggi l’intendiamo, attestato già nel proemio delle Storie di Erodoto: “Questa è la esposizione della historía di Erodoto di Turi, perché di quanto è avvenuto da parte degli uomini il ricordo col tempo non svanisca, né rimangano senza gloria le opere grandi e meravigliose compiute dai Greci e dai barbari”. In questa “esposizione di ciò che si sa” fatta da Erodoto la materia è chiaramente storica (le gesta dei Greci e dei barbari), ma il metodo d’indagine è quello già affinato e sperimentato nelle scuole filosofiche della Ionia ed in quelle italiche della Magna Grecia: un metodo maturato in un contesto di grecità di frontiera che, senza negare il divino, sceglieva però di non fermarsi al racconto tradizionale e indiscriminato del mito e lo sottoponeva al vaglio della ragione. Da tutto quel che abbiamo detto risulta chiaro che historía fu in un primo momento ricerca razionale pertinente ai problemi dell’essere e del divenire, e solo in un secondo momento ricerca, fatta con un siffatto metodo, portata sui fatti che più propriamente chiamiamo storici; mentre la notizia secondo cui ancor prima di Erodoto fu Ecateo di Mileto a comporre in prosa una historía induce a ritenere non usurpata la fama di “padre della storia” che egli contese ad Erodoto già nell’antica letteratura dossografica: come Pitagora, portando un suo metodo di ricerca e di discriminazione intuitiva sulle syngraphái esistenti di argomento religioso e filosofico (non necessariamente tutte in lingua greca) aveva formato una sua scienza (chiamata filosofia, e non semplicemente sophia), così Ecateo, applicando alle syngraphái di materia narrativa il medesimo metodo, o un altro più o meno simile, aveva stabilito una sua versione personale della storia primitiva dell’Ellade, e questo suo metodo si era a tal punto sposato a quella materia che il vocabolo historía (che ancora in Eraclito, come abbiamo visto, designava il metodo, e non la materia) in breve passò a significare quel che noi diciamo racconto storico o anche storia nell’accezione comune. Quello che in seguito distinguerà la storia dalla scienza sarà “l’emergere di un paradigma scientifico imperniato sulla fisica galileiana” e sul rigore “nell’impiego della matematica e del metodo sperimentale, che implicavano rispettivamente la quantificazione e la reiterabilità dei fenomeni”, mentre la prospettiva individualizzante delle di-

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scipline basate sul paradigma indiziario (tali, oltre alla storia, la medicina) “escludeva per definizione la reiterabilità del fenomeno ed ammetteva la quantificazione solo con funzioni ausiliarie”. Si presenta di particolare interesse, a questo riguardo, l’osservazione di Carlo Ginzburg11 (l’autore del contributo che stiamo citando) che una conferma di questa divergenza si ebbe nel corso del XVII secolo, allorché “l’innesto dei metodi dell’antiquaria sul tronco della storiografia portò indirettamente alla luce le lontane origini indiziarie di quest’ultima”: origini, possiamo aggiungere, delle quali l’uomo antico fu ben consapevole, individuando come precipua funzione della storia la trattazione della “materia non sottoposta a regole metodiche”12. Dunque, nella funzione specifica (non ancora scissa dal complesso articolarsi della teoresi) che abbiamo vista affidata all’histor omerico, che deve ricostruire dopo attente ricerche un frammento del passato noto solo ai protagonisti (uno dei quali, con ogni evidenza, mente) e che egli deve in qualche modo “vedere” (ossia ricreare, ricostruire) servendosi degli indizi di cui può venire a conoscenza (per il mezzo della escussione dei testi e di indagini su altre fonti): in questa funzione, si diceva, viene in qualche modo definito in nuce, in un testo antichissimo, il compito che sarebbe stato dello storico, al quale si richiede, ora come ai tempi di Tucidide o Tacito o Machiavelli, una facoltà che è almeno in parte divinatoria, come ribadito dalla teoria humboldtiana del “dono degli annodamenti” (di Verknupfungsgabe parlò infatti Karl Wilhelm von Humboldt [1767– 1835]); più di recente, nelle citate pagine di Carlo Ginzburg, alle quali si rinvia, e nelle quali si parla di “abduzione”, “intuizione bassa” (facoltà posseduta per eccellenza dal sesso femminile), il lavoro dello storico si trova ad essere sempre più accostato a quello di un giudice, o di un poliziotto indagatore (un detective come Holmes), che cerca il colpevole, o di un medico che cerca la causa, a volte nascostissima, di uno stato di infermità distinto da particolari sintomi, o viene accostato a quello dello scienziato che fa una importante scoperta scientifica (si pensi alle leggi 11 C. GINZBURG, Spie. Radici di un paradigma indiziario, in “Il segno dei tre. Holmes, Dupin, Peirce” a cura di UMBERO ECO e THOMAS A. SEBEOK. Milano [Bompiani] 1983, p. 111. 12 Così affermava TAURISCO (discepolo di CRATETE DI MALLO) citato da Sesto Empirico, medico e filosofo scettico, appartenente alla scuola medica empirica, nel trattato Contro i matematici 1, 249: iJstoriko;n de; to; peri; th;n proceirovthta th'" ajmeqovdou u{lh". Poco più avanti, si ribadisce la concordia dei teorici: a[t ecnon ei\nai kai; ejk th'" ajmeqovdou u{lh" tugcavnein. Cfr. S. MAZZARINO, Il pensiero storico classico, I, Bari 1965, p. 485.

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gravitazionali intuite da Isaac Newton o all’esistenza delle onde radio, svelata dal nostro Marconi), o di un cacciatore che insegue una preda sulla base dei segni che questa lascia sul terreno. Anche qui l’intuizione bassa gioca un ruolo predominante: per tutti costoro è infatti indispensabile una buona dose di ‘sensitività’ che si potrebbe dire animalesca (si pensi, nell’ambito dell’analogia del cacciatore, all’abitudine degli animali di occultare i propri escrementi a scopo difensivo, già prima che contro i cacciatori umani, contro altri animali predatori); una facoltà insomma che affonda le sue radici, così come la distinzione fra i sessi, ad un’epoca assai antecedente all’evoluzione della dell’homo sapiens e all’elaborazione della logica deduttiva aristotelica. Vale la pena di aggiungere, a chiusura delle poche pagine che abbiamo dedicato ad un tema così affascinante e complesso (la nascita del sapere critico), che quella originaria fiducia che il popolo dello scudo di Achille accordava alla maestosa persona dell’histor venne a poco a poco scemando insieme con l’autorità del personaggio e col dissolversi dei valori aristocratici dell’antica società. Alla sicurezza di giudizio del venerando “veggente” subentrarono subdolamente il calcolo delle giurie corrotte da denari o la sicurezza impunita ed arrogante del potere, naturalmente nemica e diffidente nei confronti di ogni occhio scrutatore. Così già Platone esprimeva la convinzione che nei processi “retori e avvocati fanno credere ciò che vogliono” ai membri delle giurie, ed aggiunge quasi a commento dell’ingenuità dell’antica fiducia: “oppure pensi che esistano maestri così abili che mentre un po’ d’acqua scorre giù dalla clessidra, riescano a insegnare il vero svolgimento dei fatti a chi non ha visto con i suoi occhi la persona che è stata derubata [= mentre è stata derubata] di denaro o ha subito qualche altra violenza?”13. Viene in mente, dopo un salto di quasi 25 secoli, la memorabile battuta del film “Anni di piombo” della von Trotta: la protagonista (impersonata dall’attrice Jutta Lampe), come ricorderà chi ha visto il film, è redattrice di un settimanale di grande diffusione, traumatizzata dalla morte recente di sua sorella, una terrorista affiliata alla Rote Armee Fraktion (Barbara Sukova) arrestata dalla polizia e, secondo la versione ufficiale, impiccatasi in carcere. Dopo una appassionata e minuziosa indagine la giornalista giunge alla conclusione, documentata da un insieme di prove, che sua sorella non si è suicidata, ma è stata strangolata in cella, e si rivolge al direttore della testata, chie13

Teeteto, 201 a-c.

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dendogli di pubblicare quel corposo dossier diligentemente elaborato, proponendolo come uno scoop. Ma l’idea viene bocciata dal direttore che bonariamente rimprovera la giovane per la fatica che ha sprecato a mettere insieme quel lavoro dedicato ad un fatto accaduto in un passato che egli considera, dal suo punto di vista, remoto. Queste cose, egli osserva, non hanno lo smalto dell’attualità, non vanno bene per un settimanale che vende centinaia di migliaia di copie, e inoltre lo scritto ha una dimensione spropositata (più di 60 cartelle, se ben ricordo) e può andar bene tutt’al più per “la pattumiera della storia”14. Sembra superfluo chiosare che nessuno di noi, ovviamente, ha nostalgia dei crimini terroristi della Rote Armee Fraktion [ma viviamo in tempi bastevolmente tristi a giustificare queste precisazioni]: in ogni caso l’immagine della storia vista come “pattumiera” conserva — indipendentemente dal contesto che ho richiamato — un potente valore “icastico” che mi è sembrato valesse la pena di citare, ed è inutile aggiungere come chi scrive condivida, tutto sommato, la durezza di quella spietata sentenza: ogni società può misurare l’esatto avanzamento del suo stato di sfacelo dando una semplice occhiata al valore che viene comunemente assegnato alla ricerca della verità, oltre che alla scadente qualità (tale da meritare la pattumiera) del prodotto elaborato nel nome di quella ricerca.

14 MARGARETHE VON TROTTA, Anni di piombo (Die bleierne Zeit), del 1980, Leone d’oro alla Mostra di Venezia del 1981.

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2 Nozioni di cronologia Nel 1956 la RAI promosse una giornata di studio celebrativa del bimillenario delle idi di marzo del 44 a.C., giorno dell’uccisione di Gaio Giulio Cesare il dittatore. Il calcolo che aveva portato alla scelta di quella data era molto semplice: 1956 + 44 = 2000 Eppure, a celebrazione avvenuta, il solito guastafeste fece notare, con un certo clamore, che al 15 marzo del 1956 il bimillennio dalla morte di Cesare non era ancora compiuto. In effetti se facciamo lo stesso calcolo con un procedimento analitico accurato, vediamo che i nove mesi e mezzo intercorsi fra le idi di marzo e il 31 dicembre di quello stesso anno 44, sommati con i 43 anni intercorsi fra il capodanno del 43 e il 31 dicembre dell’anno uno a.C., e ancora sommati con i 1955 anni che hanno preceduto il 1956, e i due mesi e mezzo intercorsi fra il primo gennaio e il 15 marzo del 1956 abbiamo un totale (9,5 mesi + 43 anni + 1955 anni + 2,5 mesi) di 1999 anni. Dunque è ben vero che il bimillenario poté compiersi solo il 15 marzo 1957. Se ora utilizziamo un procedimento ugualmente elementare per calcolare la prima ricorrenza del millennio dall’incoronazione di Carlo Magno, avvenuta a Roma il giorno di Natale dell’800 d.C., otteniamo (800 + 1000 = 1800; oppure, che è lo stesso, 1800 – 1000 = 800) che il millennio si compì nel Natale del 1800, e allo stesso risultato perverremo applicando un calcolo analitico (5 giorni, gli ultimi, dell’800 d.C. + 999 anni trascorsi dal capodanno dell’801 d.C al 31 dicembre 1799 d.C. + 360 giorni fra il capodanno 1800 e il 25 dicembre dello stesso anno = 1000 anni).

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La spiegazione ovvia di questa apparente incongruenza è che mentre il periodo trascorso fra l’800 e il 1800 contiene l’anno 1000, ossia un anno “zero” che fu l’ultimo del primo millennio d.C., nel calcolo del bimillenario di Cesare abbiamo a che fare con un millennio (il primo millennio a.C.) che non finì con un anno “zero”, ma con l’anno 1 a.C., nel quale il 31 dicembre fu contiguo al primo gennaio dell’anno 1 d.C. Dunque il millennio precedente, l’ultimo della serie a.C., fu (vedremo perché) senza l’anno “0” postulato dalla serie algebrica dei numeri che noi utilizziamo per far di conto seguendo il “principio posizionale”. In virtù di questo principio, che da quasi otto secoli applichiamo già da bambini, alle scuole elementari, facendo sottrazioni e addizioni di numeri incolonnati, i dieci segni numerali (1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 0) ci permettono di rappresentare ogni numero intero mediante la convenzione che ogni segno o cifra indichi unità dei vari ordini (unità, decine, centinaia, migliaia etc.) a seconda della posizione che esso occupa nel numero. Questo metodo di calcolo fu in Occidente introdotto nella pratica ad opera di Leonardo Fibonacci, noto anche con il nome di Leonardo Bigollo, o Leonardo Pisano, mentre il suo cognome Fibonacci deve considerarsi derivato da una abbreviazione del suo patronimico: fi(lius) Bonacii. Il padre di Leonardo, che si chiamava appunto Bonacio, assegnato dalla sua patria (la repubblica di Pisa) alla dogana di Bugia presso Algeri, lo fece colà istruire “nell’abbaco detto degl’Hindi” ossia degli Indiani che, a detta degli Algerini maestri di Leonardo in quest’arte, erano stati i primi inventori di quel sistema. Leonardo si appassionò molto a questo sapere, al punto di indagare quanto in materia si studiava non solo in Provenza e in Sicilia, ma anche in Egitto e in Siria, luoghi che egli per ragioni di commercio dovette visitare, e dunque “abbracciando più strettamente il modo degl’Hindi e aggiungendo qualcosa del proprio pensiero, e qualcosa prendendo delle sottigliezze d’Euclide”, compose tutto ciò nel suo Liber abaci pubblicato nel 1202 e ampliato in una seconda edizione del 1228. Una rassegna anche breve dei meriti da ascrivere al Fibonacci per l’impulso che dalla sua opera di divulgazione venne alla conoscenza della matematica ci porterebbe lontano: ne abbiamo fatto cenno solo per introdurre questa breve trattazione intesa a fornire le coordinate indispensabili alla percezione delle differenze più o meno evidenti fra l’uso antico delle partizioni cronologiche e il nostro modo attuale di concepire il tempo e i calcoli di cronologia, nei quali dunque la serie degli anni avanti e dopo Cristo non

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va trattata come una serie algebrica, a meno di non introdurre un correttivo che ponga rimedio all’assenza dello zero. L’acquisizione alla nostra cultura del concetto di “zero” e l’uso (nel calcolo) del “principio posizionale” risalgono dunque esattamente a otto secoli fa, ad un momento cioè in cui già si era affermata nella cultura europea una intuizione del tempo che si è definita “lineare”, indotta in primo luogo dal grande influsso esercitato dal cristianesimo sulla storia dell’umanità: un influsso che comportò una rilettura del passato ed una riconsiderazione dei tempi storici, che vennero ridistribuiti sui due versanti di uno spartiacque epocale segnato una tantum dall’evento provvidenziale della nascita del Cristo, considerato centrale e risolutivo ed assunto come punto d’inizio della nuova èra, che poi si sarebbe denominata èra cristiana o anche “èra volgare” con allusione al fatto che per lungo tempo, come vedremo, essa fu utilizzata comunemente dai cronisti e dagli storici, ma solo in età relativamente recente, ben dopo il Concilio di Trento, fu adottata dalle cancellerie nella redazione di documenti ufficiali. Lo “stile moderno” attualmente in uso nel nostro calendario si distingue propriamente come “stile della Circoncisione”, che fa iniziare l’anno nel primo giorno di gennaio, il giorno in cui Gesù Cristo fu portato nel Tempio e circonciso secondo il rito giudaico 15. A lungo contrastato dalla Chiesa durante il Medio Evo, lo stile della Circoncisione finì per affermarsi verso la fine del XVI secolo, ed è riconoscibile nella formula introduttiva A.D., ossia annus Domini, “anno del Signore”, detto anche annus circumcisionis; ma quest’ultima dizione è poco usata, così come è ormai obsoleta, nel nostro uso quotidiano, la formula A.D., che invece viene ancora usata correntemente nelle nazioni di cultura anglosassone. Da noi si usa più comunemente, quando si vuole precisare l’attribuzione dell’anno all’èra volgare, la sigla d.C. (dopo Cristo). Lo “stile della Circoncisione” fu preceduto dallo stile detto “dell’Annunciazione” o “dell’Incarnazione” con allusione all’annuncio fatto alla Vergine dall’angelo Gabriele dell’avvenuta incarnazione del Verbo: data della annunciazione, considerata durante il Medio Evo inizio dell’anno civile, era ritenuta il 25 marzo, ossia nove mesi esatti prima del giorno di Natale, e anche in coincidenza con l’equinozio di primavera. 15 Per i più giovani è il caso di precisare che il primo giorno di gennaio, tradizionalmente intitolato alla Circoncisione di Nostro Signore, è ora dedicato a Maria madre di Dio (la Qeotovko" della tradizione orientale).

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Ma anche in questo stile della Annunciazione si distinsero varii computi (fiorentino, pisano etc.) che comportavano non piccoli sfasamenti fra l’anno civile e l’anno “comune” (quello che, come già in età romana, iniziava il primo di gennaio e si chiudeva col trentun dicembre16). Primo ad utilizzare il computo degli anni nella nuova èra volgare era stato Dionigi il Piccolo (Dionysius autodenominatosi per modestia exiguus)17, monaco originario della Scizia (una regione della Russia meridionale), ma che visse a lungo a Roma, dove fu assai apprezzata la sua attività di computista e canonista, e dove morì nel 526 o, secondo studi più recenti, nel 545 d.C., allorché l’impero romano d’Occidente era “caduto” (nel 476) da quasi ottanta anni, e sul trono d’Oriente sedeva (dal 527) l’imperatore Giustiniano. Con la dichiarata intenzione di oscurare il computo cronologico maggiormente diffuso ai suoi tempi, basato sull’èra di Diocleziano (un imperatore pagano e per di più considerato impius et persecutor) Dionigi approntò una tavola cronologica che segnava la successione degli anni prendendo come punto di riferimento la nascita di Cristo, che egli fissò al 25 dicembre dell’anno 753 ab Urbe condita, ossia “dalla fondazione di Roma”. Il primo anno della nuova èra fu dunque l’anno 754 di Roma, dal momento che, nelle sequenza inaugurata da Dionigi, al 31 dicembre dell’anno 1 a.C. fece seguito immediatamente il primo gennaio dell’anno 1 d.C., né Dionigi poteva pensare — per i motivi sopra esposti — di inserire un “anno 0” fra gli anni contigui delle due ère. La fortuna di cui il computo di Dionigi poté godere (quasi del tutto indisturbato) per più di 1400 anni ne ha ormai consacrato l’uso universale, e si è convenuto di non correggere quel calcolo da lui effettuato nel VI secolo anche dopo che se ne è accertata la consistente inesattezza: la effettiva data di nascita del Cristo pare infatti si debba collocare non nel 753, ma nel 747 o nel 748 di Roma, e dunque essa andrebbe “retrodatata” di 6 o 7 anni18. Un indizio ulteriore, questo, di come anche quella categoria del tempo (che siamo avvezzi a considerare inequivocabilmente 16 Bene la complessità del problema le tabelle alle pp. 40-41 del Manuale di cronologia illustrano di MARCELLO DEL PIAZZO, Roma 1969 (Fonti e studi del Corpus membranarum italicarum, IV). 17 Su Dionigi è da vedere H. MORDEK, s.v. Dionigi il Piccolo, in “Dizionario biografico degli Italiani” 40, Roma 1991, pp. 199-204. 18 Si veda a questo riguardo già il contributo di E. MILLOSEVICH, L’Èra Volgare, in “La Nuova Antologia” 1894, fasc. 21, pp. 134 e ancora, più recentemente, le conclusioni di G. FIRPO, Il problema cronologico della nascita di Gesù, Brescia 1983, pp. 261-266.

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scandita ab aeterno, in armonia con il moto dei corpi celesti) riveli tutta la fragilità delle umane costruzioni, ancora stimolandoci ad individuare con chiarezza l’intersezione dei vari sistemi cronologici, antichi e moderni, in corrispondenza del “luogo geometrico” a suo tempo indicato da Dionigi come spartiacque fra la nuova èra cristiana e la precedente, anche se questo significa addentrarsi un po’ in una problematica storica riservata in genere a specialisti, che solo l’avvento recente del terzo millennio ha reso effimeramente attuale. Anche la nostra epoca, dotata dei più sofisticati strumenti di accertamento della realtà fisica, produce errori clamorosi, per i quali l’esistenza di istituzioni e specifiche competenze addette al calcolo del tempo non fa che aggiungere l’aggravante della malafede al diffondersi di timori “millenaristici” (lo spettro informatico del millennium bug) o all’organizzazione capillare dei piccoli inganni di migliaia di agenzie turistiche che in tutto il mondo, anticipando di un anno l’avvento del nuovo millennio, hanno subdolamente strumentalizzato l’analfabetismo di massa alimentandone le più bislacche interpretazioni e vendendo per ben due anni di seguito a prezzi maggiorati soggiorni appositamente confezionati per un presunto cambio di millennio fra il 31 dicembre 1999 e il 1° gennaio 2000, salvo poi a correggere l’errore per ripetere la stessa operazione in vista del “vero” passaggio dal secondo al terzo millennio, avvenuto nella notte fra il 31 dicembre 2000 e il 1° gennaio 2001. Nell’ottica di un doveroso recupero delle nozioni elementari della cronologia storica, che ben si colloca a questo punto della nostra trattazione (di seguito alle pagine che abbiamo voluto dedicare alle origini greche del metodo critico d’indagine), devono dunque essere ben chiare le coordinate del nostro viaggio a ritroso nel tempo: un viaggio che è iniziato dal nostro presente, dal corrente anno 2004 dell’èra volgare, o era cristiana, che non soltanto è quella nella quale si sta svolgendo la nostra vita, ma che è anche il metro che utilizziamo nella nostra misurazione e dunque immediata percezione del passato storico. All’altro capo del filo sottile che si è venuto tessendo nel corso dei millenni abbiamo individuato la mezzanotte fra il 31 dicembre dell’anno 1 a.C. e il primo gennaio dell’anno 1 d.C. Un punto fermo che fu segnato (in modo inesatto, come abbiamo visto) nel corso del sesto secolo d.C. Di questa invisibile sonda, subdolamente immessa nel loro tempo da un futuro per essi inesistente quanto inimmaginabile, gli antichi nostri pro-

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genitori contemporanei di Augusto (o di Cristo, che aveva già i suoi 6 o 7 anni) nulla potevano sospettare, e tocca piuttosto a noi di “indagare” in quale contesto cronologico sia andato a ficcarsi il famigerato punto d’inizio della “nostra” èra, tenendo presente la nozione di “anno comune” cui per comodità faremo riferimento nei nostri calcoli; chiameremo infatti anno comune l’anno solare di 365 giorni (e ci faremo rientrare anche quello di 366, detto più correttamente “bistestile”) scandito naturalmente dal succedersi delle stagioni e con esse anche ben sincronizzato in armonia con equinozi e solstizi, almeno a partire dalla riforma giuliana del calendario, introdotta da Gaio Giulio Cesare il dittatore nel 46 a.C.; ma potremo anche convenzionalmente utilizzare questa denominazione di anno comune anche per gli anni antecedenti alla riforma giuliana, e immaginare che gli eventi datati ad anni precedenti il 46 a.C. siano collocabili nella serie degli anni comuni retroattivamente generati da quella riforma. La griglia degli anni comuni si rivela particolarmente comoda per la nostra semplificazione, perché essa si armonizza alla perfezione con il nostro stile cronologico detto “moderno” (o “della Circoncisione”, come abbiamo visto): possiamo anzi dire che lo stile moderno sia stato una specie di ritorno all’antico, una restaurazione dell’antico anno civile dei Romani, i quali già duemila anni fa ne seguivano puntualmente le scadenze (annotate nei fasti, ossia nel calendario) nel disbrigo dei pubblici affari. Il sistema magistratuale romano sia durante l’età cosiddetta repubblicana (509–31 a.C., quando i magistrati erano i detentori effettivi del potere politico), sia durante l’età imperiale (31 a.C. – 476 d.C., quando essi divennero prima collaboratori del principe, poi suoi dignitari), era infatti imperniato sulla annualità delle cariche e il primo giorno di gennaio era il giorno in cui i magistrati, in primo luogo i due consoli (i sommi magistrati), entravano in carica, per poi uscirne alla fine dell’anno (questo in realtà avvenne solo in età repubblicana avanzata: nei primi tempi l’anno iniziava col mese di marzo, ossia dopo il mese di febbraio e l’eventuale mese intercalare). Così per l’anno comune 1 a.C. sappiamo bene, da un gran numero di documenti sicuri, che i due consoli entrati in carica il primo gennaio furono Cosso Cornelio Lentulo e Lucio Calpurnio Pisone, e che furono questi due consoli a dare il loro nome all’anno nella documentazione ufficiale dello stato (a questo si allude quando si dice che i consoli ordinarii erano magistrati “eponimi”).

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L’elenco delle coppie consolari di eponimi, i cui nomi vennero usati per esprimere la data, si è conservato quasi del tutto integralmente per la lunghissima serie degli anni comuni compresi fra il 509 a.C. (= 245 a.u.c., data di avvento della cosiddetta repubblica, dopo la cacciata del re Tarquinio, allorché furono consoli Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino) fino all’anno 476 d.C. (l’anno della caduta dell’impero d’Occidente, corrispondente all’a. 1229 a.u.c.), ed ancora oltre: ultimo a ricordare nella sua titolatura la dignità consolare (ormai ridotta a irriconoscibile larva dell’antica funzione) fu, nel 613 d.C., l’imperatore d’Oriente Eraclio. Nello stesso anno comune 1 a.C., il 21 aprile, si compiva l’anno 752° dalla fondazione di Roma, e iniziava dunque l’anno 753° dell’era ab urbe condita, che sarebbe giunto a termine il 20 aprile del successivo anno 1 d.C.: in questo senso va dunque inteso il conguaglio dato da Dionigi il Piccolo, che collocò la nascita di Cristo al 25 dicembre dell’anno 1 a.C. (che dunque fu fatto cadere nel 753° anno ab urbe condita). Dei sistemi cronologici in uso al momento cruciale dell’inizio dell’èra cristiana non possiamo dar conto analiticamente: si tratta di un groviglio inestricabile di ère più o meno locali, il cui inizio era stabilito per lo più all’anno di fondazione delle singole città–stato. L’avvento dell’impero aveva complicato ulteriormente questa complessità, generando eventi che avevano dato luogo alla fondazione di nuove ère: tale, ad esempio, l’era aziaca (con inizio al primo gennaio del 30 a.C., anno successivo a quello della battaglia di Azio e dunque della vittoria di Ottaviano su Antonio e Cleopatra), e tali le numerose ère provinciali dei vastissimi territori — future “nazioni” — che formavano le provincie dell’impero, nei quali gli atti pubblici venivano spesso datati, oltre che con l’anno di regno dell’imperatore e con quello della sua potestà tribunicia, anche con l’annus provinciae, fissato in corrispondenza del momento dell’avvenuta sottomissione al governo Roma. Ma almeno di due di queste ère (anno dell’Olimpiade e anno di Roma), divenute riferimenti cronografici di uso universale, vale la pena di parlare un po’ più diffusamente. La prima celebrazione delle cosiddette Olimpiadi, ossia degli agòni panellenici che solennizzavano la festa in onore di Zeus, risale al 776 a.C. e si colloca dunque alle soglie dell’età storica, presentandosi come la più antica istituzione “civile” del mondo occidentale. La lingua

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greca distingue, a dire il vero, fra gli Olmpia, ossia la ricorrenza vera e propria, con sacrificio, mercato e agòni o giochi, che solennizzavano la festa nel santuario di Olimpia (sorto non lontano dalla mitica città di Pisa nell’Elide), e la Olympiás (Olimpiade), che era propriamente il ciclo di quattro anni esatti che intercorreva fra ogni celebrazione e la successiva. Nel computare gli anni secondo le Olimpiadi si citava il numero dell’Olimpiade dopo aver specificato l’anno del ciclo, di modo che — tanto per fare un esempio — la prima Olimpiade, inaugurata nell’estate dell’anno 776, poté compiere il suo ciclo completo nell’estate del 772, dopo che furono trascorsi gli anni 775, 774 e 773 (anni solidi, ossia nei quali non vi fu celebrazione). La festa celebrata nell’estate dell’anno 772 diede inizio alla seconda Olimpiade, ossia al secondo ciclo di quattro anni, che a sua volta si sarebbe concluso con la festa celebrata nell’estate del 768. Con il nostro modo d’intendere diremmo insomma che l’Olimpiade è un quadriennio composto, nel caso — preso come esempio — della prima Olimpiade, da quattro periodi di durata annuale, ma non coincidenti con quello che abbiamo definito anno comune: il primo anno della prima Olimpiade iniziò con la celebrazione dell’estate 776 per finire con l’estate 775; il suo secondo anno comprese dunque il periodo fra l’estate del 775 e quella del 774; il terzo iniziò nell’estate del 774 per finire in quella del 773; il quarto ed ultimo anno della prima Olimpiade, iniziato nell’estate del 773, terminò nell’estate 772, alla vigilia della festa che avrebbe segnato l’inizio della seconda Olimpiade. Questa serie di numeri (776, 772, 768 etc.) indica che l’Olimpiade cadde in tutti gli anni a.C. divisibili per 4, fino agli a. 12, 8 e 4 a.C. Il 25 dicembre dell’anno 753 di Roma si collocò nel quarto anno della 194a Olimpiade (iniziato nell’estate dell’anno comune 1 a.C. e terminato nell’estate dell’anno comune 1 d.C.), che infatti è uno dei punti di riferimento calcolati da Dionigi per la nascita del Cristo. La celebrazione dell’Olimpiade, caduta nell’anno comune 4 a.C., si ripeté (dopo che furono trascorsi i tre anni solidi 3, 2 e 1 a.C.) nell’estate dell’anno comune 1 d.C., e poi ancora nel 5, nel 9, nel 13, nel 17, nel 21 e in tutti gli anni dell’èra volgare la cui cifra, diminuita di un’unità, fosse divisibile per quattro. Un editto di Teodosio il Grande nel 394 proibì il proseguimento degli Olympia come di tutti gli altri giochi pagani: l’ultima edizione celebrata fu quella del 393 d.C., ossia la 291a edizione secondo i

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calcoli di L. Ziehn19, e vale la pena di notare a questo punto che la serie delle Olimpiadi moderne, iniziata nel 1896, non tenne conto del computo antico. Fu in base al ciclo delle Olimpiadi che Marco Terenzio Varrone stabilì a posteriori, in modo non meno approssimativo di Dionigi il Piccolo, l’anno della fondazione di Roma: evento registrato dai fasti in corrispondenza del 21 aprile (il giorno in cui veniva celebrata la ricorrenza), che Varrone indicò in quel 21 aprile che era caduto nel terzo anno della sesta Olimpiade, ossia all’anno olimpico iniziato nell’estate dell’anno comune 754 e terminato nell’estate dell’anno comune 753 a.C. A determinare questa data intorno alla metà dell’ottavo secolo a.C. Varrone era giunto sommando all’anno in cui dai fasti consolari (l’elenco dei consoli) risultava iniziata la repubblica il numero di 245 anni, quanti ne risultavano attribuendo ad ognuno dei sette re un periodo di regno della durata di 35 anni, ossia lo spazio di una generazione. Ma anche in questo caso l’autorevolezza dell’erudito Varrone ebbe la meglio sui calcoli cronologici proposti (sulla base di criteri non meno approssimativi) da altri storici come Fabio Pittore, che aveva indicato il 747, o gli estensori delle liste epigrafiche dei fasti Capitolini, che avevano indicato il 752 (èra Capitolina). Dunque, se vogliamo aggiornare l’èra ab urbe condita, o meglio l’èra varroniana (così detta per distinguerla dall’èra capitolina dei fasti, che è anch’essa ab urbe condita, ma che conta un anno in meno) all’ultima sua ricorrenza nella nostra èra volgare (21 aprile 2004), diremo che in quest’ultima data si sono compiuti i 2756 anni ab urbe condita ed è più o meno felicemente iniziato il 2757°. Dentro questa dimensione delle ère, che hanno misurato il cammino dell’umanità nel corso dei millenni (dall’èra olimpica all’èra ab urbe condita e all’èra volgare) dobbiamo collocare le partizioni cronologiche minori, ossia il giorno, la settimana, il mese, l’anno, il lustro, il secolo. Anche da questo punto di vista si può dire che il nostro modo di parcellizzare il tempo, almeno dal punto di vista concettuale, non sia molto mutato rispetto a quello dell’uomo antico, che queste partizioni introdusse nel corso di un lunghissimo processo di acclimatazione ai tempi della storia. L’unica eccezione riguarda l’obsolescenza del cosiddetto “lustro”, che per noi è un periodo di cinque anni che invece gli antichi consideravano più propriamente di quattro anni. Sembra plausibile che la pratica delle 19

Autore della voce Olympia, in P.W. XVIII (1939) col. 40.

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cerimonie lustrali o penteteriche, solennizzate da giochi come quelli olimpici, sia stata adottata insieme con la definizione della durata dell’anno solare (365 giorni e 6 ore), che i Greci acquisirono da Egizi e Caldei realizzando la necessità di intercalare un giorno bisestile nell’anno solare, come poi sarà canonizzato dalla riforma di Gaio Giulio Cesare il dittatore. Anche nel mondo romano il lustrum o quinquennium, analogamente alla penteteride dei Greci, scandiva con cerimonie più o meno puntualmente ripetute a intervalli regolari di quattro anni (quinto quoque anno) la vita civile della comunità primitiva e individuava l’occasione in cui venivano ripetuti i riti di purificazione (lustrum significa “lavacro”) e operazioni di censimento, con la nomina di appositi magistrati, i censori, che procedevano alla revisione delle liste dei cittadini e alla stima dei loro beni (compresi debiti, crediti e appalti). Si può dire a questo riguardo del lustrum che esso è una spia di come nella mentalità dell’uomo antico predominasse sulla percezione lineare una percezione circolare del tempo, che tendeva piuttosto a tornare su sé stesso avvolgendosi nei cicli brevi dell’anno (segnato dal rinnovo dei magistrati), del lustrum (o censimento) o ancora nel ciclo più lungo del saeculum di 100 o 110 anni, visto come finis longaevi hominis (così Gaio in Dig. VII 1, 56) o come insieme degli anni legitimi vitae humanae (Servio, ad Aen. VI 325). Dentro questa prospettiva sanamente antropocentrica si può dire che ogni individuo si sentisse al centro del “suo” saeculum, ossia di una specie di orizzonte cronologico che segnava i confini della sua memoria e delle sue aspettative di vita, entro le quali valeva la pena di indirizzare la propria attività e oltre i quali era inutile spingere la propria immaginazione. E non è per caso che, come accadeva per il ciclo lustrale della penteteride olimpica, anche il ciclo secolare sia stato solennizzato da giochi (i ludi saeculares più o meno a proposito celebrati da Augusto, da Claudio, da Settimio Severo). A parte il giorno, che è la più ovvia e la più scontata delle partizioni cronologiche, e che già i Romani avevano artificialmente suddiviso in due parti di 12 ore ciascuna (sulla base di un sistema duodecimale di origine orientale), è antichissimo l’uso della settimana, che i Romani chiamarono hebdómada (dal greco ebdóme = “settimo”), adottandola già nel corso del primo secolo a.C. in sostituzione del ciclo di otto giorni delle núndinae (da novem dies ossia “nove giorni” con il sistema del calcolo inclusivo che incatenava ogni ciclo al successivo), determinate dalla successione dei giorni di mercato nelle principali località di ciascun comprenso-

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rio. In ognuno dei pagi o villaggi della microregione frequentabile con spostamenti a piedi o a dorso di asino, si teneva mercato in giorni diversi di questa primitiva e italica settimana di otto giorni. Quando si diffuse fra i Romani l’uso della settimana giudaica e orientale, ciascuno dei sette giorni di quest’ultima fu dedicato a divinità (dies Lunae, Martis, Mercurii, Iovis, Veneris, Saturni, Solis), con nomi che sopravvivono ancora oggi in quelle dei giorni della settimana. Il nostro sabato, che invece deriva il suo nome da quello del settimo giorno della settimana giudaica, è ancora Saturday, ossia il giorno di Saturno, nella lingua inglese, nella quale Sunday è ancora dedicato al dio Sole (cfr. il tedesco Sonntag), mentre la nostra domenica (dies dominica) risale ad un più recente uso cristiano. Anche il mese deve considerarsi di antichissima istituzione (mensis significa “luna” nella lingua latina arcaica) e ci riporta all’osservazione delle fasi lunari, di immediata percezione già per l’uomo della preistoria (28 giorni da luna nuova a luna nuova), che individuarono un ciclo più o meno collegato a fenomeni fisici quali le maree e i cicli mestruali (menstruus = “lunare”). Lunare fu dunque il più antico calendario usato dal popolo romano, che ne attribuì l’istituzione al mitico re Numa, e che mantenne l’anno numano fino alla riforma del 46 a.C., ricorrendo alla intercalazione di un mese di 23 giorni detto Mercedonius ogni volta che lo sfasamento fra anno solare e calendario civile numano stravolgeva la corrispondenza fra le ricorrenze del calendario e il succedersi delle fasi climatiche stagionali. L’anno numano iniziava col mese di gennaio, ma conservava nei nomi dei mesi la memoria di un anno ancor più antico, il calendario albano o romuleo dei Ramnes, di dieci mesi, che si apriva con il mese di marzo, dedicato al dio Marte, seguito ovviamente da aprile (forse da connettere al verbo aperire e alla fioritura, oppure, secondo qualcuno, al nome etrusco di Afrodite, dea greca dell’amore); maggio era dedicato a Maia, madre di Mercurio, e giugno dedicato a Giunone, mentre i nomi degli altri mesi semplicemente alludevano all’ordine del loro succedersi nell’anno (Quintilis, Sextilis, September, October, November, December); seguivano i mesi dedicati al dio Giano (Ianuarius, antichissima divinità italica delle porte, dei trapassi e delle gare e degli affari) e il Februarius connesso con i riti espiatorii (februae). Il primo giorno del mese si denominava kalendae, dal rito della chiamata o convocazione fatta dal pontefice massimo per mezzo di un suo banditore (il kalátor) che radunava il popolo nella curia Kalábra sul

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Campidoglio (Kalendae, kalator e kalábra si riconducono ad un comune ètimo kalare, gemello del greco kaléin, “chiamare”; ma qualcuno pensa invece che kalendae sia piuttosto la falce della luna nuova). La chiamata del popolo da parte del pontefice veniva fatta per annunziare, ogni volta (ossia ogni mese), quello che potremmo chiamare il calendario del mese, e, in particolare, se le scadenze delle nonae (il primo quarto di luna, così dette perché cadevano sempre l’ottavo giorno avanti le idi: ante diem nonum idus semper, col sistema del calcolo inclusivo) e delle eidus, idus (le ìdi o plenilunio, così chiamate da iduare = “dividere per due”) sarebbero cadute rispettivamente il 5 e il 13 (nonae quintanae) o il 7 e il 15 (nonae septimanae) dell’incipiente mese: uno dei contenuti, questo, che potremmo definire esemplare, del monopolio del potere detenuto dall’aristocrazia dominante, che nei tempi più antichi (ossia antecedenti alla “pubblicazione” del calendario ad opera di Gneo Flavio intorno al 312) estendeva il suo arbitrio al quotidiano “rilascio” dei tempi della vita civile, ignoti al popolo. Le competenze del pontefice massimo sulla regolazione del tempo e delle scadenze mostrano con evidenza come già nei primi tempi dell’età storica venisse considerata importantissima, fra le misurazioni del tempo, la lunghezza dell’anno. Il pontificato era un sacerdozio vitalizio, e il titolo di pontefice, il cui etimo indica inequivocabilmente un “costruttore di ponti”, rinvia addirittura, secondo qualcuno, a quella fase della civiltà primitiva detta delle “terremare”, ossia di quegli insediamenti dislocati a scopo difensivo su palafitte in luoghi acquosi o paludosi, nei quali era di vitale importanza il passaggio fra le varie piattaforme che formavano il villaggio e lo mettevano in comunicazione con la terraferma (un ritorno a questo elementare modo di difesa escogitarono nel Medio Evo gli abitanti di Aquileia colonizzando la laguna veneta). Dunque il pontefice fu in origine una specie di “ingegnere”, depositario di un sapere tecnico che non tardò a trasformarsi, con l’evoluzione della primitiva comunità verso forme più complesse di organizzazione, in una indiscussa autorità sacrale che si caratterizzava dal monopolio del “canone” o, se si vuole, delle regole più elementari della vita civile. Per gli abitatori delle zone temperate del bacino del Mediterraneo l’anno (che ha lo stesso ètimo di anus e anulus, con evidente connessione a quella circolarità del tempo cui sopra si è accennato) si presentava ben scandito dal regolare avvicendarsi delle stagioni, e fu dunque il ciclo temporale naturalmente privilegiato, in tutte le comunità dell’ecumene antica,

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nella organizzazione della vita politica e dei rapporti economici (affitti, censi, tassi di interesse). Annona si denominò, nella Roma primitiva, l’ammasso del raccolto di grano annualmente provvisto dalla coltivazione della terra, e già nei primi tempi lo Stato nascente si preoccupò di sottrarlo a manovre speculative, sorvegliandone i prezzi di vendita, e così pure ebbe scadenza annuale il rito civile della scelta dei capi, affidato alle assemblee popolari, e spettò ai pontefici, anzi al pontefice massimo, posto a capo di un collegio di sacerdoti non sottoposti al vincolo limitante dell’annualità dell’incarico, di distinguere la serie cronologica degli anni, ancora non ben individuati nella loro successione numerica lineare (si pensi al rito del clavus annalis), conservando il ricordo dei nomi dei magistrati, soprattutto dei due consoli, che in qualità di capi supremi dello stato divennero anche eponimi, ossia diedero il proprio nome all’anno nel corso del quale avevano gestito il sommo potere. Una tabula dealbata, ossia un’asse di legno verniciata di biacca, venne usata dal pontefice massimo come supporto per annotare i dati salienti di ciascun anno: in primo luogo i nomi dei consoli e, di seguito, quelli di altri magistrati, i risultati dei censimenti (negli anni in cui si procedeva alla lustratio), le campagne militari, le carestie, le pestilenze, i prodigi. Da queste rudimentali annotazioni, divenute sempre più minuziose ed accurate, si sarebbe formata a poco a poco la raccolta degli Annales maximi con la registrazione degli eventi che poi sarebbero stati trasferiti nei resoconti cronachistici dei primi “annalisti”. L’antico calendario numano, affidato all’arbitrio dei pontefici, era ancora in uso negli anni del tramonto della cosiddetta repubblica, ma il progressivo espandersi del dominio di Roma e, insieme con quello, la diffusione della cultura scientifica ellenistica e il venir meno del blocco di potere oligarchico dell’aristocrazia senatoria, duramente provata dalle ripetute stragi delle guerre civili, crearono le premesse della epocale riforma del calendario, concepito da Gaio Giulio Cesare come un moderno strumento comune a tutte le genti dell’ecumene romana, finalmente armonizzato con il ciclo immutabile dei moti dell’universo. Nella sua veste di pontefice massimo (una carica che gli era stata conferita nel 63, ancor prima che egli rivestisse il consolato del 59) Cesare dispose la riforma nel 47, all’indomani del suo soggiorno in Egitto, affidandone la definizione all’astronomo e matematico alessandrino Sosigene, e programmando per il successivo anno 46 a.C., che fu detto annus

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confusionis, l’inserimento dei giorni aggiuntivi che sarebbero serviti a raccordare l’antico anno numano con il primo anno “giuliano”, che avrebbe avuto inizio il primo giorno di gennaio del 45. Oltre al mese intercalare (il mercedonius o merkedonius di 23 giorni) furono “versati” nell’annus confusionis (confundo significa appunto verso nello stesso recipiente) altri 67 giorni che, aggiunti ai 355 giorni dell’anno lunare numano formarono un totale di 445 giorni. Il mercedonius fu aggiunto, come di consueto, dopo i Terminalia ricorrenti il 23 febbraio, mentre due mesi straordinari di 33 e 34 giorni furono inseriti fra il novembre e il dicembre. La corrispondenza con l’anno solare fu assicurata disponendo il regolare inserimento, quinto quoque anno, ossia ogni 4 anni, nel luogo dell’antico mese intercalare, di un giorno aggiuntivo detto bis sextus Kalendas Martias perché veniva a cadere fra la ricorrenza dei terminalia (VII kal. Mart.) e quella del regifugium (VI kalendas Martias) ed occupava il 24° giorno del mese di 29 giorni che distingueva l’anno “bisestile” dal comune. Della riforma ordinata da Cesare abbiamo notizie abbastanza precise dagli storici del periodo (Plutarco, Svetonio, Cassio Dione), ma soprattutto negli scritti di Censorino e Macrobio (che fra l’altro sono in disaccordo sul numero dei giorni aggiunti e quindi sulla durata dell’anno 46: 445 giorni secondo Censorino, 444 secondo Macrobio). Non meno interessante si presenta la questione sollevata dal rinvenimento a Cirta (Constantina), città della Numidia, di un’iscrizione dedicatoria datata con i nomi dei consoli dell’anno 186 d.C., nella quale leggiamo: templum dedic(atum) L(ucio) Venuleio Aproniano (iterum), L(ucio) Sergio Paul(l)o (iterum) co(n)s(ulibus), (quinto) k(alendas) Mart(ias), qui dies post bis(sextum) kalendas fuit (C.I.L. VIII 6979 = I.L.S. 4919). Si è notato che questa puntualizzazione si rendeva necessaria per la circostanza che la dedica del tempio era avvenuta in un anno bisestile, e che dunque di questa circostanza si sarebbe dovuto tener conto, in futuro, nelle occasioni commemorative di quella data. La precisazione fornita dall’ignoto estensore del testo dell’iscrizione è interessante perché l’intercalazione non viene collocata subito dopo il giorno dei terminalia, e fra questo e il regifugium, come affermato da Censorino e da Macrobio, ma addirittura dopo il regifugium. In ogni caso era nelle intenzioni del progetto di riforma che l’inserimento del bisesto avvenisse ogni quattro anni, con una cadenza “lustrale” analoga a quella che abbiamo visto per le penteteridi delle Olimpie. Questo ciclo lustrale fu poi di fatto universalmente seguito non

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soltanto nella vita pubblica dell’Urbe, ma anche nei municipi e nelle colonie dell’Italia e delle provincie, nei quali vediamo i magistrati locali annualmente eletti (duoviri o quattuorviri) fregiarsi del titolo di quinquennales quando capitava a loro di rivestire questa carica di amministratori locali nell’anno della celebrazione del lustrum. Ma nei primi tempi di applicazione del nuovo calendario i tumultuosi eventi seguiti all’uccisione di Cesare alle idi di marzo del 44 a.C. (nel secondo anno giuliano) indussero una certa sciatteria nell’attuazione della riforma: l’intercalazione del bisesto fu operata non quinto ma quarto quoque anno, ossia ogni tre anni, per tutto il periodo compreso fra il 45 a.C. e l’8 a.C., allorché la rettifica necessaria fu disposta da Augusto, con l’avvertenza di non intercalare i bisesti per i 12 anni successivi all’8 a.C. Nella stessa occasione fu stabilmente definita l’adozione di nomi nuovi per i mesi di luglio e agosto: mensis Iulius si rinominò il Quintilis in onore del divus Iulius (ossia di Cesare, ora divinizzato), e mensis Augustus venne rinominato il Sextilis dall’appellativo di Augustus che era stato conferito ad Ottaviano dal senato su proposta di Munazio Planco nel 27 a.C. Oggi sappiamo tutti che la durata di 365 giorni e sei ore calcolata per l’anno solare è approssimativa. Se andiamo a consultare un qualsiasi testo scolastico di geografia astronomica scopriamo che quella approssimazione può quantificarsi in poco più di 10 minuti, che mancano al completamento delle sei ore (11 minuti e 12 secondi): questo ben sapevano anche gli antichi, ad esempio Cicerone, che nel De natura deorum, scritto nel 44 a.C., dice che la durata dell’anno solare era di 365 giorni e “quasi (fere) sei ore” (II, 19; osservazioni ancor più precise troviamo negli scritti degli scienziati di età romana imperiale, come Claudio Tolemeo). Dunque l’intercalazione di un bis sextus ogni quattro anni era “eccessiva” anche se, per il momento, trascurabile. Nel corso dei secoli che seguirono, però, questo eccesso fece sentire sempre di più i suoi effetti, al punto che la progressiva mutazione di sede di equinozi e solstizi cominciò ad essere inequivocabilmente percepita al momento del computo della Pasqua, la “festa mobile” dei Cristiani, che era stata fissata dal concilio di Nicea (del 325 d.C.) alla prima domenica successiva al plenilunio primaverile (21 marzo) sulla base della convinzione che l’equinozio di primavera sarebbe sempre caduto il 21 marzo. Le misurazioni più recenti hanno mostrato che l’esatta durata dell’anno tropico o anno solare (che va distinto dall’anno sidereo o astra-

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le) è di 365 giorni, 5 ore, 48 minuti e 46,98 secondi, che sono l’intervallo di tempo intercorrente fra due passaggi successivi del sole al punto “gamma” o punto vernale (situato all’intersezione dell’equatore celeste e dell’ellittica, nella costellazione dell’Ariete). La differenza di durata fra l’anno solare e l’anno giuliano (365 giorni e sei ore) è dunque di poco più di undici minuti, e nel 1582 aveva portato ad una sfasatura di circa dieci giorni fra l’equinozio primaverile reale e l’equinozio civile del 21 marzo. Il provvedimento correttivo fu disposto da papa Gregorio XIII che, dopo aver consultato una commissione di dotti, coordinati dal medico e astronomo calabrese Luigi Lilio, emanò dalla residenza di Villa Mondragone una bolla datata 24 febbraio 1582 (una data che evocava l’antico sito d’inserimento del bisesto giuliano), con la quale decretava di sopprimere, nel corso di quello stesso anno 1582, i dieci giorni in eccesso togliendoli al mese di ottobre, nel quale si passò dal giovedì 4 al venerdì 15; a correggere stabilmente il meccanismo dell’intercalazione si prescrisse inoltre che per l’avvenire fosse soppressa l’intercalazione del bisesto negli anni centenari non multipli di 400.

