Corpo e religione 8831173553, 9788831173551

Tema quanto mai affascinante, il rapporto tra corpo e religione si presenta denso di implicazioni antropologiche, filoso

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Corpo e religione
 8831173553, 9788831173551

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CORPO E RELIGIONE

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Gaspare Mura - Roberto Cipriani (edd.)

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CORPO E RELIGIONE presentazione del card. Paul Poupard

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Testatina

In copertina: Scena di sacrificio umano azteco. Madrid, Museo d’America. © 1996, Foto Scala, Firenze. Grafica di Rossana Quarta © 2009, Città Nuova Editrice Via Pieve Torina, 55 - 00156 Roma tel. 063216212 - e-mail: [email protected] ISBN 978-88-311-7355-1 Finito di stampare nel mese di maggio 2009 dalla tipografia Città Nuova della P.A.M.O.M. Via S. Romano in Garfagnana, 23 00148 Roma - tel. 066530467 e-mail: [email protected]

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Presentazione

Percepisco con chiarezza e con forza la necessità e l’urgenza di un dialogo tra le religioni, tra i credenti di tutto il mondo, per promuovere un futuro di pace per l’umanità e una convivenza che sia davvero serena e solidale, da costruire all’insegna di un nuovo umanesimo plenario e planetario. Nell’incontro del 25 settembre 2006 1, il Santo Padre lo ha riaffermato con chiarezza: «Il dialogo interreligioso e interculturale costituisce una necessità per costruire insieme il mondo di pace e di fraternità, ardentemente auspicato da tutti gli uomini di buona volontà». Il centro, il cuore di questo nuovo umanesimo non può che essere costituito da alcuni fondamentali elementi culturali, a cominciare proprio da una visione dell’uomo, accolta e condivisa da tutti. E nella visione della persona umana, nell’antropologia adottata da ciascuna religione, il senso, il valore, l’importanza del corpo umano è determinante. Mi viene in mente l’espressione del famoso poeta statunitense Walt Withman, che scriveva: «If anything is sacred, the human body is sacred [Se c’è una cosa che è sacra, questa è il corpo umano]». In ambito cristiano la riflessione sul corpo è assolutamente essenziale, a motivo della Incarnazione di Cristo. Incarnandosi, Gesù non perde affatto la sua divinità. Egli rivela così che non c’è incompatibilità assoluta tra la trascendenza divina e la mortalità corporea umana. Riflettendo su questo mistero, cuore e nucleo essenziale della fede cristiana, l’Autore della Lettera agli Ebrei, riprendendo le parole del Salmo 40, riportate nella versione dei Settanta, afferma: «Entrando nel mondo Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrifico né offerta, un corpo invece mi hai preparato» (Eb 10, 5). 1 Il 25 settembre 2006, nel Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo ha avuto luogo l’Udienza concessa dal Santo Padre agli Ambasciatori dei Paesi a maggioranza musulmana accreditati presso la Santa Sede e agli esponenti della Comunità musulmana in Italia.

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Presentazione

Sappiamo bene come, sia nella tradizione cristiana, sia nelle altre tradizioni religiose, il dibattito sul valore del corpo umano sia stato, e rimane, sempre vivace e determinante per la vita morale e per il comportamento in genere. Per questo ritengo veramente opportuna e significativa una tale opera scientifica che verta sulla concezione del corpo nelle religioni universali e che consenta, al di là di banalizzazioni e luoghi comuni, purtroppo sempre frequenti, di confrontare i diversi sistemi antropologici e le diverse considerazioni del corpo umano, per capire se e fino a qual punto sia possibile una comprensione comune alle religioni e una condivisione dell’attenzione e del rispetto per il corpo umano. Tale lavoro comune ci consente di focalizzare l’attenzione su aspetti e ambiti in cui il corpo umano è, in qualche modo, protagonista. È una prospettiva di studio che reputo non solo affascinante dal punto di vista della ricerca scientifica e filosofica, oltre che religiosa, ma anche e, direi, soprattutto opportuna e urgente nella nostra realtà, segnata dal pluralismo culturale e religioso e dal fenomeno della globalizzazione, in cui si rischia di appiattire tutto, di sopprimere le identità e le diversità in un processo di omologazione che favorisce il sincretismo e promuove una visione dell’uomo, e delle sue dimensioni, sicuramente riduttiva e insoddisfacente. Per averne una riprova, basterebbe analizzare la pubblicità martellante proposta dai media per rendersi conto di quale peso abbia il corpo umano nella comunicazione e nella cultura di massa, e di come esso sia considerato, facendone a volte un idolo assoluto, a volte l’elemento più insignificante e disprezzato, un prodotto di consumo alla stregua di tanti altri. Proprio per questo, il dialogo interculturale e interreligioso, per essere davvero fecondo ed efficace, deve lasciare la più o meno consapevole genericità e vaghezza, per vertere su aspetti e contenuti concreti, su temi culturali e sociali essenziali e fondamentali per la convivenza umana. Il tema scelto: “Corpo e religione”, ci aiuta molto opportunamente e utilmente a sviluppare questo dialogo, a favorire il confronto tra culture e religioni, sia guardando alle grandi tradizioni del passato sia, soprattutto, ponendosi l’interrogativo sull’avvenire, su quale uomo vogliamo per il futuro. Dipende proprio dalla risposta a questo cruciale interrogativo il futuro del nostro mondo e della nostra umanità. Sono tante, infatti, le visioni antropologiche che variano secondo le cosmologie, le filosofie e le teologie, come tanti, e talvolta contrastanti, sono gli approcci alle

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Presentazione

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problematiche relative alla salute del corpo, al dominio della vita, al rapporto tra corpo e anima, alla sete di una sopravvivenza del corpo o alla speranza di un’altra vita. Ma nonostante tutte le differenze, tali problematiche entrano a pieno titolo nel patrimonio comune delle religioni, come ci dimostra, ad esempio, l’ultima affermazione di fede del Credo dei cristiani, riportata dal Simbolo Apostolico, in cui recitiamo: «Credo nella risurrezione della carne e nella vita eterna». Ci auguriamo, perciò, molto cordialmente, che questo studio offra a tutti, e non solo al mondo universitario, una proposta culturale che contribuisca efficacemente, per la sua chiarezza e la sua profondità, a costruire e a rafforzare quel nuovo umanesimo per cui ci sentiamo tutti impegnati e che deve illuminare il terzo millennio appena iniziato. PAUL CARD. POUPARD

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Introduzione

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Introduzione

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Introduzione

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di

Gaspare Mura

Questo ampio volume raccoglie i contributi di un importante Convegno internazionale dedicato al tema Corpo e religione 1, che ha fatto seguito ai precedenti dedicati rispettivamente a Il fenomeno religioso oggi. Tradizione, mutamento, negazione, e Testo sacro e religioni. Ermeneutiche a confronto, di cui sono stati pubblicati i testi 2. L’accoglienza favorevole da parte degli studiosi, e il successo editoriale dei volumi pubblicati, hanno motivato i docenti che da molti anni, e con spirito di collaborazione interdisciplinare, si occupano scientificamente del fenomeno religioso e provengono da diverse istituzioni accademiche (La Sapienza, Tor Vergata, Roma Tre, Università Urbaniana e Lateranense), appartenendo così a diverse aree e metodologie di ricerca, ad approfondire anche l’importante tema: Corpo e religione. Diverse provenienze accademiche e diverse metodologie ed aree di ricerca: questo evento non usuale indica il carattere inter-disciplinare ed inter-accademico degli studi qui proposti. La scelta del tema – corpo e religione – è dovuta alla consapevolezza che il rapporto con la corporeità è denso di implicazioni antropologiche, filosofiche e teologiche in tutte le religioni, le quali vanno dalla considerazione del corpo sotto un’angolatura puramente morale ed ascetica, fino alla sua mortificazione estrema, all’assunzione del corpo come simbolo di una realtà più alta: quella dell’unione dei fedeli in una comunità e quella dell’unione sponsale di Dio con il suo popolo. A ciò si aggiunga il fatto che se le società secolarizzate dell’Occidente hanno elaborato una cultura della corporeità che si è posta in netto contrasto con il messaggio religioso, fino a divenire il principale pretesto di rifiuto della religione per grandi mas-

1 Il Convegno Corpo e religione si è tenuto nei giorni 5, 6 e 7 ottobre 2006 presso il Centro Congressi dell’Università di Roma «La Sapienza» e presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Roma Tre. 2 I testi citati sono stati editi dall’Urbaniana University Press, Roma, rispettivamente nel 2002 e nel 2006.

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Introduzione

se, viceversa nelle società di matrice islamica va emergendo una cultura della negazione del corpo, fino al suicidio-omicidio, che André Glucksmann ha qualificato come “nichilismo”, ma che va compresa anche in rapporto alla religiosità di riferimento. Avviene così che oggi la comprensione stessa della religione e la sua accettazione o negazione passano attraverso il significato e il valore che si attribuisce al corpo. Ed è questo il motivo per il quale il Convegno, come i precedenti, ha dato ampio spazio alle discipline antropologiche e alle scienze umane che hanno approfondito in modo specifico il senso della corporeità, e che pertanto devono essere considerate oggi come indispensabili ausiliarie della filosofia della religione e della stessa teologia. La filosofia e la teologia sono infatti chiamate a ripensare a fondo esse stesse il rapporto con la corporeità, il legame che unisce lo spirito e la materia, onde evitare di cadere o in uno spiritualismo astratto e disincarnato che, negando il corpo e considerando come “male” la materia, finisce di fatto per togliere alla religione la capacità di dare senso al corpo e quindi alla vita storica dell’uomo; oppure di affermare un dominio sul corpo tale da annientarlo nel suo valore, fino al nichilismo. Entrambe le impostazioni, pur opposte, sono tuttavia ispirate a quella che si potrebbe qualificare come una importante componente dell’odierna cultura globale, ovvero la religiosità gnostica. È la gnosi, infatti, fin dalle sue radici nella cultura sincretistica alessandrina, come ha magistralmente mostrato Hans Jonas nel suo celebre studio 3, che condannando il corpo come male, e vedendo solo nella dimensione intellettuale o spirituale la vera identità dell’uomo, giustifica sia l’abbandono del corpo ai propri istinti, senza moralità, sia il disprezzo del corpo, fino al suicidio religioso. La vastità dei temi trattati emerge con chiarezza dalla semplice lettura del sommario dell’opera. Che è introdotta da un importante intervento del cardinale Paul Poupard sul dialogo inter-religioso come parte del dialogo inter-culturale, oggi ai vertici degli interessi della Chiesa anche per i suoi risvolti nella formazione di una cultura della pace. E che affronta, con Ferrarotti e Conci, di cui vogliamo qui fare memoria per la recente dipartita, le prospettive antropolo-

3 Lo studio di Hans Jonas, Lo gnosticismo, a cura di R. Farina, presentazione di M. Simonetti, SEI, Torino 1991, costituisce un punto di riferimento fondamentale sia per la conoscenza delle origini e la storia dello gnosticismo, sia soprattutto per comprendere i legami che esso ancora istituisce con aspetti importanti della cultura filosofica ed etico-religiosa contemporanea.

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Introduzione

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giche del rapporto tra il linguaggio della corporeità e il sacro, e tra l’eros e la “Carne divina”; quelle sociologiche delle nuove dinamiche del corpo (Cipriani); per soffermarsi in seguito sulla concezione del corpo nelle religioni universali: l’ebraismo (Della Rocca), il cristianesimo (Sanna), l’induismo, qui inteso come semitizzazione delle molteplici religioni indiane operato dagli studiosi europei (Dhavamony), il buddhismo (Marchianò), l’Islam (Scognamiglio), il confucianesimo e il taoismo (Lee Jae-Suk), e il bahaismo (Savi); senza dimenticare la relazione tra la corporeità e il sacro nel mondo antico ed orientale, dal “somatocentrismo” dell’Antico Egitto (Roccati), alla concezione della corporeità nel mito e nel rito delle religioni antiche del Tibet, in cui il corpo sfuma tra somatocentrismo e polisomatismo, in dimensioni per noi difficili da controllare (De Rossi Filibeck), al corpo contrattuale e divinizzato della visione vedica e tantrica (Sacha Malgorzata); ma soffermandosi in particolare sulla relazione tra corpo e sacro nel Cantico dei Cantici (Kajon), di cui si fa una lettura contestuale che mette in luce “la fiamma di Jah”, come elemento centrale dell’autentica esperienza religiosa (Barbiero). Il volume affronta altresì questioni di rilevante attualità culturale: in particolare si sofferma sul ruolo della corporeità nell’ esperienza religiosa dei vari sincretismi oggi emergenti, quali i culti popolari del Brasile (Motta), le vie della salute e della salvezza nel New Age (Olivieri Pennesi), e nella religiosità carismatica cattolica (Roldán); nonché il rapporto tra corporeità, sessualità e dimensione religiosa sia nella tradizione cristiana (Palumbieri), che nelle religioni orientali (Petrini). Il volume non dimentica l’importante tema della “morte di Dio” propria della secolarizzazione e il suo superamento nel post-secolarismo (De Vitiis); e dedica uno spazio particolare alla raffigurazione del corpo nell’arte religiosa, quella romana del Seicento e del Settecento (Casale), e l’arte decadente del Post-Human (Caneva); ed approfondisce con particolare acribia il tema del rapporto tra corpo, donne e religione (Brezzi), dalla ritenuta incapacità dell’illuminazione da parte della donna nel buddhismo, alla sua esaltazione nel Cantico, fino alla concezione del corpo femminile come luogo antropologico e strumento di mediazione nonché alla sublimazione del corpo nella mistica femminile (Tortolici), del linguaggio del corpo femminile come paradigma etico (Di Nicola), e alle nuove questioni morali poste dal femminismo (Prinzivalli). Concludono il volume i saggi sul corpo nella mistica, ascetica, escatologia (Mazzotta) e nel platonismo e antiplatonismo nel pensiero teologico cristiano (Cristiani).

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Introduzione

Gli studi del volume che qui viene presentato possono ben considerarsi una vera Summa delle tematiche concernenti i rapporti tra corpo e religione, perché offrono una enorme ricchezza di tematiche affascinanti, e nel loro insieme esprimono un know-how di altissimo livello, caratterizzato non solo dalla scientificità dei singoli interventi, ma anche dalla esemplarità di un dialogo tra studiosi rispettoso delle singole identità di ricerca e di impostazione, un dialogo di stile socratico, non sincretistico, ma orientato alla verità. Le religioni non parlano solo di Dio, ma mettono in luce la densità simbolica del corpo, che si situa tra biologia e cultura, tra l’avere corpo ed essere corpo; non c’è religione che non abbia detto qualcosa del corpo, così che il corpo diviene via della trascendenza e del sacro. Contrariamente a quanto si potrebbe ritenere, infatti, le religioni che dovrebbero occuparsi dello spirito, in realtà si occupano moltissimo di cose che riguardano il corpo, con prescrizioni e divieti: il sesso, l’igiene, il matrimonio, la famiglia, il cibo, l’alcol, le droghe. In tutte le religioni esistono particolari prescrizioni circa il matrimonio, i rapporti tra uomo e donna, esistono proibizioni sessuali, compresa l’omosessualità, e indicazioni riguardanti la purezza del corpo, i cibi, il sesso, la casa, il lavoro. Inoltre, il paradosso del corpo che si afferma e si nega nelle religioni, del corpo individuale e sociale insieme e luogo dell’apertura al sacro, ha mostrato il superamento della concezione di Nietzsche ed Heidegger secondo cui la civiltà della tecnica avrebbe distrutto il religioso, mostrando piuttosto le varie modalità della persistenza della domanda di senso religioso e del bisogno del sacro nella cultura e nella vita dell’uomo contemporaneo. La novità che piuttosto sembra caratterizzare questo bisogno del sacro, in un contesto di mondializzazione delle culture e delle religioni, è che l’Occidente è divenuto più aperto, rispetto al passato, ad introdurre nel proprio contesto le religioni orientali, ma ne rifiuta tuttavia le istanze etiche. Al di là delle differenze metodologiche è possibile tuttavia individuare il debito che gli studi del volume devono innanzi tutto alla scuola della fenomenologia della religione 4. La rivoluzione operata dal metodo fenomenologico nell’ambito dello studio del fenomeno

4 Dopo la pubblicazione, nel 1900-1901 delle Ricerche logiche di Husserl, avviene infatti una vera rivoluzione nel modo di fare filosofia, che influenzerà tutti gli ambiti del sapere, e in particolare lo studio della religione. Per una introduzione alla fenomenologia, cf. A. Ales Bello, L’universo della coscienza. Introduzione alla fenomenologia di Edmund Husserl, Edith Stein, Hedwig Conrad-Martius, Edizioni ETS, Pisa 2003.

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Introduzione

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religioso è consistita precipuamente nel superare gli esiti positivistici cui stavano andando incontro, alla fine del XIX secolo, sia il metodo storico-evolutivo, che spiegava i fenomeni religiosi riconducendoli a forme primitive della coscienza umana, sia lo stesso metodo storico-comparativo, che rischiava di limitarsi a raccogliere semplicemente e a classificare i fenomeni religiosi, senza interpretarne la natura e comprenderne la specificità 5. Ora, il metodo fenomenologico, applicato allo studio del fenomeno religioso, ha permesso di comprenderne a fondo la specifica natura e di offrirne una descrizione fenomenologia capace di rivelare la sua inconfondibile originalità. La celebre opera Das Heilige (Il Sacro), di Rudolf Otto 6, ha messo in luce l’eccedenza dell’esperienza del sacro rispetto ad una razionalità puramente scientifica o tecnica, eccedenza che appartiene a quella esperienza del “numinoso” come “tremendum et fascinans”, che è caratteristica comune di tutte le esperienze religiose, e che impone al fenomenologo di affermare che il sacro, e quindi la disponibilità dell’uomo all’esperienza religiosa, è qualcosa di originario – di a priori per usare una terminologia kantiana – che manifesta una di5 Rappresentanti dello studio comparato delle religioni sono il filosofo scozzese Edward Caird, autore dell’opera L’evoluzione della religione (1894) e il filosofo americano William James, autore del noto saggio La varietà dell’esperienza religiosa (1902). 6 Pubblicato nel 1917, è stato tradotto in italiano solo venti anni dopo, a cura di Ernesto Buonaiuti, Il Sacro porta significativamente come sottotitolo: L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale, che non vuole indicare l’irrazionalità della religione, ma sottolinearne il diverso livello di razionalità. Rappresentanti significativi della scuola fenomenologica della religione sono: Mircea Eliade, autore di numerosi studi tra cui: Trattato di storia delle religioni, Boringhieri, Torino 1972; Storia delle credenze e delle idee religiose, Sansoni, Firenze 1981; e Il sacro e il profano, Boringhieri, Torino 1984; e Gerardus van der Leeuw, che annovera tra le sue opere fondamentali: Fenomenologia della religione, Boringhieri, Torino 1975 (rist. 1992); L’uomo primitivo e la religione, Boringhieri, Torino 1961. Altri esponenti di questa scuola sono Friedrich Heiler, Geo Widengren e in particolare Max Scheler, che nell’opera L’eterno nell’uomo (1921), ha voluto chiarire, in un “sistema di conformità” (Konformitätsistem), la distinzione tra filosofia e religione, ciascuna autonoma nel proprio ambito, ma non identificabili né confondibili. Scheler ha chiarito una volta per tutte che la religione possiede una propria specificità che va compresa come irriducibile alle categorie di una ragione chiusa in se stessa, incapace di aprirsi alla comprensione di ciò che di specifico appartenente ad un diverso livello di razionalità, quale è quello proprio della religione: «La fonte che alimenta ogni ricerca metafisica – scrive Scheler – è la meraviglia che qualcosa in genere sia piuttosto di essere nulla… La questione circa l’essenza del mondo in sé esistente e della causa prima che la condiziona: questa è la questione metafisica per eccellenza. In contrasto con ciò, la religione è fondata sull’amore di Dio e sul desiderio di una definitiva salvezza dell’uomo stesso e di tutte le cose… Il sommo bene, non l’assolutamente reale e la sua essenza, è il primo oggetto dell’atto religioso» (L’Eterno nell’uomo, a cura di U. Pellegrino, Edizioni Logos, Roma 1991, p. 250).

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Introduzione

sposizione originaria dello spirito dell’uomo. Sant’Agostino, nelle Confessioni, parlando dell’aspirazione alla religione che è insita nell’uomo e ai beni che essa apporta, così si esprime: «dove mai l’hanno tutti conosciuta?… Dove mai la videro se ne sono così innamorati? Noi l’abbiamo; non so come» (X, 29). Ma è possibile individuare anche una seconda matrice comune a questi studi su “corpo e religione”. Ed è la particolare e comune attenzione che essi tributano al “linguaggio”, inteso come veicolo delle categorie culturali, spirituali e religiose dell’uomo, e come orizzonte di comprensione delle diverse manifestazioni della sua spiritualità. Come affermava Giambattista Vico, con la sua identità di verum et factum, l’umanità si esprime nella linguisticità, e il linguaggio è espressivo delle diverse fasi storiche dello sviluppo dell’umanità, ovvero di quell’humanum universale che è presente in tutte le culture, in tutte le religioni, e che può essere compreso proprio attraverso il linguaggio, quello dei testi, delle opere, dei dialoghi fecondi. La riflessione filosofica contemporanea è stata segnata a fondo da questa “svolta linguistica”, espressa suggestivamente da Gadamer con la nota espressione: «l’essere che può essere compreso è linguaggio» 7. Nella quale è da ravvisare soprattutto una forte ripresa della nozione di umanità, la cui piena maturazione è la vera finalità del processo storico. Come già scriveva Herder: «Tutti quanti siamo uomini, e come tali rechiamo in noi il genere umano, ovvero al genere umano noi apparteniamo. […] Umanità è il carattere della nostra specie; ma esso ci è innato solamente come predisposizione, e propriamente richiede di venir educato. Eppure è necessario ch’esso sia, nel mondo, la meta delle nostre aspirazioni, la somma delle nostre azioni, il nostro valore: non conosciamo infatti nessuna angelicità insita nell’uomo, e se il demone che ci governa non è un demone umano, allora noi diventiamo tormentatori degli uomini. L’elemento divino che c’è nel nostro genere è dunque l’educazione all’umanità. […] Umanità è il patrimonio e il risultato di tutti gli sforzi umani, è per così dire l’arte della nostra specie. L’educazione all’umanità è un’opera che deve essere continuata incessantemente; altrimenti tutti noi, che si appartenga ai ceti superiori o a quelli inferiori, ripiombiamo nella rozza animalità, nella brutalità» 8.

7 H.-G.

Gadamer, Verità e metodo, a cura di G. Vattimo, Fabbri, Milano 1972, p.

542. 8 J.-G. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, a cura di V. Verra, Zanichelli, Bologna 1971, p. 284.

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Introduzione

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Ora, il modo privilegiato per crescere nella comune umanità, è proprio il dia-logos, l’incontro, il confronto, l’ascolto. In un contesto culturale globale che va smarrendo la nozione stessa di “uomo” come spirito incarnato, la ripresa della nozione di umanità costituisce un fondamentale magistero di cui occorre fare memoria. La riflessione su corpo e religione offerta dagli studi del volume ha dunque una ricaduta non solo religiosa ma politica, perché essi manifestano un’area di ricerca libera, di confronto e di dialogo su tematiche fondamentali del fenomeno religioso, che possano aiutare l’odierno confronto inter-culturale e inter-religioso a passare dal piano prevalentemente politico in cui viene oggi sequestrato, al piano culturale più alto, dal quale possa emergere ciò che dovrebbe accumunarci tutti come uomini: la comune passione non per la violenza e le armi, ma per la pace e la verità.

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Prospettive antropologiche

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Franco Ferrarotti

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Corpo, sensi e religioni

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Corpo, sensi e religioni di

Franco Ferrarotti

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Il corpo: segno e campo di contraddizioni Il rapporto fra corpo e religioni è straordinariamente complesso. Nel corpo si consuma l’incontro fra sacro e profano, fra la vita e la morte. Aprire il discorso su corpo e religioni sembra, a prima vista, un’innocente endiadi. La copula “e” congiunge, si direbbe, due campi fondamentali dell’esperienza umana, vicini e talvolta alleati, quasi come se si trattasse di due cortesi, civili dirimpettai. Le cose sono naturalmente più ardue, quasi labirintiche e complesse. Nelle religioni orientali si può dire che il corpo non faccia problema, quasi come se non esistesse. Nello stesso tempo, il corpo pone un problema irrisolto ad alcune religioni e non mancano le religioni che sentono di dover castigare il corpo, dal cilicio e dalla quaresima al ramadan. È vero. In una delle cinque grandi religioni universali, vale a dire che hanno adepti in tutti i continenti, si mangia il corpo e si beve il sangue in memoria del Dio-Uomo, Signore e Salvatore, Figlio di Dio e Dio lui stesso. Ma è appena necessario osservare che la carne e i riti sacrificali sono al centro dell’interesse di importanti gruppi umani, dal sacrificio di Isacco per mano di Abramo, fermato all’ultimo momento dall’angelo, a Ercole, salvato dalla furia sanguinaria degli Egiziani che intendevano sacrificarlo. A parte l’uccisione del Re di Nemi, con cui si apre Il ramo d’oro di James George Frazer 1, è noto che, storicamente, il sacrificio cruento del corpo, seguito o meno dal banchetto sacrificale, ha sempre avuto un ruolo centrale, e ad alcuni studiosi contemporanei sembra impossibile decidere se il cristianesimo abbia in proposito apportato radicali novità, nel senso che il sacrificio è di fatto stato riproposto, a parte ogni plausibile considerazione intorno alla liturgia eucaristica, dal rapporto, nel pensiero europeo, fra fine della monarchia, regici1 Cf. J.G. Frazer, The Golden Bough. A Study in Magic and Religion, Oxford University Press, Londra e New York 1998, (1a ed. 1890), tr. it., Einaudi, Torino 1950.

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Franco Ferrarotti

dio e ossessione, ai limiti della paranoia, del potere regale “paterno”, o del suo venir meno, in una deprecata società “senza padri” 2. Ad ogni buon conto, la carne, il corpo, i riti sacrificali che li concernono, occupano uno spazio considerevole sia nelle religioni orientali che nel mondo biblico. Nella cultura antropologica mediterranea, poi, il corpo e le sue esigenze hanno il primo posto in base al classico principio: primum vivere, deinde philosophare. Se mi si concede qualche estemporanea osservazione preliminare, è noto come Marshall MacLuhan, con la sua tipica insensibilità storica, cominci a parlare, soprattutto nella sua Gutenberg Galaxy e in Understanding Media 3, come un sociobiologo a orecchio e si affanni a chiarire come fino a oggi abbiamo usato soltanto l’emisfero cerebrale sinistro, quello razionale, analitico e cartesiano, mentre adesso è finalmente venuta l’ora di recuperare quello destro – immaginifico, musicale, caldo, emotivo, “materno” – nel senso dell’immersione in una nuova globalità di significati emotivi, e non solo logico-cognitivi. MacLuhan parla di una nuova, imminente epoca tribale e anche di “villaggio globale”. Non è più premiata soltanto l’acuità visiva. Si vede con l’orecchio. Si recupera l’olfatto. Si riscopre il tatto. MacLuhan, pur valente critico letterario, non lo dice, ma qualcuno ha già scritto: «L’amour est dans le toucher…». La frase, attribuita al naturalista Buffon, attento studioso dei corpi, è citata da Balzac e ripresa da André Gide. Ma i popoli mediterranei non hanno certo bisogno di queste dotte citazioni per capire l’importanza dei contatti nella vita quotidiana. Sono per loro natura e tradizione maestri con riguardo al linguaggio del corpo e alle comunicazioni gestuali non verbali 4. E del resto, è possibile parlare del corpo senza usare il corpo? Ma è dunque il corpo che parla a se stesso? Ed è possibile o proponibile esplorare il rapporto fra corpo e religione, tenuto conto che la religione è il braccio amministrativo e interpretativo del sacro e che il sacro è per definizione l’ineffabile, l’indicibile, ciò che non ha corpo? Sta di fatto che il corpo è con noi fino alla morte; ci accompagna sempre; è l’ombra del viandante. La frase famosa di Turenne vorreb2 Si veda in proposito, fra i filosofi e antropologi contemporanei, A. Mitscherlich, Verso una società senza padre: idee per una psicologia sociale (tit. or., Aus dem Weg zur vaterlosen Gesellschaft), Feltrinelli, Milano 1970. 3 Cf. M. MacLuhan, La galassia Gutenberg, Armando, Roma 1991; ID., Gli strumenti del comunicare, il Saggiatore, Milano 1990. 4 Cf. in proposito il mio L’Italia in bilico - elettronica e borbonica, Laterza, RomaBari 1998.

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Corpo, sensi e religioni

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be significare un distacco, ma è invece una conferma: «Vecchia carcassa, tu tremi? Tremeresti anche di più, se tu sapessi dove intendo portarti». Ma siamo noi che portiamo il nostro corpo o è esso, il corpo, a reggerci, a consentirci gli spostamenti, a farci muovere, incontrare gli altri? Il corpo è sempre con noi. Riflette puntualmente i nostri umori, l’allegria e la tristezza. Vive. Gioisce e soffre con noi. Ma non è noi. Il corpo è anche la persona – una parola di uso comune eppure misteriosa. Non è solo la maschera, il pròsopon, ma colui o colei che mi sta davanti, che vedo di fronte a me – pròsopon. Tra gli antichi Romani, le famiglie degli Ottimati, ossia le famiglie patrizie, godevano del diritto di portare in processione, nel corso di certe cerimonie pubbliche, le immagini degli antenati. Era lo Jus imaginum. Oggi, specialmente nelle società tecnicamente progredite e opulente, il corpo è curato, fin vezzeggiato, in un certo senso esaltato. Occupa certamente la ribalta. Dalle attività sportive altamente pubblicizzate ai trattamenti sempre più raffinati della cosmesi, il corpo è presente, ubiquista, tirato a lucido, rifatto. Non lo si può ignorare. La bellezza fisica, dai concorsi delle varie miss alle sfilate di moda, parla alle folle e trionfa. Schopenhauer, in Parerga und Paralipomena, si diceva certo che essere belli è come andare in giro con una lettera di raccomandazione stampata in fronte. Le rughe non sono più la prova che si è vissuto, le medaglie, per così dire, che uno si è guadagnato sul duro campo di battaglia della vita. Fanno soltanto vergogna. Il corpo non è dunque solo una compagine di ossa, carne, muscoli, nervi e sangue. È la sede della gioia e del dolore, lo strumento principe della vita, ossia della procreazione e della morte. Contraddittoriamente, è la sede dell’amore e degli escrementi. Quando il poeta scrive: «Dein Leib ist mein Gedicht (Il tuo corpo è la mia poesia)», la lingua tedesca, questa inesauribile miniera di allusioni e di significati, gli consente di distinguere fra Leib e Körper, come dire fra poesia e anatomia. Così come si può anche distinguere fra Stimme e Stimmung, fra la voce, il suono della voce, e la temperie spirituale di un ambiente, il clima, la qualità di un milieu. La parola è suono più significato. Ma prima della parola c’è la vocalità: vox, vocare, vocatio. La vocalità, che fa vibrare le “corde” vocali, quelle corde che un etimologo ardimentoso potrebbe scorgere nei moti del cuore: chorda come cor - cordis 5. 5 Ho sviluppato queste assonanze soprattutto in Il silenzio della parola, Dedalo, Bari 2003.

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Non è facile per me, benché figlio ingrato della cultura europea, considerare le grandi religioni orientali, i vari “induismi” e il buddhismo da una prospettiva che non sia quella occidentale. Ma era già accaduto a Max Weber e a molti studiosi occidentali, anche ai più noti, come il professor Giuseppe Tucci, e forse Alessandro Bausani e l’illustre arabista Francesco Gabrieli. Forse non sarà mai pienamente possibile uscire dalla propria cultura e liberarsi, almeno parzialmente, dalle ottiche intellettuali e dai giudizi, o pregiudizi, morali del mondo storico in cui si è nati e del quale ci si riconosce figli. Non è solo la sindrome etnocentrica, meritoriamente criticata dagli antropologi culturali. È, più semplicemente, l’impossibilità di fare a meno di un Standpunkt, di un punto di vista storicamente e culturalmente determinato. Guardando al rapporto fra corpo e religioni universali, da un punto di vista analitico, ma necessariamente sommario, data l’ampiezza sterminata del tema, mi pare plausibile ritenere l’idea che una fondamentale frattura sia visibile, e vada attentamente considerata, fra le religioni reincarnazionistiche – termine generico e inesatto – e le religioni monoteistiche che riconoscono un unico Dio personale e per le quali al corpo viene tradizionalmente assegnato un ruolo, almeno potenzialmente, negativo, se non per definizione peccaminoso, “pesante”, nel senso della contraddizione evocata in un suo titolo famoso da Simone Weil, La pesanteur et la grâce. In questo senso sembra, per queste religioni, giustificarsi la mortificazione del corpo, i riti e le pratiche penitenziali, come abbiamo già osservato, dal cilicio e dalla quaresima al digiuno e al ramadan. Tuttavia la frattura scava probabilmente più a fondo. Non riguarda solo il corpo, ma investe la posizione stessa dell’uomo, come compagine di anima e corpo, nell’universo. Le tre grandi religioni monoteistiche (giudaismo, cristianesimo, islam) sono essenzialmente, e per quanto in modi diversi, antropocentriche, pur con importanti differenze interne e malgrado l’orientamento sostanzialmente fatalistico islamico rispetto alla tormentata questione del libero arbitrio e della conseguente responsabilità individuale, proprie del giudaismo e del cristianesimo. In queste religioni l’antropocentrismo si rivela specialmente nei confronti della “natura”, che in esse non è la rivelazione del divino nel mondo, ma una risorsa da conoscere, dominare e sfruttare a beneficio dell’uomo. E tuttavia, al di là dell’innegabile frattura, fra Oriente e Occidente è ancora possibile discernere punti di contatto, se non di vera e propria convergenza.

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Intanto, appaiono utili alcune precisazioni a proposito di metempsicosi e di reincarnazione. Questa non è per tutti, com’è noto, ma solo per i degni, i tulku (nel buddhismo tibetano). Va inoltre tenuto conto dei bodhisattva che, all’uscita dalla ruota o dal ciclo vita-morte-vita, rinunciano per continuare a soffrire con gli altri umani; così come non è certamente possibile dimenticare il dogma cristiano della risurrezione della carne alla fine del mondo, nel giorno del giudizio universale, nella biblica valle di Giosafat, mentre la reincarnazione, come abbiamo visto, non riguarda tutti. E tuttavia, soprattutto a proposito della preghiera ecumenica, non è possibile ignorare una tendenziale convergenza. In questo senso, è dato parlare di una preghiera profonda. In verità, si dà una preghiera del profondo su cui convergono tutte le fedi storiche positive e che, ritengo, è da ridefinire e recuperare come dialogo interiore a portata universale.

La preghiera ecumenica del profondo De profundis clamavi ad Te, Domine. C’è una preghiera del profondo e dal profondo che travalica le paratie dogmatiche delle religioni positive per attingere ed esprimere l’essenza dell’homo religiosus. Questa preghiera profonda è: a) ecumenica; b) esprime, nel suo silenzio o nella parola, al di là della formula rituale, la religiosità essenziale, superando la dicotomia sacro-religioso. Essa ci aiuta a comprendere la costituzione interna dell’homo religiosus: a) l’umiltà; b) il senso di un supremo ordine cosmico, non necessariamente personalizzato e incarnato in un singolo essere come pantocrator; c) un atteggiamento di accettazione, non passiva, di attesa vigile. La preghiera del profondo nasce e si sviluppa sulla base di un atteggiamento che è un dare al di là del ricevere. Con ciò si pone al di fuori della logica della mercificazione e fa emergere in tutta evidenza il paradosso del sacro: il meta-umano più necessario all’umano 6. L’atto della preghiera è l’atto del suo riconoscimento, anche quando si presenti sotto mentite spoglie, poiché è noto che tutto ciò che è profondo ama la maschera. Nella preghiera il corpo ha un ruo6 Mi si consenta di rinviare su questo tema ai miei contributi, Una teologia per atei, Laterza, Roma-Bari 1989; Il paradosso del sacro, Laterza, Roma-Bari 1983; Sacro e religioso. Dalla religione di Chiesa al sacro fatto in casa, Di Renzo, Roma 1997.

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lo importante: l’inginocchiarsi e le mani giunte nel cristianesimo; il prosternarsi nell’islam. Nella visita a Istanbul (dicembre 2006) papa Benedetto XVI non congiunge le mani, durante la preghiera, e guarda, insieme con il Gran Muftì, a oriente verso La Mecca. Importante è anche la posizione delle mani del Buddha – mudra –: per esempio, se l’indice è puntato verso la terra è Buddha che chiama gli dèi inferi a testimoniare il raggiungimento della “illuminazione”. Altri particolari del corpo del Buddha sono i lunghi lobi delle orecchie, per via anche dei vari, pesanti gioielli che stanno a significare la nobile nascita. Quando il Buddha rinuncia e si disfà dei gioielli, i lobi restano allungati. Un particolare curioso, almeno in apparenza, è quel caratteristico dondolare del corpo presso gli ebrei ortodossi. Questo scuotere o ciondolare del corpo durante la preghiera può significare che il corpo anela ad accompagnare la preghiera verso l’alto dei cieli. In yiddish questo movimento corporeo è chiamato shokelin e può significare: «Signore, chi è con Te?». Ma forse è solo il riflesso fisico e la metafora della luce tremolante dell’anima o ancora il semplice tentativo di sporgersi in avanti per leggere nel libro di un altro orante, stante la scarsità dei libri. A proposito della preghiera più che per altri temi, non dovrebbe a questo punto stupire che la boria sociologica, come del resto la presunzione classificatoria e necessitante di qualsiasi analisi scientifica, vada incontro a una lezione di modestia singolarmente dura. Trattandosi della preghiera – fenomeno universale, presente in tutte le culture umane – l’analista sociale, devota alle tecniche tassonomiche, si domanda: è mai possibile costruirne una tipologia? Ritengo che la risposta possa essere affermativa, però con una riserva fondamentale: i vari tipi, utili dal punto di vista descrittivo e comparativo in senso inter-culturale, non esauriscono il fenomeno. Fra gli studiosi di storia delle religioni, Alfonso M. Di Nola 7 appare soprattutto interessato a esplorare e a spiegare il processo di trasformazione della preghiera individuale e personale in preghiera liturgica, vale a dire come si passi da un forma di preghiera assolutamente libera e segnata dai caratteri della grande personalità religiosa a quella forma che appartiene esclusivamente alla vita delle collettività religiose storiche. 7 Cf. A.M. Di Nola, Antropologia religiosa, Vallecchi, Firenze 1974; Gli aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana, Boringhieri, Torino 1976; Gesù segreto. Ascesi e rivoluzione sessuale nel cristianesimo nascente, Newton Compton, Roma 1989.

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Forse il processo potrebbe essere anche invertito e l’attenzione si concentrerebbe allora sulle tecniche e sui modi attraverso i quali la preghiera è passata, inverandosi storicamente in tipi differenziati: a) la preghiera magico-feticistica; b) la preghiera formale o liturgico-ripetitiva; c) la preghiera supplicatoria oppure contestatoria; d) la preghiera dal profondo, cui abbiamo più sopra fatto cenno; e) la preghiera silenziosa, in cui l’orante accetta uno stato di quiete o di abbandono, vive fino in fondo l’esperienza del silenzio che attende la rivelazione, lo svelamento del divino, secondo il modulo non codificabile formalmente di una religiosità personale rigorosamente a-liturgica. Quest’ultimo tipo di preghiera, come abbiamo chiarito, si colloca al di là dei tipi storicamente prevalenti, collegati in vario modo alle cinque religioni universali, o Weltreligionen, allo studio delle quali sono ancora parzialmente utili, nella prospettiva sociologica, le ricerche di Max Weber. Se isoliamo in queste religioni il concetto di Dio, ne ricaviamo essenzialmente tre concezioni: a) Dio come essere assolutamente trascendente e totalmente altro rispetto all’uomo; b) la negazione di Dio come persona e la sua affermazione come presenza “disseminata”, per così dire, nel tutto, una sorta di lógos spermatikòs; c) Dio come essere personale e trascendente ma non completamente estraniato dall’uomo, con cui comunica e alla cui salvezza provvede con il “tramite” del Figlio storicamente incarnatosi a questo fine. Se è consentito esprimerci piuttosto schematicamente, si può dire che a queste differenziate concezioni di Dio corrispondono tre differenti tipi di preghiera: a) la preghiera come omaggio all’Essere supremo, sovrastante e immensamente potente rispetto a chi prega, tanto che gli si possono indirizzare unicamente formule stabilite e ripetute, in modi, gesti, orari determinati, in base all’autorità della tradizione secondo la logica di una liturgia rigorosa; b) la preghiera e qualsiasi atto del pregare si confondono con le modalità del vivere quotidiano e tendono a forzarne i limiti mediante la meditazione e la concentrazione, senza tuttavia estraniarsi da esse; c) la preghiera acquista i modi e la sostanza di uno scambio fra uomo e Dio, e in questo senso assume forme svariate, dall’esaltazione della divinità alla richiesta specifica in caso di bisogno, quando, in altre parole, “il bisogno sprona”.

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Si può dire che il primo tipo è nettamente predominante nel giudaismo e nell’islamismo, mentre il secondo tipo è piuttosto comune nell’induismo e nel buddhismo e, infine, il terzo tipo sembra caratteristico della dottrina e della pratica cristiane 8. Resta aperto il problema della “scandalosa” preghiera contestatoria di Giobbe che comporta, almeno secondo la logica corrente, la distinzione fra la punizione dell’uomo in quanto tale e dell’uomo in quanto vittima innocente 9. È ancora un filosofo-politologo e poeta a offrire un’interpretazione più profonda di quella consentita dalla logica del buon senso e a mostrare come la dissociazione fra l’uomo e l’innocente sia un errore psicologico e finisca per oscurare, almeno in parte, il senso della rivolta di Giobbe: l’appestato cede di fronte a Dio meno per convinzione che per stanchezza. Non c’è alcun dubbio che, insieme all’Ecclesiaste, il Libro di Giobbe costituisca la sfida più ardua e temibile per qualsiasi commentatore del testo biblico. I due libri biblici – Qohelet, o Ecclesiaste, e Giobbe – sono stati spesso messi a confronto quasi a trarne reciproca illuminazione ermeneutica, salvo a dover concludere con uno sconsolato non sequitur 10. Di fatto: «Nulla permette di considerare la bontà come l’attributo principale della divinità. De Maistre stesso talvolta sembra tentato di pensarlo […]. Quanto più Dio ci apparirà terribile e tanto più dovremo aumentare il timore religioso nei suoi confronti e le nostre preghiere dovranno essere ardenti e infaticabili. […] Non c’è miglior partito da prendere della rassegnazione e del rispetto, direi persino dell’amore». Il vecchio reazionario savoiardo De Maistre si ricollega qui, inaspettatamente e certo, per quanto lo riguardava, inconsapevolmente, alle ultime pagine del Simposio platonico, là dove Alcibiade celebra alfine Socrate come amante e come filosofo, svelando la comune matrice e l’essenziale convergere di studium e amor, della conoscenza come desiderio di saggezza, implorazione e dialogo interiore, agostiniano confronto fra ego superior e ego inferior. E del resto, non è forse vero che la stessa ricerca filosofica per tutto il Medioevo è ancora molto affine a una incessante preghiera, una preghiera non formale, da non in8 A proposito di questa tipologia si veda il mio Una fede senza dogmi, Laterza, Roma-Bari 1990. 9 Si veda la notevole traduzione del Libro di Giobbe, con l’introduzione e le note di G. Ceronetti. 10 Cf. A. Néher, Qohelet, Gribaudi, Milano 2007; E.I. Rambaldi (ed.), Qohelet. Letture e prospettive, F. Angeli, Milano 2007.

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tendersi come procedura ritualistica, ma piuttosto come meditazione tacita, come un silenzioso discorso interiore, fra sé e sé? Questa preghiera silenziosa, che non si rifà né chiede aiuto a stereotipate formule liturgiche ma si fa, appunto, fra sé e sé, va al di là delle tipologie classificatorie e contribuisce a farci comprendere il senso proprio della preghiera come l’abbandonarsi: un momento di stasi che talvolta può preparare e risolversi nell’estasi; la quiete di chi si sottragga alla tensione competitiva del mercato; quel distacco e quella remissività, nel senso di non-volontà che rinuncia alla rappresentazione per aprirsi, in maniera completa e protetta, all’esperienza in tutta la sua indeterminazione. Pregare, dunque, come pensare: non come proposito o progetto, ma lasciandosi pensare dal pensiero, accettando di venirne trascesi, oltre ogni presunzione narcisistica, e in ciò scoprendo il senso di sé, della possibilità d’un rapporto significativo con l’altro e del proprio posto nell’universo, e misurando nello stesso tempo la grande differenza fra l’estasi e la meditazione trascendentale, solidamente ancorata alla razionalità, e l’estasi cristiana come grazia data in maniera imprevedibile cui abbandonarsi. Ma di ciò, più avanti. Nessun dubbio, però, che soprattutto nel cristianesimo il corpo sia sotto accusa. Le testimonianze dei pagani di fronte al cristianesimo nel primo e nel secondo secolo dell’era volgare sono in proposito impressionanti 11. Come nelle religioni orientali reincarnazionistiche – ma il termine “reincarnazione” è troppo spesso usato arbitrariamente – il dualismo carne-spirito, anima-corpo non ha per lo più corso nella romanità classica e neppure in Grecia, dove è costume per le giovani ragazze offrire ad Artemide Efesia il primo lenzuolo macchiato dal sangue mestruale. Le stesse nozioni di “fasto” e “nefasto”, con quella di impurità, non sono qui da intendersi come rifiuto o condanna del corpo, bensì come indicazione del carattere contraddittorio del sacro e della sua doppia natura. In un libro, crudele e straziante a un tempo, dal titolo vagamente liturgico: La cérémonie des adieux 12, Simone de Beauvoir descrive impietosamente il declino fisico e intellettuale del compagno di tanti anni, Jean-Paul Sartre, solo per sentirsi dire: «Moi? Ce n’est pas

11 Si vedano Plinio il Giovane, Tacito, l’imperatore Adriano. Cf. P. Carrara (ed.), I pagani di fronte al Cristianesimo, Nardini Editore, Firenze 1984. 12 Cf. S. de Beauvoir, La cérémonie des adieux. Suivi de Entretiens avec Jean-Paul Sartre aoû-septembre 1974, Gallimard, Paris 1981.

