Credere. Perché la fede non può essere messa all'asta 8883589092, 9788883589096

Credere in un Dio vuol dire vedere che i fatti del mondo non sono poi tutto. Questa è una profonda riflessione di Ludwig

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Dario Antiseri

CREDERE Perché la fede non può essere messa all’asta

ARMANDO EDITORE

ANTISERI, Dario Credere. Perché la fede non può essere messa all’asta; Roma : Armando, © 2005 80 pp. ; 22 cm. - (Temi del nostro tempo) ISBN 88-8358-909-2 1. Riflessione sull’etica e la filosofia contemporanea CDD 170

In copertina: S. Gimignano, Chiesa di Sant’Agostino, Il santo in atto di scrivere, (B. Gozzoli, 1465) © 2005 Armando Armando s.r.l. Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Direzione - Ufficio Stampa 06/5894525 Direzione editoriale e Redazione 06/5817245 Amministrazione - Ufficio Abbonamenti 06/5806420 Fax 06/5818564 Internet: http://www.armando.it E-Mail: [email protected] ; [email protected] 32-00-077 I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i Paesi. L’editore potrà concedere a pagamento l’autorizzazione a riprodurre una porzione non superiore a un decimo del presente volume. Le richieste di riproduzione vanno inoltrate a: Associazione Italiana per i Diritti di Riproduzione delle Opere dell’ingegno (AIDRO); [email protected]

Sommario

Premessa alla nuova edizione

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Premessa

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1. L’irreprimibilità della “domanda metafisica” 2. La sofferenza innocente: dove si infrange la fede e svanisce la speranza 3. Delimitare il dicibile per proteggere l’ineffabile 4. Quando la “ragione” presume di proibire lo spazio della “fede” 5. Il crollo degli “assoluti terrestri” 6. La “grande domanda” è un “problema” o una “invocazione”? 7. La costruzione dello “spazio della fede” 8. Pensiero debole e fede cristiana 9. Un Dio che viene crocifisso non è “scandalo” e “follia”? 10. Razionalismo della contingenza tra angoscia e Redenzione 11. «Solo la Croce può dare alla ragione la risposta ultima che essa cerca» 12. Il Dio di Gesù Cristo e non dei filosofi 13. L’irriducibilità del messaggio religioso ad “argomentazioni razionali” o a “pratiche sociali” 14. Con Tertulliano per respirare 15. Una domanda ai cardinali Joseph Ratzinger, Giacomo Biffi e Camillo Ruini: non è forse più che auspicabile un ritorno a Pascal? Indice dei nomi

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PREMESSA ALLA NUOVA EDIZIONE

1. Sempre più, ai nostri giorni, si fa strada – nel mondo intellettuale – un atteggiamento nuovo nei confronti della fede in Dio. Mentre il secolo scorso si era aperto con movimenti filosofici – si pensi al positivismo, al pragmatismo, al marxismo e al persistente idealismo – che pretendevano di cancellare ogni spazio della fede, il nostro secolo si è aperto con una acuta consapevolezza dei fallimenti teorici e politici degli “assoluti terrestri” – e nell’orizzonte di una riconquistata idea di “contingenza umana” emerge come razionalmente significativa l’inestirpabile domanda sul senso religioso della vita. La fede è scelta a parte hominis e dono a parte Dei. Ma non si sceglierà un messaggio di fede se altri saranno riusciti a dimostrare razionalmente che tale fede è impostura, alienazione, non-senso, una universale nevrosi ossessiva, oppio del popolo, ecc. Se, invece, si riesce a mostrare, tramite un uso critico della ragione, che tali prospettive sono infondate, si riapre allora lo spazio della fede. E questo è esattamente il punto in cui si è giunti: dopo una progressiva erosione razionale delle pretese fallimentari della “dea-Ragione”. Ha scritto Norberto Bobbio che “proprio perché le grandi risposte non sono alla portata della nostra mente, l’uomo rimane un essere religioso, nonostante tutti i processi di demitizzazione, di secolarizzazione, tutte le affermazioni della morte di Dio, che caratterizzano l’età moderna e ancor più quella contemporanea”. In altri termini, la filosofia non salva. La ‘Grande Domanda’ – dice ancora Bobbio, “è una richiesta di senso, che rimane senza risposta, o meglio che rinvia ad una risposta che mi pare difficile chiamare ancora filosofica”. E questo “spiega la forza della religione. Non è sufficiente dire: la religione c’è ma non do6

vrebbe esserci. C’è: perché c’è? Perché la scienza dà risposte parziali e la filosofia pone solo domande senza dare risposte”. Il senso, ripete Lacan con Freud, è sempre religioso. Ludwig Wittgenstein: “Credere in un Dio vuol dire vedere che i fatti del mondo non sono poi tutto”. Questo ha fatto gran parte della filosofia più scaltrita della nostra epoca: ha demolito i vitelli d’oro – gli “assoluti terrestri”, altrettante negazioni dell’Assoluto trascendentale. In tal modo si è ristabilita la possibilità razionale della scelta di fede. Ne I racconti di Chassidim Martin Buber parla del Rabbi Mendel di Kozk, il quale “stupì alcuni uomini dotti che erano suoi ospiti con questa domanda: ‘Dove abita Dio?’. Quelli risero di lui: ‘Che dite? Se tutto il mondo è pieno della sua gloria!’ Ma egli rispose da sé alla propria domanda: ‘Dio abita dove lo si fa entrare’”.

2. Ai suoi tempi, Kierkegaard ha combattuto la buona battaglia contro tutte quelle “canaglie” (a cominciare dal suo vescovo) che intendevano ridurre il Cristianesimo a cultura, e con Hegel ad un momento dello sviluppo dello spirito umano, un momento del passato e ormai irrilevante. Contro un Cristianesimo diventato strumento atto “a facilitare sempre più la vita, la temporalità nel senso più triviale”, Kierkegaard ribadisce che il compito era e resta quello di “soddisfare l’eternità” e non di “soddisfare il tempo”. Il Cristianesimo non è cultura. È un messaggio transculturale, un’offerta di senso per ogni ‘Singolo’, e insieme una richiesta di impegno che entra in collisione con le forze avverse di “un mondo che crocifigge l’amore” e che calpesta dignità e libertà di ogni singola persona. “Il ‘Singolo’: con questa categoria – afferma Kierkegaard – sta o cade la causa del Cristianesimo”. Il Cristianesimo non è cultura. E non può essere messo all’asta davanti alle offerte della politica, dei partiti politici, dei politici.

3. Tre imputati, in questi ultimi tempi, vengono trascinati in tribunale, coperti di insulti; si tratta dell’individualismo, del relativismo e del nichilismo. Le accuse parrebbero davvero gravi. Nell’individualismo si insiste a vedere la resa al basso istinto dell’e7

goismo e della rapina; e il relativismo e il nichilismo sarebbero addirittura il cancro dell’Occidente, tradizioni di pensiero che corroderebbero l’identità dell’Occidente, e complici “oggettivi” del terrorismo, se non altro per la ragione che, minando l’assolutezza dei valori della nostra civiltà, ridurrebbero l’Europa facile preda del fanatismo dei fondamentalismi. L’accusa, come si vede, è di “lesa identità”. Accuse, dunque, molto gravi. Ma sono esse accuse seriamente sostenibili? L’individualismo si oppone ad altruismo o piuttosto a collettivismo? E non è nei gorghi della teoria e della pratica del collettivismo che sono state travolte e vengono soffocate dignità, libertà e responsabilità delle singole persone? E, pertanto, l’individualismo è davvero una concezione anticristiana? Se poi con relativismo si intende la constatazione empirica di un pluralismo di concezioni etiche che – prive di una fondazione razionale ultima, definitiva, valida erga omnes – sfidano la nostra libertà e la nostra responsabilità, questo relativismo è la fisiologia o la patologia dell’Europa? Si osteggia il relativismo in nome di principi etici razionalmente fondati – ma è possibile una simile pretesa? E per un cristiano è la ragione umana (quale?; e di chi?) a stabilire ciò che è bene e ciò che è male; ovvero ciò che è bene e ciò che è male lo stabilisce il Vangelo? Va da sé, infine, che non ogni accezione di nichilismo è razionalmente sostenibile; ma se per nichilismo si dovesse intendere – dopo tante nefaste orge celebrate attorno al trono della dea-Ragione – la riconquistata consapevolezza della contingenza umana, la consapevolezza cioè che siamo incapaci di costruirci da soli, con la sola forza della ragione, sensi assoluti della vita e dell’intera storia umana, ebbene, questo nichilismo è davvero un pericolo per la società aperta e per la stessa fede cristiana, ovvero costituisce un incontrovertibile presupposto della democrazia, configurandosi, d’altro canto, come “una spia a servizio dell’Altissimo?”. Dario Antiseri Roma, ottobre 2005

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PREMESSA

«Proprio perché le grandi risposte non sono alla portata della nostra mente, l’uomo rimane un essere religioso, nonostante tutti i processi di demitizzazione, di secolarizzazione, tutte le affermazioni della morte di Dio, che caratterizzano l’età moderna e ancor più quella contemporanea». NORBERTO BOBBIO «Riconoscere Dio non è un problema né di scienza né di sensibilità estetica e neanche di filosofia come tale. È un problema di libertà […]. Alla fin fine, l’opzione è decisiva». DON LUIGI GIUSSANI

Perché credo? Io credo perché ne ho bisogno. Ho razionalmente bisogno di sentirmi salvo: di salvezza dall’assurdo – dal non senso, dal niente di senso assoluto. Ho bisogno di credere per poter sperare che il carnefice non abbia l’ultima parola sulla vittima innocente. Il vicino di casa aveva finalmente trovato un lavoro fisso, a Bevagna. Una mattina, i rulli di una macchina gli prendono il lembo della giacca e Bruno viene stritolato dalla macchina. Mario, un ragazzo di undici anni, prende il fucile dello zio – voleva vedere come era fatto. Parte un colpo e Mario muore dissanguato. Menica, la madre, correva a cercare don Pietro. Il volto non era più quello di un essere umano. Gli sposi sono a pranzo. Ha sposato il fratello di Leonello. Leonello esce prima che il pranzo finisca. Prende un motorino e felice fa il giro del paese; passa davanti a noi, gruppetto di ragazzi 9

e ragazze all’ombra di casa mia, ci saluta spavaldo con la camicia della festa aperta e i pantaloni buoni tirati su sin sul ginocchio per non rovinarli. Leonello poi osa di più, va a Foligno, vuol tornare per il ponte di Capannaccio, ma va a sbattere sullo spigolo sinistro della chiesetta del bivio di San Paolo. Con gli occhi pieni di lacrime, Aldo, il mugnaio, bestemmiava e pregava e diceva che Leonello era morto. Per giorni capelli appiccicati a grumi di sangue sono rimasti attaccati sulle pietre dello spigolo della chiesa di San Paolo. Ad Ezio avevano detto che alla stazione di Foligno c’era un treno con la pasta. Erano giorni di guerra e c’era tanta fame – la gente si riversava verso la stazione. Ezio andava a Sterpete, doveva portare una lettera a mano. Ma, per raggiungere Sterpete, doveva necessariamente passare non lontano dalla stazione; e lì sulla strada sopra al cimitero due tedeschi lo mitragliano. Era prima di mezzogiorno e il vecchio Romeo andava giù per il vicolo e, con le mani sulla testa, diceva a Nannino: «E adesso chi lo dice alla madre?». Fino agli ultimi suoi anni, Tusolina, la madre, attraversava il fiume a piedi nudi, si rimetteva le scarpe al di là del fiume e andava al camposanto a «parlare con Ezio». Perché credo? Credo perché non posso pensare che per Bruno, Mario, Leonello, Ezio sia finita così. Perché non posso pensare che sia finita così per te, Cleto – allora non avevi ancora vent’anni, ti strapparono via mentre potavi gli ulivi sopra a Turri, a San Giovanni Profiamma, e ti deportarono a Mauthausen; per te, ammazzata dal marito geloso con un colpo di fucile, quel mattino di aprile; e per te, che prendesti la disperata decisione di morire affogata nel canale, insieme alla tua pena – ti credevano indemoniata. Mi rifiuto di pensare che, dopo l’estremo saluto – recitata l’ultima preghiera –, il “sipario” si sia chiuso per sempre, e che la “tragedia” non possa avere un altro esito, diverso da quello osservato e commentato dalla “platea”. Il bambino cadde nel pozzo, nella campagna di Vermicino, e per due notti e due giorni si udì il lamento di Alfredino Rampi diventare sempre più fioco sino a spegnersi nel rantolo finale. Un’angoscia infinita attanagliò allora milioni di uomini e donne. 10

Voglio credere perché non riesco a pensare che la sofferenza innocente resti senza una giustificazione; perché mi rifiuto di ammettere che per questo piccolo “crocifisso” – come per tanti, infiniti, altri piccoli “crocifissi” – non ci siano tempi “altri” e luoghi “altri”. Tempi “altri” e luoghi “altri” per tutte le sofferenze di tutti gli esseri umani, per tutti i loro sforzi, le loro conquiste e anche le nostre miserie. Il senso della sofferenza; il senso della vita e della morte di ognuno di noi; il senso ultimo di ogni nostra azione quotidiana: questo domandiamo. E lo chiediamo tutti. Lo chiediamo soprattutto in quei momenti e in quei luoghi dove appare il dominio di quel dio che è l’“assurdo” e dove più insistente si fa l’insinuante messaggio del “nichilismo”. Ce lo chiediamo quando vediamo soffrire una persona cara, quando una persona cara muore; è una domanda che irrompe se ci capita di visitare un cimitero, un cimitero di guerra, o quel che resta di un campo di concentramento, il reparto oncologico di un ospedale, il reparto oncologico pediatrico. Ci sono momenti e luoghi in cui l’ottundimento prodotto dagli impegni della vita quotidiana viene spazzato via – scompare l’indifferenza nei confronti della domanda ultima, si spezza il velo di una fede abitudinaria e magari mai scossa. Sono questi i “momenti decisivi” – momenti in cui non possiamo sfuggire alla “grande domanda”, alla domanda metafisica – siamo costretti a scegliere tra l’assurdo e la speranza, in una situazione di indecidibilità razionale. L’assurdista e il nichilista non sono più scientifici o più razionali del credente. L’“assurdo” e la “speranza” sono e restano aperti all’“opzione radicale”. Gran parte della filosofia del nostro secolo ha tentato – in maniera decisa e diffusa – di negare, cancellare lo spazio della fede. Si è voluto ridurre il tutto-della-realtà al tutto-dell’esperienza e il tutto-dell’esperienza al tutto di quello di cui parla (o può parlare) la scienza o che può essere costruito dall’uomo. Si sono innalzati e sono stati adorati “vitelli d’oro”, assoluti terrestri – esiti della presunzione fatale, dell’abuso della ragione –, assoluti terrestri, cioè altrettante negazioni dell’assoluto trascendente. E fu così che Dio “ipotesi inutile” dei positivisti, si trasformò in “oppio del 11

popolo” dei marxisti, in un “termine insensato” per i neopositivisti, in una “impossibilità” per ogni forma di materialismo e di scientismo. Ma se il nostro secolo si è aperto con tre grandi filosofie negatrici della trascendenza e soteriologiche nei confronti dell’uomo – idealismo, positivismo e marxismo –, questo stesso secolo si chiude con la più chiara consapevolezza che la salvezza non viene dall’uomo, che l’uomo non è cioè capace di costruire un senso assoluto e razionale della vicenda umana; e, insieme, con la consapevolezza che un senso assoluto razionalmente non costruibile, può essere umanamente invocato. «Credere in un Dio vuol dire vedere che i fatti del mondo non sono poi tutto» – è questo un profondo pensiero di Wittgenstein. La fede è possibile solo in un universo della contingenza. E la filosofia contemporanea, nelle sue punte più avanzate e scaltrite, è proprio una riconquista della contingenza. Ma pure in un universo contingente il dolore e la sofferenza, ingiustizie e umiliazioni, fatiche e follie e tragedie senza fine, la sofferenza innocente spingono a «non credere a niente». È dal profondo delle sofferenze nostre ed altrui che si grida contro l’assenza “responsabile” di Dio – che, “dunque”, non esiste. Eppure, è proprio sempre dall’interno della sofferenza e della tragedia che può sorgere – e spesso sorge o risorge – la speranza che tutto non finisca qui. La Redenzione è in funzione della disperazione: dà senso al non senso, salva dall’assurdo, guarisce dalla “malattia mortale”. Credere – è Kierkegaard a parlare – è andare per una strada stretta, anzi per una strada buia dove tutti gli indicatori dicono “indietro, indietro, indietro”. Ma: o abbiamo il coraggio di non indietreggiare e proseguire per questa strada o dobbiamo accettare il verdetto che è il carnefice ad aver l’ultima parola sulla vittima innocente. L’angoscia – cioè il tormento ineludibile della «grande domanda» connesso alla consapevolezza dell’incapacità di poter non illusoriamente rispondere con le sole forze umane – è un tratto antropologico. E la coscienza angosciata – scrive ancora Kierkegaard – capisce il cristianesimo come un animale affamato sa distinguere tra una pietra e un pezzo di pane. «La fede senza le opere è morta» – ma le intenzioni non sono 12

sufficienti. È la più matura riflessione sull’etica a rendere consapevoli, appunto, che l’etica dell’intenzione (fiat justitia, pereat mundus) non basta; essa deve pur sempre fare i conti con l’etica che bada ai risultati, con l’etica della responsabilità (fiat justitia, ne pereat mundus). L’etica dell’intenzione non è razionalmente sufficiente se non altro a motivo delle inevitabili conseguenze inintenzionali delle azioni umane intenzionali. E, allora, basta dichiararsi solidali per esserlo davvero? E con chi si è veramente solidali quando il solidarista pratica la solidarietà a spese degli altri? Ed è proprio vero che logica di mercato e valore della solidarietà non sono coniugabili? Questi interrogativi, soltanto per introdurre le considerazioni della seconda parte del presente lavoro. Dario Antiseri Roma LUISS Guido Carli ottobre 1999

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1. L’irreprimibilità della “domanda metafisica” Il linguaggio della scienza è un tessuto in costante evoluzione di concetti, teorie, applicazioni rivolte al mondo dei fatti empiricamente controllabili. La scienza non vieta la domanda metafisica o il linguaggio religioso. Il discorso della trascendenza viene piuttosto proibito dallo scientismo nelle sue varie forme: materialismo, positivismo, marxismo, neopositivismo, strutturalismo, ecc. L’oggetto di indagine della ricerca scientifica è la realtà empirica, tutta la realtà empirica. Ma se la realtà empirica sia o no il tutto della realtà non è una domanda cui la scienza possa rispondere. È questa, certamente, una domanda legittima: ma legittima fuori dalla scienza1. Non legittima, anzi insensata, venne però considerata dai neopositivisti la domanda metafisica: «Le proposizioni e le domande che si sono scritte su cose filosofiche sono per la maggior parte non false, ma insensate. Perciò a domande di questa specie noi non possiamo affatto rispondere, ma possiamo solo constatare la loro insensatezza»2. Questo affermava il “primo” Wittgenstein. Da parte sua, Moritz Schlick – il fondatore del Circolo di Vienna – paragonerà i metafisici ad attori che seguitano a recitare la loro insulsa parte anche quando la platea si è ormai svuotata3. E sarà Rudolf Carnap a sentenziare che «né Iddio né alcun diavolo potranno mai darci una metafisica»4. La metafisica – scrive Carnap – serve soltanto ad esprimere sentimenti vitali (Lebensgefühle)5. «Forse un metafisico – egli precisa – potrebbe ottimamente esprimersi nella musica di Mozart. I metafisici, in fondo, sono musicisti senza talento musicale»6. «È impossibile ogni metafisica che 15

voglia inferire il trascendente, cioè ciò che giace al-di-là dell’esperienza, dall’esperienza stessa […]. Non c’è affatto una filosofia come teoria, come sistema di proposizioni con caratteristiche proprie, che possano stare accanto a quelle della scienza»7. Il «progressivo passaggio dalla natura dei positivisti, popolata di dèi, alla natura metafisica dei filosofi, e da questa alla scarna e cristallina natura della odierna fisica, in cui sono presenti unicamente fatti e nessi concettuali tra questi fatti» è visto da Hans Reichenbach come la più grande rivoluzione dell’umanità8. Dunque: cumoli di non-sensi – ecco a che cosa si ridurrebbero, per i neopositivisti, le domande e le dottrine metafisiche – e, più in particolare, le teorie metafisiche che tentano di popolare l’universo della realtà con entità meta-empiriche. Sarà Alfred J. Ayer – nel 1936, in Linguaggio, verità e logica – a sintetizzare in maniera icastica la posizione neopositivistica: «Il punto che vogliamo fissare è che non vi possono essere verità trascendenti di fede religiosa, poiché gli enunciati cui il teista ricorre per esprimere tali “verità” non hanno significato nel senso letterale»9. I filosofi che riempiono i loro libri di asserzioni relative a realtà trascendenti l’esperienza sensibile non fanno altro – ad avviso di Ayer – che «fornire materiale per lo psicoanalista»10. Non ci volle molto per comprendere l’insostenibilità della chiave di volta su cui si reggeva l’antimetafisica dei neopositivisti – vale a dire del principio di verificazione (stando al quale «hanno senso solo le proposizioni che si possono empiricamente verificare»). Questo è un principio dogmatico, autocontraddittorio e incapace di rendere conto delle stesse teorie universali della scienza empirica – scienza empirica che, peraltro, è essa stessa resa possibile da presupposti di chiara natura metafisica ed etica11. «Una filosofia del segno selvaggia e violenta»12: è così che Paul Ricoeur ha definito la filosofia del Circolo di Vienna. I Viennesi, in breve, dichiarando “insensati” concetti e teorie non traducibili o non riducibili al linguaggio “cosale” della fisica, tentarono l’impossibile: vollero giocare a scacchi con le regole del rugby. E proprio la successiva filosofia del linguaggio ha superato le infondate, dogmatiche, chiusure neopositivistiche con un poderoso programma di analisi dei differenti giochi-di-lingua, imponendosi «di capire piuttosto che condannare»13. 16