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3 La parabola del mondo antico: povlei~ greche, stati ellenistici ed ecumene romana. Lo studio della storia greca inizia, in genere, con uno sguardo al passato remoto della civiltà greca propriamente detta, ossia alla civiltà egea, un termine generico che comprende tre diverse realtà storiche e geografiche: la civiltà cretese, detta anche minoica, dal nome del mitico re Minos o Minosse, che si sviluppò nell’isola di Creta; la civiltà micenea, così denominata dalla città di Micene, nell’Argolide, una civiltà che fiorì soprattutto nel continente greco; la civiltà cicladica, finitima alle prime due, che si sviluppò soprattutto sulle isole Cicladi. Uno sguardo alla carta della Grecia mostra come il mare Egeo, ossia quella parte del Mediterraneo che si insinua fra l’Anatolia (= Asia Minore), Creta e la Grecia, sia ricco di gruppi insulari (i principali sono le Cicladi, attorno all’isola di Delo e le Sporadi, a S e a E delle Cicladi, e più vicine alla costa della Ionia). Questi numerosi gruppi insulari favorirono il passaggio dalla sponda ionica a quella greca continentale e favorirono anche l’incontro e la diffusione, proprio nel bacino dell’Egeo, delle varie civiltà, specie nell’isola di Creta, la più grande (8300 kmq) e l’unica che permetteva, per la presenza di qualche pianura, di praticare con profitto l’agricoltura. Più estesa, ma non tantissimo, la parte continentale della penisola greca, a SE della regione balcanica, misura 65.000 kmq e, come è evidente dall’osservazione della carta, è circondata dal mare, che si insinua dentro di essa con profondi golfi e insenature. Possiamo dividere la regione ellenica in tre parti: – la Grecia settentrionale, limitata a Nord dal Monte Olimpo (2918 m, un po’ più del nostro Gran Sasso), comprende la Tessaglia (a Est), con l’odierna città di Làrissa, che costituisce l’unica pianura della Grecia che fornisca grano abbondante; la regione montuosa dell’Epiro (a Ovest); fra Epiro e Tessaglia si può individuare, come divisorio, la catena montuosa del Pindo. Va notato che la città di Tessalonica, che oggi ap39

partiene alla Grecia, faceva parte del regno di Macedonia, mentre era considerata più “greca” la penisola calcidica, caratteristica per le tre lingue di terra che si allungano nel Mare Egeo, separate dalla Tessaglia dal golfo di Terme o golfo Termaico (così chiamato dalla città di Thermae, vicina a Tessalonica, sulla costa, più a Sud); – la Grecia centrale, che da Ovest a Est comprende l’Acarnania, l’Etolia, la Focide, la Locride, la Beozia (con la città di Tebe) e l’Attica (con Atene), e ha di fronte, al di là di uno stretto braccio di mare, la grande isola dell’Eubea; – la Grecia meridionale appare formata dal Peloponneso, ossia “isola (nésos) di Pelope” (suo mitico re), ed ha come estreme punte meridionale il capo Tènaro (Taenarum, od. Capo Matapàn) e il capo Malea, terrore dei naviganti che dovevano doppiarlo. E anche da questa parte della Grecia il mar Ionio, che si allargava dal canale d’Otranto, e le isole di Zacinto, Cefallenia, Itaca, Leucade e Corcira costituivano in pratica delle vere e proprie teste di ponte naturali verso l’Italia. Nel contesto di queste caratteristiche geografiche è evidente la funzione svolta dal mare quale mezzo di comunicazione privilegiato per mettere in comunicazione fra loro tutte queste regioni, facilitando la circolazione degli uomini, delle merci, e quindi anche delle idee; altrettanto evidente, dall’altro lato, la circostanza che i rilievi montuosi spesso impervii contribuivano a frazionare questa popolazione della Grecia in gruppi talvolta molto isolati, prefigurando anche, dal punto di vista geografico ed ambientale, lo sviluppo di quello spirito di autonomia e di particolarismo che restarono sempre peculiari, anche come fattore limitante, della civiltà greca. L’ultima fase della civiltà egea, ossia la civiltà detta micenea (dal nome della città di Micene, vicina ad Argo), fu opera degli Achei (Acaia fu, come si è detto, il nome dato alla Grecia allorché essa divenne provincia romana). Costoro erano passati, nella prima metà del sedicesimo secolo a.C., dalla Grecia nordoccidentale nel Peloponneso, assimilando molti elementi della preesistente civiltà minoica. Nel 1400 a.C. gli Achei avevano iniziato a spargersi per le isole dell’Egeo (Cicladi e Sporadi), dirigendosi poi verso l’Anatolia (attuale Turchia) ed occupandone alcune località costiere (in questo contesto storico si iscrivono le grandi imprese di cui si favoleggia nei poemi omerici: la guerra di Troia, datata dalla tradizione al 1193 o al 1183 a.C.), e numerose furono le fondazioni “achee”

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in questa fascia costiera dell’Anatolia, che poi si disse Ionia, dal nome di “Ioni” dato ai Greci d’Asia. Questa civiltà guerriera degli Achei, che portò in primo piano il ruolo dell’uomo/maschio, togliendo alla componente femminile della società privilegi e libertà goduti nella precedente cultura matriarcale minoica, introdusse anche la pratica di cingere di mura le città, anzi le “acropoli” che dominavano i centri abitati, facendone delle vere e proprie rocche nelle quali trovavano rifugio, in tempi di guerra, gli abitanti sparsi nel territorio. Non va tralasciata, infine, la circostanza che la civiltà achea fu portatrice di una lingua indoeuropea, il greco, il cui uso è documentato dai segni bisillabici conservati dalle tavolette fittili iscritte con la cosiddetta “lineare B”. Appaiono in questo contesto cronologico della documentazione gli embrioni della organizzazione politica delle comunità, imperniata sulla figura di un wa–na–ka (anax, signore), affiancato da una gerusia (consiglio degli anziani, senato) e da un ra–wa–ke–ta (lauaghetes, conduttore di popoli, eserciti, ossia comandante militare). Nei poemi omerici, elaborazione assai più tarda (databile fra il 900 e il 700 a.C.) della memoria degli eventi prodotti da questa antica cultura, vediamo che questo popolo ha una coscienza etnica e si dà il nome di Achei, meno frequentemente quello di Argivi. In seguito su questi due nomi prevalse quello di Ellèni (che designava in origine gli abitanti di un’angusta regione della Tessaglia meridionale: cfr. il latino Héllenes), mentre Hellas, Èllade si denominò l’intero territorio occupato dagli Ellèni. I nomi Greci e Grecia (Graikoi, Graeci), derivati da Graia (città ubicata sullo stretto fra Beozia ed Eubea, detto Eurìpo) e portatori di una sfumatura negativa, non furono mai usati dai Greci, e furono invece largamente utilizzati dei Romani e quindi nelle lingue neolatine e germaniche (Grecia, Grèce, Greece, Griechenland). Alla fine di questo lungo periodo vediamo ormai ben individuati gli insediamenti di Atene e di Sparta (che poi saranno sempre i poli dell’Ellade), e ben avviato (a partire all’incirca dal 700 a.C.) il flusso migratorio e colonizzatore verso l’Occidente, specie verso la Sicilia e la Magna Grecia (quest’ultima locuzione designa oggi correntemente la complessa realtà politica che i Greci impiantarono nell’Italia meridionale): fu proprio in questo ambito di spazi aperti delle colonie greche dell’Occidente che ebbero terreno di coltura particolarmente favorevole i fermenti culturali originari delle antiche città della Ionia, che si rivelarono più promettenti per lo sviluppo della cultura occidentale.

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Il compiersi di questo processo di espansione ebbe per risultato quello di popolare il mondo antico di realtà politiche nuove rispetto a quelle degli antichi regni dell’Oriente (Siria, Lidia, Persia, Egitto): le città (che si chiamarono povlei"), nelle quali sempre più spesso accadeva che l’eliminazione dell’anax miceneo facesse luogo a governi aristocratici retti dai componenti dell’antica nobiltà di sangue. Anche Roma (considerata città greca dagli antiquari) non sfuggì a questo paradigma (i patrizi ne scacciarono i re etruschi per impadronirsi della res publica). Si tratta, ovviamente, della nobiltà legata alla proprietà terriera, ossia costituita dai capi dei ghéne o gentes o clan gentilizi e dei loro immediati eredi, che a lungo poterono tenere in soggezione la massa del popolo, considerata alla stregua di “clientela”. Un caso esemplare di regime aristocratico di questo tipo è costituito da Sparta, dove le poche migliaia di proprietari terrieri (che si dissero Uguali o Spartiati) erano di fatto proprietari, oltre che delle terre, del popolo loro assoggettato come cliente (gli Iloti) e addetto alla lavorazione dei lotti di terra di proprietà dei privilegiati appartenenti alla stirpe dei signori/guerrieri. Se guardiamo agli sviluppi successivi di queste dinamiche sociali, assistiamo quasi ovunque al verificarsi di esiti analoghi: la cacciata del wanax/re portò ad un irrigidimento su posizioni autocratiche della classe aristocratica che lo aveva sostituito al potere, e questo si tradusse nel venir meno di ogni garanzia di difesa dei diritti elementari delle classi più deboli, che per l’avanti la presenza del re aveva protetto dagli abusi dei signori. Questo stato di cose causò una serie di conflitti sociali che sfociò in una conflittualità cronica, dalla quale si originarono costituzioni timocratiche, basate cioè sul censo dei cittadini delle varie città, sulla loro ricchezza, con la conseguente abolizione dei privilegi di casta, e l’adozione di sistemi legislativi che affermarono quasi ovunque la parità degli individui soggetti politici (ossia della parte più facoltosa del popolo della città) secondo il principio dell’isonomia che ispirò ad Atene le leggi di Draconte e soprattutto di Solone: si parla addirittura di un’età dei legislatori, che (va notato) ebbe le prime manifestazioni nelle colonie dell’Occidente (i mitici Zaleuco e Caronda). Il risultato più emblematico di questo processo fu quello realizzato in Atene, dove nel 594/3, sotto l’arcontato di Solone, una riforma dello stato sostituì il criterio della ricchezza a quello della nobiltà di sangue e nacquero le classi dei pentacosiomedimni, cavalieri, zeugiti e teti, mentre la seisáchtheia (letteralmente

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“scuotimento dei pesi”) liberava i cittadini più indebitati annullando le ipoteche sulle persone (ipoteche generatrici dello stato di schiavitù, come il nexum per debiti nei più antichi tempi della costituzione romana). Il principio della giustizia distributiva o isonomia fu portato ad Atene alle estreme conseguenze da Clistene, che nel 507 introduceva le tribù territoriali (spazzando via gli ultimi residui di organizzazione gentilizia) e la pratica “democratica” del sorteggio per la scelta di alcuni magistrati, mentre ancora più tardi Pericle (vissuto fra il 495 e il 429) introduceva la misthoforia, ossia la retribuzione delle cariche pubbliche prima gratuite e quindi di fatto destinate ai soli abbienti. In quest’epoca le città della Grecia si presentano quasi tutte con caratteristiche simili: esse sono rette da una giunta di magistrati (chiamati per lo più arconti o politarchi); da una camera ristretta (la bulé o senato, formata per lo più dagli ex magistrati); da un’assemblea del popolo (demos o ecclesía, corrispondente ai comitia romani) cui avevano accesso tutti i maschi adulti. Caratteristiche, queste, che restarono per lo più immutate per parecchi secoli, anche sotto la dominazione romana, fino a tutto il secondo secolo d.C. È difficile ricondurre la storia dei Greci ad uno sviluppo secondo linee unitarie: anche le lotte contro i Persiani (499–478 a.C.), che parvero minacciare mortalmente la mirabile fioritura culturale delle città greche, soprattutto di quelle della Ionia (la estrema propaggine dell’Anatolia verso il mar Egeo), e che si conclusero con la vittoria dei Greci (la epocale battaglia di Salamina del 480 a.C.) non portarono mai alla unificazione politica delle coscienze, e anzi l’antico nemico persiano fu spesso brandito come alleato prezioso da parte di questo o quel blocco ellenico capeggiato da Sparta o da Atene, ossia proprio dalle città che erano state antesignane della lotta contro il nemico d’Oriente. Così l’imponente lega marittima, nata intorno ad Atene come fulcro difensivo antipersiano, divenne in seguito caposaldo delle velleità imperialistiche ateniesi, contro le quali Sparta, da tempo egemone della maggior lega terrestre, si arroccò nella difesa delle oligarchie conservatrici, mostrando irriducibile ostilità verso i regimi democratici di cui Atene si professava od era considerata fautrice. Dopo un lungo periodo di tensione (durato all’incirca cinquant’anni, e per questo denominato “pentecontaetia”) la conflittualità fra le due città dilagò nella rovinosa guerra del Peloponneso, durata dal 431 al 404, nella quale furono coinvolti tutti gli

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stati greci, schierati negli opposti campi filospartano e filoateniese. La ferocia con cui questa guerra fu combattuta (si veda la magistrale narrazione dello storico Tucidide) provocò perfino il ripudio, da parte dei contendenti, delle idealità nazionali antipersiane, e anzi il favore dei Persiani, divenuto ora fattore strategico risolutivo, fu alla fine acquisito da Sparta, che in questo modo riuscì a piegare il nemico ateniese, senza tuttavia poterlo annientare, tanto che l’egemonia spartana fu lungamente osteggiata dalla coalizione che ad essa opposero Argo, Corinto, Tebe e la risorta Atene. Conclusione di questo ennesimo conflitto fu la pace di Antiàlcida, dettata ai Greci nel 386 dal re di Persia, che però, mentre sanciva l’autonomia delle città greche dalla madrepatria (ossia in primo luogo da Atene), sanzionava altresì il definitivo ritorno delle città greche d’Asia (ossia della Ionia) sotto il dominio persiano. Un ultimo contrasto all’egemonia spartana fu l’espansione di Tebe, che dopo la vittoria di Leuttra (nel 371) instaurò una sua effimera egemonia sulla Grecia, durata un decennio, basata su una momentanea superiorità militare dovuta alle eccezionali qualità strategiche di uomini come Epaminonda e Pelopida. La battaglia di Mantinea, pur vinta dai Tebani contro Spartani e Ateniesi nel 362, segnò il declino incipiente della supremazia tebana, mentre il ritorno al conflitto, rinnovato nel 356 con la cosiddetta “guerra sacra”, contribuì non poco alla definitiva debilitazione delle città greche, che di lì a poco si trovarono — nonostante l’abilità politica e diplomatica dell’ateniese Demostene — in balìa delle mire espansionistiche del re macedone Filippo II, che sbaragliò l’ultima resistenza militare dei Greci nella battaglia di Cheronea (dell’anno 338), considerata per lo più come l’evento che segnò la fine delle libertà delle póleis greche. Le velleità imperialistiche della dinastia macedone si manifestarono ben presto nel progetto di conquista giustificato dall’intenzione di assumere l’onere della difesa della grecità d’Occidente contro i “barbari” persiani, come era già nel programma di Filippo II, al quale però la sopravvenuta morte impedì di realizzare l’impresa, che fu dunque condotta dal figlio Alessandro. La sua celebre spedizione in Asia non soltanto sgominò ogni resistenza del Gran Re, ma estese fino ai confini del mondo il territorio di un inedito quanto effimero impero universale. Dopo l’evento, anch’esso epocale, della prematura morte di Alessandro Magno (a. 323) e la frantumazione del suo impero nei regni dei vari

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Diadochi, le città della Grecia cercarono di riacquistare una parvenza di autonomia, che fu loro riconosciuta più o meno formalmente nell’ossequio alle loro gloriose tradizioni; ma di fatto esse restarono per lo più soggette, come sempre, dei sovrani che reggevano la Macedonia, e così era ancora ai tempi del re macedone Filippo V, la cui egemonia ebbe come interlocutori fra i Greci le due leghe costituitesi fra popoli che fino ad allora erano rimasti per lo più estranei alle vicende della nazione ellènica. Fu a causa di questi residui di autonomia della lega etolica (nella Grecia centro–occidentale) e della lega achea (nel Peloponneso) che il sistema politico greco– macedone venne in contatto e in attrito con la potente repubblica “imperiale” romana, nel momento in cui quest’ultima era seriamente impegnata nell’immane conflitto con il nemico cartaginese. Di questo cruciale momento “congiunturale” della espansione militare romana credette di poter approfittare il re macedone Filippo V, che strinse con il cartaginese Annibale un’alleanza rivelatasi in seguito assai impegnativa, specie dopo che Scipione l’Africano (l’Africano “maggiore”) ebbe sbaragliato la macchina militare punica. L’inevitabile disastro fu, per la Grecia, soltanto ritardato dalla pace di Fenìce, stipulata nel 205 fra Filippo V e i Romani. Le velleità di rivincita del re, fomentate da cattivi consiglieri, portarono ad una nuova guerra con Roma, e Filippo fu sbaragliato da Tito Quinzio Flaminìno nella battaglia combattuta presso Cinoscefale nel 197. Il regno di Macedonia ne uscì assai ridimensionato quanto a prospettive egemoniche, ma abbastanza integro, al punto che Persèo, figlio di Filippo e succeduto a questi sul trono macedone, si sentì pronto ad imboccare di nuovo la politica scioccamente aggressiva di suo padre. Una nuova sconfitta fu inflitta alla Macedonia nella battaglia di Pidna, vinta nel 168 da Lucio Emilio Paolo (padre naturale dell’Africano “minore”), cui riuscì anche di catturare Persèo, che fu esibito a Roma nel trionfo del vincitore e quindi scarcerato e relegato ad Alba Fucens (odierna Albe, poco a Nord di Avezzano), mentre per Macedonia e Grecia aveva inizio il processo di definitivo inquadramento nel sistema provinciale romano. Nel segno diametralmente opposto a quello dei particolarismi cittadini, che abbiamo avuto modo di evocare più volte delineando le vicende della storia greca, si svolge il filo della storia romana, nella direzione cioè dell’attuazione progressiva di un progetto, più o meno consapevolmente ma irresistibilmente perseguìto, di unificazione della storia umana. La città di

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Roma, per il tramite di un tenace tessuto connettivo costituito dalla cultura giuridica e dalla efficienza amministrativa instancabilmente costruite dal popolo romano, si propose come il centro vitale di un sistema politico ordinatore che può dirsi in gran parte realizzato nel saeculum Augustum, i cui tratti ancor più compiutamente si delinearono nei secoli successivi, ma che in ogni caso restò operante ed attivo ben oltre la dissoluzione dell’impero d’Occidente (ad esempio nell’Europa dei dotti di Erasmo da Rotterdam) e che ancora oggi si ripropone nella pubblicistica, proprio per la ingombrante persistenza del suo passato esistere, come modello di volta in volta esecrato o vagheggiato, ma in ogni caso ineludibile20. Dei fattori geografici che influirono sulla storia di Roma e dell’Italia antica noteremo qui fugacemente soltanto quelli con più immediatezza percepibili: la centralità della posizione di Roma nella penisola, con la sua prossimità al mar Tirreno e la sua ubicazione che dominava il corso inferiore del Tevere; il taglio netto fra Italia continentale o Padània, pianeggiante e rivolta verso Oriente, e Italia peninsulare, protesa nel mare e stretta, percorsa dalle giogaie dell’Appennino e vòlta verso Occidente; il grande sviluppo delle coste, che già in antico resero questo Paese accessibilissimo a commercianti, coloni e invasori, mentre la barriera alpina ergeva un baluardo consistente, anche se non del tutto insormontabile, verso il continente europeo; la centralità della penisola italiana nel grande bacino del Mediterraneo. Questo contesto geografico fece da scenario all’ascesa della potenza romana e rese possibile la crescita e la lunga vita dell’immane organismo politico del suo impero: una vita che si protrasse per circa quattordici secoli, dalle lontane origini della città nell’ottavo secolo a.C. al regno dell’imperatore Giustiniano nel sesto d.C. Di questa lunga storia rievocheremo i dati salienti, rinviando per un più articolato e completo quadro d’assieme alle reminiscenze scolastiche della storia studiata, in maniera sempre più distratta a dire il vero, sui banchi dei primi anni delle superiori. L’età monarchica, o età regia, si fa iniziare con la fondazione della città ad opera dell’ecìsta Romolo nel 753 e si dipana per 244 anni, fino alla cacciata dell’ultimo dei sette re di Roma, Tarquinio il Superbo, e all’avvento della cosiddetta repubblica nel 509 a.C. 20 Si vedano, ad esempio, S.P. HUNTIGTON, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine universale, Milano (Garzanti) 1997 e soprattutto il recente M. HARDT - A. NEGRI, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Milano (Rizzoli) 2002.

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L’età repubblicana va dal 509 (anno dei due primi consoli) fino al 31 a.C., anno della battaglia di Azio, dopo la quale l’indiscusso primato di Ottaviano, rimasto senza avversari, consentì a costui di trasformare lo stato in un regime sostanzialmente monarchico. L’età imperiale, caratterizzata dalla preminenza della figura dell’imperatore quale vertice di ogni potere, a partire da Ottaviano che nel 27 a.C. assunse il titolo di Augusto, poi portato da tutti i suoi successori fino al 476 d.C. Questa data è quella della deposizione dell’ultimo imperatore d’Occidente, che portò il fatidico nome di Romolo, e che per la sua giovane età ebbe il nomignolo di Augustolus. Ma si può dire che l’esistenza dell’impero e il controllo militare dell’imperatore d’Oriente su buona parte del territorio del defunto impero d’Occidente siano state garantite ed assicurate dal soglio costantinopolitano fino all’età di Giustiniano (527–565). Va anche ricordato che la storia di questi secoli dell’età imperiale viene opportunamente suddivisa in una età del principato, che va da Augusto a Carino (27 a.C. – 284 d.C.), nel corso della quale l’imperatore continuò a denominarsi princeps e i cittadini furono considerati cives, e un’età del dominato (dal 284 al 476 o al 565) nel corso della quale il detentore del potere assoluto e teocratico (dominus et deus) divenne sempre più lontano dalla massa dei cittadini, ora subditi ossia “sottomessi” come servi ad un padrone. Ai fini del corso che svolgeremo poco importa di richiamare in dettaglio le conoscenze sull’antica età regia o sui primordi della “repubblica”, se non per ricordare brevemente come questi termini, invalsi nell’uso moderno già dai tempi del Machiavelli, non fossero, ovviamente, percepiti dall’uomo romano con i significati attuali. Nella lunga storia di Roma, che abbiamo periodizzato sulla base dei mutamenti costituzionali (monarchia, repubblica, impero) la realtà politica dello stato fu sempre percepita come quella di una civitas (ossia un insieme di cives o “cittadini”; dal latino civitas deriva la parola italiana “città”) o di un populus (anche questa parola designa l’insieme dei cives) al quale lo stato cercava di garantire una certa libertas; il contenuto di questa libertas consisteva soprattutto nella facoltà di dedicarsi all’esercizio dei iura privata, che erano il ius connubii e il ius commercii: in altre parole prendere la moglie che si vuole, avendo il consenso di lei (o di suo padre), e vendere o comprare ciò che si vuole, avendo la disponibilità di beni o denaro. Nello stato romano non vi fu mai tensione sociale e tanto meno ideale verso quella che i Greci chia-

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mavano “democrazia”, ossia potere dell’assemblea del popolo: una parola tutto sommato “dotta”, che i Romani non eruditi nella lingua greca conobbero piuttosto tardi e senza averne sospettato l’esistenza. Quella che noi chiamiamo “politica”, e che essi definivano gestione della res publica (administratio rei publicae la definisce l’imperatore Claudio in un discorso pronunciato a Lugudunum; publica, derivato da populica, indica appunto il patrimonio comune del populus) era fuori dell’orizzonte di un uomo comune e restò sempre monopolio di ceti dirigenti organizzati in caste chiuse: in origine il rex con le sue parentele, poi il patriziato della nobiltà di sangue proprietaria della terra, e infine la nobilitas che si formò con la cooptazione delle famiglie plebee divenute straricche ed approdate alle supreme magistrature conquistate dai novi homines. Unico limite allo strapotere dei signori era appunto segnato da un vincolo morale, più o meno condiviso, alla moderazione nell’esercizio del privilegio che, anche nell’ottica di un sano ricambio, consigliava di non opporsi ad oltranza all’ascesa di coloro che per intrinseci meriti (la virtus dei singoli) arrivavano a meritare la promozione sociale. Così si può dire che la più “democratica” delle magistrature romane, il tribunato della plebe, sia nato dal nulla per correggere una deviante politica di chiusura perseguita dal patriziato dopo la cacciata dei re, che evidentemente della libertas erano stati meglio garanti, e non è un caso che una delle “spie” più evidenti di quella chiusura (il divieto di connubio fra patrizi e plebei, prodotto di un’ideologia di “serrata” del patriziato e sancito da una esplicita norma delle Dodici Tavole nel 451–450 a.C.) sia stata la prima a cadere e ad essere abrogata dalla lex Canuleia del 445 in seguito alla strenua reazione dei tribuni. In questa prospettiva, che è ben chiara a chi ha studiato con un minimo di attenzione le vicende della storia romana, le lotte fra patriziato e plebe, che ebbero come esito finale la messa a punto della costituzione timocratica “serviana” (così detta perché attribuita dalla tradizione al re Servio Tullio), debbono essere considerate non alla stregua di conflitti di classe (nel senso marxiano del termine) ma piuttosto contrasti interni al ceto dirigente, che furono sanati dall’adozione di adeguati meccanismi di selezione meritocratica, imposti all’ala oltranzista del patriziato dalle leggi Licinie Sestie del 367 a.C. Una volta concesso che uno dei due consoli, i magistrati supremi dello stato, poteva essere scelto anche al di fuori delle cerchia sempre più ristretta della nobiltà di sangue e che i plebei trascelti

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dai comizi centuriati per il consolato avevano pieno diritto ad entrare nella nuova nobilitas, il ruolo del tribunato della plebe risultò notevolmente ridimensionato, per più di due secoli, fino all’azione politica dei Gracchi. E anche di quest’ultima va detto che essa ebbe quell’enorme peso rivoluzionario non certamente in quanto rivendicazione di indiscriminate sovvenzioni alla massa informe del proletariato urbano (la plebe ammessa alle distribuzioni di grano), ma per il diffuso malcontento — di cui si era fatta interprete — sia nel ceto medio di quegli affaristi (in continua ascesa) che si sentivano in qualche modo esclusi dalla collusione con lo strapotere della nobilitas, sia in quello dei borghesi piccoli proprietari espropriati della loro posizione sociale e del loro ruolo politico dai perversi meccanismi finanziari innescati dalle conquiste territoriali della cosiddetta “repubblica imperiale”. La pace sociale raggiunta con l’approvazione delle leggi Licinie Sestie nel 367 metteva dunque la nuova realtà politica dello stato romano, che fino ad allora era stata una entità territoriale trascurabile, impegnata per lo più in conflitti con le finitime popolazioni del Lazio (Etruschi, Volsci, Equi, che Roma piegò dopo ostilità durate quasi un secolo, fra il 492 e il 404) di intraprendere un programma di espansione ben più impegnativo. Dopo la battuta d’arresto dovuta all’invasione dei Galli Sènoni (una stirpe celtica che muoveva al saccheggio della penisola provenendo dalla Gallia Transalpina), che saccheggiarono e incendiarono la città intorno al 390, Roma venne così in attrito con la potente nazione sannitica, organizzata in una lega saldamente attestata nel territorio che si estendeva a Sud del Lazio, dall’Adriatico al Tirreno e dal confine con la Lucania fino alla media valle del Liri. Il conflitto, iniziato nel 343, si protrasse per diversi decenni (le tre guerre sannitiche) e alla fine coinvolse Etruschi, Umbri, Sabini e Galli Sènoni, coalizzati con i Sanniti contro la minaccia rappresentata dalla crescita minacciosa dello stato romano. La battaglia di Sentinum (combattuta nel 295 nelle odierne Marche), definita “battaglia delle nazioni” per la vastità dello scenario del conflitto e la inusitata rilevanza della posta in gioco, che stavolta era il dominio della penisola, si concluse con una completa vittoria dei Romani e con la loro egemonia sull’Italia centrale, che realizzò per la prima volta una unificazione, in una federazione che si qualificava fra i più importanti ed estesi stati del Mediterraneo, superata in dimensioni soltanto dall’impero cartaginese e dai regni ellenistici di Egitto e Siria.

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L’inevitabile attrito con le autonomie superstiti di alcune città greche d’Italia, soprattutto Taranto, fu occasione d’intervento del re epirota Pirro (280–274) e proiettò la neonata nazione italica sul più ampio scenario politico del Mediterraneo, nel quale si combatterono le tre guerre puniche contro Cartagine (264–241, 219–201, 149–146), le guerre contro la Macedonia e la Grecia (per le quali si rinvia a quanto detto sopra), la guerra contro Antioco III re di Siria (che fu definitivamente sconfitto nel 189 a Magnesia). Alla fine di questo periodo, ossia appena un secolo dopo la battaglia di Sentinum, Roma aveva distrutto l’impero cartaginese, soggiogato i più potenti regni ellenistici, rinnovato integralmente l’assetto politico dell’ecumene antica. Fu assai eloquente, a questo riguardo, il gesto dell’illuminato sovrano di Pergamo Attalo III, che morendo senza figli nel 133 a.C. lasciava ai Romani, per testamento, l’intero suo regno che comprendeva quasi tutta la parte occidentale dell’Asia Minore o Anatolia: si trattava certamente di una regione fra le più ricche e civilizzate del mondo, sede di uno dei più importanti centri di cultura ellenistica (la città di Pergamo) e per di più impreziosita dalla presenza delle antiche città greche della Ionia (Mileto, Efeso, Smirne). Caratteristica del modo romano di gestire questa serie inarrestabile di successi militari fu la creazione, in tempi rapidissimi, del sistema provinciale: un governo diretto dei territori non italici assoggettati, affidato ad amministratori scelti nei ranghi della nobilitas e dunque provenienti dall’esercizio delle più alte cariche politiche cittadine (ex consoli ed ex pretori). Già nel 126 a.C. erano stabilmente organizzate come provincie romane, oltre all’Asia, la Gallia Cisalpina (la Padania, considerata “italiana” solo dopo Augusto, che vi costituì le regioni italiche nona [Liguria], decima [Venetia et Histria] e undecima [Transpadana]), la Dalmazia, la Sicilia, la Sardegna con la Corsica, le due Spagne (citerior o Tarraconensis e ulterior o Baetica), la Macedonia e l’Africa. Questo dominio diretto si estese ulteriormente, in seguito, con le campagne militari di Lucullo, Pompeo e Cesare, e ancora in età imperiale furono acquisiti al dominio romano nuovi territori, che ne estesero i confini fino al Reno, al Danubio e all’Eufrate. Gli effetti di questo sconvolgimento del mondo portarono ad uno sconvolgimento non meno sofferto all’interno della società romana. Il raggiungimento della parità di diritti fra plebe e patriziato aveva prodotto la nuova classe dirigente della nobilitas patrizio–plebeia, che deteneva il

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monopolio delle magistrature e formava l’organico del senato (trecento senatori in tutto prima della riforma di Silla, che nell’80 ne portò a 600 il numero). Era stata questa nobilitas che aveva poi gestito la colossale operazione militare della conquista del mondo, traendone occasione di ingenti guadagni che però erano rimasti nelle mani del ristrettissimo numero (meno di un centinaio) delle famiglie senatorie. La maggior parte del popolo dei comizi era invece duramente provata dalla politica delle conquiste, che aveva costretto decine di migliaia di piccoli proprietari terrieri a servizi di leva estenuanti e dunque a prolungate assenze da casa, che spesso avevano pregiudicato irrimediabilmente la produttività e l’efficienza delle piccole aziende agricole da essi gestite. Una situazione di disagio, questa, che divenne assai diffusa e che sfociava inevitabilmente in una vendita della proprietà a basso costo o in una confisca dei beni dei più indebitati: la perdita della proprietà terriera causava poi, nel momento del censimento quinquennale, la retrocessione verso classi censitarie inferiori e, quindi, la totale svalutazione del voto nei comizi, che aveva peso soltanto se si votava nelle 18 centurie degli equites e nelle 80 centurie della prima classe. La concentrazione della proprietà agricola nelle mani di pochi latifondisti fu favorita anche dalla pratica della occupazione abusiva dell’ager publicus, ossia dei terreni strappati ai nemici via via vinti in guerra (prima in Italia, poi anche nelle provincie) e incamerati dallo stato; quest’ultimo, in teoria, avrebbe dovuto ridistribuirne piccole quote ai cives Romani aventi diritto, ma in pratica lo sottraeva alle assegnazioni cosiddette “viritane” (ossia riservate a singoli capifamiglia) lasciandolo, dietro pagamento di affitti irrisori, allo sfruttamento dei ricchi proprietari terrieri che vi impiegavano manodopera schiavile. Gli scavi francesi nell’isola di Delo (una della Cicladi, come abbiamo visto), sede di un antichissimo culto di Apollo, hanno riportato alla luce i resti di un grande mercato (l’Agorà des Italiens) nel quale durante tutto il II secolo a.C. gli affaristi italici al seguito degli eserciti romani riuscivano a vendere e comprare, in un solo giorno, fino a diecimila schiavi e questo può fornire la misura dell’enorme volume di affari imperniato sulla “dismissione” del bottino di guerra. Un riscontro di questi dati può aversi, un secolo dopo, nelle cifre del gettito della vicesima libertatis, che ha consentito di accertare per il periodo compreso fra l’85 e il 43 a.C.[?] (un periodo in cui i censimenti registrano un milione di cittadini romani), un

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numero di oltre 500.000 manumissiones, ossia di emancipazioni dallo stato di servitù (la manumissio era gravata da una tassa del 5%, per questo detta vicesima). Una situazione che riguarda ovviamente la parte meglio trattata di questa enorme massa di schiavi, ai quali il dominus concedeva la libertà per i loro meriti e le loro capacità, e che però lascia intravvedere l’esistenza di un numero altrettanto rilevante di persone ancora utilizzate al posto delle bestie da soma. Naturalmente non tutto il populus subì in negativo la politica di espansione, che oltre a rendere inverosimilmente ricche le famiglie dell’aristocrazia senatoria, favorì il rafforzamento della classe detentrice di capitale mobiliare, censita come classe dei “cavalieri” e formata soprattutto di banchieri, appaltatori, esattori, commercianti, industriali, dediti (sovente con funzioni di prestanome) a quelle attività non meno lucrose dell’agricoltura, ma per legge vietate agli esponenti della nobilitas senatoria che invece deteneva il monopolio delle magistrature. Fu a questa classe di affaristi, i cui interessi spesso fornivano occasioni di attrito con la nobilitas, che si appoggiò l’azione rivoluzionaria dei Gracchi, che diede inizio, nel 133, al secolo torbido e sanguinoso della “rivoluzione romana”, che doveva sfociare nelle guerre civili fra Mario e Silla, Pompeo e Cesare, Antonio e Ottaviano. Alla fine di questa interminabile lotta per il potere la “monarchia” di Cesare, e il risolutivo avvento di Augusto, che agli occhi degli ultimi sostenitori del regime oligarchico del senato (Catone Uticense o Cicerone) poterono ben apparire una usurpazione violenta delle “libertà repubblicane”, furono in realtà il trionfo delle idealità delle medie e piccole borghesie romane o italiche che formarono la truppa e l’ufficialità degli eserciti al comando dei signori della guerra, che alla figura carismatica del principe delegavano in perpetuo la difesa dei propri vilia commercia dallo strapotere dell’aristocrazia.

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4 La nascita del pensiero scientifico: esordi della cosmologia e della matematica nel periodo arcaico (dai poemi omerici agli inizi del V secolo a.C.) È indubbio che le più lontane origini della scienza, intesa in senso stretto (ossia come insieme di conoscenze particolarmente vagliate e anche logicamente ordinate) da un lato vadano ricondotte allo sviluppo delle tecniche (delle applicazioni, cioè, del sapere pratico), dall’altro vadano riferite alla sistematica riflessione sul modo di risolvere i problemi via via più complessi, incontrati dall’umanità nella vita pratica proprio sul percorso delle tecniche. Si dice così, in genere (lo storico Erodoto è il primo a fare questa osservazione), che le origini della geometria vadano collegate alla necessità — che si manifestò nell’antico Egitto — di eseguire misurazioni precise dei terreni, per ristabilirne i confini cancellati dalle inondazioni del Nilo. Quella pratica, invero, la definiremmo piuttosto una tecnica (agrimensoria o gromatica, come la chiameranno i Romani), mentre la nascita della scienza vera e propria si fa coincidere con il sorgere di un nuovo tipo di riflessione su tali problemi, caratterizzato da formulazioni in termini astratti: la nascita vera della geometria deve dunque farsi risalire al momento in cui le figure geometriche cominciarono ad essere considerate nella loro astratta generalità, e dunque, una prima distinzione che deriva da queste considerazioni è che la scienza deve risultare ben distinta dalla conoscenza comune, pur essendo stata da essa suggerita. I pensatori greci, fra VI e V secolo a.C., distinsero per primi fra scienza (ejpisthvmh, da ejpivstamai, parallelo al latino scientia, da scio: sia il verbo greco sia quello latino hanno il significato di “so per aver appreso”) dall’opinione comune (dovxa ossia la communis opinio; i Latini diranno sapientia, da sapio che potremmo tradurre con “saggezza”, frutto della meditazione su una soggettiva esperienza). La scienza raggiunge verità

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universalmente e incondizionatamente valide, mentre l’opinione comune o saggezza non è in grado di enunciare altro che risultati relativi, e per di più discende dall’esperienza del singolo, né può comunicarsi con chiarezza e in forma univoca. L’epistéme è dunque acquisto perenne, perché patrimonio trasmissibile dell’intelletto umano (“informazione” oggi si direbbe) e ciò è specialmente vero per quanto riguarda quella che noi chiamiamo matematica, proprio a causa della certezza che caratterizza i suoi princìpi e i suoi contenuti. Su queste basi, e con questi presupposti i primi pensatori greci si diedero a ricercare, distaccandosi dal pensiero mitico e servendosi dell’historía, i principi costitutivi celati nella realtà: l’indagine si rivolse dapprima, come abbiamo visto, alla natura (fuvsi") e per questo motivo il loro sapere si disse “fisica” e di “fisici” si parla per questi pensatori delle origini, la cui originalità non va ricercata tanto nei risultati della loro speculazione, ma nell’atteggiamento del tutto nuovo rispetto a quello tradizionale di popoli depositari di ben più antiche tradizioni di cultura: basti pensare alla circostanza che tecniche di scrittura erano state elaborate già a partire dal VI millennio nel mondo assiro–babilonese (come hanno mostrato gli scavi di Uruk e degli altri siti di fioritura di civiltà protourbane dell’Oriente). Prodromi della scrittura possono considerarsi alcuni manufatti argillacei che sono stati interpretati come note di consegna utilizzate nello scambio di merci: un contenitore sferico confezionato a mo’ di salvadanaio, che aveva al suo interno un certo numero di quadrupedi fittili riprodotti in miniatura, probabilmente pecore, consentiva al destinatario del bestiame, al momento della consegna, di verificare, rompendo il contenitore e contando le riproduzioni, la corrispondenza con il numero delle pecore e l’onestà del vettore. Dalla sfera fittile si passò poi alla tavoletta fittile, sulla quale veniva inciso, prima della cottura, un numero di ideogrammi pari a quello delle pecore, e l’uso di questi rudimentali ideogrammi fu seguito ben presto, già nel corso del IV millennio, dai segni della scrittura cuneiforme. Eppure nessuna di queste civiltà dell’antica Mesopotamia, progredita assai più della egizia, per ciò che riguarda i calcoli matematici, aveva prodotto qualcosa di lontanamente paragonabile alla ricchezza concettuale e alla fantasia creatrice che diede luogo alla composizione dei poemi omerici. Le origini della indagine sulla natura riportano unanimemente,

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presso tutti gli autori antichi, al famoso Talete di Mileto. Mileto è una città della Ionia (la costa mediterranea della odierna Turchia sul mare Egeo), che già nel corso del VII secolo si trovava in posizione privilegiata e nodale sulla via dei traffici con l’Egitto e con il Mar Nero (il Ponto Eusino); i suoi abitanti potevano vantarsi di aver fondato ben novanta colonie, delle quali la città si considerava metropoli (ossia madrepatria). Talete vi sarebbe nato nel 624/3, e morto nel quadriennio della 58° Olimpiade, fra il 548 e il 545. La sua ajkmhv (ossia la fioritura dei suoi 40 anni) veniva collocata dai dossografi nel 585 a.C., l’anno dell’eclisse solare prevista da Talete per il 28 maggio. Questa previsione suscitò clamore ed ebbe l’effetto di renderlo famoso anche al di fuori della sua città e gli valse, in seguito, l’inserimento nel novero dei sette sapienti, mentre nella sua città la pratica del suo insegnamento ebbe un seguito, al punto che si parla di una scuola ionica di pensiero, cui appartennero, dopo Talete, Anassimandro e Anassimene. Le notizie sulla vita, se si eccettua l’episodio della preannunciata eclisse, sono scarse e non prive di contraddizioni. I tratti caricaturali dell’uomo di scienza con la testa fra le nuvole gli vennero attribuiti assai presto, come mostra l’episodio narrato da Platone, nel Teeteto, di un Talete tutto intento a guardare le stelle, e caduto per la sua distrazione in una buca, suscitando il riso di una giovane schiava del filosofo (a questo episodio si allude nel detto proverbiale “cadere nel pozzo di Talete”). Altrove abbiamo invece la raffigurazione di Talete come di un abile politico che avrebbe consigliato agli abitanti di Mileto di non allearsi con Creso, il ricchissimo re della Lidia, contro Ciro, il Gran Re dei Persiani, che infatti di lì a poco, sconfisse Creso e lo fece prigioniero. Altro prezioso consiglio politico attribuito a Talete fu quello, dato alle dodici più importanti città della Ionia, di riunirsi in un koinón dislocato a Teo (la città ritenuta nella posizione più centrale): un consiglio che rivela fine intuito politico nel percepire, già a quei tempi, i risvolti negativi di quel particolarismo che, qualche secolo dopo, si sarebbe rivelato esiziale per la sopravvivenza dell’autonomia delle póleis. Uno dei tanti aneddoti fioriti sul suo conto lo presenta anche intelligente sfruttatore di situazioni pratiche, con caratterizzazione della sua figura del tutto opposta a quella dell’aneddoto del pozzo: prevedendo un abbondante raccolto di olive, Talete avrebbe preso in affitto per tempo tutti i frantoi di Mileto, che poi, al momento

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dell’esuberante raccolto, poté subaffittare a prezzi di monopolio, ricavandone enormi guadagni. Di sue opere abbiamo frammenti, ma di dubbia attribuzione, così come è del tutto incerta la reale paternità dell’omonimo teorema. Si dice, inoltre, che egli abbia escogitato calcoli trigonometrici per misurare, attraverso l’ombra che proiettavano, l’altezza delle piramidi (visitate durante un suo viaggio in Egitto); questi calcoli egli avrebbe poi applicato anche in procedure di individuazione della distanza dalla costa delle navi avvistate. Sulla scorta di quanto di lui dice Aristotele, possiamo concludere che l’originalità del suo atteggiamento scientifico si rivelò nell’indagine sulla natura: per la prima volta egli affrontò questa indagine senza ricorrere alle categorie del mito, come già aveva fatto Esiodo, e come farà ancora (dopo Talete) Ferécide di Siro, né spiegò la molteplicità del reale ricorrendo al mistero insondabile del Caos, ma appunto cercando un principio “razionale” ed interno alla natura stessa, che potesse essere indicato come la causa del suo divenire. Per queste ragioni, nel primo libro della Metafisica di Aristotele, Talete viene indicato come il progenitore di quella filosofia che “ricercava la natura stabile al di là del mutamento”, vale a dire quel sostrato permanente di cui tutte le cose sono costituite. Tale natura era, secondo Talete, l’acqua, indicata come elemento primordiale. Ma già Aristotele era incerto sugli esatti contenuti dell’insegnamento di Talete, e non sapeva dire quale delle due argomentazioni la sostenesse: se perché “il nutrimento di tutte le cose è umido” o se perché “i semi di tutte le cose hanno natura umida”. Non meno importante di Talete fu il suo allievo Anassimandro, vissuto fra il 610 e il 540 a.C., il quale per dare una spiegazione fisica del mondo additò il principio di tutte le cose nell’apeiron (= l’infinito). Egli scrisse una storia del cosmo dalle origini e, sembra, una storia delle creature viventi nel cosmo. Primo fra i Greci tracciò un planisfero celeste e una carta della terra, dando una grandiosa costruzione del mondo in un primo tentativo che ebbe l’effetto di stimolare un maggiore approfondimento dei particolari. L’apeiron (“illimitato”, “indefinito”) è una mescolanza originaria, eterna, infinita, di tutte le cose che da essa si generano: gli elementi si generano per progressiva separazione e opposizione dei contrari: caldo e freddo, secco e umido. Per quanto riguarda la cosmogonia, la tradizione