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moi». «Non sono io che faccio fuori una bottiglia di whisky al giorno; non sono io che fumo a catena». Forse è dunque vero che anche negli spiriti più devoti al laicismo, libertario e ateo, per i quali non si dà un sopramondo che giustifichi questo mondo – il mondo storico –, si fa strada, quando cade la sera della vita, l’idea che lo spirito non sia riducibile senza residui alla pura datità fisica, che l’ego non si identifichi né si decomponga tutto con il corpo. Se non è “religione diffusa”, è certamente “trascendenza implicita”. Anzi, già per Socrate il corpo è poco più di un involucro ingombrante. Per il filosofo classico, ossia per l’amante della saggezza, secondo il significato etimologico del termine, la filosofia altro non era che meléte tou thanàtou, ossia esercizio preparatorio alla morte. Poiché il filosofo classico, a parziale eccezione dei sofisti, non viveva di filosofia, ma per la filosofia. E questa non era per lui un dato, una dottrina fissata e conchiusa, bensì un’aspirazione, un moto di desiderio, la tensione appassionata verso la saggezza. La morte ne era, se non il compimento, la condizione essenziale. Bisogna richiamare, ancora una volta, il discorso di Socrate nel Fedone: «Gli uomini non sospettano affatto che chi si dedica alla filosofia, nel senso più vero della parola, non mira ad altro che a morire e presto. E, dunque, sarebbe veramente ben strano che chi per tutta la vita ha desiderato la morte, quando poi essa giunga, si addolorasse proprio di ciò che ha, per tanto tempo, desiderato e cercato. E allora – soggiunge Socrate – necessariamente, tutte queste considerazioni inducono i veri filosofi a un ragionamento presso a poco di questo genere: esiste come un sentiero che ci porta nella direzione giusta, ma fino a che avremo un corpo e la nostra anima sarà confusa a una simile bruttura, noi non giungeremo mai a possedere ciò che desideriamo, che è, poi, quello che noi chiamiamo verità. E non solo il nostro corpo ci procura infiniti fastidi, per il fatto stesso che, ovviamente, dobbiamo nutrirlo, ma, quando si ammala, sorgono sempre nuovi impedimenti che ci distolgono dalla nostra ricerca della verità; e, poi, ancora, amori, desideri, timori, visioni fallaci d’ogni genere, vanità innumerevoli, non fanno che frastornarci (è la parola giusta) così che, fino a quando siamo in sua balia, non possiamo concentrarci su nulla. E così pure le guerre, le discordie, le zuffe, è il corpo che le fa nascere con le sue passioni. La brama di possesso, ecco la causa di tutte le guerre e se noi ci affanniamo a procurarci la ricchezza, è il corpo di cui siamo gli schiavi. Da tutto questo deriva il fatto che noi non troviamo più il tempo per dedicarci alla

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filosofia. E il peggio è che, se pure riusciamo, per un momento, a liberarcene e a volgere la nostra mente a qualcosa, subito ne siamo distolti, per la sua importuna intrusione, che ci confonde, ci distrae, ci frastorna, al punto di renderci incapaci, ormai, di distinguere la verità. Dunque, è chiaro che se vogliamo giungere alla pura conoscenza di qualche cosa, dobbiamo staccarci dal corpo e contemplare con la sola anima le cose in sé. Soltanto allora, a quel che sembra, noi avremo ciò che desideriamo e che dichiariamo di amare: la sapienza, ma dopo che saremo morti e non certo da vivi, come tutto questo discorso vuol dimostrare». Così dice Socrate nel Fedone, con la candida insistenza di chi confuta l’interlocutore fino a ridurlo al silenzio. Forse – vien da pensare in una vena provocatoria – i suoi concittadini ateniesi non avevano tutti i torti nel condannarlo a bere la cicuta. Non si dava altro modo per zittirlo. Secoli dopo, per l’indomito frate di Nola, Giordano Bruno, si ricorrerà dapprima alla mordacchia, per sette anni, e quindi al rogo. E tuttavia è difficile non concordare con Simone Weil quando afferma di non poter più accontentarsi di definizioni dell’uomo perfette, ma generiche e alla fine insignificanti. Weil vuole invece vederselo davanti, guardare negli occhi quell’individuo che passa, in questo momento, sotto le sue finestre: una persona in carne e ossa, unica, irriducibile ad altro, irripetibile. Socrate, che pur non ha molta considerazione per il corpo, come abbiamo visto, sa bene che la pupilla può vedere se stessa solo se riflessa nella pupilla dell’amico. Sa che si dà un momento in cui è raggiunta la piena coerenza, un unum et idem sentire che fonda la persona o, più precisamente, la personalità della persona.

L’istante fatale Se dobbiamo credere a Albert Béguin, sono possibili incontri inattesi, che hanno dell’inverosimile, se non del miracoloso 13. Racconta di un semianalfabeta, più tardi autodidatta, che per anni legge solo romanzi polizieschi di infimo ordine; poi, un giorno, per puro ca13 Per una trattazione ampia e straordinariamente informata di questo tema, cf. M. Maffesoli, L’Instant Eternel. Le retour du tragique dans les sociétés postmodernes, Denoël, Paris 2000.

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so, apre un libro diverso, un tomo. È la raccolta dei testi di Arthur Rimbaud: «Resta affascinato davanti all’inaccessibile di un vero e proprio testo, e da quel momento è aperto alla poesia, cerca altre opere e arriva così alla cultura – in seguito a una scoperta e non invece a partire dal lodevole sforzo di pedagoghi o di critici quali noi siamo» 14. In un ambiente diverso, dotato di una preesistente preparazione culturale e filologica di grande consistenza, un incontro analogo deve essersi realizzato fra il giovane Friedrich Nietzsche e l’opera capitale di Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e come rappresentazione. Si tratta di incontri fatali, in cui la lettura costituisce una svolta, è la chiamata del destino. Per Nietzsche bisogna riandare alle Considerazioni inattuali, a quel mirabile saggio su Schopenhauer come educatore, che si apre con una specie di dichiarazione delle premesse di valore: «Ogni uomo in fondo sa benissimo di essere al mondo solo per una volta, come un unicum e che nessuna combinazione per quanto insolita potrà mescolare insieme per una seconda volta quella molteplicità così bizzarramente variopinta nell’unità che egli è» 15. Ogni uomo però dovrebbe anche sapere, come Rousseau temeva, che gran parte degli uomini vengono a morte prima di aver vissuto. Per diventare ciò che si è, infatti, al giovane Nietzsche occorreva una guida, un educatore: «Per descrivere che avvenimento fu per me quel primo sguardo che gettai sugli scritti di Schopenhauer, devo indugiare un poco in una rappresentazione che nella mia giovinezza era frequente ed urgente come nessun’altra. […] Io sono uno di quei lettori di Schopenhauer che, dopo averne letto la prima pagina, sanno con certezza che le leggeranno tutte e ascolteranno ogni parola che egli abbia mai detto. […] Lo intesi come se avesse scritto per me. […] Conosco soltanto un altro scrittore pari a Schopenhauer per onestà e anzi superiore: Montaigne. […] Vi sono tre immagini dell’uomo che la nostra epoca moderna ha eretto una dopo l’altra e dalla cui visione i mortali prenderanno ancora a lungo l’impulso per una trasfigurazione della loro vita: l’uomo di Rousseau, l’uomo di Goethe e infine l’uomo di Schopenhauer» 16. In questo senso, l’educazione differisce radicalmente dall’addestramento. Si possono addestrare cani, elefanti da circo. Ma gli esseri umani non si addestrano; possono essere

14 Cf. A. Béguin, La rencontre des livres, in «Esprit», aprile 1960, p. 647. 15 Cf. F. Nietzsche, Considerazioni inattuali, Einaudi, Torino 1981, p. 165

(corsivo

nel testo). 16 Cf. ibid., pp. 169, 173, 175, 193.

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soltanto educati a procedere per conto loro, responsabilmente e autonomamente. Non è senza ragione che il buon educatore, come il buon medico, lavori per la sua inutilità. Spera che venga presto il momento in cui potrà dire: «Ormai, per te ti ciba». L’individuo, il sínolo di carne e spirito, anima e corpo, vive, agisce e reagisce, nell’unità di anima e corpo. E in questa unità, si potrebbe forse dire, simbiotica, trova il fondamento della sua identità un principio, quello di identità, di cui, a giudizio di Kant, è impossibile fare a meno. Ma è un principio che turba o rende impossibile il “sistema”, pur essendo essenziale alla possibilità di capire. Poiché chi comprende, alla fine, è il soggetto. Leibniz riconosce che l’identità di per sé non è concettualmente adeguata, ed escogita il principio di ragion sufficiente. Le monadi senza porte né finestre verso il mondo esterno sono legate peraltro all’armonia prestabilita. Kant, prudente come sempre, fissa i paletti, proietta l’identità al di là dei fenomeni sensibili, nella realtà inconoscibile dei noumeni. Hegel, invece, pretende di sostituire all’identità il processo dialettico di momenti tra loro non identici, ma non riesce a legittimarne la distinzione. Né può dirsi risolto il problema nella rivolta contro l’identità da parte del Romanticismo, che scopre e limita l’individualità specifica nell’opera d’arte. La vexata quaestio dell’identità e nello stesso tempo della molteplicità dell’esistenza resta intatta. La Ichheit fichtiana non dà conto delle sue molteplici incarnazioni. Più recentemente, la rottura fra Jean-Paul Sartre e Maurice Merleau-Ponty è istruttiva. Ho già osservato altrove che in Sartre il concetto puro del soggetto per sé prevale su tutto. Nessuna esperienza empirica gli resiste. In Merleau-Ponty gli ostacoli alla comprensione integrale dei comportamenti umani, l’opacità dell’esperire, sembrano invece invalicabili, non appaiono riconducibili né riducibili alla clarté cartesiana (ma, trattando di Descartes, accanto al cogito, non andrebbero mai sottaciute le passions de l’âme 17). Con ciò MerleauPonty non si ritira né sfugge alle speranze, alle sofferenze e agli impegni che formano la complessa trama della cronaca quotidiana. È vero il contrario. Quando Sartre afferma: «Io sono le mie scelte», definisce il fare per fare dell’animale non umano; non il fare intenzionale

17 Si veda l’ottima ristampa anastatica presso Conte editore, Lecce 1996, a cura e con introduzione di J.-R. Armogathe, G. Belgioioso, René Descartes. Les passions de l’âme, chez Jean Guimard, Paris 1650. Si tratta di 212 “articles” o capitoletti, dalla “gelosia” al “rimedio generale contro le passioni”.

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dell’uomo 18. Non è “autotelico”. È compiaciuto. Intende analizzare il mondo. In realtà, si limita a contemplare il proprio ombelico, seduto al tavolino del Café de Flore del Boulevard Saint-Germain. Un tentativo di soluzione del problema dell’identità può consistere nell’aprirsi al riconoscimento che l’identità ha bisogno dell’alterità, ossia della non-identità, oltre la miserabile solitudine del soggetto cartesiano. Se l’identità non è un dato, ma un processo, sembra necessario riconoscere che lo stesso processo della formazione dell’individuo è un processo meta-individuale, ossia un processo in senso proprio sociale, e che quindi l’identità individuale può formarsi solo uscendo dall’individuo, nell’incontro/scontro con gli altri, anche se Sartre diceva: «Les autres? C’est l’enfer». Può darsi. Ma è un inferno inevitabile. Emerge il dialogo, l’incontro faccia a faccia, la partecipazione dell’umano all’umano. L’identità si lega ai corpi. Le idee appartengono a chi se ne appropria. Ma non bastano le fosse comuni a rendere i corpi intercambiabili. Intanto, una domanda forse non priva di senso: perché si piange quando muore qualcuno? Perché scompare un prototipo: prima non c’era; poi c’è; ora, con la morte, non c’è più. È una perdita secca (la sola sconfitta della morte è l’amore; con essa, il ricordo. Dire “Ti amo” vuol dire “per me, tu sei eterno”).

Il linguaggio del corpo In questo senso, il corpo è oggi cruciale. Lo era anche ieri, lo è stato da sempre. Ma oggi cresce, sta montando la consapevolezza di doverci contare. Non può essere dato per scontato. Pone una questione che non è possibile ignorare. L’uomo che vive in società segnala i suoi bisogni con i suoi gesti, il linguaggio, i bisogni del corpo. La 18 Cf. il mio I colloqui di Jean-Paul Sartre, in «Belfagor», IV (31 luglio 2005) 358; in questa prospettiva, Sartre può riuscire un valido ispiratore, ma anche un compagno di strada pericoloso a causa della deriva soggettivistica e psicologistica cui approda; la sociologia “esistenziale” che si ritiene, temerariamente, di ricavare dal neo “esistenzialismo come umanismo” (cf. in proposito C. Tognonato, Il corpo del sociale, Liguori, Napoli 2006), è un esito illusorio, incapace di fare i conti con i dati strutturali, extra-soggettivi, della situazione umana “datata e vissuta”, come la sua rottura con Maurice Merleau-Ponty e con Albert Camus, in chiavi diverse, chiaramente segnala; c’è l’ego, prepotente; manca l’esperienza effettiva, il “corpo”. Cf., da ultimo, J. Daniel, Avec Camus, Gallimard, Paris 2006; F. Musso, Albert Camus ou la fatalité des natures, Gallimard, Paris 2006.

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Corpo, sensi e religioni

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faccia, l’incedere, lo sguardo, le caratteristiche corporali come altezza, colore dei capelli e della carnagione sono il suo biglietto da visita. Il corpo, la sua presenza, il senso di questa sua presenza pongono, forse specialmente, se non unicamente, nelle religioni occidentali, questioni importanti, tuttora aperte. Non è più sufficiente dire, come altrove ho osservato, che senza la considerazione del corpo la concezione della storia umana si irrigidisce nel dogma di una natura umana fissa, data una volta per tutte; si trasforma in ortodossia 19. È vero che l’espunzione del corpo alleggerisce, per così dire, l’uomo. Senza il corpo, l’uomo sembra angelicato; appare come un essere superiore, liberato dal peso della carne e della stessa natura, come volevano, in contesti diversi, Platone e Origene. “Purificare” l’uomo per questa via può in realtà significare dimidiarlo. Rischio grave, che è stato opportunamente richiamato, sottolineando l’impoverimento intimamente connesso con ogni tentativo di chiarificare, ma anche necessariamente semplificare, l’essere dell’uomo e la sua intrinseca doppiezza: «Plus le monde s’efforce, s’acharne sur ce corps à la possession, à l’universalité, plus il se croit proche de sa source, plus il imagine réaliser enfin l’éternelle Maîtrise, la victoire finale sur le manque, plus il rêve ce maître de l’Antioche chrétienne, de manifester le Prince éternel, entier, membré, plus le vide s’accroît du jour et de la nuit. Marie est une Ame, d’autant plus une Ame qu’elle les fixe sur sa chair. Elle brise l’âme, révèle le Double angélique, vidant la chair, l’expulsant à la surface du corps, pour que la Ville soit de cette pellicule ornée si fascinée qu’elle s’amenuise et laisse hors d’elle le désert où le bonheur croît. Vidant le corps de sa chair, à la surface, creusant entre cet espace et l’espace nul de l’Ame, elle fait l’abîme d’autant plus profond que la chair sera plus exposée, plus sensible, plus humiliée» 20.

19 Cf. il mio Una teologia per atei, cit., pp. 166ss. 20 C. Jambet, Apologie de Platon, Grasset, Paris 1976, p. 248: «Quanto più il mon-

do si sforza, si accanisce su questo corpo per possederlo, renderlo universale, quanto più si crede vicino alla sua sorgente, immagina di realizzare finalmente la Padronanza eterna, la vittoria finale sulla deficienza, sogna questo dominatore della Antiochia cristiana, di manifestare il Principe eterno, intero, organico, tanto più attorno a lui s’accresce il vuoto del giorno e della notte. Maria è un’Anima, tanto più un’Anima quanto più li fissa sulla sua carne. Ella spezza l’anima, rivela il Doppio angelico, svuotando la carne, espellendola alla superficie del corpo, affinché la città si adorni di questa pellicola affascinante che si diminuisca e lasci fuori di sé il deserto in cui cresce la felicità. Svuotando il corpo della sua carne, in superficie, scavando fra questo spazio e lo spazio vuoto dell’anima, ella rende l’abisso tanto più profondo quanto più la carne sarà esposta, più sensibile, più umiliata».

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È probabile che solo oggi, anche da parte degli specialisti di teologia morale, si cominci a comprendere che distinzione analitica, ordine e chiarezza – le supreme virtù cartesiane – non sono necessariamente incompatibili con l’oscurità, con le pressoché impenetrabili zone d’ombra che come un marchio originario segnano la presenza umana nel mondo, ne sottolineano l’inquietante, fondamentale imprevedibilità, la sua inaccessibile follia, bella nonostante tutto, e non priva di metodo, come il gute Wahnsinn goethiano. Non voglio spingermi, come Georges Balandier, a tessere l’elogio del disordine 21. Ma ho già osservato in più luoghi che, al di là di un cartesianesimo disossato e delle macerazioni di un’ascetica “vangelizzante” e antimondana, facendo tesoro delle lezioni delle grandi religioni orientali, specialmente degli induisti e del buddhismo, sarà forse necessario riscoprire la crucialità del corpo, il semplice fatto che si pensa con tutto l’essere, con la mente e con il ventre. Dubito tuttavia che sia proponibile, come è pur stato fatto da alcuni ardimentosi studiosi, il puro e semplice rovesciamento dell’incipit giovanneo 22, proclamando che in principio non era il Verbo, bensì il Corpo. Che cosa significa? È vero che i bisogni fondamentali dell’uomo che vive in società con gli altri esseri umani sono in qualche modo espressi e filtrati attraverso il corpo, e che è possibile, dunque, arguire che non i valori nobili, oggi tramontati o moribondi, sono alla base dei bisogni umani, bensì il corpo, la sua struttura, i suoi processi, i suoi movimenti, da quelli nervosi a quelli intestinali. Il corollario è evidente: una società a misura d’uomo, quale è quella che appare a tutti desiderabile, deve riuscire a misura dei suoi bisogni così come si esprimono attraverso il corpo. Ma se il corpo è la base, l’unità di misura dei bisogni, o quanto meno il filtro che ne decide e organizza la priorità relativa, il corpo ha storia oppure è da concepirsi come un archetipo iperuranio, astuzia del concetto, travestimento corporeo di essenze metastoriche? Un discorso così strutturale, intemporale, come ogni discorso essenzialmente collegato con il “corpo”, la “libido”, e così via, come può collegarsi con l’idea di un cambiamento radicale di civiltà? O anche, più sobriamente, con il moto evolutivo che, con accelerazione crescente, sembra caratterizzare tutte le società odierne, 21 Cf. G. Balandier, Le désordre: éloge du mouvement, Fayard, Paris 1992. 22 «In principio erat Verbum / et Verbum erat apud Deum / et Deus erat Verbum

/ hoc erat in principio apud Deum /omnia per ipsum facta sunt / et sine ipso factum est nihil /quod factum est / in ipso vita erat / et vita erat lux hominum / et lux in tenebris lucet / et tenebrae eam non comprehenderunt» (Gv 1, 1-5).

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tanto inconsapevoli o temerarie da leggere il loro avvenire positivo nel puro cambiamento? Cioè con un’ipotesi storico-evolutiva del processo sociale? E se il “corpo” ha storia, non rischierà di ridursi a funzionare come puro segno stenografico, formula linguistica, termine elusivo per significare una costellazione di esigenze pratico-materiali, costitutive della base strutturale del processo storico, e inoltre unica via d’uscita per non cadere nelle aporie d’un vieto psicologismo oppure, alternativamente, nella piatta opacità del materialismo metafisico? Ho l’impressione che l’obiettivo reale di molte critiche dell’uomo “angelicato” o platonico, spesso ricorrendo a un dubbio utilizzo del pensiero cartesiano, che di proposito ignora les passions de l’âme, non sia tanto la società “organizzata” quanto la società “scientifica”, vale a dire una società in cui prevale l’esprit polytechnicien, insieme con l’esprit de géométrie, contro il pascaliano esprit de finesse, che più tardi sarà evocato da Edmund Husserl contro Galileo e la sua presunta «geometrizzazione del mondo» e conseguente «decapitazione della filosofia» 23. È appena necessario osservare che siamo qui davanti ad una vexata quaestio per le tre religioni monoteistiche antropocentriche. Ma è inoltre difficile non scorgere qui un principio di preferenza che guida e regge lo svolgersi della trama concettuale. L’uomo protesta contro lo scienziato; si scinde da lui; contesta globalmente la società dominata dalla scienza, dai suoi ritmi, dalle sue esigenze operative, dalle ripercussioni che essa esercita, potente e onni-avvolgente, sul costume, sulle reazioni, sui tropismi, sui riflessi condizionati automatici, che nel loro insieme costituiscono la sostanza della quotidianità. Il “corpo” non è solo il “sotto”. È in primo luogo il tentativo, drammatico perché implica un rovesciamento radicale di prospettiva, di recuperare sensi e capacità umani che nelle condizioni sociali odierne rischiano semplicemente l’obsolescenza e quindi l’atrofia e la scomparsa. Il tentativo richiama le notazioni acutissime di Georges Bataille: «Il globo terrestre è coperto di vulcani che gli servono da ano. Benché questo globo non mangi niente, rigetta spesso il contenuto delle sue viscere… Coloro nei quali si accumula la forza di eruzione sono necessariamente situati in basso. Gli operai comunisti appaiono ai borghesi così laidi e così sporchi

23 Cf. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. di E. Filippini, il Saggiatore, Milano 1961, passim; ma specialmente dove Husserl afferma che «il positivismo decapita la filosofia» (p. 39); a questa affermazione è legittimo replicare che “decapitare la filosofia” è ancora un atto filosofico.

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come le parti sessuali e villose, o parti basse; presto o tardi di là verrà un’eruzione scandalosa nel corso della quale le teste asessuate e nobili dei borghesi saranno mozzate» 24. La profezia di Bataille si sta verificando, ma in termini rovesciati. Non sono i borghesi ad avere la testa mozzata. È piuttosto l’insieme dell’umanità a essiccarsi al sole freddo della razionalità scientifica “borghese”. È un punto che forse si potrà in avvenire sviluppare con la dovuta ampiezza. La scienza odierna, mentre consente scoperte e risparmi produttivi straordinari, e quindi una produttività pro-capite eccezionale, ammonta in definitiva a una mutilazione severa delle potenzialità umane. Essa privilegia l’occhio, la vista, l’acutezza e la precisione visive. È una scienza tipicamente visiva, che si basa sulla lettura dei segni e sulle immagini: quindi, è una scienza di ciò che per definizione non si tocca, non si sente, non si odora, non si ascolta. A questo proposito si potrebbe essere anche più drastici: è tutta la “libido”, e non solo la sfera della sessualità, a cadere sotto un controllo determinante, per non dire schiacciante. Né si tratta solo dei due principi freudiani della realtà e del piacere. Il piacere differito è pur sempre un progetto umano, una “libido” ibernata, rinviata, ma pur sempre esistente, resistente, in attesa di soddisfazione. La liberazione della “libido”, sulla quale correttamente si insiste, incontra sulla sua strada blocchi che non corrispondono semplicemente a dei dati di consapevolezza, a dei tabù interiorizzati e da rimuoversi per via psicologica. C’è ben altro.

Al di là del dualismo anima-corpo Si afferma che la “libido” condiziona le strutture della società. L’affermazione mi sembra troppo ardita per essere accettabile senza riserve. La si potrà accettare solo nella misura in cui si riconosca al peso delle strutture, come prodotti storici, il ruolo di una matrice causale e condizionale prioritaria. Altrimenti non vedo come si possa sfuggire alla contraddizione: liberare la “libido”, che sarebbe alla base delle strutture sociali, cioè delle istituzioni fondamentali che regolano la vita e il ritmo della società? E come sarebbe possibile liberare ciò che si postula come fonte delle schiavitù e dei fattori regressivi che pesano sugli individui? Basterà consolarsi con l’idea, così romantica ma 24 Si

veda G. Bataille, Critica dell’occhio, Guaraldi, Firenze 1972, p. 37.

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così gratuita, che l’innamoramento è un fatto “rivoluzionario”? O sarà l’innamoramento sufficiente a farci superare d’un colpo sia la tolleranza repressiva 25 sia quella che ho chiamato la «cooptazione dell’opposizione», che procede man mano con la «proletarizzazione dell’anima», cioè con il «consumatore consumato», e non più, come David Riesman ancora sperava, «produttore di consumo» 26? Temo che la questione sia molto più “corporea”. Il magnate dell’automobile Henry Ford si interessava con una preoccupazione sospetta delle abitudini sessuali dei suoi operai a Detroit 27. Non c’è da credere a scrupoli di indole religiosa o morale. Il buon industriale patriarca sapeva che società organizzata, direzione aziendale scientifica e sessualità incontrollata non vanno d’accordo. Il conflitto è certamente anche interno alla sfera psicologica e culturale, ma per vederlo in tutta la sua portata e per fronteggiarlo non solo verbalmente occorre prendere buona nota degli interessi economici e delle condizioni politiche sottostanti. Da questo punto di vista è difficile sottrarsi al riconoscimento della globalità della crisi e quindi dell’importanza delle dimensioni non puramente psicologiche. Dato che l’infelicità è a sfondo economico o psicologico o culturale, e dato che questi fattori sono tra loro collegati, salute e salute mentale sono raggiungibili solo attraverso mutamenti simultanei nelle diverse sfere, anzitutto dell’amore, ma anche delle organizzazioni, politica, sociale, culturale. Il problema del “corpo” è dunque anche un problema politico. L’analisi va spinta, anzi, più a fondo, a mio giudizio, nella direzione giusta, per quanto scomoda. Occorre infatti ridefinire il “politico”. Il problema del “corpo”, come quello dell’eros, è politico ma è diversamente politico rispetto al passato, e richiede una diversa fantasia del cambiamento, l’uscita dal dualismo cristiano carne-spirito, animacorpo, e la rivalutazione dell’essere umano come essere integrale. Il destino delle imprese rivoluzionarie è a questo proposito una verifica essenziale. Perché le rivoluzioni falliscono o invecchiano? E riproducono allora gli stessi fenomeni di dispotismo, personale o bu-

25 Cf. da ultimo H. Marcuse, One-Dimensional Man (tr. it., L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967), ma, prima ancora, in F. Ferrarotti, La sociologia, Garzanti, Milano 1964. 26 Cf. D. Riesman, Individualism Reconsidered and Other Essays, Free Press, Glencoe 1954; specialmente Some Observations on Community Plans and Utopia, pp. 70-98; New Standards for Old: from Conspicuous Consumption to Conspicuous Production, pp. 219-231. 27 Cf. in proposito il mio America oggi, Newton & Compton, Roma 2006.

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rocratico, contro cui erano storicamente sorte? Da dove proviene l’involuzione del moto rivoluzionario, il suo ristagno, la sua burocratizzazione? Gli studiosi più avvertiti tendono ad affermare che l’alternativa rivoluzionaria si è spesso trasformata in una fuga dalla ragione, mentre il capovolgimento dei significati dell’esistenza risponde al bisogno di una più logica connessione dell’uomo e della sua struttura biologica e psicologica con i significati, e quindi alla necessità di una società che risponda razionalmente a bisogni e a significati nuovi. Ma quale ragione? Di quale risposta razionale si sta parlando? Come si concilia questa concezione della rivoluzione come ricerca della ragione con la richiesta di una “sublimazione non repressiva”? Una prima risposta è per solito data nei termini di una metodologia operativa multidisciplinare, che naturalmente non esaurisce il problema, data la sua natura di convenzionalità essenzialmente arbitraria. Ma la risposta più matura implica invece il concetto di razionalità sostanziale nell’ambito della quale nuovamente si fa strada l’idea di un approccio globale, in cui struttura e personalità, psicologia e sociologia, economia e ideologia non si fronteggiano più come settori separati ed esclusivi, ma al contrario si richiamano dialetticamente nel vivo farsi dell’esperienza umana, che è insieme corpo e significato, eros e ragione, vita e morte. Con il corpo e il suo primato si tenta un recupero della carne e della sua “datità”, cioè del vissuto individuale come vissuto sociale. Resta da domandarsi fino a che punto si sia consapevoli che il recupero del corpo, entità destinata a vivere sia l’amore che la morte, si costituisca non tanto e non solo come un recupero post-cattolico, ma post-cristiano: verso l’unità di eros, ragione e felicità, che fu già il segreto della Grecia classica. Amore, che appunto nella Grecia classica, sia omo- che eterosessuale, con eguale libertà si aggirava per le strade, dal Pireo all’Agorà, nei templi e nei simposi o per i boschi del dio Pan e delle sfrenate Baccanti, con il cristianesimo, fondato sul dualismo carnespirito, si è poi dato alla lotta clandestina. O è stato chiamato a imprese disperate e oltre-umane, come quella che gli addita di farsi dio amando il nemico. In Matteo l’imitatio dei si trova al centro della ragione profonda per cui bisogna amare il nemico, anche a costo della propria auto-stima. Il testo evangelico non lascia dubbi tanto il tono è perentorio: «Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, affinché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5, 44).

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Nozioni fondamentali, che persistono al fondo delle tre religioni monoteistiche universali – giudaismo, cristianesimo, islamismo, con il loro retroterra tradizionalmente dogmatico e intollerante –, sono qui intaccate alla radice e rovesciate. Lo stesso concetto di fedeltà e quello, correlativo, di tradimento vengono sgretolati alla base. Il tradito aiuta il traditore. Nel giardino del Getsemani il Cristo sussurra a Giuda, sottovoce, come per una sorta di misterioso consiglio di complicità: «Sbrigati. Fai presto. Fa’ quello che devi fare. Non perdere altro tempo. Non esitare…». Scrivendo intorno all’eros e alla morte, si lascia in ombra questo aspetto, fondamentale, in quanto scopo finale del comportamento umano: la filialità divina che annulla o, meglio, travalica il mondo corrusco delle passioni umane, solo e troppo umane, dall’ira funesta di Achille per Agamennone, che gli ha sottratto la schiava favorita Briseide, alle guerre come cacce all’uomo da ridursi a condizione schiavile ed eventualmente da torturarsi fino alla sua completa oggettualizzazione.

Eros senza Imeros Si scorgono però, con nitidezza, se appena si levi lo sguardo dall’immediato presente su cui ci schiacciano gli odierni trionfanti mezzi audiovisivi, i limiti dell’eros di oggi, tanto diffuso quanto, ormai, insignificante. Nella mia elaborazione del nuovo tipo sociale dell’homo sentiens, che altri acuti autori hanno variamente teorizzato per aspetti particolari, senza purtroppo coglierne tutta la portata (mi riferisco in particolare, tra gli italiani, a Mario Perniola in Del sentire e Il sex appeal dell’inorganico, o ancora a Giovanni Sartori in Homo videns), ho potuto notare come l’homo sentiens, rispetto all’homo sapiens di ascendenza socratica, goda di indubbi vantaggi, almeno in apparenza. Nel corso degli ultimi decenni questo tipo umano si è laboriosamente conquistato straordinarie libertà sensoriali, dalla contestazione globale degli studenti alla rivolta proletaria e sottoproletaria dei rappers. Richiamo in proposito l’ultimo capitolo della mia ricerca su “giovani e musica” 28. Queste libertà sensoriali acquisite e sempre più diffuse comportano la perdita, graduale ma certa e forse inesorabile, di quell’organo ipotetico chiamato “coscienza” su cui per secoli, specialmente 28 Cf.

il mio Homo sentiens, Liguori, Napoli 20022.

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nella cultura occidentale, si è fondato l’individuo e che ha costituito l’unità centrale della “personalità” della persona, ossia l’individuazione, specifica ed esclusiva, della “maschera sociale” cui il termine “persona” si richiama e da cui trae origine. Le libertà sensoriali e le loro dimensioni extra-individuali non sono, dunque, prive di prezzo, non si danno gratuitamente. L’eros guadagna apparentemente terreno, si svolge e coinvolge nella sua tela accattivante di fremiti e contatti praticamente tutto il campo dell’esperienza umana, dall’alcova e dai rapporti tradizionalmente considerati intimi ai tabelloni delle pubblicità più svariate. Ma nello stesso tempo l’eros tende a porsi e a svilupparsi senza imeros, in quanto nel mondo extra-soggettivo perde importanza l’orgasmo come momento supremo e compimento dell’unione di due individui e si verifica, in concomitanza, la caduta del desiderio e l’atrofia, per così dire, e se è lecito il passaggio dal piano fisiologico a quello sessuale e psicologico, della “prostata dell’immaginazione anticipante”. La soddisfazione precoce e l’illimitata libertà sessuale, mentre fanno cadere i veti e i tabù d’una società autoritaria dominata dalla logica dell’accumulazione primitiva delle risorse in tutti i campi, da quello economico a quello dei liquidi vitali, comporta anche una relativa “decapitazione” o quanto meno un certo grado di depotenziamento dell’impulso sessuale che si risolve in una sorta di ejaculatio praecox sistematica. La quantità prevale nettamente, come in altri casi, sulla qualità. Viene alla mente lo squallido catalogo di Leporello nel Don Giovanni mozartiano circa le conquiste femminili («In Alemagna – cito a memoria – seicentoventinove, in Italia trecentoquaranta e in Spagna, mille e tre, mille e tre» 29). Quantitativamente praticato nei termini di un grande exploit (un sociologo americano, David Riesman, l’autore di La folla solitaria, già parlava negli anni ’50 dei «sex athletes», o “atleti del sesso”), il sesso stranamente, ma non troppo, si dimidia, perde la componente sentimentale, che in fondo 29 Il testo esatto del celebre librettista Lorenzo Da Ponte, che aveva scritto per Mozart anche Le nozze di Figaro e Così fan tutte, è il seguente: «Madamina, il catalogo è questo Delle belle che amò il padron mio, Un catalogo egli è che ho fatt’io: Osservate, leggete con me. In Italia seicento e quaranta, In Almagna duecento e trentuna, Cento in Francia, in Turchia novantuna, Ma in Spagna sono già mille e tre».

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dovrebbe giustificarlo, e insieme l’aura fascinosa della rivelazione pregustata, attesa e febbrilmente anticipata, mentre entra a far parte del mondo effimero degli oggetti “usa e getta”. Il fatto che poi l’animale umano, a differenza degli animali non umani che in genere sono nel periodo di calore solo per un numero fisso di settimane ogni anno, sia sempre pronto all’attività sessuale e possa in vari modi autostimolarsi, peggiora notevolmente la situazione. Quando il sesso non fa più problema, come avviene oggi nella grande maggioranza delle società tecnicamente progredite, il suo uso si rende più libero ma meno saporoso. La funzione sociale dell’orgasmo, che ancora Wilhelm Reich teorizzava e – come forse sarebbe più corretto dire – sognava quale valvola di sicurezza e traguardo ambito di libertà sociale finalmente raggiunta, al modo in cui questa era espressa nei lavori letterari di un D.H. Lawrence e di un Henrik Ibsen, si rivela, nella società totalmente disinibita e sperimentalmente aperta, una funzione neutra, spersonalizzata e quindi intercambiabile, non dissimile in ciò da altre attività sociali, come la guida di un’automobile, la pulizia degli impianti sanitari, l’osservazione delle norme del codice stradale o dell’orario d’ufficio, la preparazione dei pasti da parte delle casalinghe, notevolmente semplificata dal mercato dei surgelati e dei cibi precotti, o il pagamento delle bollette del gas. La liberazione sessuale coincide con impressionante puntualità con la caduta dell’aura, misteriosa e affascinante, e del segreto che da sempre aveva circondato le attività del corteggiamento, della fornicazione e dell’eventuale accoppiamento umano. È venuta meno o, anzi, è stata eliminata la frustrazione, peso insopportabile per le animule dei moderni. Ma è venuto meno, con la frustrazione e il desiderio anticipante, anche il segreto e nello stesso tempo si è appannato lo stupore della scoperta. Il sesso è più libero, certamente, ma anche più meccanico, forse più vuoto e quindi relativamente noioso. Nessuna meraviglia che in questa situazione trionfino i cinema a luci rosse, le porno star, le protesi e le ricette per accrescere ciò che oggi sembra ridicolo o incongruo chiamare la “potenza virile” o anche soltanto per eccitare un modesto desiderio del coito. Di qui anche la pratica, sempre più in uso specialmente fra i ceti medi urbani, della fellatio, del cunnilingulus e della sodomia. Non sembra necessario menzionare la masturbazione, perché questa pratica era tipica di un’epoca, come quella vittoriana, di grandi inibizioni sessuali, in cui lo stretto controllo sociale e familiare e l’inaccessibilità della grande maggioranza delle donne la rendevano pressoché inevitabile. Natu-

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ralmente non solo per i giovanotti frustrati e in calore, ma anche per le donne che imparavano a toccarsi, magari leggendo i romanzi di Liala o di Luciana Peverelli, se non del più ardito Pitigrilli. L’idea che proprio la caduta in disuso dell’orgasmo presso l’homo sentiens possa consentire un’attività sessuale tenera, avventurosa, non turbata dal senso del dovere nel preparare e compiere il grande exploit finale, non sembra sostenibile. È vero, come tutta una tradizione di pensiero afferma, che post coitum animal triste e che un’imponente letteratura è stata elaborata solo per provare un nesso, per quanto debole, fra amore e morte. Amour et mort, la grande synthèse 30. Ma il sesso dimidiato, vale a dire spogliato dall’aura dei sentimenti, può ben prolungarsi e ripetersi all’infinito, ma solo in grazia della sua meccanizzazione come gesto privo di tensione drammatica, propriamente umana, ossia dall’esito imprevedibile. Con esso l’homo sentiens potrebbe anche ampliare l’orizzonte delle sue sensazioni, ma al livello di una macchina o al più di un antropoide. Il prolungarsi indefinito dell’attività sessuale non sarebbe a ben vedere un prolungamento del piacere, ma solo l’eterno ritorno dell’identico. Il sesso come esplorazione e impresa propriamente cognitiva è finito. Questa meccanizzazione del comportamento umano ne misconosce, come abbiamo più sopra ricordato, la qualità profonda: l’imprevedibilità drammatica, la sfida che necessariamente comporta. L’amore dimidiato, ossia ridotto a sesso, e la stessa attività sessuale ridotta a pura frizione priva del culmine orgasmico sono l’esatto contrario di un atto sovranamente liberatorio, e non è forse un caso che come tale sia stato pazientemente studiato dal dr. Alfred Kinsey, illustre entomologo. In questo senso, la “rivoluzione sessuale”, teorizzata e conclamata da Wilhelm Reich, non è una rivoluzione emancipatrice. Conferma le catene che presume di infrangere. L’homo sentiens cerca la liberazione nel puro sentire, si illude di rompere i vincoli logici del ragionare coerente in vista dell’immediatezza dell’esperire, ma al fondo del suo tentativo rischia di trovare, in luogo della liberazione assoluta, una schiavitù ancora più cieca e ancor meno tollerabile. Nel rapporto sessualmente “libero” fra A e B, come del resto in ogni rapporto sociale e interpersonale, è ancora presente il potere, per quanto si tenda qui a presentarlo come “dipenden30 È sempre da consultarsi in merito M. Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Einaudi, Torino 1942.

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za reciproca accettata”. L’homo sentiens incontra qui il rischio più serio: quello dell’auto-azzeramento, dell’appiattimento e della dissoluzione nell’altro, tanto che torna qui inaspettatamente il paolino Cupio dissolvi, come esito imprevisto, ma inevitabile. L’auto-liberazione da ogni vincolo finisce nell’auto-annientamento.

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La riscoperta del corpo e del sacro È la riscoperta del corpo. Ma la formula, pur non priva di una sua apparente evidenza, va liberata da possibili equivoci. Se la riscoperta del corpo fosse ridotta alla tradizionalizzata disputa circa i problematici rapporti fra pensiero puro e organi del pensiero, ossia fra le operazioni della mente e il funzionamento della massa cerebrale, saremmo ancora nel campo delle pur meritorie scienze cognitive e delle ricerche propriamente neurologiche. Forse non saremmo in grado di comprendere la sostanza della riscoperta del corpo in tutta la sua profondità – un’istanza che sembra non lasciare indifferente ormai neppure la teologia morale cattolica, almeno nelle sue punte più avanzate. D’altro canto, la sociobiologia, che in tempi recenti sembra avere segnato una svolta significativa per le scienze sociali, evocando una sorta di grande alleanza fra biologia e comportamento e strutture sociali, tanto da richiamare il carattere rivoluzionario della seconda legge della termodinamica e della cooperazione fra scienze della natura e scienze della cultura – così come erano definite dagli studi di Ilyia Prigogine e Isabelle Stengers –, benché non priva di meriti, soprattutto per castigare la boria dell’impostazione neoidealistica e spiritualistica nelle sue varie versioni, ha perduto gran parte del suo fascino e non si direbbe che abbia tenuto fede alle sue originarie promesse. Nessun dubbio che l’influenza, così onnipervasiva alla fine dell’Ottocento in Europa, dell’evoluzionismo spenceriano si sia a lungo fatta sentire anche presso pensatori in apparenza lontani o estranei a quel mondo di pensiero, piuttosto ingenuamente legato al mito di un progresso inevitabile dal mondo inorganico a quello vegetale, a quello organico e infine a quello superorganico, fino alle soglie di quell’inconoscibile, o unknowable, di cui peraltro Herbert Spencer conosce in verità troppe cose per dichiararlo tale. Basta pensare che, in Gaia scienza, lo stesso Friedrich Nietzsche non esita a consigliare di non fidarsi della coscienza, dato il ritardo nella sua evoluzione e quindi il suo carattere ancora incompleto, per non

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citare l’opera di Henri Bergson, tutta rivolta a esplorare i meccanismi della memoria e della durata interiore e che si presenta, pur tuttavia, ancora sotto il titolo di “evoluzione”, benché “creatrice”. Come in altra sede ho osservato, la questione è ancora recentemente stata riaperta con grande finezza analitica sulla scorta della lettura furba più che accurata di Locke e del sensismo da parte di Voltaire: «Dal cervello all’anima, il rapporto è identico che dall’occhio alla vista; e dall’anima al cervello, lo stesso che dall’intenzione di camminare alle gambe che si curvano. Nel corpo l’anima non fa altro che annodare rapporti analoghi a quelli che il corpo stesso ha stabilito. Essa è il senso dei sensi, l’azione dell’azione. E proprio come il camminare è impedito dalla paralisi della gamba, e la vista oscurata dalla malattia dell’occhio, così l’anima sarà colpita dalle lesioni del corpo e soprattutto dalle lesioni di quell’organo privilegiato che è il cervello, e che è l’organo di tutti gli organi: a un tempo di tutti i sensi e di tutte le azioni. L’anima è dunque altrettanto impegnata col corpo che la vista con l’occhio, o l’azione coi muscoli. E se a questo punto si sopprime l’occhio. […] Ed è mostrato con ciò che “la mia anima è folle per se stessa”, nella sua propria sostanza, in ciò che fa l’essenziale della sua natura; e che “io non ho altra anima” oltre a quella che è definita dall’esercizio degli organi del mio corpo» 31. La riscoperta del corpo non è da intendersi in senso generale, bensì come liberazione da ogni superfetazione metafisicheggiante 32. A proposito del concetto di “persona umana” e in generale delle correnti filosofiche e politiche che si richiamano al “personalismo”, ho altrove accennato al tentativo, solo in parte riuscito, di fondare la personalità della persona, ancorandola a un supporto metastorico, dotato quindi di uno status ontologico in senso pieno. Il rischio del tentativo è la perdita di vista dell’uomo vero, storicamente datato e vissuto, secondo la prospettiva fatta valere dall’esistenzialismo e dalla fenomenologia. La nozione stessa di persona è in questo senso ambigua. La scissione fra individuo e persona può di fatto nascondere

31 Cf. M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 1963, p. 243. 32 Per un esame meticoloso delle “ricadute” della riscoperta del corpo sul costume

e sulle pratiche di vita quotidiana, dalle palestre alla chirurgia plastica, cf. D. Cravero, Corpi allo specchio, Ed. Dehoniane, Bologna 2006, in cui peraltro non si esita ad affermare “la crisi dell’esteriorità”: «La domanda crescente di fitness sembra rivelare che il recupero del valore del corpo […] si realizza solo con una nuova qualità del rapporto con se stessi, nel rispetto di tutte le dimensioni e non semplicemente nell’esaltazione del potere, comunque sempre limitato, della plasticità della sua performance» (p. 193).

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un disinteresse mortale per l’individuo, la sua concettualizzazione, la riduzione della sua specificità unica e irripetibile. «Vi è in ogni uomo – è stato scritto – qualche cosa di sacro. Ma non è la sua persona. Così come non è la persona umana. È lui, quest’uomo, semplicemente. Ecco un passante nella strada che ha lunghe braccia, occhi blu, una mente in cui passano pensieri che ignoro, ma che sono forse mediocri. Non è né la sua persona né la persona umana che è in lui che per me è sacra. È lui. Lui tutto intero. Le braccia, gli occhi, i pensieri, tutto. Non metterei le mani su niente di tutto ciò senza scrupoli infiniti» 33. Gli occhi, la bocca, le braccia, i pensieri: è la riscoperta del corpo. Meglio, è la rivalutazione dell’unitarietà fondamentale dell’essere umano, di questa straordinaria miscela, del sinolo. È la riscoperta delle basi materiali, corporali, del significato. Ma se il corpo è la base, l’unità di misura dei bisogni e, nello stesso tempo, per così dire, il loro semaforo, il corpo può ancora dirsi che abbia storia oppure va concepito come un archetipo iperuranio, astuzia del concetto, travestimento corporeo di essenze metastoriche? Si parla del corpo come dato, come di una realtà strutturale, essenzialmente intemporale. Il “corpo”, in altre parole, non è solo il “sotto”. È in primo luogo il tentativo, drammatico perché comporta un rovesciamento radicale di prospettiva, di recuperare sensi e capacità umani che nelle condizioni sociali odierne rischiano semplicemente l’obsolescenza, e quindi l’atrofia e la scomparsa. Il grido di Nietzsche: «Bleib der erde treu (restate fedeli alla terra)» ha questo senso. Il dualismo cristiano e il razionalismo disincarnato, cartesiano e borghese, trovano qui la loro diffida radicale. «Bisogna insistere sul fatto – è stato osservato – che non c’è immediatamente altra soluzione all’agitazione interiore che viene a un individuo dall’impossibilità di limitarsi all’ideale borghese. Nietzsche ha messo in evidenza questo fatto primordiale che, dall’avere la borghesia ucciso Dio, risulterebbe subito una confusione catastrofica, il vuoto, e perfino un impoverimento sinistro. Era dunque necessario, non soltanto creare valori nuovi, ma precisamente dei valori suscettibili di colmare il vuoto lasciato da Dio. […] Non che Nietzsche sia stato proprio incapace di ricorre al fango per voltolarvisi. Fin dall’origine delle reazioni contro le forme mentali borghesi, la tendenza a ritrovare dei valori declassati come 33

Cf. S. Weil, Ecrits de Londres et dernières lettres, Gallimard, Paris 1957, pp.