La domanda metafisica – dove, appunto, si chiede se la realtà empirica sia o no tutta la realtà – è, dunque, una domanda sensata. Sensata e legittima, pur se non lo è dentro la scienza. La “grande domanda” esiste, è sensata, è legittima; ai nostri giorni più drammatica che mai, poiché oggi sono disponibili i mezzi in grado di spazzare via dalla faccia della Terra l’intera umanità. E, in effetti, «ciò che noi oggi viviamo è il paradosso di un enorme successo che minaccia di risolversi, mercé la distruzione della sua propria base naturale, in una catastrofe»14. Perché l’essere e non piuttosto il nulla? Quale senso ha la vita umana? È essa, davvero, come pensava Leopardi – una “inutile miseria”? Tutto è destinato a finire in questo nostro basso mondo? La sofferenza – l’immensa quantità di sofferenza, e di sofferenza innocente – è unicamente un fatto della scienza? La sofferenza, la sofferenza innocente, è soltanto oggetto di spiegazione scientifica, ed è proprio impossibile che sia illuminata dalla speranza e giustificata dalla fede? L’umanità – l’infinita schiera di uomini e donne che, con la loro genialità, bontà e generosità o con la loro stupidità, cattiveria, malvagità sono passati e passeranno sulla faccia della terra – si riduce davvero ad una storia raccontata da un idiota, ovvero il passaggio di ogni uomo sulla terra è solo un breve, brevissimo, e più o meno accidentato, viaggio verso una patria “altra”, una rapidissima immersione nel tempo per subito fuggire verso l’eternità? Perché, dunque, l’essere piuttosto che il nulla? È questa una domanda nei confronti della quale Leibniz preferiva rischiare di perdersi piuttosto che rinunciare a conoscere la ragione per cui c’è qualcosa invece che niente. In termini ancor più intuitivi, la grande domanda – la domanda metafisica – può trovare, insieme a N. Bobbio, la formulazione seguente: «Perché ci sono cose, uomini, animali, piante, stelle, galassie, in un parola il mondo e non invece il non-mondo?»15. E insieme a Paul Poupard: «Chi sono io? Che cos’è l’uomo? Perché il male, la sofferenza, la morte? Da dove viene la vita? Perché sono condannato inesorabilmente ad invecchiare, a soffrire ed a morire […]? Perché tante miserie attorno a me e in me? Nessuno – commenta Poupard – sfugge a queste domande che tormentano l’uomo da millenni, ed attraversano tutta la Bibbia, dalla Genesi, all’Apocalisse, passando per Giobbe e i Salmi»16. 17

Come il mondo è fatto: questo ce lo dice la scienza. Ma: perché esso esista, quale il suo senso? – a questo interrogativo la scienza non risponde. L’esistenza del mondo – dell’universo e di tutto quanto esso contiene – è il grande enigma. La scienza potrà indurci a considerare la nebulosa primitiva o l’iniziale punto-massa all’origine del big-bang; ma noi ci chiederemo ancora: e la nebulosa primitiva è il tutto o no della realtà? La scienza ci dice come è fatto il mondo; con la domanda metafisica («perché l’essere piuttosto che il nulla?») chiediamo, invece, il senso del mondo. L’enigma dell’esistenza del mondo suscita uno stupore abissale. Il fatto dell’esistenza dell’universo è un fatto misterioso. Sentenziava Wittgenstein nel suo Tractatus logico-philosophicus: «Non come il mondo è, è il Mistico, ma che esso è»17. E questo stupore originario dinanzi al mondo, Wittgenstein affermava di poterlo esprimere solo con le parole: «Come è straordinario che esista qualcosa», oppure «Come è straordinario che il mondo esista!»18.

2. La sofferenza innocente: dove si infrange la fede e svanisce la speranza È la sofferenza – la sofferenza innocente – a frantumare il muro dell’indifferenza nei confronti del problema dell’al-di-là. La realtà della sofferenza innocente è il nervo scoperto della domanda metafisica e costringe a scegliere tra l’assurdo e la speranza19. Ed è proprio sullo scoglio, purtroppo continuamente in agguato, della sofferenza innocente che è naufragata la fede di tanti credenti, la loro speranza in un Dio onnipotente e giusto. «Se tutti devono soffrire per comprare con le loro sofferenze un’armonia che duri eternamente, cosa c’entrano però i bambini?». Questo si chiede Ivan Karamazov. E prosegue: «Finché sono in tempo… mi rifiuto assolutamente di accettare questa armonia eterna. Essa non vale le lacrime nemmeno di quell’unica creaturina che si batteva il petto col piccolo pugno e pregava il “buon Dio” nello stanzino puzzolente. Non le vale, perché quelle lacrime sono rimaste senza riscatto […]. Io non voglio nessuna armonia, per amore dell’umanità non la voglio […]. Non è che io non accetti Dio, Alioscia, soltanto gli restituisco rispettosamente il biglietto»20. 18

Un Dio che si assenta mentre un bambino soffre o è un Dio crudele o non esiste – questa è la conclusione che molti traggono o hanno tratto dinanzi alla sofferenza innocente. Ne La Peste Albert Camus ha saputo dire quello che tante persone hanno tragicamente provato ma non saputo dire. La peste, ad Orano, infuriava da giorni e «di bambini, ne avevano ormai veduti morire: il terrore, da mesi, non sceglieva affatto; ma non avevano ancora seguito le loro sofferenze minuto per minuto, come stavano facendo dalla mattina. E, beninteso, il dolore inflitto a quegli innocenti non aveva mai finito di sembrargli quello che in verità era, ossia uno scandalo. Ma sino ad allora si erano scandalizzati astrattamente, in qualche modo: non avevano guardato in faccia, sì a lungo, l’agonia di un innocente»21. Un ragazzo sta morendo. «Le mani, divenute simili ad artigli, tormentavano adagio le sponde del letto; risalivano, grattavano la coperta presso le ginocchia, e all’improvviso il ragazzo piegò le gambe, si portò le cosce sul ventre, rimanendo immobile. Allora aprì gli occhi per la prima volta e guardò Rieux che si trovava davanti a lui. Nel cavo del volto ora rappreso in un’agonia grigia la bocca si aprì e quasi subito ne uscì un solo grido continuo, graduato appena dalla respirazione, che colmò immediatamente la sala d’una protesta monotona, discorde, e sì poco umana che sembrava provenire da tutti gli uomini in una volta»22. Il dottor Rieux – il medico che, per curare gli appestati, aveva deciso di rinviare il suo ritorno in Francia – era lì e «stringeva i denti»23. Padre Paneloux «guardò quella bocca infantile, insozzata dalla malattia, piena d’un grido di tutti gli èvi; si lasciò scivolare in ginocchio e tutti trovarono naturale di sentirlo dire con voce un po’ soffocata ma distinta dietro il pianto anonimo che non cessava: “Mio Dio, salva questo ragazzo”»24. Il ragazzo, però, «continuava a gridare, e tutt’intorno a lui i malati si agitarono […]. Improvvisamente gli altri malati tacquero; il dottore riconobbe allora che il grido del ragazzo si era indebolito, che scemava ancora e che stava per finire. Intorno a lui i lamenti riprendevano, ma sordamente, e come un’eco lontana della lotta appena conclusa. Si era conclusa infatti […]. Con la bocca aperta, ma muta, il ragazzo riposava nella buca delle coperte in disordine, rimpicciolito di colpo, con resti di lacrime sul viso. Avvicinatosi al letto, Paneloux fece i gesti della benedizione. 19

Poi raccolse la sua roba e uscì dal corridoio centrale […]. Rieux si voltò verso Paneloux: “[…] Ci sono ore, in questa città, che non sento se non la rivolta”. “Capisco”, mormorò Paneloux. “È rivoltante in quanto supera la nostra misura. Ma forse dobbiamo amare quello che non possiamo capire”. Rieux si alzò di scatto; guardava Paneloux con tutta la forza e la passione di cui era capace, e scuoteva la testa. “No, Padre”, disse, “io mi faccio un’altra idea dell’amore; e mi rifiuterò fino alla morte di amare questa creazione dove i bambini sono torturati”»25. La sofferenza tutta – ma la sofferenza degli innocenti in modo particolare – è il luogo dell’opzione radicale. E non di rado è proprio qui che si infrange la fede e svanisce la speranza. Elie Wiesel, uno degli scampati da Auschwitz, scrive ne La notte: «Noi continuammo a marciare fino a un incrocio. Al centro c’era il dottor Mengele, questo famoso dottor Mengele (tipico ufficiale delle S.S., volto crudele, non privo di intelligenza, monocolo), una bacchetta da direttore d’orchestra in mano, in mezzo ad altri ufficiali. La bacchetta si muoveva senza tregua, una volta a destra, una volta a sinistra […]. La bacchetta verso sinistra. Io feci un mezzo passo in avanti. Volevo prima vedere dove avrebbe mandato mio padre. Fosse andato a destra, io l’avrei raggiunto. La bacchetta si inclinò anche per lui verso sinistra. Un peso mi cascò dal cuore. Noi non sapevamo ancora quale direzione fosse quella buona, se quella a sinistra o quella a destra, quale strada portasse alla prigionia e quale al crematorio, ma tuttavia mi sentivo felice: ero accanto a mio padre. La nostra processione continuava ad avanzare, lentamente […]. Non lontano da noi delle fiamme salivano da una fossa, delle fiamme gigantesche. Vi bruciava qualche cosa. Un autocarro si avvicinò e scaricò il suo carico: erano dei bambini. Dei neonati! Sì, l’avevo visto, l’avevo visto con i miei occhi […]. Dei bambini nelle fiamme […]. Ecco, dunque, dove andavamo. Un po’ più avanti avremmo trovato un’altra fossa, più grande, per adulti[…]. Non so se è già successo nella lunga storia del popolo ebraico che uomini recitino la preghiera dei morti per se stessi – Yitgaddàl veyitkaddàsh shemé rabbà… che il Suo Nome sia ingrandito e santificato… – mormorava mio padre. Per la prima volta sentii la rivolta crescere in me. Perché dovevo santificare il Suo 20

Nome? L’Eterno, il Signore dell’Universo, l’Eterno Onnipotente taceva: di che cosa dovevo ringraziarlo?»26. Wiesel prosegue il suo racconto: «Continuammo a marciare. Ci avvicinammo a poco a poco alla fossa da cui proveniva un calore infernale […]. A due passi dalla fossa, ci ordinarono di girare a sinistra, e ci fecero entrare in una baracca […]. Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata. Mai dimenticherò quel fumo. Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto. Mai dimenticherò quelle fiamme che consumarono per sempre la mia Fede. Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere. Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni che presero il volto del deserto. Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai»27. La sofferenza – e, ancor più, la sofferenza innocente – è la sorgente forse più rigogliosa dell’ateismo: Dio non esiste, non può esistere; giacché, se esistesse davvero, mai potrebbe permettere tanta sofferenza, tanta sofferenza innocente. Ancora una testimonianza da La notte di Wiesel: «Akiba Drummer ci ha lasciato, vittima della selezione. Passeggiava in questi ultimi tempi perduto fra noi, gli occhi vitrei, raccontando a tutti la sua debolezza: “Non ne posso più… È finita…”. Impossibile rialzargli il morale: non ascoltava quello che gli si diceva. Non faceva che ripetere che tutto era finito per lui, che non poteva più sostenere la lotta, che non aveva più forza, né fede. A un tratto gli si svuotavano gli occhi: due ferite aperte, due pozzi di terrore. Non era il solo ad aver perduto la fede in quei giorni di selezione. Conobbi un rabbino di una piccola città polacca, vecchio, curvo, le labbra sempre tremanti. Pregava tutto il tempo, nel blocco, al cantiere, in fila. Recitava a memoria pagine intere del Talmud, discuteva fra sé, poneva le domande e si dava le risposte, ma 21

un giorno mi disse: “È finita. Dio non è più con noi”. E, come se si fosse pentito di aver pronunciato quelle parole così freddamente, così seriamente, aggiunse con la voce spenta: “Lo so; non si ha il diritto di dire certe cose. Lo so bene. L’uomo è troppo piccolo, troppo miserabilmente infimo per cercare di comprendere le vie misteriose di Dio. Ma cosa posso fare, io? Io non sono un Saggio, un Giusto, non sono un Santo. Sono una semplice creatura di carne e ossa. Soffro l’inferno nella mia anima e nella mia carne. Anch’io ho due occhi, e vedo ciò che si fa qui. Dov’è la misericordia divina? Dov’è Dio? Come posso credere, come si può credere a questo Dio di misericordia?”»28. L’urto con la sofferenza innocente – con la sofferenza del giusto o del bambino – spesso rinsalda la convinzione dell’ateo e non di rado frantuma la fede del credente. È un pastore protestante che – ne I figli Jeromin di Ernst Wiechert – si rivolta contro il Dio assente nei giorni in cui la peste fa strage di bambini. «Vieni, infanticida e mostrami le Tue mani piene di sangue. Mostramele da vicino, affinché io possa asciugarle. Non ne hai avuto abbastanza dei primogeniti d’Egitto, dei bambini di Betlemme. E neppure il Tuo unico figlio non Ti bastò. Lo hai inchiodato sulla croce per redimerci, ma tu continui a redimere con sempre nuove croci, non è vero? Ti mancavano ancora questi bambini […]»29. L’ateismo è difficile – diceva Etienne Gilson. Ma anche la fede in Dio è difficile. Più difficile ancora è la fede in un Dio che crea il mondo per erigervi il patibolo per il proprio Figlio e che permette una infinita sofferenza umana. E proprio la sofferenza innocente costituisce per molti l’ostacolo insuperabile sulla strada della fede. Viene qui da ripetere con Kierkegaard che «credere è propriamente andare per quella via dove tutti gli indicatori stradali mostrano: indietro, indietro, indietro! Dunque, la via è stretta [Mt. 7,14] (e questo appartiene già alla fede). La via è buia; anzi, non è soltanto buia di un buio pesto, ma è come se la luce dei lampioni non facesse che confondere e aumentare l’oscurità… proprio perché gli indicatori stradali significano la direzione inversa»30. È vero: la sofferenza innocente è lo scoglio su cui si spezza la fede di molti. Ma è anche vero che per altri è proprio la sofferenza 22

innocente che spinge ad abbracciare la fede – la fede in un Dio che dia un senso all’apparente non-senso e che apra – per dirla con Max Horkheimer – alla «speranza che, nonostante questa ingiustizia che caratterizza il mondo, non possa avvenire che l’ingiustizia possa essere l’ultima parola»31. La sofferenza innocente ci porta al bivio dove dobbiamo scegliere tra l’assurdo e la speranza. Diversamente da chi abbraccia la fede «assurdista»32, colui che abbraccia la fede in Dio spera che l’assassino non abbia la vittoria finale sulla sua vittima innocente. Siamo obbligati a scegliere tra la disperazione e la speranza.

3. Delimitare il dicibile per proteggere l’ineffabile Dunque: quale il senso di ogni singola vita umana, delle nostre sofferenze e delle nostre gioie, dei nostri fallimenti e di tutte le acquisizioni umane? Quale il senso della storia umana, e dello stesso universo fisico? Quaestio magna mihi factus sum, terra difficultatis: ripetiamo con Agostino. E vediamo subito che alla domanda metafisica la scienza non risponde e non può rispondere. Ancora Wittgenstein: «Noi sentiamo che persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto una risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati»33. Verso la fine dell’ottobre del 1919 Wittgenstein – poco dopo il rientro dalla prigionia di Cassino – spedisce a Ludwig von Ficker, perché glielo pubblichi, il manoscritto del Tractatus. Ed insieme al manoscritto gli invia una lettera in cui leggiamo: «Caro signor von Ficker, [...] Forse Le sarà di aiuto, se Le scrivo un paio di parole sul mio libro: dalla lettura di questo, infatti, Lei – e questa è la mia esatta opinione – non ne tirerà fuori un granché. Difatti, Lei non lo capirà; l’argomento Le apparirà del tutto estraneo. In realtà, però, esso non Le è estraneo, poiché il senso del libro è un senso etico. Una volta volevo includere nella prefazione una proposizione, che ora di fatto lì non c’è, ma che io ora scriverò per Lei, poiché essa sarà forse per Lei una chiave per capire il libro. In effetti, io volevo scrivere che il mio lavoro consiste di due parti: di quello che ho scritto, ed inoltre di tutto quello che non ho scritto. E 23

proprio questa seconda parte è quella importante. Ad opera del mio libro, l’etica viene delimitata, per così dire, dall’interno; e sono convinto che l’etica è da delimitare rigorosamente solo in questo modo. In breve, credo che tutto ciò su cui molti oggi parlano a vanvera, io nel mio libro l’ho messo saldamente al suo posto semplicemente col tacerne. E per questo il libro, a meno che io non mi sbagli completamente, dirà molte cose che anche Lei vuol dire, ma non si accorge forse che sono state già dette lì. Le consiglierei di leggersi la Prefazione e la Conclusione; poiché sono queste che conducono il senso del libro alla sua più immediata espressione»34. Nella Prefazione Wittgenstein scriveva: «Quanto può dirsi, si può dir chiaro»35; e nella Conclusione sentenziò che: «Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere»36. La scienza parla con chiarezza, ma ci sono cose su cui essa deve tacere e ciò su cui la scienza tace è quanto più conta per noi. E mentre i neopositivisti accettarono la prima metà di questa proposizione, non seppero vedere che essa, per Wittgenstein, ha senso solo se non viene separata dalla seconda metà. In realtà, commenta Paul Engelmann: «Tutta una generazione di allievi poté considerare Wittgenstein un positivista, poiché egli aveva qualcosa di enorme importanza in comune con i positivisti: aveva tracciato la linea di separazione fra ciò di cui si può parlare e ciò di cui si deve tacere, cosa che anch’essi avevano fatto. La differenza è soltanto che essi non avevano niente su cui tacere. Il positivismo sostiene – e questa è la sua essenza – che ciò di cui possiamo parlare è tutto ciò che conta nella vita. Invece Wittgenstein crede appassionatamente che tutto ciò che conta nella vita umana è proprio ciò di cui, secondo il suo modo di vedere, dobbiamo tacere. Quando ciononostante egli si prende immensa cura di delimitare ciò che non è importante, non è la costa di quell’isola che egli vuole esaminare con tanta meticolosa accuratezza, bensì i limiti dell’Oceano»37. L’intento di Wittgenstein, insomma, è quello di delimitare il dicibile – il dicibile dalla scienza – per proteggere l’ineffabile: quello che la scienza non può dire: l’etico e il religioso. Nel 1919, nel campo di concentramento di Cassino, Wittgenstein confessa a 24

Franz Parak: «Preferirei diventare sacerdote, ma anche come maestro leggerò il Vangelo insieme ai bambini»38. Più tardi, dieci anni dopo, nel 1929, al suo discepolo M. O’C. Drury – il quale gli confidava di voler diventare prete della Chiesa anglicana – Wittgenstein faceva presente: «Se una persona decide di farsi prete, non sarò certo io a prenderlo in giro. Chi si diverte a prendere in giro certe cose è un ciarlatano o anche peggio. Per contro, non posso neppure approvare la sua scelta, no, proprio non posso»39. E perché mai? «Provi solamente a pensare – dice Wittgenstein a Drury – cosa significhi dover fare una predica ogni domenica. La mia paura è che lei arrivi a elaborare una interpretazione o una giustificazione filosofica della religione cristiana. I simboli del cristianesimo sono bellissimi, sono cose che non si riescono a esprimere con le parole, ma quando la gente tenta di trarre da essi un sistema filosofico, mi sembra che sia un fatto raccapricciante [...]. Russell e i pastori sono riusciti insieme a provocare danni infiniti, davvero infiniti»40.