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attribuisce ad Anassimandro il primo modello geometrico dell’universo e della sua struttura: la terra, della quale Anassimandro per primo — come si è detto — disegnò una carta, vi appariva come un cilindro che occupa il centro comune di più cerchi, sui quali si trovano stelle, luna e sole. Uditore di Anassimandro fu Anassimene, che individuò il principio di tutte le cose nell’aria, sostanza mobile, infinita, ma ben definita qualitativamente, al contrario dell’apeiron di Anassimandro. Dall’aria, unica sostanza, si passava ai vari elementi per via di un duplice processo: rarefacendosi l’aria dava origine al fuoco, condensandosi essa generava progressivamente i venti, le nuvole, l’acqua e la terra, secondo un principio che riduceva le differenze, percepite come differenze qualitative, a differenze quantitative, determinate unicamente dal grado di densità dell’unico principio. Resta qualche frammento della sua opera, che forse dai dotti catalogatori della biblioteca di Alessandria ebbe il solito titolo Peri; fuvsew" (= Sulla natura). In ambiente ionico, ma non a Mileto, bensì ad Efeso, e non propriamente nell’ambito della scuola ionica, fiorisce la figura di Eraclito (vissuto fra il 550 e il 480 circa, e dunque alla fine del periodo che stiamo esaminando). La tradizione dossografica lo dipinge come un aristocratico e una persona piuttosto stravagante, avversario del governo democratico e sostenitore dell’antitesi fra “i più” e “i migliori”. La sua opera, oscura per stile e contenuto, fu intitolata Peri; fuvsew" (= Sulla natura), ed Eraclito ne avrebbe depositato una copia presso il tempio di Artemide Efesia (quasi una anticipazione dell’esigenza di proprietà letteraria riservata, che all’epoca poteva ben essere svolta da questo celebre tempio, considerato una delle sette meraviglie del mondo). È conservato l’inizio dell’opera, che critica l’incomprensione umana del logos universale illustrato dall’autore: “Di questo logos verace gli uomini sempre inconsapevoli restano, sia prima di averlo ascoltato, sia una volta che l’abbiano ascoltato. Tutto infatti avviene secondo questo logos, ma essi somigliano a inesperti, pur sperimentando che le parole e i fatti sono tali e quali io appunto li espongo”. E ancora insiste sulla difficoltà di raggiungere il retto apprendimento: “i più, infatti, non comprendono ciò che si trovano di fronte, né lo sanno discernere quando lo abbiano appreso da altri, ma credono di saperlo”. Le affermazioni di Eraclito si accostano, in qualche punto, alla dottrina di Anassimene, ad esempio nella dialettica del logos universale, che è anche kosmos (ossia principio ordinatore), e anche ani-

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ma, soffio di vita (psyche), armonia segreta e coincidenza dei contrari (conspiratio oppositorum), che per vie apparentemente divergenti s’incontrano, così come coincidono la fine e l’inizio di un circolo. Questo logos è poi definito come un fuoco sempre vivo, le cui trasformazioni (fasi o tropaiv) coincidono con i vari stati della natura: il fuoco quando si condensa diviene mare, e dal mare si genera la terra; dalla terra e dal mare salgono i vapori, che divengono nuvole, s’incendiano nel fulmine e ridiventano fuoco. In uno dei frammenti Eraclito affermava appunto che “ciascuna parte si scambia col fuoco, come ogni merce con l’oro”. Questo scambiarsi può assumere la sembianza di un conflitto, di una guerra continua “che genera tutte le cose” (pólemos pánton patér). Altro momento in cui si afferma l’incessabile procedere di questi mutamenti è l’affermazione che ha qualificato Eraclito come filosofo del divenire (panta rei = tutto scorre) “e dunque non potrai bagnarti due volte nelle acque dello stesso fiume” (perché muta l’acqua, perché muti tu). A proposito di Eraclito Efesio, qui collocato in appendice a questa succinta trattazione dei pensatori della scuola ionica, può essere interessante l’aneddoto che si riferisce a lui: Euripide il drammaturgo aveva dato da leggere a Socrate uno scritto di Eraclito, e dopo qualche tempo gli aveva chiesto che cosa ne pensasse. Socrate gli avrebbe risposto: “Quel che ne ho capito è buono; e anche quel che non ho capito, direi: ma ci vorrebbe un palombaro di Delo” (Delo è l’isola delle Cicladi frequentatissima, dove i palombari servivano a scandagliare e pulire il porto e a ripescare oggetti caduti in acqua). Lo stesso Aristotele si lamentava della difficoltà di intendere gli scritti di Eraclito, nella quale si fece aiutare da parecchi ermeneuti (traduttori). Le vicende politiche cui abbiamo accennato, della espansione dell’impero achemenide, che travolse il regno di Lidia e pose un’ipoteca pesantissima sull’autonomia delle città greche della Ionia, ben spiegano le fasi successive dello sviluppo della cultura greca, che presentò i suoi aspetti più originali (elaborati in seno alle “scuole” pitagorica ed eleatica) nell’ambito di quella grecità d’Occidente che si proponeva, già verso la fine dell’VIII secolo e soprattutto in Sicilia e in Magna Grecia, come un approdo relativamente sicuro dei flussi migratori ellenici provenienti dal bacino dell’Egeo. Di Pitagora sappiamo che era figlio di un certo Mnesarco, che era nato a Samo (un’isola situata di fronte a Mileto, a conferma della matrice io-

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nica di ogni antica radice di cultura), e che anche alla base della sua vicenda vi era stata una fuga per motivi politici: solo che Pitagora non era fuggito dai Persiani, come vedremo per Senofane e i Focei, ma dalla tirannide di Policrate (un aristocratico della sua patria, come era lo stesso Pitagora, che però si era avvalso dell’appoggio del partito popolare per rovesciare il governo aristocratico a Samo ed instaurarvi un suo potere personale). Le fonti dicono che Pitagora aveva frequentato le lezioni di Anassimandro, ma anche quelle di Ferecide di Siro (autore di un poema intitolato Pentémykos = “le cinque caverne”, ancora intessuto di racconti mitologici, anche se con qualche volontà di ricerca dei cinque elementi dell’universo). Dopo un viaggio abbastanza lungo in Egitto (che però forse è un luogo comune inventato dai suoi biografi), egli tornò a Samo, ma vi trovò insediato il tiranno Policrate e decise di abbandonare la patria al suo destino, emigrando in Occidente. Pare sia arrivato a Crotone (in Calabria sul mar Ionio) nel 530, e la sua acmé è fissata nel 532–531, e dunque si deve ritenere che egli sia nato poco dopo il 572. I suoi interessi andavano dalla teoria e prassi politica alla aritmetica, geometria, musica, medicina, dietetica, e si è detto che egli riassumeva in sé tutte le principali caratteristiche culturali della grecità di frontiera. Anche per lui gran parte della sapienza sembra arrivare da Oriente (ossia dall’Egitto, dalla Mesopotamia, dalla Persia), ma anche da altre regioni del mondo barbarico d’Oriente, quali la Tracia e la Scizia. A Oriente si può dire che egli impari, mentre ad occidente egli insegna, e anzi nella tradizione Pitagora diventò “colui che insegna a tutti i popoli barbari d’Occidente” (anche al re romano Numa, secondo una tradizione riportata da Tito Livio, che però osserva come già gli antiquari romani notassero che Numa era vissuto assai prima di Pitagora, che invece fu contemporaneo del re Servio Tullio, il che escluderebbe la possibilità di contatti). Una delle caratteristiche della personalità di Pitagora rispetto ai pensatori della scuola ionica, è che questi ultimi non avevano fatto dell’ammaestrare l’attività essenziale della loro vita. E dunque, da questo punto di vista, lo ionico Pitagora fu un’eccezione. Questo primo maestro “europeo”, almeno nella forma, se non nella sostanza, produsse una scuola che certo mirava, come le altre scuole, ad addestrare lo spirito all’indagine, ma anche si atteggiava a setta, a conventicola mistica, adottando le pratiche della esclusività (selezionando gli adepti) e del-

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la disciplina: e tutto ciò mise Pitagora e i Pitagorici in contrasto con i movimenti di matrice democratica. Fra la fine del sesto secolo e la prima metà del quinto il pitagorismo prefigurò in certo modo quello che sarebbe stata l’attività dei sofisti, che furono i professionisti dell’insegnamento, e che usarono metodi simili a quelli dei pitagorici, rivolgendo i propri interessi al campo pratico, e preparando gli adepti al predominio politico nelle città in cui vivevano; strumento principale di queste finalità, sia per fare proseliti, sia per insegnare ad essi come influire sugli altri, fu la cosiddetta “psicagogia”, ossia una tecnica di persuasione imperniata sui discorsi adatti all’opportunità del momento (il kairós), che cioè tenevano conto delle persone, dei luoghi, dei tempi e delle conseguenze di ciò che si veniva dicendo. Dunque, nel 530, a Crotone, Pitagora fondava questa conventicola di “amici”, che è molto simile ad una etería (etairos vale “compagno”, come il femminile etéra, indicante la donna che frequenta gli uomini): la tipica formazione aristocratica di conventicole chiamate anche tíasi (propriamente gruppi che cantano nel coro). Il più antico insegnamento pitagorico attestato per la conventicola di Crotone (poi replicata a Metaponto) aveva prima di tutto un contenuto etico–religioso: gli appartenenti alla comunità erano distinti in due livelli: gli essoterici o novizi (exo = fuori) detti anche acusmatici (cioè che ascoltano e basta), ed esoterici (eso = dentro) o iniziati, detti anche matematici, cioè direttamente ed attivamente coinvolti in un processo formativo mirato, appartenenti a pieno diritto alla comunità pitagorica, soggetti a norme rigorose, tenuti ad osservare il sacro silenzio e a riconoscere l’autorità dogmatica della tradizione risalente al maestro Pitagora. L’autos éfa (ipse dixit), ben noto agli allievi di Platone e di Aristotele, e poi alla tradizione scolastica della filosofia medievale, fu una formula originariamente usata dai Pitagorici. Essi dovevano anche obbedire a regole pratiche di comportamento, anche dietetiche, regole la cui finalità appare analoga a quella cui miravano le sètte orfiche. Vale la pena di ricordare brevemente, a questo riguardo, il mito di Orfeo, figlio di un re della Tracia (o nato nella Pieria, secondo versioni diverse) e della musa Calliope, accompagnatore del mitico eroe Giasone, capo della spedizione degli Argonauti nella Colchide. Nel corso di viaggi in Egitto egli avrebbe appreso la religione dei misteri e la dottrina dell’altra vita, che avrebbe utilizzato per fare un viaggio nell’oltretomba, dove si sarebbe spinto, secondo il mito, per recuperare l’amata Euridice,

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morta per il morso di un serpente mentre fuggiva al pastore Aristeo. Giunto nell’Ade, Orfeo sarebbe riuscito a convincere Plutone e Persefone a farsi restituire Euridice, e per persuadére gli dei dell’oltretomba avrebbe intonato liriche meravigliose con la sua cetra (kithara, ricevuta in dono da Apollo); ma Plutone aveva consentito il rilascio della fanciulla solo a condizione che, lungo il percorso che doveva ricondurre i due amanti sulla terra, Orfeo procedesse per primo, senza mai voltarsi verso Euridice che lo seguiva. Ma Orfeo non riuscì a trattenersi: si voltò verso l’amata, che inesorabilmente fu di nuovo risucchiata nel regno dei morti. Dopo quella straziante separazione egli ebbe una profonda crisi, diventò misogino, rifiutò l’amore delle donne di Tracia, sconsigliando anche agli altri uomini di stringere legami, e perfino rifiutando di cantare alle feste: fatto a pezzi dalle Mènadi, le sue membra sparse per ogni dove ebbero rituale pietosa sepoltura dalle Muse. Ebbe Orfeo una specie di culto eroico e gli furono attribuite facoltà incantatorie, come incantare gli alberi, attirare le pietre, arrestare il corso dei fiumi, ammansire le bestie selvatiche. Egli avrebbe inoltre inventato i sistemi di preparazione dei cibi, l’agricoltura, la medicina, la filosofia, la poesia e sostenuto la teoria dell’immortalità dell’anima, dando così inizio ad un “credo” misteriosofico che ancora prosperava in età imperiale romana. La convinzione della natura immortale dell’anima è uno dei tratti distintivi del credo pitagorico, così come di quello orfico, e di fatto, sul versante della documentazione storica, uno degli indizi più evidenti di questa parentela fra orfismo e pitagorismo è costituito dalle laminette orfiche o pitagoriche (di contenuti simili) rinvenute in gran numero nelle sepolture arcaiche della Magna Grecia (spesso si tratta di lamine d’oro, con iscrizioni che, in forma di lasciapassare o viatico, contengono vere e proprie indicazioni [anche “stradali”] utili al defunto per il viaggio nell’oltretomba). Nell’insegnamento di Pitagora era presente altresì la dottrina della metempsicosi, secondo la quale le anime vivono varie esistenze corporee, trasferendosi in organismi umani o animali, più o meno in alto nella scala degli esseri, a seconda del maggiore o minore affrancamento dalla materialità delle passioni corporee manifestato nell’esistenza precedente. Questo spiega il divieto per i Pitagorici di nutrirsi di carne, specie di alcuni animali, e la particolare considerazione di alcuni vegetali quali le fave, ritenute ricettacolo delle anime dei trapassati.

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L’aspetto che più interessa del pitagorismo è la grande attenzione che Pitagora e i suoi allievi mostrarono per le leggi matematiche che determinavano i fenomeni musicali (altro contatto con l’orfismo), che li condusse ad approfondire lo studio della matematica, oltre che della musica. Si può dire che la ricerca (historíe), che era stata propria della scuola ionica, della sostanza unica di tutte le cose, sia stata risolta da Pitagora con l’indicare come sostanza primordiale unica lo stesso sistema dei rapporti numerici, rivelato come il meccanismo imperante nella realtà (e si deve dire che questa teoria ebbe grandi sviluppi nella speculazione platonica sul mondo delle idee). Nell’espressione attribuita ai pitagorici: “tutto è numero”, e “il numero è la sostanza di tutte le cose” ci sono aspetti da chiarire. Sembra infatti che con questa affermazione i pitagorici non intendessero, almeno inizialmente, affermare che i numeri [interi] siano “archetipi” delle cose (ciò che sarà con l’idealismo platonico), ma che essi dessero alle loro parole un significato concreto, nel senso che tutti i corpi fossero formati da punti materiali o monadi (un seme dell’atomismo democriteo), disposti in un dato ordine geometrico. Per il pitagorico Eurito, ad esempio, il numero dell’uomo, o il numero del cavallo, erano rappresentati dal numero dei punti necessari a delinearne o disegnarne schematicamente la figura. La concezione pitagorica non fu senza influenza sulla geometria analitica, ma occorre rilevare che la considerazione originaria dei “punti pitagorici” non era puramente geometrica, bensì anche fisica. Il punto, elemento originario di tutte le cose, se da una parte conduceva alla loro rappresentazione geometrica, dall’altra era concepito come unità materiale concreta, monade, ciò che spiega la polemica della scuola eleatica nei confronti dei Pitagorici, che condusse alla concezione euclidea del punto geometrico privo di dimensioni. Nel sistema originario dei pitagorici, invece, il punto aveva una dimensione: essi non dicevano di poter determinare con esattezza il numero dei punti contenuti in un determinato segmento, ma affermavano che il numero di quei punti fosse un numero finito. Questo fondamento del loro universo crollò, oltre che per ineludibili critiche di Zenone eleatico, per il progredire della loro matematica, quando scoprirono che il lato e la diagonale di un quadrato sono incommensurabili: dato un quadrato di lato 1, la sua diagonale sarà 2, che è un numero, come essi stessi lo definirono, irrazionale. Fra l’altro, l’incommensurabilità fra diagonale e lato di un quadrato mostrava valido

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l’argomento di Zenone della infinita divisibilità dello spazio e dunque l’inesistenza dei piccoli punti con i quali i pitagorici costruivano l’universo. Per ciò che riguarda l’insegnamento pitagorico della matematica è importante l’osservazione di Aristosseno di Taranto (vissuto fra il 354 e il 400: molte notizie sull’attività del maestro le possiamo ricostruire solo da indizi forniti in opere più tarde), autore di un trattato di musica (2 libri di Elementi armonici), nel quale egli affermava significativamente che Pitagora “aveva elevato l’aritmetica al di sopra dei bisogni dei mercanti”, con allusione alla distinzione introdotta da Pitagora fra la logistica (ossia le regole pratiche di calcolo sui numeri interi, e dunque in pratica il mestiere del contabile che si serve del logos/ratio) e l’aritmetica intesa come vera e propria scienza dei numeri. Più in concreto, vengono attribuiti a Pitagora e alla sua scuola alcuni fondamenti della scienza matematica, quali la distinzione dei numeri in pari e dispari, la definizione dei numeri “amici” (o amicabili), la definizione dei numeri “perfetti”, la rappresentazione geometrica dei numeri interi mediante gruppi di punti disposti in modo da formare figure geometriche regolari, che permise ai pitagorici di conseguire risultati importanti relativi ai quadrati perfetti, alla somma dei termini in una progressione aritmetica. I discepoli di Pitagora più vicini al maestro, notava Aristotele, sostenevano che intendere significa misurare, inteso quasi come sinonimo di definire, e quasi di disegnare. Il disegno è linea, i piani sono insieme di linee, i solidi sono insieme di piani, e tutto è riconducibile al punto (che forma le linee, e quindi i piani e i solidi). I punti dunque sono ciò senza di cui nulla è, unità che nella molteplicità formano i numeri. Alla opposizione uno—molti si affiancano le opposizioni pari–dispari, luce–tenebre, bene–male, limitato–illimitato, destro–sinistro, maschio–femmina, quiete–movimento, dritto–curvo, quadrato–rettangolo. Il dispari, indivisibile, è riferibile all’unità, e dunque il dispari è bene e luce, il pari male e tenebre, e questo schema veniva applicato alla molteplicità del reale, espressa dalle diverse aggregazioni di punti, mediante l’uso dell’abaco, e visualizzata nello schema dello gnomone o squadra (importantissimo antenato degli assi cartesiani, impiegato anche nella costruzione degli orologi solari), utilizzato come generatore di quadrati (figure che portano con sé l’idea del perfetto, [mentre i rettangoli sono per contrasto l’imperfetto] “perché”, come osserva un commentatore di uno di questi frammenti dei

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pitagorici “hanno un centro (s’intende di simmetria”). Con le figure dispari i lati dello gnomone risultavano uguali, con le pari disuguali: così una serie infinita di quadrati è generata dai successivi gnomoni dispari (1, 3, 5, 7, 9, 11 etc.), riconducibili all’unità, mentre gnomoni pari, con i lati diseguali, generavano i numeri oblunghi dei rettangoli (2, 4, 6, 8 etc.). Una specie di condensato della magìa dei rapporti numerici era espresso nella formula grafica della tetráktys, la “quaternaria pitagorica”, costituita da 10 punti che individuavano la forma di un triangolo avente 4 punti per lato, la cui somma (1+2+3+4) equivale a 10 e costituiva il numero perfetto, racchiudendo in sé i numeri delle tre proporzioni musicali (l’ottava, la quinta e la quarta, espresse dalle relazioni 2:1, 3:2, 4:3) e delle quattro specie di enti geometrici (1 = punto, 2 = linea, 3 = superficie, 4 = solido), e dunque di tutte le cose. Risalgono ovviamente alle speculazioni dei pitagorici il teorema di Pitagora, il teorema secondo il quale la somma degli angoli interni di un triangolo è uguale a due angoli retti, la risoluzione geometrica delle equazioni di secondo grado, i primi elementi della teoria delle proporzioni e della similitudine, la scoperta dei numeri incommensurabili; la costruzione dei corpi cosmici, cioè dei cinque poliedri regolari (o almeno di alcuni fra di essi), la fondazione della geometria razionale. Intuizioni geniali dei pitagorici nella dottrina fisica fanno di loro i più antichi precursori di Copernico. Già il pitagorico Filolao abbandonava l’ipotesi più ovvia per l’uomo primitivo, quella geocentrica, a favore di una ipotesi che potremmo definire vagamente eliocentrica, per la quale la terra stessa, e tutti gli altri corpi celesti, si muovono intorno ad un fuoco centrale (Hestia = focolare o altare dell’universo). L’altra grande scuola di pensiero nata in Occidente fu quella eleatica, così detta da Elea, la città fondata a sud della Paestum romana dagli abitanti di Focea. I Focei della Ionia (diversi dai Focesi, abitanti della Focide, regione montuosa della Grecia centrale) nel 545–544, dopo che Ciro ebbe sconfitto Creso re di Lidia, e la Ionia fu caduta sotto il dominio dei Persiani, furono quasi i soli a rifiutare obbedienza al nuovo dominatore, e quando Ciro li strinse d’assedio essi caricarono tutte le loro cose sulle navi, e se ne andarono verso le isole e qui, essendo stato loro negato il permesso di stabilirvisi, proseguirono la navigazione verso Occidente e arrivarono a Cirno (ossia in Corsica), dove fondarono la città di Alalia e

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ancora in Gallia, dove fondarono la città di Massalia (odierna Marsiglia) per approdare infine in Lucania, dove fondarono Elea o Velia. Fra coloro che si stabilirono a Velia fu anche Senofane, nato nella Ionia, a Colofone (parola che significa summa, “colle”); anche di lui si dice che all’età di 25 anni non sopportò oltre di vivere nella sua patria, Colofone, che si era data ai Persiani di Ciro, e migrò verso Occidente, e alla fine approdò a Velia, che scelse come suo rifugio perché i suoi abitanti appartenevano alla sua stessa stirpe ionica. Di Senofane sono state tramandate idee critiche sulla concezione antropomorfica degli dei, che dominava nei poemi di Omero e di Esiodo: a questo riguardo egli aveva formulato l’osservazione, poi citatissima, che “se i buoi e i cavalli avessero le mani e sapessero disegnare, raffigurerebbero gli dei a loro somiglianza”. Allo stesso modo egli criticava di Omero ed Esiodo il fatto che costoro attribuissero agli dei comportamenti umani e immorali (invidie, gelosie, tradimenti, crimini), e aveva da dire anche sulla morale dei suoi contemporanei, e sul fatto che alla sapienza venissero anteposti la valentìa nelle gare atletiche o il valore militare in battaglia. Dunque, in questa fase di sviluppo così importante della civiltà greca, egli proseguiva sulla scia di questi cosiddetti “presocratici” nella critica del mito e nella fede nel pensiero logico. Contro gli ideali individualistici e competitivi dell’aristocrazia (valor militare e prestanza atletica) egli diveniva sostenitore di una agathé sophíe, una saggezza apportatrice di bene, utile al progresso della polis. Resta dubbia, tuttavia, nonostante una testimonianza di Platone, la sua partecipazione a una vera e propria fondazione della scuola eleatica21. Massimo rappresentante della scuola eleatica fu Parmenide, che in qualche caso viene indicato dagli autori antichi non come allievo di Senofane (così la maggior parte dei dossografi) ma addirittura come colui che, pur essendo in giovane età, influenzò con il fascino potente della sua dottrina il corso speculativo di Senofane ormai maturo, allorché costui scelse di stabilirsi a Velia. L’acmé di Parmenide, coincidente con il suo 21

Abbiamo notato la bizzarria di talune delle osservazioni contenute nei frammenti superstiti degli scritti di questi antichi filosofi. Su questa apparente bizzarria si deve osservare che spesso l’oscurità di questi pensatori derivava appunto dalla frammentarietà delle testimonianze note: spesso ne sono fonte citazioni fatte dai loro avversari per confutarle, e dunque sono state per lo più appositamente decontestualizzate. Ma si deve anche considerare, a proposito di questi primi esempi di “prosa scientifica”, che essi furono per l’appunto i primi tentativi di utilizzare la prosa nell’analisi di una concettualità di per sé ostica.

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quarantesimo anno, viene collocata intorno al 500, e dunque è probabile che egli sia nato nel 540. Di lui ci limitiamo a dire che elaborò la famosa dottrina eleatica dell’Essere inteso come pensiero e dell’Ente come pensante, che fu di importanza fondamentale nella storia del pensiero filosofico greco, sia come base della dottrina dell’unico dio (già presente in Senofane, fautore di una religiosità in contrasto stridente col panorama del politeismo ellenico), sia per la definizione dei princìpi logici, come il principio di identità e non contraddizione, che poi sarà alla base della speculazione aristotelica. Né ci dilungheremo, ovviamente, sui particolari aspetti della filosofia di Parmenide (seme originario degli idealismi di là da venire), ma accenneremo soltanto alla loro “ricaduta” sulla critica dei concetti geometrici, attestata esplicitamente da Proclo nel commento ad Euclide, dove si afferma che la definizione euclidea (secondo la quale “il punto non ha parti”) è “conforme al criterio di Parmenide”, secondo il quale “le definizioni negative convengono ai princìpi”. Dunque già gli antichi affermavano che questo concetto puramente razionale degli enti geometrici, quale troviamo in Euclide, risaliva a Parmenide che l’aveva proposta per primo, mentre a Zenone, discepolo di Parmenide, era attribuito il merito di averla polemicamente rafforzata di contro alla concezione monadica del punto, sostenuta dai pitagorici. In effetti Zenone (la cui acmé cade fra il 464 e il 460, e che dunque era nato fra il 504 e il 500) fu noto soprattutto per le argomentazioni (o “paradossi”, ossia ragionamenti che sfatano la communis opinio) con i quali si sforzò polemicamente di rafforzare l’asserto di Parmenide che la sola realtà esente da ogni contraddizione fosse riscontrabile nell’ente (to eón = “ciò che è”), e nella sua totale indipendenza da ogni predicazione particolare: unico, ingenerato, indistruttibile, intero, di un solo genere, immobile. Proprio a difesa di questa unicità ed immobilità dell’ente Zenone si diede alla ricerca di tutti gli argomenti possibili per mostrare la non esistenza del moto. E lo fece seguendo il metodo della dimostrazione indiretta della propria tesi, mediante la riduzione ad assurdo della tesi contraddittoria, ciò che gli valse il titolo, datogli da Aristotele, di “inventore della dialettica”, mentre l’ingegnosità dei suoi paradossi spinse Platone a chiamarlo ironicamente il “Palamede eleate” (Palamede era, nelle leggende del ciclo troiano, l’artigiano celebre per la versatilità dell’ingegno, cui fu affidata la costruzione del famoso cavallo di Troia).

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Agli argomenti del senso comune, che nel monismo di Parmenide vedeva negata paradossalmente ogni evidenza e molteplicità fenomenica, Zenone oppose insomma la tesi che non minori assurdi derivavano proprio dalla presupposizione della molteplicità e del “movimento”. Questo sforzo dimostrativo ebbe il suo exploit proprio nell’ambito della polemica fra eleati e pitagorici riguardo alla questione della divisibilità della materia e il concetto di “infinito”, già adombrato nell’apeiron (sostanza cosmica primitiva) di Anassimandro: un indirizzo di pensiero che, ancora in età recentissima, viene considerato archetipo di intuizioni come quella di Heisenberg delle “particelle elementari” che costituiscono la sostanza fondamentale dell’universo e che “non possono obbedire alle medesime leggi cui sono sottoposti gli elementi visibili”22. La polemica fra pitagorici ed eleati approfondì molto la questione della divisibilità infinita della materia e della — si direbbe oggi — continuità dello spazio. Abbiamo visto come i primi pitagorici ritenessero la materia “discontinua”, cioè composta di particelle elementari o “monadi”, alle quali da una parte si riconosceva fisionomia di “punti”, dall’altra si concedeva pure una qualche estensione. Questa teoria era una teoria fisica, ma anche geometrica, nel senso che, ad esempio, la linea veniva concepita come una serie o gruppo ordinato di punti: gli “enti geometrici” erano ancora pensati, nella aritmogeometria dei Pitagorici, in modo empirico (ossia, tanto per intenderci, la linea era concepita alla stregua di una fila di punti, concepiti a loro volta come minutissime particelle) anche se, per il resto, lo sviluppo delle dimostrazioni tendeva a fare della geometria una scienza razionale. Solo la scoperta degli incommensurabili, fatta dalla stessa scuola pitagorica, mise in luce, già all’interno della scuola, quell’errore insito nel presupposto dei punti–monadi che diede luogo ad una prima crisi delle loro dottrine. Su questo punto debole si concentrò la revisione degli Eleati: Parmenide e soprattutto Zenone, che fu definito per questo motivo “l’uomo del destino della matematica antica”. Zenone era convinto, sulla scia di Parmenide, del fatto che la materia fosse da considerare compatta, continua e illimitatamente divisibile; la superficie, annotava Zenone a questo proposito, “non è un velo di piccolo spessore, bensì una pura divisione di spazi contigui”. 22

PAUL K. FEYERABEND, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza. Mi-

lano 1979.

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Era, quello di Zenone, un concentrarsi sugli aspetti più promettenti della speculazione di Parmenide, quelli che contenevano in nuce [come già annotava Proclo nel suo commento ad Euclide] la importantissima e basilare definizione degli enti geometrici come enti astratti, negando al punto ogni dimensione, alla linea ogni larghezza, alla superficie ogni spessore. Allo stesso modo Zenone giunse ad affermare la “continuità” di tali enti e dello spazio che li contiene, e la loro indefinita divisibilità, muovendo così i primi passi verso le concezioni e i procedimenti infinitesimali. Queste idee furono sviluppate da Zenone in una serie di argomenti che assunsero la forma — come abbiamo detto — di “riduzioni all’assurdo” della tesi pitagorica, e apparirono come sofismi a chi non teneva presente questo loro significato. Vediamo quali erano questi argomenti, volti a mostrare la non esistenza della duplicità e del moto: un punto non può percorrere, con il moto, una linea A–B, perché dovrebbe percorrere prima la linea A–C (che sia metà di A–B), poi, prima ancora di arrivare in C, dovrebbe percorrere la linea A–D, (che sia la metà di A–C) e così via, fino ad un infinito irraggiungibile (argomento detto della dicotomìa, ossia della divisione per due). Nell’ancora più celebre argomento del pie’ veloce Achille e della tartaruga Zenone sosteneva che Achille pie’ veloce non puo’ raggiungere nella corsa la tartaruga, solo che le dia un certo vantaggio iniziale A–T, perché a tale scopo dovrebbe il punto mobile più celere A venire a coincidere con il più lento T; ma quando il punto A è arrivato in T (percorrendo l’intervallo A–T, poniamo di mille metri) allora T sarà giunto in T1, percorrendo nel frattempo l’intervallo T–T1 (ad esempio 10 metri). E quando T giunga a T1, T1 si troverà un po’ più avanti, in T”, un metro più in là e così via all’infinito irraggiungibile: questi argomenti sarebbero probativi se il punto, e perciò ogni segmento, per quanto piccolo, avesse dimensioni e dunque un minimo di estensione. Di grande interesse, fra gli argomenti contro la molteplicità e il moto, quello detto “dello stadio”, ambientato nello scenario familiarissimo ai Greci delle gare di corsa negli agòni ginnici: considerando nello stadio un punto mobile che si muova con una certa velocità, si potrà dire che esso si muove alla velocità, poniamo, di dieci chilometri orari se lo si osserva da un punto fermo, ma questa velocità raddoppierà se il punto di osservazione è un punto mobile che proceda alla sua stessa velocità, ma in senso contrario, o esso risulterà addirittura immobile rispetto ad altro punto

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che si muove con la stessa velocità nella stessa direzione e nello stesso senso. Dunque la velocità del movimento, stabilita sulla base di un punto di osservazione, è da considerarsi illusoria. Anche qui, chi ha un minimo di conoscenza delle linee evolutive del pensiero scientifico non può non cogliere in queste elaborazioni logiche il seme della riflessione che poi sarebbe stata sviluppata nelle osservazioni di Galileo sulla relatività dei moti, radice delle speculazioni di Einstein. Sulla specifica questione del peso dei paradossi di Zenone nello sviluppo successivo della scienza matematica greca (il calcolo infinitesimale e il metodo di esaustione) riparleremo a proposito di Eudosso di Cnido. Vale la pena, invece, di inserire a questo punto, a conclusione del nostro discorso sul periodo più antico della cultura scientifica dei Greci, una nota sugli influssi esercitati dall’attività dei primi speculatori “fisici”, come Anassimandro e Senofane, nel contesto culturale coevo, che vedeva fiorire l’attività dei logografi: scrittori di discorsi a pagamento, ma anche autori di cronache e memoriali su viaggi, terre lontane (e tempi lontani), che molto appassionarono la prima generazione di acculturati lettori greci, presso i quali è già operante la moda dell’esotismo, efficacemente condensata in un’affermazione di Erodoto: “le parti più lontane del mondo ebbero in sorte le cose più belle”23. Il più importante di costoro fu sicuramente Ecatèo di Mileto, attivo nella stessa patria dei filosofi della scuola ionica, la cui acmé è fissata intorno all’anno 500 (sarebbe nato nel 540 a.C.), che qualcuno ha chiamato “padre della storia”, quasi anteponendolo ed opponendolo ad Erodoto. Non si può dire che Ecateo sia stato discepolo di Anassimandro, ma sicuramente egli faceva riferimento anche all’insegnamento di quest’ultimo, sia per la sistematica applicazione, di cui abbiamo già parlato, della historíe (metodo d’indagine critico) ai materiali “storici” della logografia, sia per ciò che riguardava in specie la rappresentazione geografica della prima carta del mondo, delineato nei suoi tratti essenziali come un cilindro (un cilindro schiacciato, naturalmente), sulla cui superficie piatta poteva essere abbozzato il primo inizio di una rappresentazione schematica, che si prestava come canovaccio aperto ad essere completato con maggiori particolari. Proprio in questa direzione si mosse Ecateo con la sua opera intitolata Perihvghsi" oppure Perivodo", nella quale egli raccolse, a beneficio di un pubblico amante di esotismi, le numerose informazioni “geografiche” di 23

III 106: Aij ejscatiai; th'" oijkoumevnh" ta; kavllista e[lacon.

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cui disponeva, tratte in parte dai primi rudimentali portolani (che cominciavano a diffondersi come sussidio pratico per la navigazione di piccolo cabotaggio, nei quali erano segnalati distanze, foci, promontori, porti), in parte — specie per quanto riguardava le regioni interne lontane dalla costa, dalle sue esperienze di viaggio, soprattutto in Oriente (in Persia) e in Egitto. Non possiamo sapere né congetturare più di tanto su questa operazione di riempimento effettuata da Ecateo, se non che — in genere, egli cercò di adattare i dati utilizzati nella stesura entro forme geometriche per lo più costrittive, che facilitarono la trasposizione dei dati sulla carta geografica, ma fecero violenza agli elementi di verità contenuti nella base documentaria. Questa fu già, infatti, la critica mossa ad Ecateo da Erodoto (il vero padre della storia), che non poco si impegnò a confutare i contenuti della carta di Ecateo. Un problema analogo a quello geografico si presentava, in questi primi trattati di sintesi universale, sull’altro versante, quello della cronologia della storia degli umani, per la mancanza di una griglia cronologica di riferimento, che si prestasse ad incasellare i dati relativi agli eventi del passato. Ecateo aveva cercato di risolvere questo problema adottando come lista cronologica di riferimento quella dei re di Sparta, ma si trovò in difficoltà a conguagliarle, queste liste, con altre molto diverse, come quelle degli arconti ateniesi (i re spartani erano 2, gli arconti ateniesi molti di più). Fra i tentativi più seri va ricordato, oltre a quello di Ecateo, quello di Ellanico di Lesbo (vissuto fra il 490 e il 400), che adottò come riferimento la lista delle sacerdotesse del tempio di Era argiva (la Giunone di Argo). E furono molti altri i tentativi, dei quali non è il caso di dare qui conto, di creare una lista cronologica concordata e collaudata, che per il mondo greco si ebbe solo nell’età alessandrina, assumendo come base i cicli quadriennali o penteterici delle Olimpiadi. Altro esempio dell’influsso esercitato dalla speculazione sulla più vasta cultura dei logografi è dato dal diffondersi del “disprezzo” della leggenda e del mito (dietro il quale spesso si celano le verità della geografia e della storia): un atteggiamento che troviamo già nello stesso Ecateo e che si sviluppa di pari passo con lo spirito critico inaugurato, come si è visto, da Senofane. Nelle Genealogie (è questo il titolo di un’altra opera di Ecateo) egli illustra questo genere di ricerca programmatica della verità dicendo: “Io scrivo queste cose — è l’incipit dell’opera — come a me sembrano vere: infatti i racconti dei Greci sono, a mio parere, molti e de-

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gni di riso”. Lo stesso spirito, contro l’edificio della teogonia omerica ed esiodea, gli fa raccontare della sorpresa provata nello scoprire come l’età degli dei risalisse molto più indietro di quanto non pensassero i Greci, scoperta che avvenne durante un suo viaggio in Egitto, allorché ad Ecateo, che vantava un dio come antenato nella sedicesima generazione della sua stirpe, furono mostrate le statue di 345 sacerdoti del tempio di Ammone, tutti discendenti l’uno dall’altro, fino al primo e al più antico, che pure era un uomo, e non un dio.

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5 Il periodo classico e l’egemonia culturale di Atene (480–323 a.C.) La periodizzazione non è, ovviamente, una pura partizione di comodo: la battaglia di Salamina, che nel 480 aveva preannunciato il definitivo fallimento del progetto di conquista dei Persiani, apriva il periodo del predominio di Atene e preludeva ad una generale evoluzione, in molte anche se non in tutte le città greche e in particolare ad Atene, verso forme di governo democratiche. Una evoluzione che caratterizzò tutto il quinto secolo e pose i Greci di fronte alla necessità di rendere effettivamente operanti le loro democrazie, soprattutto preparando un congruo numero di uomini politici adatti alla bisogna. Questo lavoro, questa funzione, fu assolta da professionisti, per la prima volta nella storia su così larga scala, e questi furono i sofisti. Fu una evoluzione piuttosto lenta, a dire il vero, e difficile, che accompagnò la riforma timocratica della società ateniese avviata da Solone (584), e già questo mutamento delle regole del gioco politico (la ricchezza diventava più importante della nobiltà di sangue) mise in pericolo gli equilibri consolidati del regime aristocratico degli eupàtridi (eupatrìdi alla greca) e i nuovi equilibri furono imposti a volte con la forza della tirannide di Pisistrato (561–566; 546–528), che fondava il suo potere sull’appoggio dei popolari contro i nobili. Una sterzata ancor più efficace in senso democratico si ebbe con il governo di Clìstene (attorno al 508) e la costituzione delle tribù territoriali, che rimpiazzarono le tribù gentilizie e spezzarono definitivamente il predominio degli eupàtridi (i patrizi, diranno i Romani) ancorando i meccanismi di rappresentanza politica alla realtà demografica territoriale. Il culmine si ebbe con l’avvento di Efialte e soprattutto di Pericle (461–429), che della ulteriore democratizzazione della vita politica (perseguita attraverso il sistema della remunerazione dei pubblici incarichi o “mistoforìa”) fece uno dei punti qualificanti della sua

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azione, insieme con il disegno, esplicitamente enunciato, di voler fare di Atene “la scuola dell’Ellade”. Cosa c’era dietro a Pericle? Ecco che spunta la figura di un filosofo–scienziato, al quale si riconosce il gran merito di aver portato ad Atene quella filosofia (culto del sapere) che finora abbiamo visto svilupparsi solo nella Ionia o in Magna Grecia. Il nome è quello di Anassagora di Clazòmene (città della Ionia il cui nome significa “le latranti” o “le mugghianti”, forse per la risacca del mare intorno all’isolotto– promontorio su cui essa sorgeva), nato anch’egli nella patria del pensiero scientifico, fra il 500 e il 496 circa. Venuto ad Atene nei suoi 38 anni, nel 462 (che non a caso è l’anno in cui Efialte imbastiva la sua azione volta ad esautorare il potere oligarchico dell’Areopago) vi restò per circa 30 anni, divenendo grande amico e maestro di Pericle, che dopo l’assassinio di Efialte (ucciso dagli oligarchi per vendetta) era rimasto capo incontrastato del partito popolare. Un aneddoto riferisce che Anassagora, al momento di ricevere la sua eredità familiare, la rifiutò per non essere distolto dalle sue ricerche, e a quelli che gli chiedevano: “e allora a che scopo vivi?” rispose “contemplare e studiare il sole, la luna e il cielo”; ma va precisato, pur senza almanaccare sul suo sistema filosofico, che la sua indagine sulla realtà non si limitava ad una pura e semplice osservazione del mondo fenomenico, ma approdava alla identificazione di una sostanza primordiale di particelle o elementi originari o “semi” (che Aristotele chiamerà “omeomerie”) e di una superiore entità ordinatrice della realtà concettuale (l’Intelletto, o la Mente [“Noùs”], che egli spesso nominava e che finì per diventare una specie di soprannome dello stesso Anassagora), che si combinavano fra di loro secondo la logica dettata da quell’intelletto universale ordinatore postulato, nella concezione di Anassagora, dalla naturale inclinazione dei singoli umani intelletti alla ordinata distinzione del reale. Chi vedeva di malocchio la spregiudicata attività politica di Pericle attribuiva a questo suo amico il ruolo di maestro e occulto consigliere dei modi della sua “diabolica” abilità: il gruppo dei conservatori montò contro Anassagora un processo basato su accuse di empietà, per aver negato gli dei ed introdotto empie teorie sulla natura dei fenomeni celesti (432). A Pericle riuscì soltanto di non farlo condannare a morte, e Anassagora dovette però fuggire da Atene, ritirandosi a Lampsaco (sulla costa asiatica dell’Ellesponto), dove morì nel 428.