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bassi si fa necessariamente avanti, ma solamente in secondo piano. Il “senso della terra”, con Zarathustra, è un’indicazione precisa a questo riguardo. Non bisogna neppure dimenticare che Nietzsche parlava già espressamente del fondamento sessuale delle reazioni fisiche superiori. Egli arrivava perfino a dare allo scoppio di risa il più grande valore dal punto di vista della verità filosofica (che ogni verità che non vi ha fatto scoppiare a ridere almeno una volta sia guardata da voi come falsa)» 34. Per l’Occidente, il problema emergente non è più né il corpo né il sesso, ma la morte, che invece nell’Oriente rientra nel naturale ciclo vita-morte-nuova vita 35. La morte fa esplodere la differenza qualitativa fra verità tecnico-scientifica e verità umana. Il problema delle “due verità”, in altra sede da me trattato, emerge qui con forza e apre un passaggio speculativo delicato. La morte è il “salario del peccato”. Se, d’altro canto, lo “scandalo” della morte è il fondamento, teoretico ed esistenziale, del concetto di finitudine umana e della possibilità di una teologia naturale, allora il peccato è essenziale. Credo d’aver compreso la natura “divina”, parossistica, del peccato nel corso delle mie ricerche sulla violenza intesa come «un abbraccio mal calcolato» 36. Vi è nel peccato una hybris che richiama la furia manichea degli dèi omerici. Il peccato non è necessariamente carenza, vuoto; può essere eccesso di vita, impazienza, anticipazione. Più che alla statica (scolastica) contrapposizione fra bene e male, il peccato fa pensare o quanto meno fa balenare la possibilità di un ordine al di là dell’ordine costituito. Ciò che mi affascina nel criminale è questo aspetto di giustiziere impaziente, di attore che fa giustizia da sé, ossia che si pone come fonte del diritto, punto di coincidenza fra potere di fatto e autorità legittima: il criminale come perpetrator e nello stesso tempo come auctor – l’unico depositario di una libertà autentica, ossia “assoluta”, a legibus soluta 37. 34 Cf. G. Bataille, Critica dell’occhio, cit., pp. 35 Cf. il mio Vietato morire. Miti e tabù del

145-146 (corsivo nel testo). secolo XXI, La Mandragora, Imola 2004; inoltre Ph. Ariès, Storia della morte in Occidente, Rizzoli, Milano 1978, p. 72. Sul “controllo della morte”, cf. L.-V. Thomas, Anthropologie de la mort, Payot, Paris 1981; sulla desiderabilità della “morte dolce” in luogo d’una vita artificialmente prolungata, cf. M. Burnet, Le programme et l’erreur, Albin Michel, Paris 1982; inoltre AA.VV., La survie après la mort, Labergerie, Paris 1967. 36 Cf. i miei contributi, Alle radici della violenza, Rizzoli, Milano 1979; L’ipnosi della violenza, Rizzoli, Milano 1980. 37 Per una visione dell’etica sessuale nella prospettiva morale cattolica, cf. J. Noriega, Il destino dell’eros, Ed. Dehoniane, Bologna 2006.

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È stato plausibilmente osservato che «quando si dice […] che la rivelazione va “dal sacro al santo”, pensando la santità come eticità, si lascia fuori qualcosa di fondamentale che nel “sacro” era contenuto. Il sacro è legato all’idea di purità e impurità rituale che, diversamente interpretata, la tradizione ebraica ha, per molti aspetti motivatamente, ridotto a qualcosa di minore rispetto all’eticità. Ma si perde così il prezioso senso originario del rischio supremo di ogni gesto, del suo confrontarsi con la morte, come nell’episodio di Uzza fulminato per aver teso la mano a sostenere l’arca sul carro traballante (2 Sam 6, 6-7), del bilico fra morte e salvezza. Il passaggio biblicamente coerente non è dal sacro all’etico, ma dal sacro al messianico» 38. È un richiamo importante del fatto che in ogni istante uno compie un gesto, decide una scelta che lo salva o lo perde. Ma è un richiamo anche della natura profonda di ciò che è “sacro” e “santo”. La definizione di sacro è difficile, forse, come ha ritenuto Rudolf Otto, impossibile. Sembra fondato ritenere che studiosi di un certo orientamento ideologico abbiano potuto considerare il sacro come l’elemento che contrassegna il religioso, nelle sue varie manifestazioni 39. Ci si può limitare a considerare sacro ciò che non è profano, come hanno tradizionalmente fatto i sociologi sulla traccia di Emile Durkheim. Ma allora il profano è tutto ciò che il sacro tenta di espungere da sé, ciò di cui intende purificarsi. Ed è per questa via, specialmente nel pensiero occidentale, che il sacro diventa il concetto centrale per la comprensione sia della sfera culturale che delle religioni nella loro specificità storica, ossia delle religioni positive. Di questo mi sono a suo tempo occupato in Sacro e religioso e, prima ancora, in Il paradosso del sacro. Ma è ancora possibile, o addirittura necessario, concepire il sacro come l’indicibile o l’ineffabile, ossia come il non esistente, ciò che non è ancora stato, presente come un assente. Commentando un testo di Hölderlin, Martin Heidegger giunge a considerare il Sacro come la radice del destino degli uomini e degli dèi: «Il Sacro, più antico di tutti i tempi, al di sopra degli dèi, fonda con il suo apparire un altro inizio di un’altra storia. Il Sacro decide inizialmente degli uomini e degli dèi, se essi siano, chi siano,

38 Cf. S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, Adelphi, Milano 1990, p. 137. 39 Ho elaborato la distinzione tra sacro e religioso, e quindi tra religione – di Chie-

sa – dissacrante e religiosità come esperienza religiosa profonda in Sacro e religioso, Di Renzo, Roma 1997.

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come siano, quando siano, e il suo venire veniente è espresso attraverso l’appello del poeta» 40. Sta di fatto che nell’ambito linguistico più vicino al latino, sacro e santo sono distinti e separati. Sacer è l’opposto di profanus; e anche sanctus, ossia sine sanctione. Una contrapposizione analoga è forse possibile stabilire anche fra sacer e religiosus, in quanto religiosus, da religare (ma la derivazione è incerta), è affine a sanctus, da sancire, “sanzionare”. Ciò che mi sembra comune a sacer e sanctus è la preoccupazione per la purezza, il terrore dell’impurità, la ripugnanza per tutto ciò che richiama le parti basse e villose del corpo. In altra sede ho sviluppato questo punto, che segna il discrimine fra le religioni monoteistiche legate a una concezione del Dio personale e le religioni orientali, induismo e buddhismo. Ma parlare di induismo è probabilmente illegittimo e fuorviante. È un termine riassuntivo che non riflette né tanto meno spiega il sovrapporsi storico, le stratificazioni e l’accumulo di tradizioni diverse nel tempo, tanto che si potrebbe al più parlare di vari, anche contrastanti dottrine e orientamenti induisti, ma non di un insieme relativamente unitario di regole e comportamenti. Il termine induismo si può solo giustificare sul piano dell’espediente pratico, come una sorta di biglietto da visita per presentare la religione indiana agli stranieri, soprattutto agli occidentali. Così cercava, pazientemente, di spiegarmi la situazione religiosa indiana molti anni fa, nell’inverno del 1957 a Bombay, il prof. Sarvepalli Radakrishnan, all’epoca vice-presidente della Repubblica indiana, da poco liberatasi dal dominio inglese. Confesso, e mi rendo conto oggi, di non averci capito molto. Una volta di più emergeva peraltro dalle nostre conversazioni, soprattutto dai miei turbamenti, l’inadeguatezza degli schemi del razionalismo occidentale quando siano messi a confronto con la complessità del mondo religioso orientale. Lo stesso Max Weber, così esemplare e minuzioso nella sua ricerca dei particolari, quando studia la sociologia delle religioni universali, muove la sua analisi, incurante delle inevitabili distorsioni etnocentriche, da una prospettiva razionalistica cartesiana e tecnico-formale, e ripete con una insistenza ossessiva che «Nur in Okzident (Solo in Occidente)» abbiamo la partita doppia, pratichiamo il calcolo ra40 Si tratta del commento alla poesia di Hölderlin Come quando al dì di festa… (Wie wenn am Feiertage…), in M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, Adelphi (Biblioteca filosofica 5), Milano 2001, pp. 59-93.

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zionale e irrazionale, che al di là di questa penalizzante dicotomia esistono altre dimensioni anche più importanti, come il preter-razionale. Non solo: tra razionale e irrazionale si apre l’ampia “radura”, per così dire, dell’a-razionale. Ma di questo ho parlato e scritto abbondantemente in più sedi. La radice greca, in questo senso, non è più adeguata, vieta di capire gli altri, non comprende i mondi religiosi e culturali che travalichino le sue coordinate. Andrebbe preliminarmente riconosciuto che non è questione di virgolette o di aut aut. In effetti, non è facile per un occidentale, pur animato dalle migliori intenzioni, considerare le grandi religioni orientali da una prospettiva che non sia quella occidentale. Nessun dubbio che il concetto formale di razionalità costituisca un grave ostacolo a una comprensione piena. Le tre religioni monoteistiche sembrano, rispetto a quelle orientali, ossessionate dal bisogno di razionalità formale e dal terrore della contaminazione da contatto. Come abbiamo già detto, sono religioni essenzialmente antropocentriche e portate all’assolutismo dogmatizzante.

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di

Domenico Antonio Conci * (†2008)

Entrando e soggiornando anche per poco nei territori della ricerca analitica contemporanea è impossibile sottrarsi al dettato metodologico ed epistemologico postmoderno che impone agli operatori, collocati di fronte a dati qualsivoglia da considerare, di formulare le loro valutazioni senza aver preso coscienza, piuttosto e anzitutto, della prospettiva metodologica, ideologica e storica, mediante la quale i dati sottoposti alla loro disamina sono stati raccolti e interpretati. Diversamente, l’analista rischia di essere coinvolto in aporie o in fraintendimenti ermeneutici, persino molto gravi, anche perché più occulti che visibili, quando le stravaganze dei dati non sono dovute a oscurità insite nel dettato documentario, ma agli stravolgimenti di senso indotti dall’inadeguatezza, rispetto ai dati, degli strumenti di lavoro approntati e impiegati per la loro decifrazione. Ben lontano dall’aderire – malgrado ogni contraria apparenza – alla nota precipitosa conclusione ontologica ed epistemologica secondo cui esistono solo interpretazioni e non fatti, cara al relativismo speculativo, cioè dogmatico, il relativismo analitico e critico, cui qui mi riferisco, diffuso nell’attuale pensiero cognitivo – filosofico e scientifico – rinvia, piuttosto, alla constatazione generale che, preso un asserto qualsiasi e sottoponendolo ad analisi, onde soppesare la qualità e la quantità del contenuto informativo reale, il volume dell’informazione – per altro mai neutro – appare sempre di gran lunga inferiore rispetto a quello del necessario apparato costruttivo, cioè della costituzione di senso destinata ad ordinare e a collegare tra loro l’insieme dei dati. La manifesta difficoltà di isolare da tutto il resto l’in sé delle cose, liberandolo dagli ambigui e tenaci legami del per sé, appare, og* Nato a Reggio Calabria nel 1936 e morto a Roma il 13 maggio 2008; Domenico Conci è stato ordinario di Filosofia Teoretica nella facoltà aretina dell’Università di Siena dal 1976, Preside della facoltà dal 1986 al 1992, e Direttore del Dipartimento di Studi storico-sociali e filosofici.

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gi, come l’eco di fondo di una crisi antropologica andata smarrita, oltremodo remota, il cui sisma iniziale, prodottosi probabilmente con il transito nell’Età del Ferro di alcune aree nevralgiche del Mediterraneo antico orientale alla fine dell’Età del Bronzo (1200 a.C.), ha generato un’onda lunghissima che sembra sia finita con il frangersi, molto più tardi, sui lidi contemporanei della postmodernità nella configurazione di un pensiero diffidente e sospettoso, oltremodo generalizzato e apparentemente irresistibile, che sembra connotare in maniera eminente il nostro tempo di occidentali. Pertanto, affidare a un fenomenologo analitico un contributo sul tema “Corpo e religioni” comporta l’implicito riconoscimento che quanto verrà di volta in volta asserito sarà da intendere necessariamente e sempre come relativo ai principi metodologici e alle categorie di una fenomenologia radicalmente analitica, e mai come valido in sé, «sospingendo in tal modo l’asserto verso l’incondizionato», ontologico o trascendentale che sia. È, ad esempio, noto che una fenomenologia intesa come analitica non naturalistica e non oggettiva di senso, applicata, in questo caso, all’analisi strutturale e relazionale di figure come “corpo” e come “religione”, non tratterà mai queste come entità concrete o astratte, avulse dai vissuti che le hanno costituite intenzionalmente come propri noemi, ma, esercitando l’epochè e la riduzione eidetica, proverà a isolare per decostruzione i processi intenzionali costituenti, onde cogliere l’originario statuto di senso genetico e strutturale di tali figure culturali. Ciò facendo, sarà ovvio precisare che i risultati raggiungibili da una simile analitica difficilmente potranno omologarsi con quelli conseguiti da analitiche non fenomenologiche dedicate ai medesimi temi, sebbene ciò non comporta necessariamente alcuna incommensurabilità precostituita tra i vari metodi d’analisi, che arrivi, in ogni modo, al punto di escludere la ricerca multidisciplinare che il relativismo metodologico, di fatto, impone. Più delicato è, poi, il dibattito sul cosiddetto relativismo culturale, cui sarebbe ormai preda, secondo alcuni pensatori, l’Occidente secolarizzato dei nostri giorni. Esso non può qui essere affrontato approfonditamente, sebbene l’argomento di questo scritto lo incontri, sia pure operativamente, coinvolgendolo di fatto perché rende problematico qualunque tentativo di estrapolare i significati da una cultura a un’altra, diffidando, in generale, del senso ottenuto da dati impaginati e letti mediante la decontestualizzazione semantica dei termini di casa propria impiegati nel lavoro ermeneutico in casa di

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altri. In realtà tale irresolubile questione sta in piedi solo fino a quando si dà per scontata l’universalità della stessa dicotomia assoluto-relativo, assumendola, senza fondamento alcuno, come una invariante metaculturale e come categoria generale da impiegare tranquillamente quando si ritiene che serva per la securizzazione dei propri discorsi filosofici e scientifici, sottraendoli alla precarietà del divenire di tutte le cose. Il riconoscimento dell’indole geneticamente culturale di tale nota polarità concettuale, tuttavia, non comporta la sua destituzione ovvero la precipitosa affermazione “metafisica” che “tutto è culturale”, ma solo la perdita della presunta portata ontologica di essa per rivelarsi, più debolmente, come un comodo operatore metodologico, funzionale – quando lo è – al raggruppamento e all’ordinamento dei dati. Così, quando ai primissimi anni del Novecento un capo indigeno dei Mari del Sud, alla domanda postagli dal missionario ed etnologo M. Leenhardt, su quale fosse la cosa più rilevante donata dalla cultura bianca all’indigena, rispose, come sembra, «il corpo, l’idea che esistono cose che non hanno anima», non risuonerebbe oggi inattesa e sconcertante, come accadde probabilmente, allora, al tempo dell’evento, se la fiducia incondizionata nell’assolutezza e nell’esclusività dei principi, delle categorie, delle dicotomie del pensiero occidentale non si fosse frattanto seriamente incrinata, per venire, poi, meno lungo il decorso del secolo scorso. È del tutto evidente che una simile risposta rivela l’assenza nell’indigeno dell’idea di “materia”, cioè di un tipo di realtà privo del possesso dell’intelligenza e della volontà, impersonali o personali; e, allora, gli sarà altrettanto alieno e del tutto incomprensibile il significato di termini come “anima”, “spirito” e, conclusivamente, misteriose nel loro statuto di senso e nelle ragioni di esistenza note, importanti polarità o dicotomie, quali “anima-corpo”, “spirito-materia”, che, nate in blocco per reciproca opposizione, puntellano da oltre duemila anni credenze e comportamenti del nostro Occidente. Tali polarità, se assunte come evidenti e ovvie al punto da assumerle ambiguamente inamovibili come se fossero “naturali”, “una seconda natura”, noi occidentali siamo soliti impiegarle senza cautela alcuna nelle usuali attività cognitive e interpretative, anche quando analizziamo culture non occidentali o non influenzate dal pensiero occidentale. Sarebbe veramente strano se ci comportassimo diversamente. Ma, quando singolari disagi di fondo invadono la nostra coscienza – si pensi, ad esempio, a quelli descritti enfaticamente nel ce-

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lebre Nausea di J.P. Sartre – suscitando perplessità esistenziali cruciali e quesiti cognitivi radicali circa i caposaldi della cultura di casa propria, come sul valore incondizionato, ad esempio, di tali dicotomie, come di altri principi o di altre categorie della cultura d’appartenenza, quanto si celava nel fondo di ogni enciclopedia tribale, complice l’inevitabile oscurità degli inizi, appare finalmente in superficie e diventa accessibile alla coscienza. Diversamente la fiducia indigena nell’assolutezza e nell’esclusività delle assunzioni cognitive ed esistenziali di base, trasmesse ai nuovi nati dal processo d’inculturazione, che le fissa come una seconda natura, come fossero un istinto, non potrebbe essere mai ragionevolmente intaccata. È questo un sintomo inequivocabile dello stato patologico in cui versa un intero sistema culturale ed è proprio il vissuto della crisi novecentesca a generare e ad alimentare, a mio avviso, le ragioni storiche e antropologiche di fondo dell’avvento della stessa epochè fenomenologica, destinata a colpire, sospendendolo, qualunque vissuto intenzionale di credenza in un in sé, divenuto autonomamente problematico tramite una crisi interna, per poi decostruirlo, onde portare alla luce del giorno il senso originario, genetico e strutturale, celato in esso. Nel nostro caso, allora, occorre sottoporre all’analisi fenomenologica le dicotomie già introdotte, quali anima-corpo, spirito-materia e affini, come ad esempio, naturale-soprannaturale, immanenzatrascendenza, provando a decostruirne le componenti dei vissuti genetici e strutturali, costitutive del loro senso intenzionale oggettivo, per cogliere poi l’indole delle possibili o reali relazioni intercorrenti tra i vissuti del corpo e i vissuti sacrali. Lo sbiadire della cogenza e della pervasività del dettato mitico in generale, già nella Grecità arcaica, in terre orientali mediterranee tormentate dall’ibridismo etnico più elevato del nostro intero pianeta, e il suo disorientante sconfinare nella logica e nell’economia dell’estetologico, affida le origini della cultura occidentale alle performance cognitive ed esistenziali di un logos inaudito che, sebbene spesso gratificato con l’attributo di “divino” (oscuro sintomo di un’incipiente secolarizzazione), è, in realtà, privo dell’avallo di un reale fondamento rivelativo sacrale. Ed è talmente radicale lo smarrimento ellenico della ultramillenaria intenzionalità rivelativa della coscienza umana da indurre la cultura occidentale, fin dai suoi inizi, alla riduzione dell’intero universo della manifestazione alla figura del fenomeno che emerge, in realtà, solo nella Grecia arcaica come sintomo dell’eclisse della credenza nel valore attestativo del reale da

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parte della rivelazione 1, per poi imporsi saldamente in Occidente come del tutto esclusiva e, addirittura, come “psicofisiologicamente necessitata”. Fu occultata, in tal modo, una differenza cruciale di senso manifestativo che solo una fenomenologia radicale può ricondurre alla luce, quella tra rivelazione e fenomeno, coinvolgente le loro stesse genesi e le loro specifiche strutture di senso, cioè l’indole delle scaturigini, dei dati manifestativi, dello spazio (per l’ordine della simultaneità), del tempo (per l’ordine della successione), della logica (per le leggi di connessione dei dati stessi). Che tutte le culture pregreche e non greche siano fondate su dati e su valori d’indole rivelativa, d’ascendenza cultuale probabilmente preistorica, è un importante rilievo fenomenologico puntualmente emerso nelle analisi dei vissuti di concezioni e di comportamenti mitico-rituali e profani, il cui senso riposto difficilmente può essere decifrato senza presupporre nelle coscienze la salda credenza nel “realismo segnico”. Alludo con tale termine generale alla concezione che crede all’indistinzione generale tra i segni, i sensi e i loro referenti, e che contempla varie modalità realistiche come il realismo onirico (l’indistinzione tra il sogno e il contenuto del sogno), il realismo concettuale (l’indistinzione tra il concetto e il suo contenuto), il realismo fantastico (l’indistinzione tra il fantasticare e il suo contenuto), il realismo esperienziale (l’indistinzione tra la sensazione e il suo contenuto reale). L’essere, quindi, letteralmente “incarnati” dei referenti, unitamente alle strutture di senso che essi esibiscono, nei segni che li designano esclude che tale stravagante singolarità semantica possa essere fraintesa intendendola banalmente come mera risultanza mimetica, perché la mimesis presuppone sempre ciò che il realismo segnico esclude per ragioni d’essenza, e cioè la divaricazione, a priori incomponibile, tra il segno e la realtà, che la resa mimetica pretende di colmare 2.

1 Per la fenomenologia il fenomeno non è altro che una manifestazione rivelativa priva del valore attestativo diretto e immediato della realtà. 2 È fenomenologicamente importante, allora, la distinzione tra il valore presentativo e quello rappresentativo del segno significante. Nel primo caso il referente è presente coincidendo con il segno stesso in cui è incarnato, nel secondo invece il referente è assente e il segno significante allude a enti o a stati di cose che stanno di là da esso e con i quali non potrà andare mai a coincidere, per quanto perfetto possa riuscire il lavoro mimetico. Essendo consolidato in Occidente l’uso linguistico del termine “realistico” per qualificare un segno che imita alla perfezione una realtà qualsivoglia, preferisco allora impiegare l’attributo “iperrealistico” e, quindi, il termine “iperrealismo segnico” per mantenere chiara la distinzione tra il realismo rappresentativo e il realismo presentativo (iperrealismo) dei segni in testi fenomenologici specialistici.

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Così l’analisi fenomenologica radicale, isolando la fattispecie ultramillenaria di una manifestazione divenuta del tutto aliena e poi cancellatasi nella cultura occidentale, ove l’apparire e l’essere venivano singolarmente a identificarsi, vi riconosce la struttura eidetica basilare della rivelazione come struttura estranea e opposta a quella della manifestazione fenomenica in cui l’apparire e l’essere a priori non possono mai coincidere se non, eventualmente, casualmente, cioè solo di fatto. L’occultamento del senso originario del dato rivelativo e della specifica postura della coscienza rivelativamente atteggiata fu talmente radicale che in Occidente invalse come scontata la convinzione che rivelazione e rivelazione sacrale volessero significare l’identica cosa, smarrendo, in tal modo, l’importante dato antropologico che la postura rivelativa della coscienza, apparendo, in realtà, all’analisi fenomenologica semplicemente come una modalità generale non fenomenica del rapporto tra uomo e reale – antropologicamente ultramillenaria –, comprende evidentemente anche l’universo dei dati profani. Per la fenomenologia, il vissuto ierofanico o teofanico, costituente la manifestazione sacrale, è tale non perché rivelativo, ma perché, a differenza di quello della rivelazione profana, è un vissuto la cui intenzionalità costituisce un noema che esibisce un nocciolo cratofanico. In linea generale è, di certo, ritenuto potente e quindi Sacro qualcosa che eccede la norma delle capacità umane o, soprattutto, quanto si rivela titolare e gestore di beni di cui l’uomo e il mondo hanno bisogno per sopravvivere e di cui sono autonomamente del tutto privi, come l’esistenza e il senso che solo da una figura potente, se vuole, possono essere elargiti rivelativamente. Ma, sebbene rivelazione e rivelazione sacrale non siano sinonimi, l’analisi fenomenologica rileva tuttavia che, se la manifestazione rivelativa non costituisce la base sufficiente perché il Sacro si manifesti, essa, tuttavia, appare come la condizione necessaria perché le ierofanie – come manifestazioni potenti – possano aver luogo nel mondo e fra gli uomini, e possano essere eideticamente riconosciute come tali a pieno titolo. Assume allora un rilievo non marginale, soprattutto per la comprensione di una cultura come quella occidentale, che presuppone la fenomenizzazione della manifestazione e che ha inventato la secolarizzazione della condizione umana, suscitando lo spettro dell’eclisse del Sacro, il disoccultamento fenomenologico delle ragioni per cui un’autentica manifestazione sacrale sarebbe sfigurata o resa addirittura impossibile se dovesse poggiare su una base manifestativa d’indole fenomenica.

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Se la differenza tra la manifestazione fenomenica e quella rivelativa risiede nella constatazione fenomenologica che solo nella rivelazione l’apparire e l’essere coincidono a priori – sebbene non sempre di fatto –, mentre nel fenomeno questa condizione a priori non si dà mai 3 – fuorché eccezionalmente di fatto –, il senso evidente della distinzione riposa sulla differenza tra l’attestazione satura o sempre saturabile della rivelazione e quella insatura e mai saturabile del fenomeno. È del tutto comprensibile che, dovendo comporre dati manifestativi molteplici, lacunosi e contrastanti, onde ordinarli e connetterli per costituire intenzionalmente un cosmo sensato, il rapporto tra la coscienza e la realtà approdi necessariamente a esiti noematici molto diversi a seconda che le strutture di senso, attive nei processi intenzionali, siano date contestualmente ai contenuti manifestativi, come accade sempre nella rivelazione, oppure debbano attingersi, per così dire, dall’esterno di essi, come avviene di necessità in ambito fenomenico. L’intrinseca ambiguità del fenomeno, dovuta all’inaffidabilità di ciò che tale manifestazione attesta di realtà e di senso, dato che in essa l’apparire e l’essere non coincidono per ragioni d’essenza, costringe ad affrontare le lacune e i contrasti dei dati manifestativi appellandosi all’opera di integrazione e di saturazione di un logos formale, eideticamente estraneo alle ragioni intuitive che invece, nel caso della manifestazione rivelativa, non vengono mai smarrite, perché in tal caso le lacune e i contrasti sono sempre sanabili con l’ausilio di ulteriori rivelazioni donatrici di contenuti e di sensi, quindi senza la necessità di attivare una metabasis eis allo ghenos. Pertanto, mentre il logos rivelativo è necessariamente “incarnato”, secondo i protocolli fenomenologici del realismo segnico, e rinvia a una coscienza priva di ego, cioè impersonale, il logos fenomenico, che opera sempre a partire da una noesis soggettiva (personale) ritenuta intenzionalmente autonoma, cioè egocentrata, è, invece, tendenzialmente “disincarnato”, al punto da potersi ridurre a strutture formali “astratte” (morphai) – svuotate di contenuti specifici –, che nell’impiego della matematica come scienza delle relazioni esibiscono potenzialità descrittive, esplicative e predittive dei fenomeni, cui sono applicate, considerate in Occidente di assoluto rilievo non soltanto cognitivo.

3 È per affrontare questa grave carenza antropologica, cognitiva ed esistenziale nello stesso tempo, che ha reso impossibile la sopravvivenza dell’atavica cultura cosiddetta sapienziale, la ragione per cui l’Occidente ha inventato la filosofia e la scienza in funzione surrogatoria.

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Ma, se il logos rivelativo presenta come strutture di senso – sempre esibite come intrinseche ai propri dati – un modello spaziale dell’ubiquità, un modello temporale della ripetizione e una legge logica dell’identità iletica (non parmenidea) – ove l’identità scatta anche per entità tra loro semplicemente analoghe, omologhe o contigue nello spazio o nel tempo –, mentre il logos fenomenico struttura i dati proiettando su di essi preferibilmente modelli spaziali prospettici, modelli temporali storici, cioè irreversibili, e logiche rette dal principio identitario noetico (A=A) di remota origine parmenidea, è evidente che la compagine dell’esistente, alla resa finale della funzione intenzionale, si diversificherà grandemente secondo l’indole incarnata o disincarnata dei logoi che vanno a costituire proiettando noematicamente i propri mondi. Così, se il logos disincarnato operante su base fenomenica costituirà necessariamente quell’universo dell’oggettivazione, familiare a noi occidentali, facilmente riconoscibile alle radici delle ontologie metafisiche e delle molteplici entificazioni scientifiche, il logos incarnato, quello del realismo segnico di base nelle manifestazioni rivelative, le cui strutture di senso si ritengono elargite sempre rivelativamente insieme ai dati manifestativi stessi, allestisce intenzionalmente un universo di esistenti dotati tutti di intelligenza e di volontà, che l’Occidente colto fraintende ritenendolo un mondo “incantato”, partorito in piena libertà da una poiesis puramente fiabesca. La fenomenologia invece, isolando i vissuti costitutivi di base delle “culture dei mondi incantati”, ne rileva le ragioni riposte nell’inscindibilità eidetica della componente intenzionale (noesis) da quella non intenzionale (hyle) 4, che impone ai vissuti fondati nel mito e nel rito l’animazione generale di ogni esistente, diversamente da quel che si rinviene analizzando fenomenologicamente i vissuti delle culture occidentali, ove la dura divaricazione tra le due componenti, dovuta a un remoto sisma culturale, sfocia nell’isolamento e nella polarizzazione per opposizione, da parte del logos d’Occidente, di due valori prima ignoti chiamati “spirito” e “materia”. 4 Riprendo da Husserl i termini noesis e hyle con cui il fondatore della fenomenologia ha voluto chiamare ellenicamente i due elementi reali costitutivi dei vissuti, quello intenzionale e quello non intenzionale, trasmettendo, purtroppo, anche i loro significati originari. L’analisi fenomenologica dei vissuti delle culture mitico-rituali, ove la credenza nell’animazione generale di qualsivoglia esistente è generale, attesta che in essi la noesis è sempre iletizzata (realismo segnico) e la hyle è sempre noetizzata (animazione d’ogni esistente). È evidente allora la ragione fenomenologica per cui nell’universo mitico-rituale la noesis non può essere intesa come spirito e la hyle come materia più o meno bruta, essendo per ragioni eidetiche tutto ciò che si manifesta un reale animato.

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Se ora, sulla scorta dei protocolli approntati dalla fenomenologia, proviamo a svolgere la decostruzione dei vissuti che costituiscono intenzionalmente quella particolare struttura noematica chiamata corpo nella cultura occidentale, non è difficoltoso indicare con tale termine un’entità generalmente macroscopica, risultante dall’organizzazione di dati fenomenici di una coscienza egocentrata, ordinati nello spazio prospettico e nel tempo irreversibile (storico), pensati come attributi gestiti e unificati intorno a un polo invariante fondato sulla legge logica parmenidea dell’identità noetica – che aborre 5 eventi metamorfici di sorta in cui si suole coniugare l’identico con il diverso –, e ospitante un singolare nocciolo materico. È, intanto, importante segnalare che, secondo analisi fenomenologiche di campo, le strutture di senso, costitutive del tessuto noematico delle entità ontologiche e scientifiche, sono dal punto di vista intenzionale, cioè per quanto riguarda le strutture di senso, tra loro del tutto omologhe, perché presentano morphai similari. Tuttavia, secondo la decostruzione fenomenologica, una teoria metafisica si differenzia da quella scientifica solo perché nella prima, a differenza della seconda, sono ancora attivi dei relitti culturali del defunto realismo segnico, dovuti alla conservazione in certe aree del discorso dell’arcaica assunzione dell’identità tra segno significante e referente, in particolare a livello degli assiomi della teoria, la cui presunta verità evidenziale di base vorrebbe legittimare l’erronea convinzione che sia possibile raggiungere conoscenze vere semplicemente derivando teoremi da premesse, là dove le strutture elementari del reale si ritiene siano ontologicamente e logicamente sedimentate (mathesis universalis), o là dove il linguaggio tocchi misteriosamente la realtà. Che l’esistente sensibile (aisthetà), a differenza dell’esistente intelligibile (noetà), sia costituito di materia che, chiamata dai Greci hyle, è stata immaginata, non certo a caso, come un elemento privo d’intelligenza e di volontà autonome, amorfo, oscuro, impenetrabile, in opposizione quindi alla noesis intenzionale, immateriale, luminosa e talmente disincarnata da trasformarsi con la deontologizzazione del pensiero occidentale da ente esistente in pura morphé e in ens rationis 6, appare in prima istanza una concezione geneticamen5 Si pensi alla durissima posizione teoretica contro possibili concezioni di tal genere da parte di Parmenide. 6 L’idea di materia, oggi, non è più, certamente, quella ellenica. Tuttavia, riconoscere che la materia possiede movimento non significa che abbia volontà e, pur se le si riconosce il possesso di un ordine, ciò non significa che abbia intelligenza.

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te enigmatica. Ma per l’analisi fenomenologica la nascita ellenica dell’idea di materia va collegata strettamente alla presenza del negativo potente e multiforme, cognitivo ed esistenziale, nella vita sulla nostra terra, che calza le molteplici maschere dell’elusività del dato manifestativo fenomenico, del dolore, della malattia, della vecchiaia, della morte e, quindi, dell’impermanenza generale dell’esistente terreno. Intesi di norma nelle culture a fondamento mitico-rituale come segni dell’azione di una sacralità maligna o della collera di dèi offesi, i mali del mondo sono attribuiti, invece, a partire da alcuni pensatori greci in vena di un’incipiente secolarizzazione, alla presenza, nell’esistente sensibile, di un nefasto nocciolo materico. Così, la cultura occidentale, teologica, metafisica o scientifica che sia, allestirà un razionale sistema di sicurezza e di salvezza, la cui strategia di fondo è costituita dalla fuga dalla materia o dal suo annichilimento – uno stile cognitivo ed esistenziale inaugurato fin dalle origini dal celebre volo di Parmenide di là dal mondo abitato dai mortali – verso degli esistenti privi di hyle, dei noetà puri, divini, immortali, cioè eterni, in opposizione polare all’universo degli aisthetà. Nato e alimentato da questi potenti vissuti elementari del divenire insensato e dell’impermanenza angosciosa del mondo della materia, il reticolo di note polarizzazioni che l’Occidente ha allestito dandole per scontate o assumendole, addirittura, come “naturali”, quali spirito-materia, anima-corpo, naturale-soprannaturale, immanenza-trascendenza, intende garantire, secondo lo stile atavico dell’Occidente, con l’approdo all’universo noetico del permanente e dell’eterno, un risolutivo riscatto epistemologico (metafisico e scientifico), etico e religioso, dalla gravosa cattività in cui giacerebbe nel mondo di quaggiù “l’umana compagnia”. I protocolli che emergono con l’eidetizzazione fenomenologica dei vissuti e che sono impiegati nell’analisi decostruttiva delle componenti culturali, affermano l’esistenza di una reciproca estraneità genetica e strutturale per ragione d’essenza tra i contenuti e le strutture di senso delle culture a base rivelativa (mitico-rituale) e quelli delle culture a base fenomenica, quando i loro dati sono sottoposti a rigorose analisi contrastive. È, soprattutto, l’inaffidabilità d’essenza dei dati e delle strutture di senso della manifestazione fenomenica a renderla incompatibile con i valori rivelativi e quindi con le basi manifestative stesse del Sacro. Il fenomeno esige complessi interventi di sostegno da parte di un logos ad hoc del tutto particolare perché, dovendo surrogare carenze intuitive, deve necessariamente operare

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senza poter attingere alla hyle e, in quanto vuoto, cioè astratto e disincarnato, può svolgere eminentemente funzioni relazionali che prescindono dall’indole dei contenuti di volta in volta relati. Per opera dell’intenzionalità di una coscienza relativamente libera e autonoma, in altre parole divenuta sinonimo di ego, tale logos costituisce “oggettivamente” i noemi dell’essere e dell’ente. La carenza cognitiva, quindi, insieme con quella esistenziale dell’universo fenomenico è stata attribuita, come si è visto, all’intrinseca negatività di un elemento non intenzionale, cioè di una hyle intesa fin dalle origini dell’Occidente come “materia”, ritenuta presente nella costituzione degli enti sensibili. Tale credenza, segnata da una non sanabile divaricazione tra la noesi spirituale e la hyle materiale dei vissuti e, in certi fondamentalismi filosofici e religiosi, da un disprezzo della materia di cui sono fatti i corpi, che suggerisce di volgere in fuga le coscienze verso il mondo puro dei noetà comunque intesi, confligge intimamente con le ragioni rivelative e, quindi, sacrali in cui la hyle, come origine manifestativa esclusiva, esercita nei vissuti ruoli e funzioni che l’Occidente sembra avere del tutto smarrito. Evitando dettagli tecnici, inutili in questa sede, mi limito solo a ribadire che l’analisi fenomenologica dei vissuti delle culture a fondamento mitico-rituale evidenzia che in essi la hyle, sempre indissolubilmente connessa a una noesis intenzionale impersonale, è una componente non intenzionale del vissuto non già perché è materia o perché il vissuto è il vissuto di un corpo proprio (Leib), com’è stata intesa in Occidente nella sua rigida divaricazione dalla noesis intenzionale, ma perché essa esercita la funzione esclusiva di condurre a manifestazione ogni entità che, evidentemente, non potrebbe mai rivelarsi senza l’azione dell’elemento iletico, componente non intenzionale di ogni vissuto intenzionale. Ed è proprio un tale statuto fenomenologico del vissuto mitico-rituale a rendere comprensibile la credenza stravagante nel realismo segnico e nella potenza attestativa di una verità rivelata perché garantita da voci e da immagini sacrali, cui si può rimettere propriamente solo una coscienza in postura rivelativa, cioè connotata da un’intenzionalità impersonale, cioè priva d’ego 7. All’as7 Una coscienza impersonale, cioè priva d’ego, è per la fenomenologia una coscienza che vive e pensa stando in postura rivelativa. L’essere egocentrata di una coscienza è sinonimo di una coscienza relativamente libera e autonoma. L’assenza dell’io è sinonimo di una coscienza in postura rivelativa, ove i pensieri, i sentimenti e le azioni sono attribuiti eteronomamente a entità non umane. L’eteronomia dell’intenzionalità è il connotato della noesis dei vissuti in atteggiamento rivelativo.

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senza di un soggetto fa da contraltare un noema non oggettivo, senza la cui decostruzione fenomenologica non è possibile, a mio avviso, comprendere il tipo singolare di mondo che una cultura mitico-rituale si rappresenta, costituendolo intenzionalmente e vivendolo pragmaticamente come reale e non come fantasmatico. Di là dalla polarizzazione soggetto-oggetto, il reale mitico-rituale appare, secondo i protocolli fenomenologici, basato su dati rivelativi, in altre parole non fenomenici, i cui vissuti presentano una modalità intenzionale che non rinvia né a materie, né quindi a corporeità di sorta, e nemmeno a noetà puri, in altre parole disincarnati, per allestire precipitati noematici di ontologie o di enti empirici o astratti, ma che costituisce il noema di esistenti intelligenti e volitivi, attualmente o potenzialmente potenti, cioè sacri. Pertanto, le strutture di senso spaziali, temporali e logiche, rinvenibili in simili vissuti, non sono funzionalmente fenomeniche, non essendo costituite intenzionalmente per surrogare quelle generali carenze riscontrabili, come si è visto, solo nei dati fenomenici, così gli spazi dell’ubiquità, i tempi reversibili o della ripetizione e la legge logica d’identità non parmenidea compaiono sempre puntualmente come modelli per ordinare e per connettere dati esclusivamente rivelativi e per agire ritualmente. Di là da note dicotomie quali naturale-soprannaturale, immanenza-trascendenza, escogitate dalla cultura occidentale per respingere lontano dall’uomo e dal mondo le molteplici negatività della materia, la fenomenologia individua e rende concretamente comprensibile la stoffa con cui è fatta la carne degli dèi, cosicché, se si esclude lo specifico ierofanico della cratofania (potenza), l’analisi non riscontra differenza alcuna tra la stoffa divina e quella di cui nell’universo mitico-rituale è ritenuto fatto ogni esistente anche profano. L’incompatibilità eidetica scoperta dalla fenomenologia tra diverse tradizioni culturali, in sede di analisi dei vissuti originari, sebbene reale e fonte di equivoci, non legittima in alcun modo un frettoloso giudizio di erroneità cognitiva e comportamentale loro attribuito quando, essendo confluite storicamente e antropologicamente in una sede comune, si cerca di mantenerle contemporaneamente in vita mediante compromessi ideologici e prammatici non facilmente risolutivi, da parte delle comunità umane coinvolte. Gli ibridismi etnici e culturali, diffusissimi sul nostro pianeta, inducono fatalmente a siffatti comportamenti perché essi rientrano nella fisiologia della sopravvivenza culturale da parte degli indigeni di qualunque paese, sebbene,

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com’è noto, la cultura più forte, non necessariamente quella egemone, è destinata a sopraffare nel tempo quella più debole con la quale si trova a confluire storicamente nel medesimo alveo territoriale. Il notissimo ibridismo culturale dell’ellenismo con il semitismo, sistemi mediterranei geneticamente molto eterogenei, ha generato il pensiero occidentale attraverso un decorso storico e antropologico irto di problemi teorici e pratici. In ogni modo, ciò che non è erroneo per l’indigeno non è purtroppo tale anche per il demo-etno-antropologo. È talmente noto quanto sia inopportuno e scorretto l’impiego dei principi e delle categorie della cultura di appartenenza, per cercare di comprendere con tali mezzi le ragioni degli altri, che il perseverare in tale atteggiamento non può dipendere dalla mera ignoranza di un simile problema, ma dalla generale, fisiologica invisibilità dei giochi fondamentali di una cultura sana da parte degli indigeni che li vivono in presa diretta dopo essere stati sottoposti a un soddisfacente processo di inculturazione. È solo una crisi dei fondamenti di una cultura, comportante l’emergere allo scoperto della loro genesi non metaculturale e quindi della loro condizione intimamente “sfondata”, a rendere finalmente visibili le ultime ragioni su cui poggia un sistema culturale e a consentire un esercizio critico radicale nei loro confronti, diversamente impossibile. Pertanto, all’interno di questo stato antropologicamente patologico, in cui i principi e le categorie della cultura d’appartenenza, pur continuando a essere impiegati, non sono più intesi e assunti come assoluti ed esclusivi, sarà alla fine possibile studiare le ragioni degli altri assumendo un atteggiamento metodologico non egemone, che non muove, cioè, più da una centralità referenziale coincidente con noi, ma contrastivo, come già anticipato, che senza sovrapporre i sensi nostri a quelli altrui accosta solo gli uni agli altri, onde sorprendere in tal modo più plausibilmente analogie e differenze tra i sistemi culturali analizzati. L’analitica contrastiva consentirà, in tal modo, non solo di cogliere l’altro culturale come altro e non più come diverso da noi, ma anche a scoprire la nostra cultura come altra tra le altre. È questa, a mio avviso, l’unica strada da battere da parte di un’analitica antropologica che in sede ermeneutica vuole sottrarsi alle ambiguità semantiche e alle contraddizioni in cui scivola, lo voglia o no, qualunque interpretazione che, senza cautela alcuna, suole sovrapporre, mescolandoli inevitabilmente, i sensi propri su quelli altrui. Nella selva dei casi di “crampi” ermeneutici ne scelgo solo uno a emblema del tutto, ma di uno studioso indubbiamente autorevole.

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La ierofania è «la manifestazione di qualcosa di completamente diverso, di una realtà che non appartiene al nostro mondo, in oggetti che fanno parte integrante del nostro mondo “naturale”, “profano”» 8. Per fornire una definizione della ierofania valida per tutte le culture M. Eliade ha impiegato la nota dicotomia ellenica “naturalesoprannaturale”, identificando naturale con profano e il soprannaturale con il Sacro, convinto dell’universalità, cioè della metaculturalità, di questa nota polarizzazione occidentale e di queste identificazioni semantiche. I protocolli fenomenologici, come si è visto, non solo hanno mostrato l’importante differenza fenomenologica tra rivelazione e fenomeno e, quindi, l’incongruità di una rivelazione potente, cioè sacrale, concepita come una rivelazione che ha luogo nel mondo della natura, cioè in quello esclusivamente fenomenico, ma anche l’incompatibilità d’essenza tra le loro specifiche strutture di senso che ne vieta l’impiego al di fuori del contesto manifestativo d’appartenenza, di fronte al gravissimo pericolo di ridurre le rivelazioni sacre a meri fenomeni quando in sede d’interpretazione si applicano su di esse, forzandole, le strutture di senso di matrice ellenica, nate per costruire teorie metafisiche e scientifiche con materiali fenomenici e destinate felicemente solo a ciò. È, allora, del tutto comprensibile che la Chiesa di Roma, nel far fronte alle aspre difficoltà semantiche generatesi dall’ibridismo culturale, abbia fatto ricorso agli strumenti del “mistero” e del “miracolo” – questo inteso come la momentanea sospensione delle leggi della natura attribuita all’irruzione del Sacro –, sebbene simili strumenti non possono, evidentemente, soddisfare le esigenze metodologiche delle scienze demo-etno-antropologiche, e non solo di esse. Pertanto, di fronte a queste insormontabili difficoltà semantiche, che appaiono del tutto reali e non inventate dalla fenomenologia, è, a mio avviso, arduo immaginare come sia possibile aggirare gli ostacoli che presenta la disamina ermeneutica dei rapporti tra il Sacro e il corpo, se questi sono intesi e vissuti secondo i canoni della nostra cultura che ha noetizzato Dio, depurandolo della hyle, e ha inventato il nocciolo materico dell’esistente naturale, senza ricorrere necessariamente al mistero e al miracolo. Per sottrarsi, allora, a una simile soluzione, la letteratura scientifica dei non credenti, di fronte alla manifesta indigeribilità di certe concezioni o di certi comporta8 M. Eliade, Il sacro e il profano, tr. it. di E. Fadini, Bollati Boringhieri, Torino 1967, p. 19.

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menti devozionali nostri e altrui, indulge da tempo – non so con quanta consapevolezza – a dissolvere questi problemi ermeneutici, piuttosto che risolverli, appellandosi alla comoda erranza semantica del simbolismo e della metafora, rimuovendo il letterale e il proprio che rischiano, secondo “la sapienza dei Gentili”, di alimentare l’irrazionalismo, l’infantilismo, la magia e la superstizione, le uniche credenze, queste, considerate perniciose per le comunità umane sia da parte della Chiesa che della scienza ufficiale. Ma queste “aberrazioni” ideologiche non nascono quando si privilegia la materia sottovalutando lo spirito, come si ritiene in Occidente, ma quando si intende la hyle – cioè l’elemento non intenzionale del vissuto – come materia costituente ogni realtà sensibile, secondo quella lezione ellenica che una fenomenologia radicale, annullandone la pretesa metaculturale, assume, piuttosto, come l’esito di una mutazione culturale che ha occultato l’originaria funzione della hyle di essere la matrice unica di qualunque manifestazione. In altri termini, che il non intenzionale sia sinonimo di materialità va, quindi, negato perché l’originaria funzione manifestativa della hyle appartiene eideticamente all’ambito di quella più elementare non intenzionalità che è tale in quanto le si attribuisce l’esclusiva d’ogni apparire, cui l’elemento intenzionale, non scindibile originariamente dalla hyle, elargisce senso. La ragione fenomenologica per cui qualcosa appare, piuttosto che essere invisibile, non dipende dal nocciolo materico di ogni esistente sensibile, ma dalla funzione primaria della hyle di condurre a manifestazione tutto ciò di cui è parte costitutiva e, in prima, ovvia, istanza il vissuto stesso, il cui elemento intenzionale, diversamente, non sarebbe visibile se l’elemento iletico non fosse presente nel vissuto. In tal senso la materia come noema è un noeton che, in quanto tale, sarebbe invisibile, ma se, invece, la materia appare, essa non appare in quanto materia, ma in quanto sono presenti nel noema dati iletici, sia pure oggettivizzati. È palese, allora, la differenza fenomenologica sussistente tra la polarizzazione spirito-materia, costruita astrattamente per opposizione vicendevole dei loro predicati, in cui ciascuno afferma quello che l’altro nega, e la dicotomia analitica reale, fenomenologicamente fondata, tra l’elemento del vissuto che dà il senso e quello che gli elargisce la possibilità di manifestarsi.