4. Quando la “ragione” presume di proibire lo spazio della “fede” Non è la scienza che vieta di credere. La fede è piuttosto proibita da una ragione presuntuosa – forse perché altrimenti disperata – che, via via, nel corso dei secoli ha costruito assoluti terrestri, negando lo spazio del sacro ovvero occupando indebitamente lo spazio del sacro. • Le svariate forme di materialismo sostengono che il tuttodella- realtà, la realtà nella sua totalità, è solo materia in movimento: «materia eterna e indistruttibile», come afferma Ludwig Büchner (1824-1899) nel suo fortunato libro del 1845 dal titolo Forza e materia. L’uomo è solo materia: quello che noi chiamiamo spirito è, ad avviso di Büchner, «l’effetto del concorso di molte sostanze dotate di qualità e di forze». Analogamente, per Karl Vogt (1817-1895) – autore a partire dal 1845 delle Lettere fisiologiche – «i pensieri si trovano nello stesso rapporto rispetto al cervello della bile rispetto al fegato e dell’urina rispetto ai reni». Laicista, anticlericale, antispiritualista, Jakob Moleschott (182225

1893), avverso ad ogni idea di immortalità dell’anima, dirà – nell’opera del 1892 La circolazione della vita. Risposte fisiologiche alle Lettere sulla chimica di Liebig – che «non c’è pensiero senza fosforo». Eredi diretti di questi materialisti sono oggi quanti sulla problematica dei rapporti mente-cervello riducono la mente alla chimica e alla fisica del cervello. • Per i materialisti la realtà-tutta è data dalla materia e dal movimento della materia, dalle sue forme. E se, dal canto loro, i positivisti avessero ragione, la fede in un Dio trascendente e la credenza in un’anima immortale sarebbero solo illusioni: residui del passato che la mentalità positiva o scientifica presto spazzerà via. Scrive Ernest Renan (1823-1892) in L’avvenire della scienza: «La scienza e la scienza sola può rendere all’umanità ciò senza di cui essa non può vivere, un simbolo e una legge». • Materialisti e positivisti – positivisti come Renan e Hyppolite – negano dunque qualsiasi trascendenza. E in gran parte dell’idealismo, a cominciare da Hegel, la religione è avvistamento di verità che poi la filosofia porterà a maturazione razionale: la fede è in funzione della ragione filosofica. Kierkegaard comprende a perfezione gli esiti della filosofia hegeliana e la definisce come «la più ripugnante di tutte le forme di libertinaggio». Nel 1841, Bruno Bauer, ne La tromba del giudizio universale sostenne che, proprio a partire dalla prospettiva hegeliana, la religione deve essere negata e l’ateismo è vero: «Con Hegel – afferma Bauer – l’Anticristo è venuto e si è rivelato». E aggiunge: «Dio doveva diventare uomo, onde l’umanità acquistasse la certezza che l’uomo è Dio». Allievo di Hegel fu Ludwig Feuerbach (1804-1872). Scrive Feuerbach in Per la critica della filosofia hegeliana: «Vana è pertanto ogni speculazione che vuole andare al di là della natura e dell’uomo […]. La filosofia è la scienza della realtà nella sua verità e totalità: ma la sostanza della realtà è la natura [...]. I segreti più profondi sono contenuti nelle più semplici cose naturali, quelle che calpesta il filosofo speculativo che brama fantasticamente un aldilà. L’unica fonte di salvezza è il ritorno alla natura [...]. La natura ha edificato non solo quella comunissima officina che è lo stomaco, ma anche quel tempio che è il cervello»41. Successivamente, ne L’essenza del cristianesimo, Feuerbach formulerà la sua nota tesi secondo cui il nucleo segreto della teologia è l’antropo26

logia: «tutte le qualificazioni dell’essere divino sono [...] qualificazioni dell’essere umano»42. • Per i materialisti la trascendenza è illusione; per i positivisti Dio è un’ipotesi inutile. Per Marx la fede in Dio è qualcosa di peggio e non solo illusione o ipotesi inutile. La fede in Dio è dannosa per l’uomo, una malattia le cui cause vanno combattute ed estirpate: «La lotta contro la religione – scrive Marx in Per la critica della filosofia del diritto di Hegel – è la lotta contro quel mondo di cui la religione è la quintessenza spirituale. [...]. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il cuore di un mondo spietato, come è lo spirito di una condizione priva di spirito. Essa è l’oppio del popolo»43. • Dannosa è la fede in Dio non soltanto per Marx ma anche per Freud. Freud vede nella religione «una nevrosi ossessiva universale»44. E ne La mia vita e la psicanalisi scrive che la psicanalisi vuole condurre «al riconoscimento dell’uccisione del padre come nucleo centrale del totemismo e come punto di partenza della formazione delle religioni»45; difatti «il banchetto totemico sarebbe la cerimonia commemorativa del mostruoso assassinio del padre, dal quale deriverebbe l’umana coscienza della colpa (peccato originale), punto di partenza dell’organizzazione sociale da cui, a loro volta, prenderebbero origine, nello stesso tempo, la religione e le restrizioni morali»46. Freud insiste: «Questa teoria della religione getta speciale luce sul fondamento psicologico del cristianesimo, nel quale permane, senza alcun travestimento, la cerimonia del banchetto totemico nel sacramento della comunione»47. Per i marxisti e per l’ateismo psicanalitico Dio è diventato importuno. • C’è poi un’altra filosofia che nega la trascendenza, che proibisce il linguaggio della trascendenza: l’ateismo esistenzialista, per esempio, di Sartre, Merleau-Ponty o Camus. Sartre fa dire ad Oreste ne Le Mosche: «Se nell’animo di un uomo è esplosa la libertà, gli dei non hanno più alcun potere su di lui». E dato che Dio non esiste – leggiamo in L’esistenzialismo è un umanesimo – «noi non troviamo innanzi a noi dei valori e degli ordini in grado di legittimare la nostra condotta. Così non abbiamo né dietro a noi, né dinanzi a noi, in un dominio luminoso di valori, delle giustificazioni o delle scuse. Siamo soli, senza scuse. È ciò che espri27

merò con le parole che l’uomo è condannato ad essere libero»48. L’uomo è una passione, ma soltanto «una passione inutile»49. • Ed ora, dopo gli esistenzialisti, i loro avversari: gli strutturalisti. Costoro, in nome di una «ragione nascosta», hanno preteso di condannare la «ragione cosciente», ed insieme a questa ogni traccia di trascendenza. In Tristi tropici, Claude Lévi-Strauss scrive che: «La coscienza è [...] il nemico nascosto delle scienze umane». Lo strutturalismo è la dissoluzione della coscienza individuale, libera, creativa, responsabile. La realtà è, ad avviso di Michel Foucault, che «l’uomo è un’invenzione che l’archeologia del nostro pensiero non ha difficoltà ad assegnare ad un’epoca recente. E forse neanche a dichiararne prossima la fine [...]. Ai nostri giorni, piuttosto che l’assenza o la morte di Dio viene proclamata la fine dell’uomo [...]. L’uomo sta per scomparire»50. Ed ora, di nuovo, Lévi-Strauss: «All’inizio del mondo l’uomo non c’era; non ci sarà neanche alla fine». E Louis Althusser: «Gli individui sono soltanto gli effetti della struttura» e «Il soggetto non è altro che il supporto dei rapporti di produzione». E alla domanda «Che cosa si può sperare?», Jacques Lacan ha risposto: «Non si può sperare assolutamente niente. Non vi è alcuna specie di speranza». • A parte gli atei e i credenti, anche l’agnostico, pur non potendo giocare nessuna carta per affermare o negare Dio, ha percorso già un lungo cammino nella questione di Dio. Così, ad esempio, non c’è dubbio che per lui il termine “Dio” abbia senso, come anche che siano sensate proposizioni quali «Dio creò il mondo», «Dio è provvidenza», o interrogativi quali «Dio esiste?», «l’anima è immortale?», «ci sarà un’altra vita?». Ed essere qui è già trovarsi a buon punto, per la semplice constatazione che, per lo meno, si ammette la legittimità del problema. L’ateismo semantico è stato, invece, uno dei corollari del neopositivismo del Circolo di Vienna ed esso consiste nell’affermazione che noi, quando parliamo della realtà trascendente, lavoriamo unicamente con pseudo-concetti, con parole ed altre entità linguistiche completamente prive di senso. È un abbaglio chiedersi se Dio esista, se abbia o no creato il mondo, se sia Provvidenza, ovvero se l’anima sia immortale, fin quando noi non avremo preliminarmente stabilito quale significato abbiano parole come “Dio”, “anima”, “aldilà”, “Provvidenza”, “creazione”, “immortale”, o espressioni quali «Dio esiste», «Dio 28

creò il mondo», «la storia è guidata dalla Provvidenza», «l’anima è immortale», ecc. E dato che, si sa, che per i neopositivisti avevano senso solo le proposizioni verificabili della scienza empirica, la loro sentenza fu di insensatezza per ogni proposizione teologica e religiosa in genere. Non solo non si afferma e non si nega nulla su Dio o l’anima immortale, come sostiene l’agnostico; si fa ancora un passo indietro, si vanno a guardare le condizioni della sensatezza linguistica del problema di Dio e tale problema viene dissolto ancor prima che venga posto51. Le reputate verità profonde, profondissime, si rivelerebbero essere nemmeno verità superficiali; non sarebbero affatto verità. La loro profondità sarebbe solo la profondità delle pene che ci angosciano.

5. Il crollo degli “assoluti terrestri” Quelli ora richiamati sono soltanto alcuni esempi di filosofie che proibiscono la fede. La fede nel Dio di Gesù Cristo risulta incompatibile con tutte quelle metafisiche totalizzanti che, nel corso del pensiero occidentale, hanno costituito “assoluti terrestri”: altrettante negazioni dell’“Assoluto trascendente”. Difatti, insisto ancora su questo punto: se fosse vero il positivismo, la fede sarebbe unicamente illusione, residuo di mentalità sorpassate; se Hegel avesse ragione, allora la religione sarebbe, dal più al meno, solo avvistamento mitico di alcune verità, che poi la ragione filosofica disvelerà in tutta la loro pienezza e fondatezza; se il materialismo dialettico marxista fosse nel giusto, la fede sarebbe null’altro che alienazione; se il neopositivismo fosse valido, gli asserti religiosi sarebbero dei puri e semplici non-sensi, sarebbero – per dirla con A. J. Ayer – solo materiale per lo psicanalista52; se la metafisica psicanalitica fosse vera, la fede non sarebbe niente di diverso da idee di un uomo psicologicamente immaturo; se il materialismo psico-fisico fosse vero, la fede nell’immortalità dell’anima diventerebbe insostenibile; se lo Stato etico fosse un’istituzione valida, la religione sarebbe solo un instrumentum regni. Questi sono solo degli esempi di assoluti terrestri che, proposti e accettati e spesso propagati senza ombra di dubbio, vietano di 29

credere. Non si dimentichi che un sapere assoluto è un uomo assoluto, il quale non ha bisogno di Dio, e non ha bisogno di una fede rivelata perché gli basta il suo sapere: con questo suo sapere assoluto egli pensa di avere in mano l’essenza dell’uomo, il senso della propria vita, il senso della storia dell’umanità nella sua interezza, il progetto della migliore società. Scientismo, idealismo (in gran parte), positivismo, neopositivismo, psicanalisi (in gran parte), marxismo, esistenzialismo (in buona parte), strutturalismo: queste prospettive filosofiche hanno costituito nel nostro secolo la truppa di assalto che di fatto ha preso di mira il Cristianesimo. Siamo vissuti all’interno di una cultura in cui hanno prosperato e sono state esaltate come verità indubitabili siffatte prospettive negatrici dello spazio della fede: assoluti terrestri contro l’assoluto trascendente. E non di rado tantissime persone, giovani sinceri, intellettualmente dotati, non hanno trovato strumenti concettuali per difendersi dall’aggressione di queste filosofie totalizzanti. C’è stato un periodo in cui bastava una miscela di un pizzico di psicoanalisi e di qualche slogan tratto dal marxismo per sbaragliare qualsiasi altra idea, per soffocare qualsiasi presa di posizione religiosa. Non molti sono usciti illesi da tale aggressione intellettuale e morale. Ora, però, nonostante lo sbandieramento di tante certezze, da qualche parte ci si è continuati a chiedere: sono davvero possibili assoluti terrestri? È cioè possibile che costrutti umani e storici come le teorie filosofiche sopra menzionate siano teorie razionali e assolute, incontrovertibili, scritte per l’eternità, irrefutabili? È proprio vero che l’uomo è solo corpo, una macchina complessa e unicamente tutta chimica, fisica e scariche elettriche? È proprio vero che soltanto il linguaggio della scienza è linguaggio sensato? E quelle filosofie della storia che pretendono di avere individuato le leggi che guiderebbero l’intero sviluppo della storia umana che valore hanno? E poi: la psicanalisi è scienza oppure soltanto una potente mitologia? E quali basi razionali possono mai esibire i teorici dello stato totalitario? La filosofia contemporanea, nelle sue punte più avanzate e maggiormente consapevoli, ha esattamente devastato le pretese di quanti, a vario titolo, sostengono teorie presunte assolute, assoluti terrestri. È stato Popper ad assestare il colpo decisivo allo scienti30

smo: i discorsi non scientifici, come per esempio le teorie filosofiche, non sono affatto insensati pur non essendo empiricamente controllabili, e le teorie scientifiche restano smentibili di principio: smentibili le teorie universali, smentibili gli asserti di base53. «Tutta la conoscenza – ha scritto Popper – rimane fallibile, congetturale. Non esiste nessuna giustificazione, compresa, beninteso, nessuna giustificazione definitiva, di una confutazione»54. La scienza è fallibile, perché la scienza è umana55. E con Popper, Alfred Tarski: «Non conosciamo e abbiamo molto poche possibilità di scoprire un criterio di verità che ci consenta di dimostrare che nessun enunciato di una teoria empirica è falso»56. Con Gadamer vediamo che noi leggiamo ed affrontiamo il mondo con il nostro linguaggio57; ma i nostri concetti sono a priori non assoluti, sono a priori linguistici temporalizzati; dunque i grandi racconti che pretendevano esibire fundamenta inconcussa non sono più pensabili58. Ancora Popper, e Popper tra altri, ha mostrato che le filosofie della storia – da lui chiamate storicismo – sono tutte invalide; il futuro, infatti, non è prevedibile, in quanto la scienza di oggi non può prevedere la scienza di domani, e quindi non può prevedere nemmeno la tecnologia di domani da cui dipenderà gran parte della società di domani59. Contro lo pseudo-razionalismo dello storicismo si è battuto anche Friedrich A. von Hayek il quale, insistendo sulle inevitabili conseguenze inintenzionali di azioni umane intenzionali, è giunto a concludere, in una concezione anticostruttivistica, che «l’uomo non è e non sarà mai il padrone del proprio destino»60. E Kelsen, Popper, Hayek – e certamente non solo loro – hanno messo a nudo la totale inconsistenza delle argomentazioni a sostegno dello stato totalitario, elaborando al contempo le ragioni logiche, epistemologiche ed economiche della Società aperta (Popper)61, o Stato di diritto (Kelsen)62, o Grande società (Hayek)63. In realtà, la legge di Hume (vale a dire l’inderivabilità logica delle norme dai fatti – e quindi l’impossibilità di imporre un valore in nome del sapere scientifico, e dunque la libertà di coscienza nelle scelte valoriali); la consapevolezza della fallibilità della conoscenza umana (e quindi la necessità che gli altri avanzino alternative alle proposte di ognuno e formulino la maggior quantità di critiche); la dispersione tra milioni e milioni di uomini delle conoscenze di situazioni particolari di tempo e di 31

luogo (e dunque l’impraticabilità del piano unico di produzione e di distribuzione e la conseguente urgenza della decentralizzazione delle decisioni); e l’economia di mercato (che vieta il monopolio pubblico o privato – che, in possesso di tutti i mezzi, finisce per stabilire tutti i fini) costituiscono altrettante consolidate basi delle libertà politiche e dei diritti umani64. E simultaneamente sono la più efficace difesa nei confronti del fascino spesso travolgente del pensiero utopico. Non esiste un metodo razionale per decidere quale sia la società perfetta65. E, dice Hayek, è proprio la tradizione anticostruttivistica, e antiutopistica, ad essere «più vicina alla tradizione cristiana della fallibilità e della colpevolezza umana, mentre il perfettismo del razionalista è in contrasto inconciliabile con essa»66. La fede non è possibile in un universo in cui si dimostrasse che l’uomo è solo corpo; in un universo in cui quello scientifico fosse l’unico linguaggio dotato di senso; in cui il senso della vita del singolo e dell’umanità nella sua interezza risultasse determinato da ineluttabili leggi di sviluppo della storia; in cui tutta la realtà si risolvesse nel solo universo fisico. Quindi: perché la fede sia possibile è necessario che prima vengano distrutti gli “assoluti terrestri”, queste presunte certezze indubitabili. E, in siffatto lavoro di demolizione, di estrema efficacia sono appunto risultati ai nostri giorni gli strumenti forgiati nell’arsenale analitico-epistemologico-ermeneutico. Certo, alcuni filoni della filosofia analitica, il razionalismo critico di Popper, l’ermeneutica di Gadamer, l’anticostruttivismo di Hayek, l’individualismo metodologico di Mises non sono “filosofie cristiane”; e tuttavia sono filosofie che, da una parte, sono compatibili con il cristianesimo, e, dall’altra, offrono gli strumenti concettuali più efficaci nella demolizione degli assoluti terrestri che proibiscono di abbracciare, per esempio, la fede cristiana. È proprio in questa direzione, per mezzo dell’armamentario concettuale elaborato da Kelsen, Wittgenstein, Popper, Gadamer, Mises, Hayek, che è possibile tenere libero lo spazio della fede. La fede è una scelta a parte hominis e dono a parte Dei. Ma nessuno sceglierà una proposta di fede se altri sono riusciti a dimostrare razionalmente che tale fede è impostura, alienazione, 32

non-senso, oppio del popolo, ecc. Se, invece, si riesce a mostrare, tramite un uso critico della ragione, che tali idee sono del tutto infondate, la fede è allora possibile.

6. La “grande domanda” è un “problema” o una “invocazione”? Le grandi prospettive filosofiche con cui si era aperto il nostro secolo – positivismo, idealismo e marxismo – sono concezioni che hanno tenuto incatenate le menti di molti uomini, sequestrato intelligenze proibendo ad esse ogni apertura all’esperienza religiosa. Ai nostri giorni non è più possibile nascondere l’inventario dei fallimenti di queste filosofie – fallimenti di una ybris generata dall’abuso sistematico della ragione. Al tramonto del secolo vediamo sepolte le “grandi illusioni” e le orgogliose presunzioni filosofiche con le quali esso si era aperto: le pretese dell’idealismo, del positivismo, del marxismo. Ma in questo modo non si assiste affatto alla morte di Dio; sono piuttosto scomparsi, uno dopo l’altro, assoluti terrestri, vitelli d’oro. Non è scomparsa la “grande filosofia”. È scomparsa la grande illusione filosofica stando alla quale l’uomo sarebbe stato e sarebbe capace di autosalvezza, di salvare se stesso dalla voragine dell’assurdo. E nello smarrimento di una situazione di questo genere emerge e risorge di continuo irreprimibile e con sempre più forza la “grande domanda”: richiesta di senso. Richiesta di senso e non tanto una esigenza di spiegazione scientifica. In realtà, davanti ad ogni problema, ha scritto Bobbio «ci poniamo sempre due perché: un perché causale ed un perché finale. Ovvero: 1) quali sono le cause per cui accade quello che accade? 2) perché è accaduto proprio quello che è accaduto? e non altro? O meglio: in quale disegno generale dell’universo si inserisce l’accadimento di cui conosciamo perfettamente le cause che l’hanno prodotto? In altre parole, nell’un caso si tratta di spiegare un fatto, nel secondo di giustificarlo. Il sapere scientifico, quando riesce, dà una risposta al primo perché non al secondo»67. Un bambino muore di cancro al cervello dopo sofferenze che non si possono nemmeno narrare. La scienza spiega perché il 33

bambino è morto. Ma quello che qui ci interessa è il senso di questo dolore e di questa morte: questa sofferenza innocente sarà mai giustificata? Ci sarà una ricompensa un “giorno”, “altrove”? Ovvero ogni sofferenza e gli sforzi di ogni singolo e di tutti gli esseri umani sono destinati a venir travolti nelle tenebre del non-senso? L’ottimismo filosofico, che zampillava da alcuni “grandi racconti” di filosofie della storia, non ha più ragioni, né radici. L’umanità può scomparire tutta; e con ciò tutta la storia degli uomini può trasformarsi in un assurdo. La storia degli uomini potrebbe apparire come una avventura senza senso. E l’umanità come una muffa cosmica – l’espressione è di Gabriel Marcel – che appare per caso, prospera nella sofferenza, e scompare per errore, stupidità o malvagità. Ebbene, proprio l’esser gettati di fronte a siffatta possibilità oggettiva costringe più che mai a non restare indifferenti dinanzi alla domanda metafisica fondamentale: perché l’essere e non il nulla? Tale interrogativo, annota Bobbio, è «una richiesta di senso, che rimane senza risposta, o meglio che rinvia ad una risposta che mi pare difficile chiamare ancora filosofica»68. Non è la scienza a dirci quello che dobbiamo fare. Non è la scienza a insegnarci in che cosa possiamo sperare. È per principio che la scienza non risponde alle domande più importanti per noi. Il porro unum necessarium esula dalla ragione scientifica. E non è possesso della ragione filosofica: la filosofia non salva. Ma «proprio perché le grandi risposte non sono alla portata della nostra mente, l’uomo – precisa ancora Norberto Bobbio – rimane un essere religioso, nonostante tutti i processi di demitizzazione, di secolarizzazione, tutte le affermazioni della morte di Dio, che caratterizzano l’età moderna e ancor più quella contemporanea»69. La salvezza non viene dalla filosofia. E le grandi risposte non sono alla portata della mente umana. Ma alla portata della mente umana sono le grandi domande. E «il compito della filosofia oggi è di tenere in vita queste grandi domande, perché impediscano alla massa degli indifferenti di divenire preda del fanatismo di pochi»70. Ecco, dunque, che «il compito della filosofia oggi – è sempre Bobbio a parlare – è porre domande, non lasciare l’uomo senza domande, e fare intendere che al di là delle risposte della scienza c’è sempre una domanda ulteriore, non appagarsi mai della ri34

sposta, per quanto ardita e geniale, dello scienziato»71. Compito della filosofia è ancora quello di eliminare gli assoluti terrestri. La filosofia non salva. E ciò anche se essa può condurre a perdizione: ai Lager, ai Gulag, alla disperazione. Ecco perché è sempre urgente stare in guardia contro l’abuso della ragione, contro il soffocamento dell’esperienza umana più piena, più ricca, più vera: l’esperienza religiosa. Esiste una domanda, una richiesta di senso per la nostra vita, la storia degli uomini, l’universo intero. «L’esigenza di una risposta a queste domande c’è, queste domande ci sono. Il che spiega – afferma Norberto Bobbio – la forza della religione. Non è sufficiente dire: la religione c’è ma non dovrebbe esserci. C’è: perché c’è? Perché la scienza dà risposte parziali e la filosofia pone solo domande senza dare risposte»72. La “grande domanda”, nella sua essenza più profonda, non è un problema, è un’invocazione: un’invocazione di senso assoluto che nessun uomo potrà mai costruire. E la risposta di fede è possibile dove è presente l’invocazione religiosa. Ma questa è impossibile se il senso della mia vita o di tutta la storia degli uomini si presume scoperto o creato da una ragione umana supposta onnipotente. Ecco, dunque, il senso di una filosofia critica in grado di sradicare dalla base la presunzione pseudorazionale di metafisiche negatrici della fede. Una filosofia negativa, una filosofia distruttrice dei vitelli d’oro o assoluti terrestri, è necessaria se vogliamo che sia possibile la scelta di fede nel trascendente. «Credere in Dio – ha scritto Wittgenstein – vuol dire vedere che i fatti del mondo non son poi tutto»73.