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Questo modo nuovo di pensare guadagnò a posteriori ad Anassagora la fama di sofista (Arpocrazione e Ateneo lo definiscono tale), ma in realtà era il seme della nuova cultura che in Atene era richiesta dall’estensione dei meccanismi della democrazia. Interessante ciò che riferisce Plutarco sulle cose dette da Anassagora a proposito della caduta di un meteorite su Egospotami (torrente del Chersoneso tracico che sfocia nell’Ellesponto), località in seguito divenuta famosa per la sanguinosa battaglia navale vinta dagli Spartani comandati da Lisandro, che segnò la fine del predominio navale ateniese. Allorché “una grande pietra [un meteorite] cadde dal cielo su Egospotami, mentre gli abitanti del Chersoneso presero a venerarla, si dice che Anassagora [già esule nella vicina Lampsaco] sostenesse che quella pietra proveniva da uno dei corpi celesti sui quali si era verificata una frana o un terremoto, così che questa pietra era stata divelta ed era precipitata su di noi… e che i corpi di questa pietra [cadendo] risplendono per la loro resistenza all’etere” (PLUT., Lys. 12). Dunque, uno scienziato ben aperto all’osservazione dei fenomeni naturali secondo il metodo critico che più volte abbiamo illustrato, e che ci fa comprendere quali fossero in dettaglio le colpe di Anassagora agli occhi dei ben pensanti ateniesi. È interessante la traccia di polemica che troviamo addirittura in Platone contro i “nostri moderni sapienti, fonte di mali” perché turbano con le loro teorie l’equilibrio religioso della società. Platone lamentava insomma l’oltraggio subito da lui e da altri filosofi che si affannavano ad addurre prove sull’esistenza degli dei, e presentavano i corpi celesti come divinità, per sentirsi rispondere con scherno dalla gente comune “che questi corpi non sono che terra e pietre, assolutamente incapaci di darsi pensiero delle cose umane”, affermazione questa che veniva giudicata particolarmente pericolosa proprio perché accompagnata da coscienza critica: “e convalidano questi loro principi con argomentazioni che in un certo senso sono convincenti!” (Leggi, 886e). Le parole di Platone sono un’eco delle reazioni dei “conservatori” (Platone lo era, ad onta della sua dottrina) alla predicazione di Anassagora, ed è notevole il fatto che Platone sottolinei come le parole di Anassagora (che abbiamo già visto sottilmente schernito nel Fedone) fossero “convincenti”, ossia verosimili, fondate su ipotesi ben formulate. Leggiamo infatti in uno dei frammenti conservati di Anassagora: “per la debolezza dei sensi non siamo capaci di discernere il vero: ma

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possiamo valerci dell’esperienza, della memoria, e dell’arte nostre proprie; perché ciò che appare è un fenomeno di ciò che non si vede con gli occhi” (fr. 21). Vi scorgiamo l’indicazione di un metodo preciso, che passa per successive fasi: accoglimento di dati vagliati, collegati fra loro, interpretati (questa è l’esperienza), per i quali bisogna trascorrere (memoria) e che si ottengono mediante certe arti (téchnai) e certi strumenti. Non è un caso che Anassagora dica darwinianamente che l’uomo è superiore agli altri animali “in virtù del possesso delle mani”, mentre Platone e Aristotele diranno che egli tale è in virtù della sua capacità di vedere, ossia di contemplare: un paradigma, questo, del difetto basilare riscontrato nel pensiero di Anassagora dalle critiche di Platone e Aristotele, che vi vedevano predominare un principio ordinatore più meccanico che teleologico, nel contesto di spregio delle tecniche e di assoluto predominio della pura teoresi che la grande filosofia aveva ormai instaurato d’autorità. Il metodo di Anassagora dell’appello all’ipotesi verosimile, che serve al proseguimento dell’indagine della natura mediante le tecniche che possono modificare la natura stessa, richiama curiosamente quanto leggiamo in un testo del corpus Hippocraticum intitolato Sull’arte (Perì téchnes), risalente alla saeconda metà del V secolo (dunque coevo di Anassagora), dove leggiamo: “vi sono alcuni che si sono fatti un’arte di descrivere le arti: personalmente penso che lo scopo e l’opera dell’intelligenza sia di scoprire alcune cose che ancora non lo sono state, e di condurre a termine in questo campo ciò che ancora è stato fatto solo a metà”. E altrove, nel trattatello intitolato Antica medicina, dove, in polemica con le speculazioni puramente teoriche, si afferma che, fra i saperi, la medicina riesce a cogliere il vero perché già da tempo ha trovato “il principio (arché) e la via (odós)”, ossia il metodo giusto di ricerca, quasi sottintendendo che unico e uno solo sia il metodo di ogni ricerca: non già quello schematicamente imposto da una concezione filosofica preordinata ma quello originato dalla osservazione della realtà indiziaria e specifica dei “sintomi”. Cos’era questo corpus Hippocraticum? Si tratta di una sessantina di trattazioni, a noi conservate per intero (anche questa è una novità, rispetto ai frammenti trovati finora), che gli antichi copisti attribuivano a Ippocrate di Cos (Cos è un’isola delle Cicladi), vissuto fra il 460 e il 377. L’analisi della tradizione (ossia la collazione delle copie conservate nei manoscritti, dunque delle repliche esistenti) ha mostrato che queste sessanta operette non possono farsi risalire tutte ad Ippocrate, e noi non

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possiamo qui dilungarci sul loro contenuto, se non per accennare alle indicazioni di metodo contenute nella dottrina ippocratica, la quale, in polemica con l’asserto di altre scuole di medicina attive in quell’epoca (quella di Alcmeone di Crotone, di ascendenza pitagorica; quella di Cnido nella Ionia), criticava il loro basarsi su “teorie generali” astratte e rigide e si richiamava alla vecchia tecnica medica (l’antica medicina, appunto) che rifuggiva dallo specioso teorizzare (loghismós) ed era attenta all’esperienza e al ragionamento (lógos) presi insieme. È un primo avvio, questo, nella concretezza della pratica, della vera indagine scientifica per esperimenti, che è strettamente imparentata con l’atteggiamento di Anassagora, e che parte — caratterizzandosi come un impulso razionalistico proprio di questo “secolo della democrazia” — dalla critica consapevolezza della impossibilità di cogliere l’essenza della realtà sul piano strettamente logico (importanza già affermata da Zenone, che si rivela sempre più importante, contro i Pitagorici). In effetti, il forte impulso dato dalla scuola di pensiero eleatica, soprattutto da Parmenide, alla fede nella ragione e nell’intelletto, considerati unico vero motore del processo cognitivo, di contro ai risultati ingannevoli dei sensi (e quindi della scienza di osservazione), spiega l’atteggiamento degli ultimi due grandi pensatori “fisici” che possiamo chiamare “presocratici”: Empedocle di Agrigento (Akragas, colonia greca in Sicilia, dove egli era nato nel 483–2) e Democrito di Àbdera (città della Tracia). Il primo, a parte i suoi contributi alla ormai classica ricerca degli elementi primordiali (terra, acqua, aria e fuoco rizómata ton pánton, ossia “radici di tutte le cose”: così enumerandoli Empedocle rinunciava alla unità ionica o eleatica della sostanza promordiale), è noto soprattutto per la tenacia delle sue sperimentazioni volte a mostrare la corporeità dell’aria (il meno visibile dei quattro elementi): Empedocle fece notare per primo che, se l’estremità aperta di una clessidra (ossia di un recipiente a forma di cono) veniva immersa nell’acqua mentre si teneva un dito sul foro all’estremità del cono (dunque, rovesciando il recipiente), l’aria contenuta nella clessidra impediva all’acqua di inondarla; indizio della sua manìa di sperimentare può considerarsi la tradizione secondo la quale egli sarebbe morto, nel 432, gettandosi nel cratere dell’Etna (una fine simile a quella, avvenuta secoli più tardi, di Plinio il Vecchio). Nella stessa direzione di Empedocle, sulla base della constatazione sperimentalmente documentata che la natura opera per mezzo di corpi

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invisibili, si svolse la ricerca degli atomisti, il cui caposcuola, Leucippo di Mileto, fu superato nella fama dall’allievo Democrito. La fortunata teoria dell’atomo elaborata da Democrito può considerarsi in qualche modo rinata nella chimica moderna con l’enunciazione della teoria atomica di John Dalton agl’inizi del XIX secolo: è ovvio che la teoria di Dalton non avesse nulla a che vedere con quella di Democrito, ma nondimeno è interessante notare come la realtà individuata da Dalton avesse già il suo nome antico di “atomo” da più di duemila anni. Senza criticare il concetto di spazio geometrico elaborato in seno alla scuola eleatica, si ammetteva che il procedimento di divisione all’infinito era possibile, ma soltanto nel campo logico–matematico, mentre l’esperienza del reale mostrava che un’infinita divisione della materia avrebbe finito col dissolvere questa nel nulla, ossia in uno stato di non materia. Democrito sostenne dunque l’esistenza di uno spazio “fisico” (diverso da quello geometrico dei Pitagorici e soprattutto degli Eleati), quello dell’universo reale, costituito di due elementi: atomi e vuoto. L’asserzione dell’esistenza del vuoto, ossia di un “non essere” contrario ai principi di Parmenide, era bilanciato dalle caratteristiche attribuite all’atomo democriteo: increato ed eterno, unico e indivisibile (tale esso restò a lungo, fino alla fissione nucleare) e incapace di mutamento, ma anche protagonista della realtà fisica, fatta di atomi identici nella sostanza, ma differenti per dimensioni, posizione e forma, esistenti in numero infinito in un vuoto di infinita estensione, dentro il quale il movimento e il combinarsi degli degli atomi generavano la perpetua varietà del reale, enunciata da Eràclito, e le trasformazioni della materia nei processi di digestione, investigati ad esempio da Anassagora: una diversa combinazione degli stessi atomi poteva dunque ben trasformare il pane in carne e sangue, allo stesso modo in cui una diversa disposizione delle lettere dell’alfabeto poteva trasformare una tragedia in commedia. Anche i pitagorici avevano tentato di costruire un universo fatto di punti forniti di volume, ma dopo aver scoperto che lo spazio era divisibile all’infinito, non avevano saputo definire il monadismo dei loro punti. L’atomo democriteo, invece, si presentava come realtà “fisica” fornita di dimensione e volume, divisibile spazialmente ma non divisibile fisicamente, impenetrabile, e soprattutto definito concettualmente con inimitata efficacia. In Atene il nuovo clima culturale, caratterizzato da un travolgente processo di espansione indotto dalla politica imperialistica di Pericle, na-

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turalmente conduceva a interpretare la funzione del sapere anche nel senso della ricerca di tecniche operative quali erano, fra l’altro, richieste dalla crescita urbanistica e dalla trasformazione della città: costruzione di monumenti, di strade, di strumenti di lavoro. Sono questi gli anni in cui Fidia costruiva il Partenone, insieme con gli architetti Ictino e Callicrate; Agatarco di Samo si occupava di scenografia e prospettiva; Diodoro e Pronomo inventavano una nuova tecnica di costruzione di flauti e di altri strumenti musicali, Ippodamo di Mileto fondava la scienza urbanistica delineando il piano di una città ideale, costruendo il nuovo porto del Pireo e disegnando le planimetrie della colonia panellenica di Turi nella Magna Grecia, sul sito dell’antica Sibari (impresa tenacemente voluta da Pericle nel 444, alla quale parteciparono anche lo storico Erodoto e Protagora il sofista). Tutto ciò poneva le premesse per aperture sociali ed economiche sempre più vaste rinnovando, in Atene, la situazione in cui a Mileto era fiorita la scuola ionica, e tutto questo ci aiuta a capire come l’Atene di Pericle sia divenuta il terreno più propizio per l’attività dei sofisti. Con Anassagora e la scuola medica di Cos, specie con Ippocrate, abbiamo visto prendere forma un nuovo modo di atteggiarsi della scienza, finalmente approdata ad Atene (anche Ippocrate fu presente nella città durante la epidemia di peste che uccise anche Pericle nel 429). Questo nuovo atteggiamento si concretò in un metodo d’indagine che non partiva più da un punto di vista immobile, speculativo, ma era avviata da uno scienziato indagatore attivo che si serviva di suoi strumenti (esperienza, memoria, intelletto aveva detto Anassagora) e, indipendentemente dal ricorso alla divinità, e anzi dando una spiegazione di come siano nate le divinità, in risposta di esigenze umane, si inseriva nei meccanismi della natura per “modificarla proseguendone l’opera”. Il movimento sofistico, che nasce e per dir così esplode in Atene con queste premesse, raggiungendo il culmine verso la metà di questo quinto secolo, dunque intorno al 450, non va visto — come invece molti hanno intrepretato — come una reazione in senso umanistico dei sofisti contro il naturalismo presocratico di coloro che Aristotele chiamava “fisici”, e anzi si può dire che quel naturalismo dei fisici sia stato alla base della formazione culturale dei sofisti. La migliore espressione del clima culturale che si respirava ad Atene in questo periodo la cogliamo in alcune parole di un personaggio

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dell’Antigone di Sofocle (tragedia rappresentata nel 411) dove si dice: “molte sono le cose meravigliose, ma nessuna più meravigliosa dell’uomo”, visto come inventore delle arti, che ha vinto il mare, ha vinto la terra, ha costruito case e città, “e a sé stesso ha insegnato l’uso dell’agile pensiero espresso in parole, e l’impulso a ordinare le città”. È evidente in questi versi la totale adesione di Sofocle all’ideale propugnato da Protagora di Àbdera (città della Tracia, che abbiamo già ricordato come patria di Democrito), il più famoso fra i sofisti, vissuto fra il 486 e il 411, che ad Atene tenne a lungo il suo insegnamento (era sicuramente fra i maestri più apprezzati dai giovani ateniesi, e anche fra i meglio pagati). Protagora, come leggiamo nel primo dei suoi frammenti, diceva: “l’uomo è la misura (métron) di tutte le cose (chrémata), di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono”, e in quest’ultima affermazione mostra con evidenza un contatto con le posizioni della scuola eleatica di Parmenide e Zenone. Egli non fu solamente venale professionista dell’insegnamento, ma ebbe contatti significativi con Pericle, che gli affidò il compito di dare le leggi alla colonia panellenica di Turi in Magna Grecia. Anche Protagora ebbe i suoi guai con l’establishment ateniese conservatore, e dovette andarsene da Atene nel 411, e anzi questo viaggio gli fu fatale, dal momento che la nave che lo trasferiva fece naufragio, e Protagora morì annegato. L’altro grande famosissimo sofista fu Gorgia da Leontini o Lentini, città della Sicilia, formato alla scuola pitagorica, ma anche attento alle suggestioni eleatiche, e noto come il “fondatore della retorica” (tale lo considerava Aristotele, così come dallo stesso Aristotele Zenone era stato definito inventore della dialettica). Era un grandissimo parlatore, ed era capitato ad Atene per un’ambasceria, e in pratica era tanto piaciuto agli Ateniesi che essi non lo avevano più lasciato partire. Anche Gorgia ebbe una sua scuola per giovani facoltosi avviati alla politica, e visse una lunga vita (nato nel 485, pare sia morto all’età di 109 anni). Naturalmente, per le esigenze di questo nostro corso, ci soffermeremo più a lungo su quei sofisti che si occuparono più di scienza, come Ippia di Elide, nato nel 443, morto prima del 350, appartenente alla generazione di sofisti che arrivarono ad Atene un po’ dopo Protagora e Gorgia. Grande viaggiatore e conferenziere (specie a Sparta), protagonista di due dialoghi platonici (l’Ippia maggiore e l’Ippia minore), esperto ar-

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cheologia (nel senso di antiquaria) e di mnemotecnica, come egli stesso si qualifica nell’Ippia maggiore. Fra i sofisti, fu quello che più coltivò lo studio della matematica, della geometria e dell’astronomia. Il problema della trisezione dell’angolo lo condusse a scoprire la prima curva che si sia trovata dopo il cerchio: una curva trascendente, che per l’uso che se ne può fare nella quadratura del cerchio, fu da lui stesso denominata tetragonizusa (ossia quadratrice). La curva in questione non poteva essere costruita che per punti (o con lo strumento costruito dallo stesso Ippia), e come tale fu oggetto di critiche da parte dei geometri greci, che ritenevano proponibili soltanto disegni realizzati con riga e compasso; va anche detto che le sue proprietà per la quadratura non furono però dimostrate che da Dinostrato con un procedimento di esaustione: di qui il fatto che la quadratrice di Ippia si denomina anche quadratrice di Dinostrato. L’ideale dell’autárcheia (= badare e bastare a sé stessi), propugnato da Ippia, non va intesa nel senso passivo che sarà poi dei filosofi cinici, e poi degli stoici (che la facevano discendere dalla rinuncia alle cose, e dunque dalla liberazione dai desideri e dai bisogni cui esse inducevano), ma in quello attivo della maggiore possibile capacità di badare a sé stessi nelle vicende e nelle necessità della vita. Di qui il vanto di Ippia di sapersi fare da sé il necessario, per esempio tutti gli oggetti di abbigliamento e di ornamento, come fibule ed altri oggetti di metallo: vanto che, rivalutando le opere manuali e umili, contro il disdegno della tradizionale etica aristocratica instaurava una nuova era nella concezione antica del lavoro. Di qui anche lo studio di possedere e dominare le conoscenze e le esperienze umane, e d’insegnare l’arte di tale possesso, culminante nella mnemotecnica, o tecnica della memoria. Uno dei problemi matematici più in voga all’epoca, accanto a quello della quadratura del cerchio, era quello della la duplicazione del quadrato e del cubo, per la difficoltà presentata, come si è accennato, dall’esistenza dei numeri “indicibili” (árreta), poi detti “irrazionali” (álogoi). Alla duplicazione del cubo, o “problema di Delo” (così detto perché secondo la leggenda (conservata da Eutocio) l’oracolo di Delo avrebbe richiesto ai Delii di duplicare uno degli altari del tempio che aveva forma perfettamente cubica. Sembra che uno dei primi a dedicarvisi sia stato il matematico Ippocrate di Chio, venuto ad Atene per ragioni di commercio (dunque, neanche lui ateniese), e poi sistematosi nella città per insegnare matematica fra il 450 e il 430, e scrivendo un’opera intitolata Ele-

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menti di geometria. Aristotele dice che per la sua goffaggine e ingenuità egli era stato derubato dei suoi averi dai doganieri di Bisanzio e per questo motivo si sarebbe fermato ad Atene, perché non aveva soldi per il ritorno. Il fatto che egli abbia fatto commercio del suo sapere (pare di ascendenza pitagorica) è ugualmente biasimato nella letteratura dossografica. Ippocrate applicò al problema della duplicazione del cubo il metodo “apagogico”, che consisteva nel ridurre un problema ad un altro problema, di modo che, dimostrato il secondo, si dimostra anche il primo. Egli stabilì così che il problema della duplicazione del cubo era di trovare due medie proporzionali fra due numeri dati, e non una sola media, come per la duplicazione del quadrato. Nell’affrontare l’altro problema, quello della quadratura del cerchio, Ippocrate si servì per primo dello studio dell’area delle lunule, con il che non risolse la quadratura, ma riuscì a formulare nuovi teoremi. In ogni caso gli Elementi di Ippocrate di Chio sono da considerare una tappa del percorso che, per il tramite di Eudosso di Cnido, avrebbe in seguito condotto alla sintesi euclidea, contribuendo in modo sostanziale, di “metodo”, al processo di trasformazione della geometria empirica, di derivazione orientale (egizia e caldea) in una geometria che cominciava a ricercare i possibili livelli di deduttività (o “riduttività”, come li definì Ippocrate): l’organizzazione dei procedimenti geometrici attraverso la nozione di “elementi” intesi come proposizioni primitive. Anche Eudosso di Cnido (vissuto nella prima metà del IV secolo) come Ippocrate, era di ascendenza pitagorica, allievo di Archita di Taranto, ed aveva anche frequentato l’Accademia platonica. Dopo un lungo soggiorno in Egitto, dove aveva potuto compiere le sue osservazioni munito di credenziali rilasciate da Agesilao re di Sparta per il faraone Nectanebo e dunque raccogliere un vasto materiale di osservazioni astronomiche accumulato per secoli dai sacerdoti di Eliopoli, Eudosso era tornato in Grecia e aveva fondato a Cizico (sulla Propontide [o Mar di Marmara] una vera e propria scuola alla quale si formarono matematici come Menecmo e Dinostrato. La tradizione attribuisce unanimemente ad Eudosso la invenzione della teoria generale delle proporzioni e del metodo di calcolo dell’esaustione. La prima teoria permetteva di superare in modo logico la difficoltà creata dalle grandezze incommensurabili, ed era esposta nel libro V degli Elementi di Euclide. Il metodo detto “di esaustione” trovò

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immediata applicazione nel calcolo di aree e volumi delle più complesse figure geometriche. La strategia di questo metodo consisteva nell’avvicinarsi ad una figura irregolare con una successione di figure elementari note, ognuna delle quali forniva un’approssimazione migliore di quella precedente. Altro elemento di novità presentato dalla riflessione scientifica di Eudosso fu la sua cosmogonia, fondata su un complicato sistema geocentrico di 27 sfere concentriche ruotanti attorno alla sfera terrestre, da lui escogitato per spiegare i movimenti e le posizioni (“retrogradazioni” e “stazioni”) dei pianeti “esterni” del sistema solare, a cominciara da Marte, che, percorrendo un’orbita assai più ampia di quella terrestre, e con maggior lentezza, poneva grandi difficoltà al geocentrismo. Un sistema talmente complesso che lo si è compreso pienamente, in età moderna, soltanto con gli studi pubblicati dall’astronomo Schiaparelli nel 1875. Ma già nell’antichità questo sistema non aveva avuto gran fortuna, anche se era stato adottato da Aristotele, una generazione più tardi: esso fu per lo più ignorato dai compilatori di manuali, che lo trovarono astruso e difficile da riassumere. Restarono invece acquisiti alcuni dati riproposti da Eudosso: come la durata dell’anno solare, di 365 giorni e un quarto, situando l’equinozio di primavera nel 15° grado dell’Ariete. Questi dati, definitivamente acquisiti nell’opera di Eudosso, furono utilizzati da Metone, autore della riforma del calendario attico calcolato in cicli di 19 anni, che sostituì quello a suo tempo introdotto da Solone e rimase in vigore in Atene fino all’introduzione del calendario giuliano. La cosmogonia di Eudosso era trattata in un’opera intitolata Phaenomena, che non si è conservata, ma sappiamo che la parte astronomica del poema omonimo di Arato, del quale riparleremo, era basata tutta sull’opera di Eudosso. In un’altra opera, intitolata Períodos gés, (“giro della terra”, era formulata la più antica misura conosciuta della circonferenza della sfera terrestre, indicata da Eudosso nella misura di 400.000 stadi, quasi doppia rispetto a quella giusta, calcolata in seguito da Eratostene in 252.000 stadi (dove uno stadio varia da 160 a 180 m). Un vero e proprio disprezzo per la “fisica” professava invece (come abbiamo già visto nella efficace immagine che di lui conserva il brano citato del Fedone platonico) l’ateniese Socrate, figlio dello scultore Sofronisco e della levatrice Fenarete: a differenza di Anassagora e di tutti gli altri “fisici” sino ad ora menzionati egli non lasciò nulla di scritto perché — diceva — “la scrittura ha questo di grave, che se la interroghi tace

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maestosamente”. D’altra parte la fiducia nel dialogo critico e nell’esistenza di una verità oggettiva espressa nei “concetti” fu essenziale per la maturazione di quella grande avventura intellettuale che fu avviata dal più illustre dei suoi allievi. Stiamo parlando, ovviamente, di Platone24 e della sua famosa Accademia (Akadémeia ovvero Ekadémeia) così chiamata dal nome dell’eroe eponimo Academo o Ecademo che era stato dato ad una contrada distante circa sei stadi a NO di Atene, nota per un santuario di Atena che conservava i dodici sacri ulivi stimati discendenti diretti di quella originaria pianta di ulivo donata alla città dalla dea. Vi era anche un ginnasio o palestra, uno dei tre più importanti di Atene, con un gran parco ricco di alberi (platani) che nell’86 Silla fece tagliare brutalmente per costruire le macchine di assedio usate contro la città. In questo parco, nel 387, Platone cominciò a tenere all’aperto le sue lezioni, e in seguito, acquistato un fondo contiguo, vi fece costruire un santuario delle Muse (Mouséion, da cui “museo”) al cui culto era addetta la sua scuola o tìaso. Questa Accademia doveva diventare la più prestigiosa e anche la più longeva istituzione di alta cultura nel mondo antico (vissuta dal 387 a.C al 529 d.C., ossia per 916 anni), e sappiamo che nel V secolo d.C., all’età di Proclo, essa disponeva di un ingente numero di lasciti (beni immobili e patrimoni amministrati, acquisiti nel corso dei secoli), che furono poi il motivo del decreto di soppressione emanato dall’imperatore Giustiniano, che ne incamerò tutti i beni. L’Accademia fu sempre ordinata rigidamente, sottoposta all’autorità di uno scolarca eletto a vita dalla comunità su designazione del suo predecessore. Già all’epoca dei suoi inizi, prima ancora che Platone fosse sostituito da Speusippo (scolarca dal 347 al 339), l’Accademia si era avviata decisamente verso una valorizzazione del matematicismo pitagorico, al punto che proprio sopra l’ingresso dell’Accademia Platone avrebbe fatto apporre la scritta ageométretos medèis eisíto (= “Non entri in questo luogo chi non conosce la geometria”). L’abitudine di Platone di inserire discussioni su argomenti matematici nei discorsi filosofici indisponeva gli Ateniesi colti che si recavano ad assistere alle sue lezioni: Aristotele racconta che una volta Platone aveva attirato una folla numerosissima preannun24 Fu soprannominato Platone per l’ampiezza delle sue spalle o della sua fronte, ma il suo vero nome era Aristocle, di nobilissima stirpe ateniese: la famiglia di suo padre discendeva da quella del mitico re Codro, quella di sua madre era la stessa del legislatore Solone.

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ciando che avrebbe parlato del “bene”. Il pubblico convenuto si aspettava di ascoltare dal maestro considerazioni su come ci si procaccia un’esistenza felice, ricchezza e salute, e si sentì invece propinare una noiosissima lezione di matematica, che identificava il Bene nella scienza dei numeri. D’altro canto, pur avendo egli riservato alla matematica una indubbia supremazia fra gli insegnamenti dell’Accademia, Platone non viene considerato un personaggio importante nella storia della matematica: gli si riconosce invece il merito, a lui dovuto più che a chiunque altro — proprio per la tradizione di insegnamento così autorevolmente inaugurata dall’Accademia — del grande favore goduto dagli studi di matematica nel corso dei secoli della storia dell’educazione in Occidente. Qualcosa del genere può dirsi, anche se in minor misura, per un’altra scienza, l’astronomia, che sicuramente deve molta della sua popolarità a ciò che ne scrisse Platone nel dialogo intitolato Timeo, pubblicato per divulgare fra i contemporanei un digesto delle teorie pitagoriche sulla matematica, l’astronomia e la teoria musicale, mentre è appena il caso di ricordare la popolarità del Timeo fra i colti lettori romani, per il tramite della traduzione latina dell’opera, fatta da Cicerone, che diventò una specie di manuale di base nella tradizione scolastica medievale. Sullo scorcio del periodo che abbiamo denominato “classico” e anche dal punto di vista della sua collocazione cronologica Aristotele (vissuto fra il 384 e il 322), il più famoso ed autorevole fra i pensatori antichi, è anche sicuramente la figura più rappresentativa della stagione che vide la cultura greca passare dal ristretto mondo della pólis agli orizzonti più vasti del mondo ellenistico, anche se di fatto, dal punto di vista rigorosamente scientifico, Aristotele non si caratterizzò per ricerche originali e certo non sentì, per sua esplicita ammissione, grande amore per la matematica. Detto anche lo Stagirìta (perché nato a Stagìra nella penisola Calcidica, ossia in una regione che dipendeva politicamente dal regno macedone), egli era coetaneo di Demostene, uomo politico ateniese, nemico giurato del re macedone Filippo II, e quindi di suo figlio Alessandro: altro parallelismo fra le vite di Aristotele e di Demostene è che entrambi morirono nel 322. Aristotele era invece figlio di Nicomaco, medico di corte di Filippo, e apparteneva ad una famiglia che vantava fra i suoi capostipiti nientemeno che il dio Asclepio (l’Esculapio dei Romani), riallac-

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ciandosi al ghénos degli Asclepìadi, medici della scuola di Cos, quella di Ippocrate. Questa ascendenza è anche significativa per ciò che riguarda il metodo scientifico di Aristotele, che ben si inserisce nel filone che abbiamo già individuato nelle analogie fra Anassagora e Ippocrate, fiduciosi nelle capacità dell’uomo e nelle sue arti e nei suoi strumenti (empiría, lógos e téchnai), che egli utilizza per mettere a frutto il dettato dell’esperienza e per intervenire sulla realtà naturale completandone il corso. Attirato dalla fama di Platone, il giovane Aristotele si avviò diciassettenne alla frequentazione dell’Accademia, dove restò per un ventennio, fino ai suoi 37 anni allorché, dopo la morte di Platone, si staccò dall’ambiente platonico (amicus Plato, sed magis amica veritas) e nel 335 fondò una sua scuola, che prese il nome di Perìpato (ossia “passeggiata”, dal verbo peripatéo = io passeggio), dal nome di una parte del giardino detto Liceo, in Atene, nella quale egli teneva le sue lezioni. Anche il Liceo, come l’Accademia, si trovava a breve distanza dalla città, sulle pendìci meridionali del monte Licabetto, e così si denominava dal santuario di Apollo Liceo, variamente connesso con la luce, con la Licia, con i lupi (vedi le personificazioni di Apollo Lykeios); anche presso il Liceo, annesso al santuario di Apollo, vi era uno dei ginnasi ateniesi. Fu tipica di Aristotele la mentalità quasi pedantesca con la quale si diede alla sistematica esplorazione delle varie specializzazioni della conoscenza, perseguita con lo scopo di pervenire alla sistematica trattazione (canone) delle varie discipline, annettendo grande importanza (e in questo Aristotele fu il primo) alla corretta impostazione della costruzione del suo sistema, giustificandone la posizione storica rispetto ai tentativi precedenti: dunque una notevole inclinazione verso la ricerca storica, attestata dall’abitudine di inserire nelle sue opere, in genere all’inizio, disamine storiche dei vari rami dello scibile, indispensabile base della sua indagine. Una vera e propria storia dei vari settori della conoscenza fu realizzata da Aristotele incaricando i suoi discepoli: Teofrasto per la fisica e la matematica, Eudèmo di Rodi per l’aritmetica, l’astronomia (e la geometria, fonte primaria per gli antich storici della scienza), Senocrate per la geometria, Menone per la medicina, Aristòsseno (che era istruito anche negli insegnamenti pitagorici) per la musica. Il metodo sistematico, quello della raccolta il più possibile completa (“schedatura” si direbbe oggi) e della classificazione dei dati, che vediamo operante ad esempio in Teofrasto (Lesbo, 370 circa – 287), che

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catalogò le piante (nelle Cause dei processi vegetali e nella Storia delle piante), ma anche i Caratteri umani (individuati in una trentina di profili: il becero, tanto per fare un esempio di questa esemplificazione teofrastea, è colui che a teatro, nel colmo dell’azione scenica e nel generale silenzio, rutta rumorosamente per far voltare indietro il pubblico). Ed è anche, questo metodo della schedatura sistematica e dei lavori di équipe, il metodo che trionferà nella cultura ellenistica, quando il centro della vita culturale migrerà da Atene ad Alessandria d’Egitto.

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6 L’exploit della scienza greca nell’età ellenistica (323–31 a.C.) E vediamo un po’ più da vicino la realtà storica e sociale di questa età ellenistica, che si fa iniziare convenzionalmente dalla data della morte di Alessandro Magno (323) e prosegue fino alla battaglia navale di Azio (con la vittoria di Ottaviano, il futuro Augusto, sulla flotta di Antonio e Cleopatra nel 31 a.C.). Nella storia degli Ellèni la supremazia della Macedonia sulla Grecia, che si era affermata già nel 338, dopo la battaglia di Cheronea (nella quale Filippo II, padre di Alessandro Magno, aveva sconfitto la lega delle città greche capeggiata da Atene), è stata spesso considerata come la fine della libertà greca e una conferma della decadenza della cultura “classica”. In effetti a decadere fu soprattutto il sistema delle póleis (le città), che era inadeguato all’allargamento di orizzonte postulato dalla crescita culturale del popolo greco. Uno dei principali ostacoli allo sviluppo della civiltà si era rivelato proprio l’angustia dei soggetti politici, il rimanere legati al particolarismo campanilistico delle politiche delle varie città, minato dalle più meschine inimicizie reciproche. Anche Atene, nel momento del massimo splendore del suo “impero”, nel V secolo, poteva contare su un territorio di non più di trenta o quarantamila chilometri quadrati, e lo stesso può dirsi delle maggiori città della Magna Grecia e della Sicilia (pensiamo all’impero di Dionigi di Siracusa). Dopo la morte di Alessandro e la disgregazione del suo impero universale, si formarono tuttavia regni di dimensioni più che ragguardevoli: l’impero seleucìdico, che includeva Siria e Mesopotamia, con una estensione di 3 milioni e mezzo di kmq e una trentina di milioni di abitanti. Prendeva il nome da Seleuco I Nicatore (358–281), figlio del nobile macedone Antioco, ed anche generale di Alessandro, che Seleuco seguì nelle sua campagne fino all’India. L’impero tolemaico, in Egitto, si e-

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stendeva per più di 100 mila kmq, con 10 milioni di abitanti. L’impero tolemaico era retto dalla dinastia dei Tolemei, detti anche Làgidi, dal momento che essa ebbe origine da Tolemeo Lagos, generale di Alessandro, il cui figlio Tolemeo fu prima satrapo (323) poi re dell’Egitto, con residenza ad Alessandria, la nuova città fondata da Alessandro all’estremità occidentale del Delta. Anche il regno macedone aveva una estensione ragguardevole, di più di 90.000 kmq, e una decina di milioni di abitanti. E va anche ricordata la dinastia di Attalo, quella degli Attàlidi, che un po’ dopo i diadochi, nel III secolo a.C., regnarono su Pergamo e su tutta la regione occidentale dell’Anatolia, compresa la Ionia, la Caria e la Lidia e, dunque, le città di Efeso, Smirne, Mileto e Afrodisia (il regno di Pergamo costituirà in seguito, per lascito testamentario del suo ultimo re Attalo III, la provincia romana d’Asia). La presenza di organismi statali di queste dimensioni ebbe un effetto tutto sommato benefico sulla Grecia, costringendola ad uscire dai particolarismi cittadini, per costituire organismi più complessi, i koiná o leghe, come la lega ateniese, la lega achea, la lega etolica, quella delle isole. Certo, questo non bastò ad evitare la decadenza politica delle città greche, specie di Atene, che poi persero importanza anche dal punto di vista culturale di fronte ai nuovi centri dell’ellenismo, dei quali ora diremo. Seleucia sul Tigri, in Mesopotamia, fondata attorno al 312 a.C. da Seleuco I Nicatore come capitale del suo regno (ma ben presto essa fu sostituita, nel suo ruolo di capitale, da Antiochia sull’Oronte). Seleucia sorgeva sulla riva destra del Tigri, a qualche centinaio di km dalla foce del fiume sul Golfo Persico, in un punto in cui il Tigri veniva congiunto all’Eufrate (che lì scorre vicino) da un canale navigabile. Fu dunque un importantissimo porto fluviale, ma anche punto di intersezione di vie carovaniere (le vie della seta e delle spezie), e soppiantò come emporio la vicina Babilonia. Nel 141 [a.C.] tutta la regione cadde nelle mani dei Parti, che però anch’essi fondarono nei dintorni la loro capitale Ctesifonte, e dunque sempre nella stessa regione [dove poi sorgerà Bagdad], che fu a lungo un’area caratterizzata da una certa densità demografica (Plinio parla, per la sua epoca, di 600.000 abitanti, con una forte presenza giudaica o ebraica che dir si voglia), che per di più si trovava in un punto piuttosto periferico ed eccentrico rispetto all’ecumene mediterranea: non fece mai parte dell’impero romano, se non per i 2–3 anni successivi alla conquista

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di Traiano e alla costituzione delle province di Assiria e Mesopotamia, abbandonate subito dopo l’anno 117 da Adriano. Altra città importantissima durante il periodo ellenistico, e in seguito per tutta la tarda antichità, fu Antiochia sull’Oronte (l’odierna Antakya in Turchia, ai confini con la Siria), meglio conosciuta come Antiochia di Siria, che nel 293 divenne la capitale del regno seleucidico di Siria. Essa prendeva il nome da Antioco, padre di Seleuco, e sorgeva sulla riva sinistra del fiume Oronte, dove era stata fondata nel 301 da Seleuco I Nicàtor in onore di suo padre. Metropoli dell’ellenismo (è significativo che si tratti anche stavolta di una città di nuova fondazione) celebre come luogo di cultura perché ospitava la terza (in ordine di importanza, dopo Alessandria e Pergamo che vedremo) biblioteca del mondo. Nel 64 a.C., dopo la campagna militare di Pompeo, essa sarebbe divenuta il capoluogo della provincia romana di Siria. C’è poi Pergamo, città dell’Asia minore, non lontana del mare Egeo, 100 km a N di Smirne: un centro senza importanza fino a che non fu valorizzato dalla dinastia degli Attalidi, e diventò uno dei regni ellenistici meglio organizzati, una specie di monarchia costituzionale, che seppe armonizzare le istanze dell’autorità regia con quelle degli organi di autonomia cittadina (si trattava di città come Efeso, Mileto, Smirne) dando, almeno in apparenza, un peso equamente distribuito fra re attalidi e popoli delle città (ciascuna delle quali aveva la sua bulé o consiglio e la sua ecclesía o assemblea popolare). La biblioteca qui costituita da Eumene II ne fece un centro di cultura tale da contendere ad Alessandria il primato. Pergamena è la pelle di pecora (ma anche di agnello, vitello o capra) conciata e resa liscia per uso scrittorio. Plinio racconta che proprio Eumene di Pergamo avrebbe favorito l’industria della pergamena, per rimediare ad una specie di embargo del papiro prodotto in Egitto, dove Tolemeo V era geloso del successo delle biblioteca di Pergamo, e temeva che questa potesse soppiantare Alessandria con lo splendore della sua biblioteca (volume papiraceo e codex codice pergamenaceo; ma sappiamo ora che pergamena è termine tardo, del IV secolo. E veniamo ad Alessandria, fondata da Alessandro Magno all’estremità occidentale del Delta del Nilo nel 332 o 331, capitale dell’Egitto ellenistico retto dai Tolemei Lagidi25. La città era stata proget25 La città avrebbe contato 500.000 abitanti al tempo di Tolemeo Soter, e ben 700.000 all’epoca di AULO GELLIO (Noct. Att. 7, 17, 3).

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tata dall’architetto Dinocrate di Rodi, che si era basato su uno schema ippodameo; la costituzione della biblioteca data al 290 circa, e annesso alla biblioteca vi fu un museo, istituito sul modello di quello platonico di Atene. Fu, quello di Alessandria, uno dei casi più evidenti di mecenatismo di stato, dal momento che furono proprio i Tolemei a mettere a disposizione di letterati e scienziati provenienti da tutto il mondo fondi cospicui per svolgere le loro ricerche e dotarsi di tutti gli strumenti di cui avevano bisogno. Il Museo poté così ospitare laboratori per lo studio dell’anatomia, un osservatorio astronomico, un giardino zoologico, un orto botanico, oltre alla famosa Biblioteca, ricca di centomila o secondo qualcuno addirittura di settecentomila volumi, che certo non sono i 4–5 milioni di volumi della British Library o della Bibliothèque Nationale o della Library of Congress, ma insomma danno una idea della complessità del sapere antico. Il taglio dell’istmo di Suez, che sfruttava il braccio estremo orientale del Nilo fino al Cairo, poi tagliava dal Cairo a Suez (Clysma: ossia il punto in cui le acque del Mediterraneo “si versavano” nel Mar Rosso) aveva fatto di Alessandria anche uno dei centri commerciali più importanti dell’ecumene, con 500.000 abitanti, divenuta punto di passaggio obbligato per le rotte marittime dall’Oriente, così come Seleucia lo era per le vie carovaniere. La fama di Alessandria era infatti legata anche al Faro, una delle sette meraviglie del mondo antico, progettato dall’architetto Sostrato di Cnido verso il 280 a.C., distrutto da un terremoto nel XIV secolo. Una costruzione alta, a quanto pare, 85 metri, sormontata da una lanterna alimentata da un fuoco di legna e potenziata da specchi di metallo levigato che ne concentravano la luce, irradiantesi fino a 60 km di distanza. Del nuovo clima culturale che si respirava in età ellenistica abbiamo una figura paradigmatica nel grande Euclìde, vissuto al tempo di Tolemeo Sotèr (306–283). Si narra che il re abbia chiesto ad Euclide se vi fosse una via più breve, in geometria, degli Elementi. Euclìde gli avrebbe risposto che in geometria “non vi sono vie regie”. Poco si sa della vita di Euclide: sembra che egli abbia studiato in Atene, nell’Accademia platonica, e che di lì sia passato ad Alessandria, con una migrazione che viene considerata paradigmatica (una specie di translatio studii) da Atene ad Alessandria. Qui giunto Euclìde avrebbe fondato una scuola di matematica divenuta ben presto rinomata, nel cui ambito il maestro avrebbe curato la

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composizione degli Elementi (Stoichéia) in 13 libri, che trattavano della geometria piana (1–6), dell’aritmetica (7–10, compresi, nel decimo libro, i numeri irrazionali), della stereometria o geometria solida (11–13). L’opera in questione è conservata in molti codici, e corredata di ampi commenti. Il più antico di questi codici è il Vaticano greco 190 (membranaceo, ossia su pergamena), confezionato nel X secolo, ed è significativo il fatto che questo cimelio sia stato asportato da Napoleone e portato da Roma a Parigi nel 1808 (poi restituito a Roma dopo il 1815, una volta che il Corso fu debellato, e si poté riparare ai guasti delle sue manie cartesiane feticistiche per la geometria euclidea, mostrata anche dall’introduzione del sistema metrico decimale). Al manuale, elaborato secondo la tradizione delle trattazioni sistematiche dello scibile, inaugurata da Aristotele e dalla sua scuola, si affiancarono altre opere, fra le quali citiamo un libro di Dedomena (Dati), uno Perì diaireseon (Della divisione delle figure), noto soltanto da una traduzione araba; un libro di Optica, sicuramente a lui attribuibile; ancora un libro di Catoptrica, che però deve considerarsi compilazione posteriore, condotta su un suo trattato riguardante le proprietà degli specchi) e uno di Phainomena, contenente una descrizione geometrica della sfera celeste. Euclide scrisse anche di meccanica, come attestano traduzioni arabe di sue opere non pervenute nel testo greco (perché considerate astruse dai copisti occidentali), dimostrando il principio della leva mediante la “sovrapposizione degli equilibri”, secondo una via diversa da quella poi divenuta classica (o canonica), indicata da Archimede. Per tutta l’età ellenistica, e poi ancora in età romana imperiale, gli Elementi furono il libro di testo per lo studio della geometria e dell’aritmetica, e ancora fu così per tutto il medio evo, quando l’Occidente barbarizzato dovette servirsi della traduzione latina di Adelardo da Bath, e ancora nel Rinascimento. Il più noto dei postulati di Euclide è il quinto, enunciato da Euclide in questa forma: “due rette che, incontrate da una trasversale, formano da una parte di essa angoli coniugati interni la cui somma è minore di un angolo piatto, prolungate da questa parte, si incontrano”. Esso porta come conseguenza l’unicità della parallela per un punto alla retta data, ed è perciò conosciuto come postulato della parallela. Per molti secoli si è creduto che questo fosse conseguenza dei primi quattro postulati. Invece due millenni dopo Euclide fu dimostrato il contrario.

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Nella nuova realtà della cultura ellenistica o alessandrina gran parte della produzione culturale fu stimolata proprio dalla gestione della grande Biblioteca, che accolse una enorme quantità di prodotti scritti e portò alla elaborazione di un rigoroso metodo di attribuzione, classificazione delle opere e correzione dei testi, la cosiddetta diorthosis, nella quale soprattutto furono impegnati i dotti alessandrini, e in specie i direttori della Biblioteca. Fra le figure di costoro va ricordata indubbiamente quella di Eratostene di Cirene, nato a Cirene negli anni della 126 olimpiade, cioè fra il 276 e il 272. Anche di Eratostene si dice che avrebbe studiato ad Atene e che nel 240 sarebbe stato chiamato per la sua fama ad Alessandria da Tolemeo III Evergète, che gli avrebbe affidato la direzione della Biblioteca, oltre che l’incarico di fare da precettore al futuro re Tolemeo IV Philopátor. Eratostene sarebbe poi morto all’età di 80 anni fra il 196 e il 192, ed è da considerare leggendaria la notizia secondo la quale egli si sarebbe lasciato morire di inedia per aver perduto la vista. Si racconta di lui che lo chiamassero il beta, o ossia eterno secondo, oppure pentatlo (una specialità nelle gare atletiche), per il fatto che i suoi svariati interessi non gli consentirono di primeggiare in alcuna delle discipline da lui frequentate. La operazione di diorthosis lo portò a comporre, come si conveniva ad un esperto filologo, una grossa opera sulla commedia antica, mentre il riordinamento di varii materiali storici in questo ed in altri settori lo convinse ad avviare una profonda revisione delle griglie cronologiche usate dagli storici. Eratostene può, a questo riguardo, essere considerato il fondatore della cronologia storica, le cui basi egli esponeva nello scritto, non pervenuto, intitolato Chronographíai ovvero Perì chronographión, che pare non fosse una cronaca ma avesse contenuto soprattutto teorico. Invece negli Olympionikai, ossia “i vincitori nelle Olimpie”, in parecchi libri, egli dava una datazione definitiva degli eventi storici principali collocandoli nella griglia generale dei cicli olimpici, le Olympiádes, all’interno dei quali doveva essere specificato l’anno (primo, secondo, terzo o quarto) della tetraeteride, ossia del periodo di quattro anni. Della guerra di Troia, che per Eratostene era il primo fatto o evento accertabile della storia greca fu fissata la data secondo questo sistema all’anno 1184/3 a. C., una data che risaliva ben oltre quella della istituzione dell’agone olimpico nel 776.

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La fama di Eratostene fu affidata soprattutto alle opere di matematica e di geografia matematica. Per il famoso problema della duplicazione del cubo (che già Ippocrate di Chio, come abbiamo visto, aveva ridotto al problema di inserire fra due segmenti dati due medie proporzionali) Eratostene inventò uno strumento, il mesolabon o mesolabium (cioè “che prende le medie proporzionali”) che consentiva di trovare meccanicamente le medie proporzionali fra due segmenti dati (nel caso specifico del cubo i due segmenti dovevano essere il lato del cubo da duplicare ed il suo doppio). Questo strumento egli stesso magnificò in un epigramma che poi fece incidere su una colonna votiva da lui dedicata nel Ptolemaion, sulla quale era fissato un esemplare in bronzo dello strumento, illustrato da una figura che esemplificava la dimostrazione del problema. Il mesolabio era composto di tre tavolette rettangolari uguali, tagliate da una diagonale e disposte in modo che due di esse potessero scorrere su due guide e sovrapporsi parzialmente fra loro e alla terza, dando così meccanicamente le due medie richieste. Nel campo dell’aritmetica è famosa l’invenzione a lui attribuita del koskinon Eratosthenous, il “crivello di Eratostene” per la ricerca dei numeri primi, il cui procedimento consisteva nel cancellare dalla serie dei numeri dispari i multupli di 3, 5, 7 e così via, lasciando dunque sussistere i soli numeri divisibili per se stessi e per l’unità. Sfruttando la base delle conoscenze geometriche degli Elementi euclidei, Eratostene poté poi procedere alla diorthosis, specie di edizione critica, dell’insieme dei lavori prodotti dalla scienza geografica, versando nel quadro generale della conoscenza della terra la massa enorme di dati acquisiti dall’esplorazione geografica durante le spedizioni di Alessandro in Oriente fino all’India, spedizioni che avevano fornito un certo numero di misurazioni del territorio condotte da professionisti al servizio di Alessandro e dei suoi generali; tali erano i cosiddetti “bematisti”, ossia misuratori delle distanze in passi (bémata) e dunque delle tappe percorse dall’esercito in marcia, puntualmente rilevate per ovvii fini logistici. Altro problema che in quest’ambito geografico si era già posto prima di Eratostene era quello fondamentale della grandezza della Terra, considerata o meno centro dell’universo, ma in ogni caso ormai definitivamente ritenuta di forma sferica. Abbiamo già accennato al tentativo di Eudosso di Cnido, che era stato ripetuto, con risultati non con-

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sistenti, da Dicearco di Messana, allievo di Aristotele, nel periodo immediatamente successivo alla morte di Alessandro. In seguito l’esplorazione sistematica dell’Egitto inferiore aveva mostrato che la città egizia di Siene, odierna Assuan, si trovava sulla linea del tropico, ossia su quella linea lungo la quale il sole poteva raggiungere lo zenith. Dicearco aveva mostrato come si dovesse abbandonare l’idea preconcetta che le zone tropicali fossero inabitabili. Lo stesso Dicearco cercò di dare una misurazione del c.d. diáfragma, ossia, diremmo oggi, dell’arco di parallelo compreso fra le colonne d’Ercole e il Gange, calcolato in 60 mila stadi, ossia in 10656 km circa, misurazione che è piuttosto vicina al vero, mentre risultò esagerata la lunghezza di 400.000 stadi, ossia 74 milioni di metri, con lo stadio di 185 m, calcolata per la circonferenza terrestre. Lo stadio di 185 m è quello eginetico, mentre lo stadio attico era di 177,6 metri. Uno stadio equivaleva a una distanza di 600 piedi, e sembra superfluo aggiungere che i conguagli in metri sopra riportati hanno valore puramente indicativo. Sulla base di questi precedenti la questione della misurazione della grandezza della terra fu brillantemente risolta da Eratostene, che ne trattò in un’opera perduta della quale resta solo il titolo (Perì tès anametreseos tes gés, ma ne abbiamo un sunto esauriente in alcune pagine del De motu corporum caelestium [I, 10] di Cleomede, autore di un trattatello composto in lingua greca nel II secolo d.C). La cifra di 252.000 stadi indicata da Eratostene come risultato finale del suo calcolo pare che sia stata adattata per consentirgli di ottenere il numero tondo di 700 stadi per grado (360x700 = 252.000), ma il risultato reale dei suoi calcoli lo avrebbe portato alla cifra esatta di 250.000 stadi, ossia di 44.400.000 metri (considerando lo stadio attico) o di 46.250.000 metri (con lo stadio eginetico). Il metodo seguito da Eratostene per arrivare a questo numero è ben noto, e si basava su un ragionamento geometrico piuttosto semplice; il fatto rivoluzionario era nell’aver compreso che ragionando su un disegno si potessero trarre conclusioni che valevano per misurare la terra, ossia, come ha notato L. Russo, mostrando di essere in grado di viaggiare col pensiero dal disegno al mondo e viceversa, e dunque di usare quelle regole di corrispondenza che si sono individuate come caratteristiche essenziali del “metodo scientifico”. In effetti, solo rendendo esplicite tutte le ipotesi assunte — che nel caso di Eratostene erano quelle dell’ottica e della geometria, della sfericità della terra e della piccolezza del raggio ter-

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restre rispetto alla distanza terra/sole — è possibile creare un modello teorico che, essendo applicabile approssimativamente alla terra, è allo stesso tempo schematizzabile con un disegno e fornisce quindi un ponte logico fra l’uno e l’altro. E vediamo dunque il metodo seguito da Eratostene: egli suppose che Alessandria e Siene fossero sullo stesso meridiano, e inoltre fu informato del fatto che a Siene, al mezzodì del giorno del solstizio d’estate, il sole era allo zenit (illuminava i fondi dei pozzi). Misurò allora per mezzo dell’ombra dello gnomone l’inclinazione che alla stessa ora dello stesso giorno i raggi del sole avevano ad Alessandria e trovò che l’arco di meridiano fra i due punti era di sette gradi più un quindicesimo di grado, ossia copriva un cinquantesimo di meridiano. Poiché i funzionari dei Tolemei gli poterono indicare la distanza fra Alessandria e Siene in 5000 stadi, Eratostene, ritenendo la terra perfettamente sferica, computò la lunghezza del meridiano in 250.000 stadi (mentre la cifra di 252.000 stadi fornita dalle fonti sembra sia stata adottata perché gli consentiva di ottenere il numero tondo di 700 stadi per grado). Altra misurazione che Eratostene fornì fu quella del cosiddetto diáfragma, che era il parallelo passante per le Colonne d’Ercole, fissando in 78.000 stadi la distanza fra le coste occidentali dell’Europa e quelle orientali dell’India, corrispondente a due quinti della lunghezza dell’intero parallelo, calcolata in 200.000 stadi (35.520 km). Si può concludere che queste misurazioni di Eratostene fornirono al mondo acculturato (e ad una innumerevole schiera di conferenzieri di professione) un chiaro esempio della potenza del metodo “scientifico”, giacché passando dal mondo reale al modello e viceversa si ottennero informazioni e coordinate anche sulla parte ignota della terra, che nessun uomo dell’antichità avrebbe mai avuto modo di vedere. La procedura e i risultati di Eratostene furono accettati anche da Ipparco di Nicea, e ancora da Claudio Tolemeo in età romana imperiale, ma mentre Eratostene e Ipparco avevano valutato correttamente (ossia con ottima approssimazione) in 700 stadi un grado di meridiano, Marino di Tiro e Tolemeo pervennero a risultati assai diversi indicando la misura del grado di meridiano in 500 stadi, invece che in 700. Non è chiaro come sia avvenuto questo grossolano errore, che ebbe come conseguenza un «rimpicciolimento del mondo» causato, a quel che pare, non da una nuova misurazione, ma da un fraintendimento di quella antica. Sta di fat-