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La concezione del corpo nelle religioni universali

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La corporeità nell’ebraismo

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La corporeità nell’ebraismo

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di

Rav Roberto Della Rocca

Nella tradizione ebraica il corpo umano non viene né divinizzato, né rinnegato. La lettura del racconto biblico della creazione del mondo, del libro della Genesi, ci può dare una prima indicazione di come sia considerata la corporeità nell’ebraismo. Il corpo dell’uomo è costituito dalla terra, da cui deriva anche il nome del primo uomo, Adamo. Adamàh è quella parte della terra che è fertile, coltivabile, il “suolo”, la “polvere della terra” che si può raccogliere e con cui si può impastare una statua. L’immagine biblica è proprio quella di una statua che prende vita grazie al soffio (rùach, lo spirito) di Dio. Esiste una correlazione di un certo tipo tra spirito e materia, cielo e terra, creazione del mondo e creazione dell’uomo: la terra, il corpo dell’uomo, quell’aspetto per cui gli uomini sono creature fragili, destinate a tornare alla polvere, è propriamente il “contenitore” di quello che in noi è sacro, lo spirito di Dio. Non che la terra rappresenti la negatività: tutto il creato è cosa buona (tov), e l’uomo è molto buono (tov me’od). Il corpo non è nemmeno considerato come una “prigione” dell’anima, come per il greco Platone; il mondo corporeo è piuttosto paragonato a un palazzo dove abita il Signore. Infatti, il corpo è il luogo dove sta il soffio di Dio, e l’uomo è creatura di Dio. I nostri Maestri dicono che ogni uomo ha tre genitori, il padre, la madre e Dio. Quindi il corpo umano va custodito con cura. Non è un caso che molti rabbini fossero anche medici. La religione ebraica considera gli atti corporei dell’uomo come una benedizione del Signore, e così reciprocamente in ogni atto della giornata, a partire dal risveglio, fino al momento del sonno notturno va ringraziato il Creatore, recitando le opportune benedizioni: ogni momento della nostra vita è come un dono da ricevere con gioia e di cui ringraziare il Signore. Questo è il motivo della precettisti-

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Rav Roberto Della Rocca

ca ebraica: i precetti sono la strada che il corpo umano percorre verso la purificazione e la glorificazione di Dio. Gli ebrei sono tenuti ad osservare 613 precetti, 365 comandi negativi e 248 comandi positivi. Anche questi numeri ci indicano l’attenzione che è rivolta alla corporeità: 365 sono, infatti, i giorni dell’anno, e 248 sono le parti del corpo umano. Dunque, secondo la tradizione, ogni momento nel tempo e ogni parte del corpo è tesa all’osservanza dei precetti: ma perché? Forse per motivi igienico-sanitari, oppure per subordinarsi a un’autorità e quindi non avere il peso della responsabilità delle proprie azioni? Se seguissimo i precetti che ci sono stati comandati per motivi d’utilità (l’utilità sociale del Sabato, il valore igienico delle norme dietetiche, ecc.), trasformeremmo le regole religiose in regole umane, ed esalteremmo un comportamento autonomo, senza Dio, fino a adattare le norme alle nostre misere convenienze umane. Se invece seguissimo le norme della tradizione come il comando oppressivo di una forza irrazionale superiore, da osservare ciecamente, passando sopra ai nostri istinti, bisogni e desideri, mortificando la nostra carne, o con una simile intenzione, saremmo del tutto al di fuori dell’ebraismo. L’accettazione dei precetti è conseguenza di un patto con il Signore, in cui si è accettato un principio originario, un ordine prioritario, quello della kedushà (santità nel senso di “distinzione”), sulla base del comando di Dio (Lv 11, 44-45 e 19, 2). Si tratta di mantenersi puri di cuore, ma anche nel corpo. In questo consiste l’imitazione di Dio: nell’accettazione libera dei precetti e nell’osservanza, al preciso e unico scopo di essere “distinti” e consacrare, rendere “puro”, ogni atto della nostra giornata, dall’alba al tramonto, dalla nascita alla morte. Il nostro corpo è il luogo dove si esercita questa kedushà. L’aspetto più importante della kedushà è il matrimonio. Questo è uno dei comandi più significativi della vita ebraica: l’obbligo di sposarsi, d’essere felici nel matrimonio e di concepire figli. Non si tratta dell’abbandono alla lussuria selvaggia: le regole della purità della famiglia indirizzano l’attività sessuale della coppia nella direzione del rispetto, della stima e della soddisfazione reciproca. Ogni atto è consacrato: l’uomo vive con la propria moglie come se fosse un sacerdote e ogni donna è una sacerdotessa per il suo uomo. Il matrimonio in sé non è un sacramento, è un contratto, ma nell’atto della celebrazione del matrimonio si dicono le benedizioni che rendo-

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La corporeità nell’ebraismo

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no “consacrata” (destinata) la donna al suo uomo e viceversa, e così viene consacrata la stessa unione coniugale. L’obbligo reciproco che scaturisce dal contratto è una mitzvà, un precetto, che in quanto tale rende sacra la vita in comune. Si realizza così quella completezza che senza il matrimonio non ci sarebbe; si supera la solitudine, considerata una mancanza di perfezione, una condizione di sofferenza. L’esempio del matrimonio ci consente di comprendere come certi atti che sono tipici degli animali, come nutrirsi e accoppiarsi, nascere e morire, nell’ebraismo vengono ad assumere l’importanza di celebrazione della gloria del Signore, attraverso il modo in cui sono regolati dalla Tradizione e in virtù delle benedizioni che li accompagnano. La vita è valorizzata, nell’ebraismo, in tutti i suoi aspetti, e considerata sacra, secondo quanto è prescritto in Deuteronomio 30, 19: «Scegli la vita!». Dunque, nulla di più lontano dall’ebraismo delle posizioni dell’edonismo sfrenato e del falso spiritualismo. Certamente esistono nella storia ebraica posizioni, come quelle della kabbalàh, che sembrano separare la corporeità della vita terrena dalla spiritualità, basti pensare all’idea della trasmigrazione delle anime o al Dibbuk; ma la tendenza prevalente nella Tradizione è stata quella di non rifiutare la corporeità, semmai di purificarla per quanto possibile mediante l’osservanza dei precetti e il continuo ringraziamento a Dio per tutti gli atti della vita materiale che recano un godimento a colui che li compie. Spirito e materia, anima e corpo. Un dualismo che non è dualismo, e che non può essere posto in parallelo con il bello e con il brutto, e soprattutto con il buono e con il cattivo. L’uomo è unitario, per l’ebreo, e ogni uomo ha una sua specificità (ognuno vale quanto il mondo, e uccidere un uomo è come distruggere il mondo intero…). I nostri Maestri esprimono efficacemente questo concetto affermando che l’uomo, per alcuni versi, assomiglia nella sua materialità a una bestia. Come l’animale egli mangia, beve, si accoppia, prolifica, emette i suoi bisogni e infine muore. Non è un caso che la maggior parte dei precetti riguardi la sfera alimentare e la sfera sessuale della vita umana. Ma l’uomo assomiglia anche agli angeli del servizio divino: cammina su due piedi come loro, vede come loro, parla come loro e possiede la conoscenza come loro. Ma l’uomo è pur sempre un essere a sé, non s’identifica né con l’animale, né con l’angelo. Non è materia o spirito, perché c’è spirito nella sua materialità e materia nella sua spiritualità.

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Rav Roberto Della Rocca

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Il concetto che indica l’unitarietà dell’essere umano e l’interezza della persona è espresso dalla parola ebraica nefesh. L’anima spirituale, neshamà, è pura, donata da Dio e sta a ciascuna individualità mantenerla in stato di purità, attraverso la consacrazione (kedushà) d’ogni momento della vita. Nella struttura materiale del corpo umano è stato soffiato lo spirito (rùach) del Signore, e così la sua anima (neshamà), l’anima pura, è diventata un’unica personalità vivente (nefesh). Così la Tradizione ebraica considera l’uomo, e lo studio e la pratica dei precetti hanno lo scopo di aiutarlo a prendere coscienza di questa sua realtà unitaria.

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Corpo e religione

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Corpo e religione di

Ignazio Sanna

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Il corpo umano e la salvezza cristiana 1.1. La concezione antropologica cristiana attribuisce una grande importanza al corpo, perché attribuisce una grande importanza all’uomo creato a immagine di Dio. In alcune icone orientali le montagne sono rappresentate piccole e l’uomo, invece, è rappresentato molto grande, a significare che egli è vicino a Dio, è il re della natura, e questa è sottomessa a lui. Nella teologia mistica, i sensi sono stati considerati come le porte dell’anima, sentinelle e messaggeri, mediatori tra la materia e lo spirito. Se in Origene, che per primo elaborò la dottrina dei sensi spirituali, prevale la rottura, anzi la separazione di piani tra le facoltà dell’anima e quelle del corpo, dieci secoli dopo, negli scritti di san Bonaventura, si sottolinea, invece, la continuità tra corpo e spirito. E il senso, anche quello spirituale, è definito come la facoltà che ci consente di conoscere qualcosa come presente. Nella sua teologia degli affetti, san Bonaventura assegna al tatto un ruolo centrale perché esso, anche se in caligine, cioè come a tentoni, nell’oscurità, ci fa sperimentare la presenza di Dio. Nel tatto si esprimono la virtù della carità, il dono della saggezza e la beatitudine della pace: ecco perché, secondo il teologo francescano, esso è il più spirituale dei sensi. L’importanza data al corpo è dovuta soprattutto al fatto che la salvezza annunziata dal messaggio cristiano è una salvezza “incarnata”. Essa si manifesta specificamente come salvezza che si attua attraverso il corpo. La bellezza del Dio di Gesù Cristo viene percepita corporalmente, come emerge dal famoso testo delle Confessioni di sant’Agostino: «Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai. Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffonde-

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Ignazio Sanna

sti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te; gustai, e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace» 1. Secondo l’espressione del Vangelo di Giovanni, il Figlio di Dio ha assunto una carne: «il Verbo si è fatto carne», e il cuore dell’evento di Cristo è riassunto nel mistero dell’Incarnazione, tanto da far dire a Tertulliano che caro salutis est cardo: la carne è il cardine della salvezza 2. L’espressione “incarnazione”, oltre alla sottolineatura veristica della kenosi di Dio, vuole affermare che Dio è diventato uomo assumendo un corpo umano, per cui il processo dell’Incarnazione corrisponde al processo dell’umanazione. Ciò sottolinea il fatto che Gesù ha operato la salvezza e la redenzione nella carne, che gli uomini sono stati giustificati nel sangue e dal sangue di Cristo, che la Chiesa ha una venerazione per il preziosissimo sangue di Cristo. La carne è la “parte” che simboleggia il “tutto” del corpo. Per questo, si dice che l’obbedienza redentrice del figlio Gesù di fronte al Padre si è realizzata nell’offerta del suo corpo. La comunione di grazia ristabilita con il sacrificio del suo corpo è riversata nei cuori dei cristiani. Essa, quindi, ha inizio «in quella profondità radicale della soggettività umana che dapprima ricerca e finalmente possiede se stessa nella sua continua obiettivazione corporeo-terrestre» 3. Il piano di salvezza presentato da Gesù nella sua predicazione del Regno non è puramente spirituale, bensì umano, cioè, spirituale e materiale insieme. Infatti, nella seconda e nella terza beatitudine di Luca si proclamano beati coloro che hanno fame, perché saranno saziati e coloro che piangono, perché saranno consolati (cf. Lc 6, 21). E nella seconda parte del Padre Nostro si ripetono le richieste spirituali e materiali che costituiscono i beni del Regno che sta per venire. Per la Bibbia, che ignora la radicale “spiritualità” greca detestatrice della materialità, il corpo è l’espressione della realtà della persona, è la nostra identità psico-fisica e della nostra comunicazione. Il Cantico dei Cantici è l’esaltazione del corpo, descritta dalla sposa per il suo sposo e dallo sposo per la sua sposa, di modo che tale esaltazione sia sempre quella del corpo dell’altro. Inizia la descrizione del corpo della sposa nelle parole dello sposo: «Come sono belli i tuoi piedi nei sandali, figlia di principe! Le curve dei tuoi fianchi so-

scia

1 S. Agostino, Le Confessioni, X, 27, 38, Città Nuova, Roma 1965, p. 333. 2 Tertulliano, De carnis resurrectione, 8. 3 J.B. Metz, Corporeità, in H. Fries (ed.), Dizionario Teologico, I, Queriniana, 1968 2, pp. 331-332.

Bre-

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no come monili, opera di mani d’artista. Il tuo ombelico è una coppa rotonda che non manca mai di vino drogato. Il tuo ventre è un mucchio di grano, circondato da gigli. I tuoi seni come due cerbiatti, gemelli di gazzella. Il tuo collo è come una torre d’avorio; […]. Quanto sei bella e quanto sei graziosa, o amore, piena di delizie! La tua statura è slanciata come una palma e i tuoi seni ai grappoli» (Ct 7, 2-5.7-8). Fa eco la descrizione dello sposo nelle parole della sposa: «Il suo capo è oro, oro puro, i suoi riccioli grappoli di palma, neri come il corvo. I suoi occhi, come colombe su ruscelli di acqua; i suoi denti bagnati nel latte, posti in un castone. Le sue guance, come aiuole di balsamo, aiuole di erbe profumate; le sue labbra sono gigli, che stillano fluida mirra. Le sue mani sono anelli d’oro, incastonati di gemme di Tarsis. Il suo ventre è tutto d’avorio, tempestato di zaffiri. Le sue gambe, colonne di alabastro, posate su basi di oro puro. Il suo aspetto è quello del Libano, magnifico come i cedri. Dolcezza è il suo palato» (Ct 5, 11-16). Per l’uomo della Bibbia, dunque, non abbiamo un corpo, ma siamo un corpo, e questo corpo esprime la bellezza e la perfezione dell’opera divina. È in questa luce, allora, che i sensi non si riducono a organi e a sensazioni ma diventano messaggio ed epifania sperimentabile dello spirito: la vista può diventare contemplazione, l’udito si fa adesione partecipe, l’olfatto scopre l’odore di santità, il gusto può rivelare la sobria ebbrezza dell’anima e il tatto è il suggello di questa religiosità dell’Incarnazione, come scriveva san Giovanni nella sua prima lettera: «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita […], quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi» (1 Gv 1, 1.3). L’antropologia biblica, veterotestamentaria e neotestamentaria, ha offerto tutto un ricco alfabeto di simboli e di gesti, che ha assegnato alle parti del corpo una molteplicità di significati e di funzioni. Un organo del corpo come la mano, per esempio, è quello tra i più citati dalla Bibbia (più di millecinquecento volte). In un linguaggio ancora oggi familiare alle culture del bacino del Mediterraneo, il tatto esprime l’atto creatore, la forza, la tenerezza di Dio e lo slancio dell’uomo, la misericordia, il perdono, la compassione. Dio tocca la bocca del profeta Geremia, prima di affidargli la sua missione (cf. Ger 1, 9-10). Un angelo del Signore tocca Elia, quando è ormai allo stremo delle forze, e gli ordina di mangiare (cf. 1 Re 19, 4-6). Un al-

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tro angelo tocca la bocca di Isaia, e, con quel gesto, cancella l’iniquità e il peccato di colui che è stato scelto come profeta (cf. Is 6, 6). Allo stesso modo, un angelo in sembianze di uomo tocca le labbra di Daniele, prostrato da una lunga penitenza, e gli rende le forze (cf. Dn 10, 16-19). Dunque, l’antropologia biblica veterotestamentaria ricorre al significato di questi gesti “corporali” per esprimere il concetto di purificare, infondere sicurezza, dare coraggio. Nel Nuovo Testamento, il verbo “toccare” ricorre più di trenta volte, soprattutto nei racconti di guarigione. Gesù stende la mano e tocca un lebbroso, e, al suo gesto, scompare la lebbra (cf. Mt 8, 1-4). Poi tocca la suocera di Pietro, ed essa si alza e si pone a servirlo (cf. Mt, 8, 1415). Allo stesso modo, egli guarisce l’emorroissa, che aveva toccato il lembo del suo mantello (cf. Mc 5, 25-34). Prende la mano della figlia di Giairo, e le ridà la vita (cf. Mc 5, 35-43). Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che sanava tutti (cf. Lc 6, 19). In tutti questi racconti di guarigione, il tatto si fa gesto sacramentale, segno di misericordia, di benevolenza, di tenerezza. Esso è testimonianza di ciò che i Padri della Chiesa di Oriente chiamano “divina filantropia”, l’amore infinito di Dio per gli uomini. Il significato salvifico e sacramentale del gesto corporeo non è annullato da quei casi in cui il toccare è segno di poca fede, di incredulità, come nella scena del dubbio di Tommaso (cf. Gv 20, 24-29). Questo fatto mette in evidenza che il tatto non sfugge alla regola degli altri sensi, al contraddittorio richiamo dell’alto e del basso, dello spirituale e del materiale, del cielo e della terra. La ricca e complessa antropologia biblica, in ultima analisi, fa vedere come solo nella condizione di incorporazione la salvezza possa essere ciò a cui è stata originariamente destinata, cioè nuova creazione dell’uomo uno e integrale. Proprio per questo, la corporeità non è soltanto una condizione provvisoria dell’uomo, ma è qualcosa di permanente, seppure con l’acquisizione di modalità diverse di esistenza. L’aspettativa escatologica della salvezza è orientata a un perfezionamento dell’uomo uno e completo, che si raggiunge per mezzo della risurrezione della carne. Nell’evento della risurrezione, il corpo umano diventa luogo della rivelazione totale e dell’attualità piena della salvezza, che s’è venuta maturando sulla terra, e nella quale si esprimerà definitivamente l’amore di Dio. 1.2. Questo considerare seriamente l’esistenza somatica come soggetto di salvezza e di dannazione, del divenire e del perfeziona-

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mento dell’uomo, ribadisce Metz, deriva da quella caratteristica intelligenza ebraico-biblica dell’essere e dell’io personale, frutto della visione dell’unità originaria e sempre integrale dell’essere umano, e perciò anche fondamentalmente orientata all’importanza del corpo per l’integrità umana 4. Nella storia della filosofia occidentale e della tradizione teologica ad essa rapportata l’unità originaria dell’essere umano non è stata declinata sempre allo stesso modo. Sappiamo che il platonismo partiva da un’antitesi che interpretava il rapporto corpo-anima in modo accidentale. L’essere corporeo appariva come una fase transitoria, vuota, che impedisce e frena lo slancio dello spirito umano. Il corpo è considerato semplicemente come un vestito, un carcere, una tomba, una zavorra. In un primo tempo, la comprensione teologica del messaggio cristiano si è servita per il suo sviluppo del linguaggio concettuale del neoplatonismo. La visione antropologica del platonismo e del neoplatonismo, infatti, garantiva meglio due aspetti importantissimi per la concezione cristiana dell’uomo: la spiritualità e l’immortalità dell’anima. La filosofia platonica e la sua netta separazione di anima e corpo offriva uno strumento concettuale che serviva molto efficacemente, anche se sempre ancillarmente, la singolarità della fede cristiana. In un secondo tempo, la teologia cristiana si avvide del pericolo che una tale antropologia significava per l’unità dell’uomo, così come la si ricavava dall’insegnamento della Bibbia. Il pericolo si manifestò soprattutto perché si voleva, in base all’ellenismo, mettere troppo presto in accordo l’idea biblica della risurrezione della carne con la dottrina greca dell’immortalità. Col passare degli anni e con la sostituzione del platonismo con l’aristotelismo, si affermò meglio l’unità dell’uomo e la riabilitazione della corporeità. In effetti, alla soglia dell’alto Medioevo la teologia del corpo si aprì attraverso la filosofia araba (Averroè, Avicenna) all’aristotelismo, il quale con il principio dell’ilemorfismo sottolineò l’unità essenziale di anima e corpo, coniando la formula classica dell’anima quale “forma sostanziale del corpo”. In realtà, fu il genio di san Tommaso che, sfidando le condanne e le incomprensioni del suo tempo, elaborò in linguaggio aristotelico un principio che gettò luce sull’unità originaria dell’essere umano. Il tomismo attuale ha riaffermato questo principio con maggiore forza. Secondo la dottrina tomistica dell’anima come “unica forma

4 Cf.

J.B. Metz, Corporeità, cit., p. 332.

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del corpo”, ogni realtà ontologica del corpo è anche realtà ontologica dell’anima, «in quanto questa, nella sua sostanziale attuazione di sé, si inserisce necessariamente nel medium reale, ma del tutto potenziale, della pura materialità per esprimersi sostanzialmente in essa, acquistando in questo modo la sua propria realtà concreta spazio-temporale» 5. Conseguentemente, il corpo non è altro che il dato “terrestre” dell’anima; è l’anima “in stato di aggregazione”. Con ciò l’uomo non consta propriamente di due realtà, di corpo e di anima. Al contrario, l’uomo è concretamente l’unica realtà sempre completa dell’anima, in quanto essa stessa esiste veramente soltanto extra se, vale a dire come realtà informante della materia, come corpo. Il vero uomo è tutto anima e tutto corpo, tutto soggettività e tutto mondanità, tutto esistenza e tutto situazione. Il Concilio di Vienne (1312) ha in qualche modo consacrato l’unità naturale dell’essere umano e l’appartenenza essenziale del corpo all’unico uomo, unendo, in una sintesi duratura, la terminologia aristotelico-scolastica con l’antropologia biblica: l’anima razionale o intellettiva è la forma del corpo umano per sé ed essenzialmente (cf. DS, 902).

Per una teologia del corpo 2.1. Il punto di partenza per una teologia del corpo, tenuto conto che esso è simbolo di tutto l’uomo a immagine di Dio, non può che essere l’evento della risurrezione di Gesù Cristo dai morti, esito finale dell’Incarnazione. La risurrezione di Gesù nella sua carne, infatti, è la più grande glorificazione del corpo umano e allo stesso tempo l’aspetto più forte e scandaloso del cristianesimo. Che l’uomo possa risorgere, ha ricordato Giovanni Paolo II in occasione della Via Crucis al Colosseo del 2003, è un’affermazione così alta che solo Dio può avercela rivelata. In effetti, il pensiero umano, con Socrate e il suo allievo Platone, era arrivato ad ammettere l’immortalità dell’anima spirituale ma non certo la risurrezione della carne. Il corpo era considerato, positivamente, uno strumento dell’anima, negativamente, un peso e una zavorra di cui bisognava liberarsi prima possibile. La risurrezione di Gesù è l’evento della storia che ha tolto al corpo umano la fragilità, la precarietà, la mortalità, la biologicità

5

Ibid., p. 334.

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e gli ha dato una dimensione di eterno. Quando nella celebrazione dell’Eucaristia il fedele entra in comunione con Gesù, è precisamente attraverso la mediazione del corpo glorioso della risurrezione che si realizza la pienezza della comunione dell’umano con il divino. Colui che distribuisce l’ostia consacrata dice: “il Corpo di Cristo”, non “l’anima di Cristo”, quasi per sottolineare che il tramite attraverso il quale si rivela l’identità di Gesù è il suo corpo glorioso. Anche la Chiesa viene definita “corpo mistico di Cristo”, e, così facendo, per illustrare il mistero della sua natura si fa riferimento al corpo glorioso di Cristo. Se l’Incarnazione del Figlio di Dio, Gesù Cristo, è la fonte della dignità dell’uomo, la sua risurrezione dai morti è il culmine e il perfezionamento della medesima dignità. L’umanità del Cristo risorto rimanda per un certo verso all’umanità perfetta dell’origine, quella uscita dalle mani e dal cuore di Dio, quella della “creazione del settimo giorno”, quella nella quale l’uomo e la donna sono il partner di Dio. Alla luce della risurrezione di Gesù Cristo, il contributo dell’antropologia cristiana per difendere la sacralità del corpo consiste precisamente nelle motivazioni che essa può offrire per riportare la cosiddetta creazione tecnica dell’ottavo giorno sulla scia della vera creazione divina del settimo giorno, quella che culmina con la creazione dell’uomo e della donna a immagine di Dio. La creazione dell’ottavo giorno, secondo R. Guardini, consiste nel cambiamento dell’immagine dell’uomo provocato dall’eclissi dell’Assoluto. In ultima analisi, il passaggio dalla creazione del settimo giorno a quella dell’ottavo giorno è costituito dalla riduzione dell’uomo da creatura che Dio ha voluto per se stessa (cf. GS 24, 3) a semplice esemplare della specie umana, a un organismo biologico come tanti altri. Tale riduzione dell’uomo da creatura di Dio con una sua dignità individuale e personale a semplice componente del genere umano, non solo ha disancorato questi da Dio, ma lo ha disancorato anche dal mondo. Egli, infatti, non è più concepito come il signore dell’universo, nei confronti del quale può vantare una superiorità razionale, per il fatto che è in grado di capirlo, di interpretarlo, di trasformarlo, di renderlo un oggetto di studio e di ricerca. L’uomo non è più la materia humanitatis Filii Dei, secondo l’espressione di Ildegarda di Bingen, e quindi determinata dalla sua creaturalità che lo lega indissolubilmente al Creatore, ma è considerato “più” uomo nella misura in cui è “solo” uomo. È uno degli innumerevoli esseri viventi, che non può imporre alcun dominio “specista” su nessuno degli altri esseri viventi sulla terra.

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Una tradizione rabbinica afferma che la creazione dell’uomo e del mondo narrata dalla Genesi corrisponde al ventisettesimo tentativo di Dio Creatore, andato a segno dopo il fallimento di ben altri ventisei tentativi divini. Per i più pessimisti anche il ventisettesimo tentativo non dovrebbe essere poi riuscito tanto bene, se è vero il detto che Nietzsche attribuisce a Lutero, e cioè che Dio avrebbe creato il mondo in un momento di sbadataggine. Il negativo della creazione, però, oggi non è visto nella presenza in essa del male fisico e morale, bensì nel superamento o nella sostituzione della potenza creatrice divina con la potenza inventiva dell’uomo. La tecnologia e l’intelligenza artificiale, il computer e le protesi, la manipolazione genetica e l’utilizzo della robotica disegnano orizzonti inquietanti di esistenza, che invece di speranza e certezza producono paura e insicurezza. La tecnologia imperante produce, infatti, la mutazione antropologica prevista da Nietzsche e potrebbe essere il preludio all’avvento di una nuova specie post-umana. La tecnologia vorrebbe ignorare che lo stesso corpo umano è un limite invalicabile delle nostre possibilità e dei nostri desideri. Noi lo riceviamo alla nascita; non lo costruiamo a nostro piacimento. Esso si sviluppa secondo un suo programma del DNA, che non è modificabile se non in minima parte dall’integrazione dell’ambiente. Il corpo introduce ogni singolo uomo e ogni singola donna nel consorzio umano, dando a ciascuno una precisa e insostituibile identità, fatta di una determinata statura, di un colore della pelle, di tutti quei particolari che distinguono una razza da un’altra. Esso è fragile, è debole, è continuamente esposto alla malattia. Non è possibile, infatti, non ammalarsi, perché ciò fa parte della natura umana. La malattia è un limite valicabile e va perciò combattuta con tutte le forze, ma l’ammalarsi rimane sempre un limite invalicabile. Il corpo non è una macchina a disposizione dei propri desideri, ma corrisponde al proprio intimo essere. Ognuno è il suo corpo, non solo ha un corpo. Uno dice: io sono stanco, io ho fame, non: io ho un corpo stanco, io ho un corpo che ha fame. Il corpo non può essere ridotto al solo “organismo” che le pratiche mediche, generando un chiaro senso di dissociazione, possono trattare come un qualsiasi oggetto di natura, come una qualsiasi materia prima. Se il processo di materializzazione in atto nel campo della scienza, e soprattutto della tecnica, non fa più coincidere l’io interiore di un uomo con il suo corpo, ma si serve del corpo dell’uomo come di uno strumento a sua disposizione, in ultima analisi fa cadere ogni differenza tra l’uomo e le cose. Ciò, però,

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renderebbe difficile, se non proprio impossibile, trovare un criterio per riconoscere l’uomo e distinguerlo dalle cose e dagli oggetti. 2.2. Come è possibile, allora, riportare questa creazione tecnica dell’ottavo giorno al rispetto della creazione divina del settimo giorno? Come è possibile, in altri termini, salvare l’uomo dall’uomo, creato libero, e non dalla natura, creata buona? Proprio perché fondata sull’incarnazione e sulla risurrezione di Cristo, l’antropologia cristiana salva l’uomo dall’uomo nella misura in cui lo valorizza in tutte le sue componenti, non solo in quelle spirituali, ma anche in quelle corporali. Nella tradizione biblica del cristianesimo il corpo costituisce il territorio del sacro. Ogni sua parte ha una corrispondenza con Dio, proprio perché egli è a immagine e somiglianza di Dio per mezzo di Cristo. Qualora si dimentichi la dimensione sacrale e spirituale del corpo, strettamente legata alla concezione dell’immagine, non si è più in grado di accettare e salvaguardare il mistero che avvolge il corpo di ogni persona e che permane anche dopo le spiegazioni della scienza e le interpretazioni della ragione. Se, invece, al corpo si conserva e si garantisce la sua dimensione di sacralità e di spiritualità, gli si consente di incontrare anche in se stesso il Dio nascosto, di rivalutarsi come espressione di un mistero vivente, di non sostituire l’etica della sacralità della vita con l’etica della qualità della medesima vita. Il corpo è creato in Cristo, ed è destinato alla risurrezione in Cristo. Infatti, il Signore Gesù «trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutte le cose» (Fil 3, 21). Un affresco della scuola di Giotto sulla roccia di Greccio, dove san Francesco ha per la prima volta iniziato la rappresentazione del presepio, descrive in modo molto originale il legame della nascita con la risurrezione, della protologia con l’escatologia. Esso rappresenta la Madre di Dio che allatta Gesù Bambino. Questi però è dipinto ritto dentro un sarcofago ed avvolto dalle bende del sepolcro, per indicare che la sua nascita era legata alla sua morte redentrice e che la fonte primaria del kerigma cristiano è costituita dall’annuncio del mistero pasquale di morte e risurrezione di Gesù. Il dogma dell’assunzione della Vergine Maria in cielo in anima e corpo, di fatto, conferma il valore sacro del corpo e ne anticipa proletticamente il destino eterno. Proprio quest’affresco mette in luce come sia profondamente vero che “dare la vita” è sinonimo vuoi di nascere vuoi di morire. Dare la vita è offrire un

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dono, è un consegnare ad altri o all’altro un qualche cosa che non ci appartiene. La vita e la morte sono più grandi di noi, ci oltrepassano e ci superano. Esse permangono quando noi non ci siamo più e ci sono quando noi non ci siamo ancora. La vita in modo particolare ci sorpassa sempre. La riceviamo in dono e la dobbiamo trasmettere come un dono donato, un dono ricevuto. Essa non è nostra, non ci appartiene. La gestiamo come il dono più prezioso che possediamo. “Avere” la vita è solo, o prevalentemente, sinonimo di possedere la vita. Avere un figlio, per esempio, esprime l’idea di possedere un qualcuno. “Dare” la vita, al contrario, esprime generosità, altruismo, amore. “Avere” la vita indica un qualcosa di individuale, di singolare, di privato. Il passaggio dal dare la vita ad avere un figlio è il passaggio dalla generalità, totalità, universalità della vita all’individualità di una singola persona che privatizza, individualizza, storicizza l’eternità della vita. Dare la vita esige un ruolo di mediazione per dare un dono più grande di noi. Nel momento in cui al dare la vita si sostituisce l’avere la vita, si ostacola il ruolo della mediazione, si blocca il flusso di qualcosa di eterno, si privatizza l’universalità e la totalità del dono. Vita e morte si uniscono, si intrecciano, “configgono” in modo originale, si rendono dipendenti l’una dall’altra. Vivere è morire. Morire è vivere. Nascere è cominciare a morire. Morire è cominciare a nascere. Attraverso l’Incarnazione, Dio, in Cristo, si è coinvolto al massimo nella storia umana e nella storia del creato. Per un verso, infatti, l’umanità è stata assunta, consacrata e redenta e, per l’altro verso, il mondo è diventato il dove di Dio, il luogo della salvezza, in qualche modo, come già asserito, il corpo stesso di Dio. Se è vero, però, che il creato va rispettato come il dove e il santuario di Dio, è anche vero che va rispettato pure l’uomo, che è allo stesso tempo sacerdote del tempio e tempio del sacerdote. San Paolo ricorda che il corpo è «membro di Cristo» (1 Cor 6, 15); il corpo «è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartiene a voi stessi» (1 Cor 6, 19). L’uomo, proprio perché sacerdote della creazione, è chiamato a trasformare la sua vita in un sacrificio di lode a Dio. «Leben ist loben» ha affermato K. Barth, cioè: vivere è lodare. Ma solo l’uomo vivente può dare piena lode a Dio, e solo Cristo è in grado di far sì che ogni uomo viva pienamente, che ogni uomo sia persona. Non basta infatti essere uomini per essere persona, ma bisogna essere persona per essere veramente uomini. E si è persona solo in Cristo, perché egli è la porta di accesso alla vita in-

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tratrinitaria, che è all’origine e al fondamento di ogni esistenza personale. Se l’uomo è persona in Cristo, non potrà mai essere ridotto né a generica vita biologica, né alla materia prima fondamentale, né a riserva per donazione d’organi, ma sarà sempre e comunque il tu di Dio Uno e Trino.

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Dhavamony Mariasusai, S.J.

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L’induismo di

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La concezione induista dell’uomo 1. L’uomo nella sua essenza reale è un Sé puramente spirituale (atman) senza connessione di alcun genere con il corpo materiale. Questa realtà spirituale è o completamente identica all’Essere Assoluto (scuola non-dualista) o una modalità o un attributo presente in Dio (scuola panenteistica), o un essere in parte divino mediante una unione intrinseca con Dio (scuola dualista). 2. Lo stato empirico spazio-temporale di esistenza perviene all’uomo attraverso l’incarnazione; cioè, l’anima spirituale viene imprigionata in un corpo. Il tipo di corpo che un uomo possiede dipende dal tipo di azione che ha compiuto in una nascita precedente. Questo ci conduce alla spiegazione della legge dell’azione (karma) e al ciclo della nascita (samsara). Legge dell’azione e rinascita: un uomo diventa ciò che fa. Diventa buono compiendo azioni buone, cattivo compiendone di cattive, perché ogni azione lascia nell’uomo un effetto proporzionale all’azione. La causa-origine dell’azione dell’uomo è il desiderio o l’egoismo. L’uomo è composto di desiderio, adeguata al suo desiderio è la volontà, proporzionatamente alla sua volontà egli esegue azioni e a seconda delle sue azioni subirà determinate conseguenze. È una legge universale di retribuzione immanente, secondo cui ogni buona azione trova una ricompensa e ogni azione cattiva subisce una punizione, con la giustizia nell’attuale o nella vita seguente. Una simile legge esige che l’uomo rinasca per raccogliere i frutti del proprio agire. Esattamente nel modo in cui ha agito, l’uomo rinascerà; l’uomo di buone azioni rinascerà buono, chi ha commesso il male assumerà una condizione malvagia nella nuova nascita 1. 1 Brhada¯ranyaka

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Upanis¸ad 4, 2, 2-6; 3, 2, 13.

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Il concetto di rinascita dopo la morte e di morte reiterata è associato a quello di retribuzione. La ricompensa dell’anima nel paradiso o la punizione all’inferno sono soltanto temporanee, perché una volta che la retribuzione è finita, si torna alla vita normale. 3. L’uomo possiede un particolare organismo e una particolare psiche conformemente alle proprie azioni. La concezione induista del corpo umano e della vita psichica è spiegata anche in questo modo:

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Uomo = Sé spirituale o anima + materia formata dei 3 Gun,a:

- divino e nobile (bontà, purezza [Sattva]) - umano ed egoista (attività, passione [Rajas]) - bestiale e ignorante (oscurità, indifferenza [Tamas])

Buddhi (intelletto e volontà)

ahamkåra Autocoscienza Senso dell’Io

5 elementi sottili 5 elementi grossolani 11 organi; l’undicesimo è manas, organo interno della percezione, volizione e azione [come uno storpio sulle spalle di un cieco; l’anima può agire, volere, conoscere solo quando è collegata agli organi interni ed esterni e con gli oggetti dei sensi. Il Sé trascendente diventa individuale attraverso l’associazione con questi principi dell’organismo]. – I tre Gun,a legano l’anima al corpo e ne determinano la rinascita in forma divina, umana o animale a seconda del suo attaccamento a uno o all’altro di essi 2.

2 Bhagavad-Gı¯tå

14, 6ff.

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– A causa dell’ignoranza, l’uomo fraintende il ruolo attivo dei Gun,a credendo che sia solo l’anima ad agire, ignorando l’essenza di Dio e del suo ruolo nel mondo 3. I Gun,a inoltre producono dubbio e scetticismo e impediscono all’anima di raggiungere la vera conoscenza e la liberazione, vincolandola così al ciclo della rinascita 4. La passione crea nell’anima il desiderio (kåma), che rappresenta il maggiore nemico della conoscenza più elevata. 4. Gli induisti si propongono quattro fini nella vita umana: la realizzazione del benessere (artha), dell’amore familiare (kåma), dell’etica universale (dharma) e della liberazione definitiva dal ciclo della rinascita (moksha). Le ultime due sono le più importanti e meritano una particolare attenzione. Dharma (dalla radice dhar o dhri – firmus, in latino –: “mantenere”, “conservare”, “sostenere”), è la forma che assumono i re nella loro esistenza e la “forza” che li sostiene nel loro essere; che mantiene in essere l’intero universo nell’ordine cosmico e l’umanità nell’ordine etico, conformemente alla legge divina. È anche l’insieme delle regole di condotta, dei doveri etici, sociali e religiosi dei membri della varie classi sociali, dei due sessi e dei re. In senso strettamente religioso, dharma significa il potere divino (Dio o Assoluto), lo scopo principale della vita (la religione stessa) e l’obbligo/dovere religioso. Moksha o Mukti – liberazione dal ciclo della rinascita e la legge del Karma –, il fine ultimo dell’uomo, è precisamente realizzare la propria natura divina trascendendo la condizione umana spaziotemporale della propria vita. Tale trascendenza viene raggiunta mediante vari strumenti spirituali, tra cui i principali sono la conoscenza superiore (jñåna) e l’amore perfetto (bhakti).

L’idea induista di Dio Gli induisti in generale riconoscono la necessità di un Essere supremo da cui ogni esperienza religiosa deriva il suo significato e il suo valore. Essi inoltre sono d’accordo nel ritenere che la relazione 3 Ibid., 4 Ibid.,

7, 24. 4, 40.

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L’induismo

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dell’uomo con questa Realtà suprema costituisca precisamente la religione nel suo significato vero e profondo. Sia la storia dell’induismo che l’attuale revival induista mostrano come qualsiasi religione che non ha nulla a che vedere, se non con un Dio personale, almeno con la Realtà suprema, venga considerata eterodossa (nåstika) e persino materialista (lokåyata). Tuttavia, non si trovano d’accordo su “come” concepire questa Realtà suprema che trascende la condizione umana e il cosmo in sé. A dire il vero, non ha particolare rilevanza, perché uno sia un induista, che si creda in un Dio personale (©s´vara) o in un Assoluto impersonale (Brahman). Di conseguenza, lo scopo di questo saggio è presentare la visione induista della Realtà suprema ed esporre per sommi capi l’approccio cristiano a tale visione, per favorire un dialogo autentico nello spirito del Concilio Vaticano II. La religione nella sua essenza consiste in un’esperienza interiore dell’Essere supremo e dei suoi stati superiori, in una realizzazione mistica, in una unione o unità con l’Entità divina, eterna, infinita, continua, immutabile, che tutto pervade. Non ha importanza che l’Essere supremo sia chiamato Dio o Assoluto, o Supremo qualcosa. Una capacità di comprensione limitata come quella umana non può pervenire alla nozione esatta di Essere supremo. Tutti i nostri tentativi di concepire la Divinità sono modi diversi ma imperfetti di raggiungere lo stesso fine. Le proposizioni intellettuali sono incerti tentativi di semplificare la realtà. Siamo perciò convinti della inesauribilità del divino e della infinita molteplicità delle sue possibili manifestazioni. I nostri Veda non solo hanno proposto una natura multiforme della Divinità, ma hanno anche affermato che ognuna di queste forme conduce al fine ultimo, la Realtà suprema: l’Unica Realtà della quale i saggi parlano in molti modi 5. Le creature sono tutte manifestazioni diverse della Divinità, come le nostre Scritture stabiliscono e ancora una volta c’insegnano. Ma esse sono tutte punti di vista relativi della Realtà Assoluta, che è inesauribile 6. Nessuna di queste perfezioni definisce realmente la Divinità, perché una volta che sia stata definita, risulterà anche limitata. Qualunque cosa sia, di certo non è limitata. Per questo le Upa-

5 Rgveda 1, 164, 46: «ekam sad viprå , 6 Maitråyan¯ı ya Upa¯nis¸ad 4, 5-6.

bahudhå vadanti».

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nis¸ad preferiscono dire: Neti, Neti («non così, non così») 7. In altre parole, l’Assoluto non è forma né nome di cui abbiamo conoscenza, mediante i quali possiamo descriverlo. Gli induisti distinguono due ordini di Verità: empirica (vyåvahårika) e trascendentale (påramårthika) 8. Tratteremo ora la seconda. La ragione, per sua stessa natura, non riesce neanche a fornire una “conoscenza” della Realtà o Verità suprema, e tanto meno qualsiasi forma di autentica esperienza o realizzazione spirituale. Solo l’intuizione e l’esperienza mistica possono offrirci il possesso della Verità suprema. Tale intuizione ci perviene attraverso la rivelazione da noi accolta e realizzata 9. L’Essere supremo rivela la sua natura in molti modi, e tutti questi modi convergono sulla stessa cosa, che può essere chiamata Dio personale, Vishnu, Siva, Krishna, o anche Cristo, Allah o l’Assoluto impersonale, Brahman 10. Ogni manifestazione sostiene di essere il medesimo Essere supremo; ogni manifestazione insegna fondamentalmente la stessa cosa, seppure attraverso una varietà di modi e di mezzi. La BhagavadGı¯tå fa dire a Krishna: «Non importa quale forma divina un devoto desidera adorare con fede, questa fede io la confermo in lui, rendendola incrollabile» 11. Tutto sommato, la religione è sostanzialmente la stessa cosa. Ci consente di superare le differenze e di aderire a una comunità di fedi, unità di tutti i credi 12. Ci consente di lodare il Dio che trascende il Dio di ogni singola fede, ma che allo stesso tempo li contiene tutti, in quanto manifestazioni diverse dello stesso Dio. Dio è verità e amore; Dio è etica e moralità; Dio è coraggio; Dio è fonte di Luce e di Vita 13.

7 Kena Upanis¸ad 9, 11-13; 8 Brhadåranyaka Upanis¸ad

©s´å Upanis¸ad. 2, 3, 1; Mun,daka Upanis¸ad 2, 2, 8; Pras¸na Upanis¸ad 5, , , 2; Maitråyan,¯ıya Upanis¸ad 6, 15 e 22. 9 S´vetås´vatara Upanis¸ad 1, 3; 4, 1; 6, 8; 5, 5-6; Bhagavad-Gı¯tå 10, 20; 11, 15; 15, 15. 10 Dopo aver ascoltato l’osservazione del Rev. Anstein di Basilea: «Io ti considero come un discepolo di Cristo», Gandhi rispose: «A dire il vero lo sono, ma in un senso diverso da quel che lei crede, perché io mi considero anche discepolo di Buddha, di Maometto e di Krishna. Tutti loro desiderano la stessa cosa, verità e amore». Citato da Hans Anstein in F. Heiler, Die Warrheit Sundar Singhs, Neue Dokumente zum Sadhustreit, Monaco 1927, p. 201. 11 Bhagavad-Gı¯tå 7, 21; vedi anche 4, 11. 12 Rgveda 10, 191. , 13 Young India, 3 marzo 1925.

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Gandhi rinviene l’essenza dell’induismo nelle prime parole della Upanis¸ad 14. Tutto ciò che vediamo in questo grande universo è permeato da Dio. Rinuncia ad esso e godilo. Non desiderare la ricchezza o i beni altrui 15. Dal momento che Dio pervade l’intero universo che appartiene a Lui, tu devi rinunciare al mondo perché non è tuo, e poi goderlo e operare in esso perché è Suo, ed Egli vuole la tua collaborazione nella distruzione del male. Tale insegnamento è rappresentato nel Mahabharata 16, in cui Draupadi, incapace di comprendere le vie di Dio riguardo a un re giusto qual è suo marito, Yudhishthira, vede vacillare la sua fede e viene rimproverata per la sua miscredenza. Assistendo alla sofferenza del marito, Draupadi comincia a dubitare e a disperare dell’amore di Dio. Pur non dubitando dell’esistenza e dell’onnipotenza di Dio, ella mette in dubbio la Sua giustizia e la Sua lealtà nel trattare i fedeli. Ricorre all’“antica saga”, secondo la quale Dio è una forza irrazionale, oscura, priva di significato, incurante di ogni regola o legge (dharma). Yudhishthira la ammonisce con queste parole: «Rifletti e guarda con fiducia: tutto (concernente Dio e la fede) esiste (in verità); e abbandona l’idea dei nastika (vale a dire, coloro che negano Dio e la salvezza). Non gettare via Dio, Creatore di tutte le cose. Impara piuttosto a conoscerlo, a venerarlo, e non permettere più che l’affanno del dubbio sorga nel tuo cuore. È mediante la Sua grazia che il devoto (bhakta) entra nel regno della morte, Egli è la Divinità suprema! Non oltraggiarlo più, o Draupadi». Concepire la Realtà suprema in termini di perfezione personale è frutto di una visione antropomorfa. Per questo noi distinguiamo due visioni del Trascendente, una inferiore e una superiore. Quella inferiore concerne la religione teista che presenta un Dio dotato di qualità favorevoli all’uomo e lo considera Creatore, Salvatore, Signore. La visione superiore è quella dell’Assoluto senza queste perfezioni, che tutte le trascende eppure è immanente a esse. In altre parole, l’Assoluto è il Sé più intimo di ogni cosa e di ogni uomo; è l’Essere eterno e la fonte di tutto il mondo fenomenico. Prima di tutto, la Bhagavad-Gı¯tå subordina chiaramente l’Assoluto impersonale (Brahman) al personale Dio Krishna: «Perché io

14 Ibid. 15 Traduzione

dello stesso Gandhi, citato da R.C. Zaenher, Hinduism, Oxford 1962, p. 238. 16 Mahabharata III, 30 e seguenti.