7. La costruzione dello “spazio della fede” La devastazione delle pretese assolutistiche e totalizzanti della ragione umana è, pertanto, il presupposto primo perché il credente possa fare la sua scelta, perché la scelta stessa sia possibile. In altri termini, e più chiaramente ancora: perché la scelta di fede sia possibile è necessario – come avvertito da una consapevolezza antica e recente – che vengano preliminarmente eliminati quegli ostacoli che ne proibiscono l’accesso. 35

Scriveva Michel de Montaigne (1533-1592) nell’Apologia di Raimondo Sebond che «la peste dell’uomo è la presunzione di sapere»74. Conseguente è, pertanto, il suo richiamo75 all’ammonimento che san Paolo dà nella Lettera ai Colossesi: «Cavete ne quis vos decipiat per philosophiam et inanes seductiones secundum elementa mundi». Quel che occorre fare, secondo Montaigne, è «accompagnare la nostra fede con tutta la ragione che è in noi; ma sempre con questa riserva, di non pensare che sia da noi che essa dipende e che i nostri sforzi e le nostre argomentazioni possano giungere ad una scienza così soprannaturale e divina»76. «Tanto celebri tra i saggi» – dice Pierre Charron (1541-1603) – sono le seguenti affermazioni: «che non esiste nulla di certo, che nulla noi sappiamo, che l’unica certezza e scienza è che non c’è nulla di certo e che noi nulla conosciamo, solum certum nihil esse certi, hoc unum scio quod nihil scio; che noi non facciamo che chiedere, tentare, cercare e brancolare in mezzo alle apparenze, scimus nihil, opinamur verisimilia; che la verità non è affatto nella nostra capacità, nei nostri progetti, in nostro possesso […]»77. E a quegli avversari che chiamavano pirronismo la sua posizione, Charron replicava che proprio siffatta concezione «rende alla pietà e all’azione divina, lungi dal contraddirle, un servizio maggiore di qualunque altra cosa […]»78. E, dopo Montaigne e Charron, Blaise Pascal (1623-1662), il quale ci riporta all’idea di Agostino per cui «che la fede debba precedere la ragione è esso stesso un principio della ragione»79 – e la commenta come segue: «la ragione non si sottometterebbe mai, se non giudicasse che ci son casi in cui ci si deve sottomettere. Dunque, è giusto che si sottometta, quando giudica di doverlo fare»80. In fondo, sostiene Pascal, «il supremo passo della ragione sta nel riconoscere che c’è un’infinità di cose che la sorpassano. È ben debole, se non giunge a riconoscerlo […]»81. Pascal trova conforme alla ragione una siffatta «sconfessione della ragione»82. E precisa: «La fede è un dono di Dio. Non crediate che diciamo che è un dono del ragionamento […]»83; «la fede è differente dalla dimostrazione: questa è umana, quella è un dono di Dio»84. E, con Pascal, Kierkegaard (1813-1855): «Come principio bisogna dire: la Fede non si può comprendere; il massimo a cui si arriva è poter comprendere che non si può comprendere. Così anche 36

per un Assoluto non si possono dare ragioni, al massimo si possono dar ragioni che non ci sono ragioni»85. «L’idea della filosofia è la mediazione, quella del Cristianesimo, il paradosso»86. «[…] L’esigenza religiosa ed umana è che nessuno, proprio nessuno, può capire Dio; che il più sapiente deve attenersi umilmente alla “stessa cosa” dell’ingenuo. Qui sta la profondità dell’ignoranza socratica: rinunziare con tutta la forza della passione a ogni sapere curioso, per essere semplicemente ignoranti riguardo a Dio […]»87. Ci sono filosofie – caratterizzabili, se vogliamo, come pensiero forte – le quali sono incompatibili con la fede (tutte le forme di monismo materialista; il materialismo storico-dialettico; positivismo; neopositivismo; strutturalismo; ecc. ). E c’è un pensiero forte compatibile con la fede (la filosofia di san Tommaso; il pensiero di Cartesio; quello di Leibniz; e così via). Ci sono filosofie – designabili, se lo vogliamo, come pensiero debole – che negano la fede (lo scetticismo radicale; il nichilismo radicale). Ma c’è un pensiero debole – se così possiamo designare, tra altre, le proposte di Montaigne, Charron, Pascal, Kierkegaard – compatibile con la fede. È questo il pensiero di quanti si rendono conto razionalmente che l’uomo non è capace di costruire sensi assoluti del cammino della storia umana; che l’uomo non è in grado di proporre valori assoluti razionalmente dimostrabili; che l’umana conoscenza è sempre parziale, fallibile e incompleta. E che tale rimarrà. Questo pensiero debole non canta “la vittoria del nulla”: esso è un pensiero che scruta sino in fondo, senza illusioni e senza rimpianti, l’impotenza dell’uomo a trasformarsi in Dio, l’umana incapacità di indicare una via tutta umana ed assoluta di salvezza, di proporre valori e ordinamenti presunti razionalmente assoluti. Tutto ciò per dire che la prospettiva che qui viene avanzata e difesa non è pensiero che abdica dall’uso della ragione. È una prospettiva intesa piuttosto a colpire l’abuso della ragione, di una ragione che si erge a dea-ragione quando nega Dio; e che si atteggia a dea-ragione anche quando, per esempio, afferma che senza i suoi costrutti metafisici la Rivelazione cristiana o sarebbe impossibile o una favola. In quest’ultimo caso, la ragione filosofica non è affatto ancilla, è domina, di nuovo dea. È essa che concederebbe a Dio il permesso di rivelarsi. È stato di recente scritto 37

che, priva dei risultati della metafisica trascendentista cognitiva, la fede cristiana «si presenterebbe come una specie di puro impegno emotivo o come una fabulazione più o meno vaga e mitica»88. E altri hanno affermato – lo vedremo in seguito – che senza una certa metafisica la parola della rivelazione e della promessa resterebbe in sospeso89. Un momento significativo della controversia tra pensiero debole e pensiero forte, in relazione alla fede, si è avuto nello scontro tra Pierre Daniel Huet e Lodovico Antonio Muratori. Nel 1745, a Venezia, esce il libro del Muratori dal titolo: Delle forze dell’intendimento umano o sia il pirronismo confutato. Trattato di Lodovico Antonio Muratori bibliotecario del Serenissimo Signor Duca di Modena, opposto al libro del preteso Monsignor Huet intorno alla debolezza dell’umano intendimento. Qui il Muratori si impegna a fondo nel dimostrare che i pirronisti sbagliano quando asseriscono che non esiste un criterio di verità90; che il pirronismo «estingue ogni lume delle scienze»91; che i pirronisti solo indebitamente tentano di negare «la fedeltà dei sensi»92; che essi ingiustamente screditano la ragione93; che è illusorio pensare che il sistema dei pirronisti «prepari l’uomo a ricevere la fede di Cristo»94. Muratori – rappresentante della ragione forte – scrive questo libro contro Pierre Daniel Huet. Il Vescovo di Avranches, PierreDaniel Huet, in precedenza fervente cartesiano (e quindi metafisico fondazionista) scrisse un’opera che, appena dopo la sua morte, venne pubblicata a Padova nel 1724, in edizione italiana. Stiamo parlando del Trattato filosofico della debolezza dello spirito umano95. È questa appunto l’opera presa di mira dal Muratori. La filosofia è «ricerca della verità». Ma – si chiede Huet – può l’uomo raggiungere verità certe? No, egli risponde. È fondamentale ammettere che «l’uomo non può conoscere la verità con una perfetta certezza, mediante l’aiuto della sua Ragione»96. L’umana ragione, ad avviso di Huet, non è capace di un «vero sapere»97. E tale incapacità si ha perché «manca una regola certa della verità». Non esiste criterium, scrive Huet, non esiste cioè una regola o un procedimento che in maniera definitiva permetta di distinguere il vero dal falso98: i sensi ci ingannano, l’intelletto è fallibile e l’evidenza spesso «ingannatrice»99. Certo, «la sperienza al contrario è 38

utilissima»100, e sebbene le nostre opinioni – intese quali giudizi verosimili – servono bene agli usi della vita, «esse bisogna sempre tenerle per dubbiose»101. Stando così le cose, risulta che «quelli i quali si applicano alla ricerca della verità chiara e costante, e che non sia oscurata da alcun dubbio, fanno una fatica inutile, e perdono il loro tempo, essendo questa verità sopra la capacità dell’intelletto humano»102. E due, sottolinea Huet, sono i fini che la consapevolezza della debolezza della ragione umana permette di raggiungere: 1) «il fine primario è di schivare l’errore, l’ostinazione e l’arroganza»; 2) ma ben più importante è «il fine lontano» il quale consiste nel «preparare lo spirito a ricevere la fede»103. Dunque: tra una ragione che pretende di fondare la fede, e una ragione che invece più modestamente, ma con maggiore efficacia teorica apre alla fede, Huet sta per una ragione che apre alla fede. E qui la domanda che pongo è la seguente: non dobbiamo forse ammettere che oggi il progetto di Huet appare in tutto il suo splendore razionale e in tutta la sua forza apologetica? In breve: erano nel torto pensatori quali Montaigne, Charron, Pascal e Huet? Non è il caso oggi di rifarsi a questa tradizione e asserire con franchezza e onestà che la tradizione fondazionistica, nonostante i meriti dei suoi disparati tentativi, appare in tutta la sua debolezza, estenuata, distratta, assente?

8. Pensiero debole e fede cristiana Argomentazioni del genere avvicinano la posizione che mi sento di difendere – e che chiamerò razionalismo della contingenza – al pensiero debole di Gianni Vattimo. Vattimo ha proposto l’idea di una ragione limitata; ha insistito sulla finitezza dell’uomo; ha combattuto – per usare un’espressione di Hayek – l’abuso della ragione. L’aver concentrato l’attenzione sul rapporto tra linguaggio e realtà, e sulla situazione “interpretativa” caratteristica di tutta l’esistenza; l’esistere visto come lo stare in rapporto ad un mondo, rapporto condizionato e reso possibile dal fatto che si dispone di un linguaggio; l’insistenza sulla radicale storicità dei linguaggi, e quindi sulla temporalizzazione degli apriori; l’“offusca39

mento” della nozione di verità; la devastazione del mito dell’evidenza; la presa di congedo dalla categoria del progresso e del superamento, e quindi la fine della modernità; la dissoluzione della filosofia fondazionale, vale a dire la dissoluzione della pretesa che si dia una fondazione unica, ultima e normativa; un atteggiamento né illuministico né romantico, ma rispettosamente critico nei confronti della tradizione; un’etica della pietas verso ciò che proviene dal passato; una politica della tolleranza; «una concezione dell’emancipazione in termini di interferenza più che di riconciliazione del soggetto con se stesso»: questi sono alcuni dei tratti del pensiero debole di Gianni Vattimo. Si tratta di un pensiero che fa piazza pulita dei vitelli d’oro; Vattimo è un distruttore degli idoli innalzati da presunzioni di un razionalismo oggi improponibile. In precedenza, ne Le ragioni del pensiero debole104 ho cercato di mettere in luce che il pensiero debole non è affatto un pensiero necessariamente antireligioso o, più in particolare, anticristiano. Ho tentato di far vedere come il pensiero debole, eliminando gli assoluti terrestri, rendesse libero lo spazio della fede. In breve: cercai di far emergere le possibilità religiose del pensiero debole. E feci questo in un periodo in cui anche lo stesso Vattimo negava tali possibilità, dato che egli si rinchiudeva ostinatamente in una posizione immantenistica. Successivamente, con Credere di credere105, Vattimo ha offerto uno sviluppo del suo pensiero in direzione religiosa, cristiana e cattolica. Non completamente d’accordo negli anni trascorsi, non lo sono neppure adesso. Ed ecco, di seguito, alcuni motivi di dissenso dalla più recente prospettiva di Vattimo. La prima domanda che rivolgo a Gianni Vattimo è, piuttosto, una richiesta di chiarificazione: mi riesce difficile, al termine della lettura di Credere di credere, capire il suo concetto – meglio, la sua teoria – di secolarizzazione. Con l’idea di secolarizzazione, Vattimo pare comprendere tutto lo sviluppo della storia dell’Occidente cristiano. Chiedo, dunque, a Vattimo: non ti pare che la tua idea di secolarizzazione “comprenda” tutto e “non spieghi” niente? Parecchi sono, inoltre, i temi di ordine morale e di natura politica trattati o, talvolta, semplicemente accennati, da Vattimo. Mi riesce incomprensibile la posizione di Vattimo nei confronti dell’economia di mercato e, per esempio, di quel liberalismo che tro40

va in Ludwig von Mises, in Friedrich A. von Hayek, o in Milton Friedman e in James Buchanan i suoi esponenti più rappresentativi. Non mi è chiaro cosa Vattimo pensi circa la questione «dell’organizzazione totale della società» quale effetto del dominio della “scienza-tecnica”. Su questo argomento sarebbe forse opportuno un suo commento all’elogio che Popper fa della tecnica come fattore di cultura e come base effettiva della liberazione, soprattutto, della donna da quella “schiavitù domestica” cui – pure in Europa – era condannata sino a qualche decennio fa106. Nei confronti della Chiesa cattolica Vattimo oscilla tra amore e ostilità. Tra le non poche critiche rivolte da Vattimo alla Chiesa c’è anche – se ho capito bene – quella concernente il divieto da parte della Chiesa di ogni limitazione delle nascite in tempi di esplosione demografica107. In verità, è oggi molto diffuso il panico tipico della teoria malthusiana. Occorre, però, chiedersi se sia davvero giusta l’idea che la crescita della popolazione sarebbe in grado di produrre un impoverimento di livello mondiale. Ebbene, è proprio Hayek a sostenere in The Fatal Conceit con argomenti molto forti che una simile idea è semplicemente un errore. Il capitalismo – afferma Hayek – ha dato la possibilità di vivere a milioni e milioni di persone che altrimenti o sarebbero morte subito o non sarebbero potute arrivare a maturità e non avrebbero, così, avuto la possibilità di procreare. È in questo senso che «il capitalismo – sottolinea Hayek – ha creato il proletariato: ha dato e dà ad esso la vita»108. In breve: «Se l’economia di mercato ha prevalso su altri tipi di ordine perché ha messo in grado quei gruppi che hanno adottato le sue regole fondamentali di moltiplicarsi, allora il calcolo in termini di mercato è un calcolo in termini di vite: gli individui guidati da questo calcolo hanno fatto ciò che li ha aiutati di più ad aumentare il loro numero, anche se questa non era la loro intenzione»109. Dannoso non sarebbe, quindi, l’aumento della popolazione; lo sarebbe, piuttosto, il rifiuto di quelle regole in grado di permettere ai gruppi umani di moltiplicarsi, vivere e vivere meglio. Ma veniamo alle considerazioni che riguardano più da vicino la questione religiosa. Gianni Vattimo è contrario all’idea che si arrivi a Dio – in questo caso al Dio di Gesù Cristo – attraverso un atto di scelta “irrazionale”. E scrive: «Ciò che mi sta a cuore è 41

rifiutare quel cristianesimo che vuole affermare la religione come necessaria via di scampo da una realtà “intrattabile”; ancora una volta, insomma, l’idea bonhoefferiana del Dio “tappabuchi”, per la quale la via della ragione a Dio è la via dello scacco e del fallimento [...]»110. Qui debbo subito dire che a me non fa proprio paura pensare a un Dio “tappabuchi”; non rifiuto affatto un Dio “tappabuchi” se il buco da tappare è il senso della vita umana; il senso della sofferenza, della sofferenza innocente. E, d’altro canto, sono dell’avviso, contrariamente a Vattimo, che la via della ragione a Dio sia esattamente la via dello scacco e del fallimento: lo scacco subito da un uomo che ha voluto costruire vitelli d’oro, il fallimento di chi ha preteso di essere possessore di verità assolute, di sensi ineluttabili della storia, di teorie presunte razionali ultime e definitive sull’uomo, sullo Stato, ecc. Un senso ultimo ed assoluto della vita umana di ogni singolo e della vicenda umana nella sua totalità non è umanamente costruibile (e su questo punto sono d’accordo con Vattimo); ma proprio qui troviamo la premessa – lo “spazio logico” – per cui esso può essere invocabile. Ancora Gianni Vattimo: «Non penso che ascoltare le parole del Vangelo, anche quelle più paradossali, richieda il salto e infine una sorta di accettazione “irrazionale” dell’autorità. So bene quanto importante sia stata, nella storia della spiritualità moderna, la tesi pascaliana della scommessa, che rappresenta forse l’unica grande alternativa, finora, ai preambula fidei della tradizione tomista. Ma si dovrebbe forse riflettere che la scommessa pascaliana, e cioè l’idea che l’esperienza della fede è un salto nel paradosso, è un’idea caratteristicamente moderna: legata all’epoca della ragione “trionfante”, almeno in linea di principio. Pascal è anche matematico e teorico dell’esprit de géometrie, è anche, soprattutto, un contemporaneo di Cartesio. E il paradosso come caratteristica della fede cristiana è stato ripreso non a caso da Kierkegaard, contemporaneo di Hegel, cioè in un altro momento culminante – forse l’ultimo – del razionalismo filosofico moderno. Ma oggi che la ragione cartesiana e anche quella hegeliana ha compiuto la sua parabola, non ha più tanto senso contrapporre così nettamente fede e ragione»111. Per Vattimo, dunque, ascoltare le parole del Vangelo, anche le più paradossali, non pare richiedere il salto e l’accettazione “irra42

zionale” dell’autorità. Non penso proprio che le cose stiano così: un uomo che si proclama figlio di Dio e Dio egli stesso; un Dio che muore sulla croce non sono “teoremi razionali”. Accettare che quel figlio del falegname, quell’uomo ora appeso sulla croce sia Dio è solo frutto della fede, esito di una opzione radicale a parte hominis... – e di un dono, di grazia, a parte Dei. Il salto e la grazia restano, pertanto, gli ingredienti necessari della fede. E, quindi, ancora Pascal; e ancora Kierkegaard. Pascal: «Esaminiamo questo punto, e diciamo: “Dio esiste, o no”. Ma da qual parte inclineremo? La ragione qui non può determinare nulla [...]. Secondo la ragione, non potete puntare né sull’una né sull’altra; e nemmeno escludere nessuna delle due [...]. Sì, ma scommettere bisogna: non è una cosa che dipenda dal vostro volere, ci siete impegnato. Che cosa sceglierete, dunque? [...] La vostra ragione non patisce maggior offesa da una scelta piuttosto che dall’altra, dacché bisogna necessariamente scegliere. Ecco un punto liquidato. Ma la vostra beatitudine? Pesiamo il guadagno e la perdita, nel caso che scommettiate in favore dell’esistenza di Dio. Valutiamo questi due casi: se vincete, guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla. Scommettete, dunque, senza esitare, che egli esiste»112. Sempre “la scommessa” di Pascal in termini ancor più intuitivi, in una pagina di Ludovico Antonio Muratori: «Mentre Arrigo IV, Re di Francia, si trovava alla caccia, passò per quelle parti il Padre Gioiosa Cappuccino, già Duca, e General d’Armata al Secolo; e udito, ch’ivi era il Re, andò a inchinarlo. Arrigo in vedere il buon Religioso tutto sudato, e pien di polve e di stanchezza: Padre Gioiosa, gli disse ridendo, e se non fosse poi vero quanto si dice dell’altra vita? Francamente il Cappuccino rispose: Sarà ben peggio per la V.M. quando sia vero»113. Forse che il pensiero debole è in grado di arrivare a Dio senza dover fare una scelta? Certo, oggi, non ha più tanto senso contrapporre nettamente fede e ragione. Non si tratta più di un aut-aut, quanto piuttosto di un et-et. E, tuttavia, il salto, la scelta “arazionale” tra Dio e non-Dio resta inevitabile. E inevitabile è la scelta tra l’accettare Gesù Cristo come Dio o come solo uomo. E, alla fine, lo stesso Vattimo confessa: «“Credere di credere”, in fondo, vuol dire un po’ tutto questo: anche forse scommettere nel senso di Pascal, sperando di vincere ma senza esserne affatto sicuri. Credere di credere è anche: sperare di credere»114. 43