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to che questo computo errato in Claudio Tolemeo fu quello che portò (felix culpa!) il nostro Cristoforo Colombo a sottovalutare notevolmente le distanze fra le opposte sponde dell’Oceano nella programmazione del suo famoso viaggio. L’errore di Tolemeo, infatti, riguardava soltanto le dimensioni della terra, e non l’estensione dei continenti noti (il cosiddetto diáfragma), la cui misura (anch’essa ben nota ad Eratostene) era riportata con buona approssimazione da Tolemeo. Questo influenzò due volte i conti di Colombo: egli, sopravvalutando l’estensione in longitudine di quella che oggi si chiama Eurasia, sottovalutò all’opposto i gradi di longitudine che separavano, verso Ovest, la penisola iberica dall’Asia; inoltre sottovalutò la distanza lineare corrispondente alla differenza di longitudine così determinata. Il risultato fu quello di stimare la distanza da percorrere in poco meno che la metà di quella reale. Al contrario, a riprova della serietà e del rigore di metodo del calcolo di Eratostene, va notato lo scrupolo con il quale costui aveva determinato la dislocazione del tropico: Cleomede, nel suo riassunto, riferisce infatti che a mezzogiorno del solstizio d’estate le meridiane (skaphe si chiamava lo strumento, semplice ma ingegnoso, utilizzato in alternativa alle meridiane monumentali per effettuare il rilievo) non davano ombra «entro una fascia di 300 stadi» attorno al tropico: è evidente che queste misure di controllo, effettuate con meridiane o con le skaphai, erano state molte, e in una vasta zona, e che il tropico era stato accuratamente determinato come la linea mediana della fascia senza ombra. E ancora va precisato che il nome di Siene ricorre in Cleomede — che riassume Eratostene — semplicemente perché essa era la città più vicina al tropico, dal quale però distava più di 400 stadi (ossia più di 50 chilometri). Insomma, il luogo di misurazione della linea del tropico fu scelto dopo accurati rilievi, e non per semplice «sentito dire». Riguardo all’excursus sopra dedicato a Colombo è appena il caso di precisare che il Genovese trasse l’idea del suo viaggio da una tradizione sugli antipodi che aveva le sue radici in un’altra ipotesi di Eratostene, elaborata nei tre libri di Geographika: quest’opera iniziava, secondo il metodo inaugurato da Aristotele, con una storia delle conoscenze geografiche e giustificava la costruzione di una carta dell’ecumene nostra ammettendo al contempo la possibilità dell’esistenza di un’altra ecumene agli antipodi, e dichiarando anche la possibilità di giungere, navigando dall’Iberia verso Ovest, all’India. Sappiamo anche che queste suggestioni

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(riprese in seguito da Posidonio di Apamea) furono aspramente criticate da Ipparco di Nicea, che pure aveva accettato le conclusioni di Eratostene sulle dimensioni della circonferenza terrestre. La linearità del procedimento dimostrativo di Eratostene poneva consapevolmente la geografia su basi astronomiche e anticipava, come da qualcuno si è osservato, la geniale semplicità del sistema copernicano, collocandosi in un ambito teoretico che aveva i suoi immediati presupposti nella diffusione (almeno ad un certo livello, e nel dotto ambiente alessandrino) della limpidezza geometrica euclidea, magistralmente applicata da Eratostene all’astronomia: una scienza che conobbe grande popolarità nella prima età ellenistica, e per la quale dobbiamo registrare (come fenomeno rivelatore del notevole grado di astrazione raggiunto dalla scienza ellenistica) una certa fortuna della teoria eliocentrica. Questa teoria, secondo la quale il sole e le stelle fisse dovevano considerarsi immobili, mentre la terra veniva condotta intorno al sole descrivendo così un cerchio, che il sole aveva il suo centro, è da ritenersi, come accennato, teoria di ascendenza pitagorica, passata poi nella tradizione cosmogonica dell’Accademia platonica ed esplicitamente formulata come ipotesi dallo stesso Platone nell’ultima sua opera (Le leggi), pubblicata postuma dal suo allievo Filippo di Opunte, e già accolta dal platonico Eraclide Pontico nonché dal peripatetico Stratone di Lampsaco. Già Eraclide, infatti, sostenne che Mercurio e Venere ruotassero intorno al sole, di modo che Copernico potè citarlo fra i suoi precursori; ancora della teoria eliocentrica fu strenuo assertore Aristarco di Samo (allievo di Stratone), lodato da Vitruvio per la profondità della sua dottrina e famoso nell’antichità non tanto per il suo eliocentrismo, che in età moderna gli valse l’appellativo di «Copernico dell’antichità», ma per l’invenzione a lui attribuita di un quadrante solare perfezionato, con superficie concava anziché piana. Aristarco indicò decisamente nel sole il centro dell’universo e asserì che la terra girava intorno ad esso, non diversamente dagli altri pianeti, e che era proprio l’inclinazione dell’asse terrestre la causa del ciclo delle stagioni, e queste sue teorie mirabilmente anticipatrici della “rivoluzione” copernicana gli valsero accuse di delitto contro la religione, per aver turbato il sacro riposo di Estìa, ossia del fuoco divino racchiuso nella terra. Unica opera superstite di Aristarco è il trattatello Sulle grandezze e distanze del sole e della luna, unanimemente giudicato dagli storici della scien-

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za fra i monumenti più perfetti dell’antica geometria, e utilizzato come punto di partenza, nei loro calcoli, dagli astronomi moderni (Giacomo Cassini, Giovanni Keplero, Goffredo Wendelin), mentre già Archimede attesta che Aristarco era stato il primo a fissare il valore del diametro angolare del sole a 1/720 della circonferenza, con notevole approssimazione al vero. Sempre nell’ambito dell’astronomia registriamo un’altra di queste vette della scienza antica, che fu raggiunta da Ipparco di Nicea. Nicea era una città della Bitinia, cioè della regione dell’Anatolia (odierna Turchia) che si affaccia sul Mar Nero, il Ponto Eusino degli antichi (per l’esattezza, la parte occidentale di questo tratto di costa turca sul Mar Nero si chiamava Bitinia, la parte orientale Ponto). Nato a Nicea, Ipparco visse per qualche tempo in Alessandria, ma poi si ritirò nell’isola di Rodi, e di questo suo soggiorno a Rodi abbiamo testimonianza sicura proprio nelle osservazioni astronomiche da lui fatte in quel luogo, che ritraggono la disposizione della volta celeste quale essa doveva presentarsi nel periodo compreso fra il 161 e il 126 a.C. Un periodo, sia detto per inciso, cruciale per i destini dell’ecumene antica, fra la fine delle guerre puniche (combattute fra Roma e Cartagine) e la conquista romana dell’Oriente ellenizzato: nel 146 i Romani distrussero brutalmente «dalle fondamenta» due importanti città: Cartagine e Corinto; ma se la distruzione di Cartagine era in qualche modo la conseguenza inevitabile di quella che era stata una lotta all’ultimo sangue, la brutale distruzione della città greca sull’Istmo dovette essere freddamente programmata come dimostrazione di forza (la maiestas populi Romani) di una superpotenza che mostrava anche in questa parte del mondo l’irrealtà di ogni sogno di «resistenza» e l’inutilità delle perfidie e delle litigiosità delle leghe greche, che credevano ancora di poter trattare con Roma con gli stessi sistemi utilizzati invano già da Demostene contro Filippo II, ossia con le chiacchiere. Sembra verosimile che Ipparco di queste vicende si sia del tutto disinteressato, chiuso nella sua specola di Rodi che peraltro era il centro di una estesissima rete di traffici navali, utilissima allo scienziato per tenersi in contatto con osservatorii lontani. Unica opera che ci resta di lui è il commento al poema didascalico di Arato di Soli, vissuto fra il 315 e il 240, intitolato Phaenomena, in 1154 esametri; Soli è città della Cilicia che si trova nella regione costiera meridionale della penisola anatolica, proprio a NE di Rodi). Arato aveva mes-

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so in versi la cosmogonia di Eudosso di Cnido, del quale si è detto sopra, ed è proprio la grande popolarità di Arato (con la conseguente «fortuna» editoriale del suo poema, sempre letto e diffuso da innumerevoli copie) che spiega la sopravvivenza del dotto commento di Ipparco. Si dice comunemente, ed è vero, che Ipparco sia stato il più grande astronomo dell’antichità (insieme con Aristarco di Samo), ed è certo che egli debba essere considerato il fondatore dell’astronomia di osservazione, vista la cura che aveva posto a potenziare, perfezionandoli, gli strumenti tecnici dell’osservazione, come la diottra ossia «livello a traguardo». Di quest’ultimo tipo fu probabilmente lo strumento usato da Ipparco, che poi sarà descritto da Erone, e che deve considerarsi l’equivalente antico del nostro «teodolite». Esso era forse corredato di lenti, come in età moderna lo fu il cannocchiale di Galileo, che — a quel che pare — era in uso già in età molto antica. Vale la pena di richiamare un’osservazione recente del nostro orientalista Pettinato, che fra le tavolette di Ebla (in Siria) ha trovato documenti assiri relativi alla fornitura di «oro e vetro per ingrandire la pupilla», impiegati nella costruzione di strumenti (grande impulso alla scienza, infatti, pare sia stato dato proprio dal contatto diretto, avvenuto durante e dopo la spedizione di Alessandro, con le città dell’Oriente mesopotamico). In ogni caso Ipparco dovette disporre di strumenti che gli consentirono di redigere, più agevolmente di quanto non fosse concesso ai suoi predecessori, un catalogo di circa 800 stelle, ricostruito nella sua completezza dal filologo tedesco Franz Boll nel 1901, classificate per grandezza in una scala, che è ancor oggi in uso, esemplata su valori da 1 a 6. L’uso della diottra consentì ad Ipparco di notare, nel confronto con osservazioni fatte 150 anni prima da altri astronomi (Aristillo e Timocari), che rispetto a quell’epoca la latitudine delle stelle non era cambiata, mentre la loro longitudine si era uniformemente spostata di circa un grado e mezzo: era questa la scoperta della precessione degli equinozi o, meglio, della retrogradazione dei punti equinoziali, rivelata dall’osservazione del movimento compiuto dall’asse terrestre (la linea che convenzionalmente unisce i due poli del pianeta), che gli fa descrivere in tot anni due coni aventi il vertice in comune al centro della terra. Fra i demeriti da ascrivere (anche se con tutta l’indulgenza che gli spetta) allo stesso Ipparco va annoverato invece il ruolo che egli ebbe nel far declinare, con il peso della sua indiscussa autorità, la teoria eliocentri-

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ca a favore del geocentrismo, che aveva ricevuto notevole impulso anche dal contributo di un altro grande metematico, Apollonio di Perge (attivo agli inizi del III secolo), noto per la sua opera sui coni ed autore di quella teoria degli «epicicli» o cerchi minori che non è qui il caso di spiegare per esteso (a motivo della sua notevole complessità), ma che consentiva di spiegare le difficoltà che sorgevano per chi voleva conciliare il geocentrismo con i movimenti retrogradi dei pianeti. Fu questa teoria, fatta propria da Claudio Tolemeo nella Mathematikè syntaxis (Sintassi o raccolta matematica, che però passò alla storia come Almagesto, derivazione araba dal greco hè megiste syntaxis ossia “massima sintesi”, che costituì, come abbiamo detto più volte, il testo fondamentale dell’astronomia fino al contrastato avvento del sistema copernicano. La enorme influenza esercitata dalla sistemazione euclidea, che ebbe l’effetto di indirizzare nella giusta direzione già all’inizio della loro formazione le intelligenze degli studiosi–scienziati, spiega in parte anche le intuizioni geniali di un altro grande della scienza antica, Archimede, passato alla storia come stereotipo del geniale inventore. Nato a Siracusa nel 287 a.C. dall’astronomo Fidia, in una delle famiglie dei maggiorenti della città, imparentata con quella del re siracusano Gerone, Archimede viaggiò in Egitto, e si trattenne per qualche tempo in Alessandria, dove conobbe Eratostene; tornato nella sua patria egli trascorse i suoi anni maturi attendendo alla composizione delle sue opere, fino a che fu in qualche modo coinvolto nella vita politica, negli anni successivi alla morte di Gerone (216), allorché moti popolari di ispirazione democratica portarono al rovesciamento del regime tirannico di Gelone e alla costituzione di un governo che spinse la città all’alleanza con i Cartaginesi e dunque a schierarsi contro Roma nel corso della seconda guerra punica. All’arrivo in Sicilia del generale romano Marcello Siracusa fu cinta d’assedio e, come osserva Livio, sarebbe stata subito espugnata se non vi fosse stato un sol uomo, Archimede appunto, che con le sue invenzioni ritardò di molto la vittoria romana. Plutarco racconta, nella Vita di Marcello, che Archimede non amava in modo particolare questo genere di sfoggio del suo genio inventivo, e che era stato il vecchio Gerone, a suo tempo, a indurlo a rivolgere la sua attenzione dalla speculazione alla pratica. Ma è altrettanto vero che egli aveva un profondo interesse per la dinamica, che aveva studiato a fondo mostrando orgoglio per i risultati raggiunti (dos moi pou sto kai kinò ten ghen = dammi un punto

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d’appoggio e solleverò il mondo). A dimostrazione delle sue teorie Archimede era infatti riuscito a far scendere in mare una grossa nave carica stando seduto a qualche distanza e facendo scorrere senza fatica una corda per mezzo di un sistema di pulegge. L’efficacia delle armi segrete di Archimede spaventava non poco i Romani che, come racconta Plutarco «appena vedevano sporgere dalle mura una fune o un’asse scappavano impauriti», ma alla fine, nel 212, la città fu presa approfittando della distrazione degli assediati che celebravano una festa in onore di Artemide, e Marcello adottò la misura punitiva di lasciarla al saccheggio dei suoi soldati. La morte di Archimede è passata alla storia come aneddoto adatto ad illustrare lo straniamento degli uomini di scienza: egli non si sarebbe accorto, assorto com’era da un disegno che stava studiando, che un soldato gli aveva ordinato di seguirlo, e questo stesso soldato, irritato dal suo comportamento, l’avrebbe ucciso; altri storici raccontano che mentre Archimede portava a Marcello alcuni dei suoi strumenti (meridiane, sfere e quadranti) fu ucciso da alcuni soldati convinti, dalla cautela con cui si muoveva, che egli stesse trasportando oggetti d’oro. Sulla sua tomba sarebbe stata posta una lastra che, secondo le sue volontà, portava incisi un cilindro circoscritto ad una sfera, e un’iscrizione che indicava il rapporto fra i volumi e le superfici dei due solidi: «In ogni sfera — si poteva leggere nell’iscrizione — un cilindro che abbia per base un circolo massimo della sfera e l’altezza uguale al diametro della sfera ha per volume i tre mezzi di quello della sfera». Quella stessa tomba Marco Tullio Cicerone, dopo poco più di un secolo e mezzo, poteva trovare a stento dentro un ammasso di rovi. Anche di Archimede molte sono le opere conservate dalla tradizione, che possiamo leggere integralmente: gli Stoicheia ton mechanikòn (Princìpi della meccanica); il Tetragonismòs parabolés (Quadratura della parabola); il Perì sphairas kai kilindrou (Della sfera e del cilindro); il Perì elíkon (Delle spirali, dove per la prima volta è definita la generazione meccanica della spirale, descritta in un piano da un punto che si muove di moto uniforme lungo una retta, e dove si dà per la prima volta una definizione chiara di moto rettilineo uniforme e di moto circolare uniforme); il Perì konoidéon kai sphairoidéon (Dei conoidi e degli sferoidi); e ancora un Ephódion (Metodo, o, meglio, Avviamento, dove si parla dei volumi di volte a crociera e a testuggine, per calcolare i quali si utilizza il calcolo infinitesimale); un Perì ochouménon (Sui galleggianti, che contiene il principio fondamentale

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dell’idrostatica; noto a lungo nella sola traduzione latina di Guglielmo di Morbecca, fino alla scoperta dell’originale greco nel 1906); Kyklou metresis (Misura del circolo, con la famosa determinazione del rapporto) fra circonferenza e diametro, dove tale rapporto fu definito intermedio fra i perimetri di due poligoni regolari di 96 lati, uno iscritto e l’altro circoscritto: (3+1/7) > p > (3+10/71). Altrove, secondo Erone, lo stesso Archimede sarebbe arrivato ad una definizione ancora più precisa: (211875:67444) < p < (19588:62351) ossia: 3,141449 < p < 3,1417 Uno scritto intitolato Stomáchion (titolo per lo più tradotto latinamente Loculus) Archimede presentava un gioco di composizione e decomposizione di un quadrato in varie parti di diverse forme, che consentiva di formare innumerevoli figure: un gioco che durante il Medio Evo si diffuse fino in Cina; nello Psammítes (Arenario), dedicato al re Gelone (figlio di Gerone) ossia a quel re tiranno che fu poi scacciato dai Siracusani, Archimede si proponeva di calcolare il numero dei granelli di sabbia che riempirebbero una sfera grande quanto quella sfera che ha per centro il sole e per superficie la sfera delle stelle fisse: un numero che, scritto con il sistema decimale, non avrebbe avuto più di 54 cifre, mentre un numero di un centinaio di cifre sarebbe bastato per indicare, secondo le sue dimostrazioni, la quantità dei granelli di sabbia contenuti dall’intero universo. Infine nei Catoptrica egli trattava delle proprietà degli specchi, e si deve alla fama di questa opera la notizia del tutto leggendaria (riferita nel decimo secolo dal solo dotto bizantino Tzetze) secondo la quale Archimede avrebbe potuto appiccare il fuoco alla flotta di Marcello utilizzando fantomatici «specchi ustorii». Il genio matematico di Archimede non fu il solo ad applicarsi alla ingegnosa realizzazione di macchine, secondo una pratica della sperimentazione avviata già da Stratone di Lampsaco, originario della città che

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aveva accolto a suo tempo Anassagora esule da Atene, e poi vissuto ad Alessandria all’incirca fino ai suoi cinquant’anni, allorché fu chiamato ad Atene, nel 287, dove assunse la direzione del Liceo (la prestigiosa scuola fondata da Aristotele). Nessuna delle opere di Stratone è pervenuta: da Polibio sappiamo che egli era chiamato «il fisico» (nel senso di filosofo della natura), e che cercò di riformulare le teorie fisiche di Aristotele su basi democritee, mentre l’analisi di un’opera di Erone (vissuto qualche secolo dopo Stratone) pare abbia rivelato in Stratone un vero e proprio iniziatore della scienza «pneumatica». Sembra inoltre che degli esperimenti di Stratone si siano giovati gli «ingegneri» Ctesibio alessandrino e Filone di Bisanzio (meccanici) e, in un settore completamente diverso, il medico Erasistrato. Un posto particolare nella storia della meccanica spetta in ogni caso a Ctesibio, nato e vissuto ad Alessandria, considerato unanimemente abilissimo costruttore di strumenti meccanici: una vocazione di cui egli avrebbe dato prova fin da giovane garzone aiutante di suo padre barbiere, nella cui bottega egli avrebbe sperimentato un sistema di contrappesi che consentiva il rapido abbassamento o sollevamento di uno specchio. La sua attività sembra potersi collocare all’epoca di Tolemeo II Filadelfo (dunque fra il 283 e il 246), e una delle sue invenzioni più note sembra sia stata un tipo evoluto di pompa, munita di valvole (descritta da Vitruvio 10, 8, 1–3 che la chiama machina Ctesibica) e assai diffusa ancora in età imperiale romana, come mostrano i numerosi esemplari che se ne sono rinvenuti negli scavi. Pure a Ctesibio vengono attribuiti la prima costruzione o almeno il perfezionamento dell’hydraules (hydraulus alla latina), ossia dell’organo idraulico, «antenato» dell’organo elettrico e, ancora, un tipo di orologio idraulico che perfezionava le tradizionali clessidre ad acqua, da Ctesibio munite di un ingegnoso indicatore che consentiva la misurazione delle ore di durata variabile a seconda delle stagioni (più corte d’inverno, più lunghe d’estate). Insieme con Ctesibio, ritenuto oggi il vero fondatore della scienza meccanica, deve essere ricordato Filone di Bisanzio (ritenuto per lo più allievo di Ctesibio o almeno frequentatore degli allievi di quello), autore di un’ampia trattazione dal titolo Mechanikè syntaxis (Sintesi o Trattato complessivo di meccanica), rinomata per la limpidezza della lingua e considerata modello di prosa scientifica: ne restano un capitolo sulle macchine belliche e alcuni paragrafi di pneumatica.

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Oltre che delle scienze esatte e della meccanica Alessandria fu centro privilegiato di studi medici e sede di una grande scuola che, in questo felicissimo periodo di fioritura del genio scientifico ellenistico, ebbe fra i suoi rappresentati più illustri Erasistrato ed Erofilo. Erasistrato, nato nella piccola città di Iuli (nell’isola di Ceo) intorno al 304 a.C., autore di numerosi scritti, fra i quali il più importante sembra sia stato quello Sulle febbri (Perì pyretón). La sua dottrina della circolazione del sangue, basata sul principio dell’horror vacui, asseriva che le sole vene conducono sangue, mentre alle arterie sarebbe deputata la funzione di diffondere nel corpo il pneuma o soffio. Il suo insegnamento ebbe grande vitalità e proseguì a Roma dopo la decadenza di Alessandria.Contemporaneo di Erasistrato fu Erofilo, originario di Calcedone in Bitinia, passato in seguito ad Alessandria dove divenne uno dei medici più rinomati dell’antichità. Viene ricordato per lo più per essere stato il primo ad indicare nel cervello il centro del pensiero, della sensibilità e del movimento, e a compiere studi approfonditi sull’anatomia dell’occhio, nel quale seppe distinguere la sclerotica, la coroide, la retina e il cristallino. Assertore della priorità dell’esperienza rispetto alla speculazione teorica, egli sosteneva che «il medico perfetto è colui che sa distinguere il possibile dall’impossibile».

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7 Scienza greca e mondo romano. Decadenza di Alessandria e sua rinascita in età romana imperiale L’uccisione di Archimede da parte di un soldato romano nel 212 può essere considerata un segno premonitore degli eventi che stavano per compiersi: la presenza di una realtà abnorme, quale si veniva configurando la crescente potenza di Roma rispetto alle esperienze politiche precedenti, divenne in breve il punto di riferimento obbligato per tutto il mondo antico, e dunque anche per i Greci. Nei confronti di costoro, in particolare, la presenza romana eguagliava e addirittura superava una specie di sommatoria dei due poli (il gran re dei Persiani e lo stato macedone) fra i quali si era mossa fino a quel momento la vita politica degli stati greci, dai tempi in cui Demostene poteva ancora barcamenarsi in opposizione a Filippo II accettando protezione politica e denari dal Gran Re. L’età dell’imperialismo romano, o della «repubblica imperiale» (come l’ha chiamata qualche storico moderno) realizzò l’inarrestabile esplosione della potenza militare romana, che ebbe la sua segreta formula nel fatto che lo Stato romano si presentava come una «nazione» (la prima nella storia), la nazione italica, radicata su una estesa base territoriale che all’inizio comprendeva la sola Italia centrale (Marche, Abruzzo, Umbria e Toscana, oltre al Lazio e alla Campania), ma legava fra loro in modo del tutto inedito le comunità via via entrate nella lega romana (Italische Bund, dirà il Beloch) con il vincolo del comune diritto di cittadinanza o con patti bilaterali (foedera) che avevano per effetto di legare indissolubilmente il destino dei singoli contraenti alla fortuna e al successo della città egemone. Alcuni intellettuali greci guardarono con crescente simpatia, dopo il trauma iniziale, alla crescita di questa nuova realtà e non di rado vi parteciparono in prima persona, come lo storico greco Polibio, che — portato in Italia come ostaggio — dedicò tutta la sua vita ad indagare le radici storiche di questa inedita quanto fenomenale grandezza, o come il

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filosofo Posidonio, convinto del fatto che la civiltà romana fosse una quasi incarnazione del logos destinato a dominare il mondo. Nato ad Apamea, in Siria, intorno al 135 a.C. Posidonio era stato allievo di Panezio ad Atene e nel 96 si era stabilito a Rodi (patria del suo maestro), dove aveva raggiunto un’importante posizione politica, diventando prìtano, e aveva aperto una sua scuola che ebbe fra i suoi frequentatori illustri personalità dei nuovi dominatori romani: Pompeo, Cicerone e Varrone. La sua filosofia, incentrata sulla teoria della conflagrazione universale e sulla immortalità dell’anima individuale, annetteva grande importanza alle scienze particolari, considerate come membri di un sistema e fondamenti del pensiero. Come matematico e astronomo gli sono attribuiti tentativi di misurare la lunghezza del circolo massimo della sfera terrestre (e sembra che i suoi calcoli, che si discostavano alquanto da quelli di Eratostene, abbiano causato il «rimpicciolimento» del mondo registrato nelle misure di Tolemeo), la grandezza del sole e della luna, la distanza della terra dal sole. Sue intuizioni geniali furono pure di individuare nelle fasi lunari un influsso sulle maree, e di collegare i fenomeni sismici a quelli vulcanici. Suggestioni risalenti ad Eratostene gli fecero progettare una circumnavigazione dell’Africa e gli diedero l’idea di raggiungere le Indie per la via marittima d’Occidente. Descrisse accuratamente la Gallia, distinguendo per primo Galli da Germani in un contesto di complessivo esame delle rispettive culture. Sviluppando idee contenute negli scritti di Ippocrate giunse a definire l’influenza dei luoghi e del loro clima sul carattere e il destino dei popoli, e per questi ultimi proponeva una classificazione nella quale opponeva il quvmo" (ossia la «furia», le passioni irrazionali) dei popoli barbari al lógos (il «calcolo») dei popoli civili, incarnato, come si è detto, dalla civiltà romana destinata a prevalere. Nella tradizione inaugurata da Eratostene doveva collocarsi anche la più importante delle sue opere scientifiche (Sull’Oceano), che conteneva una descrizione del mondo secondo lo schema dei peripli, ma che trattava anche questioni generali ed era ricca di osservazioni personali e notizie etnografiche. Naturalmente, però, come tutti i grandi rivolgimenti della storia, anche la nascita dell’impero romano — che portò ad una specie di ristrutturazione del mondo — ebbe momenti assai drammatici: abbiamo detto della distruzione di Cartagine e di Corinto nel 146 a.C., e dobbiamo aggiungere che non meno feroce fu il trattamento riservato agli abitanti

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di Alessandria, che fino a quel momento era stata il faro della cultura ellenistica, anche se questa particolare operazione di sopraffazione non fu opera diretta dei Romani, che incamerarono l’Egitto e ne fecero una provincia soltanto dopo la battaglia di Azio del 31 a.C., nella quale Ottaviano ebbe ragione delle forze congiunte di Antonio e Cleopatra. Oltre che della crescente influenza di Roma, Alessandria fu vittima delle contese dinastiche fra i sovrani ellenistici, discendenti dei Diàdochi. L’Egitto dei Tolomei (Làgidi) fu invaso da Antioco IV di Siria, della dinastia dei Seleucidi, che inseguiva un suo sogno di ricostruire l’impero di Alessandro, e a tale scopo aveva cominciato con il prendere prigioniero Tolemeo VI Philométor, allontanandolo dalla sua sede. Gli Alessandrini avevano allora eletto re il fratello di Tolemeo, detto Physkon (ossia il pancione, da physke = salsiccia), che avrebbe dovuto reggere il paese fino a quando non fosse restaurato il Philométor. Quando costui riuscì a tornare in Egitto, il Physkon gli lasciò il regno, accontentandosi di diventar re della sola Cirenaica, ma non appena fu morto il Filometor, e fu posto sul trono Tolemeo VII, il Physcon tornò ad Alessandria ed eliminò brutalmente il giovane erede, suo nipote, facendosi nominare re al suo posto con il nome di Tolemeo VIII (Evergète II). Appare più che probabile che queste contese dinastiche siano state manovrate dai Romani, ma sta di fatto che il regno del Physkon fu caratterizzato da una spietata persecuzione dell’elemento greco di Alessandria, a favore della popolazione locale, non greca, che poi si dirà copta (contrazione di Aegyptia), e va considerata, a questo riguardo, la circostanza che l’odiato re si era assicurato l’appoggio esterno dei Romani facendo testamento a favore del popolo romano, per bloccare così ogni tentativo ostile da parte di Antioco IV di Siria, timoroso della reazione romana. Quello che a noi interessa di questa serie di eventi è che la maggior parte degli studiosi della Biblioteca, essendo di etnia greca, fu costretta ad abbandonare Alessandria: Ateneo, nei Deipnosofisti (i sofisti a banchetto), illustra efficacemente questa diaspora degli intellettuali alessandrini, e l’odio che essi maturarono nei confronti del tiranno. La vita culturale di Alessandria ebbe dunque un brusco arresto, e poté riprendere soltanto in età imperiale, allorché furono gli imperatori romani a voler di nuovo favorire la ripresa dell’attività della Biblioteca e del Museo, nel cui ambito poterono fiorire le ultime grandi personalità

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della scienza antica: come quelle di Erone, Claudio Tolemeo, Galeno, Diofanto. Sintomatico, circa la figura di Erone alessandrino, il fatto dell’incertezza cronologica dell’epoca in cui sarebbe vissuto. Si pensava in genere al I secolo a.C., ma si è constatato di recente che in uno dei suoi trattati (che hanno avuto la fortuna di giungerci quasi intatti) egli ha citato una eclisse lunare avvenuta il 13 marzo del 62 d.C., ossia durante il regno di Nerone (54–68). Dunque questo anno 62, anche nel caso che Erone riferisca una osservazione fatta da altri tempo prima, può essere considerata un terminus post quem, ossia un limite cronologico inferiore. Si dice per lo più che Erone sia da considerare il massimo «ingegnere» dell’antichità. Questo è dovuto anche al fatto che molte delle sue opere sono conservate, mentre il fatto che esse siano state conservate a sua volta si spiega con l’autorevolezza che venne alla sua figura dalla posizione di direttore della scuola meccanica di Alessandria. Una specie di primo Politecnico del mondo antico, nel quale i corsi preparatorii, denominati logikón, erano consacrati alle scienze matematiche, e solo dopo questa specie di «biennio» di ormai vecchia memoria si passava alle esercitazioni pratiche del cosiddetto cheirurgikón. Si è anche notato che la più gran parte delle nozioni contenute nei trattati di Erone appartengono al patrimonio di conoscenze stabilmente acquisite dalla scienza greca già nel III secolo a.C., e dunque si è concluso che l’opera di Erone altro non sarebbe se non una trattazione enciclopedica basata sull’autorità di opere ormai antiche, vagliate ed ordinate dopo un lavoro di diorthosis che rivela una ripresa dell’antica attività della scuola alessandrina ed una rinascita di Alessandria come centro di cultura, e questo va sicuramente messo in relazione con la riduzione a provincia dell’Egitto, avvenuta dopo la battaglia di Azio (31 a.C.) ad opera di Ottaviano (poi Augusto). Forse fu Claudio, l’imperatore appassionato di erudizione (che regnò dal 41 al 54 d.C.), a favorire la rinascita della città, restaurando il mecenatismo dei Tolemei. L’opera di Erone è conservata quasi per intero, tramandata da vari codici, e occupa ben 5 volumi nella bella edizione datane nel 1899 da Wilhelm Schmidt, che l’ha impreziosita con 124 figure esplicative che riproducono e migliorano in chiarezza le illustrazioni già presenti nei codici manoscritti. Molti di questi scritti erano nel solco della tradizione per

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dir così euclidea, e formavano, con ogni probabilità, i libri di testo del logikón del politecnico alessandrino. Metriká (Misurazioni): tre libri con le regole per la misurazione dei poligoni regolari; si trattava di geometria pratica e di geodesia. Contenevano, tento per fare un esempio, la cosiddetta formula di Erone, utile a calcolare l’area del triangolo conoscendone il perimetro o i lati [p(p–a) (p–b) (p–c) dove p = semiperimetro]. Horoi tòn geometrías onomáton ossia Definizioni geometriche; Eisagogài tòn stereometrouménon: Guida o Introduzione alla stereometria. Commento agli Elementi di Euclide, sussidio didattico per il logikón. Pneumaticá: in due libri, è un trattato sulla meccanica dei gas e dei liquidi, con applicazioni molto ingegnose dei princìpi teorizzati da Ctesibio e Filone sulla forza elastica e motrice dei vapori o gas sotto l’azione più o meno combinata del calore e della pressione, specie per ciò che riguarda l’azione che questi gas o vapori, compressi o dilatati, potevano esercitare sull’equilibrio e il movimento dei liquidi. Ben note applicazioni di questi principi sono l’eolipila o turbina a vapore, ma anche, ad esempio, le siringhe utilizzate in medicina nel drenaggio delle sierosità traumatiche. Nei Pneumatica veniva anche esaminato a fondo il principio meccanico del sifone. In molti casi l’utilizzazione proposta per questi ritrovati della meccanica era ludica, ossia serviva per preparare lussuosi giocattoli che riproducevano cinguettii di uccelli o sibili di serpi etc. Perì automatopoietikès: Sulla costruzione di automi, illustrava la costruzione di veri e propri teatri meccanici in grado di rappresentare brevi pantomime impersonate da automi, divise in quadri in modo che alla fine di ciascun quadro un sipario si abbassava per qualche istante consentendo agli automi di riprendere la posizione iniziale senza essere visti dallo spettatore; Baroúlkos: (da barus pesante ed elkomai), dedicato alle macchine utilizzate nel sollevamento dei pesi.

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Dioptra, ossia “traguardo”): l’intero trattato viene dedicato a descrivere minuziosamente lo strumento che era stato già perfezionato da Ipparco di Nicea. Cheiroballístras kataskeuè kaì symmetría (ossia Costruzione e regolazione della chiroballista, di un’arma, cioè, che scagliava dardi come macchina d’artiglieria. Mechanica nella quale si trattava del centro di gravità e si dava una teoria generale e condizioni di equilibrio e di movimento delle cinque macchine definite semplici o fondamentali: la leva, il verricello o argano, la carrucola, il cuneo, la vite senza fine o elice, e le loro combinazioni. Vi si trattava anche la meccanica di attrito delle ruote, specialmente delle ruote dentate, nelle pratiche applicazioni. Sul contenuto di queste opere si richiamano le osservazioni di L. Russo: Erone “conosce e usa, tra l’altro, viti di precisione, cremagliere, ingranaggi demoltiplicatori” (applicati ad esempio negli odometri usati per misurare le distanze percorse per terra e in mare), catene di trasmissione, alberi a camme (meccanismi che, mediante un eccentrico, permettono di trasformare un moto circolare in un moto lineare alternato)” e ancora «eliche, stantuffi e diversi tipi di valvole. Egli sfrutta inoltre sia varie proprietà dei fluidi sia le fonti naturali di energia già ricordate»: dunque tutto quello di cui avrebbe avuto bisogno, nel XVIII e XIX secolo della nostra era, la prima applicazione delle macchine alla produzione industriale. «Dal punto di vista concettuale», si è notato che «una delle caratteristiche più interessanti» dei congegni progettati o almeno descritti da Erone è la «presenza frequente di meccanismi di retroazione capaci di riportare il sistema allo stato iniziale dopo che esso ne è stato allontanato oppure di mantenere stabile il regime di funzionamento» dell’automa fino ovviamente all’esaurimento della risorsa energetica disponibile. Altra osservazione del Russo è che Erone appare sempre più (a seguito del progresso dell’indagine storica) come un compilatore di manuali redatti attingendo ad opere altrui. Nel caso dei procedimenti algebrici, ad esempio, dei quali una volta egli era considerato inventore, la decifrazione di testi cuneiformi ha rivelato che si trattava in realtà di procedimenti da lungo tempo in uso già in Mesopotamia presso Caldei e Babilonesi,

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trasmessi ai Greci dopo che la spedizione di Alessandro aveva reso stabili i contatti con questa regione dell’Oriente. La cosiddetta formula di Erone usata come si è visto per calcolare l’area del triangolo viene attribuita non ad Erone, ma ad Archimede dal matematico arabo Al Biruni, che poteva leggere ancora le opere di Archimede. Le Definizioni sono un’opera dichiaratamente compilativa e divulgativa. Il principio dei vasi comunicanti, che in passato veniva considerato attribuibile ad Erone, è implicito nel postulato di Archimede, ed era certamente conosciuto dai costruttori delle condotte forzate realizzate in età ellenistica, e dunque secoli prima della nascita di Erone (si pensi all’acquedotto di Pergamo, realizzato dai primi Attalidi). Dunque questa tecnologia di Erone appare sempre di più come un sottoprodotto tardivo della più sofisticata ingegneria ellenistica di III – II secolo a.C., risalente a Ctesibio e Filone. D’altra parte va notato con decisione che il nucleo inventivo delle conoscenze tecnologiche che furono alla base della rivoluzione industriale moderna (sifoni, eliche e macchine a vapore) fu desunta interamente dai manuali di Erone, dei quali gli Inglesi furono avidi lettori e traduttori. E ancora: la compilazione di Erone nacque soprattutto come raccolta di marchingegni ludici, destinati a stupire e a divertire un pubblico fatto per lo più di spettatori sprovveduti, ma questi «potrebbero anche essere interpretati come sottoprodotti della tecnologia ellenistica (inizialmente sviluppata per altri scopi) che proprio grazie alla loro natura ludica erano riusciti a sopravvivere e a svilupparsi nelle nuove condizioni dell’età imperiale. Altrimenti, accettando le opinioni in genere espresse su Erone, bisognerebbe trarne la deprimente conseguenza che la nostra civiltà europea moderna, per sviluppare la propria tecnologia, non abbia saputo far di meglio, per secoli, che continuare ad attingere idee dal lavoro isolato e tardivo di un antico costruttore di giocattoli». La rinascita alessandrina in età romana imperiale ebbe tra i suoi esponenti di rilievo non soltanto Erone, ma almeno altri due nomi di spicco: Claudio Tolemeo e Galeno. Di Claudio Tolemeo (che così si chiamava per il motivo che la sua famiglia aveva ricevuto la cittadinanza romana ai tempi dell’imperatore Claudio) abbiamo già avuto modo di parlare più volte, notando l’errato calcolo nell’Almagesto della circonferenza terrestre e la persistenza della cosmologia del sistema tolemaico, imposto ancora ai tempi di Galileo. Di Tolemeo si conserva anche una importantissima o-

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pera intitolata Geografia, descrizione accurata di tutta l’ecumene che fu importantissima come repertorio geografico, con migliaia di nomi di città, ciascuno dei quali corredato dai dati di longitudine e latitudine coordinate rispetto al diáfragma, secondo dati in gran parte derivati dai calcoli già effettuati da Marino di Tiro. Galeno, anche lui vissuto nel II secolo, fu autore della più ampia trattazione della scienza medica realizzata dagli antichi, così vasta ed articolata da oscurare tutte le precedenti. Dal nome di Galeno l’arte medica fu detta galènica, e ancora ai nostri tempi il preparato farmaceutico non preconfezionato si chiama prodotto “galènico”. Nato a Pergamo nel 129 d.C. (dall’architetto Nikon), morì a Roma nel 199, durante il regno di Settimio Severo. Della sua produzione siamo ben informati da una accurata bibliografia da lui stesso compilata con il titolo Sull’ordine dei propri libri, recante l’elenco di 153 opere in 504 libri (con una media dunque di tre libri e mezzo per opera), di cui 150 (dunque quasi tutte) superstiti e leggibili. Un ultimo «grande» da ricordare nel novero della illustre tradizione alessandrina è sicuramente Diofanto, la cui opera, in una traduzione latina pubblicata in Francia nel 1621, costituì — come è noto — il punto di partenza di Pierre de Fermat per l’elaborazione della teoria dei numeri interi, dominio speciale dell’aritmetica: in questa direzione si può dire che proprio Diofanto, quasi unico fra i Greci, abbia mosso i primi passi su un sentiero che dopo di lui rimase assai poco frequentato, lungo un percorso che solo per merito di Hindi e Arabi si salvò dall’oblio più completo. Poco o nulla si sa della vita di questo matematico «puro» che impersona il culmine dell’algebra alessandrina, se si eccettuano i pochi dati desumibili da un epigramma dell’Antologia Palatina (attribuito a un tal Metrodoro), nel quale le notizie biografiche sono incastonate in una specie di indovinello aritmetico: la sua giovinezza durò un sesto dell’intera sua vita, quindi la sua barba crebbe per un dodicesimo, prese moglie dopo un settimo, ebbe un figlio dopo cinque anni di matrimonio; suo figlio visse la metà degli anni del padre e il padre morì quattro anni dopo il figlio. Caratteristica peculiare dell’algebra di Diofanto è la soluzione delle equazioni indeterminate, il cui studio è affrontato sistematicamente, al punto che lo si considera «fondatore di quella branca dell’algebra che viene difatti chiamata oggi analisi diofantea».

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Non sarebbero mancati, nei secoli successivi, esempi di acute intelligenze rivolte all’indagine dei più astrusi sentieri dell’intellettualità umana: basti pensare, tanto per limitarsi alla tradizione alessandrina, alle opere di Pappo o di Teone, o alla dottissima Ipazia (figlia di Teone), martire pagana nonché commentatrice dell’opera di Diofanto, massacrata nel 415 da una folla di cristiani fanatici, che ne smembrarono il corpo per poi arderlo replicando, a distanza di più di otto secoli, il crudele olocausto dei dotti pitagorici in Magna Grecia. Sul contributo dato dal pensiero matematico di Diofanto, così come sulla enorme quantità di produzione scientifica e intellettuale che ha avuto meno fortuna di quella, ed è stata inesorabilmente inghiottita nell’oblìo dell’ignoranza e della distruzione che decretarono la fine del mondo antico possiamo in questa sede limitarci ad una semplice riflessione: fra Diofanto e Pierre de Fermat l’umanità dovette attendere ancora tredici secoli per assistere agli sviluppi del particolarissimo seme di intelligenza sparso dal grande alessandrino in un’epoca assai poco propizia agli studi. La seconda metà del III secolo d.C. è infatti il periodo che vede disgregarsi la perfetta armonia costruita nel governo dell’impero ecumenico dal «principato civile», entrato ormai definitivamente in crisi con l’anarchia militare che fece seguito al regno dei Severi. Ancora qualche secolo, e la rovina dell’Occidente avrebbe costretto i matematici dell’Accademia platonica di Atene a cercare asilo nell’antichissima culla della scienza dei numeri, sulle rive del Tigri: siamo alla vigilia del trionfo di quello che oggi si direbbe “integralismo islamico”, che avrebbe prodotto la distruzione sistematica dei volumi conservati nella biblioteca di Alessandria nel 641, ma gli storici avvertono che questi roghi decretati da Imru al–Quais (conquistatore dell’Egitto) non fecero che completare un’opera già per la maggior parte compiuta nel 390 d.C. dai non meno integralisti e fanatici seguaci del vescovo alessandrino Teofilo.

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8 Il declino della scienza antica nelle compilazioni degli enciclopedisti latini Sappiamo che fra i Romani una produzione letteraria iniziò appena verso la metà del III secolo a.C., con le rozze imitazioni che scrittori in lingua latina fecero di originali greci. Roma era vissuta per più di 500 anni senza produrre un solo poema, un solo libro, nonostante condizioni piuttosto elevate di civiltà esteriore e di qualità morali di prim’ordine. Questo mostra come ai Romani fece a lungo difetto l’immaginativa e per ciò, data la loro indole realistica, è chiaro che essi non ebbero disposizione verso la letteratura e tanto meno verso le arti figurative, sì che nei primi secoli della loro storia dovettero ricorrere, per ogni evenienza, ad artisti etruschi e poi greci. La loro sensibilità artistica restò così rudimentale che ancora alla metà del II secolo a.C. Polibio poteva assistere al triste spettacolo dei soldati romani che, tra le rovine fumanti di Corinto, giocavano a dadi sui quadri di Aristìde raffiguranti Diòniso e l’Eracle furente. Il primo vero rappresentante della cultura greca a far visita a Roma fu Cratete di Mallo, che nel 168 fu inviato nell’Urbe da Eumene II re di Pergamo, e suscitò ammirazione fra i Romani che lo ascoltarono, secondo la testimonianza di Livio. Importante fu pure il caso dello storico greco Polibio, che all’incirca nello stesso periodo, all’indomani della vittoria di Lucio Emilio Paolo sul re Perseo di Macedonia (Pidna, 168 a.C.) fu inviato in Italia come uno dei mille cittadini della lega achea che avrebbero dovuto garantire come ostaggi l’osservanza dei patti. Insieme con gli ostaggi fu spedita in Italia la ricchissima biblioteca del re, poi ospitata nella casa romana del console vincitore. Fu così che quei Romani che erano interessati alla cultura ellenistica ebbero a disposizione una imponente raccolta di scritti greci, che svolse una funzione importantissima nella formazione del movimento di cultura noto come «circolo degli Scipioni» (nel quale furono attivi, oltre allo storico Polibio, il filosofo stoico 117

Panezio di Rodi, il poeta latino Ennio), nato attorno a Scipione Emiliano (il cosiddetto Africano minore) che, come è noto, era uno dei figli di Emilio Paolo, adottato dallo Scipione figlio dell’Africano maggiore. Ancora nel 155, quando Atene si trovò in serie difficoltà col senato romano, mandò a Roma come inviati straordinari i personaggi più illustri delle sue tre scuole principali: il peripatetico (ossia aristotelico) Critolao, lo stoico Diogene, e Carneade, fondatore della nuova Accademia platonica. Durante il loro soggiorno a Roma i tre filosofi tennero conferenze molto apprezzate, che contribuirono molto a indirizzare i Romani verso gli studi filosofici. In questo ebbe grande importanza anche la figura di Posidonio (135–51 a.C.), massimo esponente della scuola filosofica stoica, del quale si è già detto: sembra che parte dei contenuti della dottrina volgarizzata da Posidonio sia confluita nell’opera superstite di Gemino di Rodi, vissuto intorno alla metà del I secolo a.C. e autore di un commento dei Fenomeni di Arato di Soli. Qualcosa dell’insegnamento di Posidonio resta forse anche nel manuale di Cleomede, Sui moti ciclici dei corpi celesti, che abbiamo già citato per il sunto (estratto dall’opera di Eratostene) del procedimento di misurazione del meridiano. Fra i Romani, prima che si facesse sentire l’influenza greca, l’educazione era imperniata sull’agricoltura, sulle arti militari, sul diritto (conoscenza elementare del testo delle dodici tavole) e sulla medicina pratica: il tutto era inteso a formare prosperi proprietari terrieri e una nazione militarmente forte. In tutti i manuali di agricoltura (Catone, Varrone, Columella, Palladio) troviamo sezioni sul trattamento delle infermità umane e sulle malattie degli animali, e una buona parte di questa scienza pratica derivava dalla lettura dell’opera del cartaginese Magone, tradotta in latino per espresso provvedimento del senato romano dopo la distruzione di Cartagine nel 146. Esponente di rilievo di questo modello di cultura enciclopedica eminentemente pratica fu Catone il Vecchio (M. Porcius Cato, poi detto Maior per distinguerlo dall’Uticense), vissuto fra il 234 e il 149 a.C., di cui ci è stato conservato il manuale intitolato De agri cultura, e che fu nemico acerrimo della diffusione della cultura greca fra i Romani, come mostrò ancora in tarda età, chiedendo l’espulsione da Roma dei tre ambasciatori ateniesi Carneade, Diogene e Critolao che approfittavano del prolungarsi del loro soggiorno a Roma per tenere lezioni di filosofia. L’influsso greco si fece sentire con una certa consistenza solo nel I secolo, come si vede dal complesso delle teorie epicuree che sta alla

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base del poema di Tito Lucrezio Caro, intitolato De rerum natura, che fu — almeno ad un certo livello — potente veicolo di divulgazione di concezioni fisiche, astronomiche e mediche di origine greca. Anche l’opera del dotto Marco Terenzio Varrone (si tratta del Varrone Reatino, vissuto fra il 116 e il 27 a.C., da non confondere con Varrone Atacino, ossia di Atax) risentì notevolmente di influssi greci, specie in quella fra le sue numerosissime opere che si presentava come compilazione enciclopedica (Disciplinarum libri IX), cui Varrone attese nell’ultimo decennio della sua vita, e che era strutturata secondo una precisa forma di organizzazione del sapere, articolata nei settori delle arti liberali (grammatica, dialettica, retorica, geometria, aritmetica, astronomia, musica, medicina e architettura), divenuti in seguito una specie di canone, poi irrigidito nello schema del trivio sermocinale (grammatica, dialettica, retorica) e del quadrivio matematico (aritmetica, geometria, astronomia, musica) che sarebbe stato, con la mediazione degli enciclopedisti tardoantichi (Marziano Capella, Boezio, Cassiodoro) e fino al Rinascimento, come mostra la struttura del De disciplinis dell’umanista spagnolo Ludovico Vives (1531), l’asse culturale destinato a sorreggere nelle scuole l’educazione scientifica e letteraria. Va anche detto che ancora all’età di Cesare e Cicerone l’entusiasmo per la scienza greca era dai più considerato alla stregua di una bizzarra mania, come mostra la vicenda di Nigidio Figulo, rappresentante notevole del pitagorismo latino, con fama di stregone e veggente, autore di numerosi scritti che non sono pervenuti. Nigidio fu anche un uomo politico di qualche peso, pretore nel 58 a.C., l’anno dopo il primo consolato di Cesare, e sarebbe passato alla storia con quel nome Figulus («vasaio») perché al suo ritorno dalla Grecia egli asseriva con entusiasmo che il mondo ad celeritatem rotae figuli torqueri («che la terra girava velocissima come la ruota di un vasaio»), il che spiega come gli restasse appiccicato il nomignolo di Figulus, affibbiatogli per deriderlo. Ma è altrettanto vero che, accanto a questo atteggiamento diffuso a livello di cultura popolare, vi era la gran considerazione, da parte dei vertici del potere statale, del prezioso apporto garantito dalla scienza ai problemi dell’amministrazione e del governo, come mostrano episodi quali la riforma del calendario avviata da Cesare e affidata all’astronomo alessandrino Sosigene, che portò all’adozione del calendario giuliano, divenuto da allora universale in

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Occidente, o l’amicizia di Tiberio per il matematico ed astronomo Trasillo. Rispetto al livello raggiunto dagli scienziati dell’età ellenistica vanno sicuramente considerate di «minor valore» le compilazioni in lingua latina degli enciclopedisti: il De architectura di Vitruvio, la monumentale Naturalis historia di Plinio il Vecchio; le Naturales quaestiones di Seneca; il De medicina di Celso; i Saturnalia di Macrobio (va notata, tuttavia, la notevole specializzazione raggiunta da manuali come quello di Vitruvio o di Celso). Ma va detto anche che tutte queste opere sono spesso il solo tramite per la nostra conoscenza della grande scienza greca (pensiamo alla bibliografia fornita da Plinio nel primo libro della Naturalis historia), e che inoltre esse rappresentano il successo di un’opera di divulgazione, rivolta ad una utenza (la più o meno media o piccola borghesia, fatta in gran parte di personale impiegatizio o di militari in congedo, alleata, o meglio «cliente», del principe) che non poteva avere accesso diretto alla lettura dei libri scritti in lingua greca, riservata all’élite che aveva accesso diretto, proprio per l’ottima conoscenza del greco, ai testi di elevato livello scientifico. Il bilinguismo dei ceti dirigenti dell’impero romano è un fenomeno che solo recentemente è stato valutato in tutta la sua portata, con riguardo alle implicazioni che esso portò con sé, e che vanno tenute ben presenti per una esatta comprensione degli sviluppi della cultura grecoromana.