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sono il fondamento del Brahman, immortale, che non conosce mutamento; (sono anche il fondamento) dell’eterna legge della giustizia (dharma) e della beatitudine assoluta (sukha)» 17. Sankara traduce tutto questo in senso non dualista, sostenendo che in Krishna, il vero sé interiore (Pratyagåtman), risiede il sé supremo 18. Una tale interpretazione della Gı¯tå e il rifiuto di riconoscere il Dio personale come la Realtà suprema, sia dal punto di vista filosofico che religioso, si basano su presupposti non dualisti, che renderebbero la vita umana e il mondo, e persino la religione in sé, qualcosa di irrilevante. Una teoria dell’uomo e del mondo come qualcosa di illusorio e insignificante non implica un obiettivo che possa significativamente diventare il sommo destino di ogni uomo. I cristiani hanno una visione di Dio come puro Spirito, che non viene toccato o determinato da altri che non sia Egli stesso, che è l’unica Realtà suprema. I cristiani e la maggior parte degli induisti non credono in una Realtà suprema che sia priva di caratteristiche quali benevolenza, misericordia, amore. La personalità in sé non implica limitazione ma una inesauribile perfezione. Il segno peculiare della religione cristiana è la credenza in una relazione significativa fra divino e umano, soprannaturale e naturale, trascendente e immanente.

La nozione induista di “creazione” 1. Nella prima letteratura braminica, la questione dell’origine del mondo era ampiamente frammista di nozioni mitologiche e teologiche. Il Dio-creatore è chiamato con vari nomi: Visvakarma, Brahmanaspati, Hiranyagarbha, Prajapati, Purusha. Nel R,gveda 19 si dice che Visvakarma abbia plasmato il mondo da un “legno” preesistente. Ma la paternità viene ascritta a questo dio. Brahmanaspati viene rappresentato come un fabbro che fonde insieme il mondo, ma la materia prima su cui lavora è l’essere. Tale essere deriva dal non-essere 20. Il non-essere è qualcosa di talmente caotico e nebuloso da non essere affatto descritto come “essere”. Nella sua concezione, perdura un inevitabile dualismo fra materia

17 Bhagavad-Gı¯tå 14.27. 18 Cf. la sua Gitabhasya, 19 Cf. Rgveda 10, 81.82. , 20 Cf. Rgveda 10, 12.

Poona 1950, p. 222.

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caotica e informe e agente intelligente che le dà una forma intelligibile. La teoria dell’evoluzione si combina con quella della creazione. L’Hiranyagarbha – letteralmente “l’Uovo/Embrione d’oro”, con riferimento al sole nascente – è: l’Unico Signore. Le acque da cui scaturisce il Fuoco sono considerate portatrici del germe di vita. Il DioCreatore emerge dalla materia informe e caotica come l’Unica forza vitale, Dio degli dèi. Egli è il Signore delle creature (Prajapati), il Dio trascendente che governa secondo la legge, e lo spirito immanente che è la vita di ogni essere vivente 21. La luce della consapevolezza, simboleggiata dal germe d’oro (il sole) e dal fuoco, emerge dalle “acque” di una materia inconsapevole, si fa uno con la materia quale sua forza vitale, mette ordine nel caos, lo governa e lo regola mediante una legge rigorosamente stabilita (dharma). Concezione panteistica. La creazione è l’atto sacrificale, l’autoimmolazione dell’essere primario (Purusha) al fine di creare il mondo multiforme. Purusha è l’universo, e allo stesso tempo lo trascende. Dal momento che la creazione è un sacrificio a livello macrocosmico, tale sacrificio viene rinnovato anche a livello microcosmico, un atto creativo che garantisce l’esistenza ordinata e continua dell’universo 22. Coloritura panteistica. Il non-essere si sviluppa nell’essere. Da questo sviluppo derivano prima le acque, in quanto portano l’Uovo d’oro. Dalle acque deriva l’intelligenza, per mezzo del calore. Questo Spirito ha desiderato e crea l’universo. L’opera del creatore, Prajapati, è sempre necessaria in questo processo 23. I Brahmani, in alcune loro descrizioni, lo collocano nelle acque primordiali e poi in altre acque, a causa della combinazione fra teoria della creazione e teoria dell’evoluzione. 2. In questi primi testi, quindi, la creazione viene considerata in termini di “generazione” naturale (con alcune forme del verbo jan: “generare”), di emissione o di “emanazione” (con alcune forme del verbo brj: “emettere da se stessi”), di produzione (con alcune forme del verbo kri: “creare”). Da un punto di vista filosofico, sono implicate causalità efficiente, causalità materiale e causalità formale, e questo giustifica la combinazione di produzione ed emanazione o evoluzione. Ciò costituisce anche la ragione della coloritura pantei-

21 Cf. Rgveda , 22 Cf. Rgveda , 23 Cf. Rgveda

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10, 121. 10, 90. 10, 129.

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stica. Teologi più recenti affermano con inflessibilità che nulla può uscire dal nulla, perché ciò che non esiste non può evolvere in qualcosa che esiste. Ciò che non esiste in potenza non può essere prodotto. La causalità efficiente presuppone sempre qualcosa su cui operare. La creazione è più propriamente un passaggio da uno stato non manifesto a uno stato manifesto, attraverso o senza l’operato di un dio creatore, che si distingue o meno da esso. L’emanazione implicherebbe consustanzialità fra creatore e creatura; supporrebbe una relazione di necessità con la creazione da parte di Dio. La religione induista propone anche l’incarnazione (avatara) e il Dio triade (Trimurti). Storicamente sappiamo che Krishna, il più importante discendente di Vishnu, è un eroe puramente umano della stirpe degli Yådava, che venne poi deificato dai primi teologi induisti per rendere la loro religione più concreta e personale. Inoltre, le nozioni induiste di “natura divina” e di “natura umana”, e dell’unione fra le due, sono di gran lunga differenti da quella cristiana. Infine, la Trimurti induista differisce sostanzialmente dalla Trinità cristiana, in quanto la prima si basa esclusivamente su rapporti funzionali fra la Divinità e il mondo ed è costituita da un raggruppamento di figure divine, che in principio ebbero una loro autonoma origine mitologica.

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Il corpo-del-Buddha nel buddhismo maha¯ya¯na

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Il corpo-del-Buddha nel buddhismo maha¯ya¯na

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di

Grazia Marchianò

La concezione buddhista del corpo non è facile da riassumere, essendo il buddhismo una via di fede, conoscenza e salvezza che ha assorbito gli apporti di tutte le culture attraversate nel suo bimillenario itinerario attraverso la Grande Asia, a partire dall’India dove Gautama Siddharta Shåkyamuni, il cosiddetto Buddha storico, visse e predicò tra il VI e il V secolo a.C. A sua volta la ripartizione del Dharma, la Legge buddhista, in tre grandi forme di obbedienza, hinåyåna nel Sud-Est asiatico, mahåyåna in Tibet, nell’Asia centrale, Cina, Corea e Giappone, e infine vajrayåna con ramificazioni tantriche nelle suddette regioni, rende ulteriormente difficile una ricostruzione lineare. La plurivocità e il ricorso a una logica inclusiva che accoglie più dimensioni compossibili di corporeità, tra le quali quella fisica in senso stretto è addirittura marginale, sono i tratti caratteristici del credo buddhista, un credo nel quale il principio di redenzione e salvezza, negli sviluppi dottrinari mahåyåna, ha finito con l’estendersi dall’uomo alla più vasta categoria degli esseri senzienti, e infine all’intero mondo-della-vita, fermi restando i principi della natura condizionata dei fenomeni, dell’interpenetrazione di materia e energia sul piano cosmico e, sul piano umano, la legge karmica di accumulo di meriti e demeriti, in forza della quale lo stato buddhico è dato per raggiungibile solo nel caso in cui tutti gli impedimenti siano stati dissolti. Se d’altra parte aspirare all’illuminazione non significa certamente averla raggiunta, l’anelito persistente e protratto fa di un uomo un bodhisattva, un Buddha potenziale, un essere capace di impegnarsi al risveglio e di aiutare altri a farlo. Nell’iconografia che si affida in pittura alla raffigurazione di mandala o diagrammi cosmici, il Buddha è circondato da decine, centinaia di figure antropomorfe sussidiarie, i bodhisattva, ognuno dei quali possiede ornamenti, impugna oggetti simbolici e assolve funzioni che integrano e completano quelle del Buddha su scale semantiche a più piani. Se il buddhi-

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Grazia Marchianò

smo è notoriamente una religione priva di Dio e di un pantheon, è pur vero che l’iconografia, in modi e con soluzioni diverse, divinizza il Buddha e nei bodhisattva raffigura esseri di rango oltreumano.

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*** In un convegno curato dall’Associazione Symballein, all’Istituto Giapponese di Cultura di Roma 1, mi sono trovata a esporre alcuni aspetti del buddhismo esoterico shingon, una scuola di radice tantrica della tradizione mahåyåna, stabilita nel IX secolo in Giappone da Købø Daishı¯ K‰kai, ottavo Patriarca della Chiesa Buddhista. K‰kai fu un monaco, un asceta, un dotto e anche un formidabile organizzatore religioso. Fece di Køya, un villaggio di montagna a nord di Øsaka nella provincia di Wakayama, il centro carismatico della scuola shingon, edificandovi centinaia di templi e un’università di studi buddhisti aperta anche a studenti laici, fiorente tutt’ora. Nel settembre di quest’anno, nel milleduecentesimo anniversario della fondazione, vi si è svolto un importante convegno internazionale, nel quale sono state affrontate questioni di storia, filologia ed esegesi panbuddhista, e si è discusso del ruolo del buddhismo esoterico nella società giapponese in cammino verso il futuro e nella società planetaria 2. Ciò che merita di essere sottolineato è proprio l’accento dato dalla regia del convegno all’identità esoterica di questa linea del buddhismo giapponese, dove “esoterico” assume un significato insolito rispetto a quello corrente. Ad esempio, non è esoterica la tradizione della ricerca teorica e filosofica, fondata su concetti astratti e sui libri che ne trattano, giacché essa è accessibile a chiunque sia in grado di leggere e ponderare in modo astratto. È invece esoterica e 1 Il tema del convegno, del 5 ottobre 2006, era Le radici del futuro. Tra tradizione e contemporaneità; «Le impronte del lascito buddhista nella società giapponese in cammino» è stato l’argomento del mio contributo. 2 Promosso dal Rettore dell’Università di Køyasan, rev. Namai Chishø, il convegno, con la partecipazione di esperti cinesi, giapponesi e occidentali, e di una delegazione della Facoltà Teologica dell’Italia Centrale alla guida di don Giuseppe Bellandi, ha messo a fuoco la visione esoterica shingon nel quadro delle scuole filosofiche buddhiste propagate dall’India all’Estremo Oriente negli ultimi venticinque secoli, e questioni di teologia, dogmatica e comparatistica religiosa di grande momento nel dibattito contemporaneo. Si veda in proposito il saggio del rev. Matsunaga Y‰kei, The Role of Esoteric Buddhism on the Path into the Twenty-first Century, in «Esoteric Buddhism in Japan», SBS Monographs, n.1, I. Astley (ed.), Copenhagen § Aarhus 1994. La mia relazione al convegno giapponese verteva sul tema: «Bellezza e ascesi nel rituale esoterico shingon: le fonti tantriche».

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Il corpo-del-Buddha nel buddhismo maha¯ya¯na

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riservata la conoscenza trasmessa a un discepolo da un maestro esperto di pratiche meditative e ascetiche, in quanto è nel processo di assorbimento e interiore trasformazione, che coinvolge funzioni fisiche e mentali integrate e armonizzate, che la conoscenza illuminante esposta nei testi, in questo caso i sûtra buddhisti e i loro commenti, viene effettivamente trasmessa. Anche se non è possibile soffermarsi su questo punto, l’accenno che ne ho fatto serve a introdurre il tema del corpo-del-Buddha nel buddhismo maha¯ya¯na, in un contesto in cui la nozione di corpo fisico assume significati scarsamente compatibili con quelli nei quali piano fisico e metafisico, umano e transumano sono del tutto separati, e la storicità dell’Illuminato, invece che un fattore determinante, diventa una circostanza addirittura trascurabile. Per dare a questa breve esposizione un avvio non pedante ho scelto come guida non un buddhologo né un affiliato a un lignaggio buddhista, ma uno scrittore illustre del Novecento, noto per la sua erudizione in molti campi aldilà della letteratura, che nell’ambito degli studi buddhisti si ritenne sinceramente un dilettante e un curioso. Sto parlando di Jorge Luis Borges, avendo in mente quel suo trattatello Qué es el Budismo?, uscito a Buenos Aires nel 1976 3, e tradotto tre anni dopo in francese nelle edizioni Gallimard. Un gioiellino di ricostruzione della vita di Gautama Siddharta Shâkyamuni nella storia e nella leggenda – e più in quest’ultima che nella prima – per ragioni dottrinarie che Borges mostra di conoscere in misura non scarsa, anche se nella sua piana cronistoria si guarda bene dall’ostentarle. In poco più di cento pagine lo scrittore argentino non trascura nessuno dei temi di fondo del credo buddhista, un credo che l’impulso missionario del sangha, la comunità dei monaci, portò a irradiarsi in tutte le direzioni del continente asiatico, nel solco delle tre principali correnti o “veicoli”: hinayåna a sud e sud-est, mahåyåna a nord, nell’Asia centrale, in Corea e tutto l’Estremo Oriente, e vajrayåna in Kashmir, nel Tibet, e ancora in Cina e in Giappone. Agli inizi del IX secolo fu proprio in Giappone, come ho ricordato, che K‰kai, rinominato Købø Daishı¯, dopo un fruttuoso viaggio in Cina

3 Cf. J.L. Borges e A. Jurado, Qué es el Budismo?, Columba S.A.C.E.I.I.F.A., Buenos Aires 1976. La sintetica bibliografia è ovviamente datata a quegli anni. Per un aggiornamento indispensabile sulle caratteristiche dottrinarie del buddhismo mahåyåna, cf. in particolare Gadjin M. Nagao, Mådhyamika and Yogåcåra. A Study of Mahåyåna Philosophies, State University of New York Press, Albany (NY) 1991.

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Grazia Marchianò

donde trasse alcuni maggiori s‰tra buddhisti, una volta divenuto ottavo Patriarca 4, rimodellò la linea vajrayâna o “dello scettro (vajra) adamantino” stabilita in Kashmir attorno al VII-VIII secolo 5, nella scuola esoterica shingon. Le novità in campo ascetico e dottrinario apportate da K‰kai toccano punti così nevralgici anche a proposito della nozione di corporeità, da rivoluzionare non solo la tradizione mahåyåna ma l’intero credo buddhista. Prima di illustrare uno di questi punti, una premessa di carattere generale è indispensabile. Nella dottrina pan-buddhista estesa dall’India al Giappone esiste, accanto alla nozione essoterica di corpo riferita alla psicofisiologia dell’organismo umano, una nozione esoterica funzionalmente autonoma e tale da conferire al corpo in generale – e al corpo-del-Buddha in particolare – uno statuto, un rango e una funzione di portata transumana e cosmica. In questo rispetto si può dire che, benché la dottrina del corpo esoterico del Buddha e la connessa nozione mahåyånica di buddhità, estesa all’intero mondo vivente, non si fondi su una teologia – il buddhismo essendo una via di salvezza atea –, vi si ravvisano nondimeno sia una proliferazione di identità trascendenti, almeno una quindicina di arci-Buddha cosmici, sia inconfondibili caratteri kerygmatici in relazione all’annuncio di salvezza profferito dal Buddha storico e al fatto che il risveglio è visto dipendere dall’efficacia dell’intervento combinato di saggezza e compassione (pråjna-karunå), un binomio in qualche modo collegabile al concetto di grazia cristiana. Una seconda osservazione preliminare riguarda il lessico. Termini sanscriti come buddha, buddhi, bodhi, dharma e kåya, quest’ultimo usato in relazione al corpo mistico del Buddha, hanno significati contestuali la cui traduzione è inevitabilmente approssimativa e in più di un caso fuorviante. Kâya in sanscrito significa fondamento, natura di base, assemblaggio, accumulazione. Un significato che si precisa quando gli si associano termini quali r‰pa (forma), dharma (Norma, Legge cosmica), riferiti a distinti ruoli apparizionali del Buddha cosmico, come sambhoga-kåya o corpo di “ricompensa dei meriti”, e nirmånakaya o

4 Il testo principale di riferimento sulla vita del fondatore della linea esoterica shingon è Ryotaro Shiba, K‰kai the Universal. Scenes from His life, IBC Publishing, TokyoNew York-Londra 2005. 5 Cf. in proposito Swami Shankarananda, The Yoga of Kashmir Shaivism: Consciousness Is Everything, Motilal Banarsidass, Delhi 2006.

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Il corpo-del-Buddha nel buddhismo maha¯ya¯na

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corpo di trasformazione, e ancora manomayakåya o corpo mentale, riferito al ricettacolo dei pensieri-seme depositati nella coscienza. Un altro aspetto, ancora, va evidenziato: la presenza accanto ai Buddha cosmici di entità di natura consimile, i bodhisattva, che la scuola mahåyåna concepisce sia come esseri nei quali il risveglio alla buddhità è sulla via di compiersi, sia come illuminati che decidono di ritornare nel mondo samsåico per indicare la via del Buddha e i mezzi efficaci a raggiungerla. Nelle raffigurazioni mandaliche dipinte secondo le regole canoniche, Buddha e bodhisattva con forme umane hanno connotati, contrassegni, ornamenti, e compiono gesti simbolici (m‰dra) che ne descrivono i rispettivi ruoli e funzioni nel cosmo buddhista: una sorta di iperchiliastico universo a più piani, dove ogni connotato terreno e umano sfuma e svanisce. Alle prese con un simile affresco di metamorfosi quasi inafferrabili, Borges che di metamorfosi e immagini a specchio pur s’intendeva, volendo all’inizio del suo trattatello tracciare in qualche modo un profilo del Buddha storico, con una manovra letteraria molto efficace afferma che la biografia di Gautama Siddharta Shâkyamuni, nato dalla regina Maya nel 563 a.C., inizia non nel luogo fisico identificato a Kapilavastu, nel Nepal del Sud, bensì in cielo, in particolare nel cielo di Tushı¯ta donde Maitreya, il Buddha futuro, riapparirà nel mondo per redimerlo. Il sogno della madre di Gautama prossima al parto, secondo il quale un elefante a sei zanne penetra nel suo fianco, i caratteri indolori del travaglio, i sette passi compiuti dal neonato appena emerso dal fianco destro di Maya e la placida morte di costei sette giorni dopo: questi, tra altri segni di una venuta al mondo di tipo eccezionale, tramandati dalla leggenda buddhista, hanno la loro spiegazione, dice Borges, nel fatto razionalmente inaccettabile che Gautama Siddharta non si è incarnato quella sola volta, ma innumerevoli altre, assumendo via via forme animali e umane, e tornerà a incarnarsi sulla terra in futuro nelle fattezze del redentore Maitreya. In precedenti incarnazioni il Buddha sarebbe stato un coniglio, una scimmia, un cervo, un uomo ricco, un ministro dello stato, un sovrano, eccetera; e i meriti che avrebbe accumulato da bodhisattva estinguendo via via i debiti karmici gli avrebbero conquistato il pieno risveglio alla buddhità. Nell’inventario dei Buddha cosmici, che sono, come ho detto, una quindicina, ognuno denota nell’aspetto, nei contrassegni e nei gesti canonici, una virtù specifica: Avalokitesvara, la mano destra abbassata verso terra e la sinistra reggente uno stelo di loto, l’infinita Compassione; Lokesvara, la funzione di

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Grazia Marchianò

guardiano cosmico; Manjusrı¯, la Saggezza; Samantabhadra, la tutela della Dottrina; Vajrapåni, il potere che distrugge il male; Kshitigarbha, il soccorso agli esseri impaniati nel karma negativo; Mahåsthåmapråpta, il potere di schiudere la vista interiore; Mahåvairocana, la trascendenza assoluta; Maitreya, che reca in mano l’ampolla dell’elisir nirvånico, la salvezza promessa a tutti gli esseri; e ancora Vairocana, Akshobhya, Ratnasambhava, Amitåbha, Amoghasiddhi. Al di là di codesti pur identificabili Buddha cosmici, si stende il Dharma-kåya, il piano onnicomprensivo e imperscrutabile della Legge identica a se stessa (tathåta) che presiede al divenire cosmico. Nel secondo concilio del sangha, esattamente cento anni dopo la morte di Gautama Siddharta, le linee dottrinarie di cosmizzazione del credo buddhista vennero stabilite, e il distacco dalla scuola hinayåna dei vecchi credenti, attenuti all’ideale dell’arahant, un realizzato in vita ma pur sempre umano e soggetto alla legge karmica, si fece sempre più vasto. Il buddhismo è un credo non-violentemente invasivo, itinerante e messianico. Contiene aspetti essoterici e esoterici. E se una rigorosa precettistica regola i primi garantendo per quanto è possibile l’armonia e la coesione sociale delle comunità in cui si è diffuso, i monaci e le monache che compongono il sangha apprendono tecniche di meditazione, concentrazione mentale e ascesi che dischiudono loro il cuore esoterico della dottrina, riattualizzata nei riti e nelle cerimonie quotidiane. In questo orizzonte il corpo, la fisicità individuale, è visto come un campo di equilibri sottili instabili, soggetti a disarmonie patologiche che la medicina naturale provvede a rettificare; e, così come il carattere dell’individuo è biologicamente determinato, le circostanze e gli accidenti della vita sono assoggettati al karma. L’ideale buddhico, l’archetipo dell’uomo cosmico fatto non a somiglianza di un Dio creatore, ma divino lui stesso – ci racconta amabilmente Borges e da questo punto in poi ci congediamo da lui –, fu incorporato dall’asceta indiano Shåkyamuni in un credo e una via di conoscenza che viaggia e si diffonde per l’Asia. Millecinquecento anni dopo la sua morte, lo stesso archetipo espresso nella formula: «Samsåra e nirvåna, fenomeno e vuoto sono la stessa cosa», è riafferrato da un monaco giapponese, Købø Daishı¯ K‰kai, e incanalato in una tradizione esoterica, la scuola shingon, di cui i templi di Køya e la sua università divennero dal IX secolo il centro carismatico. «Diventare Buddha in questo corpo e in questa vita» (giapp.: sokushin jøbutsu) è il programma sul quale la linea istituita da K‰kai edifica un sistema di tecniche meditative esoteriche nel senso indicato all’inizio, dove cioè la conoscen-

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Il corpo-del-Buddha nel buddhismo maha¯ya¯na

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za intellettuale dei s‰tra è un approccio tra altri che sono segreti e impegnano la mente, la voce e la gestualità del meditante 6. L’opera dottrinaria di K‰kai contiene la sistematica esposizione della natura esoterica della mente e della coscienza agganciate alla corporeità, e descrive minutamente la dinamica dei rituali nei quali gli officianti attivano il contatto con la natura buddhica della realtà universale. Parte intrinseca di tali cerimonie è il rito, quotidianamente celebrato nei templi di Køya, di accensione e adorazione del fuoco (homa), di remota derivazione vedica. Tre volte al giorno, all’alba, a mezzogiorno e al tramonto, i monaci convengono nel tempio, recitano al lume di candela i s‰tra con le intonazioni vocali stabilite e attivano un complicato processo di contemplazione e introiezione mentale di una coppia di diagrammi cosmici, i mandala del grembo (giapp.: taizøkaimandara) e del diamante (kongøkai-mandara) che nell’insieme rappresentano l’energia di compassione e saggezza buddhica alle radici del cosmo vivente. Mentre i Buddha e i bodhisattva, raffigurati nei mandala ora antropomorficamente ora attraverso lettere mistiche sanscrite, vengono invocati, le dita intraprendono una danza gestuale il cui canone è rigorosamente fissato nel repertorio dei m‰dra, gesti simbolici la cui carica sacrale non è interpretabile in una chiave meramente semiotica. Attraverso la voce, i movimenti delle dita e la concentrazione mentale, il coinvolgimento psico-somatico dell’officiante è totale e l’esperienza illuminativa, che la dottrina mahåyåna tradizionale sanciva dipendente dall’accumulo dei meriti da una vita all’altra, diventa un’opportunità raggiungibile in questo corpo e nella vita presente. La relazione tra il corpo e l’esperienza del sacro, e le nozioni stesse di corpo e corporeità, acquistano nella visione shingon un’identità mistica concreta e tangibile, slacciata dal vincolo a un credo religioso specifico. Le implicazioni di questa visione salvifica, nella prospettiva di una società planetaria, sono da anni al centro di dibattiti accademici e indagini socio-antropologiche ovunque nel mondo. I lavori di questo Convegno romano hanno contribuito in modo efficace alla messa in luce della complessità del tema prismatico: il corpo e la religione oggi.

6 Nel composto giapponese sanmitsu (alla lettera “tre misteri”) si riassume il concetto alla base della pratica meditativa shingon, fondata sul ricorso triplice alla voce, al gesto e alla concentrazione mentale.

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Edoardo Scognamiglio

Immagini del corpo nell’islam

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di

Edoardo Scognamiglio

«Come grano è il cuore, e noi siamo la macina del mulino: che può sapere la macina di questo suo eterno girare? Il corpo è come il sasso e l’acqua ne sono i pensieri e le pene; dice il sasso: “L’acqua sa quel che avviene”. E dice l’acqua: “Chiedi al mugnaio piuttosto, ch’è lui che ha scavato il canale a far scendere l’acqua”. E il Mugnaio ti dice: “O tu che mangi e ti nutri, se non girasse la ruota come nascerebbe il pane?”. Ma molte sono le cose che qui si potrebbero dire: taci, dunque, e chiedile, che te le dica, a Dio!» 1.

Librato fra il trasparente “nulla (’adam) di Dio” e il pastoso e grumoso “essere del mondo”, l’uomo non è, semplicemente, un composto di anima e corpo. Mistero di Dio, di quell’Assoluto che si rivela solo come Luce e attraverso i segni, Adamo è il suo corpo, la sua più ascosa anima, uno spirito infinito. Per il più grande poeta mistico di tutti i tempi, vissuto a Balkh entro i confini dell’odierno Afghanistan – nacque il 30 settembre del 1207 –, l’uomo di Dio, il santo, è segno dell’unità divina. Per Gialål ad-Dı¯n R‰mı¯, pellegrino dell’Assoluto, viandante del Mistero nelle terre dell’Iran e abitatore delle meravigliose colline e vallate della Turchia medievale, noi siamo le arpe e Dio colui che ci tocca con il plettro, quasi a fondere carne e spirito nell’unica opera di Dio. Come per la storia del grano, della macina e del mugnaio, o del flauto, il nostro corpo, il cui suono che è in noi viene da Dio. Siamo montagne impervie e l’eco è quello della voce di Allåh che sopraggiunge misteriosamente. E, infine, siamo l’arco e Iddio l’arciere! Il Corano presenta una concezione unitaria dell’uomo. Adamo è il suo corpo. L’idea stessa di corporeità è centrale non solo nella teologia islamica, ma pure in tante altre discipline dell’islam: il diritto, la filosofia, le scienze naturali, la medicina, la pedagogia, l’etica, ecc.

1 Gialål ad-Dı¯n R‰mı¯, Il mulino, in Id., Poesie mistiche, A. Bausani (ed.), Milano 1997, p. 58.

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Certo, una visione antropologica unitaria lascia sempre aperte – attraverso concetti, idee, proposte particolari – prospettive dualistiche quando si tratta di concepire la relazione tra l’anima e il corpo. Nell’insieme, però, è bene affermare un dato di fatto: la materiacorpo è ciò che esprime l’identità e la possibilità di azione-rivelazione della persona (socialità). Il corpo umano rivela il carattere microcosmico dell’uomo: il cuore, la mente, gli occhi, il volto, sono segni del divino, dell’infinito. Allåh ha reso l’uomo bello, armonioso, donandogli la vista, l’udito e la ragione, le labbra e le orecchie, disponendo il mondo al suo servizio e rendendo la terra docile al suo operato. Soffiando in lui lo spirito divino, Allåh ha preferito l’uomo al resto della creazione 2. C’è una piena corrispondenza, nella persona, tra materia e forma, corpo e anima, interiorità ed esteriorità. La corporeità non solo indica il soggetto umano nella sua integralità, ma designa il soggetto umano come corpo spirituale e significante, cioè corpo di parola. E il modo di relazionarsi con il proprio corpo esprime e riflette il modo in cui ci si relaziona a Dio 3. È essenziale rileggere la realtà simbolica e polivalente del corpo e della sua corporeità a partire da un principio metafisico e mistico molto caro alla tradizione musulmana: zåhir-båtin (esteriore-interiore). Questa categoria esprime, in termini simbolici, la relazione esistente tra Dio e il mondo, fra l’Uno e i molti, il corpo e lo spirito, la vita materiale e quella spirituale, tra l’esistenza e l’Essere. Non c’è una gerarchia tra i due termini, ma solo un rapporto costante. Zåhir e båtin sono posti sullo stesso piano in una relazione di corrispondenza e di reciproca conversione o richiamo, in modo che ogni realtà spirituale sia anche materiale e viceversa 4. 2 Cf. Corano 16, 79-83; 20, 53-55; 23, 78; 32, 9; 40, 64; 64, 3-23. Per le citazioni del Corano, ci rifacciamo sempre allo sguardo sinottico proveniente da queste pubblicazioni: The Qur’an: arabic text and english translation, M. Zafarullah Khan (ed.), London 1970; The holy Qur’an. Text, translation and commentary, A.Y. ‘Alı¯ (ed.), Leicester 1975; Il Corano, introduzione, traduzione e commento di A. Bausani, Milano 1988; Il Corano, I-II, introduzione, traduzione e commento di F. Peirone, Milano 1989; Il Corano, introduzione, traduzione e commento di C.M. Guzzetti, Leumann (To) 1993; Il Corano, H.R. Piccardo (ed.), introduzione di P. Blasone, Roma 1996. 3 Cf. C. Bruaire, Philosophie du corps, Paris 1968, pp. 152-154. Si consideri pure E. Dhorme, L’emploi métaphorique des parties du corps en hébreu et en akkadien, Paris 1963; A. Lowen, Il linguaggio del corpo, Milano 2003. 4 La religione islamica ha una sua dimensione pubblica e una sua sfera privata che si richiamano sempre. Dio stesso è chiamato l’Interiore (al-Båtin) e l’Esteriore (al-Zåhir). Inoltre, Dio è anche il Primo (al-Awwal) e l’Ultimo (al-Åkhir), nonché l’Apparente (al-Zåhir) e l’Occulto (al-Båtin), e «d’ogni cosa è sciente» (Corano 57, 3).

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Anche il corpo vive di questa relazione! Ciò permette di scoprirne la sacralità. Adamo è l’individuo più importante dell’universo: Dio si rivolge a lui per consegnarli una rivelazione e per ricevere obbedienza e sottomissione. L’uomo, così, diviene in grado di costruire una realtà sociale conforme alla volontà divina.

Oltre l’aspetto semantico: il “corpo metaforico”

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La varietà semantica della lingua araba sul corpo si lascia così intendere: – Badan (pl. abdån) indica soprattutto il corpo fisico, ovvero l’organismo vivente, in movimento, che appare e si manifesta. – Jism (pl. ajsåm) richiama il corpo in quanto occupa un volume nello spazio tridimensionale, ma pure la raffigurazione mentale, scientifica e letteraria del corpo. I “corporeisti” (mujassimin o mujassidin), infatti, sono coloro che attribuiscono a Dio un’immagine antropomorfa 5. – Jasad (pl. ajsåd) è la forma in cui si manifesta lo spirito diventando angelo, fatto di sostanza luminosa, o diventando ginn. Il corpo del primo uomo, Adamo, fu creato direttamente da Dio 6 che crea in modo graduale il corpo d’ogni uomo 7. – Shakl è la forma generale, soprattutto del viso. Si può notare come l’idea di corporeità sia resa con un ricco vocabolario che suggerisce, di volta in volta, in base ai contesti interessati, nuove terminologie e sfumature. Senza dimenticare che una vasta interpretazione simbolica e metaforica è riservata alle singole parti che compongono il corpo. Nel suo insieme, quindi, il corpo è integrato in un processo di metaforizzazione e di estrapolazione abbastanza fecondo. Tantissime le analogie tra il corpo e il cosmo sia nel sufismo che nei gruppi più eterodossi dell’islam. Il corpo appare, spesso, come una dimora ben arredata di cui l’anima è la padrona di casa, con la sua famiglia e i suoi servitori (le sue facoltà).

5 Cf. 6 Cf. 7 Cf.

Jism, in Encyclopedia of islam, II, Leiden 1991, pp. 553-555. Corano 15, 26. Corano 22, 5.

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È il caso degli esponenti del movimento politico-religioso del X secolo, denominato Ikhwan-as-Safa, secondo i quali la testa rappresenta una camera in alto, mentre il collo un’arcata e la gola un vestibolo. Inoltre, i denti sono visti come una balaustra, i polmoni simbolizzano, invece, la camera per l’estate, il cuore – per l’energia che lo attraversa – la camera per l’inverno. L’addome è paragonato a un gineceo; gli intestini sono i gabinetti, mentre l’ano e l’uretra sono le tubature di scarico. Ogni parte del corpo riceve una funzione architettonica nonché simbolica e geomantica 8. Seguendo, poi, le indicazioni degli astri, il corpo viene reinterpretato in chiave cosmica. La testa corrisponde al segno dell’Ariete, il collo al Toro, mentre la carne umana simbolizza la terra. Il sangue rappresenta l’acqua, mentre le arterie e le vene sono i fiumi e gli affluenti. I nervi e le unghie sono lamelle di pietra; le ossa sono montagne e rocce. Ogni parte del corpo fornisce indicazioni relative alle corrispondenti parti dell’universo. Le realtà invisibili del mondo spirituale trovano – per analogia – una presenza o affermazione nel mondo materiale, visibile, a partire dalle parti del corpo: mani, segno del giudizio divino, di difesa, di possesso, di aiuto, di accoglienza, di malessere, di pianto, di benedizione; occhi, segno di Dio, il Veggente, dell’essenza immutabile; viso, mento, guancia, bocca, ecc. Le metafore corporali hanno un uso complesso nella tradizione musulmana. Spesso indicano anche gli umori della persona, lo stato d’animo del fedele. Un volto nero, triste, cupo, è simbolo del vuoto, del nulla o del male. Gli umori del corpo incidono sugli stadi spirituali della persona. Il cuore, centro principale del corpo, simbolizza il segreto mistico della persona, mentre il neo è visto come l’incarnazione dell’unico 9. Per gli esperti di simbologia numerica, vi è una corrispondenza tra i numeri divini o celesti e quelli del mondo o materiali che la persona porta inscritti nel suo corpo. 8 Cf. 9 Cf.

Y. Marquet, La philosophie des Ikhwan as-Safa, Alger 1975, pp. 346-348. L. Massignon, L’homme parfait en islam et son originalité eschatologique, in «Eranos Jahrbuch» (1947); J. Chelhod, La face et la personne chez les Arabes, in «Revue de l’Histoire des Religions» 51 (1957), pp. 231-241; A. Boudot-Lamotte, Notes sur des emplois métaphoriques des noms de quelques parties du corps humain, in «Arabica» 18 (1971), pp. 152-160; R. Guénon, Le symbolisme fondamentaux de la science sacrée, Paris 1973; H. Corbin, Corps spirituel et terre céleste. De l’Iran mazdéen à l’Iran shı¯ ’ite, Paris 1979 (tr. it., Corpo spirituale e terra celeste, Milano 1986); Id., Face de dieu, face de l’homme, Paris 1983; Id., L’homme et son ange, Paris 1983; M. Chebel, Le corps dans la tradition au Maghreb, Paris 1984; Id., L’imaginaire arabo-musulman, Paris 1993; T. Zannad, Symboliques corporelles et espaces musulmans, Tunis 1984; A. de Souzenelle, Le symbolisme du corps humain, Paris 1991.

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Le lettere del microcosmo corporeo (al-kawn as-saghir) si proiettano su quelle del macrocosmo (al-kawn al-kabir), in modo che ogni lettera è usata per guarire le malattie che specialmente colpiscono l’organo corrispondente. La lettura cosmica e trascendente del corpo – insieme a tutta l’esistenza della persona – è ben presentata da Jurjånı¯, filosofo e teologo musulmano, nonché autore di opere in persiano sulla grammatica – nato nel 740/1339 a Tåj‰, e morto nell’anno 816/1413 a Shı¯råz –, in un brano assai famoso che presenta l’uomo vivente come un libro aperto ove si iscrive la vita nel suo rapporto con Dio attraverso lo spirito. Il corpo, mediante le sue membra, rientra in questa esperienza pratica, concreta e, allo stesso tempo, sacra di Dio: «L’uomo perfetto è la riunione di tutti i mondi divini e naturali, universali e particolari. È il libro ove sono riuniti tutti i libri divini e naturali. In virtù dell’uso spirito (rûh) e del suo intelletto (ı¯aql), è un libro ragionevole nominato la madre del libro (ummu-l-kitåb). In virtù del proprio cuore (qalb) è il libro della tavoletta ben custodita [sulla quale sono iscritte tutte le cose nella prescienza divina]. In virtù della sua anima (nafs) è il libro delle cose cancellate e delle cose scritte [il mondo sensibile delle cose transitorie]. Lui appunto è quei fogli venerabili, elevati, puri, che non debbono essere toccati e i cui misteri non possono essere compresi se non da coloro che sono purificati dai veli delle tenebre. Il rapporto dell’Intelligenza prima (al-ı¯aql al-awwal) con il grande mondo (al-ı¯âlam ak-kabı¯r) e con le sue realtà è come il rapporto dello spirito umano con il corpo e con le sue facoltà; l’anima universale (an-nafs al-kulliyya) è il cuore del grande mondo, come l’anima ragionevole è il cuore dell’uomo, e proprio per questo il mondo è chiamato “il grande uomo”» 10.

Il corpo nella creazione Molto si è scritto sulla visione antropologica nel Corano e nella teologia islamica. Importanti paralleli e confronti sono stati presentati in rapporto alla tradizione biblica, in particolare con i racconti 10 E. de Vitray-Meyerovitch (ed.), I mistici dell’islam. Antologia del sufismo, Parma 2002, p. 325. Per un primo approccio alla corporeità nella letteratura italiana, cf. gli articoli e i rimandi bibliografici presenti in M. Chebel, Dizionario dei simboli islamici. Riti, mistica e civilizzazione, Roma 1997; Corpo, in C.M. Guzzetti, Islam. Dizionario, Cinisello Balsamo (Milano) 2003, p. 65.

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del libro della Genesi. Nell’ottica d’una creazione continua, sempre in atto, in fase evolutiva – che l’islam sembra riconoscere in maggioranza e senza troppe obiezioni –, il corpo è legato alla realtà simbolica dell’argilla. Adamo è tratto – viene fuori – dall’argilla. Ciò non significa semplicemente la debolezza e lo stato di precarietà in cui si trova Adamo, bensì la totale dipendenza da Dio che esercita il dominio sulla vita, sull’esistenza d’ogni creatura. È quanto ci ricorda, con abbondanti riferimenti, la sura 76 – di probabile periodo meccano – che reca il titolo L’uomo. Non c’è stato un istante – e non ci sarà – in cui Dio non si prende cura dell’uomo. Mai Dio dimentica la sua creatura. Questa sura, in verità, insiste sul dovere della preghiera e riafferma il dominio assoluto di Dio. Il richiamo alla creazione di Adamo serve a indicare tale dominio. Tuttavia, mentre in questa sura si parla dell’origine dell’uomo dall’acqua, è la sura 6 (I greggi, periodo meccano) che riconosce la provenienza argillosa di Adamo: «Lode a Dio che ha creato i cieli e la terra e ha fatto le tenebre e la luce! Eppure, quelli che non credono pensano che altri dèi siano uguali al loro Signore! È lui che vi ha creati da un po’ di argilla e ha fissato un termine alla vostra vita» (2, 1-2).

L’argomento centrale della sura è la solenne riaffermazione dell’unità e dell’unicità di Dio. Il richiamo all’argilla, alla creazione, serve da introito per il vero tema: il dominio assoluto di Dio in quanto creatore dei cieli e della terra 11. Il corpo di Adamo rientra in questo spazio-dominio di Dio quale signore dei cieli e della terra. Creatore di tutte le cose è Dio. Egli è l’unico, il supremo dominatore 12. Ogni credente musulmano sa di essere creatura e, quindi, di appartenere alla creazione. Anche il corpo è parte della creazione: riceve l’influsso, il potere, l’energia di Dio ed è a lui sottomesso.

11 Cf. Corano 2, 14: «Di’: “Dovrei forse prendermi per patrono qualcuno altro invece di Dio, creatore dei cieli e della terra: lui che tutti nutre e non è nutrito?”. Di’: “Mi è stato ordinato di essere il primo a sottomettermi a Dio: non siate dunque idolatri!”». Sull’unicità di Dio, cf. E. Scognamiglio, Il volto lucente di Allåh, in Id., Il volto di Dio nelle religioni. Una indagine storica, filosofica e teologica, Milano 2001, pp. 246-288, qui 253-255. 12 Cf. la sura 13 (Tuono). In questa sura, la realtà e la bellezza del creato si affermano come segno del mistero invisibile di Dio. Colui che crea tutto è Dio e la creazione e il cosmo portano i suoi segni. Il tuono stesso diventa un inno cosmico alla potenza del creatore.

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L’Onnipotente (al-Qahhår) si corrisponde al credente che a lui si sottomette con fiducia illimitata. Un vero musulmano è colui che pratica la vera religione (dı¯n) dell’islam. Egli è un sottomesso (muslim) che pratica la sottomissione o islam. Il dominio di Dio sull’universo investe anche il credente a partire da quello che è: fango e acqua! Da notare l’interessante assonanza tra la parola bad‘ (o ibdâ‘), che indica la creazione assoluta, l’invenzione primordiale del mondo da parte di Dio che è chiamato, in questo caso, badı¯ ‘ (da bad‘) – mentre in riferimento all’uomo fatto di argilla è detto khåliq (da khalq) –, e il termine badan (pl. abdån), che indica il corpo fisico o vivente, in azione. La manifattura del corpo e della sua corporeità rientra nella creazione dal nulla (ex nihilo) da parte di Dio, anche se esplicitamente Adamo è tratto dalla polvere argillosa, ed è fatto di fango nero impastato. Il corpo rientra in quello spazio-segno della novità assoluta di Dio che è la creazione, la cui finalità consiste nel riconoscere l’unico e vero Dio 13. A conferma di ciò è conveniente citare la sura 39 (le Schiere) che presenta i temi fondamentali del Corano: l’unità e unicità di Dio (vv. 1-6), l’ingratitudine dell’uomo (vv. 7-15), la malvagità umana (vv. 16-52), la misericordia e la giustizia di Dio (vv. 53-67) e il giudizio universale (vv. 68-75). Dopo l’imperativo del culto sincero e all’adorazione dell’unico Dio, nella sura delle Schiere, al v. 5, Dio è presentato come colui che ha creato i cieli e la terra con verità d’intento, nonché colui che ha creato l’uomo da una sola persona e ancora crea nel grembo delle madri «con creazione dopo creazione in tre veli di tenebre» (v. 6). I tre veli di tenebre sono, rispettivamente, il corpo-ventre, il gremboutero e la placenta della donna incinta. L’importanza del corpo, tuttavia, non è nel corpo medesimo come realtà creata, bensì nell’azione che Dio eserciterà su di esso attraverso l’ispirazione dell’anima o spirito divino (o forza-energia). In arabo, il verbo creare è reso con fatara (aprirsi): Dio introduce nell’uomo lo spirito. L’analisi dell’opera creatrice secondo il testo coranico 35, 11 (sura degli Angeli) si può così sintetizzare: – Dio crea l’uomo dalla polvere; – Dio crea l’uomo da una goccia di sperma; – Dio differenzia sessualmente l’uomo in maschio e femmina;

13 Cf. Corano 21, 16-17. È la sura dei Profeti, appartenente al secondo periodo meccano.

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– alla donna incinta spetta la procreazione del corpo umano, mentre a Dio, datore di vita, l’infusione dell’anima; – i termini della vita dell’uomo sono fissati da sempre nel libro scritto; – dopo le creature razionali, Dio crea, differenziandole, quelle irrazionali e il cosmo (il mare salato e i fiumi d’acqua dolce; i pesci e gli ornamenti, cioè coralli e conchiglie; i vascelli che galleggiano sull’acqua; la notte e il giorno; il sole, la luna e le stelle).

La conclusione di questo ciclo è evidente: Allåh è il vero Dio, gli altri – che gli empi adorano –, invece, non sono nulla! La creazione è un modo per dire l’assoluta povertà degli dèi e per salvaguardare l’unità totale di Allåh. La stessa differenziazione dei corpi (maschio e femmina) è un segno, una traccia, dell’unità di Allåh, nonché della sua scienza, prova dell’ordine universale ed evidenza del fatto che la natura non procede in base al caso e all’arbitrio 14. Se ne conclude, allora, che il corpo – nella creazione – è sotto il dominio dell’Onnipotente 15. Si tratta del corpo vivo, vivente, biografico della persona, che ha una propria trascendenza e immanenza a partire dal rapporto-relazione che è in grado di stabilire con il Creatore attraverso la fede e il culto sincero. Questo corpo non è preso in modo isolato: è situato in contesti ben precisi (il cosmo, gli elementi della creazione, la vita sociale, gli idoli, Dio, ecc.). 14 Cf. S.A. Mutahharı¯, I diritti della donna nell’islam, Roma 1988, pp. 99-102. 15 In tale prospettiva è importante la concezione coranica del metkbu (“è scritto”).

Più che essere una sorta di credo nella predestinazione, pensiero filosofico e religioso molto diffuso in certi ambienti musulmani, è il presupposto islamico della sottomissione, dell’obbedienza a Dio e della fiducia sconfinata in lui. Il musulmano, secondo l’opinione tradizionale, è una specie di pianta, cioè sottomesso alla volontà di Dio. Il destino d’ogni creatura è ontologicamente inserito nel fatto stesso della sua esistenza. Ciò non annulla la libertà e la responsabilità dell’uomo. Il detto popolare afferma: «kul makhluq marzuq (ogni creatura ha la sua parte di bene)». Il mektub simbolizza la sottomissione del credente, la sua illimitata fiducia nel Creatore. Ciò viene confermato anche dal racconto della creazione di Adamo e della ribellione di Iblı¯s a Dio per l’adorazione di Adamo. La creazione dell’uomo è segnata da una certa debolezza. Infatti, per la tradizione islamica, quando Dio decise di creare Adamo, ordinò a Jibrı¯ l (l’angelo Gabriele) di prendere dalla superficie della terra una manciata d’ogni tipo di argilla (nera, bianca, rossa, blu). La terra, però, gli vietò di prendere pietre e argilla. Così, Dio mandò l’angelo Michele a prendere un po’ di fango dalla terra. La terra, ancora una volta, fece un giuramento e si ritrasse, affinché nessuno prelevasse il fango e l’argilla, visto che la creazione dell’uomo avrebbe prodotto un essere cattivo, disobbediente. Allora Dio diede lo stesso ordine all’angelo della morte (‘Izrå’ı¯l) che non disubbidì a Dio né si preoccupò del giuramento della terra. L’angelo della morte prelevò dalla terra quaranta cubiti di tutti i tipi di argilla. Allah diede forma ad Adamo con questa terra. Adamo è il frutto del prelievo dell’angelo della morte: porta in sé già la sua caducità. Allah creò Adamo con la sua mano da una terra fetida (låzib) e, allo stesso tempo, duttile e compatta.