9. Un Dio che viene crocifisso non è “scandalo” e “follia”? Solo qualche anno fa, il pensiero debole di Gianni Vattimo era un pensiero avverso all’idea di una realtà trascendente che potesse entrare nella storia e nella vita degli uomini. A quegli studiosi i quali hanno sostenuto una interpretazione religiosa del pensiero heideggeriano, Vattimo replicava che una simile interpretazione era molto discutibile115. E precisava che: «la “religiosità” del pensiero sembra piuttosto risolversi, per Heidegger, in una attenzione che ha i caratteri della pietas, verso i messaggi che si trasmettono all’interno della storia, per cui nel nesso Denken-Danken-Gedächtnis è centrale quest’ultimo termine, e non invece il più religioso “ringraziare”»116. Vattimo proseguiva affermando che «la pietas del pensiero si esercita nei confronti di ciò che è tra-mandato tra le epoche storiche, e che per essere intra-storico non ha minor dignità di una rivelazione proveniente direttamente dal divino»117. Chiedevo nel mio libro Le ragioni del pensiero debole: forse che la pietas nei confronti dei messaggi che si trasmettono all’interno della storia è qualcosa che proibisce la possibilità di una attesa escatologica? Si tratta di un aut-aut o di un et-et?118 Dunque: il pensiero debole di Gianni Vattimo solo ancora pochi anni fa era ostile alla fede, negava la trascendenza. Oggi, il pensiero debole di Gianni Vattimo è una prospettiva che sfocia di nuovo all’interno della tradizione cattolica, pur se in maniera che ha fatto e fa molto discutere. Nei confronti della tradizione cristiana Vattimo, nonostante le critiche che ad essa rivolge, ha «un complessivo atteggiamento amichevole, fatto di riconoscenza, rispetto, ammirazione [...]. Non è affatto – egli dice – una tradizione di cui sento il bisogno di liberarmi, come non sento alcun bisogno di liberarmi delle tracce, che spero consistenti, della mia educazione cristiana e cattolica»119. Ebbene, questo ritorno a Dio e questo rientro nell’alveo della tradizione cattolica è frutto di ragione o di scelta? Vattimo rifiuta quel cristianesimo che egli chiama «apocalittico o dostojeskiano», rifiuta con ciò anche la posizione del suo maestro Pareyson: ma non è poi vero che la storia mondana sarebbe priva di senso senza «la luce di una vicenda totalmente altra»? La scelta è tra l’assurdo e la speranza – la speranza che per l’Olocausto ci sia un senso, che l’urlo della vittima trovi in “un tempo altro” chi 44

l’ascolti; che anche la lacrima più segreta non resti senza consolazione; che i nostri peccati ci vengano rimessi. È questa la speranza promessaci da un Dio che muore sulla croce. Ma un Dio che viene crocefisso non è “scandalo” e “follia”? È un nucleo di una trama razionale o un “mistero” che ci comprende? «Sono persuaso, e non solo per “bassi” motivi di attaccamento alle mie passioni, che se c’è per me una vocazione a ritrovare il cristianesimo, questa significa anzitutto il compito di ripensare i contenuti della rivelazione in termini secolarizzati – anche nel senso di “conformi al secolo”; dunque in modo che non ripugnino alla mia, poca o molta, cultura di uomo del mio tempo»120. È esattamente in questo brano che io vedo l’essenziale posizione di Vattimo: Vattimo torna al cristianesimo, riabbraccia la tradizione cattolica, ma lo fa solo nella misura in cui l’uno e l’altra si accordano con i suoi standard intellettuali e morali. Il cristianesimo, nella concezione di Vattimo, va dunque piegato al secolo; egli lo accetta solo in quei tratti che non ripugnano «la sua, poca o molta, cultura di uomo del suo tempo»; altrimenti lo respinge e chiama “superstizioni” quegli elementi che non si accordano con la sua cultura di uomo del suo tempo. Qui è, allora, urgente tornare all’estensore della Lettera a Diogneto, al quale stava a cuore comunicare che il messaggio cristiano «non è un’invenzione terrena». E ancora Kierkegaard. Una delle ragioni per cui Kierkegaard si scaglia contro Hegel è che Hegel piegava il cristianesimo alla cultura del suo tempo, alla sua cultura, alla sua filosofia. Hegel – scrive Kierkegaard – è un falsario che «gioca al cristianesimo». Il compito era soddisfare l’eternità, ma Hegel e i suoi seguaci intendono soddisfare il tempo e trovano più comodo «adulare i contemporanei». Il cristianesimo è «una verità che salva». Non è cultura. Ma – sbotta Kierkegaard – «ecco alla fine, con tanta bravura, queste canaglie, come Goethe, Hegel e da noi Mynster, predicare o comunque portare ad affetto il principio che la vera serietà è soddisfare il tempo»121. Il pensiero debole è ben distante dalle presunzioni del pensiero hegeliano. E, tuttavia, anche Vattimo è tutto sbilanciato dalla parte della filosofia e della cultura del proprio tempo; di conseguenza, egli ritrova il cristianesimo ripensandone i contenuti in termini secolarizzati, in modo che essi non ripugnino alla cultura di uomo del suo 45

tempo. A questo punto viene da chiedersi: se tornasse Kierkegaard, risparmierebbe a Vattimo l’epiteto di “canaglia”? Vattimo pensa ad un «Dio amichevole»: possiamo costruire un Dio tanto accomodante? Vattimo torna nella tradizione della Chiesa senza voler niente sacrificare dei suoi standard intellettuali e morali. E gli domando: credi davvero che il cristianesimo sia una cosa tanto facile, così accomodante da non richiedere da chi lo abbraccia rinunce e sacrifici, anche grandi?122 Vattimo, più volte nel saggio richiamato, se la prende con la Chiesa, con il Papa. E scrive: «Molto semplicemente [...] rivendico il diritto di ascoltare di nuovo la parola evangelica senza dover per questo condividere le vere e proprie superstizioni, in materia di filosofia e di morale, che ancora la oscurano nella dottrina ufficiale della Chiesa. Voglio interpretare la parola evangelica come Gesù stesso ha insegnato a fare, traducendo la lettera piuttosto violenta dei precetti e delle profezie in termini più conformi al comandamento supremo della carità»123. Di fronte a questa presa di posizione, diventano inevitabili interrogativi come i seguenti: chissà mai se non avesse ragione ancora una volta Kierkegaard a definire il cristianesimo come «verità sofferente»? E poi chi dice a Vattimo che le sue interpretazioni del comandamento supremo della carità siano quelle (più) giuste? Una cosa mi preme chiedere a Vattimo: è possibile un cristianesimo senza Chiesa? Senza Chiesa, chi riproporrebbe e di continuo il discorso della Montagna? E se non ci fosse la Chiesa, a chi confesseremmo più volte al giorno i nostri peccati? (questa fu la risposta di don Lorenzo Milani a chi gli suggeriva di uscire dalla Chiesa). E a proposito di peccato mi pare non solo esagerato, ma proprio fuorviante quello che Vattimo ne scrive: «[...] Per me l’unico senso cristiano della parola peccato è quello esclamativo, come quando si dice “che peccato” per rimpiangere un’occasione perduta, un’amicizia che è finita, e in genere (per estensione) la finitezza di tutto ciò che vale e a cui ci sentiamo attaccati. Ma non dovremmo riconoscere che Gesù ci riscatta dal peccato anche e soprattutto perché lo svela nella sua nullità?»124. Francamente, siffatte considerazioni a me – che ho “la fede del carbonaio” – risultano incomprensibili. Cosa vuol dire che Gesù ci riscatta dal peccato, anche e soprattutto perché lo svela nella sua nullità? Il 46

comandamento supremo viene infranto di continuo, ad ogni istante, sulla faccia della terra; c’è allora da dire che di peccati – dall’atteggiamento irrispettoso allo stillicidio psicologico, per finire ai massacri e all’Olocausto – è intessuta la storia dell’umanità – la quale, ovviamente, non è solo fatta di peccati. Ma l’umano peccato è una realtà così impressionantemente persistente e gigantesca che occorre il sangue di un Dio per espiarlo.

10. Razionalismo della contingenza tra angoscia e Redenzione La prospettiva che qui viene difesa è una teoria che sonda la debolezza umana, la creaturalità dell’uomo, la contingenza umana. È una prospettiva che indaga sulle ragioni della contingenza umana: è razionalismo della contingenza. Non è un altro fondazionismo: non è la dimostrata “vittoria del nulla”, del nulla di senso. È piuttosto la lucida consapevolezza che, nel vespro di questo secolo, scolpisce i tratti della contingenza umana. E ripete all’uomo che egli non è capace di costruire assoluti terrestri. La ragione umana non salva l’uomo dall’assurdo. Ma il pensiero che sottolinea questa consapevolezza non è necessariamente un naufragio nell’assurdo. Il senso assoluto della vita, il definitivo riscatto del dolore seminato sui tanti calvari da schiere infinite di uomini e donne non possono essere opera dell’uomo: la salvezza non è una costruzione umana. Ma quel senso che non può essere costruito può venir invocato. E l’invocazione è possibile solo nel mondo della contingenza. L’uomo non è il padrone del senso; è un mendicante di senso. E mai come oggi appare chiaro che «ormai solo un Dio ci può salvare» (M. Heidegger). La richiesta di senso, l’invocazione del senso, non la scalfisce lo scherno del libertino, non la elimina la sicurezza positivistica e materialistica di Moleschott o di Büchner, riemerge con più forza dalle ceneri del marxismo, non la devasta Nietzsche, non sono riusciti a renderla insensata Carnap o Ayer. E, tuttavia, questa richiesta o invocazione di senso ultimo non potrà venire appagata dai testi di Aristotele, non riceve risposta dalla filosofia di Cartesio. Non si placherà dinanzi a nessuna proposta filosofica. La richiesta di un 47

senso ultimo ha vestito i panni del tranquillo linguaggio della teoria filosofica. Tale richiesta, però, è una dirompente, non di rado tragica, invocazione religiosa. Ed è un’invocazione religiosa perché la risposta in grado di soddisfarla è solo una risposta religiosa. Non ci sono domante di stereochimica e risposte di archeologia. Il senso – ripete Lacan con Freud – è sempre religioso. «Pensare al senso della vita – ha scritto Wittgenstein – significa pregare». «Il senso della vita possiamo chiamarlo Dio». E, ancor prima, Agostino: «Inquietum est cor nostrum donec requiscat in Te, Domine». Ecco, allora, che questo razionalismo della contingenza che mi sento di proporre – come un tentativo di esplorazione che mi tiene impegnato da almeno tre decenni – è un pensiero razionale che, facendo proprie le conquiste filosofiche forse di maggior rilievo di questo secolo, sottolinea lo scacco di quanti hanno voluto sostenere che, in fondo, «homo homini Deus est». E al medesimo tempo non dice affatto che, se l’uomo non è capace di costruire un senso assoluto della vita e della storia, questo senso assoluto necessariamente non esiste e non può esistere. È l’uomo che non è in grado di costruirsi un senso assoluto. Ma questo senso assoluto razionalmente non costruibile può essere invocato. Il “nulla”, il nulla di senso, riguarda soltanto il senso umanamente costruibile; non sfiora il senso umanamente, molto umanamente, invocabile. Il significato non è qualcosa da creare, ma qualcosa da cercare, da invocare: «Il tempo del mondo finito ha avuto inizio – scrive Paul Poupard – e non possiamo più ignorare il grido degli uomini che soffrono, si fanno violenza e muoiono, e tanta ingiustizia, e le paure innocenti»125. «Ormai solo un Dio ci può salvare. Ci resta come unica possibilità quella di preparare, nel pensare e nel poetare, una disponibilità all’apparizione di Dio o all’assenza di Dio nel tramonto»126. E Heidegger aggiunge: «Noi non possiamo avvicinarlo (Dio) col pensiero, siamo tutt’al più in grado di risvegliare la disponibilità dell’attesa»127. Questo si intende fare, appunto, tramite la proposta del razionalismo della contingenza: una linea di pensiero «in grado di risvegliare la disponibilità dell’attesa». Una concezione che elimina gli ostacoli sulla strada dell’invocazione di un senso 48

assoluto non costruibile dall’uomo. Il razionalismo della contingenza apre lo spazio della fede, libera possibilità di scelta. Il fatto che esista la terra che calpestiamo e l’universo che ci circonda, che ci siano gli altri, che esista ciascuno di noi – l’esistenza, insomma, della realtà conosciuta e conoscibile dalla scienza è un problema, anzi è “il” problema, un meta-problema per dirla con Gabriel Marcel: perché c’è questa realtà e non piuttosto niente?; la vita e la morte di ognuno di noi e la storia di ogni uomo apparso sulla faccia della terra quale senso hanno? Queste domande denunciano un tratto tipico dell’uomo: quello di essere un mendicante di senso, di senso assoluto. Siffatta caratteristica antropologica – uno dei lineamenti che differenzia l’uomo dall’animale, e sul quale ha giustamente insistito la filosofia esistenziale – trova la sua espressione nell’esperienza dell’angoscia. «La possibilità di interrogarsi sul significato della vita appartiene unicamente all’essere-uomo» – ha scritto Viktor E. Frankl128. L’angoscia è mancanza di senso – e richiesta di senso. L’esperienza dell’angoscia è il vestito psicologico di un vuoto logico, della mancanza di un ubi consistam su cui e per cui poter vivere o morire. L’angoscia è l’esperienza del nulla – del nulla di senso; e richiesta del tutto – del tutto di senso, cioè di un senso del tutto. L’angoscia può portare alla disperazione – e la tentazione del suicidio convive con l’anima disperata; ma la disperazione e il suicidio non sono l’esito necessario dell’angoscia, perché è proprio lungo la strada dell’angoscia che può rifiorire la speranza. L’angoscia è una grande scuola; essa, così pensava Kierkegaard, ha la capacità di formare poiché «distrugge tutte le finitezze scoprendo tutte le loro illusioni». E di nuovo Kierkegaard: «E nessun grande inquisitore tien pronte torture così terribili come l’angoscia; nessuna spia sa attaccare con tanta astuzia la persona sospetta, proprio nel momento in cui è più debole, né sa preparare così bene i lacci per accalappiarla come sa l’angoscia; nessun giudice, per sottile che sia, sa esaminare così a fondo l’accusato come l’angoscia che non se lo lascia mai sfuggire, né nel divertimento, né nel chiasso, né sotto il lavoro, né di giorno né di notte»129. In breve: perché l’angoscia formi, occorre darle il benvenuto, farla entrare nell’animo, lasciare che lo perquisisca e permetterle di 49

scacciare «tutti i pensieri finiti e gretti»130. L’angoscia è una specie di panico da smarrimento davanti al nulla – panico derivato dalla consapevolezza lucida del nulla di senso. Angoscia è coscienza tormentata dalla impossibilità umana di poter costruire un senso assoluto, una verità per cui, appunto, valga davvero la pena di vivere o morire. Ma è esattamente in questo modo – commenta Kierkegaard – che «Dio che vuole essere amato, discende con l’aiuto dell’inquietudine in caccia dell’uomo». Un senso assoluto della vita e della morte, della gioia e della sofferenza; un senso della sofferenza innocente; della storia umana e dell’universo fisico non può venir umanamente costruito; può, però, venire invocato. E l’angoscia devasta irrimediabilmente tutti quegli ostacoli che vietano siffatta invocazione; annienta la presunzione dell’uomo di essere Dio; e mostra la sua finitezza e creaturalità. È così, allora, che capiamo che «appena la psicologia ha finito di studiare l’angoscia, questa va consegnata alla dogmatica»131. L’angoscia è un tratto antropologico – difatti, «se l’uomo fosse un animale o un angelo, non potrebbe angosciarsi»132. L’angoscia fa dell’uomo un mendicante di senso. E Cristo con il suo messaggio offre quel senso che l’uomo ha vanamente tentato di costruire. «Provvidenza e Redenzione sono categorie della disperazione»133. E ancora Kierkegaard: «È una cosa eccellente, l’unica necessaria e chiarificante, questa che dice Lutero: “Tutta la dottrina (della Redenzione, e in fondo tutto il Cristianesimo) deve essere messa in rapporto alla lotta della coscienza angosciata. Elimina la coscienza angosciata, e tu puoi anche chiudere le chiese e farne delle sale da ballo”. La coscienza angosciata capisce il Cristianesimo, come un animale affamato; se gli metti davanti un pezzo di pane o una pietra, capisce che l’uno è da mangiare e l’altra no; a questo modo la coscienza angosciata capisce il Cristianesimo»134.

11. «Solo la Croce può dare alla ragione la risposta ultima che essa cerca» Dalla Lettera a Diogneto: «La loro [dei cristiani] dottrina non è frutto di considerazioni e elucubrazioni di persone curiose, né si fanno promotori, come alcuni, di una qualche teoria umana [...]. 50

Infatti [...] non è un’invenzione terrena quanto è stato loro trasmesso, né ritengono di custodire con tanta cura una dottrina transeunte, né è stato loro affidato l’incarico di dispensare misteri umani. Ma colui che è veramente onnipotente, creatore di tutto, Dio invisibile, dai cieli pose tra gli uomini e stabilì nei loro cuori la Verità, il verbo santo e incomprensibile; non inviò agli uomini, come qualcuno potrebbe immaginare, un servo, un angelo, un arconte o uno degli esseri cui è affidato il governo della terra e l’amministrazione dei cieli, ma lo stesso Artefice e Autore di tutto [...]. Credi forse ai discorsi vuoti e insulsi di quei filosofi ritenuti degni di fede? [...] Ma queste sono chiacchiere e imposture da ciarlatani; nessun uomo ha visto o conosciuto Dio, ma egli stesso si è rivelato per mezzo della fede, e soltanto con essa è possibile vedere Dio»135. La rivelazione cristiana è – per chi crede – un dono che salva dall’assurdo; è la risposta di Dio al supremo interrogativo dell’uomo, ad un interrogativo al quale l’uomo ha tentato di rispondere con le sue proprie forze, passando da illusioni e fallimenti per sfociare non di rado in colossali tragedie. La dottrina cristiana non è, dunque, un artefatto umano. Nella Lettera a Madama Cristina di Lorena Galilei scriveva: «[...] che l’autorità delle Sacre Lettere avesse avuto di mira a persuadere principalmente gli uomini quegli articoli e proposizioni, che, superando ogni umano discorso, non potevano per altra scienza né per altro mezzo farcisi credibili, che per bocca dell’Istesso Spirito Santo»136. E se le cose stanno così, va dunque da sé che la fede cristiana non si fonda sul sistema tolemaico né è contraddetta dal sistema copernicano; essa non si fonda sulle idee di Linneo o di Couvier, né è contraddetta dalla teoria di Darwin. Una fede che si fondasse su questa o quella teoria scientifica sarebbe fede in un Dio precario, alla mercé di teorie che, prima vengono eliminate, meglio è. Ma allora – e la domanda è inevitabile – non è precaria anche quella fede che si suppone fondata da teorie metafisiche, anch’esse prodotti dell’uomo, storici ed eliminabili e sostituibili come qualsiasi altro prodotto umano? A fondamento della fede cristiana c’è Cristo. O dobbiamo pensare che, invece, ci sia questo o quel metafisico? È ancora proponibile l’idea che, senza una metafisica come quella di Platone o 51

quella di Aristotile, o di Cartesio, la fede cristiana sarebbe proprio impossibile? A fondamento necessario e imprescindibile della dottrina cristiana ci sarebbe, dunque, una filosofia nata fuori dal cristianesimo? Possiamo prendere sul serio l’idea che il Salvatore abbia davvero bisogno di salvatori metafisici? E poi: può il credente filosofare come se la Rivelazione non ci fosse stata? E non è forse vero che un autentico genio metafisico come san Tommaso d’Aquino, filosofava all’interno della fede137? La fede cristiana consiste nel credere che un uomo nato nel tempo è l’incarnazione di Dio. Ma vedere un uomo non è sufficiente a farci credere che quell’uomo è Dio. È la fede che mi fa vedere in un fatto storico qualcosa di eterno. E come è possibile tutto ciò? Questo è un problema che si risolve – dice Kierkegaard – al di fuori dei torbidi maneggi della scienza e della filosofia. È un problema che si risolve con un atto di fede, con la fede che Gesù è l’incarnazione di Dio. E quest’atto di fede è sempre un salto, sia per chi è contemporaneo di Cristo sia per chi non lo è. Scelta a parte hominis, la fede è dono a parte Dei. «Essendo giunto Gesù nella regione di Cesarea di Filippo, chiese ai suoi discepoli: “La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?”. Risposero: “Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia, o qualcuno dei profeti”. Disse loro: “Voi che dite chi io sia?”. Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. E Gesù: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli”». Chiedo: vogliamo ancora stare ad insistere che senza metafisica trascendentista cognitiva la fede cristiana è impossibile o una favola? La fede ha davvero bisogno di trascinarsi sulle stampelle delle diverse metafisiche? «Le prove metafisiche di Dio sono così lontane dal comune modo di pensare degli uomini e così astruse che riescono poco efficaci; e, quand’anche fossero adatte per taluni, servirebbero loro solo per il breve momento in cui hanno dinanzi agli occhi la dimostrazione; ma, un’ora dopo, temono già d’essersi ingannati»138. Su questo pensiero di Pascal è più che opportuno tornare a riflettere. Chi mai prega il Motore Immobile? Motori Immobili e Grandi Architetti non possono essere nemmeno la maschera razionale di un Dio che muore in croce. 52

Si è cattolici solo se si abbraccia questa o quella filosofia? Se si segue il beato Scoto, non si è cattolici? Se uno di noi torna a Pascal non è cattolico? Antonio Rosmini non fu un prete cattolico? Gabriel Marcel non è un significativo filosofo esistenzialista ed insieme sincero cattolico? – è proprio Marcel ad aver affermato che «la théodicée c’est l’athèisme». Liberatoria – qualora si affrontino domande del genere – è l’enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II. In questa Enciclica la fiducia nella ragione umana è costantemente accompagnata dalla consapevolezza dei limiti della stessa ragione umana; e dall’idea che la filosofia deve mantenere viva la grande domanda, non proibire lo spazio della fede. Certamente, nell’Enciclica si intrecciano diverse linee di considerazioni, ma il filo d’oro che le lega è l’idea che «solo la Croce può dare alla ragione la risposta ultima che essa cerca». E se da una parte si prende atto del fallimento della arrogante presunzione di quei “razionalisti” i quali vollero proibire lo spazio della fede, dall’altra si prendono le debite distanze da quei “razionalisti” che credettero subordinare la fede alle loro umane, transeunti e fallibili costruzioni filosofiche. Di seguito, solo qualche brano dall’Enciclica Fides et ratio. 1) «Il Figlio di Dio crocifisso è l’evento storico contro cui s’infrange ogni tentativo della mente di costruire su argomentazioni soltanto umane una giustificazione sufficiente del senso dell’esistenza». 2) «La ragione non può svuotare il mistero di amore che la Croce rappresenta, mentre la Croce può dare alla ragione la risposta ultima che essa cerca». 3) «La filosofia, che già da sé è in grado di riconoscere l’incessante trascendersi dell’uomo verso la verità, aiutata dalla fede può aprirsi ad accogliere nella “follia” della Croce la genuina critica a quanti si illudono di possedere la verità, imbrigliandola nelle secche di un loro sistema». 4) «Le vie per raggiungere la verità rimangono molteplici; tuttavia, poiché la verità cristiana ha un valore salvifico, ciascuna di queste vie può essere percorsa, purché conduca alla meta finale, ossia alla rivelazione di Gesù Cristo». 53

5) «Nessuna forma storica della filosofia può legittimamente pretendere di abbracciare la totalità della verità, né di essere la spiegazione piena dell’essere umano, del mondo e del rapporto dell’uomo con Dio». 6) «Una cultura non può mai diventare criterio di giudizio ed ancora meno criterio ultimo di verità nei confronti della rivelazione di Dio». 7) «Il fatto che la missione evangelizzatrice abbia incontrato sulla sua strada per prima la filosofia greca, non costituisce indicazione in alcun modo preclusiva per altri approcci». 8) «La fede non è come tale una filosofia [...]. Come virtù teologale, [la fede] libera la ragione dalla presunzione, tipica tentazione a cui i filosofi sono facilmente soggetti». 9) «L’uomo si trova in un cammino di ricerca, umanamente interminabile: ricerca di verità e ricerca di una persona a cui affidarsi. La fede cristiana gli viene incontro offrendogli la possibilità concreta di vedere realizzato lo scopo di questa ricerca». 10) «La Chiesa non propone una propria filosofia né canonizza una propria filosofia a scapito di altre». 11) «La conoscenza che essa [la Chiesa] propone all’uomo non le proviene da una sua propria speculazione, fosse anche la più alta, ma dall’avere accolto nella fede la parola di Dio». 12) «La ragione dell’uomo non si annulla né si avvilisce dando l’assenso ai contenuti di fede; questi sono in ogni caso raggiunti con scelta libera e consapevole». Questi sono soltanto alcuni brani che, ai miei occhi, rendono preziosissima l’Enciclica Fides et ratio. Chi per tanti anni ha cercato di mettere in chiaro i “diritti” della fede e ha avversato l’arrogante presunzione di “razionalisti” i quali o negavano lo spazio della fede o la subordinavano alle loro umane, transeunti e fallibili costruzioni concettuali non può non essere immensamente grato al Santo Padre. «Solo la Croce può dare alla ragione la risposta ultima che essa cerca».