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9 Tecnologie e società antica Abbiamo iniziato il nostro discorso sulla cultura scientifica dei Greci con un’incursione nel mondo omerico, sulla scena dell’hístor giudicante nella città istoriata da Efesto a decorazione dello scudo destinato ad Achille. Per gli scopi che ci siamo prefissi in questo corso non meno interessante sarà un sia pur veloce riaccostarsi a quei favolosi dintorni per guardare con una maggiore attenzione al luogo in cui lo scudo venne fabbricato, ossia alla fumigante officina situata dentro il palazzo di Efesto. Costui, come c’insegna la lettura del padre Omero, è sì una delle divinità ufficiali del pantheon greco, ma è anche l’abilissimo artigiano o artefice capace di costruire strani oggetti: vediamo infatti cosa accade prima che il dio si metta d’impegno a costruire lo scudo destinato ad Achille (ancora una volta nella bella versione italiana del Monti [XVIII 503–515], nella quale ovviamente Efesto ha il nome romano di Vulcano): Mentre seguìan tra lor queste contese Teti agli alberghi di Vulcan pervenne, stellati eterni e rilucenti alberghi, fra i celesti più belli, e dallo stesso Vulcan costrutti di massiccio bronzo. Tutto in sudor trovollo, affaccendato de’mantici al lavoro. Avea per mano dieci tripodi e dieci, adornamento di palagio regal. Sopposte a tutti d’oro avea le rotelle, onde ne gisse da sé ciascuno all’assemblea dei numi e da sé ne tornasse onde si tolse: meraviglia a vederli!

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Nel testo greco questi manufatti sono chiamati (373–376) trivpode" aujtovmatoi e alcune note di commentatori osservano che è probabile che in questi «automi» siano da ravvisare mense semoventi, sul tipo dei tripodi poi realmente costruiti o almeno progettati da Erone. Ma non finisce qui: Càrite (ricca di «grazie», come si evince dal nome, e dunque inopinata sposa dello «sgraziato» Efesto/Vulcano) fa «accomodare» Teti nella sala del trono, e intanto avverte suo marito della visita, per dargli modo di mettersi in ordine, di ripulirsi dal fumo e dalla fuliggine per potersi presentare alla sua ospite con aspetto decente; egli compie queste operazioni per poi recarsi, con qualche difficoltà nella deambulazione, dalla sua vecchia conoscenza: Seguìan l’orrido rege, e a dritta e a manca il passo ne reggean, forme e figure di vaghe ancelle, tutte d’oro, e a vive giovinette simìli, entro il cui seno avea messo il gran fabbro e voce e vita e vigor d’intelletto, e delle care arti insegnate dai Celesti il senno. Queste al fianco del dio spedìte e snelle camminavano; ed egli a tardo passo avvicinato a Teti, in un lucente trono s’assise. Nel testo greco leggiamo (417–421): …uJpo; d∆ajmfivpoloi rJwo v nto a[nakti cruvseiai, zwh'si nehvnisin eijoikui'ai. Th'" ejn me;n novo" ejsti; meta; fresivn, ejn de kai; aujdh; kai; sqevno", ajqanavtwn de; qew'n a[po e[rga i[ s a s i n. Aij me;n u{paiqa a[nakto" ejpoivpnuon. Dunque, tripodi semoventi a rotelle, ancelle costruite d’oro: i tripodi si muovono autonomamente, e delle ancelle d’oro addirittura si dice addirittura i[sasin (= «che sanno», usando lo stessa radice id che abbiano cavato dall’hístor); dunque veri e propri robot (antenati di quelli dottamente «citati» da Spielberg e Lucas), che suscitarono l’attenzione di Cra122

tete tebano e dello stesso Aristotele, come è evidente nel luogo della Politica in cui leggiamo la celebre osservazione che, se siffatte macchine esistessero, non vi sarebbe bisogno di schiavi. Va notata, intanto, a conferma di quell’immenso valore dei poemi omerici intesi come archivio ed archetipo concettuale della civiltà occidentale, la straordinaria potenza di immaginazione e di teoresi del popolo greco, che già verso la metà dell’ottavo secolo era in grado di «concepire» gli «automi», pur attribuendoli all’ingegno di un dio (che però si presenta con umanissimi connotati, a partire dal suo essere zoppo). Non è chi non veda come questi automi, che ora fanno parte integrante della nostra vita quotidiana (che lavano la nostra biancheria o verniciano e assemblano le nostre automobili, e chissà cos’altro), e che furono realizzati già dagli antichi, come abbiamo visto a proposito delle sofisticate macchine (teatrali o meno) di Erone, siano figli diretti non soltanto nel nome, dagli autómata di Omero, pensati o, meglio, creati con il pensiero nella loro funzione di ministri delle divinità, prodotti da un genio divino non meno di quello di Efesto, in un’epoca in cui immaginarne l’esistenza dovette richiedere una enorme creatività fantastica. Uno spunto ancora più interessante, perché nutrito di prodigiosa consapevolezza, è fornito dalla parole di Aristotele: «se ogni strumento inanimato riuscisse a svolgere il suo lavoro da solo, seguendo un’istruzione, o addirittura anticipandola e, come dicono che fanno le statue di Delo o i tripodi di Efesto i quali — a sentire il poeta — ‘entrano automaticamente nell’assemblea divina’, così anche le spole fossero capaci di tessere da sole, e i plettri di toccare da soli la cetra, allora gli architetti non avrebbero bisogno di dipendenti, né i padroni di schiavi». Si è scritto, a proposito di questa osservazione del grande Stagirita, che «nessun lettore moderno può fermare lo sguardo su questa frase senza un brivido. Il tempo vi ha posato sopra l’ombra di una coincidenza vertiginosa. Come si fa a non pensare ai telai meccanici collegati alle prime macchine a vapore, all’alba della rivoluzione industriale, che facendo muovere finalmente ‘da sole’ le spole, avrebbero iniziato a trasformare il lavoro di fabbrica, riempiendo i mercati di merci? Quasi che la storia si fosse incaricata, rovesciandone le premesse di fatto, ma conservando il valore dell’esempio, di confermare la verità del ragionamento di Aristotele, attribuendogli il colore di una enigmatica premonizione: qualcosa fra

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l’oscuro presentimento della macchina e l’esibizione inconsapevole del suo desiderio». A svolgere le operazioni ripetitive necessarie per la produzione il mondo antico utilizzò, in sostituzione dei non esistenti automi, che pure aveva immaginato, la manodopera schiavile, quello che i giuristi romani definiranno instrumentum vocale (ossia strumento parlante, per distinguerlo dagli altri annessi del fundus: quelli semimuti [bove o cavallo] e muti [carri e aratri]): la presenza di questa manodopera servile o schiavile a buon mercato, ammucchiata senza tanti riguardi negli ergastula, spiegherebbe, secondo le moderne teorie, quella «stagnazione tecnologica» del mondo classico grecoromano che non consentì all’umanità di avviare, già allora, uno sviluppo lineare di progresso scientifico e tecnologico quale si è verificato nella nostra epoca fortunata e felice. L’atteggiamento dei «moderni» nei confronti delle conoscenze scientifiche e delle potenzialità tecnologiche del mondo antico rivela, a ben riflettere, una curiosa volubilità. Fino a quasi tutto il XIX secolo quello che oggi chiameremmo il livello tecnologico degli antichi venne mitizzato in maniera perfino esagerata: i resti grandiosi, disseminati per ogni dove, delle imponenti costruzioni romane alimentarono per secoli la fantasia popolare, apparendo per lo più come opere ai limiti del soprannaturale. Accadde spesso, così, che i ponti romani fossero chiamati «ponti del diavolo», secondo una interpretazione rivelatasi comune a tutto il folklore europeo. Subito dopo, al contrario, all’indomani delle trasformazioni prodotte dalla rivoluzione industriale, una cieca fede nel «progresso», considerato conseguenza naturale ed inevitabile della civiltà, indusse una specie di incredulità perplessa per come «le due maggiori civiltà del passato [la greca e la romana] non fossero riuscite ad elaborare una tecnologia superiore, accontentandosi al massimo di costruire qualche automa per puro passatempo». In un ottimo testo scolastico di storia leggiamo: «I motivi del mancato sviluppo della tecnica antica sono certamente molteplici. L’enorme disponibilità di schiavi assicurava una manodopera abbondante e poco costosa che in certi casi rendeva indubbiamente superfluo l’uso di macchine. È vero anche che il disprezzo degli schiavi generò il disprezzo per tutti i lavori manuali, tecnici, pratici, proprio perché tipicamente servili, e che ciò comportò, tra gli scienziati, un minore impegno nello studio della tecnica rispetto ad altri settori ritenuti più nobili: lo studio dei cieli per

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esempio, la matematica astratta, la geometria ecc. Questi fattori, insieme a tanti altri, hanno avuto indubbiamente un certo peso, ma le ragioni determinanti del blocco dello sviluppo tecnico nel mondo antico sono più complesse. Esse si spiegano con le caratteristiche generali dell’economia antica. Il ‘modo di produzione schiavistico’, che dominò in Grecia come a Roma, comportava una distribuzione estremamente ineguale della ricchezza: una classe dominante ricchissima e potente si staccava nettamente dalla massa dei poveri, dei nullatenenti, dei braccianti, dei piccoli agricoltori. Le grandi masse contadine e urbane… non raggiunsero mai un potere d’acquisto sufficiente alla nascita di una produzione industriale su vasta scala; quanto poi agli schiavi, che erano la manodopera prevalente, essi non ricevevano alcun salario. Una vera e propria economia industriale, sorretta da uno sviluppo tecnico adeguato, si sarebbe potuta sviluppare dunque soltanto se le classi dominanti fossero state disposte a trasformare i rapporti sociali esistenti e quindi anche a redistribuire, almeno in parte, la ricchezza. Cosa che non si verificò mai»26. E ancora, leggiamo altrove: «Lo sviluppo scientifico degli antichi, compresi i Romani di età imperiale, ha fatto molto discutere i moderni. Si tratta infatti di uno sviluppo tecnico praticamente inesistente che si è limitato, tranne rare eccezioni, al perfezionamento di scoperte già esistenti, avvenute in epoche molto anteriori o in età ellenistica. Nel tentativo di spiegare questa sorta di «stagnazione tecnologica», sono state avanzate varie soluzioni. La società romana era una società schiavistica, in cui i lavori manuali erano compiuti dagli schiavi. Poiché le continue conquiste avevano aumentato il numero degli schiavi e dunque il loro prezzo sul mercato non era eccessivamente alto, questa sola circostanza avrebbe frenato, o addirittura fatto ritenere inutile, l’invenzione delle macchine che sostituissero il lavoro umano. Da questo punto di vista è esemplare la diffusione molto scarsa dei mulini ad acqua. Essi, fondati sui principi dell’energia idraulica prodotta soprattutto dalle correnti dei fiumi, furono escogitati nel I secolo a.C. In linea teorica, i mulini ad acqua avrebbero fatto risparmiare in tutto il bacino del Mediterraneo innumerevoli energie di uomini e di animali. Infatti, per la lavorazione del grano e dunque per la produzione di farina (bene indispensabile all’alimentazione) si era usata e si sarebbe continuata a usare ancora per molti secoli la forza di uomini e di animali costretti con grande fatica a far ruotare le macine. La scoperta dell’energia idraulica e dei 26

V. CALVANI - A. G IARDINA, Storia antica, Roma-Bari 1988 [terza ed.], p. 303 sg.

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mulini ad acqua non produsse tuttavia quei cambiamenti che ci si sarebbe potuti aspettare. Documentati soprattutto dalle scoperte archeologiche, i mulini ad acqua non sostituirono mai il lavoro degli uomini e degli animali. Questo atteggiamento dei Romani rispetto ai ritrovati della tecnica si traduceva dunque anche in una valutazione non adeguata dei beni economici che potevano essere prodotti da simili scoperte o da scoperte analoghe, al punto che si è parlato a questo proposito di una loro vera e propria mancanza di ‘buon senso’. Di fatto, per un qualsiasi proprietario terriero che volesse vendere sui mercati la propria farina, sarebbe stato molto più redditizio da un punto di vista moderno risparmiare o utilizzare altrove il lavoro degli animali e degli schiavi quando questo stesso lavoro poteva essere compiuto meccanicamente. Un’altra spiegazione che si è data della mancanza di reali sviluppi tecnologici in epoca romana è lo spirito non propriamente «capitalistico» degli antichi. Questa spiegazione (che non è necessariamente contrapposta alla precedente) almeno in parte è anch’essa vera. Se da un lato esistevano gli schiavi e gli animali per supplire ai bisogni della società romana almeno nelle intenzioni dei produttori, d’altro lato questa società non sentì mai, neppure al momento del suo massimo sviluppo, esigenze di espansione commerciale o «industriale» paragonabili a quelle del mondo moderno. Al riguardo sono caratteristici due episodi ricordati uno a proposito di Tiberio, l’altro a proposito di Vespasiano. Un giorno un inventore, il cui nome molto significativamente è rimasto ignoto, si sarebbe presentato a Tiberio e gli avrebbe mostrato una sua grande scoperta: quella del vetro infrangibile. Tiberio non solo decise di non utilizzare a fini economici e commerciali quella scoperta, ma avrebbe anche fatto uccidere l’inventore perché non la divulgasse. Infatti, la diffusione su larga scala del vetro infrangibile avrebbe significato la perdita di occupazione per i lavoratori del vetro comune. In seguito, un altro inventore, di nuovo anonimo, si sarebbe presentato a Vespasiano, proponendogli un modo con cui trasportare a basso costo colonne di marmo sul Campidoglio. Vespasiano avrebbe rifiutato l’offerta, dicendo che quell’invenzione toglieva cibo al popolino impegnato allora nei lavori27. Le scoperte tecniche, dunque, non erano viste in età imperiale romana in diretto rapporto ai 27 Su questi episodi sono da vedere C. SANTINI, Il vetro infrangibile (Petronio 51), in “M.C.S.N.” 4, 1986, pp. 117-124; A. BORGHINI, La paura del Cesare e il vetro infrangibile: un contributo, in “Cultura classica e cristiana” 11, 1990, pp. 257-265; G. POLARA, La tradizione medievale della novella petroniana del vetro infrangibile, in “Semeiotica della novella latina. Atti del seminario interdisciplinare La novella latina” (Perugia 11-13 aprile 1985), Roma 1986, pp. 131-142.

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guadagni economici immediati che potevano provenire dal loro sfruttamento. La non utilizzazione su vasta scala del mulino ad acqua, il rifiuto di Tiberio del vetro infrangibile, l’analogo rifiuto di Vespasiano di utilizzare mezzi meno costosi per il trasporto di materiali edili, sono indizi chiarissimi in questo senso. Altrettanto significativo è che gli inventori non pensassero di sfruttare indipendentemente le proprie scoperte, ma ne dessero immediata notizia ai loro sovrani. Quest’ultima circostanza mostra anche come invenzioni o perfezionamenti nelle tecniche fossero strettamente collegati alla loro possibile utilizzazione in ambito cittadino. Da questo punto di vista, si spiega bene perché i maggiori perfezionamenti tecnici avvenissero in primo luogo, sia a Roma che nelle province, in opere edilizie destinate al pubblico. A Roma, per esempio, un’opera edilizia tecnicamente sofisticatissima fu l’anfiteatro Flavio (il Colosseo, iniziato da Vespasiano e inaugurato da Tito), con le sue arcate possenti e maestose, e con un sistema di copertura che proteggeva gli spettatori dai raggi del sole. Mentre questo edificio, appunto in quanto destinato a tutti, ricevette dai contemporanei un vivo apprezzamento, le innovazioni tecniche introdotte in precedenza nella costruzione della «casa d’oro» (domus aurea) di Nerone, che possedeva addirittura una sala girevole, non furono assolutamente valutate, ma ritenute invece capricci di un tiranno. Non solo a Roma, ma anche nelle province, furono costruiti con tecniche di ingegneria raffinata, giganteschi acquedotti che hanno fatto molto discutere i moderni, i quali si sono chiesti se non esistessero mezzi estremamente più economici come semplici cisterne o pozzi, per rifornirsi d’acqua. Di fatto, la costruzione di questi acquedotti non aveva uno scopo solo pratico. La loro presenza doveva anche rendere manifesti da un lato gli atti di benevolenza dei singoli imperatori nei confronti dei sudditi, d’altro lato la presenza romana nei territori occupati. Nel mondo romano di età imperiale l’ampio perfezionamento delle tecniche edilizie fu sempre in rapporto alle loro finalità politiche»28. Le trattazioni manualistiche, di cui abbiamo citato ampi stralci, riflettono in maniera equilibrata la sterminata massa della produzione storiografica sulla questione, che ha finito con il diventare una delle più dibattute, anche perché essa s’intreccia con l’altra questione, che non ha mai cessato di essere di attualità dai tempi del Gibbon, della «caduta» dell’impero romano e della fine del mondo antico. Eppure le considera28 A. FRASCHETTI, Roma, dalle origini alla caduta dell’impero, in M. L IVERANI - A. FRASCHETTI - R. COMBA, Dal villaggio all’impero, II, Torino 1994, pp. 246-249.

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zioni che abbiamo letto sul «mancato» sviluppo e sulla stagnazione tecnologica fanno venire in mente quella domanda cruciale, che sicuramente più d’uno di noi comuni mortali si è posto in momenti particolari della sua esistenza: «perché mio padre non è nato miliardario?»; altre domande più insidiose, del tipo «ma come mai gli antichi non applicarono le loro conoscenze tecnologiche, ad esempio la turbina a vapore descritta da Erone, ai processi produttivi?», oppure: «perché gli antichi non hanno dedicato la loro intelligenza a costruire adeguate teorie economiche?», meriterebbero risposte commisurate al livello di banalità delle domande. Insomma, è vero che la storia si fa anche col «senno del poi» (quello di cui «son piene le fosse»), ma è anche vero che in questa direzione non si deve esagerare, arrivando a riempire tutte le fosse. Questo argomentare ozioso su una problematica generata da una tendenziosa applicazione di categorie di pensiero «moderne», o meglio «modernistiche», ad una realtà storica remota non merita certo la nostra attenzione, ed è superfluo aggiungere che la nostra curiosità e la nostra intelligenza dovrebbero piuttosto indirizzarsi a spiegare per quale motivo nel «nostro» mondo la logica del profitto abbia generato una civiltà delle macchine non meno mostruosa dell’antico «modo di produzione schiavistico» e in che modo debba o possa governarsi una così complessa realtà. La stagnazione tecnologica degli antichi (insieme con quella che accompagnò la vita umana nei primi secoli dell’età moderna, fino a quasi tutto il XVIII secolo), confrontata con l’esplosione tecnologica della nostra epoca dovrebbe all’opposto farci riflettere su quanto di abnorme e di patologico vi sia nella crescita esponenziale quanto innaturale delle tecniche in questo nostro tempo, rispetto al passato; allo stesso modo il gratuito stupore sulla presunta stagnazione tecnologica o sulla «arretratezza» scientifica degli antichi (che tale è apparsa sulla base del confronto con le vette eccelse di sofisticazione tecnologica raggiunte nel XX secolo) dovrebbe far posto ad una più attenta considerazione di quanta parte dei saperi più strettamente tecnici stabilmente acquisiti dall’uomo antico sia da considerare obliterata dal lungo periodo di travaglio vissuto dall’umanità nei secoli del Medio Evo: ciò che vuol dire, in concreto, individuare l’esatta dimensione del ruolo svolto dalla tecnologia nella organizzazione della società antica, specie in quel periodo felice del cosiddetto «principato civile», compreso fra il regno di Augusto e l’avvento dei Severi.

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In questa direzione cercheremo ora, a chiusura del nostro percorso d’indagine, di accennare brevemente, come preannunciato, all’incidenza di alcune tecniche sulla vita degli umani nell’ecumene antica, limitandoci ad enucleare alcuni ambiti ben definiti d’impiego di queste tecniche, nei quali esse raggiunsero livelli di qualità e grado di diffusione particolarmente rimarchevoli, al punto di proporsi quali ineguagliati modelli: la tenica edilizia, il drenaggio e la captazione delle acque, l’agrimensura. a) La tecnica edilizia. – Una conoscenza un minimo circostanziata della tecnica edilizia usata dagli antichi, specie dai Romani, e dei risultati da essa conseguiti (qui riassunta sulla falsariga di appunti dalle insuperate lezioni di FERDINANDO CASTAGNOLI alla Sapienza) non lascia dubbi sul fatto che in questo ambito i nostri progenitori abbiano raggiunto una sapienza tecnica ineguagliata, come è evidente dalla riuscita di alcuni capolavori di quell’antica architettura (il Colosseo, la cupola del Pantheon, che detiene tuttora il primato nel suo genere). A spezzare un’altra lancia in difesa degli antichi (e a stigmatizzare uno dei rarissimi, e dunque preziosi, esempi di idiozia di noi superuomini del secolo XXI) vale la pena di richiamare l’attenzione su un fatto di cronaca capitato di recente (allo spuntare del terzo millennio, tanto per intenderci), che qualcuno forse ricorderà: mi riferisco al crollo, avvenuto nell’aprile del 2001 (e dunque con geometrica precisione in prossimità del compiersi dell’anno 2753 ab Urbe condita), di un tratto delle mura di Aureliano adiacenti alla Porta S. Sebastiano, e al contenuto di alcuni notiziari radio ascoltati casualmente durante i soliti interminabili spostamenti in città. La notizia, diffusa in prima battuta, riferiva del crollo in modo corretto, aggiungendo che esso si era verificato in corrispondenza di un segmento della cinta già sottoposto a restauro nel corso degli anni settanta: non veniva stabilito, si badi bene, un nesso di causa ed effetto fra il restauro e il crollo, ma si forniva una informazione più che dovuta, e la si forniva in modo che non può assolutamente considerarsi tendenzioso e anzi possiamo aggiungere che sarebbe stato disonesto tacere sulla circostanza di quel lavoro di restauro, visto che fatti più recenti e ancor più drammatici ci hanno mostrato che questi antichi manufatti quasi mai cadono da soli, senza almeno un piccolo “aiutìno” di “tecnici” più o meno contemporanei e sapientissimi. Poche ore dopo, nel pomeriggio, un secondo notiziario replicava la notizia del crollo, accompagnandola con una risibile levata di scudi: una riunione di tecnici della Soprintendenza

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nel corso della quale il crollo veniva spiegato con la circostanza che le mura erano state costruite in fretta, alla meglio e insomma non bene in una città ormai minacciata da incombenti orde barbariche e in piena crisi del terzo secolo. Soltanto il giorno successivo fu diffusa, in terza battuta, la banale verità che il maldestro restauro degli anni settanta (in piena crisi del centro sinistra, direbbe oggi qualcuno molto in alto) ostruendo a forza di cemento gli antichi drenaggi del muro, aveva impedito il regolare deflusso delle acque piovane responsabili (si fa per dire) del successivo spanciamento del venerando manufatto. Mi è rimasta la curiosità di sapere qualcosa di più sull’identità di quegli esperti o tecnici che in pieno 2001, in una città nella quale crollavano a sorpresa palazzine costruite in cemento armato dopo il 1970 da ingegneri laureati nelle nostre università (e non nel Politecnico alessandrino di Erone), sono riusciti a dire che quell’antico muro, costruito fra il 271 e il 276 dell’era volgare e rimasto in piedi per più di 1700 anni, sopravvivendo a centinaia di terremoti, alluvioni, attacchi di artiglieria, spoliazioni di materiale edilizio, crollava ora perché costruito male, in fretta e in un momento di crisi. Pensai anche, ricordo bene, che quella vergognosa distorsione della verità non poteva essere addebitata agli esperti della Soprintendenza che volevano giocare a scaricabarile sul povero, oltre che defunto e dunque non perseguibile Aureliano, e conclusi che fosse stata mancanza del cronista fraintendere il senso di parole venate di sottile ironia. Ma pare che non vi sia stata alcuna ironia e al nume presente del divo Aureliano siamo debitori di questo stimolo a continuare a servirci della storia antica per capire il nostro presente: qualcuno ha di recente affermato, con autorevolezza non inferiore a quella del severo imperatore, che tutti i politici di professione sono ladri, e io aggiungerei un “forse”. Invece è sicuro, al di là di qualsiasi ragionevole dubbio, che qualche archeologo di professione meriti d’esser chiamato idiota. Nella tecnica costruttiva antica è invalsa la classificazione delle strutture studiate in quattro categorie o «opere»: si distinguono dunque, in genere, l’opera poligonale, l’opera quadrata, l’opera cementizia, l’opera mista. L’opera poligonale (la più antica) è una struttura spontanea, legata alla disponibilità dei materiali presenti nell’area del suo impiego, ed è attestata per luoghi e tempi diversi un po’ in tutto il bacino del Mediterraneo. Il termine «poligonale» allude alla forma generica degli elementi im-

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piegati nella costruzione, mentre nomi come “silicea”, “saturnia”, “megalitica”, “lesbia”, “pelasgica” etc. derivano a seconda dei casi dall’aspetto, dal materiale, soprattutto da leggende. Di solito vengono utilizzati i calcari, travertini, qualche selce porosa, o pietre compatte, così come si possono trovare, sotto forma di massi anche di notevole cubatura. La costruzione avviene sempre necessariamente dall’alto verso il basso, senza l’impiego di macchinari per il sollevamento, facendo rotolare i macigni per la china, in modo da lavorare a livello. L’opera quadrata (relativamente più recente) è invece caratteristica delle zone in cui abbondano i materiali da taglio, e quindi soprattutto in terreni vulcanici che offrono disponibilità di tufi teneri, semiteneri e litoidi, peperini e travertini. I blocchi venivano portati dalla cava al cantiere, già squadrati e pronti per la messa in opera, che avveniva dal basso verso l’alto, con l’impiego di macchinari per il sollevamento, di cui si ha il riscontro nella traccia degli incavi praticati sulla superficie non in vista per predisporre punti di aggancio (effettuato per lo più con «olivelle»). La tecnica di gran lunga più sofisticata (sulla quale vale la pena di soffermarsi un po’ più a lungo) è rappresentata dall’opera cementizia, il cui uso è attestato in diversi siti del bacino del Mediterraneo a partire dal V secolo a.C., ma che viene perfezionata nel III secolo a.C. con l’adozione della malta romana, composta di scaglie di materiali diversi (caementa), calce e sabbia vulcanica o graniglia o arena fossile, impastati con acqua. La calce è il prodotto di cottura delle pietre calcaree, che contengono CaCO3 (carbonato di calcio) discretamente puro: i forni in cui avviene la cottura sono semplicemente cavità aperte nel terreno, sotto le quali si accende il fuoco. Liberandosi anidride carbonica (CO2) rimane ossido di calcio (CaO), altrimenti noto come «calce viva» per il fatto che in presenza di acqua raggiunge temperature elevate, fino a 300°. Aggiungendo acqua alla calce viva si ottengono in progressione: a) calce spenta; b) grassello, pasta densa ed untuosa che all’aria essicca, ed è quello usato per la malta; c) latte di calce, semiliquido; d) acqua di calce, meno consistente. Il composto usato per la malta è il grassello riposato per qualche giorno, per evitare che i noduli non spenti possano «scoppiare», e ad esso si uniscono acqua e sabbia: la sabbia è indispensabile, perché il grassello da solo, per la sua tendenza a contrarsi, non produrrebbe legante: la contrazione viene appunto annullata in corrispondenza di ogni granello.

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Non appena ultimato l’impasto prende l’avvio un processo inverso a quello iniziale di formazione della calce viva, per cui l’anidride carbonica presente nell’aria ritrasforma la calce in carbonato di calcio (processo di carbonatazione): durante la prima fase la malta perde acqua e si ha l’essiccamento; durante la seconda si svolge la carbonatazione vera e propria, che durata lunghissima in quanto l’aria, specie nelle grosse costruzioni, impiega molto tempo a raggiungere l’interno della massa fluida; la terza fase è la cristallizzazione, che consolida il tutto. È calce grassa quella ottenuta da calcare purissimo: con la pozzolana determina il tipo più diffuso di malta romana, una sorta di malta idraulica in grado di «tirare» in ambiente umido o in acqua in meno di quattro giorni. La calce idraulica propriamente detta è quella derivata da calcari impuri per argilla. La malta non è elemento datante di una costruzione, per quanto si possano distinguere le malte friabili ed un po’ terrose dei primi tempi da quelle più solide degli inizi dell’impero e dai conglomerati compatti e finissimi di età adrianea. Assai di rado l’opera cementizia compare senza cortina (di solito costituisce il nucleo di tutte le tecniche). In questi casi i caementa, allettati a mano a strati, possono sembrare una cortina disordinata e creare qualche confusione. Il cementizio si può trovare, naturalmente intonacato, in cisterne, piccole costruzioni secondarie, o vani che nella prima fase erano sostruzioni e sono poi stati utilizzati come ambienti. Ma nella maggior parte dei casi l’opus caementicium (o calcestruzzo che è locuzione latina: calce structio) si giovava, come si è detto, di cortine esterne e imponeva nuove tecniche costruttive, che all’inizio affiancarono, e poi soppiantarono, le più antiche. Venne trasformata la struttura dei muri, a partire dal III secolo a.C. e dunque il modo di costruirli: i nomi che identificarono via via le diverse tecniche (opus incertum, opus reticulatum, opus latericium o testaceum) si riferiscono esclusivamente alle cortine. Si costruiva a strati, nel senso che i due paramenti esterni venivano utilizzati come contenitori, e lo spazio fra di loro veniva colmato con una colata di calcestruzzo più o meno denso: ma prima di sovrapporre uno strato si attendeva che avesse tirato quello inferiore, per evitare oltretutto lo spanciamento del muro (per la forte pressione della massa semifluida). Questo sistema implicava l’uso di impalcature, giacché il lavoro veniva eseguito a mano e quindi erano necessari vari ripiani per lavorare comodamente; i ripiani erano ad altezza d’uomo, e, sempre per contenere le due cortine, ed evi-

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tare deformazioni della parete, gli stessi ponteggi venivano sfruttati come sbadacchiature all’incontrario. Quando la parete non è intonacata o incrostata di marmi si vedono ancora perfettamente i fori passatori lasciati dalle impalcature perché, una volta finito il lavoro e smontate le gabbie, i travi venivano segati ed il pezzo di legno rimasto nel muro finiva col marcire. Le cortine esterne dei muri erano costruite in opera incerta (opus incertum, con scapoli non lavorati, di forma indefinibile, diffusa dal III secolo fino all’età di Cesare), opera reticolata (opus reticulatum, con scapoli a forma di piccole piramidi a base quadrata, collocati in modo da agganciate il calcestruzzo del nucleo con i loro vertici) o, infine, opera laterizia (opus latericium, o meglio, opus testaceum ossia di mattoni cotti in fornace, visto che anticamente il vocabolo lateres indicava esclusivamente i mattoni crudi o cotti al sole). La fabbricazione regolare di mattoni da costruzione prende avvio con Tiberio e soprattutto con Claudio, e si può dire che le punte massime di attività edilizia a Roma, e dunque i periodi di maggiore attività delle figlinae (così si chiamavano le fabbriche di mattoni), si hanno fra il regno di Nerone (54–68 d.C.) e quello di Antonino Pio (138–161 d.C.), un periodo durante il quale la produzione dei mattoni assunse i caratteri di vera e propria produzione industriale. I tempi di fabbricazione dei mattoni, a vantaggio della altissima qualità del prodotto, restarono tuttavia assai lunghi; fra la decantazione dell’argilla e la cottura intercorrevano almeno due anni: dopo un’asciugatura al sole di pochi giorni e la bollatura (che veniva effettuata apponendo con un sigillo il marchio del produttore ai soli mattoni che si trovavano posizionati in cima alla pila) le forme di argilla venivano stagionate all’ombra, in ambiente arieggiato, per u periodo di sei o sette mesi almeno, prima di essere cotte nel forno, e dopo un certo tempo potevano essere trasportate sul luogo d’impiego. Quest’ultima fase, del trasporto, fu quella che determinò la forma tipica del laterizio romano, ossia la forma quadrata, quella che consentiva l’accatastamento in pile di notevole altezza. La forma triangolare, che per lo più troviamo nei mattoni messi in opera, è il risultato di tagli eseguiti direttamente sul cantiere. Tre sono i tipi di mattone più diffusi: il «bessale» (da bes, che un latino vale «due terzi», di forma quadrata con il lato oscillante fra i 19 e i 22 cm, ossia all’incirca due terzi del piede di 29,7 cm); il «sesquipedale» (da

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semisque, ossia «uno e mezzo», che è il mattone di gran lunga più usato, con il lato di 44,4 cm, ossia un piede e mezzo); il «bipedale» (dal lato di due piedi, ossia più di 59 cm, che era il tipo più costoso, di grana finissima e di colore in genere più chiaro degli altri due, usato con una certa parsimonia in punti particolari della struttura, come le ghiere degli archi o i marcapiani orizzontali). Nei bolli applicati prima della stagionatura si trovano spesso indicate la cava di provenienza dell’argilla, l’officina produttrice, il nome del figlinatore, quello del proprietario della figlina (che spesso era l’imperatore), la data consolare, espressa con i nomi dei due consoli eponimi. I sigilli impiegati per la bollatura erano di bosso, di forma circolare e a lettere incavate per sesquipedali e bipedali; erano invece rettangolari, di metallo e con lettere in rilievo i sigilli usati per bollare i bessali. Gli edifici superstiti di età romana (si pensi alla cupola del Pantheon) sono una testimonianza eloquente di come nelle tecniche costruttive, specie per quanto riguarda l’impiego del calcestruzzo, i livelli raggiunti in età romana siano rimasti insuperati. b) Captazione e drenaggio delle acque. – Il sospetto che vi sia ancora qualcosa da imparare dai nostri antichi progenitori viene indotto anche da taluni aspetti, a dir poco enigmatici, che presenta l’insieme della documentazione archeologica relativa ai manufatti destinati a garantire l’approvvigionamento idrico dei centri abitati romani, nonché la captazione e il drenaggio delle acque in genere. Sui manufatti siamo ben informati, oltre che da numerosissime testimonianze epigrafiche e da una notevole quantità di notizie fornite dagli autori antichi (si pensi, ad esempio, ai sistemi di drenaggio dei terreni descritti da Catone e da Varrone), anche da alcuni testi che potremmo classificare di letteratura specialistica. Un intero libro (l’VIII) del De architectura è dedicato da Marco Vitruvio Pollione alla captazione delle acque e alla costruzione degli acquedotti. Al rifornimento idrico di Roma è dedicata per intero il De aquae ductu urbis Romae di Sesto Giulio Frontino, composta da un personaggio importante del suo tempo (console nel 100 d.C.), che nell’anno 96 aveva rivestito la carica di curator aquarum, la magistratura che, dai tempi di Agrippa (il primo curator aquarum, nominato da Augusto) aveva quale sua precipua competenza la direzione e il controllo dell’approvvi– gionamento idrico.

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Anche sul versante della sterminata documentazione costituita dai resti monumentali di acquedotti, condutture, cisterne e bacini, opere di drenaggio varie, il fenomeno presenta aspetti a dir poco impressionanti sia per la quantità e l’efficienza delle strutture, che non di rado sono sopravvissute ai millenni nella loro quasi integrale funzionalità, sia per le dimensioni eccezionali dei manufatti: si pensi alle arcate dell’acquedotto di Segovia in Spagna o a quelle del c.d. Pont du Gard in Provenza (riprodotto sulle banconote da cinque euro), già famoso per essere il più grande in assoluto degli edifici romani conservati. Le straordinarie dimensioni di questi resti sparsi un po’ dovunque nel mondo romano trovano riscontro nei dati forniti da Frontino e da calcoli effettuati sulla portata degli acquedotti che attraversano la campagna romana. Si è notato che, a fronte di una disponibilità di acqua di 370 litri pro capite forniti giornalmente dal sistema idrico nel 1968 per i 2.645.000 abitanti della città di Roma, l’antica rete degli acquedotti della Capitale dell’impero assicurava, ad una popolazione che si è calcolata per difetto in un milione di unità, un quantitativo giornaliero, quasi triplo, di mille litri per ciascun abitante, e si è ipotizzato che questa enorme quantità d’acqua fosse impiegata anche come forza motrice, per far funzionare meccanismi del tipo della ruota idraulica descritta da Vitruvio. Una macchina di questo tipo, infatti, poteva erogare una potenza di circa tre cavalli vapore, e consentiva di macinare ogni ora 150 kg di grano, ossia una quantità infinitamente superiore ai 7–8 kg per ora ottenuti da due schiavi o da un mulo aggiogati ad una macina tradizionale. Ai problemi connessi con la costruzione degli acquedotti monumentali, che su lunghe serie di arcate garantivano il flusso dell’acqua, incanalata in un condotto (specus) normalmente a sezione rettangolare (coperto a volta, o, più comunemente, da tegole disposte alla cappuccina o in piano) impermeabilizzato con opus signinum, si aggiungevano non di rado le non lievi difficoltà determinate dallo scavo di condutture, come nel caso del cunicolo che si rese necessario per l’acquedotto di Saldae in Mauretania, del quale leggiamo in una epigrafe di Lambesi dedicata dall’ingegnere M. Nonius Datus, uno «specialista» chiamato sul posto per completare un difficile lavoro di progettazione. Sembra evidente che nell’acquedotto di Saldae l’acqua scorresse, almeno in parte, in una conduttura a «sifone rovescio», utilizzate già dagli ingegneri di età ellenistica. Un esempio ben noto di questa tecnica del sifone è offerto dall’ac-

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quedotto di Pergamo, che adduceva alla quota di oltre 330 metri dell’arce pergamena acqua proveniente da una sorgente relativamente lontana, ma non mancano esempi assai più antichi, come la galleria scavata da Eupalino di Megara (il progenitore degli “ingegneri idraulici”) per l’approvvigionamento idrico di Samo nel VI secolo, mentre la stessa tecnica è attestata — per un’epoca relativamente alta — anche in ambiente italico come nel caso dell’acquedotto di Aletrium (Alatri) costruito nel 134 a.C., che richiese la messa in opera di tubature particolarmente resistenti per condutture a pressione che dovevano superare un dislivello di circa un centinaio di metri, e condurre acqua alla pressione di oltre 10 atmosfere. Anche in questo caso siamo informati da una fonte di prima mano, quale è l’iscrizione posta da L. Betilienus Varus, il magistrato locale che aveva curato l’esecuzione dell’opera e che si mostra ben fiero del risultato ottenuto: aquam in opidum adou(centem), arduom pedes CCCXL fornicesque fecit, fistulas soledas fecit. c) Le tecniche agrimensorie. – A conclusione della breve rassegna dei saperi «perduti» del mondo antico non si può non accennare, pur se brevemente, alle tecniche di agrimensura, e in particolare ad una caratteristica del tutto peculiare del mondo romano, costituita dalle tracce di «centuriazione» presenti un po’ dovunque nel territorio dell’Italia e delle province. Non è senza significato, infatti, che queste tracce siano state rivelate in epoca relativamente recente grazie all’impiego delle tecniche d’indagine aerofotogrammetriche: la veduta aerea ha mostrato la diffusione del fenomeno e ha consentito di valutare l’incidenza di una serie di interventi che si segnalano come uno dei retaggi più preziosi, ancorché a lungo «invisibili», dell’antica civiltà contadina romana e italica, e che distinguono questa civiltà da tutte quelle che l’hanno preceduta, per la impressionante persistenza dei caratteri che allora furono indelebilmente impressi, quasi una volta per tutte, su un territorio divenuto esso stesso un palinsesto da leggere e da interpretare. Vi troviamo una ulteriore conferma, dal punto di vista del metodo d’indagine storica, del fatto che l’occhio della umana intelligenza può «vedere» (come si chiedeva già all’hístor omerico) soltanto ciò che essa «sa» e che perciò «cerca» dopo aver saputo. La pratica della centuriazione, ossia della divisione dei terreni agricoli in lotti di forma quadrata, destinati alle assegnazioni «viritane» (ossia a singoli cittadini) era ben nota agli «addetti ai lavori» (storici, archeologi

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ed antiquari) dall’esistenza di una collezione, costituita nel V secolo d.C. e poi conservata dalla tradizione manoscritta, di scritti di agrimensori romani detti gromatici dalla groma, che era lo strumento del loro mestiere, utilizzato nell’operazione di parcellizzazione dei terreni. Ma il vero significato di questi scritti, di contenuto strettamente tecnico, era del tutto sfuggito alla pur agguerritissima e dotatissima scienza antiquaria ottocentesca, che si era limitata ad osservare come soltanto accurati studi di topografia avrebbero, in futuro, potuto chiarire «ciò che è incomprensibile in questi libri dedicati all’arte di dividere i campi» (così il Niebuhr nel 1812). La prima inopinata «scoperta» delle tracce di centuriazione sul terreno (che è fenomeno macroscopico solo per chi disponga di foto aeree o di mappe dettagliatissime) fu fatta da uno che non era né storico, né archeologo: il capitano di vascello C.T. Falbe, danese, che nel 1833, nel corso di una ricognizione in Tunisia, nei pressi di Cartagine, mettendo in pianta la regione, notò la presenza ricorrente di moduli perfettamente quadrati, del lato di 708 metri (2400 piedi), individuati da vie vicinali. L’osservazione del Falbe trovò un primo riscontro nei rilievi effettuati pochi anni dopo (nel 1848) da Pietro Kandler (un archeologo istriano), e queste prime osservazioni furono elaborate, negli anni fra le due guerre, da Plinio Fraccaro e, in seguito, da Ferdinando Castagnoli e dalla sua scuola. Dal punto di vista delle origini della pratica della centuriazione si deve osservare che essa insiste su un complesso di saperi che viene in genere considerato uno dei nuclei più antichi, genuini e peculiari del genio italico e, in ultima analisi, etrusco (così come il colorismo nell’arte plastica, l’attitudine alla ritrattistica, l’impiego sistematico del modulo dell’arco in architettura), che qualcuno spiega come mediazione etrusca di spunti originari ionici o pitagorici (si pensi allo sviluppo dei moduli ortogonali nell’urbanistica ippodamea). Nello schema geometrico della centuriazione, che va anch’esso considerato fra gli antichi progenitori degli assi cartesiani, il punto cruciale è individuato dalla collocazione della groma (parola latina, probabilmente derivata, per mediazione etrusca, dal greco gnómon, la «squadra» dei pitagorici: ma il vocabolo ha il significato originario di «conoscitore», «giudice», dunque una specie di «indicatore»), piantata per la prima volta nel terreno da misurare. A destra e a sinistra della groma si sviluppa una linea ideale, detta kardo (cardine), che separa la

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regio ultrata, quella che sta oltre il cardine (ultra kardinem), dalla regio kitrata o citrata, quella che sta al di qua del kardo (kitra o citra kardinem). Su questa linea ideale, individuata nel piano dalla posizione della groma, munita di un puntale conficcato in terra, questo «indicatore» segna anche, con la sua dislocazione puntuale lungo la retta del kardo, il punto di intersezione fra questo e il decumanus, che si estende sullo stesso piano perpendicolarmente al kardo e lo interseca in corrispondenza del punto «indicato» dalla groma, dividendo a sua volta il piano in due metà (dextra e sinistra). Nella divisione in centurie l’incrocio fra cardine e decumano determina la disposizione della griglia nella quale andranno a posizionarsi le varie centurie, individuate da cardini e decumani minori, generati dal kardo maximus e dal decumanus maximus e denominati in base alla loro posizione relativa. Nella regio ultrata avremo così, a poco più di settecento metri dal cardo maximus, una linea parallela al kardo che si chiama u(ltra) k(ardinem) I; a circa 1400 m dal cardo maximus, sempre nella regio ultrata, avremo u.k. II e così via; naturalmente la stessa cosa accadrà per le regio citrata, dove avremo k(itra) k(ardinem) I, k(itra) k(ardinem) II, e così via, fino agli estremi limiti del terreno da dividere, che sarà segnato altresì dai decumani minori alla destra e alla sinistra del massimo: d(extra) d(ecumanus) I, d.d. II, d.d. III e così via, ovvero s(inistra) d(ecumanus) I, s.d. II, s.d. III etc. Gli incroci fra cardini e decumani, che si succedono a intervalli di circa 710 m (e dunque si tratta di lotti di 504.100 mq, ossia poco più di 50 ettari), venivano spesso indicati da un cippo per lo più cilindrico (ma sono attestate anche altre forme) che recava incise sul piano circolare superiore, legate da una specie di croce o decussis (x è il segno per decem asses, nel quale il luogo geometrico dell’incrocio è talvolta evidenziato da un occhiello), le coordinate dell’incrocio: quello riprodotto nella tavola [d(extra decumanus) iiii – k(itra kardinem) xiii ] segnala un incrocio fra il quarto decumano di destra e il tredicesimo cardine della regio citrata (che in genere era orientata a Est): se conservato in situ, esso consente di ricostruire su una carta topografica le coordinate di tutta la centuriazione antica della zona. Nelle più antiche procedure di centuriazione la centuria aveva questo nome perché in essa entravano 100 lotti detti heredia (di due iugeri ciascuno): dunque poco più che orti, quali dovevano essere quelli miticamente assegnati da Romolo ai primi abitatori della città. Per comprendere meglio il significato di questi termini occorre rifarsi alla più nota e comune delle misure romane, il «piede» (pes, pedis; plur. pedes), che abbia-

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mo già considerato come modulo di base per le dimensioni dei mattoni, e che misura poco più di 29 cm (diverso dal passus, che vale 5 piedi). Il piede ci consente di definire l’actus, ossia il tratto di terreno che una coppia di buoi può arare con un sol tiro, prima di fermarsi per girare l’aratro (Plinio, Nat. hist. XVIII 3, 9: actus in quo boves agerentur cum aratro uno impetu iusto), senza che questa fatica li debiliti, come spiega Columella (II 2, 27: sulcum autem ducere longiorem quam pedes centum viginti contrarium pecori est, quoniam plus aequo fatigatur). L’actus corrisponde dunque a 120 piedi, mentre un actus quadratus è appunto un quadrato di 120 piedi di lato. Ora, due actus, ossia due quadrati di 120 piedi di lato, appaiati, fanno uno iugerum, ossia un rettangolo di 120 per 240 piedi (spiega Columella, V 1, 5: hoc [cioè l’actus] duplicatum facit iugerum, et ab eo, quod erat iunctum, nomen iugeri usurpavit). Sono poi due iugera (ossia un quadrato di 240 piedi di lato) che costituiscono l’heredium, che abbiamo definito come la proprietà standard, trasmessa all’erede (da qui il nome), provveduta dallo stato ai cives di modesta condizione, che non appartenevano alla cerchia ristretta dei beati possidentes e che andavano a popolare le colonie, beneficiando delle assegnazioni «viritane». Ed erano appunto cento di questi heredia che formavano la centuria: un quadrato di poco meno di 71 m di lato, dunque la centesima parte della «centuria», che formava invece un quadrato di circa m 710. Il sistema degli heredia è attestato, ad esempio, nella divisione dell’agro di Terracina, che è una delle più antiche a noi note. In seguito i lotti assegnati divennero più consistenti, fino a raggiungere l’estensione di 50 iugeri (ossia 25 antichi heredia, pari a 12,5 ettari) e anche più, con le assegnazioni augustee. In effetti la pratica delle assegnazioni viritane si faceva risalire, come abbiamo visto, a Romolo e si ha memoria di assegnazioni già per l’anno 456, allorché il tribuno Icilio riuscì a far distribuire alla plebe lotti piccolissimi per consentire la costruzione di abitazioni in vicinanza della città (la lex Icilia de Aventino publicando); ma i regimi oligarchici della nobilitas patrizio–plebeia vi ricorrevano con estrema parsimonia, e anzi va detto che la piccola proprietà (paragonabile, attualmente, al possesso dell’appartamento in cui si vive) invece di essere incoraggiata, aveva subìto durissimi colpi dal processo di espansione del latifondo nell’età immediatamente successiva alle guerre di conquista, anche per il diffondersi della pratica dell’occupazione abusiva dell’ager publicus (i territori confiscati al nemico) che, invece di essere equamente diviso fra i

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cittadini, veniva messo a coltura abusivamente, con l’impiego di manodopera schiavile, dalle famiglie più potenti dell’aristocrazia terriera, proprietaria di diritto o di fatto di quasi tutto l’ager Romanus. I terreni abusivamente occupati (ager occupatorius) spesso figuravano ceduti in affitto dietro pagamento di canoni irrisori o addirittura occupati senza che il censore o il questore (complici degli abusi) ne avessero o ne cercassero un qualsiasi riscontro, e questo non deve destare meraviglia, se pensiamo che ancora ai nostri giorni sentiamo di occupazioni abusive (nel caso di Lula, in Sardegna, l’abusivismo assume, come allora, aspetti delinquenziali, impedendo di fatto per più anni l’elezione regolare di un sindaco). A nulla o quasi approdarono le rivendicazioni sostenute da Tiberio e Gaio Gracco, che pagarono con la vita l’impegno in questa lotta contro il privilegio, cercando invano di restaurare il vigore dell’antica legge che limitava a 500 iugeri (250 heredia, dunque 125 ettari) il possesso (non la proprietà, ovviamente) di ager publicus preso in affitto, o, se si vuole, la quantità della terra che ciascun esponente della nobilitas o dei ceti più ricchi poteva legalmente ottenere in concessione. Un padre con due figli, secondo la lettera di questa legge, poteva continuare a possedere fino a 375 ettari di ager publicus, ma è evidente che le proprietà medie delle famiglie senatorie si misuravano almeno in migliaia, se non in decine di migliaia, di ettari. Dunque, per avere di nuovo una effettiva redistribuzione delle terre si dovette attendere fino all’epoca delle guerre civili, allorché lo sterminio dell’avversario, attuato dalle fazioni di volta in volta vittoriose, scardinò definitivamente il blocco di potere oligarchico permettendo consistenti assegnazioni ai veterani di Silla, di Cesare e dei triumviri, mentre dimensioni ancora più consistenti assunsero le assegnazioni in età augustea e in tutto il primo secolo dell’età imperiale: si pensi alla enorme estensione delle centuriazioni della provincia di Africa nova, istituita nel 46 a.C., dove si sono rinvenuti cippi con l’indicazione d.d. cxxxx e u.k. cclxxx: si tratta di agri centuriati dove il cippo gromatico più lontano doveva trovarsi quasi 200 chilometri al di là del kardo. Si può dire con sicurezza che furono milioni i veterani degli eserciti imperiali congedati fra il regno di Augusto e quello di Traiano, e che molti di costoro ebbero dallo stato (ossia dal principe), insieme con una discreta somma di denaro liquido, lotti di terreno di estensione spesso superiore ai 12 ettari: si formava così, per la prima volta nella storia dell’umanità, quella agiata picco-

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la borghesia proiettata verso il miglioramento costante del suo status, e dunque buona consumatrice di cultura, che si sparse giudiziosamente su tutto il territorio del vasto impero, formandone per secoli il più tenace tessuto connettivo, fino a che un potere degenerato decise di procedere cinicamente al suo sterminio, divorando a poco a poco il capitale di risorse che essa aveva accumulato nei due o tre secoli della sua laboriosa esistenza.