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All’origine di questa percezione del corpo vi è il mito fondatore di Adamo, cioè la riscoperta della sacralità della vita e del corpo umano rispetto al resto della creazione. L’unicità di Dio ha operato una sorta di desacralizzazione della concezione del mondo e una definizione nuova del sacro: l’uomo e il suo corpo. Questa sacralità si estende al corpo sociale, all’ideale della comunità musulmana intesa quale comunità di puri credenti, di sottomessi. A partire dall’unicità di Dio, la rivelazione coranica adotta una nuova visione dell’uomo, visto come creatura unica per natura, modo d’agire e statuto. Adamo è situato in un mondo che dev’essere desacralizzato. Dio si rende presente nella storia e nell’uomo per fare alleanza. Il corpo di Adamo è solo il primo gradino di questa alleanza. Poi c’è un’ascesi, una purificazione, una salita che occorre compiere fino a giungere allo stadio spirituale della personalità. Sono essenzialmente tre i momenti mitici della creazione di Adamo: – la creazione di Adamo dalla terra; – Adamo in paradiso e la sua disubbidienza; – il perdono e l’elezione sua e dei suoi discendenti come vicari di Dio 16;

Il Corano insiste poco sul peccato originale perché è interessato a sottolineare il dialogo tra Dio e Adamo. Quest’ultimo è adorato pure dagli angeli ed è superiore a ogni altra creatura perché partecipa della scienza di Dio, fino a essere, sulla terra, suo vicario (khalı¯fa). L’antropologia coranica si fonda sulla rivelazione divina. Il mito di Adamo ha permesso di superare un ambito mentale e sociale dominato dalle superstizioni, dalla magia e dall’idolatria. Il Corano sviluppa una relazione di complementarità tra unicità di Dio, visione dell’uomo e rivelazione. La visione del corpo nell’islam dipende da una concezione nuova del sacro e della sua manifestazione nella natura e nella storia. In Allåh medesimo è posto il limite di Adamo e della sua esistenza. L’essenza dell’essere umano è nella sua fede in Dio. Da qui deriva tutto, dipende ogni altra interpretazione antropologica. L’uomo diviene la via al trascendente mediante la sua stessa immanenza che è sacra. Famoso questo detto: «Né la mia terra, né il mio cielo sono abbastanza grandi per contenermi. Ma il cuore del mio servitore, pio e puro, è abbastanza grande per contenermi». 16 Per

questi tre aspetti, cf. Corano 2, 31-37; 3, 59; 7, 19; 20, 115-121; 36, 60.

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Rileggere la realtà simbolica del corpo, a partire dalla funzione di vicario di Adamo 17, significa affermare la responsabilità dell’uomo innanzi alla creazione, al suo stesso essere-corpo, alla sua libertà e all’azione-presenza di Dio. Il corpo è portatore d’una propria alterità che lo qualifica nelle relazioni con il sé dell’uomo, il mondo e Dio. Si apre una nuova prospettiva poco sviluppata in ambito antropologico, anche se tipica di tutte le religioni monoteiste: l’esistenza del “corpo sociale”. Adamo è inserito in una comunità di fedeli ed è sempre colto nella sua dimensione sociale. Per il Corano, ogni uomo è creato come vero e puro muslim, come credente sottomesso alla volontà di Dio. Da qui il senso della sua dignità. Il corpo è sempre colto nella “dimensione collettiva”. Si afferma un’antropologia della persona inserita nella comunità e non un’antropologia dell’individuo o del singolo credente. Il corpo, in quanto condizione umana della persona, porta in sé la natura primigenia (al-fitrah) che attesta l’unità divina. La natura umana è – nella sua realtà permanente – al cospetto di Dio e ne riflette come uno specchio tutti i nomi e le qualità, mentre le altre creature riflettono soltanto uno o alcuni nomi divini. La persona è come il centro della circonferenza dell’esistenza terrena. Trovandosi al centro della circonferenza, non può subire evoluzioni o avvicinarsi ulteriormente al centro. L’uomo è l’essere a cui il Corano fa diretto riferimento, rendendo ogni credente al cospetto di Dio senza alcuna mediazione. La sua realtà corporale, il suo esserci, il suo agire nel tempo e nello spazio sono già un modo per rendere culto a Dio.

17 L’uomo è il rappresentante di Dio sulla terra e, per questo, nel Corano, non è gravato da nessun peccato originale né è in attesa di un mediatore per la sua salvezza. Egli è artefice del proprio destino attraverso la sua libertà responsabile. Certo, il Corano riconosce una debolezza innata all’uomo, sicché egli può essere distratto, disperato, smarrito, ingiusto, tirannico e litigioso. Però, egli possiede la capacità di pensare e di dare giudizi, di discernere. La responsabilità di Adamo, infatti, si fonda sull’intelletto. Egli, poi, è in grado di trasformare il proprio ambiente e la terra, perché tutto è votato al declino eccetto Dio (cf. Corano 29, 88). La dignità di Adamo – e, quindi, d’ogni uomo – non si fonda su un rapporto d’immagine e somiglianza con Dio, bensì sull’incarico che egli ha ricevuto di portare a termine sulla terra la sua obbedienza a Dio, fino a impegnarsi per il mantenimento dell’equilibrio della natura e di tutta la creazione. Per approfondimenti, cf. M. Tworuschka, Islam, Göttingen 1982; G. Louis - A.M. Marcel, Introduction à la théologie musulmane, Paris 1948. Circa l’interpretazione della creazione e la formazione di Adamo secondo la Bibbia e il Corano, cf. C.M. Guzzetti, Bibbia e Corano. Confronto sinottico, Cinisello Balsamo (Milano) 1995, pp. 18-42; U. Bonante, Bibbia e Corano. I testi sacri confrontati, Torino 2002, pp. 42-81; J. Gnilka, Bibbia e Corano. Che cosa li unisce, che cosa li divide, Milano 2006.

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Il meta-corpo: l’aspetto mistico La dimensione materiale e sensuale dell’uomo permette di intendere il corpo come un velo da togliere – da trascendere – per accedere a una conoscenza più profonda, a un livello spirituale perfetto, sino alla piena contemplazione. È quanto ci affida la tradizione spirituale del sufismo e, in genere, l’esperienza mistica dei più noti autori musulmani 18. Il mondo della natura e l’ordine umano si richiamano costantemente nel Corano: cielo e montagne, alberi e animali, corpo e terra, occhi e stelle, partecipano in un certo senso della rivelazione divina attraverso la quale è ribadita la sacralità del cosmo e dell’ordine naturale. I fenomeni della natura – come pure quelli della condizione umana – sono indicati come åyåt (segni o presagi) che appaiono sia all’esterno dell’uomo che nella sua anima. I segni sono manifestazioni della presenza di Dio, prova della sua esistenza, richiamo alla sua presenza e azione costante. Il cosmo è una rivelazione primigenia il cui messaggio sta sempre scritto sul volto d’ogni colle, montagna e foglia d’albero. Dio risplende nella luce, nel sole, nelle stelle. Il cosmo è il Corano della creazione o cosmico (al-Qur’ån al-takwı¯nı¯) che si riconduce al Corano trascritto (al-Qur’ån al-tadwı¯nı¯). La terra è una primordiale moschea e gli stessi riti musulmani hanno una dimensione liturgica a carattere cosmico e astronomico. Il movimento del sole, infatti, scandisce i tempi delle preghiere quotidiane e d’inizio e fine digiuno. Le moschee create dagli uomini sono nient’altro che un’imitazione – o una parte – della moschea cosmica. Il corpo è legato all’ambiente, alla natura, al cosmo e si proietta “fuori di sé” a partire dal “dentro di 18 Non è possibile identificare pienamente il sufismo con la mistica musulmana né con una corrente spirituale eterodossa a sfondo socio-politico e religioso o come corpo estraneo allo spirito dell’islam ortodosso. Autorevoli studiosi presentano il sufismo come il frutto legittimo e natura d’una particolare lettura del messaggio divino contenuto nel Corano. Il sufismo, in quanto manifestazione della vita spirituale dell’islam e delle sue leggi, risale già alle origini stesse dell’islam. Ed è il tentativo di unire fede e opere, prassi religiosa e fede pura. Le comunità dei sufi hanno svolto, comunque, un ruolo culturale, religioso e politico fondamentale in molti paesi dell’Asia e dell’Africa. Spesso sono presenti per la mediazione tra la religione musulmana e il potere politico locale, con un contributo prezioso per le scuole e la formazione religiosa e culturale. Per approfondimenti, cf. L. Massignon, Essai sur les origines du lexique technique del mystique musulmane, Paris 1968. Importanti gli studi e i rimandi bibliografici presenti nell’opera curata da M. Stepanyants (ed.), Sufismo e confraternite nell’islam contemporaneo. Il difficile equilibrio tra mistica e politica, Torino 2003. Importante la raccolta di scritti mistici e sufi di G. Scattolin, Esperienze mistiche nell’islam, I-III, Roma 1994-2000.

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sé”. È il movimento dell’estasi (ek-stasi) che il sufismo e, in generale, la mistica musulmana sottolineano abbastanza. Il corpo diviene sia elemento-strumento di unione con Dio sia ostacolo da superare e, infine, ricettacolo della presenza del Signore attraverso le sue membra. Riportiamo alcuni autori ben noti alla letteratura, alla poetica e alla mistica musulmana:

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«Il tuo posto nel mio cuore è il mio cuore tutto intero: non c’è posto per nessun altro eccetto te […]. Il tuo Spirito si è mescolato con il mio spirito, come il vino con l’acqua pura; e, quindi, tutto ciò che tocca te tocca me, e, quindi, in tutto, tu sei in me. Sono diventato colui che amo, e colui che amo è diventato me! Siamo due spiriti infusi in un sol corpo, e, quindi, vedere me è vedere lui, e vedere lui è vedere noi» 19. «O tu che non ti lasci vedere, anche se ti fai conoscere: tu sei il mondo intero, e null’altro è manifesto eccetto te. L’anima è nascosta nel corpo, e nell’anima sei nascosto tu! O tu che sei nascosto in ciò che è nascosto: più d’ogni cosa e prima d’ogni cosa sei solo tu! Ogni cosa la vediamo grazie a te, e in ogni cosa vediamo te […]. Sei un tesoro nascosto nell’anima, ma sei manifesto nell’anima e nel corpo. O tu, che sei dentro e fuori dell’anima, ciò che dico tu non lo sei […] eppure lo sei!» 20. «Noi siamo l’arpa: sei tu che fai vibrare le nostre corde. Non siamo noi che ci lamentiamo: sei tu che gemi. Noi siamo la scacchiera che tu disponi in ordine di battaglia e che fai muovere per la sconfitta o la vittoria […]. Chi siamo noi, o anima delle nostre anime, in confronto a te? La nostra esistenza non è che non-esistenza. Tu sei l’essere assoluto» 21. «Ora conosco, Signore, ciò che ho nell’intimo del cuore. Nel segreto, lontano dal mondo, la mia lingua ha parlato con il mio adorato. Perciò, in certo senso, siamo uniti, siamo una cosa sola; eppure la separazione potrebbe essere la nostra condizione eterna. Sebbene al mio sguardo ansioso profonda riverenza nasconda il tuo volto, in grazia mirabile e in estasi sento che tocchi l’intimo del mio cuore» 22. «Nessun mortale ha potuto vederti, eppure mille amanti non vogliono che te! Non c’è usignolo che non sappia che nel bocciolo dorme già la

19 Al-Hallåj, Sono diventato colui che amo, in C.M. Guzzetti, Islam. Dizionario [Appendice: preghiere islamiche], cit., p. 280. 20 Al Dio nascosto, in ibid., p. 279. 21 R‰mı¯, Tu solo!, in ibid. 22 Al-Junayd, Siamo una cosa sola!, in ibid., pp. 279-280.

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rosa. Là è l’amore dove il tuo volto riflette il suo splendore. Sui muri del monastero e sul suolo della taverna arde la stessa fiamma eterna; là dove l’asceta avvolto nel suo turbante notte e giorno celebra il suo Dio, dove le campane delle chiese chiamano alla preghiera, e dove s’innalza la croce di Cristo» 23. «La mia terra e il mio cielo non mi contengono, ma il cuore del mio servo fedele mi contiene» 24.

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«Ho posto te nel mio cuore come il mio confidente, e ho lasciato il mio corpo in colloquio con i miei interlocutori. Il mio corpo sta in familiarità con chi mi parla, ma l’amato del mio cuore è, nel mio intimo, il mio confidente» 25.

Il corpo partecipa della rivelazione di Dio e della sua stessa presenza, divenendo uno strumento per la realizzazione dell’unità dell’essere (wahdat al-wuj‰d), visto che Dio si partecipa all’uomo. Il credente è coinvolto, per il corpo, nel mistero medesimo di Dio, fino a divenire sua parte. Non è una forma di panteismo, bensì, semplicemente, un’esperienza mistica dell’unione con il divino. L’amore di Dio si comunica al cuore del credente fino a spaccarglielo. L’uomo resta sospeso tra il cielo e la terra, l’interiore e l’esteriore, tra il corpo e l’anima. Il mistico è colui che deve oltrepassare i veli fino a giungere al “divino in sé” e poi porsi “fuori di sé”. Ci sono ben sette mari da attraversare prima di raggiungere Dio. L’occhio del mistico è posto “fuori” e “dentro di sé”: «A ogni istante arriva la voce d’amore da destra a sinistra. Stiamo partendo per il cielo, siamo più ancora degli angeli. Perché non passiamo oltre dunque? La nostra meta è l’eterno! C’è gran differenza tra un mondo di polvere e una perla purissima, e se anche siamo qui sprofondati, fuggiamo, ora, da un luogo siffatto […]. L’ondata della preesistenza è giunta, e ha spezzato la nave del corpo; or ch’è naufragata la nave, è tempo d’unirsi all’amato […]. È tempo d’unione e d’incontro, è tempo d’eterna bellezza, è tempo di grazia e di dono, ché il mare è chiarore, chiarore! È giunta l’ondata di grazia, ci arriva il rombo del mare, è spuntata l’alba della beatitudine, non l’alba, la luce di Dio! Chi rappresenta il ritratto? Chi sono questi re, questi principi? Chi questa

23 Håfez, Là è l’amore, in ibid., p. 281. 24 A.J. Arberry, Sufism. An account of the mystics of islam, London 25 R. Caspar, Cours de mystique musulmane, Roma 1968, p. 32.

1951, p. 28.

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saggezza decrepita? Sono tutti null’altro che veli! E a questi veli rimedio sono solo estasi ebbre, e la fonte di queste ebbrezze è negli occhi tuoi, nel tuo capo! Il capo in sé non è nulla, ma tu possiedi due teste, questa testa sporca di mondo, quella testa pura di cielo!» 26.

Il corpo del mistico è coinvolto nella piena esperienza dell’incontro con Dio, in quel vissuto amoroso e notturno, sempre parziale, che permette all’amante di unirsi all’amato, al credente di stare con il suo Dio. Il fuoco che brucia il cuore, la luce che acceca, la voce che chiama, i palpiti dell’anima, coinvolgono la vita fisica del soggetto credente nel rapporto spasmodico con Dio. I mistici dimostrano in modo inequivocabile che l’esperienza dell’Assoluto – nell’islam – si propone in misura piena, totalitaria e violenta, fino a radicarsi “dentro” il corpo e nell’anima. Così, l’uomo si conferma come pellegrino dell’Assoluto, essere inquieto e inappagato, destinato a trascendere se stesso, proprio a partire da quel corpo che rivela ed esprime la sua umanità debole e forte allo stesso tempo. Ed è questo corpo che può divenire “meta-corpo”, annullandosi nell’altro e annientandosi nell’immenso sforzo di superare i propri limiti creaturali per immergersi nel mistero di Dio, senza, però, dimenticare che è l’amore di Dio a raggiungerci. L’amore del servo verso il suo Signore provoca l’amore del Signore verso il suo servo, fino a determinarne l’unione. Così, il credente diviene puro strumento nelle mani del Signore, e il corpo del servocredente è completamente a disposizione di Dio. È quanto afferma un famoso hadı¯t, considerato divino (qudsı¯) perché in esso Dio parla in prima persona: «Disse il profeta di Dio: Dio dice: “In nessun modo si avvicina a me il mio servo quanto col compiere gli obblighi che io gli ho prescritto. E il mio servo può ulteriormente avvicinarsi a me con le opere di devozione a tal punto che io lo amo. E quando lo amo: io sono il suo orecchio con cui ode, il suo occhio con cui vede, la sua lingua con cui parla, la sua mano con cui afferra”» 27.

Nella visione mistica, l’uomo viene visto come specchio delle qualità divine in ogni esplicazione materiale e spirituale. E il corpo fisico del credente si perde nell’amore divino. I sufi provano a rileg26 A. Bausani (ed.), Gialål ad-Dı¯n-R‰mı¯. 27 A.J. Arberry, Sufism, cit., p. 27.

Poesie mistiche, Milano 1997, pp. 76-77.

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gere la dignità di Adamo, il suo essere vicario di Dio, non solo in rapporto all’obbedienza, al fatto che il Signore concesse al primo uomo di dare dei nomi al resto della creazione, ma in relazione alla posizione che Adamo occupa nel creato. Qualche mistico, addirittura, si spinge oltre, provando a rileggere la dignità secondo la visione biblica dell’immagine e somiglianza, realtà a cui il Corano, invece, non accenna minimamente. Adamo è l’unica creatura che rispecchia completamente le qualità divine in tutti i loro ordini. Egli è l’essere universale, sintesi del creato, il microcosmo, nonché il centro della creazione: verso di lui tutto converge. Da qui le ardite affermazioni: – «Dio creò Adamo a sua immagine»; – «Chi conosce se stesso, conosce il suo Signore»; – «Chi vede me, vede Dio» 28. – «Ho visto il mio Signore con l’occhio del mio cuore. Gli chiesi: “Chi sei tu?”. Rispose: “Sono te”» 29.

Il rapporto di amore che si viene a creare tra la creatura e il Creatore, l’uomo e Dio, esige, per i sufi, un processo di ascesi, di salita. C’è un gioco di parole, nel linguaggio mistico, tra badan (corpo fenomenico) e ibdå’ (l’atto di far apparire). Ibdå’ è l’atto della creazione con cui Dio porta le cose alla luce dell’esistenza. Adamo, quindi ogni uomo, cioè l’esistente, è una cosa che appare (bådı¯). Considerare le cose dal punto di vista spirituale significa andare oltre il corpo, di là degli aspetti creaturali che sono variabili. Il sufi è chiamato a separarsi dalle cose create che sono legate agli atti di apparire (badw) e di far apparire (ibdå’), fino a stare nell’unione con Dio o con il Reale. Da qui il senso del meta-corpo: è un andare oltre le apparenze e le realtà fisiche della persona che vive come in uno specchio. L’uomo, ontologicamente contenente Dio per la sua natura originaria, avendo risposto all’appello che gli è rivolto da tutta l’eternità ed essendosi reso atto alla visione, scoprirà che vi sono cieli nel regno dell’anima che governano i cieli di questo mondo. Egli è un microcosmo che, divenuto specchio, può riflettere il divino come il macrocosmo riflette Dio. Esiste una sola Realtà, l’unicità divina (tawhı¯d). Rendersene conto è vivere il tawhı¯d in senso obiettivo, cioè giungendo all’unione attraverso l’annullamento dei limiti corporali

28 Ibid., p. 28. 29 Al-Hallåı¯, Dı¯wån,

ed. e tr. fr. di L. Massignon, Paris 1931, p. 45.

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della persona. Si tratta, nell’individuo, di ritornare – o di risalire – al mondo dell’anima spirituale da cui si proviene. Il corpo, allora, diviene sempre più un “corpo spirituale”. «L’universo è simile a un corpo la cui testa è nel cielo e i cui piedi sono sulla terra. Come il corpo umano vive tramite l’anima, per questo corpo il cielo è testa e gli astri sono sensi. L’occhio, l’orecchio, la lingua, vivono, vedono, odono, parlano, sentono, grazie all’anima. La visione, la luminosità, la vita, le facoltà di percezione: tutto viene dall’anima. Si intuisce l’anima per mezzo di tutto questo potere. Quando l’anima lascia il corpo, la bellezza, il fascino e la vivacità non restano in esso: evidentemente, tutta la bellezza si manifestava nel corpo quando essa apparteneva all’anima […]. Il nostro corpo, fronte, viso, occhi, sopracciglia, labbra, bocca, fino alle sette membra [quelle parti del corpo che toccano la terra durante la prosternazione nella preghiera], tutto viene da Dio» 30.

Il corpo spirituale Senza voler minimamente entrare nella plurisecolare questione circa il rapporto anima-corpo – che investe sia la filosofia d’Occidente 31 che la spiritualità e la teologia d’Oriente –, ci limitiamo a individuare alcune posizioni in merito alla tradizione musulmana 32. Sosteniamo, senza sbagliare, che soprattutto la via spirituale dell’islam ha permesso di superare ogni prospettiva dialettica e ogni approccio dualista a tale questione antropologica. In modo particolare, la conoscenza o esperienza mistica ha favorito il recupero dell’integrità della persona nella tradizione musulmana (sia teologica sia filosofica), mentre la vita liturgica ha stabilito la continuità e la concezione pratica di tale unità. I termini con cui in arabo si designa l’anima sono, essenzialmente, due (e abbastanza intercambiabili): nafs e r‰h. Il primo indica propriamente il principio della sensazione e del movimento, nonché dell’impulso. Il secondo, invece, lo spirito vero 30

G. Mandel, La via del sufismo. Nella spiritualità e nella pratica, Milano 2004,

p. 140. 31 Sulla modernità, cf. E. Scognamiglio, Henry-Louis Bergson. Anima e corpo, Padova 2005. 32 Cf. H. Corbin, Histoire de la philosophie islamique, Paris 1986 (tr. it., Storia della filosofia islamica, Milano 2000).

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e proprio. Per molti sufi, nafs è l’anima inferiore o carnale ed è indice d’una conoscenza sensibile a cui risalgono i nostri istinti; mentre r‰h è l’anima superiore che, se virtuosa, sarà portata dagli angeli in paradiso 33. Il vocabolario, in proposito, si complica quando scandagliamo i testi antichi. Nell’antica poesia araba, nafs indica la persona in contrapposizione a r‰h che ha il significato di “respiro” e di “vento” come nella tradizione linguistica semitica. Nel Corano, r‰h indica anche l’angelo messaggero o una qualità divina, mentre nafs si riferisce all’anima. Tuttavia, come per la lingua ebraica il termine nefesˇ ha un valore polisemantico, anche nell’AT, così, per l’arabo, nel Corano, nafs significa sia l’anima umana che la persona, il sé. Così, per il vocabolo r‰h: può alludere anche allo spirito di Dio insufflato nell’uomo o per la sua vita o per il fine della profezia (ispirazione). Nella lingua ebraica troviamo, allo stesso modo, il termine ruah: vento, spirito, soffio, forza di volontà, stato d’animo, potenza, energia, ecc. 34. Mentre nei detti del profeta Maometto nafs e r‰h sono equivalenti, nella tradizione filosofica neoplatonizzante, nafs è la terza ipostasi che viene dopo l’Intelletto universale e prima della Natura. Al-Gazålı¯ interpreterà il nafs come sede dei processi intellettuali e il r‰h come spirito di animazione. Molto si discuterà sulla natura corporea o incorporea di nafs. Largamente, la fede musulmana riconosce l’immortalità dell’anima e il giudizio alla fine dei tempi, anche se Dio richiama a sé l’anima non solo nella morte ma pure nel sonno 35. Ogni anima sarà giudicata in base alle sue azioni 36. Spesso, l’anima è rappresentata come una sostanza invisibile il cui scopo, primariamente, è quello di sostenere il corpo nelle funzioni vitali. Sotto l’influsso della filosofia greca, si è molto sviluppata una scienza dell’anima e si sono fatte distinzioni tra differenti specie di anime. Per Ibn ‘Arabı¯ (morto nel 1240), la posizione dell’uomo quale rappresentante di Dio deriva dall’anima del mondo, definita anche prima intelligenza o Spirito Santo. 33 Per tali questioni, cf. C. Baffioni, I grandi pensatori dell’islam, Roma 1996; Id., Filosofia e religione in islam, Roma 1997; M.C. Hernández, Storia del pensiero nel mondo islamico, I-III, Brescia 1999-2001. 34 Cf. H.W. Wolff, Antropologia dell’Antico Testamento, Brescia 1993. 35 Cf. Corano 6, 60; 39, 42. 36 Cf. Corano 3, 25.

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L’islam ortodosso ha accettato soprattutto la posizione di Al-Badydåwı¯, che ha costruito un sistema più psicologico. Si parte dal principio incorporeo dell’anima e si tentano approfondimenti sostenendosi con il Corano e i detti. Se ne ricava quanto segue:

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– le anime sono create quando i loro corpi sono pronti; – l’anima non è rinchiusa nel corpo, né gli è vicina; essa gli sta attaccata come l’amante lo sta alla sua amata; – l’anima pensante è la sorgente d’una forza che scorre assieme allo spirito attraverso il corpo e conferisce agli organi la capacità di funzionare; – l’anima è creata ma è immortale.

Tante altre riflessioni si possono aggiungere. Per esempio, nel pensiero di Ibn Qayyim al-Djawziyya (morto nel 1350), un dotto abbastanza rigido, l’anima abbandona provvisoriamente il corpo durante il sonno: essa è identica con lo spirito. Le discussioni diventano ancora più impegnative quando si cerca di mettere assieme la fede nella risurrezione dei corpi con l’immortalità dell’anima. Problematiche maggiori si aggiungono in rapporto al tipo di interpretazione (simbolica, letterale, spirituale, ecc.) che si fa del Corano. Comunque, nell’insieme, s’individuano tre dottrine: – L’uomo è il suo corpo. Ciò implica tante cose: l’anima è solo un principio vitale che finisce con la morte fisica e non è una sostanza immateriale. Di conseguenza, con la morte, o il corpo finisce e Dio provvederà a una nuova creazione; o, invece, il corpo non scompare del tutto e sarà soggetto a una ricreazione nell’atto della risurrezione. – L’anima è una sostanza spirituale, individuale e sopravvive al corpo come ente a sé. La morte è intesa come separazione dal corpo. La risurrezione consiste, essenzialmente, nell’unione di anima e corpo (di quanto di esso resta, cioè la polvere o le ossa). – L’uomo è composto di un’anima spirituale e di un corpo materiale. Le anime non sono eterne perché anche il mondo non è eterno. Alla fine di tutto, Dio saprà come far risorgere i corpi e riunirli alle anime.

La risurrezione a volte è intesa anche solo come fatto spirituale che riguarda l’anima 37. In effetti, a rigore di termini, il Corano par37 L’unico filosofo che implicitamente sostenne il bisogno di guidare la filosofia e il pensiero intellettuale musulmano con la rivelazione divina fu Al-Kindı¯. Egli appoggiò

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la di “seconda nascita” o di “risveglio” e tace a proposito dello stato intermedio, cioè dell’intervallo tra la morte e la rinascita. Alcune correnti di pensiero ismailita intendono la risurrezione del corpo come l’ascesa dell’anima personale attraverso varie gerarchie. Secondo le indicazioni del Corano, le anime dei buoni lasceranno il corpo facilmente, mentre quelle dei cattivi restano attaccate al corpo che decade nella tomba. L’osso inferiore della spina dorsale si conserva per costituire la parte essenziale della nuova formazione del corpo spirituale. Mentre alcuni defunti restano nella tomba fino al giorno del giudizio, altri, invece, sono posti in una barriera (barzah) situata tra l’inferno e il paradiso. Ciò indica il legame fra il mondo degli esseri umani (cielo, terra e regioni limitrofe) e quello dei puri spiriti e di Dio. Si tratta di uno spazio intermedio tra il mondo materiale e il mondo spirituale. Il grande filosofo Avicenna, criticato da molti dotti musulmani, ipotizzerà un tipo di vita spirituale dopo la morte solo per l’anima. Questa vita spirituale post-mortem, simulata con immagini corporali e sensibili, appariva come un attacco al dogma della risurrezione dei corpi. L’anima è immortale per la sua immaterialità e non perisce con la morte corporale. Essa si trova, secondo Avicenna, come in una prigione dalla quale vuole uscire. L’anima ridestata aborre il mondo e desidera la morte come separazione dal corpo.

sia l’ipotesi d’una creazione nel tempo sia la possibilità della risurrezione dei corpi. A partire dal testo coranico 36, 78-82, ricondurrà l’ipotesi della risurrezione corporale all’onnipotenza divina, visto che Iddio stesso crea dal nulla e senza materia. Colui che per primo ha fatto germinare le ossa sarà anche in grado di farle vivere nuovamente. Colui che ha creato i cieli e la terra è capace di creare gli uomini dopo la morte. Dio è visto come il Sempre-creante Sapiente: quando vuole una cosa l’ottiene perché la crea! Un’interpretazione più letterale dei testi coranici a proposito della risurrezione dei corpi sarà operata da Al-Gazålı¯, per il quale Dio, mediante la sua onnipotenza, può riformare i corpi mortali anche dalla polvere. Il processo di risurrezione crea una rottura del normale schema degli eventi. Per Averroè, invece, è possibile affermare che ci sia un’esistenza corporea anche nell’aldilà: si tratta di corpi spirituali. L’anima conserva la sua immortalità perché è immateriale. La risurrezione, invece, è una nuova creazione, cioè una ri-creazione dei corpi mortali. Non è, però, un dogma di fede e rientra nella disputa sulle condizioni della risurrezione: potrebbe riguardare anche solo la parte spirituale del corpo, cioè l’intelletto agente. È la tesi controversa anche in Occidente dell’individualità dell’intelletto come sostanza incorporea diversa dall’anima e come soggetto di pensiero. Cf. I.A. Bello, The medieval islamic controversy between philosophy and orthodoxy, Leiden-New York 1989. Sul tema della risurrezione del corpo nell’islam, cf. L. Gardet, Dieu et la destinée de l’homme, Paris 1967; S. El-Saleh, La vie future selon le Coran, Paris 1971; J.I. Smith - Y.Y. Haddad, The islamic understanding of death and resurrection, New York 1981.

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Molto si discuterà pure sul carattere materiale o immateriale di r‰h. È il tentativo – a volte inconscio, a volte deliberato, pieno, voluto – di spiritualizzare il corpo o di materializzare lo spirito, fino a creare una sorta di “corpo spirituale”. Il principio antropologico di fondo a tali posizioni è il seguente: l’uomo si rapporta a Dio e al mondo con tutto se stesso. La persona umana è mediatrice tra queste due entità. L’uomo è postulato come intermedio tra Dio e il mondo. Come tale, egli possiede un r‰h dal respiro divino e un nafs dall’Anima universale. Al-Gazålı¯ vedrà l’anima priva di quantità e dimensione e ne riconoscerà l’appartenenza al mondo intermedio fra quello materiale (halq) e quello puramente intellettuale o comando divino (amr). In generale, per i filosofi, la felicità e l’infelicità nell’aldilà dipendono dal grado di purezza conseguito in vita che, a sua volta, coincide con i diversi gradi di realizzazione della conoscenza. In effetti, l’incontro dell’anima con Dio avviene attraverso la via mistica dell’esperienza religiosa, cioè mediante il corpo spirituale. Seguendo una prospettiva filosofica più emanatistica, il corpo è inteso come strumento per mantenere la continuità tra Dio, il mondo e gli altri esseri creati. C’è una continuità cosmologica tra l’Uno o il Principio e i molti o gli enti. È una proposta filosofica che non combacia assolutamente con il creazionismo: punta su un rigido monismo di matrice platonica e neoplatonica. La realtà è rappresentata come una piramide al cui vertice si trova l’Uno e, poi, successivamente gli altri livelli dell’essere: l’Intelletto (‘aql), l’Anima (nafs), la Natura (tabı¯ ‘a) o, anche, la Materia 38 (hay‰lå). Una prospettiva più pitagorica, invece, vede il corpo inserito nella sfera celeste che così si suddivide: Dio, Intelletto agente, Anima universale, Materia prima, Natura, Corpo, Sfera, Principi fondamentali, Generati (animali, piante e minerali). Il corpo, insomma, viene considerato secondo una concezione gnostica. La cosmologia di Ibn ‘Arabı¯ prevede altri livelli di realtà: l’essenza divina che trascende ogni determinazione (håh‰t); il mondo della natura divina che si rivela nella perfezione delle sue qualità (låh‰t); il mondo spirituale al di là della forma (jabar‰t); il mondo delle sostanze psichiche (malak‰t); il mondo delle forme umane e corporee (nås‰t). Occorre ripercorrere a ritroso questi stadi per ricongiungersi a Dio.

38 Cf.

I.R. Netton, Al-Fârâbı¯ and his school, London-New York 1992.

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Il “corpo simbolico” o ritualizzato Il potere simbolico dei riti è attestato in ogni religione e società: dove c’è l’uomo c’è anche una comunità che ritualizza. I riti sono fondamentali alla vita delle persone. Ed è sbagliato pensare a una religione solo interiore e senza regole o liturgia, priva di segni esterni di stati d’animo interiori. Come per la società, così per la religione, la forma esteriore è la condizione della sua esistenza. In questa prospettiva, il corpo spirituale si afferma anche come corpo sociale e liturgico, nonché crismato e cultuale, segnato, cioè, da una particolare forma di partecipazione al mistero divino. Il corpo si riconosce, allora, nella sua dimensione simbolica, cioè di distinzione, di partecipazione e di unione al divino 39. Due le funzioni centrali del rito: il logos e l’ethos, parola e azione si uniscono attraverso una gestualità partecipativa e un linguaggio d’evocazione. Anche nell’islam il corpo rituale assume rilievi importanti e significati sorprendenti. È sufficiente considerare i riti di purificazione (tahåra) che richiamano in gioco l’aspetto etico e anche quello teologico. La purificazione avviene, in particolare, attraverso l’acqua: l’immersione, l’abluzione e l’aspersione rituale sono le forme più conosciute. Nell’islam l’abluzione rituale si compie non solo con l’acqua ma anche con la sabbia. L’islam esige sia una purità corporale che spirituale. Nel giorno del giudizio non soccorreranno l’uomo né i figli né gli amici, né il patrimonio, bensì solamente il cuore puro che è in lui fa decidere a favore della salvezza della sua anima. Si pretende la purità del corpo, del vestiario e della casa. Non si può recitare la preghiera in uno stato d’impurità. Il pio musulmano è obbligato a 39 La bibliografia sul rito è sterminata: cf. L. Buoyer, Il rito e l’uomo, Brescia 1964; T. Reik, Il rito religioso, Torino 1969; A.M. Di Nola, Rito, in A.M. Di Nola (ed.), Enciclopedia delle religioni, V, Firenze 1970, pp. 428-440; V. Turner, Il processo rituale, Brescia 1972; J. Cazeneuve, La sociologia del rito, Milano 1974; nonché l’articolo e i rimandi bibliografici presenti in S. Maggiani, Rito/Riti, in D. Sartore - A.M. Triacca (edd.), Nuovo Dizionario di Liturgia, Cinisello Balsamo (Milano) 1988, pp. 1223-1232; A.N. Terrin, Rito, in H. Waldenfels (ed.), Nuovo Dizionario delle Religioni, Cinisello Balsamo (Milano) 1993, pp. 769-778. Sempre attuale e problematica la prospettiva di R. Girard, La violenza e il sacro, Milano 1980; Id., Il capro espiatorio, Milano 1987. Per i nuovi pensatori dell’islam, il tema della violenza nelle religioni e, in particolare, nell’islam, non è strettamente legato al rito e al culto religioso, bensì a una manipolazione della verità sacra presentata in modo assoluto e vincolante. C’è da riscoprire il triangolo antropologico della sacralizzazione della violenza (cf. R. Benzine, I nuovi pensatori dell’islam, Isola del Liri [Frosinone] 2004, pp. 119-122). Per un approccio dialogico e interreligioso in ambito liturgico-rituale, cf. S. Ubbiali (ed.), Teologia delle religioni e liturgia, Padova 2001.

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fare il bagno perlomeno una volta la settimana, a lavarsi dopo l’uso della toilette e a badare che il suo corpo e i suoi vestiti restino puliti quando si trova in bagno. Le mani sono lavate prima e dopo i pasti. È raccomandabile radersi i peli del corpo e avere cura del proprio corpo oltre che dell’anima. Le unghie vanno subito tagliate e bisogna utilizzare la mano sinistra quando si fa ricorso al fazzoletto. Nell’antichità, ai tempi di Maometto, i denti venivano puliti con un bastoncino di legno ben profumato e fibroso (miswâk). L’igiene dei denti, ancora oggi, è molto praticata presso i musulmani fedeli alla tradizione di Maometto. Secondo la tradizione, sputare liberamente in direzione della Mecca è una grossolana offesa della decenza religiosa. Si deve sempre evitare di sputare per strada, perché non ci si può orientare e capire dove si trova la Mecca. Di solito, il fazzoletto è posto nella tasca sinistra dei pantaloni e viene utilizzato con la mano sinistra perché la destra serve per salutare e per i contatti interpersonali. Molte direttive religiose, come pure alcune forme di ritualità fisica, hanno sia un significato spirituale che igienico-sanitario: servono a contribuire alla sicurezza sociale e sanitaria dei suoi simili. Sicuramente, i riti di purificazione del corpo hanno un grande significato spirituale e teologico. Poiché alla preghiera partecipa tutto il corpo, prima che questa avvenga ne sono lavate le singole parti. Procedendo alle abluzioni delle membra corporali, il musulmano analizza nella sua mente tutte le azioni che egli ha compiuto tra due preghiere. Egli esamina il valore di queste azioni: riconosce errori e omissioni, si impegna a migliorare il suo comportamento. È interessante considerare alcune invocazioni tradizionali per le preghiere rituali con cui i musulmani accompagnano i vari momenti delle cinque preghiere quotidiane: – Dopo l’invito alla preghiera: «Mio Signore e mio Dio, ecco la chiamata perfetta! È il momento della preghiera. Concedi a Maometto fiducia, merito e rango supremo! Offrigli nel giorno della sua risurrezione il posto eccelso che tu gli hai promesso, perché tu non dimentichi la tua promessa». – Abluzioni prima della preghiera: «Lavando le mani: “O Dio! Ti chiedo prosperità e benedizione e mi rifugio in te contro calamità e perdizione”. Lavando la bocca: “O Dio, aiutami a recitare il tuo Libro [il Corano] e a ricordarti spesso e confermami con parola ferma nella vita di questo mondo e nell’altra!”. Lavando il naso: “O Dio, fammi odorare il profumo del paradiso e compiaciti di me! O Dio, mi rifugio in

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te contro gli odori del fuoco e contro l’orrenda dimora dell’inferno”. Lavando la faccia: “O Dio, rendi bianco il mio volto con la tua luce nel giorno in cui diventeranno bianchi i volti dei tuoi amici, e non rendere nero il mio volto con le tue mani, nel giorno in cui diventeranno neri i volti dei tuoi nemici!”. Lavando la testa: “O Dio, ricoprimi con la tua misericordia, fa scendere su di me le tue benedizioni e riparami all’ombra del tuo trono nel giorno in cui non ci sarà altra ombra se non la tua. O Dio, rendi i miei capelli e la mia pelle interdetti al fuoco dell’inferno!”. Lavando gli orecchi: “O Dio, fammi essere nel numero di coloro i quali ascoltano la tua parola e ascoltano la sua essenza più bella! O Dio, fammi udire l’araldo del paradiso, insieme con i giusti nel paradiso!”. Lavando il collo: “O Dio, lascia libero il mio collo dal fuoco! In te mi rifugio dalle catene e dai gioghi”. Lavando il piede destro: “O Dio, rendi saldo il mio piede sulla retta via, insieme con i piedi dei tuoi servi pii!”. Lavando il piede sinistro: “O Dio, mi rifugio in te, per paura che il mio piede vacilli sul ponte dell’inferno, il giorno in cui vacilleranno i piedi degli ipocriti e degli idolatri”» 40.

Queste invocazioni richiamano sempre al futuro dell’uomo e assumono una prospettiva escatologica molto importante. Ci deve essere una piena corrispondenza tra retto pensiero (lisån: lingua) e retta azione (ihsån: buona condotta). La preghiera al termine delle abluzioni unisce queste due prospettive – perché l’islam è l’unione di tali aspetti – e confessa l’unicità di Dio e la sua misericordia: «Attesto che non c’è divinità all’infuori di Dio, e che Dio non ha alcun socio. Attesto che Maometto è suo servo e messaggero. Gloria a te, mio Dio! Lode a te! Non c’è divinità all’infuori di te! Le mie opere sono cattive: ho tralignato. Ti chiedo perdono, mio Dio, e mi volgo a te. Concedimi il perdono e volgiti a me! Tu, infatti, sei colui che ama perdonare, tu sei il Misericordioso! Dio mio, annoverami fra quelli che si pentono con sincerità, fra quelli che si purificano, fra i tuoi servi virtuosi! Fa’ di me un servo paziente e riconoscente! Fa’ che mi ricordi di te, fa’ che spesso invochi il tuo nome e ti lodi mattino e sera!» 41.

L’interiorizzazione dei culti e dei riti è stata un processo preso a cuore dai mistici e dai grandi pensatori arabi. La denuncia di un certo legalismo e di un’interpretazione giuridica della legge e del Corano ha trovato una cospicua letteratura nel passato. L’elogio della 40 Invocazioni per le preghiere rituali, in C.M. Guzzetti, Islam [Appendice: preghiere islamiche], cit., pp. 274-275. 41 Ibid., pp. 275-276.

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semplicità dell’islam primitivo è venuto da molti poeti e uomini di spirito. Spesso, la raffinatezza introdotta nella vita religiosa dei musulmani ha provocato una fede piuttosto borghese. La purificazione ha soprattutto un significato interiore e spirituale. Alla purificazione delle parti del corpo corrispondono anche i modi gestuali con cui avviene la preghiera. Al-Gazålı¯ distingue quattro gradi di purificazione. Nel primo è il corpo a essere mondato da tutto ciò che lo insudicia (è la purificazione esterna). Nel secondo sono le membra a essere lavate dalle colpe che hanno commesso. Nel terzo il cuore è purificato dai vizi odiosi. Nel quarto si ha la purificazione dell’intimo più segreto e, per mezzo di essa, l’uomo – nella sua profondità – è liberato da tutto ciò che non è Dio. Tuttavia, il fine ultimo di questi riti è quello di raggiungere il disvelamento della potenza e della grandezza di Dio e riconoscere la sua unicità. Il processo di spiritualizzazione ha riguardato, per il passato, anche la preghiera, il pellegrinaggio, l’elemosina e il digiuno. Ancora una volta il corpo simbolico o cultuale è condizionato dalla fede nell’unicità di Dio 42. L’attenzione al corpo, che determina il passaggio dall’implicito all’esplicito, dall’interiorità all’esteriorità e viceversa, accompagna tutto il percorso della vita di un musulmano. Per la tradizione di Maometto – a cui si rifà, molto spesso, quella popolare non sempre ortodossa –, non appena una persona muore e va nella tomba, improvvisamente appaiono due angeli che la svegliano. La sua anima torna nel corpo e da qui inizia una serie di interrogazioni, fino alla sentenza del giudizio immediato. È come se il corpo partecipasse già in terra e nel presente al giudizio dell’anima individuale. Le membra del corpo hanno un ruolo decisivo nel giorno del giudizio: sia per gli empi che per i giusti. Essi sono lo strumento per la partecipazione o alla dannazione dell’inferno o alla gioia degli eletti 43. Lo stesso corpo del martire (sˇhaı¯d), che muore nel nome di Dio, partecipa – quasi plasticamente – a una beatitudine senza fine. Coloro che sono caduti per la causa di Dio non sono morti ma vivi, e Dio li purificherà dalle loro colpe e li ricompenserà. I martiri entra42 Cf. l’articolo e i rimandi bibliografici presentati da R. Arnaldez, La mistica musulmana, in A. Ravier (ed.), La mistica e le mistiche, Cinisello Balsamo (Milano) 1996, pp. 425-486. L’approfondimento di logos ed ethos nell’educazione dei giovani musulmani è da noi studiato in B. Naaman - E. Scognamiglio, Volti dell’islam post-moderno, Città del Vaticano 2006, pp. 181-218. 43 Cf. Corano 44, 43-50.

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no subito in paradiso senza attendere la risurrezione nel giorno del giudizio. Sono sepolti dove cadono, senza essere lavati e con le vesti macchiate di sangue, a prova dei loro meriti presso Dio. È chiamato sˇhaı¯d anche colui che perisce in modo tragico. Per gli sciiti, tutti gli imåm sono martiri. È importante considerare il corpo del defunto (janåza o jinåza) che ancora partecipa del culto e del rito funebre che, in questo caso, è detto sempre con il termine janåza (si riferisce sia alla salma che al feretro e ai riti funebri). Le raccolte dei detti del profeta riportano le preghiere, i gesti, le ritualità, la prassi di sepoltura e le usanze del lutto. Sebbene alcune particolari pratiche differiscano nelle varie comunità, l’essenziale consiste nel lavaggio del corpo e nell’immediata sepoltura (entro le otto ore dopo la morte). Nell’istante della morte, il defunto viene nascosto, cioè coperto, successivamente, dopo che l’anima ha lasciato il corpo, viene riportato a casa e subito si provvede a lavarlo e a invocare su di lui la preghiera insieme ai familiari e a tutti i musulmani che possono riunirsi. Dopo l’ultima preghiera, il defunto viene seppellito nella tomba con la faccia rivolta alla Mecca. È l’imåm che guida la preghiera della jinåza. Il rispetto dovuto al corpo è in prospettiva della risurrezione, del giorno del giudizio. Addirittura, secondo la tradizione, rompere un osso di un musulmano morto è altrettanto grave che rompere l’osso di un vivo. È un atto di grande virtù anche accompagnare il feretro alla sepoltura. Sul morto devono essere recitate delle preghiere, in particolare quattro takbı¯r (proclamazioni della grandezza di Dio). Per quelli più pii, viene recitato l’intero Corano o almeno la sesta sura. Nelle preghiere per i defunti si chiede la purificazione, il perdono e la preservazione dal giudizio dell’inferno. Ancora una volta il corpo è protagonista: si chiede a Dio di lavarlo, di dargli vesti splendenti, una spaziosa dimora, una famiglia migliore, una sposa migliore, ecc. Il pianto per il defunto dev’essere contenuto: potrebbe recargli fastidio. C’è un principio teologico che soggiace a tale considerazione: l’uomo viene da Dio e a lui ritorna. Si giustifica la frettolosa sepoltura con il fatto che il defunto non ama sentire il pianto dei parenti e degli amici 44. Il “corpo ritualizzato” è la metafora della ricerca dell’ordine, del ripristino del bene, del piano di Dio. In tal senso c’è chi ha parlato 44 Cf. K.M. Islam, The spectacle of death, Lahore 1976; J. Bowker, The meanings of Death, Cambridge 1991 (tr. it., La morte nelle religioni. Ebraismo, cristianesimo, islam, induismo, buddhismo, Cinisello Balsamo [Milano] 1996, pp. 131-164).