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12. Il Dio di Gesù Cristo e non dei filosofi Il tema riporta subito alla grande tradizione di Montaigne, Pascal e Charron; e poi a Kierkegaard; più vicino a noi Gabriel Marcel. Ma qui intendo restare in casa nostra. Armando Rigobello è un deciso sostenitore dell’idea che l’alleanza tra il pensiero classico greco e la filosofia cristiana «non è esclusiva». La realtà, ad avviso di Rigobello, è che la «filosofia classica greca trova oggi una notevole difficoltà soprattutto per due ragioni, che sono in fondo anche due eventi storici: l’affermazione di un’epistemologia che finisce per togliere credito ai modi e alle forme mediante le quali il pensiero greco è stato formulato; l’avvento del cristianesimo che alla teoresi astratta contrappone la concretezza della coscienza personale e della vicenda storica»139. Da parte sua, anche Vittorio Mathieu si distacca da certa metafisica classica. Egli, infatti, è persuaso che «la metafisica non è un argomentare che leghi una “esperienza”, data in blocco come “non metafisica”, con una realtà posta semplicemente al di là, come “non empirica”»140. La metafisica è anzitutto un’indagine interna alla stessa esperienza, in cui rivela dimensioni diverse da quelle padroneggiabili dalla scienza e, quindi, dalla manipolazione141. Ed ecco il pensiero di Luigi Pareyson: «Il Dio dei filosofi è il Dio della filosofia oggettivante, risultato di pensiero diretto. Questo Dio propriamente non esiste: è un puro nome che il filosofo pronuncia invano; un concetto vuoto a cui non corrisponde alcuna realtà, e a cui in ogni caso bisognerebbe dare un contenuto, cosa che non si può fare se non ricorrendo al mito, all’esperienza religiosa, alla fede [...]; anche la filosofia, quando parla di Dio, se pure ne parla e ne vuole parlare, non può parlare che del Dio dell’esperienza religiosa, non del Dio dei filosofi»142. Pareyson è della ferma e molto motivata convinzione che la filosofia non dimostra né l’esistenza né la non esistenza di Dio: queste cose non competono alla filosofia, ed essa interviene quando tali questioni sono state già decise. Scrive ancora Pareyson: «Per l’uomo religioso Dio esiste, e l’esistenza di Dio è per lui così ferma da rendere superflua ogni dimostrazione, perché essa è oggetto di fede, d’una scelta radicale e profonda, da cui scaturisce tutto il resto»143. Fu nel 1961 che Pietro Prini, in un denso saggio intitolato Cristianesimo e filosofia, sostenne con 55

forza che gioca al cristianesimo quel credente che finge che la propria fede sia irrilevante per la ricerca filosofica. «C’è – asserisce Prini – un carattere ludico nell’atteggiamento del credente, quando pretende di poter mettere tra parentesi la propria fede e di essere anch’egli, nella ricerca della verità, come dice Husserl, ein wirklicber Anfänger, “un vero e proprio principiante”»144. Il cristiano che filosofa come se la Rivelazione non ci fosse stata o che ricerca un senso della vita o della storia come se il messaggio di salvezza cristiano non esistesse, non prende sul serio la sua fede. In fondo, non crede. Non crede né alla verità cristiana né alla più autentica ricerca filosofica. Difatti, se cerca – ed è credente – un senso della vita tramite la ricerca filosofica, allora non crede, gioca al cristianesimo; se, invece, crede davvero allora gioca con la filosofia. Ma, dice Prini, «non si può giocare impunemente col cristianesimo né con la filosofia che è nata e ha posto il suo problema fuori dal cristianesimo. Un aut-aut si impone in nome della nostra più rigorosa autenticità mentale, in nome del carattere indisgiungibilmente integrale del nostro essere insieme credenti e pensatori»145. Prini, dunque, intende la filosofia cristiana come un filosofare dentro la fede. E questa è pure la posizione di Gianfranco Morra, il quale nel suo libro Dio senza Dio scrive che le prove dell’esistenza di Dio «assumono [...] un senso entro la fede, come tutta la filosofia cristiana, che è, per dirla col Gilson, una “philosophie dans la foi”»146. Ed è sempre Morra ad asserire che «sia la critica kantiana che le opposizioni esistenzialistiche hanno svolto una funzione molto importante: distruggere le pretese della teologia intellettualistica e riproporre il discorso intorno a Dio all’intimo dell’esperienza religiosa, di cui può essere espressione riflessa e indebolita, mai preambolo o preliminare apologetico. È anche per merito di tali critiche, che hanno largamente purificato la parola “Dio” da sovrapposizioni illuministiche, che il significato delle prove viene oggi riscoperto e rivalutato»147. In fondo, «l’errore della teologia intellettualistica è stato quello di separare queste prove dal loro rapporto religioso e di assolutizzarle come il fondamento del soprannaturale [...]»148. Esattamente sull’esperienza religiosa e il suo tipico linguaggio, il linguaggio dei mistici, verte molta della più recente produzione filosofica di Massimo Baldini. Baldini si schiera, sin dall’inizio, dalla parte dei mistici e, 56

a differenza del teologo razionalista e del metafisico, è ben convinto, per usare un’espressione di don Primo Mazzolari, che «il mistero si annuncia, non si spiega»149. Quello del mistico è, ad avviso di Baldini, un linguaggio esplorativo: un linguaggio che apre nuove dimensioni della realtà. «Il mistico – afferma Baldini – impone alle parole una sorta di torsione creatrice di senso. Scavalcando a pie’ pari le convenzioni linguistiche ci dice, o almeno cerca di dirci, qualcosa di nuovo»150. Il mistico rifiuta il linguaggio religioso e teologico che è «divenuto, in seguito ad una ripetizione acritica, incolore e routiniero, banale e banalizzante»151. In breve, ecco il nocciolo della concezione del Baldini: «Tra il linguaggio del teologo che scrive sempre in prosa e quello del mistico che scrive in poesia, è a quest’ultimo che va il nostro favore. Il suo caldo linguaggio, che si contrappone alla freddezza di quello teologico, è un linguaggio che pone fine anche nella fede all’insensatezza della chiacchiera, alle parole senza scopo, al cattivo odore delle frasi fatte»152. Questo scrive Baldini. Da parte sua, il noto teologo padovano don Luigi Sartori nota che «il contesto culturale contemporaneo spinge a sottolineare la distanza tra il Dio della fede cristiana (“il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”) e il Dio della ragione (“il Dio dei filosofi”)»153. E aggiunge che «un certo fideismo, almeno quello tipico della tradizione pascaliana, sembra prendere il sopravvento»154. Si potrebbe seguitare a lungo nel riportare il pensiero di filosofi e teologi cattolici italiani (e stranieri), i quali ritengono sostanzialmente prive di forza persuasiva sia la concezione dei “metafisici classici” che la tradizione scolastica e neo-scolastica. Basterà qui richiamare ancora i nomi di Enrico Castelli155 e di Augusto Del Noce156.

13. L’irriducibilità del messaggio religioso ad “argomentazioni razionali” o a “pratiche sociali” Un senso non costruibile con mani umane può essere invocato – e il messaggio cristiano è la risposta a questa invocazione: una risposta religiosa e non una risposta filosofica. E qui val la pena riflettere su quei pensatori che hanno messo in guardia sui pericoli mai sopiti di una riduzione del “messaggio religioso” ad “argo57

mentazioni razionali” o a “pratiche sociali”. «Con la fede – scrive Gerardus van der Leeuw – un elemento del tutto nuovo entra nella vita religiosa»157. In realtà, «il senso religioso di una cosa è quello cui non può succedere nessun altro senso più ampio o più profondo. È il senso del tutto, è l’ultima parola. Ora, questo senso non è mai inteso; questa parola non è mai pronunciata; l’uno e l’altro sempre ci superano. Il senso ultimo è un mistero, che si rivela sempre nuovamente, e tuttavia rimane sempre nascosto. Rappresenta un progresso fino all’estremo limite, ove si comprende soltanto una cosa, cioè che ogni comprensione sta al di là. Il senso ultimo è contemporaneamente il limite del senso»158. Sulla stessa linea di van der Leeuw si trova, sostanzialmente, Rudolf Otto, il quale sin dalle prime pagine de Il sacro ammonisce che «sarà sempre […] un impulso salutare il rilevare che la religione non consiste nelle sue espressioni razionali»159. La categoria del sacro, del numinoso – «è complessa e racchiude in sé un elemento di assoluta peculiarità, si sottrae alla sfera del razionale […] ed è una arreton, un ineffabile in quanto è assolutamente inaccessibile alla comprensione concettuale (come è anche il bello in un altro campo)»160. In Italia è stato Luigi Pareyson a sottolineare, più che altri, che il linguaggio concettuale è una violazione della trascendenza. «Il problema dell’esperienza religiosa – scrive Pareyson – non è il problema metafisico di Dio, come invece suppone chi ancora si chiede se Dio debba o non debba concepirsi come sostanza o causa o come altro che sia. Questo è, se mai, il “Dio dei filosofi”, al quale potrà essere – o, meglio, essere stata – interessata la filosofia, ma che non riguarda certo la religione. Il Dio della religione è altra cosa: è il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, il Dio vivente e vivificante, è un Dio a cui si dà del tu e che si prega, un Dio a cui si dice con trepidazione miserere mei e con disperazione ne sileas, a cui ci si rivolge domandando angosciati quare me repulisti, e supplicando con timore e tremore ne avertas faciem tuam a me, a cui nell’ora suprema ci si affida esclamando in manus tuas commendo spiritum menn ed implorando in te, Domine, speravi: non confundar in aeternum»161. Per Pareyson «il Dio autentico dell’esperienza religiosa non è raggiunto dai concetti strettamente filosofici di Dio»162. È ben vero che tra i vanti maggiori e più fre58

quenti della tradizione metafisica viene addotta la rappresentazione concettuale della divinità come superamento dell’antropomorfismo, vale a dire come la purificazione dell’idea di Dio dai residui antropomorfici. Ma ecco che, di fronte a simile vanto, dinanzi alla pretesa metafisica di aver superato l’antropomorfismo, Pareyson annota che «non si può non restar colpiti dalla scarsa riuscita dell’impresa, giacché l’esito è per lo più risultato in contrasto con le primitive intenzioni»163. Difatti: «Concepire Dio in termini concettuali significa definirlo in base a categorie elaborate dalla mente umana e attribuirgli proprietà che direttamente o indirettamente ineriscono all’uomo, sia pure estremamente affinate e astratte, e sia pure pensate in senso eminente ed elevate al vertice. In tal senso concepire Dio come Essere, Principio, Causa, Pensiero, Ragione, Valore, Persona, Bontà, Provvidenza, e così via, è pur sempre un kat∆ a[nqrwpon levgein che conferisce a tali concezioni della divinità un carattere sostanzialmente, anche se larvatamente, antropomorfico»164. Due sono i tipi di antropomorfismo che Pareyson distingue: «quello concettuale, nascosto e taciuto, governato dal principio di esplicitazione oggettivante, e quello simbolico, consapevole e dichiarato, dominato dalla sollecitudine dell’inesauribilità»165. L’antropomorfismo genuino e rivelativo, aperto ad una verità trascendente che esso sa di non poter mai oggettivare è l’antropomorfismo «schietto e genuino […], aperto e riconosciuto del simbolo e del mito»166. Talché se il Dio dell’esperienza religiosa non è raggiunto dai concetti strettamente filosofici, «può nascere il progetto di cercarlo e la prospettiva di trovarlo in una zona più profonda e originaria del pensiero; là dove nessuna perplessità o esitazione può nascere all’idea che per il Dio dell’esperienza religiosa assai più che i concetti specificamente filosofici appaiono adeguati e significativi i simboli della poesia e le figure antropomorfiche del mito, quali si trovano, ad esempio, nelle teofanie sensibili dell’Esodo e dei Salmi, nei racconti del Genesi e dei libri apocalittici, nelle grandiose e fiammeggianti visioni dei profeti»167. Ed ecco il corollario – di enorme rilevanza – che segue da quanto detto: «L’importante non è demitizzare l’antropomorfismo dichiarato e genuino, ma demistificare l’antropomorfismo occulto e deteriore»168. 59

14. Con Tertulliano per respirare Qualche volta, in colloqui tra amici, mi è capitato di sostenere che il dubbio è l’altra faccia della fede: se non hai dubbi vuol dire che non hai fede. Ma ecco che un vecchio amico, il biochimico del gruppo (e non solo lui, a dire il vero), ha sempre rifiutato questa tesi. Per lui, ormai famoso indagatore di fenomeni oltremodo complessi, l’esistenza di un Dio ordinatore del cosmo è un dato di fatto… solo chi non conosce la raffinata complessità del reale può pensare che tale ordine sia frutto del caso. L’argomento del «disegno dell’universo» è un argomento cui si appoggiano non pochi credenti a supporto della loro fede. Né mancano quanti si sentono a loro agio all’interno della grande tradizione scolastica e in particolar modo del tomismo. Io guardo con rispetto e ammirazione tali concezioni. E, tuttavia, non è da sottovalutare il pericolo cui possono condurre le degenerazioni di queste posizioni allorché un razionalismo tanto presuntuoso quanto infondato pretende di cancellare i diritti della fede. I diritti della fede sono, infatti, cancellati da quelle concezioni che, con il pretesto di esserne ancillae, ne diventano in realtà dominae – come è il caso di quei filosofi cattolici i quali, anche da noi, si sono fatti difensori della prospettiva secondo cui la fede cristiana sarebbe impossibile e l’intero Cristianesimo azzerato se il loro discorso metafisico non fosse valido. Qualcuno ha scritto che il discorso metafisico «è la condizione necessaria, il minimo necessario, perché la parola della rivelazione e della promessa non resti in sospeso, ma trovi un solido, anche se esilissimo aggancio alla nostra razionalità umana»169. O in altri termini: «al discorso breve e rigoroso del metafisico, si affidano le sorti d’una cosa tanto grande, quanto può esserlo una fede religiosa, il senso stesso della vita, il significato medesimo dell’intera civiltà cristiana»170. Dunque: ci sono dei metafisici «iperrazionalisti» (in realtà: pseudorazionalisti) che considerano loro compito quello di: salvare il Salvatore. Ebbene, io sono contrario a pretese del genere e spero così, una volta per tutte, di rendere chiaro in quale senso e perché io sono antimetafisico – mentre mi sento trasportato dall’intuizione fondamentale di Kant, la quale – come scrive H.G. Gadamer – è quella «di mostrare al sapere i suoi confini per fare 60

spazio alla fede»171. Ed è per questo che mi trovo d’accordo con Maurice Clavel, quando afferma: «Sì, Kant ha liberato lo spirito da ogni dogmatismo, Dio da ogni filosofia: l’ha messo al sicuro dai dottori e dai sapienti “Via regale di Kant”, dice magnificamente Kierkegaard […] E sono queste meraviglie che l’idiozia cristiana, particolarmente cattolica non ha potuto ammettere dopo duecento anni. Quando il cristiano non è particolarmente ottuso per fare di Kant un ateo, si limita all’accusa inquisitoria di “fideismo”, perché sembra che sia un’eresia! Una storia pietosa!»172. «Quando la gente tenta di trarre dai simboli del cristianesimo un sistema filosofico, mi sembra che sia un fatto raccapricciante»173. E a questa riflessione di Ludwig Wittgenstein fa eco un pensiero di suo cugino Friedrich A. von Hayek, stando al quale i predicatori di moralità, «perdendo sempre più la propria fede nella rivelazione divina, sembrano aver cercato rifugio e consolazione in una nuova religione sociale, nell’illusione di poter continuare il proprio sforzo di fare del bene»174. Una traduzione e riduzione sempre più spinta dei simboli del messaggio cristiano a concetti razionali e una diluizione della fede in religione sociale equivalgono al rifiuto del cristianesimo tout-court. Un cristianesimo ridotto a “cultura” non ha più bisogno del “Redentore” ed alimenta, direttamente o indirettamente, la sorgente da cui attingono tanti di quei movimenti di auto-salvezza sparsi nel vasto arcipelago della New Age: il new ager, infatti, ha bisogno di sapere e non di salvezza; di tecniche di espansione della coscienza e non della grazia. Il new ager è un neo-gnostico. «Tutto ciò – scrive M. Lacroix – è molto lontano dall’umiltà di stampo cristiano, ed evoca piuttosto l’orgoglio tipico del demiurgo per il quale tutto è possibile. Il seguace della New Age non aspetta che un essere trascendente intervenga sul suo destino donandogli la grazia. Non ha bisogno della redenzione cristiana e non la vuole nemmeno, perché possiede gli strumenti per l’autoredenzione»175. Di fronte ad un razionalismo e sociologismo onnivori, dinanzi a siffatte presunzioni, la mente torna con forza, così di “istinto”, ad Agostino: «De Deo loquimur, quid mirum, si non comprehendis? Si enim comprehendis non est Deus»176. O ad autori come 61

Tertulliano, quasi a cercare aria pulita da respirare. Scriveva Tertulliano in Sulla prescrizione contro gli eretici: «La nostra disciplina viene dal portico di Salomone, il quale aveva insegnato che si doveva cercare Dio in semplicità di cuore. Ci pensino coloro che hanno inventato un cristianesimo stoico e platonico e dialettico. Non abbiamo bisogno della curiosità dopo Gesù Cristo, né dalla ricerca dopo il Vangelo»177. E nell’Apologetico «[…] Qual mai somiglianza si può cogliere fra il filosofo e il cristiano, fra il discepolo della Grecia e il candidato nel cielo, fra il trafficante della fama terrena e colui che fa questione di vita, fra il venditore di parole e il realizzatore di opere, fra chi costruisce sulla roccia e chi distrugge, fra chi altera e chi tutela la verità, fra il ladro e il custode del vero?»178. E, poi, ancora Tertulliano: «È stato crocifisso il Figlio di Dio: non mi vergogno, poiché me ne dovrei vergognare. È anche morto il Figlio di Dio: è senz’altro credibile, poiché si tratta di una cosa sciocca. E dopo essere stato sepolto è risorto: è una cosa certa, perché è una cosa impossibile»179. È forse opportuno qui ricordare quel che Dostojewskij, nello schizzo de I demoni, fa dire al protagonista del romanzo: «Il punto cruciale della questione sta in questo: se un uomo imbevuto della civiltà moderna, un europeo, può ancora credere: credere proprio alla divinità del Figlio di Dio Gesù Cristo. In questo sta precisamente tutta la fede»180.