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Nota bibliografica La problematica del rapporto (o non rapporto) che si è venuto instaurando fra mondo antico e mondo contemporaneo, e dunque in bilico fra continuità e frattura, è magistralmente illustrata nel libro di ALDO SCHIAVONE, La storia spezzata. Roma antica e Occidente moderno, Roma–Bari [Laterza], 1997. Puntuali informazioni su singole figure di scienziati dell’antichità sono ora riunite in una «Garzantina» di recente pubblicazione: Enciclopedia dell’Antichità Classica, Milano [Garzanti] 2000. Per la storia della scienza greca si consigliano, come letture introduttive, B. FARRINGTON, Storia della scienza greca, Milano [Mondadori] 1964 (tit. orig. Greek science, Harmondsworth 1953, trad. it. di Giulio Gnoli); K. VON FRITZ, Le origini della scienza in Grecia. Bologna [Il Mulino] 2000, pp. x, 347, L. 45.000 (Collezione di testi e studi. Tit. orig.: Der Ursprung der Wissenschaft bei den Griechen; trad. it. di Marco Guani); di particolare interesse il recente contributo di L. RUSSO, La rivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna. Prefazione di MARCELLO CINI. Milano [Feltrinelli] 2002, pp. 494. Sulla scienza dei Romani (che in queste pagine è stata imperdonabilmente trascurata) si può ricorrere alla sintesi di V. DE MARCO, La scienza in Roma, in «Roma antica. Religione – Filosofia – Scienza», di D. SABBATUCCI, A. LEVI, V.E. ALFIERI, V. DE MARCO / S. MONTI. Roma [Jouvence] 1979, pp. 207, o al più ampio e meditato volume di W. H. STAHL, La scienza dei Romani. Bari [Laterza] 1991, pp. viii, 398 (tit. orig.: Roman science, The University of Wisconsin Press, 1961; trad. it. di Iole Rambelli); fra i contributi più sostanziosi alla esatta percezione della problematica relativa alla storia delle conoscenze scientifiche dei Romani si segnalano i saggi di M. GEYMONAT e F. MINONZIO, Scienza e tecnica nell’Italia Romana. I saperi della tradizione, in «Restaurazione e destrutturazione nella tarda antichità». Milano [Teti editore] 1998, pp. 189–319; Razionalità matematica, indagine sulla natura e saperi tecnici nella cultura romana, ibid., pp. 321–458 (entrambi i lavori sono raccolti nello stesso volume IV della parte I della «Storia della società italiana»).

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Sull’incidenza dell’utilizzo delle tecnologie nella realtà delle società antiche è prezioso il classico lavoro di H. BLÜMNER, Technologie und Terminologie der Gewerbe und Künste bei Griechen und Römern, Leipzig 1879–1912, ristampato anastaticamente (Hildesheim 1969); è da vedere G. TRAINA, La tecnica in Grecia e a Roma. Bari [Laterza] 1994 (Universale Laterza, 749), che è ricco di riferimenti bibliografici indispensabili ad ulteriori approfondimenti; di utile lettura sono pure il lavoro di A. GARA, Tecnica e tecnologia nelle società antiche. Nota introduttiva di D. FORABOSCHI. Milano [CUEM] 20022, e, ancor fresca di stampa, l’ampia e organica trattazione di G. DI PASQUALE, Tecnologia e meccanica. Trasmissione dei saperi tecnici dall’età ellenistica al mondo romano. Firenze [Olschki] 2004 (è il vol. 55° della Biblioteca di “Nuncius”); una utile ed aggiornata raccolta di elementari letture sull’argomento può trovarsi nella dispensa curata per gli Editori Laterza da B. GREGORI, Tecnica e società nel mondo antico (Roma–Bari 1998) nella collana scolastica “Documenti e problemi di Storia antica e medievale”. Una menzione particolare, per la ricchezza della documentazione estratta dalle fonti antiche, merita il bel volume di MONICA PUGLIARA, Il mirabile e l’artificio. Creature semoventi nel mito e nella tecnica degli antichi. Roma [L’Erma] 2003, pp. xxxii, 268.

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Repertorio prosopografico L’elenco che segue (assai scarno, oltre che incompleto) vuole essere un inventario dei dati (si tratta per lo più di voci estratte da lessici ed enciclopedie, e solo in qualche caso di puntuali riferimenti bibliografici a monografie o repertori specialistici) che ho potuto raccogliere con l’aiuto degli studenti degli anni passati: ciascun lemma della lista che segue va considerato non come una illustrazione, sia pur veloce, della fisionomia del personaggio, ma piuttosto come la semplice intestazione della cartella nella quale ho concretamente inserito le pagine elaborate da ciascuno (si tratta di circa 4000 pagine, distribuite nelle 250 voci). Oltre che a fornire un’utile integrazione dei dati forniti nel corso della sommaria trattazione, il repertorio si propone come individuazione dei nuclei d’interesse suggeriti, per eventuali supplementi di indagine, a chi vorrà aggiungere un proprio contributo.

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Àbari – leggendario taumaturgo greco, in età imperiale considerato dai pitagorici precursore di Pitagora. Bibl.: “Lessico univ. ital.”; BETHE, s.v. Abaris, in “P.W.” I col. 16 sg.; G.B., s.v. Abaris, in “Neue Pauly” I col. 5 sg.) [materiali raccolti da Simone Ricci]. Abdaraxos – Meccanico di Alessandria, menzionato nei laterculi Alexandrini (“Enc. It.”, s.v. Ingegneria, p. 229) [materiali raccolti da Simone Ceccarelli] Absirto – Veterinario di Prusa o Nicomedia in Bitinia, vissuto all’epoca di Costantino e aggregato nella campagna contro i Sarmati (332–334 d.C.), autore di due libri De veterinaria, confluiti nella Mulomedicina di Claudio Ermerote [materiali raccolti da Armando Giordano]. Acrone – Medico greco di Agrigento (V sec. a.C.) capostipite della scuola empirica [materiali raccolti da Fabio Gregorio Mingozzi]. Aezio – Medico originario di Amida (in Mesopotamia) attivo nel IV secolo, autore di 16 Libri De medicina, nei quali raccolse il meglio della scienza medica greca, fornendo spesso l’indicazione della fonte di cui si serviva. Agatino, Claudio – Medico della scuola pneumatica (I d.C.), autore di un trattato Sulle pulsazioni [materiali raccolti da Luca Spaccatrosi]. Agnodice – Vissuta ad Atene nel III secolo a.C., pare sia stata la prima donna a seguire (travestita da uomo) un regolare corso di medicina presso la scuola di Erofilo [materiali raccolti da Alessandra D’Alisera, Antonio Sinni]. Agrippa (M. Vipsanius Agrippa) – Genero di Augusto e fra i suoi principali collaboratori, è ricordato anche per i suoi interessi di astronomia e geografia e per una monumentale carta del mondo che aveva fatto esporre nel Campo Marzio [materiali raccolti da Gionata Feudo, Giordano Gigli]. Alcmeone di Crotone – Naturalista, allievo di Pitagora, sarebbe stato il primo a studiare l’anatomia [materiali raccolti da Fabrizio Casadidio, Emanuela Rodolà].

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Ammonio Sacca – [materiali raccolti da Martina Scarano]. Anassagora – [materiali raccolti da Stefano Fenicchia, Valerio Mantini, Lorenzo Fortunato Tavernese]. Anassimandro – Vissuto fra il 610 e il 546 a.C., seguace di Talete, primo a scrivere un’opera Sulla natura [materiali raccolti da Roberto Armeni, Daniele Bagni, Maurizio Battisti, Salvatore De Luca, Massimo Di Pierro, Mauro Giannetti, Andrea Lax, Adelmo Panetta, Mario Petrone, Paolo Traini]. Anassimene – Nato a Mileto, uditore di Anassimandro, vissuto fra il 585 e il 528 a.C. [materiali raccolti da Ivano Angelozzi, Dario Azzuè, Marco Bufalini, Roberta Carboni]. Andrea – Medico della scuola di Erofilo [materiali raccolti da Lorenzo Bellafiore]. Antemio di Tralle – Autore di un Perì paràdoxon mechanemàton vissuto nell’età di Giustiniano, collaborò con Isidoro nella costruzione della chiesa di S. Sofia [materiali raccolti da Daniele Turchetti]. Antonio Musa – Medico di Augusto [materiali raccolti da Fabrizio Mazzarini]. Apellicone – Famoso bibliofilo, originario di Teo in Asia Minore, poi attivo ad Atene; la sua biblioteca fu portata a Roma da Silla. Apicio (M. Gavius Apicius) – Vissuto durante il regno di Augusto, fu autore di un manuale di arte culinaria [materiali raccolti da Valerio Incitti]. Apollodoro di Damasco – Architetto attivo in età traianea. Apollonio Mindio – Astronomo [materiali raccolti da Daniele Ciocchetti]. Apollonio di Perge – Attivo agli inizi del III secolo, noto per la sua opera sui coni ed autore della teoria degli «epicicli» o cerchi minori. Apollonio Mys – Medico della scuola di Erofilo [materiali raccolti da Flavio De Pedis]. Arato di Soli – Poeta didascalico, attivo nella prima metà del III secolo a.C., autore di un fortunato compendio, in versi, di astronomia e meteorologia poi più volte tradotto in latino [materiali raccolti da Antonio Carlucci, Marco Litta].

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Archia di Corinto – Architetto navale, ricordato come costruttore della Syrakosia nel resoconto conservato da Moschione [materiali raccolti da Nazzareno Iannucci]. Archigene di Apamea in Siria – Medico e chirurgo contemporaneo dell’imperatore Traiano, autore di numerosi scritti di medicina citati da Galeno e da Aezio. Archimede – Massimo esponente della scienza antica, ucciso al momeno della caduta di Siracusa nel 212 a.C. [materiali raccolti da Marco Agresta, Jonathan Arbib, Vanessa Cardilli, Francesco Catalini, Luca Colagiacomo, Manuel Cugliari, Lorenzo D’Amely, Giusy De Donno, Piero Domenici, Riccardo Fantini, Pasquale Fimiani, Francesco Fiore, Daniele Franchitti, Alessandro Nicolosi, Vittoria Piantelli, Andrea Purificato, Daniele Riccitelli, Domenico Saccucci, Patrizia Safina, Juna Salviati, Carlo Tomei, Gianluca Vagnoni, Gabriele Valletta, Pedro Viola]. Archita di Taranto – Matematico e filosofo di scuola pitagorica, vissuto fra il 430 e il 360 a.C. [materiali raccolti da Luca Conticelli, Marco Gallo, Roberto Pelliccioni, Emanuela Rodolà, Daniele Sgrulletti] Aristarco di Samo – Filosofo e scienziato greco, allievo di Stratone di Lampsaco, fautore dell’ipotesi eliocentrica [materiali raccolti da Valerio Campisano, Claudio Ciocchetti, Riccardo Rossi]. Aristillo – Astronomo alessandrino. – BIBL.: KAUFFMANN, in “P.W.”, s.v., col 1065 sg. Aristippo di Cirene – Autore di un trattato Sui fisiologi [materiali raccolti da Antonio Carlucci]. Aristomaco di Soli – Studioso della vita delle api, vissuto nel III secolo a.C. [materiali raccolti da Fabrizio Caponeri]. Aristosseno di Taranto – [materiali raccolti da Emanuele Turella]. Aristotele – [materiali raccolti da Giuseppe Casamassima, Giuseppina Chiuchiarelli, Alessio Fiore, Francesco Fiore, Marco Iannuccelli, Carmine Marrazzo, Giuseppe Schipani, Luca Spaccatrosi] Artemidoro di Daldi – Autore di Oneirokritikà sulla interpretazione dei sogni [materiali raccolti da Mario Torchia].

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Asclepiade il Giovane – Medico vissuto alla fine del I sec. d.C., autore di un trattato sui farmaci, utilizzato da Galeno. Asclepiade di Prusa – Medico greco a attivo a Roma nel I a.C. [materiali raccolti da Cristiano Giuffrida]. Asclepiodoro – Pittore ateniese attivo verso la fine del IV secolo a.C., celebrato per la prospettiva e la spazieggiatura in profondità delle figure, ottenute con l’utilizzo di una particolare tecnica sulla quale egli avrebbe scritto dei trattati. Asclepiòdoto – Allievo di Posidonio di Apamea, diffusore e divulgatore delle opere del maestro, citato da Seneca come tramite della dottrina di Posidonio confluita nelle Naturales quaestiones. Asclepiòdoto – Neoplatonico vissuto nela seconda metà del V sec. d.C., allievo di Proclo, medico e naturalista, autore di un commento al Timeo platonico. Aulo Gellio – vedi Gellio. Autolico – Originario di Pitane in Asia Minore, astronomo e geometra, fiorito intorno al 310 a.C. [materiali raccolti da Alessandra Giaré]. Avieno – Poeta didascalico, autore di una parafrasi latina in esametri della Periegesi della terra di Dionisio il Periegeta. Beroso o Berosso – Storico babilonese vissuto fra il IV e il III secolo a.C. [materiali raccolti da David Granati]. Bione di Abdera – matematico e filosofo, vissuto nel IV–III secolo a.C., allievo di Democrito, studiò i rapporti fra vento e clima, le lunghezze del giorno e della notte alle varie latitudini, ipotizzandone la durata di sei mesi in alcune regioni [materiali raccolti da Alfonso Bisceglia]. Bitone – Autore di un trattatello intitolato Costruzione di macchine da guerra e catapulte [materiali raccolti da Marco Gallo]. Boezio (Anicius Manlius Torquatus Severinus Boetius) – Dignitario alla corte di Teoderico, poi caduto in disgrazia e giustiziato nel 525; autore del De consolatione philosophiae, composto in carcere (la torre del Battistero di Ticinum, l’odierna Pavia) e di numerose opere che furono, per gran parte del medioevo, la più ricca fonte di conoscenze su aritmetica, geometria, musica [materiali raccolti da Stefano Ardizzoni, Emanuele Caricola, Daniele M. Vitale]

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Bolo – Originario di Mende (città del Delta), educato alla filosofia neoplatonica e ispirandosi all’atomismo di Democrito egli diede inizio alla pratica degli studi di alchimia [materiali raccolti da Fabio Gatto]. Callippo – Astronomo originario di Cizico in Frigia, discepolo di Aristotele, completò la teoria geocentrica delle sfere omocentriche impostata da Eudosso [materiali raccolti da Raffaele Del Vecchio]. Carvilio (250–300 a.C.) – Liberto di Spurio Carvilio Massimo Ruga, console nel 234 e 228, noto per avere istituito a Roma la prima scuola a pagamento; secondo Plutarco fu il primo a differenziare le lettere C e G (secondo altri questa novità sarebbe da attribuire a Appio Claudio il Cieco). Celere – Architetto della domus aurea Neronis insieme con Severo, coinvolto nel disgraziato tentativo di sfogare nel Tevere le acque del lago Averno [materiali raccolti da Domenico Spallone]. Celio Aureliano – Nativo di Sicca (in Numidia), attivo a Roma intorno alla metà del V secolo d.C. come medico e autore di trattati in larga parte estratti dalle opere di Sorano (q.v.) [materiali raccolti da Enrico Bruni]. Celso (A. [?] Cornelius Celsus) – Scrittore latino, originario forse della Gallia Narbonensis, vissuto nell’età di Tiberio, autore di una enciclopedia (Artes o Cesti) che trattava di filosofia, diritto, agricoltura, medicina, retorica e arte militare. Restano integralmente gli 8 libri de medicina e frammenti delle altre sezioni [materiali raccolti da Daniele Quinti]. Chersifrone di Cnosso – Architetto cretese attivo nel VI secolo a.C., col figlio Metagene è ricordato da Vitruvio come costruttore dell’Artemision di Efeso [materiali raccolti da Fabio Mattioli, Claudio Mesa] Claudio Tolemeo – v. Tolemeo Cleante di Asso – Filosofo stoico, allievo di Zenone di Cizio, vissuto fra il 331 e il 235 a.C., noto fra l’altro anche per avere avversato la teoria di Aristarco ed essere stato fra i principali fautori del processo intentato contro di lui [materiali raccolti da Simone Aiello, Emanuele Filipponi].

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Clearco di Soli – Allievo di Aristotele, autore, fra l’altro, di scritti di zoologia. Cleomede – Astronomo, attivo verso la fine del II secolo a.C. [materiali raccolti da Alessandro Marini]. Cleone – Ingegnere di Tolemeo Filadelfo, direttore per alcuni anni della bonifica del Fayum. Noto da papiri, utili alla conoscenza dell’amministrazione e della tecnica dei grandi lavori durante il III secolo a.C. Cleostrato – Astronomo greco nativo di Tenedo (vissuto nella seconda metà del VI secolo a.C.). Scrisse un poema astronomico in esametri del quale restano solo pochi versi. Attribuì per primo il nome a molte costellazioni e individuò un ciclo ottaeterico [materiali raccolti da Samuele William]. Cocceio Acuto (L. Cocceius Acutus) – Architetto romano, esecutore tecnico del piano di Agrippa per la difesa della costa puteolana [materiali raccolti da Giacomo Tiberia]. Columella (L. Iunius Moderatus Columella) – Nato a Cadice, vissuto nel I sec. d.C., autore del più completo trattato di agricoltura: il De re rustica in 12 libri; di lui resta anche un libro De arboribus [materiali raccolti da Pier Paolo Campegiani, Daniele Vaccaro Lena]. Conone di Samo – Matematico e astronomo della scuola di Alessandria, attivo intorno alla metà del III secolo a.C., successore di Euclide e maestro di Archimede [materiali raccolti da Marco Cosentino, Daniele Sgrulletti]. Cossuzio – Architetto romano, chiamato ad Atene nel 174 a.C. da Antioco IV Epifane, innalzò il grande tempio di Zeus Olimpio (l’Olympieion) di ordine corinzio, demolendo l’edificio di età pisistratea. Crate – Ingegnere al seguito di Alessandro Magno, attese ai lavori dell’escavazione dell’emissario del lago di Copaide nella Beozia. Crisippo – Nativo di Soli (in Cilicia), attivo ad Atene nella seconda metà del III secolo, sistematore della sintassi logica delle proposizioni [materiali raccolti da Luca Favale, Emanuele Lisi]. Critone – Medico greco attivo a Roma in età traianea, autore di trattati sui cosmetici; fu autore di Getica sulla spedizione in Dacia. Ctesibio – Scienziato greco, attivo ad Alessandria nel III sec. a.C., considerato uno dei fondatori del Museo di Alessandria e

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massimo esperto di pneumatica, idraulica, congegni meccanici [materiali raccolti da Danilo Mancini]. Demetrio di Apamea – Medico [Anrea Benedetti]. Democede – Medico greco di Crotone, figlio di Callifonte, medico di Policrate, fu poi medico di Dario e di sua moglie Atossa; tornato a Crotone sposò la figlia di Milone, celebre lottatore. Si disse che con lui la medicina da pratica empirica divenne scienza [materiali raccolti da Kabwiwe Tshiowka]. Democrito di Ábdera – Filosofo greco, vissuto fra il 460 e il 370 a.C., massimo esponente dell’atomismo iniziato da Leucippo di Mileto (q.v.) [materiali raccolti da Federico Borgo, Irene Carnieri, Andrea D’Epiro, Marcello Di Battista, Federico Fratini, Alessandro Minini, Federico Ramondino, Giuseppe Rotunno, David Sanilli]. Demostene Filalete – Medico della scuola di Erofilo, celebre per la sua tecnica di rimozione delle cataratte [materiali raccolti da Gianluca Gabriele]. Diades – Esperto di ordigni militari, sotto Alessandro diresse l’assedio di Tiro; menzionato nei laterculi Alexandrini (“Enc. It.”, s.v. Ingegneria, p. 229). Dicearco di Messina o Messana – Filosofo peripatetico, allievo di Aristotele, autore di opere geografiche utilizzate da Eratostene [materiali raccolti da Claudia Paone]. Dinocrate – Architetto attivo a Rodi per la costruzione del celebre colosso, autore anche del piano urbanistico di Alessandria [Riccardo Feriozzi, Stefano Maria Pelliccioni]. Dinostrato – Matematico greco, vissuto nel IV secolo a.C.; secondo Pappo fu fra i primi a introdurre l’uso della curva quadratrice (tetragonizusa) o direttrice per la trisezione e la multisezione dell’angolo e per la quadratura del cerchio [Emanuele De Amici]. Diocle – Matematico greco vissuto fra II e I sec. a.C. Nell’opera Sugli specchi ustori risolse un problema già formulato da Aristotele, ottenendo per mezzo di due coniche la divisione, con un piano, di una sfera in due parti di rapporto prestabilito; definì inoltre una curva detta cissoide per risolvere il problema della duplicazione del cubo [materiali raccolti da Antonello Paoletti].

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Diocle di Caristo – medico greco vissuto nel IV secolo a.C. ad Atene, dove godette di grande celebrità. Diodoro Crono – Filosofo greco originario di Iaso (in Caria), vissuto nel IV secolo a.C. con fama di gran dialettico, che gli venne soprattutto dalle sue argomentazioni (di matrice eleatica) sul movimento e sulla possibilità [materiali raccolti da Wardan Ksibi]. Diofane di Bitinia – Epitomatore di Magone, tradotto da Cassio Dionisio [materiali raccolti da Cecilia Tomassi]. Diofanto – Matematico greco vissuto ad Alessandria nel III sec. d.C., precursore della teoria dei numeri e dell’algebra; di lui abbiamo 6 libri (sui 13 originari) di Arithmetikà [materiali raccolti da Fabrizio D’Ammassa, Danilo Donato, Francesco Pozzi]. Dionigi il Piccolo (Dionysius exiguus) – Monaco nativo della Scizia attivo a Roma agl’inizi del regno di Giustiniano, iniziatore del computo secondo l’era c.d. volgare o cristiana. Dionisio (o Dionigi) Periegeta – Poeta didascalico vissuto nel II secolo a.C., autore di una Periegesi della terra parafrasato da Avieno e tradotto da Prisciano[materiali raccolti da Roberta Rossi]. Dioscoride – v. Dioscuride Dioscuride (Pedanio Dioscuride) – Medico di Anazarbo in Cilicia, vissuto nel I secolo d.C., farmacologo; di lui resta un trattato Sulla materia medica in 5 libri; cfr. Crateva e Sestio Nigrino) [Giada Massara]. Dorion – Inventore del lysipolemos (macchina da guerra) menzionato nei laterculi Alexandrini (“Enc. It.”, s.v. Ingegneria, p. 229) [materiali raccolti da Fabrizio Caponeri]. Ecateo di Mileto – [materiali raccolti da Cristian Bove, Antonio Pagnani]. Ecfanto – Filosofo pitagorico vissuto fra V e IV secolo a.C. Tentò una integrazione della dottrina dei numeri con le teorie atomistiche [materiali raccolti da Flavio Zingaretti]. Egetore medico – [materiali raccolti da Flavio Giannini]. Eliodoro – Medico, forse di origine egizia, vissuto fra il 60 e il 140 d.C., famoso a Roma all’epoca di Giovenale. Appartenne alla scuola pneumatica [materiali raccolti da Cristiano Valente].

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Empedocle di Agrigento – Filosofo greco, vissuto fra il 492 e il 432 a.C. [materiali raccolti da Domenico Bizzarri, Marco Cappella, Francesco Fichera, Dario De Angeli, Daniela Gessa, Luca Lattanzio, Alessio Lupini, Giuseppe Petrolino, Martino Piazzi, Emanuele Polzoni]. Enopide di Chio – Astronomo e matematico greco, vissuto nel V sec. (da vadere i lavori di F. Franciosi, pubblicati dall’Erma di Bretschneider). Epicrate di Eraclea (o Epimaco di Atene?) – costruì macchine belliche in Rodi menzionato nei laterculi Alexandrini (Enc. It., s.v. Ingegneria, p. 229). Epicuro – [materiali raccolti da Mirko D’Ippolito, Giovanni Guarino, Principia Iacoviello]. Eraclide Pontico – Originario di Eraclea Pontica, vissuto fra il 390 e il 310 a.C., sostituì Platone come scolarca durante il terzo viaggio del maestro a Sisracusa. Notevoli le sue teorie astronomiche, che anticipano quelle di Aristarco di Samo. Copernico usava citarlo fra i suoi precursori [materiali raccolti da Adriano Bellavita, Zhu Chenyue]. Eraclito di Efeso – Filosofo greco, vissuto fra 550 e 480 a.C. [materiali raccolti da Matteo Anelli, Emanuele Celletti, Matteo Ciampani, Ilaria Cofini, Valeria De Bellis, Nicola Giacobbe, Luca Perrone]. Erasistrato di Iuli (nell’isola di Ceo) – Medico della scuola alessandrina, vissuto fra il 304 e il 250 a. C., allievo di Metrodoro e Crisippo di Cnido [Marco Martignetti, Gianfranco Piumelli]. Eratostene di Cirene – Astronomo, geografo, matematico oltre che grammatico vissuto nel III secolo a.C. [materiali raccolti da Renato Capone, Massimiliano Caponera, Daniele Contenti, Armando Distefano, Alessandro Fanfarillo, Valentino Fioretti, Ibrahim Khalili, Giuseppe Orlando, Marco Tonelli]. Erennio Filone – v. Filone di Biblo. Erofilo di Calcedone – Medico nella prima metà del III sec. a.C.[materiali raccolti da Lorenzo Bellafiore, Marco Martignetti, Paolo Picca] Erone di Alessandria – Matematico e meccanico greco, vissuto nel I secolo d.C. [materiali raccolti da Nicola Cacucci, Marco

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Ciambricco, Alessandro Di Bartolo, Andrea Fontana, Mateusz Gospodarczyk, Francesco Marino, Bruno Panara, Andrea Rapagnani, Andrea Russi]. Euclide – Sommo matematico greco, vissuto al tempo del primo Tolemeo (306–283 a.C.) [materiali raccolti da Bruno Cantiano, Stefano Liberatori, Alessio Russo] Euctemone – Astronomo (V a.C.), con Metone determinò il ciclo lunisolare di 19 anni. Evidenziò le variazioni di velocità lungo l’eclittica [materiali raccolti da Alessio Squillace]. Eudemo di Rodi – Filosofo peripatetico, scolaro di Aristotele [materiali raccolti da Stefano Onofri]. Eudosso di Cizico – Navigatore al servizio dei Tolemei, vissuto nel II sec. a.C., scomparve senza lasciar traccia in uno dei tentativi di circumnavigazione dell’Africa (112–105 a.C.) [materiali raccolti da Simone Zattini]. Eudosso di Cnido – Geometra e astronomo (400–347 a.C.) allievo di Archita di Taranto, contemporaneo di Platone [materiali raccolti da Raffaele Del Vecchio, Valerio De Palo, Francesca Guatieri, Tshituka Kabutue, Simone Serrecchia, Simone Zattini]. Eupalino – Architetto greco di Megara vissuto nel VI sec. a.C. costruttore di un acquedotto sull’isola di Samo [materiali raccolti da Iacopo Marcello]. Eupolemo – Architetto di Argo vissuto nel V secolo a.C. Da Pausania sappiamo che fu costruttore del grande tempio periptero di Era argiva, innalzato dopo il 423 a.C. Eutimene – Navigatore greco di Massalia o Marsiglia, vissuto nel VI secolo, compì una ardita navigazione oltre lo stretto di Gibilterra, descritto nel Periplo del mare esterno (della quale opera Ecateo di Mileto ha conservato un frammento). Eutocio di Ascalona – Commentatore (vissuto fra V e VI secolo) delle opere di Archimede e di Apollonio di Perge [materiali raccolti da Danilo Croce]. Evemero – Scrittore greco di Messana in Sicilia o di Messene nel Peloponneso, fu attivo nel III secolo a.C. [materiali raccolti da Gabriele Paris]. Ezio di Amida – v. Aezio. Ferecide di Siro – [materiali raccolti da Nazareno Pomponi].

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Fidia – [materiali raccolti da Emanuele Iannaccone]. Filino di Cos – Medico, discepolo di Erofilo, vissuto nel III secolo a.C., secondo alcuni fu iniziatore della scuola empirica di medicina, autore di un glossario ippocratico non pervenuto. Filippo di Opunte – Filosofo accademico vissuto nel IV a.C.; gli sono attribuiti scritti di astronomia, matematica e ottica, nei quali seguiva la dottrina pitagorica. Qualcuno lo ritiene autore dell’Epinomide (l’ultimo dialogo platonico) [ materiali raccolti da Sabrina Timo]. Filisco di Taso [materiali raccolti da Luca Esposto]. Filistione – medico greco vissuto nel IV a.C. Originario di Locri, principale esponente della scuola medica siciliana, maestro di Eudosso, scrisse di dietetica. Filocle – architetto attico del demo di Acarne, vissuto fra il 450 e il 400 a.C., costruttore dell’Eretteo sull’acropoli di Atene. Filolao di Crotone – Filosofo, matematico e astronomo pitagorico primo assertore dell’eliocentrismo, avrebbe diffuso le dottrine pitagoriche in Grecia e soprattutto a Tebe. Secondo qualcuno è un personaggio fittizio inventato da Platone [materiali raccolti da Flavio Polselli, Carlo Zangrilli]. Filone – Architetto greco vissuto nella seconda metà del IV secolo a.C., costruttore dell’arsenale del Pireo e del prospetto del Telesterion di Eleusi, opere di cui egli lasciò accurate descrizioni, rivelandosi anche teorico della sua arte [materiali raccolti da Luca Marchini]. Filone di Alessandria – Detto “il Platone ebraico”, nato intorno al 30 a.C., nel 40 d.C. fu ambasciatore da Caligola per chiedere la cessazione delle persecuzioni contro gli Ebrei. Da non confondere con i due precedenti e i due successivi. Filone di Biblo – Dotto fenicio, nato a Biblo e morto a Roma dove era venuto come ambasciatore all’età di Adriano. Il nome di Erennio Filone, con il quale è distinto dagli omonimi, deriva dal suo protettore Erennio Severo. Compose, fra l’altro un’opera Sui medici e 12 libri Sull’acquisto e la scelta dei libri [materiali raccolti da Luca Marchini]. Filone di Bisanzio – Fisico e teorico della meccanica, vissuto nel III secolo a.C. Del suo Trattato complessivo di meccanica in 9 libri

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restano un capitolo sulle macchine belliche e alcuni capitoli di pneumatica [materiali raccolti da Matteo Patrignanelli]. Filostrato, Flavio – Vissuto fra il 170 e il 249 d.C., autore, fra l’altro di Vite dei sofisti, opera in due libri assai utile per la conoscenza della storia della cultura anche scientifica [materiali raccolti da Francesco Merlini]. Firmico Materno, Giulio – siracusano, vissuto nel IV secolo d.C.; abbiamo di lui Matheseos libri VIII, che si occupano specialmente di astrologia [materiali raccolti da Francesco Massimi] Flavio Rufo, Tito – Ingegnere romano, era cornicularius del prefetto dell’annona [materiali raccolti da Christian Barigelli]. Flegone o Flegonte di Tralles (in Lidia) – Liberto di Adriano, autore di un Perì thaumasiòn e di un Perì macrobiòn (sugli ultracentenari in Italia) e di una cronaca delle Olimpiadi [materiali raccolti da Filippo Fiorini]. Foco di Samo – Autore di un trattato di Astrologia nautica [materiali raccolti da Valerio Ferrantelli]. Frontino, Sesto Giulio – Vissuto fra il 30 e il 013/4 d.C., autore di scritti di agrimensura, nonché di Strategemata e del De aquae ductu urbis Romae [materiali raccolti da Christian Barigelli, Valerio Ferrantelli]. Galeno – Il più famoso medico e teorico di medicina dell’antichità, nato a Pergamo nel 129 d.C., morto nel 200 d.C.; a 25 anni esercitava a Pergamo come medico dei gladiatori, divenne poi medico alla corte di Marc’Aurelio e di Commodo [materiali raccolti da Serena Capri, Luca De Giorgis, Antonio Favata, Michele Martone, Martina Scarano, Francesco Tommaselli]. Gallo, Gaio Sulpicio vedi Sulpicio Gallo. Gellio, Aulo (A. Gellius) – Erudito latino, vissuto fra il 130 e il 180 d.C. [materiali raccolti da Alessio Cerquozzi]. Gemino – Matematico greco, forse di Rodi, vissuto fra il 100 e il 50 a.C. [materiali raccolti da Simone Lerose]. Germanico – Figlio di Druso maggiore e di Antonia minore, nipote di Tiberio; sua madre era figlia di Ottavia (la sorella di Augusto); sposò Vipsania Agrippina, figlia di Giulia. Tradusse i Fenomeni di Arato con correzioni ed aggiornamenti scientifici.

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Giamblico – Filosofo neoplatonico, morto nel 326, vicino a Porfirio, autore di una Silloge delle dottrine pitagoriche, in 10 libri, 4 dei quali sono conservati [materiali raccolti da Paolo Annesi]. Gorgia da Leontini [materiali raccolti da Fabrizio Scenna]. Iceta di Siracusa – Filosofo greco del IV secolo a.C., appartenente alla cerchia dei pitagorici. Avrebbe sostenuto per primo il moto circolare della terra sul proprio asse. Maestro di Ecfanto [materiali raccolti da Dario Giuliani]. Igino, Gaio Giulio [materiali raccolti da Antonio Di Fabio, Daniele Panzolini]. Imilcone – Navigatore ed esploratore cartaginese (V sec. a.C.) [materiali raccolti da Alexander Vaccaro]. Ipazia – Figlia di Teone alessandrino, filosofa neoplatonica e studiosa di matematica, celebre come martire pagana, uccisa nel 415 d.C. [materiali raccolti da Andrea Benedetti, Andrea Ottaviani, Antonello Rabuffi, Serena Stefani]. Ipparco – Pitagorico, divenuto maestro di Epaminonda intorno al 380. Bibl.: E. WELLMANN, s.v. Hipparchos, in “P.W.” col. 1665, nr. 14. Ipparco di Nicea (in Bitinia) – astronomo attivo a Rodi fra 194 e 120 a.C. [materiali raccolti da Riccardo Bardotti, Diego Cupellini, Marco Ippoliti, Luca Monaco, Marco Pompili, Andrea Staccoli]. Íppaso di Metaponto – Filosofo pitagorico, originario di Metaponto, vissuto nel V secolo a.C. Sarebbe stato espulso dalla comunità pitagorica per aver divulgato gli insegnamenti esoterici del maestro, e sarebbe stato il primo degli acusmatici o ascoltatori, così definiti perché non potevano che ascoltare, e non avevano la possibilità di prendere parte attiva esprimendo opinioni personali [materiali raccolti da Mario Chialastri]. Ippia di Elide – Sofista, studioso di geometria e astronomia attivo ad Atene, vissuto fra il 443 e il 350 a.C.[materiali raccolti da Carlo Spaccasassi]. Ippocrate di Chio – Matematico greco vissuto nel V secolo a.C. [materiali raccolti da Alberto Torroni, Carlo Zaccanti] Ippocrate di Cos – Medico (Cos 460 – Larissa 375 o 351 a.C.), fondatore della medicina classica [materiali raccolti da Serena Becco, Claudio Pompei, David Sanilli, Alberto Torroni].

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Ippodamo di Mileto – Architetto greco, padre dell’urbanistica, nel 444 partecipò alla fondazione della colonia panellenica di Turi [materiali raccolti da Luca Sangemi, Alberto Torroni]. Ipsicle – Matematico vissuto ad Alessandria nel II secolo a.C. Gli viene attribuita una continuazione degli Elementi di Euclide, nei libri XIV e XV sui poliedri regolari. Autore di un lavoro astronomico Sui tempi di levata, la più antica opera che si conosca contenente la divisione dell’eclittica in 360 gradi o mòirai, e notevoli proposizioni sulle progressioni aritmetiche [materiali raccolti da Cristina Timperi]. Isidoro di Mileto – Architetto vissuto nell’età di Giustiniano, autore di un commento di Erone e progettista, insieme con Antemio di Tralle, della chiesa di S. sofia a Costantinopoli [materiali raccolti da Stefano Mazzarini, Valerio Bencivenga] Leone – Matematico minore della scuola platonica, attivo nella prima metà del IV secolo [materiali raccolti da Luca Tancioni]. Leucippo di Mileto – Filosofo attivo nella seconda metà del V secolo a.C., iniziatore dell’atomismo sviluppato da Democrito [materiali raccolti da Laura Frezza, Eduardo Mazzaracchio] Liside di Taranto – Pitagorico, fuggito da Crotone in seguito ad una rivoluzione antipitagorica, passò a Tebe, dove in tarda età sarebbe stato maestro di Epaminonda [materiali raccolti da Emanuele Giannini]. Lucrezio (T. Lucretius Carus) – Poeta latino, vissuto fra il 99 e il 55 a C., divulgatore in versi della fisica di Epicuro [materiali raccolti da Viviana Corvetto, Luca Crognale, Michele Del Mastro, Eleonora Di seri Tarantino, Nicola D’Orazio, Lorenzo Micheli, Marco Montesi, Ilaria Napolitano]. Macrobio (Ambrosius Theodosius Macrobius) – Scrittore enciclopedista latino vissuto fra IV e V sec. d.C. [materiali raccolti da Pamela Bleve, Flavio Giannini]. Magone – Cartaginese, autore un trattato di agricoltura in 28 libri, esperto di sistemi di coltura del latifondo [materiali raccolti da Chiara Quattrini]. Manetone – Sacerdote egizio, storico, vissuto nel III secolo a.C. [materiali raccolti da Marco Martignetti].

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Manilio (M. Manilius) – Poeta latino dell’età augustea, autore di Astronomica, poema didascalico in esametri [materiali raccolti da Danilo Bellisari, Luca Esposto]. Mantia – medico della scuola di Erofilo, farmacologo [materiali raccolti da Leandro Davanzo]. Marcellino – Medico autore del De pulsibus [materiali raccolti da Federico Faraone]. Marciano di Eraclea (in Bitinia) – geografo vissuto nel V secolo a.C., autore di un Periplo del mare esterno in 2 libri [materiali raccolti da Giovanni Falchetti]. Maria giudea – [materiali raccolti da Marco Buonamonti]. Marino – Filosofo neoplatonico pagano autore di una Introduzione ai Dati di Euclide. Marino – medico greco vissuto ad Alessandria nella seconda metà del II secolo d.C., utilizzato da Galeno. Marino di Tiro – Geografo greco, attivo nella prima metà del II secolo d.C., editore di una carta geografica del mondo conosciuto su una proiezione a maglie rettangolari e quindi con sviluppo cilindrico e misurazioni che furono molto utilizzate, e perfezionate, nella Geografia di Claudio Tolemeo [materiali raccolti da Emanuele De Angelis]. Marziano Capella – Erudito romano attivo in ambiente africano, autore di una compilazione enciclopedica (De nuptiis Mercurii et Philologiae) che ebbe grande fortuna nel medioevo [materiali raccolti da Valentina Lenti]. Menecmo – Matematico greco (fratello del più famoso Dinostrato) vissuto fra il 375 e il 325 a.C., discepolo di Eudosso; scopritore delle sezioni coniche o triadi di Menecmo [materiali raccolti da Armando Giordano]. Menelao di Alessandria – Matematico e astronomo vissuto nel I sec. d. C., autore di Sphaerica) [materiali raccolti da Claudio Giagheddu, Tommaso Valentini]. Menodoto di Nicomedia – Medico della scuola empirica, pensatore, polemista, commentato da Galeno. Metagene – Architetto cretese, vissuto nel VI secolo a.C., lavorò col padre Cersifrone alla costruzione dell’Artemisio di Efeso [materiali raccolti da Tullio Sebastiani].

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Metagene attico – Architetto del V secolo a.C. Metone – Astronomo del V secolo a.C. [materiali raccolti da Danilo Luzi]. Metrodoro di Chio – filosofo vissuto fra V e IV a.C. autore di un’opera intitolata La natura, con astronomia e meteorologia democritee [materiali raccolti da Daniele Orlando]. Metrodoro di Lampsaco – Vissuto nel V secolo, discepolo di Anassagora, autore di un’interpretazione allegorica dei poemi omerici in cui gli eroi di Omero sono identificati con gli elementi del cosmo, e le divinità con le parti dell’organismo umano; non va confuso con l’omonimo che segue. Metrodoro di Lampsaco – Discepolo di Epicuro, nato nel 330 [materiali raccolti da Marco Martufi, Daniele Orlando]. Mnesicle – Architetto greco della seconda metà del V secolo, attivo nella realizzazione dei Propilei [materiali raccolti da Alessio Tarquini, Antonio Tomaro]. Moderato di Gades (Cadice in Spagna) – vissuto nel I sec. d.C., autore di Commenti pitagorici in 11 libri. Moschione – Viene conservata una sua memoria sulla costruzione della nave Syracosia, voluta da Gerone II; incerto se debba identificarsi con l’omonimo poeta tragico vissuto fra IV e III sec. a.C. [materiali raccolti da Roberto Belardo]. Mosco – Studioso di meccanica [materiali raccolti da Valerio De Palo] Mulomedicina Chironis – Traduzione latina di un manuale greco di veterinaria. Musa – vedi Antonio Musa Nicomaco – Medico, padre di Aristotele. Nicomaco di Gerasa – matematico e filosofo neopitagorico vissuto fra I e II secolo d.C., autore di una Introduzione all’aritmetica, di una Teologia aritmetica e di un Manuale di armonia (Harmonices enchiridion)[ materiali raccolti da Enrico Cimmino, Alessio Tarquini]. Nicomede – Geometra vissuto nel II a.C., inventore delle curve dette conoidi [materiali raccolti da Lorenzo Dell’Arciprete]. Nigidio Figulo (P. Nigidius Figulus) – Poligrafo romano (98–45 a.C.), ricordato anche da Lucano e da Cicerone come iniziatore del neopitagorismo romano.