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dell’islam come “religione del corpo”! Si tratta di un corpo vivo, in movimento, dinamico, razionale e volitivo, che si orienta verso la preghiera, l’azione, la vita, Dio, nonostante le sue ambiguità, lacerazioni e debolezze 45.

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Il “corpo sessuato” Una visione conflittuale del corpo nel mondo e nella cultura musulmana moderna è ben testimoniata dalla letteratura araba contemporanea, che denuncia certe chiusure soprattutto nell’ambito della vita sociale, della sessualità, delle relazioni familiari. Il “corpo sessuato”, in special modo quello femminile, manca di molte liberazioni. È sufficiente leggere il breve romanzo Povera donna (Imra’ miskina) – dello scrittore egiziano Yahya Haqqi (1905-1992), che ha lavorato come diplomatico presso le sedi di Parigi, Istanbul, Gedda e Tripoli – per prendere coscienza di tale conflittualità 46. Il romanzo Povera donna è una denuncia, tra l’altro, dell’androcentrismo – molto diffuso nei paesi arabi e a maggioranza musulmana – e dell’esclusione socio-politica e religioso-culturale delle donne dalla vita della famiglia araba e delle comunità musulmane. Si denuncia, ancora, insieme a altre novelle, il fatto che la concezione della differenza tra sessi nell’islam tradizionale è rimasta quella predominante nel Medio Oriente musulmano fin quasi all’inizio del XX secolo. Il sistema sociale cui essa ha dato inequivocabilmente luogo a tutti i livelli – culturale, giuridico, sociale e istituzionale – ha posto le donne, e i loro corpi, in una posizione controllata e subordinata, emarginandole economicamente, e le ha concepite come esseri inferiori agli uomini.

45 Cf. T.Z. Bouchrara, Les lieux du corps en islam, Paris 1994, pp. 16; 27-39. Si consideri pure S.N. Guessous, Au de là de toute pudeur, Casablanca 1990 (tr. it., Al di là del pudore, Palermo 1993). 46 Cf. I. Camera d’Afflitto (ed.), Scrittori arabi del Novecento, I-II, Milano 2002, qui I, pp. 39-55. Si tratta di un’ampia antologia che tenta di fornire un’esaustiva panoramica sulla letteratura contemporanea in lingua araba e sui suoi autori più importanti. Sono autori aperti alle problematiche religiose, politiche, culturali che attanagliano il mondo arabo anche nel suo rapporto difficile con l’Occidente. L’ambivalente valore della spiritualità e della tradizione, la famiglia, il rapporto tra i sessi, le difficoltà e le speranze della donne, la miseria e la fame, i drammi privati e politici della guerra, l’esilio, la condizione del profugo e dell’immigrato, le ipotesi di pacifica convivenza interetnica sono solo alcuni dei temi affrontati da questi racconti.

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Non condivide pienamente questo giudizio la ricercatrice Leila Ahmed, secondo la quale certe forme d’emarginazione e d’isolamento delle donne appartengono anche al cristianesimo e all’ebraismo e sono da attribuire a un retaggio patriarcale primitivo. Si propone, nel suo studio, di superare certi schematismi e pregiudizi che danneggiano l’islam: ben pochi arabi o musulmani non si sono accorti che la denuncia dell’oppressione delle donne da parte dei mass media (e a volte anche degli studiosi) occidentali serve a giustificare, se non addirittura a fomentare, l’ostilità verso di loro. Sono vecchi pregiudizi che la stessa ricerca accademica non può avallare, oramai, in nessun modo. Leila parla d’una tendenza al miglioramento e all’estensione dei diritti delle donne nei paesi del Medio Oriente 47. Comunque, per noi, superando queste polemiche, è chiaro che nell’islam vige ancora un grande contrasto di fondo fra le regole sociali che istituiscono il matrimonio come una gerarchia fra i sessi e la concezione etica che sottolinea l’uguaglianza di tutti gli individui, indipendentemente dal sesso. Per superare ogni pregiudizio sulla sessualità nell’islam, è necessario rileggere tale realtà antropologica alla luce della rivelazione coranica, dell’unicità di Dio, della provenienza dell’uomo da lui e del ritorno all’eterno. C’è una dimensione sacra del sesso e della vita sessuale che l’islam, ancora oggi, vuole tutelare 48. Bouhdiba offre un’analisi innovativa del rapporto profondo che nelle società arabo-musulmane lega l’elemento sessuale e la sfera del sacro, facendo del modello islamico una sintesi armoniosa di spirito ascetico e desiderio fisico. In questo saggio, in cui si fondono letteratura e sociologia all’interno di un approccio globale alla cultura islamica, Bouhdiba propone un confronto tra i precetti dettati dai testi della tradizione musulmana e la pratica sessuale dell’islam contemporaneo. Si svela, così, un quadro inaspettato d’una comunità estremamente vitale, in cui la sessualità, invece di essere svilita, ha un’importanza rilevante e diventa una fonte di gioia. Da questo continuo dialogo tra sacro e desiderio erotico emerge una visione del paradiso, ambizione ultima del buon musulmano, che rappresenta non solo la piena realizzazione del credente, ma anche la trascendenza della sua fisicità. 47 Cf. L. Ahmed, Oltre il velo. La donna nell’islam da Maometto agli ayatollah, Milano 2001, pp. 271-285. 48 Cf. A. Bouhdiba, La sessualità nell’islam, Milano 2005.

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Immagini del corpo nell’islam

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Il “corpo sessuato” è il punto di partenza per la trascendenza di Adamo, per il raggiungimento del “corpo simbolico” e per il buon governo del “corpo sociale”. Per l’islam, la sessualità appartiene alla sfera dell’etica ma, al contempo, è anche oggetto del diritto. Nei confronti del “corpo sessuato” e del piacere fisico l’islam manifesta un rapporto naturale, sino a richiamarlo nella fase escatologica come bene e retribuzione degli eletti. Il matrimonio resta, comunque, la forma legittima della vita in comune. È il “corpo sociale” della famiglia che deve trovare un giusto spazio alla vita sessuale di coppia.

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Il corpo secondo il confucianesimo: luogo di realizzazione dell’amore della realtà ultima (Cielo)

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di

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Nelle filosofie e religioni orientali l’universo viene concepito come un’unità, dove il mondo materiale e spirituale si penetrano e si armonizzano senza contraddizione e ostruzione: non v’è nulla che non sia materia, e questa materia non è distinta dalla sua energia spirituale (Ch’i, soffio, aria, respiro, energia vitale creativa, forza spirituale cosmica, ecc.). Ciò vuol dire che l’universo è un luogo dell’armonia perfetta che tutto abbraccia, creando un solo corpo e una sola vita con i diecimila esseri. Questo universo (Cielo) è considerato come la grande Vita, chiamata “forza vitale creativa continuata”, che si crea sempre a causa del suo amore verso tutte le creature, e si nutre in mutamento. L’uomo partecipa a questa infinita vitalità dinamica dell’universo con l’opera del creare e far prosperare ogni creatura. Si riflette, quindi, anche nel suo corpo l’unità armoniosa del macrocosmo sia materiale che spirituale. Tale tendenza cosmologico-antropologica è comune a tutto il mondo orientale, soprattutto in Cina, e si trova in modo particolare nella cosmologia del confucianesimo e del taoismo. Nel confucianesimo il corpo viene visto come l’organo che congiunge la materia (sangue-carne) con lo spirito e, allo stesso tempo, la natura umana (cuore) con la vita. Dal punto di vista metafisico, la natura umana non è altro che la Realtà ultima (Cielo) e universale dell’umanità, insita nell’esistenza individuale, indole della sua sorgente, in cui si manifestano tutti i principi cosmici. In quanto totalità dell’essere umano, il corpo è il soggetto della conoscenza di tale fatto, nonché il soggetto praticante la Legge morale e spirituale, intesa dai confuciani come l’esteriorizzazione (oggettivazione) della natura umana (Decreto del Cielo) nel codice sociale-etico.

La concezione del corpo nel confucianesimo Secondo il confucianesimo il corpo umano viene considerato non solo composto di carne, sangue e sensi, bensì come l’essenza del-

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Il corpo secondo il confucianesimo

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la vita, il luogo in cui realizzare il valore della vita. Ci vuole quindi un grande sforzo fisico per portare la vita al suo compimento. Siccome il principio del Cielo è inserito nell’individuo e assume forma per mezzo della creatività dell’energia vitale (Ch’i), l’essenza dell’uomo è inseparabile dal Cielo. L’unità materiale, morale e spirituale può essere intralciata anche negli elementi che compongono il corpo.

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1. Il corpo è una condensazione del Ch’i (energia vitale cosmica) Il corpo umano non è altro che una condensazione dell’energia vitale cosmica (Ch’i), inesauribile e altamente flessibile, di cui è pervaso sia lo spazio infinito che ogni singolo corpo, umano, animale o vegetale. Zhu Hsi (1130-1108), un famoso neo-confuciano, afferma che un bambino nasce grazie al Ch’i in quanto appartiene all’energia vitale del Cielo (divino); quando l’uomo è giovane possiede Ch’i in abbondanza, mentre nella sua vecchiaia il Ch’i diminuisce e nella morte si disperde, e così l’uomo ritorna alla sua origine (Cielo). Si racconta spesso che alla morte di una persona i circostanti sentono la camera riscaldarsi perché l’energia vitale si diffonde e sale verso l’alto, lasciando un profumo quale manifestazione dello spirito del defunto 1. Ma non è sempre così. Se l’uomo è morto di morte naturale, può diventare un antenato. In questo caso Ch’i ritorna al Cielo. Invece, quando uno è deceduto di morte innaturale, come nei casi di morte violenta, suicidio od omicidio, allora l’energia cosmica vitale (Ch’i) non si scioglie e rimane in questo mondo, talvolta causando del male alla gente o manifestandosi sotto forma di fantasma. L’energia vitale cosmica (Ch’i) non scorre solo nell’uomo, ma in tutte le creature, secondo il continuo movimento sotto/sopra, destra/sinistra. Il Ch’i circola nel corpo umano attraverso dodici canali principali. Se scorre bene tra gli organi, l’uomo è sano; se il flusso d’energia viene ostacolato, crea malattia; ad esempio, un ictus viene spiegato con una improvvisa ostruzione del Ch’i e l’esaurimento del suo scorrere nel corpo conduce alla morte. Secondo Confucio (551-479 a.C.), il Ch’i significa respiro, vitalità del sangue e atteggiamento dell’uomo, ovvero il Soffio vitale delle cose e l’attitudine dell’uomo nell’agire e nel parlare 2. Mentre 1 Cf. Zhu-Tzu-Yo-Liu (Raccolta sistematica delle Massime del Maestro Zhu), vol. 87. 2 Cf. Lunyu (Dialoghi), capp. 8 e 10.

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questa posizione viene intesa in primo luogo dal punto di vista fisico, Mencio (371-289 a.C.) sottolinea piuttosto l’aspetto morale, metafisico e spirituale, utilizzando il termine Hao Ran Zhi Ch’i che significa “Grande Morale”, energia vitale rigogliosa e fluida. Hao Ran esprime una grandezza in senso supremo. La morale dei guerrieri è una virtù che concerne l’uomo in quanto uomo, e viene acquisita in seguito a una lunga pratica di atti morali ispirati soprattutto da Yi (giustizia, ossia rettitudine) e Tao (Via) del Cielo. La Grande Morale Hao Ran Zhi Ch’i, nella sua profondità, si identifica con l’universo, e Mencio afferma che essa «pervade tutto tra il Cielo e la Terra». Nonostante ciò, questo Ch’i è strettamente legato al corpo fisico e deve esser curato in modo giusto per ricondurlo alle sua qualità originarie. Secondo Mencio ci sono due elementi importanti per raggiungere un cuore stabile: la giustizia, ossia la rettitudine (Yi) intesa come volontà etica, morale e spirituale, nonché l’energia vitale (Ch’i) di cui è pervaso il corpo umano. Questi elementi interagiscono reciprocamente al punto che l’energia vitale si muove quando la volontà si concentra, e quando l’energia vitale si concentra è la volontà a muoversi 3. Nel secondo caso bisogna nutrire l’energia vitale con il costante esercizio, affinché possa pervadere tutto il corpo umano e conformarsi alla volontà. In tal modo, l’uomo può guidare liberamente con la propria volontà il suo corpo in cui il Ch’i liberamente scorre, e ciò mantenendo l’autocontrollo sulle energie materiali del proprio corpo 4 e raggiungendo stabilità di cuore e mente, con il risultato di diventare una persona sincera, luminosa, misteriosa, calma e riflessiva. Mencio considera l’uomo come un corpo vivente a cui attribuisce l’azione morale, spirituale e perfino cosmica. Stessa idea si trova anche nel pensiero filosofico del neo-confuciano Wang Shou-Ren, secondo cui l’immensa energia vitale cosmica e fluida del Cielo (Realtà ultima) può essere sperimentata da tutti; non è riservata soltanto ai sapienti, anche se solo quest’ultimi sono capaci

3 Cf. Mencio, Libro II, A, 2. 4 La stessa idea si trova nel pensiero

di Wang Shou-Ren, secondo il quale il cuore è padrone del corpo (cf. Ch’uan His Lu [Raccolta di Istruzione], vol. A, 12). Wang continua affermando che il risveglio del cuore è la volontà e la sostanza della volontà è la conoscenza, e dove c’è pensiero della volontà ci sono le cose del mondo (cf. ibid, vol. A, 6). Ciò vuol dire che il cuore a causa della sua natura dinamica realizza il Principio (Li) di tutte le cose mediante la volontà: dove c’è la volontà sempre ci sono le cose del mondo (cf. ibid., vol. B, 137).

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di non perderla 5. La persona umana deve lasciarsi semplicemente guidare dall’energia pura, chiamata da Wang “energia aurora”, e avere la giusta disposizione di cuore con l’appropriata concentrazione: «Quando ci si alza presto al mattino, ci si siede e non si è ancora in contatto con gli influssi del mondo materiale. Il nostro cuore è spontaneamente puro e chiaro, e questa condizione ci permette di vivere come se ci si trovasse ancora al tempo di Fu-hsi, nella sublime antichità» 6. Il nutrimento dell’energia vitale attraverso la meditazione serve per attualizzare le virtù morali e spirituali. A un certo punto della coltivazione del cuore non servono più gli sforzi umani, perché l’energia vitale (Ch’i) stessa rende operative le naturali inclinazioni del carattere individuale 7. Altrimenti, senza il nutrimento del cuore, la formazione del carattere sarà soggetta al fallimento sotto la pressione dell’ambiente negativo. Il male viene quindi spiegato come smarrimento e indebolimento del Ch’i nel corpo e nel cuore umano.

2. Il corpo è composto da Yin e Yang e dai Cinque Elementi La vita degli esseri umani è condizionata dal respiro dell’energia vitale, sottoposta all’azione di due principi fondamentali dell’universo, Yin e Yang, rispettivamente principio maschile (Yang: sole, attivo, secco, giorno, ecc.) e femminile (Yin: luna, passivo, umido, notte, ecc.). Si tratta di polarità opposte ma integrate e complementari, come due fasi dello stesso movimento. Dalla loro unione dialettica deriva tutto il mondo, incluso l’uomo, il cui manifestarsi continuamente ondeggia tra due movimenti opposti ma coesistenti nell’azione comune in ogni realtà dell’universo. Il canone Yijing (Classico dei Mutamenti) sottolinea che soltanto mediante l’unione corrispondente tra forza femminile (Yin) e maschile (Yang) la vita viene trasmessa e armonizzata con l’ordine del mondo. Seguendo questo schema, i confuciani ammettono nel corpo umano due modi di vitalità, uno materiale, chiamato P’o, l’altro spirituale, chiamato Hun: durante la vita dell’uomo Hun occupa nel

5 Cf. Mencio, Libro VI, A, 10. 6 Ch’uan His Lu (Raccolta di Istruzione), vol. 7 Questo carattere della naturale inclinazione

A, 69. verso il Bene appare già nel pensiero di Chuang (Zheng Meng, Insegnamenti per principianti), cap. VII, in Chuang-ZiQuan-Shu (Raccolta delle Opere del Maestro Chuang), vol. II.

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corpo le funzioni dello spirito, invece P’o quelle materiali. Hun e P’o non esistono separatamente l’uno dall’altro, ma nella loro complementarità formano un unico corpo. Tuttavia l’attività corporale dell’uomo dipende dalla vitalità spirituale (Hun), non da quella materiale (P’o); per cui, quando Hun lascia il corpo, quella materiale non può muoversi più e il corpo fisico diventa rigido, fino a morire. Dopo la morte, anche se la carne si decompone e torna alla terra, lo spirito Hun (spirituale) e lo spirito P’o (materiale) continuano a vivere quali Shen (spirito superiore, soffio celeste), che sale al cielo in quanto corrisponde al Yang con carattere attivo, e Kuei (spirito inferiore), che scende alla terra essendo di carattere Yin, passivo. Kuei e Shen si ricompongono per tornare in questo mondo quando sentono l’invocazione degli spiriti al momento della celebrazione del culto degli antenati. Secondo Zhu Hsi, Shen e Kuei non sono altro che fenomeni naturali del Ch’i (energia vitale e cosmica) composto da Yin e Yang. È significativo che, secondo il canone Liji (Memorie sui Riti), la vita umana non viene determinata da due soli principi, ma dall’azione comune dei “Cinque Elementi” (acqua, fuoco, legno, metallo e terra), a cui corrispondono i cinque importanti organi del corpo che sono determinanti per il funzionamento armonioso dell’intera realtà psico-somatica. Secondo la medicina confuciana, il cibo è diviso secondo le categorie dello Yin e Yang: una malattia provocata dalla cattiva abitudine ad assumere solo cibo di carattere Yang deve essere curata con la sostituzione di cibo di carattere Yin. In quest’ottica, il principio della vita si basa sulla “Legge della natura”, secondo cui ai fenomeni naturali cosmici corrispondono varie dimensioni della vita umana. Non manca la dimensione morale e spirituale. Le Cinque attività del cosmo corrispondono nel corpo umano alle Cinque virtù che devono essere coltivate in modo tale da conformarsi al volere del Cielo, cioè nel mostrarsi, parlare, vedere, ascoltare, e pensare.

3. Il corpo proviene dai genitori: “pietà filale” (metafisica del corpo) Essendo l’uomo un’entità creata dall’unione di energia Yin (madre) e Yang (padre), la vita umana, in un certo senso, esiste grazie ai genitori. Il corpo è stato ereditato da loro, quindi non appartiene solo all’individuo, ma anche ai genitori e agli antenati. Deve essere trattato con la premura di conservarlo integralmente fino al momento

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della morte come se fosse sull’orlo di un profondo abisso, come se camminasse sul ghiaccio sottile, e senza danneggiare nemmeno un capello. Siccome i genitori hanno generato la sua vita, il figlio deve anzitutto nei loro confronti dimostrare un atteggiamento e una disposizione di cuore reverenti e amorosi. Questo dovere viene chiamato“pietà filiale” ed è considerato da parte del figlio come un dovere assoluto. La pietà filiale inizia nella pratica quotidiana in famiglia con l’obbedienza, prendendosi cura dei genitori soprattutto nella malattia e nella vecchiaia. A livello spirituale, bisogna onorare il nome dei genitori – almeno non disonorarlo – trasmettendo il loro sangue (vita) e la loro volontà mediante la procreazione e il culto degli antenati: la pietà filiale è una categoria della vita dei figli. Ciò si mostra chiaramente con il fatto che il corpo umano non è solo un essere materiale, ma abbraccia il principio del Cielo, per cui porta un valore supremo. Vivendo la pietà filiale, la sofferenza e la gioia dei genitori diventano miei, e viceversa; ciò significa che il mio corpo diventa uno con il corpo dei genitori. Questo esprime il vero amore nel senso della cum-passio. Non è da meravigliarsi, in questa linea, che la medicina orientale definisca un corpo paralizzato con il termine “privo-diamore” 8, una frustrazione del flusso d’energia vitale tra gli organi che impedisce di sentire il dolore proprio e altrui. La pietà filale non si limita solo a prendersi cura dei genitori in questa vita, ma include il culto degli antenati e la procreazione dei figli con cui si tramanda il proprio sangue, cioè il legame fra il passato e il futuro. Questi ultimi sono imprescindibili dalla visione della “vita eterna” confuciana. Sotto questa luce non stupisce che i confuciani permettano la donazione degli organi solo ai membri della propria famiglia a causa dello stretto legame consanguineo. Generalmente, la donazione degli organi non è molto praticata in ambito confuciano, perché a causa del dono degli organi non si può tornare in questo mondo quando nel culto degli antenati viene invocato un punto di contatto tra questo e il mondo dell’aldilà. Tale creden8 Cf. Erh-Ch’eng-Yi-Shu (Frammenti Letterari dei Due Ch’eng), vol. 2a: «Il medico descrive la paralisi delle braccia o delle gambe di un uomo come non’Ren (amore): questa è un’ottima descrizione (della malattia). L’uomo che rientra nell’amore (Ren) considera Cielo e terra come una cosa sola con se stesso. Per lui nulla esiste che non sia se stesso. Avendoli riconosciuti come se stesso, cosa non può fare per essi! Se non c’è una tale relazione con il sé, ne consegue che il Ch’i (Spirito vitale) non circola liberamente e le parti del corpo non sono in connessione le une con le altre».

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za è molto sentita in oriente, soprattutto in Cina, Corea e Giappone – i cosiddetti paesi della “catena della cultura confuciana” –, e anche tra le comunità di immigrati asiatici in tutto il mondo, specialmente quelle cinesi. Tuttavia la pietà filiale non rinchiude la metafisica del corpo nella famiglia, ma si allarga ai vicini e alla società; si dilata perfino all’intero universo: il Cielo diventa padre, la Terra madre, per cui uomini ed esseri viventi sono come fratelli e sorelle, e tutte le creature sono come compagni, in quanto plasmate dall’Unico Ch’i. L’uomo e ogni creatura fanno parte del Grande corpo, perciò Ch’ang-Tsai (1020-1070) propone di estendere la pietà filiale perfino ai genitori universali e di amare indistintamente qualsiasi creatura che s’incontra nella vita quotidiana 9.

4. Il corpo è luogo della realizzazione del Ren (amore) della Realtà ultima (Cielo) Il canone Zhongyong afferma: «Il Decreto del Cielo si chiama natura (umana), seguire la natura umana si chiama Via (Tao), praticare la Via nel cammino spirituale si chiama insegnamento (religione)» (cap. 1). Secondo questa visione, la vita umana (Sheng) è ugualmente composta dal “Decreto del Cielo” (Tian ming) (dato all’uomo dal Cielo) e dalla “natura umana” (data dall’uomo stesso che l’ha ricevuta). Il “Decreto del Cielo” si rivela sotto un carattere immanente (natura umana), espresso dall’amore (Ren). Questo amore immanente deve essere realizzato nella pratica, chiamata “Via” (Tao), alla quale l’uomo deve conformarsi per creare l’armonia cosmica. Ren (amore) è un concetto molto importante su cui si fonda tutta la dottrina confuciana. Il suo ideogramma rappresenta “due uomini” 10, a significare che due persone, quando s’incontrano, devono praticare amore e armonia, altrimenti l’uomo non può essere tale. Originalmente, secondo vari canoni, come Shujing (il Classico dei Documenti) e Shihjing (il Classico delle Poesie), Ren significava la bellezza del corpo; invece, secondo Guoyu (Discorso sullo Stato), indicava l’amore affettuoso tra genitori e figli, mostrato come una delle virtù 9 Cf. Ch’ang-Tsai, Zheng Meng. Xi Ming (Iscrizione occidentale), in Chuang-ZiQuan-Shu (Raccolta delle Opere del Maestro), vol. II. 10 L’ideogramma stesso rappresenta la parola Ren (amore) con due uomini: la pronuncia del vocabolo “amore” (Ren) è uguale a quella di “uomo” in genere (Ren), al punto che lo stesso Confucio usava indistintamente i concetti di uomo e amore.

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assieme alla “norma celeste” ossia “rito” (Li), “fedeltà”, “fiducia”, “lealtà”, ecc. Con Confucio Ren acquista il significato di compimento dell’amore e culmine della virtù suprema mediante la coltivazione della natura umana. Poiché il “Principio (Decreto) del Cielo” è inserito nell’individuo e assume forma per mezzo della creatività dello spirito vitale (Ch’i), la vita e la natura dell’uomo sono inseparabili dal Cielo. La vita, non solo dell’uomo ma di ogni creatura, è esteriorizzazione del cuore vitale e amore del Cielo. Mencio, filosofo e santo confuciano, sostiene che l’uomo, essendo immagine del Cielo, nella sua natura possiede le qualità divine, cioè compassione (amore), reverenza (rispetto), giustizia, sapienza, al modo in cui possiede due gambe e due braccia 11. Per esempio, quando una persona vede un fanciullo che sta per cadere in un pozzo e cerca di salvarlo, non tuttavia per ottenere una ricompensa da parte dei genitori oppure per altre forme di interesse soggettivo, ma spinto unicamente dal suo cuore puro e originario, mediante tale amore compassionevole il cuore del soccorritore e del fanciullo diventano uno. L’esistenza umana nello stato originario è impregnata di un amore compassionevole fondamentale, di un atteggiamento del cum-patire che caratterizza la sua vitalità. Questa convinzione era comune ai neo-confuciani. Ch’eng Yi (10331108) invece afferma l’amore (Ren) come fonte della vita. Quando una persona rientra nell’amore unitario, considera tutte le creature una cosa sola con se stessa. Sulla base di questa profonda verità l’uomo può fare tutto per gli altri. La stessa idea si trova anche in Ch’eng Hao (1032-1085), quando afferma che una condizione indispensabile per essere uomo saggio e ideale consiste nella consapevolezza dell’unità tra tutte le creature. Questa unità non è altro che amore, quindi va formata con sincerità e attenzione 12. Chu-Hsi paragona tale capacità di dare vita a tutti senza discriminazione all’energia mite e primaverile che vivifica ogni creatura. Un tale amore senza discriminazione, per Wang Shou-Ren (1472-1528), non si limita solo agli esseri umani, ma si allarga ai monti, agli uccelli e agli altri animali, alle erbe e agli alberi, agli spiriti e agli dèi 13. Tutte le forme di vita nel mondo sono preziose e non devono essere distrutte; anzi, tutto do-

11 Cf. Mencio, Libro VI, A, 6. 12 Cf. Erh-Ch’eng-Yi-Shu (Frammenti

Letterari dei Due Ch’eng), vol. 24; MingTao-Wen-Chi (Raccolta di scritti di Ch’eng Hao), vol. 3. 13 Cf. Ch’uan His Lu (Raccolta di Istruzione), vol. C, 336; 274.

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vrebbe essere amato. Tale fatto si evidenzia nell’intuizione “naturale” del cuore, come dimostrato dall’esperienza quotidiana. Quando assiste a certe tragedie e sofferenze altrui 14, oppure vede gli animali maltrattati e perfino le piante recise o morenti senza acqua, la persona umana non sopporta tale dolore ma, facendolo proprio, lo sente come parte del suo corpo stesso 15. Comportandosi secondo questo spirito universale, l’uomo diventa tutt’uno con il Cielo, la terra e le cose. Originato dall’unica sorgente di vita, il cuore dell’uomo diventa allo stesso tempo cuore di ogni creatura. In realtà, l’uomo è il cuore di tutte le creature 16. Le azioni del cuore compassionevole, mediante il corpo, sono identificate con il cuore del Cielo in quanto esprimono l’essenza della vita cosmica che crea e vivifica sempre tutte le cose del mondo. Ciò significa che nella natura innata dell’uomo esiste già la tendenza a salvare e vivificare gli altri 17 ad ogni costo, pur sacrificando se stesso; ma questa bontà, questo amore e principio di vita 18 sono realizzabili soltanto attraverso il corpo.

Via della purificazione e santificazione del corpo 1. Controllare le “sette passioni” e praticare la carità verso gli altri Il concetto del corpo in quanto unità tra la parte fisico-naturale e quella virtuosa, si trova in Mencio, secondo il quale ci sono due tipi di corpo umano 19: il “corpo piccolo”, considerato “corpo biologico”, e il “corpo grande”, “corpo morale e spirituale”. Colui che segue la dimensione biologica del corpo diventa un uomo volgare; invece l’uomo superiore (santo) segue le dimensioni elevate del corpo, cioè la parte virtuosa (corpo morale e spirituale), per diventare un uomo superiore. In modo più preciso Mencio indica quattro semi inerenti alla natura umana (sentimento di compassione, di vergogna, 14 La dottrina del cuore che non tollera la sofferenza altrui si trova già nella teoria della natura umana di Mencio: Cf. Mencio, Libro II, A, 6. 15 Cf. Wang-Wen-Cheng-Kung-Chuan-Shu (Opere Complete di Wang Shou-Ren), vol. 26. 16 Cf. ibid., vol. 6. 17 Questo cuore compassionevole e vivificante, in quanto realtà cosmica diventa Principio (Li), mentre nella natura umana diventa amore (Ren): Cf. Wang-Wen-ChengKung-Chuan-Shu (Opere Complete di Wang Shou-Ren), vol. 26. 18 Cf. ibid. 19 Cf. Mencio, Libro VI, A, 15.

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di modestia e di discernimento del corretto dal falso), i quali nel loro pieno sviluppo diventano le quattro “virtù costanti”, cioè amore, giustizia, norma celeste e sapienza (conoscenza). Se non vengono impedite da condizioni esterne, tali virtù crescono interiormente in modo del tutto naturale, come un albero cresce dal seme o un fiore dal germe. In questo processo Mencio dà rilievo al cuore, che, in quanto organo del pensiero, può sviluppare la propria natura celeste con l’aiuto di ciò che ha ricevuto dal Cielo. L’attenzione all’elevazione del “corpo grande” aiuta a controllare le parti fisiche e istintive del corpo; mentre il corpo fisico s’aggrappa ai fenomeni esteriori, per ottenere una soddisfazione diretta e immediata che fa inclinare alla malvagità. Per esempio, l’occhio e l’orecchio, non essendo organi fatti per pensare, si lasciano facilmente frastornare dalle cose esteriori. Tale idea si trova già in Confucio quando parla di Ren (amore), che non sarebbe altro che la forza per dominare il proprio temperamento, l’istinto e le brame. Ma quali sono l’istinto e il temperamento da controllare? Per il confucianesimo si tratta di sette qualità passionali, che l’uomo ha ricevuto dalla nascita insieme al suo corpo materiale, cioè gioia, ira, cordoglio, timore, amore, odio e concupiscenza 20. Essendo collegate al corpo, da esse dipende ogni malvagità e trasgressione della via giusta, che oscurano spesso la natura virtuosa e celeste. Tra queste passioni bisogna prestare maggior attenzione all’ira, perché in tale stato si perde la ragione e la sapienza, e facilmente l’uomo si tramuta in animale con la conseguenza di inevitabili danni. Confucio stesso aveva piena consapevolezza di tale pericolo: «Nell’ira d’un momento dimenticarsi della propria persona (mettendola al rischio di morte) ed in tal modo coinvolgere anche i genitori, non è illusione?» 21. Tuttavia il confucianesimo non richiede di sopprimere totalmente i sentimenti e le passioni vitali derivanti dal corpo, ma solo di controllarli in giusta misura, poiché fanno parte della naturalità dell’uomo. Ciò vuol dire che Mencio non rigetta la “natura naturale”, anche se quest’ultima da parte dell’uomo saggio non viene considerata come vera natura 22. Dall’altro versante, il filosofo voleva dare più ri20 Cf. Liji (Libro dei Riti), cap. 9. 21 Lunyu (Dialoghi), cap. 12, 21. 22 Cf. Mencio, Libro VII, B, 24: «Mencio

disse: – Che la bocca sia portata ai sapori, gli occhi ai colori, le orecchie ai suoni, il naso agli odori, le quattro membra agli agi e alle comodità, è natura. Ma poiché v’è il decreto del Cielo (per cui non sempre è lecito soddisfare i desideri dei sensi), il saggio non dice: è natura […]».

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lievo alla natura misteriosa dell’uomo che comprende le virtù come l’amore, la giustizia, la pietà filiale, la lealtà, la sincerità, l’instancabile godimento del bene. Non essendo soggette a mutamento né influenzate da sentimenti, e neppure provocate dall’ambiente esterno, esse vengono considerate come “dignità celeste” 23, che distingue l’uomo dall’animale e lo porta alla realizzazione perfetta nell’unione con la Realtà ultima (Cielo). Per ritornare al cuore del Cielo è necessario alimentare il cuore nella sua originaria bontà, eliminando la concupiscenza e avendo pochi desideri 24. Questo è considerato uno dei metodi di purificazione del corpo. La concupiscenza rovina l’uomo come i vermi causano la morte dell’albero. Quando l’uomo non controlla i desideri e la concupiscenza insaziabili, legati al corpo biologico, influenzerà in modo negativo i benefici degli altri e creerà confusione nella società. Dalla dicotomia, secondo cui i desideri dell’uomo sono infiniti, ma pochi sono gli oggetti che li soddisfano, segue inevitabilmente la lotta 25. Questa tesi viene sviluppata soprattutto da Hsun-Tzu, secondo il quale, contrariamente a Mencio, la natura umana non è naturalmente buona, ma malvagia. L’uomo è nato col desiderio innato del profitto e del piacere sessuale; tuttavia possiede allo stesso tempo l’intelligenza, grazie alla quale può diventare buono correggendo la sua natura cattiva 26. Secondo il confucianesimo, concupiscenza e desideri derivano dalla tentazione verso le cose esteriori, chiamata “cuore dell’uomo”; invece la bontà deriva dal cuore originario, chiamato “cuore del Tao (Cielo)”. Le due inclinazioni, sia positiva che negativa, risiedono per sempre nell’unico corpo umano. Dall’altra parte, la pratica dell’amore (Ren) e della compassione verso gli altri è un metodo eccellente per la purificazione del corpo umano verso la santificazione. A questo riguardo, Confucio afferma che la persona, quando trova la bontà negli altri, mette da parte se stessa e si conforma a loro, gioisce nel prendere dagli altri per fare il

23 Cf. Mencio, Libro VI, A, 16. 24 Cf. Mencio, Libro VII, B, 35:

«Mencio disse: – Per alimentare il cuore nella sua originaria bontà nulla meglio che avare pochi desideri. È raro che l’uomo di pochi desideri non lo mantenga vivo (il suo cuore originario), anche se talvolta accade. È raro che l’uomo di molti desideri lo mantenga vivo, anche se talvolta accade». 25 Cf. Hsun-Tzu, cap. 10. 26 Cf. ibid., cap. 23: «Ogni uomo della strada ha la capacità di conoscere amore, giustizia, obbedienza alla legge morale e bontà, come pure i mezzi per realizzare tale principi. Così è evidente che egli può diventare un Yao e un Shun».

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bene 27, entrando così in una relazione esistenziale. Non è tanto facile controllare la propria concupiscenza ed eliminare i desideri. Ci vuole un cammino spirituale di coltivazione di se stesso nella vita quotidiana per conformarsi al Cielo. Il contenuto di questa pratica concreta è Li, virtù del Cielo vissuta mediante le azioni del corpo.

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2. Santificazione del corpo attraverso la pratica del Li Il termine Li porta in sé varie nozioni, come quelle riferite al comportamento normativo e celeste, alla buona etichetta, alla legge naturale, al codice, al rito religioso, al cerimoniale, alla cultura e ai costumi. In quanto componente essenziale della natura umana, dove è inciso il “Decreto del Cielo”, Li ha la sua dimora originale nel cuore umano. Grazie a questa presenza l’uomo possiede la capacità di agire secondo la norma celeste: è capace di amare i propri genitori, è fedele ai propri superiori, rispetta gli anziani, sa obbedire al fratello maggiore e avere fiducia negli amici. Il “Sacro” confuciano si manifesta, in modo concreto, nello spazio e nel tempo attraverso la pratica del Li 28, il che viene considerato come la condizione necessaria per realizzare l’amore del Cielo nella società umana attraverso i rapporti interpersonali. In altre parole, bisogna comportarsi secondo la propria “Via” (Tao), conferita dal Cielo a ognuno, affinché possa regnare la pace in questo mondo 29. Ma il ricordarsi sempre delle proprie qualità celesti innate mentre si pratica la Via è talvolta molto difficile per l’uomo ordinario. Per tale ragione Confucio insisteva: «Al di fuori del Li non guardare, ascoltare, parlare, non muoverti» 30. Guardare, ascoltare, parlare e agire sono comunque funzioni essenziali del corpo e, praticando tali azioni, l’uomo difficilmente è in grado di sospendere pienamente i sensi, gli istinti e i desideri, se non riesce a controllarli alla luce della norma celeste (Li). In questa ottica l’importanza del Li consiste nel dominare i desideri e la con-

27 Cf. Mencio, Libro II, A, 6. 28 Cf. ZhuXi, Interpretazione della Raccolta del Lunyu, 54. 29 Cf. Yijing (Classico dei Mutamenti), Libro I, Sezione seconda (cap. 37): «Quan-

do il padre è davvero padre e il figlio è figlio, quando il fratello maggiore funge veramente da fratello maggiore e il minore da fratello minore, quando il marito è davvero marito e la moglie moglie, allora nella casa regna l’ordine. Se nella casata regna l’ordine, allora tutti i rapporti sociali dell’umanità rientrano nell’ordine […]». 30 Cf. Lunyu (Dialoghi), cap. 12, 1.

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cupiscenza del corpo (K’o-Chi) 31, che è amore. L’attenzione all’amore crea una vigilanza nei rapporti interpersonali e permette di lasciarsi sempre guidare dalla condotta normativa e razionale (Li). Seguendo Li con perseveranza, l’uomo può recuperare il vero aspetto della sua esistenza, cioè l’amore (Ren) 32, qualità umana e celeste. Ren deve essere praticato con la fermezza della volontà e col cuore. Prima di tutto bisogna controllare il proprio temperamento e la brama; in seguito risplenderà lo stato originario dell’uomo, paragonabile allo scorrere dell’acqua nel canale liberato dopo la pulizia 33. Il dominio degli istinti del corpo non può essere acquisito per mezzo di uno studio metafisico e astratto, ma deve partire dalle cose piccole e concrete, cioè dalla vita quotidiana. La pratica di Ren inizia dall’educazione in famiglia, a partire dalla tenera età, attraverso l’apprendimento dello spirito di rispetto 34 e di reverenza verso gli altri e verso se stesso. In questo caso, praticare Li, con umiltà e modestia 35, significa agire con benevola intenzione mostrando disponibilità agli altri e controllando il proprio carattere che è legato alla materia e al corpo. È evidente che senza rispetto e reverenza non si può arrivare al Li 36. Prima di tutto è necessario un atteggiamento cortese, accompagnato dall’abbassamento del corpo assieme all’abitudine di mettersi in ultima fila, e dalla disponibilità a rendere saldi per primi gli altri, con tutto il cuore in spirito di massima reverenza. In altre parole, vivere secondo Li vuol dire umiltà, rispetto e atten-

31 Per approfondire questo tema si veda R.T. Ames, The Meaning of Body in Classical Chinese Philosophy, in Self as Body in Asian Theory and Practice, T.P. Kaulis & W. Dissanayake, State University of New York 1993. 32 Cf. Lunyu (Dialoghi), cap. 12, 1: «Dominare se stessi e ripristinare i riti (Li) è carità [...]»; Mencio, Libro VII, A, 4: «Mencio dice: – Tutte le cose sono complete in noi. Esaminarsi e trovarsi veritieri (sul bene e sul male): non v’è gioia più grande. Agire sforzandosi d’essere benevoli: non si sarà mai così vicini alla ricerca della Carità (Ren)». 33 Cf. Zhu-Tse-Yu-Lei (Raccolta sistematica delle Massime del Maestro Zhu), vol. 41. 34 Cf. Liji (Memorie sui Riti), Libro I, cap. 1, 1: «Nel complesso sistema dei riti (Li) si dice: “Non si deve mancare di rispetto. Bisogna comportarsi in maniera solenne come se si stesse riflettendo. Nel parlare occorre usare parole ponderate. Solo così si riesce a dominare il popolo”». 35 Cf. ibid., Libro I, cap. 1, 8: «Rispettare i riti (Li) significa essere modesti e rispettare gli altri. Anche un venditore ambulante ha delle qualità e deve essere rispettato, per non parlare degli uomini ricchi e nobili. Chi sa rispettare i riti, pur essendo ricco e nobile, non cade nell’arroganza né nella lussuria. Chi sa rispettare i riti, sebbene povero e umile, non ha nulla da temere». 36 Secondo Ch’ang Tsai reverenza è veicolo del Li, senza il quale non si può arrivare al Li: Cf. Zheng Meng (Insegnamento per Principianti), in Ch’ang-Tsai-Quan-Shu (Raccolta delle Opere del Maestro Ch’ang), cit.

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zione del cuore verso gli altri, come se si dovesse offrire il grande sacrificio al Cielo, oppure si dovesse ricevere in casa un ospite importante 37. In questa prospettiva la purificazione e coltivazione di sé (nella terminologia confuciana si usa generalmente la parola “studiare”) prendono inizio dalla coltivazione (studio) del corpo con attenzione e attitudine nobile, prima ancora di iniziare la coltivazione (studio) del cuore. Tuttavia, le due forme di studio, del corpo e del cuore, interagiscono reciprocamente per realizzare il progetto dell’uomo e portarlo all’unione con la sua origine. Perciò non si può affermare che il valore del cuore è maggiore di quello del corpo. Vanno sempre insieme e l’uno è imprescindibile dall’altro. Il legame inseparabile tra corpo e cuore viene espresso nel Lunyu (Dialoghi), dove Confucio definisce uomo santo e saggio, a cui punta tutto il cammino morale e spirituale, colui che si è perfezionato con reverente attenzione al corpo, allo scopo di dare tranquillità e conforto al prossimo e a tutto il popolo 38. Servire per prima cosa gli altri non significa mortificare se stessi nel corpo e nell’anima, ma al contrario, per coltivare se stessi bisogna dare, prima di tutto, dignità e rispettare se stessi, in quanto, per Confucio, la grandezza umana è paragonabile a quella del Cielo e della Terra. Essendo capace di sviluppare sia la natura propria che quella degli altri, l’individuo può ingraziarsi le forze trasformatrici e sostenitrici del Cielo e della Terra, e formare un solo corpo con il cosmo 39. Volendo vivere da solo, richiudendosi in se stesso, l’uomo degrada la sua grandezza. Siccome l’essere umano in ambito confuciano è l’alfa e l’omega, viene sottolineata soprattutto la virtù. L’uomo deve diventare virtuoso a partire dalla venerazione ed esaltazione della virtù 40 nel seguire il Tao (Via) del Cielo: Ren (amore), Li (norma celeste), Yi (rettitudine), Shin (lealtà e fiducia) e Sh’eng (sincerità); di esse Ren (amore) è più importante. L’uomo, per realizzare Ren (amore) e Yi (giustizia), può offrire la propria vita corporale sia

37 Cf. Lunyu (Dialoghi), cap. 12, 2. 38 Cf. ibid., cap. 14, 45. 39 Per questo cammino di santificazione

l’uomo esercita il suo ruolo di collaboratore della Realtà ultima (Cielo): Cf. Zhongyong (Giusto Mezzo), cap. 22. 40 Nel Lunyu (Dialoghi) si trova l’esaltazione della virtù legata alla giustizia, alla fiducia e alla lealtà: «Tzu-chang chiese se potesse esaltare la virtù e distinguere le illusioni. Confucio rispose: – Considerare essenziali la lealtà e la sincerità, camminare verso la giustizia: questo è esaltare la virtù […]» (cap. 12, 10).

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in modo attivo che passivo 41. In circostanze particolari potrebbe risultare necessario il sacrificio di sé sia a livello fisico che spirituale. D’altro canto, l’uomo maturo e santo trascende la morte e la vita, poiché vita e morte appaiono come due fasi di un unico ciclo cosmico. Hsun-Tzu esorta ogni persona a servire ugualmente la morte come la vita, a morire come a vivere 42, perché la sapienza della vita è sapienza della morte. A ogni modo, se uno vive l’amore del Cielo con il suo corpo, può anche partecipare alla vita del Cielo nel suo cuore sereno e tranquillo. L’uomo caritatevole (uomo del Ren) ritrova la pace nello spirito e nel corpo: «L’uomo dell’amore (il caritatevole) è quieto e sereno, per cui vive a lungo, mentre il sapiente è attivo, per cui vive con gioia» (Lunyu [Dialoghi], cap. 15, 32).

41 42

Cf. ibid., cap. 19, 1. Cf. Hsun-Tzu, cap. 19, 2.

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Il corpo nel taoismo. tempio del mistero (Tao)

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Il corpo nel taoismo. Tempio del mistero (Tao)

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di

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Il corpo e lo spirito dell’uomo nell’antropologia taoista non sono considerati in una prospettiva dualista. In effetti, i taoisti prendono in considerazione un’unica materia-energia, Ch’i (soffio, Spirito vitale e creativo). Esso si manifesta in varie sembianze passando da uno stato invisibile e informe a quello visibile attraverso l’acquisizione di una forma. Nel taoismo è molto sentita la struttura del microcosmo come immagine e riflesso del macrocosmo, per cui l’uomo è collocato sullo stesso piano della Realtà Ultima, chiamata Tao.

La definizione di vita: Virtù (Te) come qualità ottenuta dal Tao Sia Lao-Tzu, fondatore del taoismo filosofico, che Chuang-Tzu, il secondo padre della filosofia taoista, sono considerati uomini santi grazie alla loro spiritualità mistica. Per ambedue la vita umana e quella di altri esseri derivano dal Tao. “Tao” indica Realtà ultima, Verità assoluta, l’Uno supremo, Principio assoluto a cui “non si può dare nome”, che “non può essere udito”, “non può essere visto” e “non può essere espresso”. Infatti l’essenza del Tao è indeterminabile, immutabile 1 nella sua perenne tranquillità e irraggiungibile, essendo un abisso vuoto immenso; è infinito 2 e semplice, non avendo alcuna intenzione artificiale. Tale realtà è fondamentalmente un Non-Essere, senza nome e senza forma, che trascende ogni concetto umano. Allo stesso tempo, il Tao è presente in tutte le creature, poiché quando lascia il suo stato immobile, cioè quando comincia a muoversi, nella sua spontaneità diventa l’Uno, interpretato come “Primogenito del Tao”, espressione del Non-Essere. Lo stesso Uno, l’essenza del Tao, esiste nelle 1 Cf. 2 Cf.

Tao-Te-Ching, cap. 37. Tao-Te-Ching, cap. 14.