15. Una domanda ai cardinali Joseph Ratzinger, Giacomo Biffi e Camillo Ruini: non è forse più che auspicabile un ritorno a Pascal? Blaise Pascal. «Noi conosciamo Dio soltanto per mezzo di Gesù Cristo [...]». «Il Dio dei Cristiani non è semplicemente un Dio autore delle verità matematiche e dell’ordine cosmico [...]. Tutti coloro che cercano Dio fuori di Gesù Cristo, e che si arrestano alla natura, o non trovano nessuna luce che li soddisfi o riescono a trovare un mezzo di conoscere e servire Dio senza mediatore; e così cadono o nell’ateismo o nel deismo: due cose che la religione cristiana aborre quasi in egual misura [...]». «La fede è un dono di Dio. Non crediate che diciamo che è un dono del ragionamento 62

[...]». «La fede è differente dalla dimostrazione: questa è umana, quella è un dono di Dio». «Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce [...]. Il cuore, e non la ragione, sente Dio». «Le prove metafisiche di Dio sono così lontane dal comune modo di pensare degli uomini e così astruse che riescono poco efficaci; e, quand’anche fossero adatte per taluni, servirebbero loro solo per il breve momento in cui hanno dinanzi agli occhi la dimostrazione; ma, un’ora dopo, temono già di essersi ingannati». Ed ora Søren Kierkegaard: «Come principio bisogna dire: la Fede non si può comprendere; il massimo a cui si arriva è poter comprendere che non si può comprendere. Così anche per un Assoluto non si possono dar ragioni, al massimo si possono dar ragioni che non ci sono ragioni». «Dal punto di vista cristiano la Fede abita nell’esistenziale: Dio non si è esibito in veste di docente che ha alcune tesi; no, prima bisogna credere e poi comprendere. La fede esprime un rapporto di personalità a personalità». «L’idea della filosofia è la mediazione; quella del Cristianesimo, il paradosso». «[...] Gesù Cristo è il segno dello scandalo e l’oggetto della fede». «Come il concetto di “Fede”, anche quello di “scandalo” è una categoria specificamente cristiana che si rapporta alla Fede». «Ma Abramo credette e non dubitò, egli credette l’assurdo». E, da ultimo: «La teologia scientifica è incredula, manca di franchezza davanti a Dio, è in malafede di fronte alla Sacra Scrittura. Essa non può respirare, come avrebbe fatto per esempio Lutero con un decreto del seguente tenore: “Nostro Signore si strafischia delle scienze naturali”». Ho riportato questi pochi pensieri di Pascal e di Kierkegaard semplicemente per richiamare alla memoria una tradizione che all’interno della cultura cattolica è stata spesso denigrata come “fideismo” a tutto vantaggio di “altre tradizioni”. Tanto che non sono stati e non sono così pochi quei cattolici i quali, seguendo itinerari filosofici diversi, per esempio dalla scolastica o dalla neoscolastica, si sono sentiti e magari ancora si sentono se non in colpa perlomeno in difficoltà psicologica e anche morale. Ed ecco l’inevitabile problema: un filosofo o un intellettuale non può essere cattolico se non è aristotelico o scolastico o neoscolastico? In altri termini: un seguace del pensiero di Rosmini è un eretico, 63

qualora sia anche cattolico? E che ne è dei seguaci di Scoto? Ed esistenzialisti lontani dalle concezioni scolastiche e neoscolastiche come Gabriel Marcel o Luigi Pareyson sono fuori dalla Chiesa? E ci chiediamo: nei nuovi orizzonti creati dal Concilio Vaticano II, un filosofo come Maurice Blondel sarebbe ancora “da evitare”? Ma poi: tutti quei cristiani vissuti prima della filosofia scolastica furono tutti inconsapevoli della loro fede? Queste non sono domande peregrine. Si tratta di questioni nevralgiche per la teologia cattolica; questioni che oggi paiono trovare risposte maggiormente convincenti nella direzione di pensatori come Pascal. Nel maggio del 1996 il cardinale Joseph Ratzinger tiene a Guadalajara, in Messico, una conferenza in occasione dell’incontro tra la Congregazione della Dottrina della Fede e i Presidenti delle Commissioni per la Dottrina della Fede delle Conferenze Episcopali dell’America Latina. La conferenza – apparsa successivamente sia su l’“Osservatore Romano” (27 ottobre 1996) che su «La Civiltà Cattolica» (quaderno 3515, IV, 1996), con il titolo La fede e la teologia ai giorni nostri – affronta questioni teologiche e filosofiche di fondo. Ed ecco la conclusione del Cardinale sul tema dei rapporti tra ragione e fede: «Ritengo che il razionalismo neoscolastico sia fallito nel suo tentativo di voler ricostruire i Praeambula Fidei con una ragione del tutto indipendente dalla fede, con una certezza puramente razionale; tutti gli altri tentativi, che procedono su questa medesima strada, otterranno alla fine gli stessi risultati. Su questo punto aveva ragione Karl Barth, nel rifiutare la filosofia come fondamento della fede, indipendentemente da quest’ultima: la nostra fede si fonderebbe allora, in fondo, su mutevoli teorie filosofiche»181. Nel più recente libro Il sale della terra l’insigne porporato scrive: «La sostanza di questa fede è che noi riconosciamo in Cristo il Figlio di Dio, vivente, incarnato e divenuto uomo; che per mezzo suo crediamo in Dio, il Dio della Trinità, creatore del cielo e della terra; che noi crediamo che questo Dio, in certo qual modo, si piega tanto, può diventare così piccolo, da preoccuparsi dell’uomo e da aver cominciato una storia con l’uomo, il cui veicolo principale, il cui luogo di espressione è la Chiesa»182. E davanti a Cristo bisogna decidersi: «Si tratta di una decisione [...] che ri64

guarda l’intera struttura della vita, che ha a che fare con me stesso nella parte più profonda di me. Se costruisco la mia vita senza o contro Dio, quel che io faccio sarà qualcosa di totalmente diverso da ciò che farei se fondassi la mia vita su Dio. Si tratta di una decisione che abbraccia la totalità della mia esistenza: come vedo il mondo, quel che voglio essere e quel che sarò. Non si tratta di una delle tante decisioni sul mercato delle possibilità che mi vengono offerte. Qui, al contrario, è in gioco tutto ciò che ha a che fare con la mia vita e con il suo destino»183. Riecheggiano in queste riflessioni di Ratzinger pensieri di Pascal. E vi riecheggiano nella persuasione da Ratzinger maturata già molto tempo addietro stando alla quale «la teologia scolastica, così come si era fissata, non fosse più uno strumento adatto a far sì che la fede dialogasse con il proprio tempo»184. E non diversamente da Ratzinger la pensa sull’argomento Karl Rahner: «La filosofia e la teologia neoscolastica, pur avendo al proprio attivo tante benemerenze, oggi sembra in qualche modo giunta alla fine»185. E sempre Rahner precisa che il Concilio Vaticano II «ha posto fine al periodo neoscolastico della teologia»186. E ancora il cardinale Ratzinger. Al termine della conferenza La fede e la teologia ai nostri giorni egli si chiede: «Come mai la fede ha ancora una sua possibilità di successo?». Questa la sua risposta: «[...] perché essa trova corrispondenza nella natura dell’uomo [...]. Nell’uomo c’è un inestinguibile desiderio di infinito. Nessuna delle risposte che si sono cercate è sufficiente; solamente il Dio che si è reso finito, per infrangere la nostra finitezza e condurla nella dimensione della sua infinità, è in grado di venire incontro alle esigenze del nostro essere»187. Soggiunge Ratzinger in Il sale della terra: la Chiesa, con il messaggio che Cristo le ha affidato, è una barca che, se non ci fosse, dovrebbe venir inventata: «Essa corrisponde a bisogni umani così profondi, è così profondamente addentro alla natura dell’uomo, così ancorata a ciò di cui egli ha bisogno e a quello che egli deve diventare, che è anche nell’interesse e a garanzia dell’uomo, se non vuol perdere le sue energie essenziali, che questa barca non vada a fondo»188. Dal cardinal Ratzinger a don Luigi Giussani. «Vi sono tanti scienziati che, approfondendo le loro esperienze di scienziati, 65

hanno scoperto Dio; e tanti scienziati che hanno creduto di eludere o di eliminare Dio attraverso la loro esperienza di scienza. Vi sono tanti letterati che attraverso una percezione profonda dell’esistenza dell’uomo hanno scoperto Dio; e tanti letterati che attraverso l’attenzione all’esperienza umana hanno eluso o eliminato Dio. Allora vuol dire – afferma don Luigi Giussani – che riconoscere Dio non è problema né di scienza, né di sensibilità estetica e neanche di filosofia come tale»189. È un problema di libertà190. Pure Althusser, nota don Giussani, pensava in questo modo, «quando diceva che tra esistenza di Dio e marxismo il problema non è di ragione, ma di opzione»191. E, in effetti, «alla fin fine, l’opzione è decisiva»192. «La fede – è ancora don Giussani a parlare – non è un umano accorgimento, una umana conquista, essa non è nemmeno una umana previsione, tanto meno un umano diritto: essa è puro dono»193. E da don Giussani al cardinale Giacomo Biffi – un vescovo che con coraggio affronta problemi pratici come quello della scuola libera, ma che non si tira indietro dinanzi alle questioni teoriche. Ebbene, di recente, in uno scritto apparso sul primo numero di «Nuntium» il cardinale Biffi si chiede: «I confini del “visibile” sono sì o no anche i confini dell’esistente? O, che è lo stesso: c’è o non c’è la possibilità che ci sia qualcosa oltre il mondo “visibile”?»194. L’uomo – precisa il cardinale Biffi – non può sfuggire a questo dilemma: «deve aderire all’una o all’altra delle due prospettive [...]. O noi siamo come delle rane gracidanti sulle rive dello stagno del nulla o siamo i fortunati invitati a una festa cosmica che non finirà»195. Siamo, dunque, di fronte ad una inevitabile scelta: una scelta «tra una chiara ed evidente insignificanza e una nascosta e trascendente significazione. O si da credito al nonsenso, che sembra connotare ogni cosa o ci si affida a un’intelligenza più alta»196. Ma come avviene siffatta decisiva adesione all’una o all’altra delle due prospettive? Risponde Sua Eminenza Biffi: «Questo “salto” in direzione del mistero è il solo modo che ci è consentito di evadere dalla gabbia della più atroce contraddizione. È un “salto” che sotto un profilo conoscitivo e psicologico mi secca e mi costa, ma non mi è data altra strada per uscire dall’insensatezza di tutto»197. Il cardinale Biffi adduce un indovinato paragone: «Se sto dormendo al secondo piano di un palazzo e si sviluppa dal basso un incendio 66

che ha già distrutto le scale, è ragionevole che mi butti dalla finestra dopo essermi accertato che sotto c’è il telone dei pompieri. Non è la discesa più comoda, quella che di istinto preferirei, ma è l’unica che può salvarmi»198. Ebbene, prosegue il cardinale di Bologna, «la Rivelazione cristiana è in sostanza l’annuncio che c’è il telone dei pompieri. È la “buona notizia”, il “Vangelo” [...]. È il fatto della “salvezza” che, per essere raggiunta, ci chiede il “salto” ardimentoso dell’atto di fede»199. C’è, dunque, una domanda inestirpabile che la ragione pone, ripropone senza sosta e custodisce: la domanda ultima, la “grande domanda”: una domanda razionalmente indecidibile, e che aspetta unicamente una risposta religiosa. È così, pertanto, che il cardinale Biffi sembra porsi sulla lunghezza d’onda di Pascal e di Kierkegaard: la scelta di fede è il “salto” che a parte hominis si compie per uscire dall’insensatezza di tutto, per dare senso al non-senso; per salvarsi dall’assurdo. Aver letto le pagine del cardinale Biffi ha costituito per me motivo di autentica soddisfazione. Quattro anni fa il cardinale Biffi, nella Prefazione al libro scritto da G. Sgubbi, Metafisica ed etica della non-violenza. Discussione sul fideismo, aveva affermato che «risalire gnoseologicamente il “ponte” che è stato lanciato fino a noi, non è per l’uomo arroganza o temerità; è solo prendere sul serio sia il disegno divino sia la nostra indole di incorreggibili indagatori delle cause ultime»200. Mi permetto di chiedere al cardinale Biffi: ma questo disegno divino è Cristo che ce lo rivela o piuttosto questo o quel filosofo? E come mai nel suo recente articolo il cardinale Biffi non imbocca la via del “ponte” e dice a chiare lettere che dall’assurdo si esce solo con un coraggioso “salto” nella fede? Pare proprio che ci sia un inintenzionale quantunque limpido accordo tra la concezione del cardinal Biffi e quella di don Giussani. E l’uno e l’altro non si trovano forse sulla stessa linea del cardinal Ratzinger, che è una linea sostanzialmente pascaliana? Aveva forse torto Pascal nel sostenere che la religione cristiana ha da aborrire in ugual misura il deismo e l’ateismo? È, di certo, necessaria una filosofia che renda libero lo spazio della fede, che distrugga quegli assoluti terrestri che hanno preteso negare lo spazio della fede; ebbene, questo genere di filosofia non è anche sufficiente per il credente? Ovvero dobbiamo pensare che senza 67

questa o quella metafisica, per esempio, senza la metafisica di Aristotile la fede cristiana sia davvero impossibile o priva di solide basi? In ogni caso: a fondamento della fede c’è Cristo o Aristotele? Più precisamente ancora: nel cammino verso la fede, fin dove arriva il “ponte” della ragione, e dove è necessario il “salto”? Sei anni orsono io ebbi l’ardire di porre alcune domande al cardinale Camillo Ruini sul rapporto tra ragione e fede. Sua Eminenza fu tanto cortese da rispondere. Non furono molti i punti di consenso con la mia posizione sostanzialmente pascaliana. E, tuttavia, ad un certo punto delle sue considerazioni, il cardinale Ruini affermava: «[...] Oggi dal punto di vista filosofico l’affermazione della conoscibilità razionale dell’esistenza di Dio deve accompagnarsi ad una più precisa consapevolezza che la questione di Dio coinvolge radicalmente la questione dell’uomo e del mondo, il senso e l’orientamento della nostra vita. Perciò non si può giungere ad affermare l’esistenza di Dio attraverso un percorso soltanto razionale, senza mettere in gioco la nostra libertà. Le vie che l’intelligenza ripropone non sono pertanto costringenti, ma richiedono l’assenso e l’impegno di tutta la persona, con la sua libertà [...]»201. Ecco, allora – prosegue il cardinale Ruini – che «va [...] superato, ed in effetti è ormai da tempo superato, un certo approccio piuttosto razionalistico alla questione dell’esistenza di Dio, che ha avuto spazio anche nella filosofia neoscolastica»202. In ogni caso, però, nonostante siffatte considerazioni, il cardinale Ruini ribadisce la validità «di un certo approccio razionalistico a Dio». Ma, allora, e di nuovo: se una filosofia viene considerata come precondizione (praeambulum) dell’accettazione della fede, non si lega e non si fa dipendere la fede da qualcosa di molto precario? La fede cristiana consiste nel credere che un uomo nato nel tempo è l’incarnazione di Dio. Ma vedere un uomo non è sufficiente a farci credere che quell’uomo è Dio. È la fede che mi fa vedere in un fatto storico qualcosa di eterno. E come è possibile tutto ciò? Questo è un problema che si risolve – dice ancora Kierkegaard – al di fuori dei torbidi maneggi della scienza e della filosofia. È un problema che si risolve con un atto di fede, con la fede che Gesù è l’incarnazione di Dio. E quest’atto di fede è sempre un “salto”, sia per chi è contemporaneo di Cristo sia per chi non lo è. 68

Note 1

Si veda sull’argomento P. BERNAYS, Gedanken zu dem Thema des Colloquiumus «Science, Philosophie, Foi», in AA.VV., Science, Philosophie, Foi, Bruxelles, Office International de Libraire, 1974, p. 84. 2 L. WITTGENSTEIN , Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 19141916, trad. it., Torino, Einaudi, 1964, prop. 4.003. 3 M. SCHLICK, Die Wende der Philosophie, in «Erkenntnis», 1, 1930, p. 39. 4 R. CARNAP, Überwindung der Metaphisik durch logische Analyse der Sprache, in «Erkenntnis», 2, 1932, p. 238. 5 Ibidem. 6 Ibidem. 7 R. CARNAP, Die alte und die neue Logik, in «Erkenntnis», 1, 1930, pp. 24-25. 8 H. REICHENBACH, Die philosophische Bedeutung der modernen Physik, in «Erkenntnis», 1, 1930, p. 69. 9 A.J. AYER, Linguaggio, verità e logica, trad. it., Milano, Feltrinelli, 1960, p. 154. 10 Ivi, p. 158. 11 Per un primo approccio alla tematica dei presupposti metafisici della scienza si può consultare D. ANTISERI, Trattato di metodologia delle scienze sociali, Torino, UTET Libreria, 1996, cap. 13. 12 P. RICOEUR, Le domande che la filosofia di oggi pone alla filosofia di domani, in AA.VV., Il mondo di domani, a cura di P. Prini, Roma, Abete, 1964, p. 166. 13 Sulle ragioni del superamento dell’antimetafisica dei neopositivisti (e sugli autori che ne hanno trattato) si possono consultare i capitoli 3, 4, 5 e 6 del mio: Filosofia analitica e semantica del linguaggio religioso, Queriniana, Brescia, 19914. Sempre sull’argomento cfr. D. ANTISERI - M. BALDINI, Lezioni di filosofia del linguaggio, Firenze, Nardini Editore, 1989, spec. i capp. 2 e 4 della Parte prima e i capp. 2, 3 e 4 della Parte seconda. 14 H. JONAS, La filosofia alle soglie del Duemila, trad. it., Genova, Il Melangolo, 1994, p. 48. 15 N. BOBBIO, in AA.VV., Che cosa fanno oggi i filosofi?, Milano, Bompiani, 1982, p. 165. 16 P. POUPARD, La fede cattolica, trad. it., Torino, SEI, 1984, p. 76. Scrive il matematico L. Schwartz (in AA.VV., Dio oggi, trad. it., Roma, A.V.E., 1967, p. 21): «Viviamo in un mondo che comprendiamo molto difficilmente e che, malgrado costanti progressi, resta pieno di misteri». 17 L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 19141916, cit., prop. 6.44. 18 N. MALCOM, Ludwig Wittgenstein, trad. it., Milano, Bompiani, 1960, p. 76. 19 Si veda, su questo tema, F. GONSETH, Discours d’ouverture, in AA.VV., Science, Philosophie, Foi, cit., p. 43.

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F. DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, trad. it., Firenze, Sansoni, 1966, pp. 355-356. 21 A. CAMUS, La peste, trad. it., Milano, Bompiani, 1995, p. 165. 22 Ivi, p. 167. 23 Ibidem. 24 Ibidem. 25 Ivi, pp. 168-169. 26 E. WIESEL, La notte, trad. it., Firenze, Editrice La Giuntina, 1980, pp. 37-39. 27 Ivi, pp. 39-40. 28 Ivi, pp. 77-78. Una soluzione in qualche modo diversa – da quella di Wiesel – del problema di Dio, allorché si tengono fermi davanti agli occhi gli orrori di Auschwitz, è rinvenibile in H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, trad. it., Genova, Il Melangolo, 1993; si vedano, per esempio, le pp. 33-30. A p. 35: «[…] Durante gli anni in cui si scatenò la furia di Auschwitz Dio restò muto. I miracoli che accaddero furono unicamente opera di uomini: le azioni di quei giusti, appartenenti ad altri popoli che, in modo isolato e sovente sconosciuto, accettarono l’estremo sacrificio per salvare, alleviare, se non erano in grado di far altro, condividere la sorte di Israele. Anche di costoro parlerò. Ma Dio tacque. Ed ora aggiungo: non intervenne, non perché non lo volle, ma perché non fu in condizione di farlo. Per ragioni che in modo decisivo derivano dall’esperienza contemporanea, propongo quindi l’idea di un Dio che per un’epoca determinata – l’epoca del processo cosmico – ha abdicato ad ogni potere di intervento nel corso fisico del mondo […]». 29 E. WIECHERT, I figli Jeromin, trad. it., Milano, 1950, pp. 179-180. Debbo la conoscenza di questo autore al prof. Gaspare Mura, al quale esprimo qui il mio ringraziamento. 30 S. K IERKEGAARD , Diario, trad. it., Brescia, Morcelliana, vol. X4 9, A489, p. 104. 31 M. HORKHEIMER, La nostalgia del totalmente Altro, trad. it., Brescia, Queriniana, 1972, p. 76. 32 Fede assurdista, abbracciata, per esempio, da J. Monod il quale (nel suo libro Il caso e la necessità, trad. it., Milano, Mondadori, 1970, p. 138) scrive che «l’uomo deve infine destarsi dal suo sogno millenario per scoprire la sua completa solitudine, la sua assoluta stranezza. Egli ora sa che, come uno zingaro, si trova ai margini dell’universo in cui deve vivere. Universo sordo alla sua musica, indifferente alle sue speranze, alle sue sofferenze, ai suoi crimini». 33 L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 19141916, cit., prop. 6.52. 34 L. WITTGENSTEIN, Lettere a Ludwig von Ficker, trad. it., Roma, Armando, 1974, pp. 72-73. 35 L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus, cit., p. 3. 36 Ivi, p. 82 (prop. 7). 37 P. ENGELMANN, Lettere di Ludwig Wittgenstein, trad. it., Firenze, La

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Nuova Italia, 1970, p. 70. Cfr. anche I. BACHMANN, Il dicibile e l’indicibile, trad. it., Milano, Adelphi, 1998, pp. 45-79. 38 F. PARAK, Wittgenstein a Cassino, Roma, Armando, 1978, p. 59. 39 M. O’C. DRURY, Conversazioni con Ludwig Wittgenstein, in «Riza Scienze», 32, 1989, p. 50. 40 Ibidem. 41 L. FEUERBACH, Per la critica della filosofia hegeliana, in Opere, ed. it., a cura di Claudio Cesa, Bari, Laterza, 1965, p. 154. 42 L. FEUERBACH, L’essenza del cristianesimo, trad. it., Milano, Feltrinelli, 1960, p. 39. 43 K. MARX, Introduzione alla critica della filosofia del diritto di Hegel, in La sinistra hegeliana, a cura di K. Löwith, trad. it., Bari, Laterza, 1960, p. 425. 44 S. FREUD, La mia vita e la psicanalisi, trad. it., Milano, Mursia, 1963, p. 107. 45 Ivi, p. 109. 46 Ivi, p. 110. 47 Ivi, pp. 110-111. 48 J.P. SARTRE, L’existentialisme est un humanisme, Paris, Nageli, 1946, p. 37. 49 J.P. SARTRE, L’être et le néant, Paris, 1943, p. 708. 50 M. FOUCAULT, Le parole e le cose, trad. it., Milano, Rizzoli, 1967, pp. 413-414. 51 La posizione dell’ateismo semantico è rinvenibile, esposta nel modo più chiaro, in A.J. AYER, Linguaggio, verità e logica, Feltrinelli, Milano, 1960, pp. 149-158. Sull’argomento si può consultare D. ANTISERI, Filosofia analitica e semantica del linguaggio religioso, Brescia, Queriniana, 19914, cap. 1. 52 A.J. AYER, Linguaggio, verità e logica, cit., p. 158. 53 K.R. POPPER: a) Logica della scoperta scientifica, trad. it., Torino, Einaudi, 1971; b) Congetture e confutazioni, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1972; c) Come io vedo la filosofia, trad. it., in «La Cultura», XIV, 4, 1976. Cfr. D. ANTISERI, Karl Popper, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1999, capp. 3, 4, 5, 8, 10, 11. 54 K.R. POPPER, Poscritto alla logica della scoperta scientifica. 1. Il realismo e lo scopo della scienza, trad. it., Milano, Il Saggiatore, 1984, p. 24. E a p. 124: «Tutta la nostra conoscenza è interpretazione alla luce delle nostre aspettative, delle nostre teorie, ed è perciò, in un modo o nell’altro, ipotetica». 55 K.R. POPPER, La società aperta e i suoi nemici, vol. 2, trad. it., Roma, Armando, 19962, p. 474. 56 A. TARSKI, La concezione semantica della verità e i fondamenti della semantica, in AA.VV., Semantica e filosofia del linguaggio, a cura di L. Linsky, trad. it., Milano, Il Saggiatore, 1969, p. 62. 57 H.-G. GADAMER, Verità e metodo, trad. it., Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1972. 58 Cfr. D. ANTISERI, Le ragioni del pensiero debole, Roma, Borla, 19932, p. 19 e ss.