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Oppiano – Originario di Anazarbo (in Cilicia), autore di un poema didascalico sulla pesca intitolato Halieutica, in 5 libri, composto intorno al 180 d.C.; un suo contemporaneo ed omonimo, Oppiano di Apamea (in Siria) compose, all’[materiali raccolti da Andrea Beciani]. Oribasio – Vissuto fra il 325 e il 403, noto soprattutto per essere stato medico dell’imperatore Giuliano l’Apostata, nonchém autore di una Collezione medica in 70 libri, in parte conservata, che lo rivela poderoso ma arido compilatore [materiali raccolti da Francesco Cusmai]. Palladio – autore di un De medicina pecorum e di un Opus agriculturae, ovvero De re rustica [materiali raccolti da Domenico Poto]. Panfilo – Grammatico di Alessandria (attivo nella seconda metà del I sec. d.C.) autore, fra l’altro, di un onomastico botanico ricordato da Galeno, e fonte di Esichio [materiali raccolti da Giovanni Malfarà]. Panfilo di Anfipoli – Pittore attivo fra il 390 e il 340 a.C., considerato soprattutto teorico dell’arte, assertore della assoluta necessità, per l’artista, di conoscere aritmetica e geometria. Pare che abbia inventato la tecnica dell’encausto, e si sia molto dedicato all’insegnamento, che impartiva in lunghi corsi della durata di 12 anni. Pappo – Matematico di Alessandria, vissuto nel III secolo d.C., ultimo grande cultore della scienza geometrica [materiali raccolti da Vanessa Cardilli, Alessio Cerquozzi, Nunzio Sparano, Chen Xianguo]. Parmenide di Elea – Filosofo, principale esponente della scuola eleatica, attivo negli ultimi anni del VI secolo e agl’inizi del V a.C. [materiali raccolti da Emanuele Celletti, Simone Calabrò, Daniele Di Stefano, Alessio Luffarelli]. Pedanio Dioscuride – v. Dioscuride. Pitagora – Filosofo e scienziato, primo maestro greco dell’Occidente (Samo, 570 – Metaponto 490) [materiali raccolti da Daniele Albanese, Matteo Boschi, Domenico Cascone, Pamela Di Salvatori, Stefano Gatta, Rocco Antonio Guarino, Fernando Iazeolla, Paolo Insogna, Assuntina Magnante, Ivano Moretti, Gianluca Notarcola, Ariana Picchi, Marco Rossi, Paola Rossi].

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Pitea di Massalia – Navigatore nel mare esterno, oltre le Colonne d’Ercole (IV secolo a.C.) e autore di una relazione Intorno all’Oceano [materiali raccolti da Emanuele Fulvi, Marco Messina]. Pizio o Piteo o Pitide di Priene – Architetto, nativo di Priene (città della Ionia), fu anche scultore e teorico di architettura, attivo nel IV secolo a.C.. Platone – Uno dei massimi filosofi di tutti i tempi, qui elencato per i suoi interessi matematici e scientifici in generale [materiali raccolti da Elisa Baglioni, Ferdinando Colantuono, Marco Colatosti, Marco Feliziani, Antonio Frongillo, Massimiliano Guida, Mauro Nonnis, Francesco Pace, Juan Pablo Pais, Andrea Sabattini, Luigi Scipioni, Daniele Vagnoni]. Plinio il Vecchio (C. Plinius Secundus) – Autore della Naturalis historia, vissuto fra il 23 e il 79 d.C. [materiali raccolti da Liu Junyu, Luca Marcheggiani, Raffaele Rosa, Stefano Scarrone, Marco Maria Trisolini]. Plotino – [materiali raccolti da Pamela Mallia]. Polyeidos – Ideatore di macchine d’assedio a Bisanzio, menzionato nei laterculi Alexandrini (“Enc. It.”, s.v. Ingegneria, p. 229) [materiali raccolti da Flavio Polselli]. Porfirio – Filosofo vissuto fra il 233 e il 305 d.C., allievo di Plotino ed autore di un’invettiva Contri i Cristiani, scrisse fra l’altro un Commentario agli Armonici di Tolemeo J. BIDEZ, Vie de Porphyre, le philosophe néoplatonicien, Gent 1913 (ristampa anastatica Hildesheim 1964) [materiali raccolti da Alessandro Onelli] Posidonio di Apamea – Pensatore e scienziato vissuto fra il 135 e il 51 a. C., autore di opere geografiche ed astronomiche [materiali raccolti da Daniele Ferraglioni, Giuseppe Macrì, Daniele Romano]. Prassagora di Cos – Medico, nato a Cos (o Coo) intorno al 340 a.C., distinse per primo fra arterie e vene, introducendo però la teoria secondo la quale nelle prime scorreva soltanto pneuma e non sangue [materiali raccolti da Stefano Carbone]. Prisciano – Poeta didascalico vissuto nel V sec. d. C., autore di una traduzione del poemetto di Avieno. Proclo – Filosofo neoplatonico (vissuto fra il 410 e il 485 d.C.), autore di un commento ad Euclide e di una Ipotiposi che introdu-

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ceva alle teorie astronomiche di Ipparco e di Tolemeo. Bibl.: N. SCOTTI MUTH, Proclo negli ultimi quarant’anni. Bibliografia ragionata della letteratura primaria e secondaria riguardante il pensiero procliano e i suoi influssi storici (anni 1949–1992), Milano 1993 (con introduzione di W. Beierwaltes) [materiali raccolti da Marco Dell’Olio, Matteo Medori]. Protagora di Abdera – Sofista originario di Abdera in Tracia (patria anche di Democrito), vissuto fra il 485 e il 411, invitato da Pericle a redigere la costituzione della colonia panellenica di Turi in Magna Grecia, cui anche egli partecipò, insieme con Erodoto (444 a.C.), condannato per empietà nel 411 e costretto alla fuga da Atene [materiali raccolti da Giorgio Biondi, Cristian Francescone, Kamila Preka, Alessandro Tonucci]. Rabirio – Architetto, ricordato a proposito della costruzione del palazzo di Domiziano sul Palatino. Rufo di Efeso – Medico attivo in età augustea, autore di trattati Sulla nomenclatura delle membra umane e Sulle malattie dei reni e della vescica, ricchi di acute osservazioni. Viene considerato il più importante dei trattatisti in lingua greca dopo Galeno [materiali raccolti da Francesco Balistreri] Satiro – Architetto e scultore del IV secolo a.C., progettista del Mausoleo di Alicarnasso. Scilace di Carianda – Vissuto fra VI e V secolo a.C., ebbe dal re persiano Dario l’incarico di esplorare il Mar Rosso e l’Oceano Indiano; ad un anonimo, convenzionalmente indicato come pseudo Scilace, va invece attribuito un Periplo del Mediterraneo composto in epoca assai più tarda, fra il 338 e il 330 a.C. [materiali raccolti da Adriano Rinna]. Scimno di Chio – Autore (III–II a.C.) di una Periegesi in 16 libri (dedicata a Nicomede II di Bitinia), della quale restano solo frammenti [materiali raccolti da Giordano Veltro]. Seleuco di Babilonia – Astronomo vissuto nel II secolo a.C., assertore dell’eliocentrismo [materiali raccolti da Massimiliano Aprea]. Seneca, Lucio Anneo – figlio di Seneca il vecchio (o il retore); vissuto fra il 4 a.C. e il 65 d.C. fu autore, fra l’altro, di Naturalium quaestionum libri VII [materiali raccolti da Marco Bernacchi, Cri-

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stina Cicero, Alessandro Grassi, Michele Guarino, Daniele Muscedere, Roberta Piacentini, Ivan Rosellini, Claudio Strino]. Senocrate – Filosofo(nato a Calcedonia, vissuto fra il 396 e il 314 a.C.), allievo di Platone, successore di Speusippo nella direzione dell’Accademia [materiali raccolti da Fabio Cataldi]. Senofane di Colofone – Filosofo del VI sec. a.C., autore di un poema in esametri Sulla natura, indicato come fondatore della scuola eleatica [materiali raccolti da Giovanni Sorbo]. Sereno – Matematico, nato ad Antinoe o ad Antissa, vissuto fra III e IV secolo d.C., autore di opere Sulla sezione del cilindro e Sulla sezione del cono. Sereno (Q. Serenus o Serenius) – Maestro dell’imperatore Gordiano II, autore di un Liber medicinalis in esametri, contenente indicazioni terapeutiche per 64 malattie (non vi si disdegna il ricorso a formule magiche). Qualcuno lo identifica con il figlio di Sereno Sammonico (q.v.). Sereno Sammonico – Erudito romano, raccoglitore di una ricca biblioteca di 62.000 volumi, autore di un’opera compilativa intitolata Res reconditae (citata da Macrobio) assai stimata dall’imperatore Settimio Severo. Fu fatto uccidere da Caracalla nel 212 d.C. Sestio, Quinto (Q. Sextius) – Nato intorno al 70 a.C., fu fondatore di una scuola filosofica romana indirizzata all’ascetismo pitagorico: suo figlio Sestio Nigro, che gli successe nella direzione della scuola, è ricordato fra le fonti della Naturalis historia di Plinio il Vecchio Sesto Empirico – Medico e filosofo vissuto fra il 180 e il 220 d.C., autore di scritti ispirati alle dottrine scettiche, volti alla confutazione delle principali dottrine filosofiche, e in difesa della superiorità del bìos e dei saperi pratici [materiali raccolti da Giorgio Ascenzi] Sesto Pitagorico – Autore, vissuto nel III sec. d.C., di una collezione di Gnòmai (“Massime”) che furono tradotte in latino con il titolo Anulus da un tal Rufino. Severo – architetto della domus aurea Neronis insieme con Celere, coinvolto nel disgraziato tentativo di far sfogare nel Tevere le acque del lago Averno.

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Simplicio – Filosofo neoplatonico, originario della Cilicia, è ricordato fra i dotti che emigrarono a Ctesifonte dopo la chiusura delle scuole filosofiche di Atene, disposta da Giustiniano nel 529 [materiali raccolti da Emanuele Celletti]. Sinesio di Cirene – Vescovo di Cirene, del quale si segnala la corrispondenza con la dotta Ipazia (ad es. la 15a lettera, con accurata descrizione di un idroscopio, p. 100 sg.). Bibl.: E. Bignone, Storia della letteratura latina I, Firenze 1942, p. 318, su orfismo e pitagorismo in Roma. Sorano di Efeso – Medico alessandrino attivo a Roma durante il regno di Traiano [materiali raccolti da Luca Lattanzio]. Sosigene – Astronomo alessandrino, consultato da Gaio Giulio Cesare il dittatore per la riforma del calendario disposta nel 47 a.C. [materiali raccolti da Dario Calcagni]. Sostrato di Cnido – Architetto, ingegnere di Tolomeo Filadelfo, costruttore del faro di Alessandria (280–279 a.C.) [materiali raccolti da Stefano Ciaccia, Giuseppe Di Sandolo]. Speusippo di Atene – Succeduto a Platone nel 347 nella direzione dell’Accademia [materiali raccolti da Daniele Autizi, Matteo Roselli]. Stippax – Costruttore dell’ippafesi (ossia delle stalle sotterranee) di Olimpia; menzionato nei laterculi Alexandrini (“Enc. it.”, s.v. Ingegneria, p. 229) [materiali raccolti da Riccardo Moja]. Strabone – Geografo e storico, originario di Amasia (nel Ponto) e vissuto dal 64 a.C. al 24 d.C. [materiali raccolti da Aldo Collina] Stratone di Lampsaco – Allievo di Teofrasto, fu ad Alessandria precettore di Tolemeo II Filadelfo, e quindi successore di Teofrasto nella direzioine del Peripato, che tenne dal 288 al 268, influenzando notevolmente lo sviluppo delle scienze naturali [materiali raccolti da Irene Fabrini, Simone Garofalo, Stefano Rosolia, Emanuele Turella] Sulpicio Gallo, Gaio (C. Sulpicius Gallus) – Console romano dell’anno 166 a.C., autore di un trattato di astronomia. Viene ricordata la sua predizione dell’eclissi di luna del 21 giugno del 168 a.C., alla vigilia della battaglia di Pidna, allorché egli era tribuno militare agli ordini di Lucio Emilio Paolo [materiali raccolti da … Lelli, Pietro Santececca].

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Svetonio Tranquillo, Gaio (C. Suetonius Tranquillus) – Noto per lo più come storico, autore delle celebri biografie degli imperatori, vissuto fra il 70 e il 140 d.C. Curiosità scientifiche furono oggetto dei suoi Prata, enciclopedica di argomento naturalistico (non conservata). Talete di Mileto – Padre della scienza ionica (vissuto fraVII e VI sec. a.C.), annoverato fra i sette sapienti [materiali raccolti da Davide Cadoni, Davide Cannone, Simone Conti, Alessandro Corianò, Daniele De Santis, Marco De Santis, Emanuele Di Nunzio, Danilo Lazzarini, Simone Notargiacomo, Gabriele Pacini, Marco Pagnani, Simone Petracchiola, Emanuele Piaggesi, Donato Silvestri, Domenico Turco] Teeteto di Atene – Filosofo, dedito ad indagini matematiche, protagonista dell’omonimo dialogo platonico [materiali raccolti da Giordano Mariani]. Temisone – Medico vissuto fra I secolo a.C. e I d.C., originario di Laodicea in Siria, allievo di Asclepiade di Bitinia [materiali raccolti da Gabriele Fabiani]. Teodoro matematico [materiali raccolti da Claudio Santini] Teodosio di Bitinia – Nativo di Tripoli, città della Bitinia – matematico greco vissuto fra II e I sec. a.C., autore di un’opera in tre libri intitolata Teoria della sfera (Sphaerica) [materiali raccolti da Marco Giorgi]. Teofrasto – Filosofo e scienziato, nato ad Ereso (nell’isola di Lesbo) nel 371, morto nel 287. Fu allievo di Platone, quindi di Aristotele, del quale fu anche successore nella direzione del Liceo [materiali raccolti da Valerio Ferrari, Damiano Rigolo, Fabio Trabattoni]. Teone di Alessandria – Matematico ed astromomo, attivo nella seconda metà del IV secolo d.C., autore di commenti agli Elementi di Euclide e all’Almagesto di Tolemeo, composti – a quel che pare – per sua figlia IPAZIA, che divenne anch’essa celebre per la dottrina [materiali raccolti da Lucio Lecce, Fausto Quattrone]. Teone di Smirne – Matematico e filosofo vissuto durante il regno di Adriano, autore di un trattato su “Ciò che nell’ambito della matematica è utile per la lettura di Platone” [materiali raccolti da Vanessa Cardilli, Roberto Conetti].

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Terpandro di Antissa – [materiali raccolti da Domenico Di Paolo]. Tessalo di Cos – Medico della scuola di Ippocrate (figlio, a quel che pare, dello stesso Ippocrate) e fondatore della scuola ippocratica, particolarmente versato nella ginecologia e nell’ostetricia [materiali raccolti da Rosy Innarella]. Tessalo di Tralle – Medico vissuto nel I secolo d.C., di indirizzo contrario a quello ippocratico [materiali raccolti da Daniele Muscedere]. Teudio di Magnesia – Matematico e filosofo, contemporaneo di Aristotele. Bibl.: K. von Fritz, s.v. Theudios, in P.W. col. 244– 246 [materiali raccolti da Andrea Tutore]. Timocari – Astronomo greco vissuto nel IV sec. a.C., compilatore, insieme con Aristillo, di un catalogo stellare. Bibl.: W. Kroll, s.v. Timocharis, in “P.W.” VI A col. 1258 sg. [materiali raccolti da Ylenia Cannone, François Morlupi]. Tolemeo (Claudius Ptolemaeus) – Fra i più celebri scienziati del mondo antico (astronomo e astrologo, ma anche matematico e geografo) attivo ad Alessandria nel secondo quarto del secondo secolo d.C. [materiali raccolti da Francesco Borzacchi, Marco Laino]. Trasillo di Alessandria – Astronomo di corte dell’imperatore Tiberio, autore anche di trattazioni storiche e filosofo di tendenza neopitagorica e neoplatonica [materiali raccolti da Daniele Mattarelli]. Trifone di Alessandria. Varrone, Marco Terenzio (M. Terentius Varro) – Principe degli eruditi romani, nato a Rieti (e perciò detto Reatino, per distinguerlo dal molto meno famoso Varrone Atacino, nativo invece di Atax nella Gallia: v. il successivo) nel 116 a.C., morto quasi novantenne nel 27 a.C. [materiali raccolti da Luca Marziale, Alessandro Ricci, Giacomo Tiberia]. Varrone Atacino – Storico ed erudito, autore di un Bellum Sequanicum (sulla guerra combattuta fra Cesare ed Ariovisto nel 58 a.C.), e di una Chorographia. Vegezio (Flavius Vegetius Renatus o P. Vegetius Renatus) – Autore di un trattato di arte militare (Epitoma rei militaris), da identificare

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forse con l’autore di un trattato di veterinaria (Digestorum artis mulomedicinae). Bibl.: K. HOPPE, in “P.W.” XVI col. 511; P. FRACCARO, s.v. Vegezio, in “Enc. it.” [materiali raccolti da Roberto Pelliccioni, Giorgio Ruta]. Vestino, Lucio Giulio (L. Iulius Vestinus) – Sofista e lessicografo di età adrianea, amministratore delle biblioteche imperiali. Vitruvio (M. Vitruvius Pollio) – Architetto dell’età augustea [materiali raccolti da Giorgio Ciciani, Pierpaolo Corrias, Alessandro D’Angiò, Raffaele Gitto, Salvatore Panozzo Capodiferro, Alberto Pessia]. Zenone di Cizio – Filosofo (nato a Cizio, nell’isola di Cipro, nel 333 a.C., morto ad Atene nel 263): da non confondere col successivo [materiali raccolti da Andrea Picchiani, Samuele Rocchi]. Zenone di Elea – Filosofo greco, nato ad Elea fra il 490 e il 480 a.C., allievo di Parmenide; Bibl.: A. GRÜNBAUM, A consistent conception of the extended linear continuum as a aggregate of unextended elements, in “Phil. of science” 1952, nr. 19, p. 283; P.K. FEYERABEND, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza. Milano 1979, p. 48 sg. [materiali raccolti da Valerio Ammendola, Simone Astarita, Silvia Aversano, Marco Brunamonti, Mauro Conti, Andrea Corà, Fabrizio Cossu, Antonio Grillo, Elisabetta Lazzeri, Francesco Longobardi, Roberto Martini, Valentina Migliaccio, Riccardo Nicolai, Antonio Petito, Stefano Pisani, Alessandro Polselli, Priscilla Prinzi, Roberto Rinaldi, Mattia Siano, Armando Valerio Viceconte].

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Cultura scientifica degli antichi di MARIANO MALAVOLTA

Fig. 1 Mesi e giorni dell’anno giuliano, il cui schema si conserva intatto nel nostro calendario. Le prime due colonne distinguono i mesi di trentun giorni, raggruppati nelle due serie con le none rispettivamente septimanae (ossia programmate per il settimo giorno del mese) e quintanae (fissate al quinto giorno) ma sempre ricorrenti l’ottavo giorno prima delle idi, e per questo motivo dette nonae, secondo il sistema del calcolo inclusivo; la terza colonna raggruppa i mesi di trenta giorni (tutti con none quintanae), e la quarta il solo mese di febbraio.

Fig. 2 Frammenti superstiti dei Fasti Antiates maiores relativi al mese di Aprile: apografo e trscrizione (da DEGRASSI, Inscriptione Italiae). In prima posizione le litterae nundinales (a-h), che indicano la posizione del giorno nel ciclo delle nùndinae (specie di settimana di otto giorni). Seguono, immediatamente a destra della littera nundinalis, i nomina dierum nei giorni che hanno un nome: qui vediamo menzionati, a parte le kalendae Apriles, le nonae (in questo mese quintanae), le eidus, i Fordicidia (a fordis caedendis), i Cerialia (festa sacra a Cerere, Libero e Libera, che ricevevano culto nel tempio dedicato nel 496 a.C. dal dittatore Aulo Postumio), i Parilia (a partu Iliae, detti anche Palilia), i Vinalia (festa dell’apertura degli orci, solennizzate da libagioni a Giove del vino nuovo), i Robigalia; segue la specificazione della qualità del giorno (fastus, nefastus, comitialis, np), le divinità cui sono dovuti sacrifici, e annotazioni di particolari ricorrenze (ad esempio la nota Roma condita, apposta al giorno 21). Dal momento che i fasti Antiates maiores furono redatti prima della riforma giuliana, il mese di aprile figura di 29 giorni, secondo quanto prescritto nel calendario numano.

Fig. 3 Rappresentazione schematica della sfera celeste, con l’indicazione del punto vernale, o punto gamma (detto g perché esso si trovava [oggi è nei pesci] nella costellazione dell’ariete [stilizzata nella lettera greca “gamma”] all’epoca in cui Ipparco fece le sue osservazioni astronomiche) o punto equinoziale di primavera, e del punto equinoziale di autunno ( R ), determinati dall’intersezione dell’equatore celeste, dell’eclittica (il circolo massimo descritto dal sole nel suo apparente cammino annuale) e del coluro (coluro equinoziale o meridiano celeste).

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Alpes Cottiae (V e XII), Maritimae (V e XII), Poeninae (XII) Graiae (XII) Narbonensis (XII) Aquitania (XIII) Lugdunensis (XIII) Belgica (XIII) Germania superior (XIII) Germania inferior (XIII) Raetia (III) Noricum (III) Pannonia superior (III) Pannonia inferior (III) Illyricum et Dalmatia (III) Dacia (III); 14 Moesia superior (III)

15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26

Moesia inferior (III) Thracia (III) Macedonia (III) Epirus (III) Achaia (III) Asia (III) Bithynia et Pontus (III) Galatia (III) Cappadocia (III) Pamphylia et Lycia (III) Cilicia (III) Syria et Iudaea o Palaestina (III) 27 Armenia (III) 28 Mesopotamia et Assyria (III) 29 Arabia (III)

30 31 32 33 34 35

Aegyptus (III) Cyprus (III) Creta et Cyrenaica (III) Africa (VIII) Numidia (VIII) Mauretaniae (Caesariensis et Tingitana) (VIII) 36 Sicilia (X) 37 Sardinia et Corsica (X) 38 Baetica (II) 39 Lusitania (II) 40 Tarraconensis (II) 41 Britannia (VII) [Da: I. DI STEFANO MANZELLA, Il mestiere di epigrafista, con la correzione di imprecisioni].

Fig. 4 Carta dei confini approssimativi delle province dell’impero romano all’epoca della sua massima espansione nel 117 d.C. (tratto continuo) e delle nazioni moderne (tratteggio). I numeri rinviano alle province secondo l’elenco che segue (fra parentesi il nr. del volume del C.I.L. che raccoglie la documentazione epigrafica restituita dalle singole province):

Fig. 5 Luoghi di origine di filosofi e sedi di scuole filosofiche nel mondo antico.

Fig. 6 La terra secondo Anassimandro

. Fig. 7 La terra secondo Ecateo

Fig. 8 La carta geografica dell’orbis terrarum in proiezione conica equidistante, secondo il modello di CLAUDIO TOLEMEO (deformata nella copia conservata dal CODICE URBINATE 82, del sec. X (fogli 59v - 60r).

Fig. 9 Due diverse ricostruzioni della dioptra di Erone.

Fig. 10 Il chorobàtes.

Fig. 11 Il mesolabio (con la riproduzione della relativa voce del L.U.I.).

Fig. 12 La eolipila o turbina di Erone. Il vapore passa dalla caldaia ermetica nella sfera ed esce poi dai due tubi piegati ad angolo retto, imprimendo alla sfera un veloce moto rotatorio. Il congegno utilizza il principio di azione e erazione, formulato da Newton nel 1687.

Fig. 13 Congegno di Erone per l’apertura “automatica” delle porte di un tempio. Accendendo il fuoco sull’altare, cavo e a tenuta stagna, l’acqua in esso contenuta si scalda e la pressione del vapore la costringe a passare nella sfera sottostante. Parte dell’acqua della sfera passa quindi nel secchio che, appesantito, s’abbassa e tira le corde che fanno ruotare i cardini della porta. A fuoco spento il vapore si ricondensa e l’acqua viene risucchiata nella sfera. Quando il secchio è vuoto, prevale la forza del peso sulla destra che, abbassandosi, fa richiudere le porte del tempio.

Fig. 14 Doccia a gettone progettata da Erone.

Fig. 15 Distributore a gettone di acqua lustrale (noi diremmo di “acqua santa”), progettato da Erone.

Fig. 16 Ricostruzione dell’odometro.

Fig. 17 Ricostruzione di un congegno simile all’odometro, utilizzato su un vascello.

Fig. 18 La sfera sospesa nel vuoto (descritta da Erone, e utilizzata ancora in età moderna come fenomeno da baraccone).

Fig. 19 L’hydraules o organo idraulico (da illustrazione di un codice delle opere di Erone).

Fig. 20 Macchina semovente utilizzata nel teatro meccanico di Erone.

Fig. 21 Raffigurazioni schematiche del sistema geocentrico tolemaico e del sistema eliocentrico copernicano.

Fig. 22 Evoluzione dell’opera “poligonale”.

Fig. 23 I diversi stili di “opera quadrata”.

Fig. 24 Messa in opera dei blocchi dell’opera quadrata: quando i blocchi sono accostati le facce all’interno sono separate da un’intercapedine vuota, mentre all’esterno combaciano perfettamente lungo le fasce lisciate (anathyroseis, plurale di anathyrosis).

Fig. 25 Tipologie di laterizi romani.

Fig. 26 Bollo laterizio da Butzbach, opera della leg(io) (uicesima secunda) Pr(imigenia) p(ia) f(idelis).

Fig. 27 Bollo laterizio da regione suburbana: Ex pr(aediis) Domitiae Lucillae, ex fig(ulinis) Domit(ianis) / minorib(us); op(us) dol(iare) Aeli(i) Ale/xandri [notare la A senza traversa].

Fig. 28 Diversi tipi di “olivelle” impiegate nel sollevamento dei blocchi di pietra.

Fig. 29 Cortina di laterizi vista dall’interno.

Fig. 30 Cortina di paramento dell’opus reticulatum vista dall’interno.

Fig. 31 La rota calcatoria che azionava la macchina per il sollevamento (dal c.d. rilievo degli Haterii).

Fig. 32 Disegno raffigurante una groma.

Fig. 33 Le centuriazioni degli agri di Parma, Reggio Emilia e Modena (dal “Princeton Atlas”).

Fig. 34 Cippo della centuriazione da Amandola (Ascoli Piceno).

Fig. 35 Una squadra di gromatici al lavoro.

Fig. 36 Terre centuriate nella provincia romana d’Africa.

Fig. 37 Samo. Il tracciato dell’acquedotto di Eupalinos.

Fig. 38 Il metodo di numerazione delle centurie. Si mostra un caso (citato ad esempio dal gromatico Igino), evidenziato nel disegno dalle aree tratteggiate, delle diverse parti di un fundus appartenente ad un unico proprietario e dislocato nell'ambito di diverse centurie: DDI/KKI, DDI/KKII, DDII/KKII (lotti di 6.66, 15 e 45 iugeri rispettivamente).

AREE SCIENTIFICO–DISCIPLINARI

Area 01 – Scienze matematiche e informatiche Area 02 – Scienze fisiche Area 03 – Scienze chimiche Area 04 – Scienze della terra Area 05 – Scienze biologiche Area 06 – Scienze mediche Area 07 – Scienze agrarie e veterinarie Area 08 – Ingegneria civile e Architettura Area 09 – Ingegneria industriale e dell’informazione Area 10 – Scienze dell’antichità, filologico–letterarie e storico–artistiche Area 11 – Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche Area 12 – Scienze giuridiche Area 13 – Scienze economiche e statistiche Area 14 – Scienze politiche e sociali DELLO STESSO EDITORE

1. Tullio De Mauro, Isabella Chiari (a cura di), Parole e numeri. Analisi quantitative dei fatti di lingua 2. Isabella Chiari, Fonologia statistica dell’italiano: frequenze e fonotassi 3. Paola Belloni, Giuseppe Giusti. Poesia, satira, rapporti con il mondo anglosassone 4. Mariano Malavolta, Scienza e tecnica nel mondo grecoromano 5. Marcello Teodonio, Nun sai c’a lo spedale ce se more? Malati e malattie, medici e ospedali nei sonetti di Giuseppe Gioachino Belli 6. Filippo Cancelli, Complemento de “La Retorica a Gaio Erennio” 7. Carlo Denina, Discorso sopra le vicende della letteratura. A cura di Carlo Corsetti 8. Accademia Ciceroniana di Arpino, La giustizia tra i popoli nell’opera e nel pensiero di

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Cicerone. Atti del Convegno dell’Accademia Ciceroniana (Arpino, 11–12 ottobre 1991) Dina D’Isa (a cura di), Moravia e la sua generazione. “Caratteri” nell’Italia fascista Gaetano Rando, Emigrazione e letteratura. Il caso italoaustraliano Studi sul Rinascimento e il Manierismo 1 Gian Piero Maragoni, La devozione e la letteratura. Sulla poesia sacra di Luigi Tansillo Filippo Cancelli Cicerone e i grandi dell’Ottocento. Foscolo, Manzoni, Leopardi. Saggio per una conferenza Emilio Lonero, Il cinema di Stato in Italia. Storia di un fallimento Maurizio Bonicatti, Caratteri psicopatologici nella drammaturgia da Schiller a Beckett: analisi freudiana ed analitica esistenziale

15. Rossana Caira Lumetti, Da Ponte esiliato da Vienna. Con una appendice di documenti 16. Silvana Casartelli Novelli, Il codice figurativo. Letture di semiotica generale e di semiotica sistemica 17. Graziella Pagliano, Maria Luisa Trebiliani, Marta Savini, Francesca Brezzi, Le presenze dimenticate. L’infanzia nell’Italia moderna fra storia, letteratura e filosofia. A cura di Graziella Pagliano 18. Maria Adelaide Caponigro, La negazione dell’eros nell’“Aminta” di Torquato Tasso 19. Manfredo Guerrera, La parola dell’immagine o l’immagine della parola? 20. Graziella Pagliano, Fra norme e desideri. Ricerche di sociologia della letteratura 21. Letizia Norci Cagiano, Valeria Pompejano Natoli (a cura di), Roma nella letteratura francese del Novecento. Aspetti del francese nel ventesimo secolo. Atti del XIII Convegno della Società universitaria per gli studi di lingua e letteratura francese (Roma, 6–8 novembre 1997) 22. Ricerche letterarie. Collana a cura di R.M. Caira e R. Pellegrini 1 Rosy Candiani, Pietro Metastasio da poeta di teatro a “virtuoso di poesia” 2 Cristina Benussi, Giancarlo Lancellotti (a cura di), Le donne del libro. Ricordi, racconti, drammi, miti minimi di Paola Fano Voghera, Anita e Alma Morpurgo, Anna Curiel Fano. Con una lettera di Giorgio Voghera 3 Giorgio Vigolo, Poesie religiose e altre inedite. A cura di Giuliana Rigobello 4 Elena Sala Di Felice, Rossana M. Caira Lumetti (a cura di), Il melodramma di Pietro Metastasio. La poesia, la musica, la messa in scena e l’opera italiana nel Settecento 23. Mauro Sarnelli, “Col discreto pennel d’alta eloquenza”. “Meraviglioso” e Classico nella tragedia (e tragicommedia) italiana del Cinque–Seicento 24. Pina Piras, Rosa Giovanna Sapori (a cura di), Italia e Spagna tra Quattrocento e Cinquecento 25. Manfredo Guerrera, Alessandro Vessella. Immagine e musica della Belle Epoque a Roma 26. Aurelio Oronzo Simone (a cura di), Esercizi di scrittura storiografica

27. Maria Donatella Gentili (a cura di), Aspetti e problemi della produzione degli specchi etruschi figurati. Atti dell’incontro internazionale di studio (Roma, 2–4 maggio 1997) 28. Emilio Lonero, Liliana Cavani: laurea honoris causa in Scienze della Comunicazione 29. Paolo Carile, Le regard entravé. Littérature et anthropologie dans les premiers textes sur la Nouvelle–France 30. Matthew Fforde, Desocialization. The crisis of the post-modern. A spiritual critique 31. Jacopo Sannazzaro, Antonio Ongaro, Canti del Tirreno. A cura di Maria Lucignano Marchegiani 32. Mario Valente, Legge, poesia e mito. Giannone, Metastasio e Vico fra “tradizione” e “trasgressione” nella Napoli degli anni Venti del Settecento. Atti del Convegno Internazionale di Studi (Napoli, 3–5 marzo 1998) 33. Maurizio Dardano, Adriana Pelo, Antonella Stefinlongo (a cura di), Scritto e parlato. Metodi, testi e contesti. Atti del Colloquio internazionale di studi (Roma, 5–6 febbraio 1999) 34. Mauro Sarnelli (a cura di), Biografia: genesi e strutture 35. Verio Santoro, Germ. arga–, iniuriosum verbum. Aspetti etimologici e semantici 36. Roberta Colombi, Lo sguardo che “s’interna”. Personaggi e immaginario interiore nel romanzo italiano del Seicento. Studi su Biondi, Donno, Assarino, Lengueglia, Morando 37. Valentina Gallo, Maurizio Fiorilla, Scrittori di fronte alla guerra. Atti delle giornate di studio (Roma, 7–8 giugno 2002) 38. USBEK. Collana diretta da Paolo Carile e Yves Hersant 1 Pierre Bense–Dupuis, L’Apollon italien (1644). Introduzione, testo e note a cura di Valeria Pompejano 39. Beatrice Cacciotti, Beatrice Palma Venetucci, Documenti per servire allo studio delle collezioni Doria Pamphilj 40. Marta Savini (a cura di), Studi di Italianistica per Maria Teresa Acquaro Graziosi 41. Giovanni Spagnoletti, Lineamenti introduttivi alla storia del cinema e Il nuovo cinema tedesco: Rainer Werner Fassbinder e Wim Wenders. A cura di Fabrizio Natalini 42. Francesco Paolo Russo (a cura di), Metastasio nell’Ottocento. Atti del Convegno (Roma, 21 settembre 1998)

43. Rossana Caira Lumetti, anche tu, Bruto… L’ideale del buon governo tra letteratura e storia 44. Rossana Caira Lumetti, Letteratura e iconografia. Suggestioni di lettura per gli studenti di Scienze della Comunicazione e Tecnica Pubblicitaria 45. Studi linguistici e di storia della lingua italiana. Collana diretta da Maurizio Dardano 1 Antonella Stefinlongo, I giovani e la scrittura. Attitudini, bisogni, competenze di scrittura delle nuove generazioni 2 Gianluca Frenguelli, Tre studi di sintassi antica e rinascimentale 3 Gianluca Frenguelli, L’espressione della causalità in italiano antico 4 Arno Scholz, Subcultura e lingua “giovanile” in Italia 5 Maurizio Dardano, Sintant. La sintassi dell’italiano antico 46. Carlo Corsetti, Pia da Siena 47. Francesca Cabasino (a cura di), André Malraux entre imaginaire et engagement politique. Actes du Colloque International (Rome, 9–10 novembre 2001) 48. Giuseppe Gioachino Belli, Lettere inedite a Mariuccia. A cura di Massimo Vignali 49. Angelo Michele Piemontese, La memoria romana dei santi martiri persiani Mario, Marta, Audiface e Abaco 50. Giovanni Spagnoletti (a cura di), Free Cinema / British Renaissance. Due momenti del cinema d’autore in Inghilterra. Saggi e materiali 51. Massimo Arcangeli, La Scapigliatura poetica “milanese” e la poesia italiana fra Otto e Novecento 52. Elisabetta Sarmati, La letteratura spagnola dalle origini al XIV secolo. Analisi di testi medievali 53. 1 Francesco Boriani, Compendio ragionato di storia della letteratura italiana ad uso della scuola secondaria superiore. Vol. I 2 Francesco Boriani, Compendio ragionato di storia della letteratura italiana ad uso della scuola secondaria superiore. Vol. II 54. Enrico Tiozzo, La trama avventurosa nelle autobiografie italiane del Settecento 55. Monica Pavesio, Introduzione al teatro europeo. Dal XVI al XIX secolo 56. Maria Serena Sapegno (a cura di), L’Italia tra mito e storia. Dalla poesia alla prosa

57. Maria Serena Sapegno (a cura di), Italia. Una tradizione poetica 58. Paola Bono (a cura di), Schermi elisabettiani. Cinema e teatro inglese tra prima età moderna e contemporaneità 59. Quaderni di Egittologia 1 Alessandro Roccati, L’area tebana 2 Alessandro Roccati, I templi di File 3 Giuseppina Capriotti Vittozzi, Deir el–Medina. Il villaggio degli artisti delle tombe regali a Tebe 60. Language Across Cultures. Collana in lingua inglese diretta da Francesca Trusso 1 Marcel Danesi, The Conceptual Basis of Syntax. An Introduction to Cognitive Linguistics 61. Luigi Capuana, “Il Raccontafiabe”, ovvero fiabe, novelle, raccontini e altri scritti per fanciulli. Lezioni di letteratura italiana. A cura di Rocco Paternostro 62. 1 Enrico Tiozzo, Il romanzo blu. Temi, tempi e maestri della narrativa sentimentale italiana del primo Novecento. Vol. I 2 Enrico Tiozzo, Il romanzo blu. Temi, tempi e maestri della narrativa sentimentale italiana del primo Novecento. Vol. II: Guido da Verona 3 Enrico Tiozzo, Il romanzo blu. Temi, tempi e maestri della narrativa sentimentale italiana del primo Novecento. Vol. III: Luciano Zuccoli 4 Enrico Tiozzo, Il romanzo blu. Temi, tempi e maestri della narrativa sentimentale italiana del primo Novecento. Vol. IV: Pitigrilli 63. Gioia Ottaviani, I fondamenti del teatro in Asia. Il Nāt. yāśastra. Il Libro della musica (Yueji). I Trattati di Zeami 64. Ilaria Pagani, I ponti fortificati a Roma fra Antichità e Medioevo 65. Cesare Brandi, Dal Gotico al Rinascimento. Filippo Brunelleschi. Lezioni. Testo stabilito e curato da Enzo Bilardello 66. Cesare Brandi, La scultura del primo Quattrocento. Corso monografico dell’anno accademico 1975-76. Testo stabilito e curato da Enzo Bilardello 67. Patrizia Pierini, Comparing Italian and English. An Introduction 68. Isabella Chiari, Informatica e lingue naturali. Teorie e applicazioni computazionali per la ricerca sulle lingue

69. Roberto Antonelli (a cura di), La costruzione del testo poetico: metrica e testo 70. Mariano Malavolta, San Paolo di Cossignano dentro e fuori le mura 71. Ilaria Pagani (a cura di), Arte, media e comunicazione. Atti del Convegno (Gaeta, 20–21 giugno 2003) 72. Alessio Giannanti, Per un avantesto alviariano: L’età breve 73. Maddalena Toscano, Sebastiano Etzo, Kunjani? Kulungile! Come va? Tutto bene! Piccolo manuale di conversazione zulu (+ cd-rom) 74. Marco Manotta, La lirica e le idee. Percorsi critici da Baudelaire a Zanzotto 75. Ulla Åkerström, Tra confessione e contraddizione. Uno studio sul romanzo di Alma de Céspedes dal 1949 al 1955 76. Lorenzo Declich, Sulla storia del sultanato ālbūsa‘īde e sull’Islām della Costa Swahili nel XIX secolo alla luce delle fonti in arabo dell’Archivio Nazionale di Zanzibar 77. Lorenzo Declich, The Mundirīs of Zanzibar: three generations of Ibādī ‘ulamā’ at the Sultan’s Court (1800-1900) 78. Sandra Petroni, Self–Study. La multimedialità e l’apprendimento della lingua inglese nel nuovo sistema universitario italiano 79. Caterina Marinucci, Attilio Bertolucci. Il divino egoista 80. Fabrizio Deriu, Opere e flussi. Osservazioni sullo spettacolo come oggetto di studio 81. Massimiliano Mancini, Come un san Giobbe in mezzo ar monnezzaro. Sondaggi belliani 82. Maria Cristina Simone, Warum kein besseres Deutsch? 83. Maria Rosaria D’Acierno, The English Verb– Phrase. Time and Tense between Translating and Pronunciation 84. Piero della Vigna, Rime. A cura di Gabriella Macciocca 85. Stefania Soldati, Dal nastro magnetico all’MP3… quando la musica ha rinunciato al tempo 86. Charles Vion d’Alibray, Le Soliman. Tragi– comédie. A cura di Simona Munari 87. Vincenzo Valeri, Per una scrittura della Lingua dei Segni Italiana 88. l(ea)ng(u)a(tgj)es. Quaderni di linguistica e linguaggi specialistici dell’Università di Teramo 1 Giovanni Agresti, Lingua e polis. Configu-

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razioni linguistiche e configurazioni sociali nel francese contemporaneo 2 Paola Pinna, English for Special Purposes: Focus on Agricultural and Veterinary Studies 3 Clara Di Giuseppe, English for the Social Sciences 4 Francesca Rosati, Clara Di Giuseppe, An Overview of Veterinari Medicine 5 Robert Lafont (a cura di Giovanni Agresti), L’essere di linguaggio 6 Giovanni Agresti, Lucilla Agostini, La parole du politique dans la Toile. Dictionnaire pragmatique et configurationnel français–italien. I. Langue et politique 7 Giovanni Agresti, Lucilla Agostini, Anna Cacciatore, La dictée nella scuola e nell’università italiane Giuseppe Cusmano, La questione dei “Furii poetae” Sesto Giulio Frontino, Il IV libro degli Strategemata. A cura di Giuseppe Cusmano Nicoletta Dacrema (a cura di), Felix Austria. Italia infelix? Tre secoli di relazioni culturali italo–austriache Paola Evangelista, Christina Rossetti: una “geografia poetica” Beatrice Cacciotti, La collezione di antichità del cardinale Flavio Chigi (1631–1693) Luca Marcozzi, Petrarca platonico Domenico Russo, Test di conoscenza delle parole. Schede di rilevazione per calcolare il grado di conoscenza delle parole più usate in italiano Anna Maria Trombetti, Son tornati a fiorir… gli stornelli. Rivisitazione tematico–linguistica e rilancio della più breve forma di componimento poetico italiano. Saggio e rimario floreale Biblioteca di linguistica diretta da Massimo Arcangeli 1 Mario Alinei, L’origine delle parole 2 Massimo Arcangeli, Lingua e società 3 Edgar Radtke, La lingua dei giovani 4 Luca Serianni, Il linguaggio giornalistico 5 Silvia Morgana, La lingua dei fumetti e dei fotoromanzi 6 Enzo Caffarelli, L’onomastica 7 Michele A. Cortelazzo, Stefania Macchioni, Il linguaggio pubblicitario 8 Ines Loi Corvetto, La neurolinguistica

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Fabio Rossi, La lingua cinematografica Matteo Motolese, Il linguaggio politico Rita Fresu, Lingua e gender Federico Faloppa, Lingua e potere Ugo Vignuzzi, Patrizia Bertini Malgarini, Lingua e religione 14 Rosanna Sornicola, La lingua parlata 15 Lorenzo Coveri, La lingua della canzone Giuseppe Cozzolino, Carmine Treanni, Planet Serial. I telefilm che hanno fatto la storia della TV Laura Santone, Variété. Piccolo laboratorio di testi e percorsi di analisi Diane Ponterotto, English Face to Face: Conversation in Contemporary Anglophone Culture Michele Fadda, Scrittura del visibile. Itinerari del “vedere” e del “dire” tra cinema e letteratura Giulia Maria Sidoti, Comunicazione e potere in un’epoca di decadenza e di trasformazione. Da un’analisi delle Res Gestae di Ammiano Marcellino Simona Rinaldi, Colore e pittura. Teorie cromatiche e tecniche pittoriche dall’impressionismo all’astrattismo (+ cd–rom) Beatrice Wilke, D – A – CH. Eine virtuelle Entdeckungsreise durch die deutschsprachigen Länder Debora De Fazio, Appunti per la scrittura (fra teoria e pratica) Fabriano Fabbri, Alieni e alienati. L’Espressionismo fra le due guerre Laura Sannia Nowé, Francesco Cotticelli, Roberto Puggioni (a cura di), Sentir e meditar. Omaggio a Elena Sala Di Felice Giuseppe Cusmano, Aspetti dell’influsso delle lingue classiche sul lessico italiano. Appunti per un Laboratorio di Storia della lingua italiana Domenico Russo, LIN. Lessico italiano di notorietà 2004. Prototipo Maria Cristina Fiallega, De Arataca a Macondo. Para leer a Gabriel García Márquez Fabrizio Bisconti, Danilo Mazzoleni, Alle origini del culto dei martiri. Testimonianze nell’archeologia cristiana Studi americani, culturali e linguistici 1 Susanna Poole, Writing Images, Imaging Words: A Course in Cultural Analysis for Students of English as a Second Language

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2 Vito Campanelli (a cura di), L’arte della Rete, l’arte in Rete. Il Neen, la rivoluzione estetica di Miltos Manetas 3 Antonella De Laurentiis, Julio Cortázar: il tempo e la sua rappresentazione Matteo Motolese, Lo male rotundo. Il lessico della fisiologia e della patologia nei trattati di peste fra Quattro e Cinquecento Gennaro Colangelo, Lo sguardo delle Naiadi. Sulla scena femminile Chiara Sciarrino, Un’Italia fuori dall’Italia. Immagini di cultura italiana nella letteratura anglo–irlandese contemporanea Maria Rosaria D’Acierno, Jumping through… English and Sport Francesca Rosati, The Quest for Democracy Writings on Nigerian Literature in English Francesca Rosati, Anglicismi nel lessico economico e finanziario italiano Luca Badini–Confalonieri (a cura di), Perspectives franco–italiennes – Prospettive italo–francesi. Séminaires du CEFI 2000–2002 Stefania Luttazi, Lo Zibaldone di Giuseppe Gioachino Belli. Indici e strumenti di ricerca Anna Vergelli, Roma in scena e dietro le quinte Filomena Liberatori, Liliana Garzillo, El español entre diacronía y sincronía Maria Lucignano Marchegiani (a cura di), Un Canzoniere ritrovato. Rime di Antonio Ongaro Michele Ingenito, Linguistica, metodi, sperimentazione, ruolo, funzione e didattica della lingua inglese. Saggi Quaderni napoletani di Assiriologia 1 Pietro Mander, L’origine del cuneiforme. 1. Caratteristiche, lingue e tradizioni; 2. Archivi e biblioteche pre–sargoniche 2 Pietro Mander, All’origine delle scienze. 1. Medicina ed esorcistica Studi romanzi 1 Giovanni Finzi–Contini, Una sofferta poesia sperimentale. Anfi–sonetti rigorosi, anfi–sonetti liberi e qualche cosa d’altro Annarita Taronna, The languages of the ghetto. Rap, break–dance e graffiti art come pratiche di ®esistenza Studi di Anglistica. Collana diretta da Leo Marchetti e Francesco Marroni 1 Leo Marchetti (a cura di), Topografie per Joyce

130. Supplementi alla Biblioteca di linguistica diretta da Massimo Arcangeli 1 Giuseppe Sergio, Il linguaggio della pubblicità radiofonica 2 Edgar Radtke, Microdiacronia del linguaggio giovanile

131. Daniela Fargione, Cynthia Ozick: Orthodoxy and Irreverence. A Critical Study 132. Mariano Malavolta, Cultura scientifica degli antichi 133. Farah Polato, Questa è la mia vita di Jean–Luc Godard

Finito di stampare nel mese di settembre del 2006 dalla tipografia «Braille Gamma S.r.l. » di Santa Rufina di Cittaducale (Ri) per conto della « Aracne editrice S.r.l. » di Roma