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K.R. POPPER, Miseria dello storicismo, trad. it., Milano, Feltrinelli, 1975. Sugli errori e i danni dello storicismo, così come questi sono stati evidenziati e criticati da Popper, si può consultare anche D. ANTISERI, Karl Popper, cit., pp. 151-161. 60 F.A. von HAYEK, Legge, legislazione e libertà, trad. it., Il Milano, Saggiatore, 1986, p. 559. Una serrata critica dello storicismo Hayek la sviluppa nella parte terza (intitolata Comte e Hegel) del volume L’abuso della ragione, trad. it., Roma, SEAM, 1997, pp. 289-315. 61 K.R. POPPER, La società aperta e i suoi nemici, trad. it., Roma, Armando, 1973-1974, nuova ed. 1996. 62 H. KELSEN, La democrazia, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1966. 63 F.A. von HAYEK: a) La società libera, trad. it., Firenze, Vallecchi, 1969, Roma, nuova ed. SEAM, 1998; b) La via della schiavitù, trad. it., Milano, Rusconi, 1995. 64 Sui fondamenti della “Società aperta” o “Grande Società” – o “Stato di diritto” – come sono stati elaborati da K.R. Popper, H. Kelsen, L. von Mises e F.A. von Hayek si può vedere D. ANTISERI, Trattato di metodologia delle scienze sociali, cit., capp. 26 e 27. 65 K.R. POPPER: a) La società aperta e i suoi nemici, vol. 1, trad. it., Roma, Armando, 19962, p. 200; b) Utopia e violenza, in Congetture e confutazioni, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1972, p. 612. Per una critica del pensiero utopico, sviluppata su linee popperiane, si veda M. BALDINI, La storia delle utopie, Roma, Armando, 1994. 66 F.A. von HAYEK, La società libera, trad. it., Firenze,Vallecchi, 1969, p. 82. 67 N. BOBBIO, in AA.VV., Che cosa fanno oggi i filosofi?, cit., p. 165. 68 Ivi, p. 167. 69 Ibidem. 70 Ivi, p. 169. 71 Ivi, p. 168. 72 Ivi, p. 175. Su questa tematica si veda V. Paglia, Lettera ad un amico che non crede, Milano, Rizzoli, 1998, pp. 14-29. 73 L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 19141916, cit., p. 174. 74 M. de MONTAIGNE, Apologia di Raimondo Sebond, in Saggi, vol. 2, trad. it., Milano, Mondadori, 1985, p. 171. 75 Ibidem. 76 Ivi, pp. 119-120. 77 P. CHARRON, Piccolo trattato della saggezza, trad. it., Napoli, Bibliopolis, 1985, p. 100. 78 Ivi, p. 127. 79 Cfr. Epist, CXXII, 5 ad Consentium. 80 B. PASCAL, Pensieri, trad. it. a cura di P. Serini, Milano, Mondadori, 1962, p. 144. 81 Ibidem.

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Op. cit., p. 115. Ibidem. 84 Ibidem. 85 S. KIERKEGAARD, Diario, vol. 3, p. 28. 86 S. KIERKEGAARD, Timore e tremore, in Opere, vol. 2, Casale Monferrato, Piemme, 1995, p. 332. 87 S. KIERKEGAARD, Diario, vol. 3, pp. 245-246. 88 E. AGAZZI, Scienza e fede, Milano, Editore Massimo, 1983, p. 157. 89 Cfr. la nota 169 di questa parte del presente libro. 90 L.A. MURATORI, Delle forze dell’intendimento umano o sia il pirronismo confutato. Trattato di Lodovico Antonio Muratori, bibliotecario del Serenissimo Signor Duca di Modena, opposto al libro del preteso Monsignor Huet intorno alla debolezza dell’umano intendimento, Venezia, Presso Giambattista Pasquali, 1745, pp. 55-71. 91 Ivi, pp. 134-147. 92 Ivi, pp. 166-174. 93 Ivi, pp. 175-182. 94 Ivi, pp. 134-147. 95 P.-D. HUET, Trattato filosofico Della Debolezza dello Spirito Humano, Padova, Presso Gian Battista Gonzatti, 1724. 96 Ivi, p. 5. 97 Ivi, p. 10. 98 Ivi, pp. 48-49. 99 Ivi, p. 55. 100 Ibidem. 101 Ivi, p. 50. 102 Ivi, p. 153. 103 Ivi, p. 159. 104 D. ANTISERI, Le ragioni del pensiero debole, Roma, Borla, 19931, 19952; trad. ingl. The Weak Thought and Its Strength, Aldershot, Avebury, 1995. 105 G. VATTIMO, Credere di credere, Milano, Garzanti, 1997. 106 K.R. POPPER, Tutta la vita è risolvere problemi, trad. it., Milano, Rusconi, 1996, spec. cap. XII. 107 G. VATTIMO, Credere di credere, cit., p. 53. 108 F.A. von HAYEK, La presunzione fatale, trad. it., Milano, Rusconi, 1997, p. 201. 109 Ivi, pp.213-214. 110 G. VATTIMO, Credere di credere, cit., pp. 102-103. 111 Ivi, pp. 89-90. 112 B. PASCAL, Pensieri, cit., p. 126. 113 L.A. MURATORI, Delle forze dell’intendimento umano, cit., p. 313. 114 G. VATTIMO, Credere di credere, cit., p. 97. 115 G. VATTIMO, Prefazione, a M. HEIDEGGER, Che cosa significa pensare?, trad. it., Milano, Sugarco, 1988, p. 29. 83

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Ivi, p. 30. Ibidem 118 D. ANTISERI, Le ragioni del pensiero debole, cit., p. 77. 119 G. VATTIMO, Credere di credere, cit., p. 82. 120 Ivi, pp. 75-76. 121 S. KIERKEGAARD, Diario, III, p. 289. 122 Sul tema della stultitia crucis si veda quanto opportunamente scrive M. Cambula, Sapere e credere, Noci, Edizioni La Scala, 1998, p. 105 e ss. 123 G. VATTIMO, Credere di credere, cit., p. 76.. 124 Ivi, p. 91. 125 P. POUPARD, La fede cattolica, cit., p. 77. 126 M. HEIDEGGER, Ormai solo un Dio ci può salvare [Intervista con il settimanale tedesco Der Spiegel (1966), pubblicata nel 1970], trad. it., Parma, Guanda, 1987, p. 136. 127 Ivi, p. 137. 128 V.E. FRANKL, La sofferenza di una vita senza senso, trad. it., Torino, L.D.C. Editrice, 1978, p. 26. 129 S. KIERKEGAARD, Il concetto dell’angoscia, in Opere, I, trad. it., Firenze, Sansoni, 1972; Casale Monferrato, nuova ed. Piemme, 1995, p. 466. 130 Ivi, p. 468. 131 Ivi, p. 474. 132 Ivi, p. 466. 133 S. KIERKEGAARD, Diario, cit., vol. VII A 130. 134 Ivi, vol. VII A 192. 135 A Diogneto, cit., a cura di S. Zincone, Roma, Borla, 198714, pp. 63-76 passim. 136 G. GALILEI, Lettera a Madama Cristina di Lorena, in Opere, V, p. 208. 137 Cfr. M. CAMBULA, Sapere e credere, cit., p.p. 111-114. 138 B. PASCAL, Pensieri, cit., p. 99. 139 A. RIGOBELLO, Note su cristianesimo e filosofia oggi, in Perché la filosofia, Brescia, La Scuola, 1979, p. 121. 140 V. MATHIEU, Tesi per una metafisica dell’esperienza, in AA.VV., Metafisica oggi, Brescia, Morcelliana, 1983, p. 37. 141 Ivi, p. 36. 142 L. PAREYSON , Filosofia ed esperienza religiosa, in Annuario Filosofico, 1, Milano, Mursia, 1985, p. 50. 143 Ibidem. 144 P. PRINI, Cristianesimo e filosofia, in Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Perugia, vol. 1, 1962-1963, p. 129. 145 Ivi, p. 140. 146 G. MORRA, Dio senza Dio, Bologna, Patron, 1970, p. 273. 147 Ivi, p. 267. 148 Ivi, p. 274. 149 P. MAZZOLARI, Della fede, a cura di R. Colla, Vicenza, La Locusta, 1973, p. 33. 117

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M. BALDINI, Il linguaggio dei misteri, Brescia, Queriniana, 1986, p. 10. Ibidem. 152 Ivi, p. 11. 153 L. SARTORI, Il problema di Dio, nella teologia oggi, in AA.VV., Il problema di Dio in filosofia e in teologia oggi, Milano, Editore Massimo, 1982, p. 25. 154 Ibidem. 155 Di Enrico Castelli mi limito a richiamare il volume Esistenzialismo teologico (Roma, Abete, 1966; il volume era stato edito in francese, presso Hermann di Parigi, nel 1948). Castelli era dell’avviso che «una filosofia cristiana è possibile solo se è anti-intellettualistica» (Esistenzialismo teologico, cit., p. 16). E aggiungeva che «il pari [di Pascal] non conclude per un sapere intorno a Dio, non sostituisce una conoscenza a un’ignoranza, ma crea una situazione, data la quale l’ignoranza non diviene indifferenza» (Op. cit., p. 40). Per Castelli non è attraverso le dimostrazioni che si possa arrivare a credere (Op. cit., p. 48). «Il credere è un dono che si può perdere, non se si perde la ragione, ma se si perde la capacità di valersi della ragione come strumento per far sì che il dono sia conservato nell’intimo, là dove la ragione non l’ha messo» (Op. cit., pp. 48-49). In breve, quel che Castelli sostiene è che «la ragione non è donativa, è soltanto riconoscente» (Op. cit., p. 49). 156 Di Augusto Del Noce non va dimenticato il fondamentale lavoro Il problema dell’ateismo. Il concetto di ateismo e la storia della filosofia come problema, Bologna, Il Mulino, 1964. Oltre l’ampia Introduzione e le Riflessioni sull’opzione ateistica (pp. 125-164) si vedano, in tale opera, le profonde considerazioni teoriche contenute nel saggio Il problema Pascal e l’ateismo contemporaneo (pp. 165-299). 157 G. van der LEEUW, Fenomenologia della religione, trad. it., Torino, Boringhieri, 1960, p. 415. 158 Ivi, p. 536. 159 R. OTTO, Il sacro, trad. it., Milano, Feltrinelli, 1966, p. 17. 160 Ibidem. 161 L. PAREYSON, Filosofia ed esperienza religiosa, in Annuario filosofico, 1, 1985 (Milano, Mursia), p. 7. 162 Ivi, p. 17. 163 Ivi, p. 27. 164 Ibidem. 165 Ivi, p. 28. 166 Ibidem. 167 Ivi, p. 17. 168 Ivi, p. 31. 169 G. S ANTINELLO , Il pensiero cristiano nel secondo dopoguerra, in AA.VV., La cultura filosofica italiana dal 1945 al 1980 nelle sue relazioni con altri campi del sapere, Napoli, 1982, rist. in G. SANTINELLO, Immagini e idee dell’uomo, Rimini, Maggioli Editore, 1984, p. 279. 170 Ibidem. 151

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H.-G. GADAMER, Kant e la filosofia ermeneutica, in «Rassegna di teologia», 3, 1975, p. 216. 172 M. CLAVEL, Quello che io credo, trad. it., Roma, Città Nuova, 1978, p. 35. Per alcuni significativi tentativi di apologetica cattolica su base kantiana si può vedere la parte IV del mio libro: Teoria della razionalità e ragioni della fede. Lettera filosofica con risposta teologico-filosofica del Card. Camillo Ruini, Cinesello Balsamo, San Paolo, 1994, pp. 144-210. Cfr. pure D. ANTISERI, La filosofia kantiana e la cultura cattolica, in AA.VV., Kant e la filosofia della religione, a cura di M. Perillo, Brescia, Morcelliana, 1996, pp. 637-660. 173 M. O’C. DRURY, Conversazioni con Ludwig Wittgenstein, cit., p. 50. 174 F.A. von HAYEK, Legge, legislazione e libertà, trad. it., Il Milano, Saggiatore, 1984, pp. 266-267. 175 M. LACROIX, L’ideologia della New Age, trad. it., Milano, Il Saggiatore, 1998, p. 56. 176 S. AGOSTINO, Sermo CXVII, cap. 3. 177 TERTULLIANO, Sulla prescrizione contro gli eretici (7, 1-9), in Opere Scelte, trad. it., da C. Moreschini, Torino, UTET, 1974, p. 128. 178 TERTULLIANO, Apologetico (XLVII), trad. it. di E. Bonaiuti, revisione di E. Paratore, Bari, Laterza, 1972, p. 241. 179 TERTULLIANO, Sulla carne di Cristo (5, 1-4), in Opere Scelte, cit., p. 731. 180 R. FÜLÖP-MILLER - F. ECKSTEIN (a cura di), Der unbekannte Dostojewski, München, 1926, p. 214. Cit. da K. ADAM, Gesù il Cristo, trad. it., Brescia, Morcelliana, 196410, p. 13. 181 J. RATZINGER, La fede e la teologia ai nostri giorni, in «La Civiltà Cattolica», 1966, IV, Quaderno 3515, p. 490. 182 J. RATZINGER, Il sale della terra. Un nuovo rapporto sulla fede: in colloquio con Peter Seewald, trad. it., Cinisello Balsamo, San Paolo, 1997, pp. 21-22. 183 Ivi, p. 23. 184 Ivi, p. 84. 185 K. RAHNER, La fatica di credere, trad. it., Milano, Edizioni Paoline, 1986, p. 98. 186 Ivi, p. 100. 187 J. RATZINGER, La fede e la teologia ai giorni nostri, cit., p. 490. 188 J. RATZINGER, Il sale della terra, cit., p. 18. 189 L. GIUSSANI, Il senso religioso, Milano, Jaca Book, 1986, p. 161. 190 Ibidem. 191 Ibidem. 192 Ibidem. 193 L. GIUSSANI, Tracce d’esperienza cristiana, Milano, Jaca Book, 1971, p. 62. 194 G. BIFFI, Al bivio tra l’assurdo e il mistero in «Nuntium», p. 58. 195 Ivi, p. 59. 196 Ivi, p. 60.

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Ibidem. Ibidem. 199 Ibidem. 200 G. B I F F I , Prefazione a G. S G U B B I , Metafisica ed etica della nonviolenza. Discussione sul fideismo, Roma, Città Nuova, 1995. Cfr. anche G. BIFFI, Ripartire dalla verità. Un dialogo possibile, a cura di E. Ghini, Milano, Mondadori, 1997, pp. 19-31. Non è qui fuor di luogo richiamare il fatto che in un dibattito alla BBC, del luglio 1970, il metropolita Bloom si rivolge all’atea Marghanita Laski con queste parole: «In un certo senso lei è nella mia stessa posizione. Lei ha una certezza per quanto riguarda la non-esistenza di Dio che è in un certo senso un atto di fede, perché anche lei, come me, può portare ben poche prove esterne» (A. BLOOM, Dio e l’uomo, trad. it., Brescia, Queriniana, 1976, p. 6). 201 C. RUINI, Piccola risposta teologico-filosofica al professor Dario Antiseri, in D. ANTISERI, Teoria della razionalità e ragioni della fede, Cinesello Balsamo, San Paolo, 1994, p. 258. 202 Ibidem. 198

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Indice dei nomi

Adam K., 76 Agazzi E., 73 Agostino (Sant’), 36, 48, 61, 76 Althusser L., 28, 66 Antiseri D., 69, 71, 72, 73, 74, 76, 77 Aristotele, 47, 52, 68 Arrigo IV (Re di Francia), 43 Ayer A.J, 16, 29, 47, 69, 71 Bachmann I., 71 Baldini M., 56, 57, 69, 72, 75 Barth K., 64 Bauer B., 26 Bernays P., 69 Biffi G., 62, 66-67, 76, 77 Blondel M., 64 Bloom A., 77 Bobbio N., 33, 34, 35, 69, 72 Bonaiuti E., 76 Buchanan J., 41 Büchner L., 25, 47 Cambula M., 74 Camus A., 19, 22, 70 Carnap R., 15, 47, 69 Cartesio R., 37, 42, 47, 52 Castelli E., 57, 75 Cesa C., 71 Charron P., 36, 37, 39, 55, 72 Clavel M., 61, 76 Cuvier G., 51 Darwin CH., 51 Del Noce A., 57, 75 Dostojewskij F.M., 62, 70 Drury M. O’C., 25, 71, 76 Eckstein F., 76 Engelmann P., 70

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Feuerbach L., 26, 71 Ficker L. (von), 23, 70 Foucault M., 28, 71 Frankl V.E., 49, 74 Freud S., 27, 48, 71 Fülöp Miller R., 76 Gadamer H.G., 31, 60, 71, 76 Galilei G., 51, 74 Ghini E., 77 Gilson E., 22, 56 Gioiosa (Religioso Cappuccino), 43 Giovanni Paolo II, 53-54 Giussani L., 65-66, 76 Goethe J. W., 45 Hayek F.A. (von), 31, 32, 39, 41, 72, 76 Hegel G.W.F., 26, 27, 29, 42, 45, 71 Heidegger M., 44, 47, 48, 73, 74 Horkeimer M., 23, 70 Huet P.D., 38, 39, 73 Hume D., 31 Husserl E., 56 Hyppolite J., 26 Jonas H., 69, 70 Kant I., 60, 61, 76 Kelsen H., 31, 32, 72 Kierkegaard S., 12, 22, 26, 36, 37, 42, 43, 45, 46, 49, 50, 55, 61, 63, 68, 70, 73, 74 Lacan J., 28, 48 Lacroix M., 61, 76 Lasky M., 77 Leeuw G., (von der), 58, 75 Leibniz G.W., 17, 37 Leopardi G., 17

Lévi-Strauss C., 28 Liebig J. (von), 26 Linneo C., 51 Linsky L., 71 Lutero, 50 Malcolm N., 69 Marcel G., 34, 49, 53, 64 Marx K., 27, 71 Mathieu V., 55, 74 Mazzolari P., 57, 74 Merleau-Ponty M., 27 Mises L. (von), 632, 41, 72 Moleschott J., 25, 47 Monod J., 70 Montaigne M. (de), 36, 37, 39, 55, 72 Moreschini C., 76 Morra G., 56, 74 Mozart W.A., 15 Muratori L.A., 38, 43, 73 Mynster I.P., (vescovo luterano), 45 Nietzsche F., 47 Otto R., 58, 75 Paglia V., 72 Parak F., 25, 71 Paratore E., 76 Pareyson L., 55, 58-59, 64, 74, 75 Pascal B., 13, 36, 37, 39, 42, 43, 52, 53, 55, 62, 64, 67, 72, 73, 75 Perillo P., 76

Popper K.R., 31, 32, 41, 71, 72 Poupard P., 17, 69, 74 Prini P., 55, 56, 74 Rahner K., 65, 76 Ratzinger J., 62, 64, 65, 76 Reichenbach H., 16, 69 Renan E., 28 Ricoeur P., 16, 69 Rigobello A., 55, 74 Rosmini A., 53, 63 Ruini C., 62, 68, 76, 77 Santinello G., 75 Sartori L., 57, 75 Sartre J.P., 27, 71 Schlick M., 15, 69 Schwartz L., 69 Scoto G. D., 64 Sebond R., 36 Sgubbi G., 67, 77 Tarski A., 31, 71 Tertulliano, 60, 62, 76 Tommaso (di Aquino), 37 Vattimo G., 39-46, 73, 74 Vogt K., 25 Wiechert E., 22, 70 Wiesel E., 20, 21, 70 Wittgenstein L., 18, 23, 24, 25, 32, 35, 48, 61, 69, 70, 71, 72, 76

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