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creature in modo visibile quale attività che congiunge tutti gli eventi in un reciproco rapporto dinamico e vitale. Questo Uno viene identificato con il Ch’i, Energia creativa cosmica, ossia lo spirito vitale del Tao. Per questa dimensione vitale-spirituale il Tao viene anche chiamato con il nome di “Madre”, matrice e origine di ogni movimento vitale e trasformatrice del cosmo. Il concetto di “Madre” è legato alla parola cinese Sheng (dare la vita), che si riferisce al rapporto tra uomo e donna in vista della generazione dei figli; perciò la cosmologia taoista preferisce le espressioni “generare” o “generazione” invece di “creare” o “creazione”. Sotto questa luce è evidente che il Tao viene considerato come l’essenza di tutto ciò che esiste; è “Generatore del Cielo e della Terra”, la radice e l’origine di tutte le cose del mondo 3, quindi il corpo di tutte le creature perché si trova in ognuna di esse 4. Quando il Tao entra nella natura (cioè nel corpo) degli esseri, viene chiamato Virtù (Te). Per questo motivo Te, in quanto comprensiva dell’intera essenza umana, non significa solo una qualità morale che riflette la disposizione dell’uomo a conformarsi al Tao, ma viene piuttosto intesa come forza vitale originaria (Ch’i originario) o potenza mistica. Tutti gli esseri dispongono di questa potenza mistica della Realtà ultima, incluso l’uomo. La sua manifestazione è reale e fluida; da essa dipende la molteplicità e diversità di tutto ciò che esiste nel mondo. L’uomo ha ricevuto la vita da parte del Tao come un dono gratuito, insieme agli altri esseri viventi. La stessa parola Virtù (Te), corrispondente al Ch’i nel corpo umano, significa in senso letterale “ottenere da”, “prendere da”, ossia “elevare”, “innalzare”, “ringraziare”. Così il concetto di corpo nel taoismo possiede un legame stretto con quello di “Energia vitale e cosmica del Tao”, cioè il Ch’i Unico originario. Per conservare quest’ultimo il taoismo filosofico suggerisce di coltivare la Virtù (Te), accentuando di più il suo livello spirituale; mentre il taoismo religioso presta invece attenzione alle tecniche per far circolare il Ch’i in modo efficace nel corpo fisico. Tuttavia nel pensiero taoista, sia nella cosmologia che nella visione antropologica, materia e spirito, corpo e cuore (anima) non sono separati l’uno dall’altro.

3 Cf. 4 Cf.

Tao-Te-Ching, cap. 7; cap. 25. Tao-Te-Ching, cap. 42.

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La concezione del corpo nella filosofia taoista: Lao-Tzu e Chuang-Tzu Il concetto di Ch’i, comune a tutta la filosofia orientale, viene sviluppato in modo più sistematico e profondo nel pensiero taoista. Secondo Lao-Tzu e Chuang-Tzu Ch’i è il corpo invisibile del Tao che pervade tutto il cosmo, riempie con pienezza il Cielo e la Terra, e diventa vitalità del sangue nel corpo umano. Quando l’uomo si unisce in modo efficace a tale vitalità innata, può recuperare la vitalità originaria del Tao (Ch’i). Ciò vuol dire che può realizzare la Virtù del Tao, che è verità, semplicità e morbidezza, potendo conseguire la morbidezza del corpo di un lattante che nessuno può danneggiare, neanche un insetto. Così arriverà allo stato d’armonia perfetta con la natura e il cosmo 5. Per conservare il Ch’i è necessario mantenere la morbidezza 6. In effetti per Lao-Tzu il custodire la “morbidezza del vivere”, sia nel corpo che nello spirito, è molto importante per gestire la propria vita e unirsi con la Realtà ultima (Tao). Nella misura in cui la persona possiede la morbidezza, trova maggiore vitalità poiché la morbidezza appartiene alla vita, mentre la durezza appartiene alla morte: «Alla nascita l’uomo è molle e debole, alla morte è duro e forte. Tutte le creature, le erbe e le piante quando vivono sono molli e tenere, quando muoiono sono aride e secche. Durezza e forza sono compagne della morte, mollezza e debolezza sono compagne della vita» 7. Tale modo di vivere viene paragonato al carattere dell’acqua che riesce a traforare anche la roccia più dura; nulla è più malleabile e debole dell’acqua, ma nell’avventarsi contro ciò che è duro e forte, nulla può superarla. La morbidezza vince la durezza, reca giovamento agli esseri, senza lottare, senza sforzo, pur restando nel posto più basso; insegna quindi a vivere con umiltà, una delle qualità del Tao. Per lasciare liberamente scorrere l’Energia vitale (Ch’i), l’uomo deve modellarsi sull’agire del Tao, sia nello spirito che nel corpo. Mediante le pratiche dello svuotarsi, del vivere secondo il principio della “non-azione” (Wu-Wei), del non agire in modo artificiale ma spontaneo e abbracciando una semplicità ori5 Cf. Tao-Te-Ching, cap. 6 Cf. Tao-Te-Ching, cap. 7 Tao-Te-Ching, cap. 76.

55. 10.

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ginaria, l’uomo può conformarsi allo stato del Tao, unendosi con esso 8 non solo dopo la morte, ma già in questa vita. D’altra parte, Lao-Tzu sottolinea la pericolosità del corpo umano per il motivo che esso è unito alla brama, all’egoismo: «[…] la ragione per cui ho gran preoccupazione (sventura) è che tengo al mio corpo» 9. Soprattutto la brama è considerata il più grande peccato del mondo, nonché l’ostacolo principale alla piena realizzazione della vitalità dello Spirito del Tao e della vera natura umana (Virtù) 10. In questa prospettiva, per realizzare la vera Vita è necessario che la persona trascenda la vita corporale 11. Secondo Chuang-Tzu è importante conservare il Ch’i puro, poiché l’esistenza dell’uomo è fondamentalmente più spirituale (mentale) che fisica, avendo ricevuto la vita dal Tao grazie all’azione dell’Unico Ch’i. Possedendo questa esistenza soprannaturale, l’uomo ha valore in sé 12, indipendentemente da qualsiasi merito personale. Tutte le cose provengono dall’Unica Sorgente e, di conseguenza, si devono considerare tutte le creature come una cosa sola (un solo corpo). Sulla base di questa profonda verità unitaria l’uomo può vivere con le altre creature in armonia, nel pieno rispetto della vita di ciascun essere 13. Dall’altro versante, il dono dell’esistenza soprannaturale, ricevuto dalla Realtà ultima (Tao), apre l’orizzonte dell’uomo all’infinito e alle altre creature. Bisogna seguire la propria qualità innata con spontaneità e naturalezza. Così l’uomo riesce a comprendere ogni circostanza, apprezza le differenze personali ed è disponibile verso tutti. Per far rifulgere questi immensi valori corporali e spirituali Chuang-Tzu consiglia una vita armoniosa con tutto l’universo 14 in modo da custodire la morbidezza. L’Energia pura e originaria del Tao, chiamata l’Unico Ch’i, ossia “Unico Spirito” (Yuan-Ch’i), compenetra tutto e può essere trasmessa e afferrata, anche se non può essere percepita o vista come una qualsiasi cosa materiale. Nel cosmo esiste solo l’Unico Ch’i. Esso, assumendo i due principi dello Yin e dello Yang nel processo 8 Cf. Tao-Te-Ching, cap. 16; cap. 23. 9 Tao-Te-Ching, cap. 13. 10 Cf. Tao-Te-Ching, cap. 3; cap. 46. 11 Cf. Tao-Te-Ching, cap. 75. 12 Cf. Chuang-Tzu, cap. 22, 3; cap. 7, 13 Cf. Chuang-Tzu, cap. 28, 1. 14 Cf. ibid.

10.

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della creazione, diventa Ch’i in diecimila modi, determinando le qualità particolari dei singoli esseri: nel mondo della natura diventa vento, clima; nel corpo diventa vitalità del sangue, forza spirituale, vitalità del cuore e volontà, ecc. Nonostante le sue molteplici forme, rimane l’Unica Sorgente, l’Unico Spirito vitale originario (Yuan-Ch’i), e viceversa, i fenomeni del mondo partecipano della stessa Essenza del Tao, costituendo l’unità nella molteplicità. Quando il Ch’i si restringe, c’è la vita: quando l’uomo si unisce a questo Soffio, vive; quando si allontana, muore. In questa prospettiva, l’uomo non deve sentire gioia o orgoglio per il suo aspetto umano, perché quest’ultimo non è che una delle migliaia di metamorfosi del Ch’i. Chuang-Tzu ribadisce 15 che la vita di un uomo o del corpo umano non è altro che Ch’i (Vitalità primordiale) condensato. Al contrario, nel disperdersi il Ch’i porta con sé la morte 16, e la malattia va interpretata come disordine od ostruzione dello scorrere del Ch’i originario 17. Per unirsi alla vitalità del Tao, Chuang-Tzu suggerisce, come Lao-Tzu, di vivere secondo il Wu-Wei, cioè l’“agire in modo naturale e spontaneo”, il lasciarsi andare fiduciosamente in conformità alla volontà del Tao. Questo vivere in modo autentico, secondo il principio del Tao, oltre che nell’intuizione, può essere sperimentato nella meditazione contemplativa a cui Chuang-Tzu si riferisce varie volte quando parla di “ritornare all’Uno”, “ritornare al villaggio naturale” o “ritornare al punto d’Origine”. Bisogna quindi intraprendere il cammino spirituale mediante la meditazione contemplativa. Per abbandonarsi alla contemplazione l’uomo ha bisogno di certe condizioni connesse sempre al corpo: la chiusura al mondo esteriore, il raccoglimento nell’interiorità, il controllo del respiro, il digiuno del cuore da sentimenti ed emozioni. Questi esercizi contemplativi mirano non solo a eliminare le esperienze sensuali e istintive che determinano l’attaccamento agli oggetti, ma soprattutto costituiscono un esercizio dei sensi e dei sentimenti tale da rendere l’uomo libero da tutto ciò che lo potrebbe condizionare dall’esterno e dall’interno. In tale condizione l’uomo dimentica non solo il proprio corpo ma anche lo spirito; il corpo diventa come legno secco e il suo spi15 Cf. 16 Cf. 17 Cf.

Chuang-Tzu, cap. 22. Chuang-Tzu, cap. 22, 1. Chuang-Tzu, cap. 19, 1.

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rito come cenere spenta. Dimenticando totalmente corpo e spirito, l’uomo ripristina la Virtù innata e può arricchirsi con il Ch’i cosmico. Per arrivare a questo bisogna prima di tutto “mantenere l’Uno” mediante la concentrazione 18, “sedersi e dimenticare tutto” 19 e conservare l’essenza vitale (Jing) dell’uomo mediante il “digiuno del cuore”. Mantenere l’Uno significa mantenere il Ch’i originario nel vuoto e, allo stesso tempo, tenere fermo il pensiero sull’Uno in quanto Ch’i puro attraverso la concentrazione sulla volontà del cuore 20, con lo scopo di raggiungere il vuoto estremo e conservare la tranquillità interiore. Lungo il cammino bisogna dimenticare tutto ciò che è di origine umana, come amore, giustizia, rito e musica – a cui i confuciani attribuiscono grande valore in vista dell’unione con il Cielo (Realtà ultima) –, nonché l’attenzione alle forme, ai sensi, all’azione dell’intelligenza umana, poiché tutti questi sono considerati da Chuang-Tzu elementi non naturali, cioè artificiali e convenzionali, creati dall’uomo, che non riflettono il vero carattere del Tao. Il digiuno del cuore 21 è accompagnato dal prendere distacco dalla conoscenza che l’uomo si è creato. Si cerca cioè di non pensare, di non attaccarsi a nulla 22, né alla vita, né alla morte 23, né ai legami sociali 24 e alla parola umana 25. Bisogna unicamente mantenere il cuore vuoto e tranquillo mediante l’ascolto del Ch’i che è vuoto. Grazie al proprio vuoto, il Ch’i può conformarsi agli oggetti esteriori e raccogliere il Tao 26. Solo mediante l’intuizione (ossia la conoscenza intuitiva) l’uomo può eliminare la distanza tra soggetto (io) e oggetto (tu) e far regnare e agire il Ch’i originario, raggiungendo l’estrema morbidezza sia dello spirito che del corpo. Tuttavia per Chuang-Tzu è più preziosa la virtù interiore per conservare l’armonia dell’Unico Ch’i, che il corpo umano, inteso come

18 Cf. Chuang-Tzu, cap. 11, 2; cap. 12, 2 e 11; cap. 15, 2 e 3; cap. 19, 2; cap. 22, 1; cap. 3, 2. 19 Cf. Chuang-Tzu, cap. 6, 7 e 9; cap. 2, 1; cap. 19, 10. 20 Cf. Chuang-Tzu, cap. 22, 9; cap. 19, 4. 21 Cf. Chuang-Tzu, cap. 4, 2. 22 Cf. Chuang-Tzu, cap. 22, 1: «Per conoscere il Tao, non si deve né pensare né riflettere; per restare nel Tao non si deve adottare nessuna posizione, né applicarsi a nulla; per possedere il Tao non si deve partire da nessuna parte, né seguire alcuna strada». 23 Cf. Chuang-Tzu, cap. 15, 1; cap. 5, 7; cap. 4, 4; cap. 18, 5 e 6. 24 Cf. Chuang-Tzu, cap. 7, 2; cap. 2, 20. 25 Cf. Chuang-Tzu, cap. 27, 2; cap. 13, 10; cap. 14, 5; cap. 26, 15. 26 Cf. Chuang-Tzu, cap. 4, 23.

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Il corpo nel taoismo. Tempio del mistero (Tao)

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forma fisica e attività dei cinque sensi. L’attaccamento alla realtà fisica provoca il male fisico e mentale causando pesantezza e tristezza nella vita. Siccome il corpo fisico è legato alle cose esteriori, rimane difficile seguire la sua spontaneità senza voler dominare la vita. Perciò Chuang-Tzu considera molte persone handicappate e fisicamente deformate 27 più nobili di quelle che hanno un corpo funzionante in modo normale 28. Sia Lao-Tzu che Chuang-Tzu, volendo dare maggior importanza alla vita eterna e all’immortalità spirituale, si mostrano contrari a ogni sforzo artificiale, alle tecniche della lunga vita e dell’immortalità provocate e sviluppate dal volere umano. Persino nel caso del Ch’i otturato (cioè della malattia) a causa di una vita non ordinata, non ci si deve attaccare alla propria salute ed esistenza, anche se bisogna ripristinare il Ch’i originario 29 con la sapienza, cioè con l’abbandonare l’ansietà e le preoccupazioni quotidiane causate dalla brama e dall’attaccamento alla volontà. Vita e morte sono come due facce della stessa moneta, e non esiste tra loro separazione nel Tao 30. Chuang-Tzu ha descritto l’“uomo immortale” come l’uomo ideale e divino grazie alla conservazione integrale del Ch’i originario e puro in armonia con il Tao. L’uomo immortale trascende le capacità degli uomini normali: può volare tra Cielo e Terra, vivere in eterno, la sua pelle è simile alla neve scintillante, è delicato come una vergine, non è toccato da caldo o freddo, dal tuono e dal vento forte, sale sulle nubi e cavalca draghi volanti per andare al di là dei quattro mari 31. La sua vitalità integrale del Tao (Ch’i) non si limita solo al potere mentale e spirituale, ma si estende anche alla potenza fisica. L’uomo si trasforma in luce divina e il suo corpo, grazie alla virtù (vitalità), irradia la purezza e la bellezza del Tao. In breve, il corpo umano non solo è l’abitazione della divinità o il luogo in cui si manifesta l’energia cosmica, ma è egli stesso divino, estendendosi dal livello fisico allo spirituale, e perfino al cosmico. Tale tendenza si ritrova nella persona di Lao-Tzu stesso. Dopo la sua morte, egli venne divinizzato dai taoisti con la sua introduzione in una Triade divina quale corpo del Tao, ossia Tao incarnato.

27 Cf. 28 Cf. 29 Cf. 30 Cf. 31 Cf.

Chuang-Tzu, cap. 9, 10. Chuang-Tzu, cap. 5, 5. Chuang-Tzu, cap. 6, 5. Chuang-Tzu, cap. 18, 3. Chuang-Tzu, cap. 1.

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Il concetto del corpo nel taoismo religioso: nel corpo si realizza il Mistero (Tao) Nel taoismo religioso l’inseparabilità tra anima (spirito) e corpo è sentita piuttosto nella percezione del corpo. Secondo il taoismo filosofico, il Tao in quanto Mistero non può essere controllato dall’uomo, perché supera infinitamente la realtà umana e le sue capacità. Anche se l’uomo può percepirlo grazie alla sua energia vitale (Ch’i), ossia la Virtù (Te), mediante la coltivazione della conoscenza intuitiva e la potenzialità divina situata nella più segreta profondità del cuore, esso rimane sempre il Mistero al di là della portata dell’uomo. Diversamente, il taoismo religioso e la “scuola dell’immortalità” (Huang-Lao: abbreviazione di Huang-Ti e Lao-Tzu) considerano il Tao, in quanto esprime la Vita stessa, non molto lontano dalla portata dell’uomo, ritenendo che l’essere umano partecipi a Esso grazie alla sua natura di microcosmo; tuttavia non si nega l’esigenza dell’uomo di stabilire una relazione e di armonizzarsi all’ordine supremo. In questa scuola Lao-Tzu è considerato “Corpo del Tao” incarnato. La creatività del Tao, lo sviluppo e la conservazione di tutte le cose sono la norma a cui gli uomini devono conformare la propria vita. Secondo il Huainanzi 32, compilato durante la dinastia Han (206 a.C. - 220 d.C.), l’uomo viene considerato come l’unione delle essenze dello Yin e dello Yang, avendo preso il suo spirito dal Cielo e le sue ossa dalla Terra. L’essere umano è un microcosmo che comprende in sé il macrocosmo. Le singole parti del corpo vengono paragonate ai vari fenomeni del cosmo: la testa (rotonda) al Cielo, i piedi (quadrati) alla Terra, le cinque viscere alle cinque stelle, i quattro arti alle quattro stagioni, le 360 ossa ai 360 giorni dell’anno e i sentimenti umani ai cambiamenti del tempo 33. Il corpo (Xing) è uno dei tre elementi 34 che compongono la vita umana assieme al Ch’i (Soffio) e allo Spirito (Shen). Il corpo (Xing) è l’involucro della vita, legato agli organi dei sensi; il Ch’i è ciò che colma la vita, è legato al cuore e quindi alla facoltà intellettiva 35; lo spirito (Shen) è ciò che determina

32 Il

libro fu scritto dal maestro di Huainan, il cui vero nome era Liu an (179-122 a.C.), zio dell’imperatore Han Wudi e re (principe) di Huainan, uomo colto e appassionato di filosofia taoista. 33 Cf. Huainanzi, cap. 7. 34 Cf. Huainanzi, cap. 1. 35 Cf. Huainanzi, cap. 7; cap. 14.

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la vita, quindi deve dominare il corpo 36. Secondo il Huainanzi i bisogni fisiologici, nonché i sentimenti emotivi che derivano dal corpo, devono essere controllati in modo giusto per evitare ogni eccesso che possa bloccare il recupero del vero aspetto del Tao, cioè della Virtù 37. Lo stato originario dell’uomo è la tranquillità 38, la purezza e la limpidezza alle quali puntano il cammino spirituale e l’educazione da parte dei saggi taoisti 39. Una vita normale, serena e tranquilla è fattore di accumulazione della Virtù, potenza misteriosa spirituale (Ch’i) dell’uomo. Per recuperare la Virtù innata, l’uomo deve seguire il ritmo del Tao abbracciando uno stile di vita semplice e naturale, concentrandosi su ciò che è essenziale, senza ambizione per il superfluo, senza preoccupazione causata dall’energia volitiva (Ch’i) 40. Nel Tai-Ping-Ching (Il canone della Grande Pace e Eguaglianza), il primo canone del taoismo religioso che risale in parte al I-II secolo, appare la stessa idea secondo cui la vita umana è formata dal Ch’i (Soffio, ossia Energia cosmica) e dallo Shin (Spirito). Grazie all’unione di questi due elementi l’uomo può continuare a vivere; senza uno dei due, l’uomo cessa a vivere 41. Ge Hong (284-364), alchimista e medico, esplora nel suo BaoPu-Zu (Il maestro che abbraccia la semplicità) 42 del 317, un’enciclopedia dell’immortalità e della longevità, il mistero del corpo umano che si basa sull’essenza cosmica Ch’i. Tutte le cose del mondo tra Cielo e Terra esistono grazie al Ch’i; anche la vita umana è una di queste immense correnti del Ch’i cosmico: il corpo umano non è altro che la condensazione del Ch’i 43. Se l’uomo acquisisce e pratica le 36 Cf. 37 Cf. 38 Cf.

Huainanzi, cap. 1; cap. 14. Huainanzi, cap. 11; cap. 20; cap. 1. Huainanzi, cap. 1: «l’uomo ama la quiete fin dalla nascita. Questa è la natura del Cielo». 39 Cf. Huainanzi, cap. 20. 40 Cf. Huainanzi, cap. 1; cap. 2. 41 Cf. Tai-Ping-Ching Hejiao (ed. critica e unitaria di Tai-Ping-Ching), Wang ming (ed.), Zhonghua Shuju, Pechino 1960, cap. 42; cap. 62, cap. 154; cap. 170. 42 Bao significa “abbracciare”, Pu significa “ingenuo” o “semplicità”; invece Zu significa “maestro” o “filosofo”. Da cui la parola Bao-Pu-Zu, «Il maestro che abbraccia l’ingenuità (la semplicità)». In questa opera vi sono rappresentate varie indicazioni in modo concreto dei metodi salutari e delle tecniche esteriori e interiori: tecniche di assunzione di alcuni cibi ed erbe, di respirazione e inspirazione del Ch’i puro, e di alcuni pratiche sessuali per far circolare il Ch’i, oltre ad alcune tecniche per produrre l’elisir di lunga vita mediante l’operazione alchemica volta a conseguire l’immortalità. 43 Un’idea simile si trova nel Chuang-Tzu, cap. 22: «l’uomo nasce da una condensazione del Ch’i. È questo Ch’i che nel condensarsi produce la vita mentre nel disperdersi provoca la morte».

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tecniche di cura e nutrizione, il proprio corpo può diventare il Cinabro d’Oro; persino possono essere superati i limiti fisici come l’invecchiamento, la malattia e la morte 44. È importante avere la consapevolezza di conservare il Ch’i e lasciarlo circolare in modo perfetto con azioni coscienti e pertinenti, poiché «Ch’i e il corpo umano si abbracciano a vicenda». La malattia, in questo caso, è considerata come un’invasione del Ch’i negativo e impuro; perciò si richiede il controllo del Ch’i per cambiare il carattere del corpo in modo da riportare la salute e vivere a lungo. L’immoralità sarebbe impensabile senza il corpo. Il Tao non viene inteso da Ge Hong solo come Essere supremo, Principio assoluto in un senso astratto, ma piuttosto in stretto legame con il corpo umano, luogo dell’illuminazione, che diventa un recipiente in cui si sperimenta il Mistero. L’Energia vitale e cosmica (Ch’i) è punto di partenza e punto di arrivo per fare l’esperienza del Mistero mediante il corpo 45. Se l’uomo è capace di elevare la sua vitalità interiore, di sublimare la sua energia vitale in energia spirituale o diventare uno col Tao, allora egli stesso diventa divinità (Shen). Per questo motivo la personificazione del principio dell’Energia cosmica è considerata divinità, come pure, allo stesso tempo, la vitalità interiore dell’uomo (Shen). Da queste considerazioni deriva il concetto della divinità che abita nel corpo umano quale luogo da cui emana la potenza cosmica e universale. Per il taoismo religioso la vita umana deriva dall’“Uno delicato” che, a sua volta, deriva dal Nulla Assoluto. Dall’Uno emergono i “Tre”, lo Yin e Yang e l’energia cosmica (Ch’i), dai quali, a sua volta, derivano i Cinque elementi e tutte le creature del mondo. Questi “Tre” costituiscono la Triade divina, i Signori celesti dei “Tre Puri Reami”. La stessa Energia cosmica vitale si manifesta invece nel corpo umano sotto forma delle “Tre Energie cosmiche originarie”: Energia spirituale (Shen), respiro (Energia vitale: Ch’i), Energia generativa (Jing). Quest’ultima è la base della vita: quando scorre bene Jing, scorre bene, senza ostruzione, anche il Ch’i; se al contrario Jing e Ch’i sono bloccati, si creano malattia e paralisi. Tale mistero viene

44 Cf. Guijia Wen (Scritto circa la divinazione sui gusci di tartaruga), cit. in Ge Hong, Bao-pu-zu, Neipian (Il Maestro che abbraccia la semplicità naturale. Capitoli interni), cap. 16: «la mia vita dipende da me e non dal Cielo; ritornando al Cinabro e diventando l’Oro vivrò centinaia di migliaia di anni». 45 La preziosità della vita (corpo) dell’uomo: cf. Fang Xuanling (578-648), Jinshu (Storiografia della dinastia Jin), cap. 72 (Biografia di Ge Hong).

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paragonato metaforicamente a una porta di legno che è consumata dai vermi quando non viene mai mossa, o all’acqua che, se ristagna, emana un fetore forte. Quando i tre Ch’i sono fusi nella parte più importante del corpo umano, detta la “Corte Gialla” (Huang Ting), costituiscono il fondamento dell’immortalità, accessibile soltanto quando il cuore è perfettamente svuotato mediante la meditazione, le tecniche e i riti di purificazione. Ciò significa che preservare l’immortalità del corpo non è altro che preservare l’immortalità del cuore. L’immortalità non solo riguarda la relazione verso l’alto, il Principio assoluto (Tao) e cosmico, ma anche verso l’interiorità profonda dove risiede tale Principio. Questo ha generato all’interno del taoismo una corrente alla ricerca dell’immortalità. Il corpo umano è abitato dal Tao identificato con la sua energia originaria (Ch’i). I tre Ch’i abitano nel corpo umano in tre luoghi diversi (i cosiddetti “tre campi di cinabro”), e ogni parte è inabitata da tre divinità che formano la “Triade suprema”, ossia i “Tre Puri” nella ritualità taoista. Il primo campo, chiamato niwan, è localizzato nel cervello, il luogo inabitato dalla divinità Primo Celeste Venerabile (Yuan-Shi-Tian-Zun), che è il Respiro primordiale; il secondo luogo, chiamato qiang gong, è localizzato nel cuore, dimora della divinità Prezioso Venerabile (Ling-Bao-Tian-Zun), che è lo Spirito vitale; il terzo campo, chiamato dantian, è localizzato sotto l’ombelico quale luogo della divinità Venerabile della Via e della Virtù (Tao-Te-TianZun), l’Essenza vitale. Essendo questi campi inabitati dagli spiriti o divinità (shen), devono essere sempre purificati dal Ch’i puro e fresco. Altrimenti possono sopraggiungere creature malefiche, chiamate “tre vermi” o “tre cadaveri”, che spingono l’individuo ospitante alla morte, perché solo in quel momento potranno essere liberati. Per questo motivo bisogna praticare la contemplazione intuitiva, ossia la concentrazione del Ch’i. Concentrato sulla circolazione del Ch’i, l’uomo mantiene gli occhi fissi alla luce pura e contempla gli spiriti cattivi che vivono nel corpo, specialmente in quella zona che è fonte di energia. Se essi saranno espulsi dall’Energia vitale e pura, l’uomo vivrà in eterno. Tutte queste tecniche sono state sviluppate dai taoisti per unirsi all’Origine. Sotto questa prospettiva la salute non solo indica l’assenza di malattia, ma ancor più presume uno stato sano in cui le divinità, che risiedono nel corpo umano, lo conformano alle divinità cosmiche. Secondo la visione antropologica taoista l’esistenza umana è limitata vivendo in un corpo materiale, ma allo stesso tempo è dotata della capacità immensa di poter superare tale limite se la

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persona coltiva l’essenza vitale (Jing) e l’Energia originaria e cosmica (Ch’i). Entrambe compongono la vita, sollevandola al livello del Tao. La spiritualità passa quindi attraverso il corpo fisico, perché è il corpo che si spiritualizza attraverso gli esercizi fisici. L’unione con la Realtà ultima, come già notato, accade necessariamente nel corpo, in cui nasce l’esperienza religiosa 46. Per conservare il Ch’i originario del Tao, la tradizione suggerisce due metodi: uno è la pratica religiosa a livello comunitario mediante i riti; l’altro si svolge a livello individuale mediante la coltivazione del proprio corpo. Per motivi evidenti di spazio tratteremo solo il livello individuale.

Metodo di immortalità e di lunga vita Il valore del corpo nel taoismo si evince dalla figura dell’uomo immortale, modello per tutti gli uomini che desiderano portarsi a uno stato di unità semplice, simile a quello del Tao stesso. Dato che l’uomo, come tutti gli esseri nel mondo, deriva la sua natura dal Tao eterno, può vivere a lungo in unione con Esso. Per conseguire tale obiettivo è necessario che egli abbia coscienza della sua dimensione reale di unione col macrocosmo, e nello stesso tempo possa consapevolmente formare un microcosmo, valorizzando corpo e spirito propri quale parte del Vuoto, la vera essenza del Tao. Per stare nel vuoto è necessario, prima di tutto, abbracciare la semplicità naturale della vita e inserirsi nel funzionamento armonioso dell’universo. Qui si vede chiaramente come tutte le tecniche e pratiche dell’immoralità, mediante le quali l’uomo acquisisce una mente (cuore) mite, serena e silenziosa, siano basate sui caratteri del Tao stesso: Uno, Vuoto, Morbidezza, Semplicità, Umiltà, Vitalità, Mitezza, Tranquillità. Secondo il punto di vista dell’esercizio dell’Energia vitale cosmica (Ch’i), il corpo umano è composto da tre energie – energia spirituale, vitale e generativa –, per cui il corpo umano è capace di caricarsi di energia e di trasmutarsi per diventare immortale e vivere a lungo 46 Oltre a tutto ciò, il corpo umano viene paragonato alla montagna e all’immagine di un paese; tale tendenza è già presente nel capitoli più antichi del Chuang-Tzu, del IV secolo a.C., ma bisogna attendere i primi secoli d.C. per trovare le sue descrizioni complete. Per approfondire il tema del corpo umano paragonato all’immagine di un paese, cf. K. Schipper, Il Corpo Taoista - Corpo fisico - Corpo sociale, Ubaldini Editore, Roma 1983, pp. 128-139.

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e sano. L’arte di nutrire il principio vitale consiste nel seguire un metodo di vita regolato dai principi di igiene fisico-mentale. Come regola bisogna, prima di tutto, mantenere il cuore (mente) puro e il corpo morbido e leggero. Ciò vuol dire entrare in comunione con lo Spirito vitale (Ch’i) del Tao, lasciando che il Ch’i primordiale scorra liberamente. Nel compimento del processo volto a raggiungere la longevità e l’immortalità si delineano due Vie e cinque metodi: la via del “Cinabro (ossia alchimia) esteriore (Waidan)”, composta da due metodi, e quella del “Cinabro interiore (Neidan)”, composta da tre metodi. Il primo metodo consiste nella ricerca di regole alimentari, comprendenti tra l’altro l’obbligo di rinunciare ai cereali, ritenuti di natura terreste e pesanti, e di evitare il cibo cotto. Per diventare immortale bisogna soprattutto mantenere il corpo leggero e lo spirito purificato. È necessario quindi mangiare poco e preferire cibo naturale e crudo, come per esempio le foglie dei pini, le castagne, i datteri, il ginseng, il bambù – cibi cioè che mantengono il Ch’i fresco e consentono di nutrirsi del Ch’i primordiale. Alcune pillole o un elisir dell’immortalità composto da particolari erbe impediscono di provare fame e sete. Il secondo metodo consiste nell’ingoiare le pillole di un elisir di lunga vita. Si cerca un metodo capace di trasformare il corpo in una forma eterna come l’oro, l’argento, la giada, la mica. Mangiando tali minerali si pensa che il corpo umano dovrebbe gradualmente trasformarsi, acquistando le loro virtù. Per esempio, anche quando brucia sul fuoco o sta nascosto sotto terra, la sostanza dell’oro non muta, è sempre forte e dura. Dello stesso carattere è anche Kindan 47, una miscela misteriosa di sostanze minerali (zolfo naturale e mercurio). Tali tecniche vengono descritte dettagliatamente nel Bao-Pu-zu da Ge Hong. Riscaldati in un crogiolo costituito da una pentola d’argilla, secondo una proporzionata miscela fatta di una dose di mercurio e due di zolfo puro, tali elementi diventato sempre più puri, senza tuttavia 47 La parola Kindan è composta da Kin e Dan. Kin equivale all’oro liquido, invece Dan (il mercurio) è un tipo di medicinale di cinabro. Col tempo il significato di questa parola Kindan è cambiato nel senso dello scopo esterno degli esercizi di alchimia interiore. Mentre Kin simbolizza la caratteristica dell’assenza di ogni trasformazione, poiché non perisce mai né si rovina, Dan rappresenta la caratteristica del cambiamento. Di conseguenza, si può dire che Kindan è il termine che include tutte e due le caratteristiche dell’esterno, conservazione e mutamento. Questo ci porta all’immagine di Xianren che può vivere in eterno senza trasformarsi o invecchiare, e che ha la capacità di mantenersi in vita, senza rimanere ferito anche se viene posto sul fuoco o nell’acqua. In altre parole, si intrecciano due significati presenti in entrambe le parole, Kindan e Xianren (uomo immortale).

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scomparire. Se ingerisce Kindan l’uomo potrebbe venire trasformato e diventare puro e immortale come il cinabro e l’oro puro – in realtà si tratta di un veleno pericoloso, a causa del quale numerosi imperatori cinesi, come Tang Taizong (626-649), Tang Gaozong (650-684) e Tang Wuzong (841-846) sono deceduti –. Comunque, grazie a tutto ciò, l’uomo può acquistare la capacità di diventare invisibile, puro spirito, una delle caratteristiche dell’uomo immortale. Il terzo metodo è la tecnica respiratoria. Per vivere sano, bisogna lasciar circolare il Ch’i dappertutto. Alcuni punti del corpo sono maggiormente importanti: i tre campi di cinabro, le tre sorgenti dell’energia situate nella testa, nel cuore e sotto l’ombelico; essi collegano tra loro la colonna vertebrale e i cinque organi interiori, e vengono risvegliati attraverso l’inspirazione dell’aria fredda e pura (Yin), accompagnata dall’espirazione dell’aria calda e impura (Yang): così il corpo diviene leggero e può ottenere l’equilibrio delle forze interiori e la pace del cuore. Tra questi metodi respiratori il più importante è la respirazione embrionale. Si tratta di una respirazione a circuito chiuso, che viene esercitata con la parte dell’addome che è sotto l’ombelico, dove risiede lo Spirito vitale del Tao (Ch’i primordiale). È simile al respiro dell’embrione nel grembo materno, e il procedimento è eguale alla respirazione con le narici, solo che non si opera con esse ma con l’addome. Le fasi però sono le stesse: inspirazione, trattenimento del respiro, espirazione. Il massimo sarebbe ripetere l’esercizio per 120 volte (numero simbolico). Il tempo adatto per esercitare questa respirazione è tra le 11 di notte e l’1 del mattino, nonché dalle 11 del mattino fino all’1 del pomeriggio, poiché in quelle ore si produce meglio il Ch’i cosmico. Il quarto metodo è il Tao-in (“guidare e dirigere”) che consiste nell’agopuntura, nel massaggio e nell’esercizio fisico, che servono a coltivare e custodire il Ch’i interiore nella circolazione del sangue e dell’Energia vitale. L’esercizio fisico aiuta la circolazione dell’Energia e potenzia la vita umana, ed è modellato sui movimenti di cinque animali: la tigre, il cervo, l’orso, la scimmia e l’uccello. L’uomo deve muoversi sempre per non bloccare la corrente del Ch’i, come la porta che deve essere usata altrimenti ammuffisce e viene invasa dai vermi, o come l’acqua che deve scorrere per non ristagnare. Anche per conservare l’Energia vitale l’uomo si deve limitare a non parlare troppo, e dormire bene senza russare è un metodo di lunga vita. Si diffonde inoltre la pratica della ginnastica dolce e armoniosa, mediante la quale l’Energia cosmica si trasferisce nel corpo e nello

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spirito umano. Le più note sono il Tai-Ch’i-Ch’un (esercizi ispirati alla Realtà ultima dell’universo), che imita la reciproca trasformazione dei principi Yin e Yang all’interno della Realtà ultima dell’universo, e il Ch’i-Kong (esercizi del Ch’i), pratiche di meditazione corporea da realizzarsi all’aperto, con gesti legati ai cinque sensi (corrispondenti ai Cinque Elementi) per lasciar scorrere e circolare il flusso del Ch’i primordiale. Tra queste tecniche possono annoverarsi anche vari tipi di massaggio, nonché la terapia dell’agopuntura e del moxa. Per esempio, tra le diverse forme di massaggio, il “massaggio del viso” viene eseguito con le mani riscaldate mediante battimano. Si accarezza il viso, poi la fronte, quindi la parte dietro la testa per tre volte. Durante l’esecuzione si richiede di trattenere il respiro; se tuttavia non si riesce, si respira forte e si deve ricominciare l’operazione. Questo esercizio continuato fa migliorare la vista poiché, accarezzando le varie parti del viso, l’Energia vitale (Ch’i), che andrebbe perduta con il respiro, invece si unisce in forma di liquido (Jing: essenza vitale), facilitando così la circolazione del Ch’i all’interno del corpo e accelerando l’effetto della purificazione. Il quinto metodo consiste nella vitalità (nuova entità) che scaturisce dall’unione tra il lato maschile (Yang) e quello femminile (Yin) all’interno del corpo mediante il rapporto sessuale: questo viene considerato uno dei più importanti metodi per raccogliere l’energia generativa e trasformarla in vitale. Si tratta di una delle pratiche più significative in funzione della longevità. Occorre precisare che lo scopo ultimo non è la ricerca del piacere sessuale né la procreazione, ma la coltivazione della salute e della longevità; si tratta quindi di non disperdere l’energia, e ciò mediante il “non eiaculare”, nel far circolare dunque l’essenza (sperma) all’interno del corpo umano e nel farla risalire fino al cervello. Per realizzare il mistero del corpo non basta soltanto coltivare la salute fisica, bisogna sviluppare anche la salute della mente (cuorespirito) mediante la contemplazione intuitiva, con metodi riconducibili all’esperienza mistica quali, tra l’altro, “la seduta per dimenticare tutto” e “il digiuno del cuore” 48 spiegati nel Chuang-Tzu, oppure, secondo il Tao-Te-Ching, “l’abbracciare Uno (Baoyi)” 49. Ge Hong dice nel Bao-Pu-Zu:

48 Cf. 49 Cf.

Chuang-Tzu, cap. 6; cap. 12. Tao-Te-Ching, cap. 10; cap. 22.

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«Se vuoi ottenere la lunga vita, devi capire il metodo di custodire l’Uno! Pensa all’Uno, e se arriva la fame l’Uno ti darà del cibo; pensa all’Uno, e se arriva la sete l’Uno ti darà del nettare. L’Uno ha un nome, un cognome, e degli abiti di colori (che lo distinguono). Negli uomini ha una statura di nove decimi di pollice, nelle donne di sei decimi di pollice. Risiede nel Campo Cinabro Inferiore, a due pollici e quattro decimi sotto l’ombelico» 50.

Con la sua tendenza sincretistica il taoismo religioso ha assorbito molti elementi e pratiche religiose dall’antico sciamanismo cinese, dal buddhismo e dal confucianesimo, nonché dalla dimensione mistica e soprannaturale del taoismo filosofico con la sua ricerca dell’immortalità. Non manca l’aspetto etico-morale, cioè la pratica delle buone opere, strettamente legata al concetto del corpo e della longevità fisica. Fin dall’inizio i fondatori del taoismo religioso hanno cercato di prestare particolarmente attenzione al risanamento del corpo dalla malattia, considerata come peccato e castigo derivante dalla divinità (personificazione del Tao Assoluto). L’uomo viene visto sempre in rapporto al mondo cosmico e divino, rappresentato dal Cielo, dalla Terra e dall’Acqua, e ha il compito di ricostruire l’armonia tra essi. Per tale motivo, i taoisti religiosi primitivi per ristabilire il rapporto armonioso non utilizzavano medicine naturali fatte di erbe, ma piuttosto elementi cosmici come l’acqua, l’aria o la terra. In modo particolare, si utilizzava l’acqua d’incantesimo per i riti della purificazione, la confessione dei peccati e le preghiere fatte dai malati. Praticare le buone opere, come elemento essenziale per ottenere la guarigione e la lunga vita, appare già nel canone Tai-Ping-Ching. I testi esortano a impegnarsi nel fare il bene agli altri e ad aiutare i poveri con mezzi materiali; la buona azione assicura perdono 51, l’assoluzione dei peccati da parte della divinità 52, benedizioni divine e prosperità. Generalmente questa regola vale anche per l’aiuto mentale-spirituale e si esprime con la disponibilità del cuore verso i più deboli, i poveri e gli anziani. In caso contrario, se si approfitta delle loro condizioni sfavorevoli, l’uomo sarà odiato dal Cielo e dalla Terra, dagli altri uomini e dagli dèi. Di conseguenza, secondo il peccato commesso, come castigo verrà ridotta la lunghezza della vita. An50 Bao-Pu-Zu, Neipian (capitoli interiori), cit., cap. 18. 51 Cf. ibid., cap. 120; cap. 136. 52 Cf. Wang Ming (ed.), Taiping Ching Hejiao (ed. critica

e unitaria del Taiping

Ching), cap. 67; cap. 114.

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Il corpo nel taoismo. Tempio del mistero (Tao)

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che la malattia fisica viene interpretata come una punizione. Per l’espiazione bisogna impegnarsi nelle buone opere volte al bene comune, come costruire strade 53 e provvedere alle necessità dei viaggiatori 54. Secondo l’alchimista Ge Hong, tra queste buone opere vanno elencate le azioni virtuose buddhiste e confuciane, come la compassione, la pietà filiale, l’amore, la sincerità, la concordia, la fedeltà, la non violenza e il non compatimento di se stesso. La disposizione ad augurare il bene agli altri senza invidia e calunnia porta alla longevità e all’immortalità, come anche al successo nella propria vita. Al contrario, con le azioni cattive, oltre a provocare la vendetta degli altri, si danneggia persino la propria famiglia accorciando la lunghezza sia della loro che della propria vita 55. Senza la coltivazione delle virtù morali, pur praticando l’alchimia non si potrà mai ottenere la longevità 56. L’assidua pratica della carità e delle buone opere è indispensabile per raggiungere l’ideale ultimo dell’uomo, l’immortalità sia terreste che celeste: per arrivare a quella terreste bisogna accumulare trecento azioni buone, per diventare immortale in cielo, invece, bisogna accumulare milleduecento azioni buone 57.

53 Cf. Chen Shou, San Guo Zhi (Storia dei Tre Regni), cap. VIII: Zhang Lu Zhuan (Biografia di Zhang Lu [179-216]). 54 Cf. Fan Ye, Houhanshu (Storiografia della dinastia Han Orientale),cap. 71. 55 Cf. Ge Hong, Baopuzi, Neipian (capitoli interni), cit., cap. VI (Le Intenzioni profonde): «Chi desidera conseguire la longevità deve accumulare con le buone azioni, deve avere compassione verso le cose e verso gli uomini, deve amare perfino gli insetti e i vermi, deve gioire della buona sorte degli altri e addolorarsi per le loro sofferenze, e deve soccorrere i bisognosi e aiutare i poveri. Non deve fare del male con le mani a nessun essere vivente, né incitare con la lingua gli altri all’azione malvagia. Deve considerare il successo e il fallimento altrui come proprio, non deve lamentarsi di se stesso, né invidiare o calunniare gli altri, né cospirare contro nessuno. Facendo così sarà considerato virtuoso. Otterrà la benedizione dal Cielo, avrà il successo in tutto ciò che fa e il suo desiderio di immoralità si esaudirà». 56 Cf. Ge Hong, Baopuzi, Neipian (capitoli interni), cit., cap. III (Corrispondere ai Costumi). 57 Cf. La voce Baopuzi, Waipian (capitoli esterni) in Zhongguo Daojiao Dacidian (Grande Dizionario della Religione taoista cinese), p. 697: «Chi vuole conseguire l’immortalità, deve prendere le virtù della fedeltà, della pietà filale, della concordia, dell’amore e della sincerità a fondamento della propria vita. Se non coltiva le virtù morali, ma pratica soltanto l’alchimia, non potrà ottenere la longevità. […] Se un uomo vuole diventare immortale sulla terra, deve accumulare trecento azioni buone; se vuole diventare immortale in cielo, deve accumulare milleduecento azioni buone. […] Non accumulando un numero sufficiente di azioni buone, anche se ingerisce le medicine d’immortalità, non conseguirà l’immortalità. In caso contrario, uno che non ingerisce le medicine d’immortalità, ma si dedica alle opere buone, anche se non conseguirà l’immortalità, non gli capiterà il disastro di una morte improvvisa».

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La concezione del corpo nelle religioni universali: il bahaismo

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‘Abdu’l-Bahá spiega che «nel microcosmo […] sono deposte tre realtà […] una realtà esteriore o fisica […] una seconda realtà, superiore, che è la realtà intellettuale […] una terza realtà […] che è la realtà spirituale» 1. Questo significa che nell’uomo esiste una triplice realtà: una, espressione del mondo della creazione, collegata ai sensi, comune agli animali, soggetta alla natura; un’altra, espressione dei mondi divini, consapevole e spirituale; e infine una realtà intermedia, tipicamente umana, a metà fra le due. Questa triplice realtà o natura dell’uomo può essere letta come una triplice potenzialità (animale, umana e divina) presente nell’uomo. La natura animale dell’uomo – «infima natura concupiscibile» (Spigolature, 156) scrive Bahá’u’lláh, «stadio fisico o animale dell’uomo» (Saggezza, 116) afferma ‘Abdu’l-Bahá – da un lato è il corpo e dall’altro è la realtà astratta del cosiddetto «io natale» (Promulgation, 310) 2 con le sue «emozioni naturali» (Promulgation, 244). È quella che Bahá’u’lláh chiama anche «vita della carne […] comune agli uomini e animali» (Kitáb-i-Íqán, 92), e ‘Abdu’l-Bahá identifica con «i cattivi impulsi del cuore umano» (Antologia, 242). Che il corpo dell’uomo sia analogo a quello degli animali è cosa chiara e risaputa. Fra gli animali, le scimmie antropomorfe sono somigliantissime all’uomo, al punto che molti oggi sono convinti che l’uo1 ‘Abdu’l-Bahá, in The Three Realities, Address by Abdul-Baha at The White Lodge, Friday Evening, January 3, Wimbledon, England 1913, in Star of the West, VII, pp. 117118. Bahá’u’lláh (1817-1892) è il fondatore della Fede bahá’í (bahaismo è una voce dotta coniata dal mondo accademico, ma i baha’í chiamano la loro religione Fede bahá’í) e ‘Abdu’l-Bahá (1844-1921), suo figlio, è il successore alla guida della comunità bahá’í e l’interprete dei suoi Scritti. I loro scritti formano il nucleo delle Scritture bahá’í, ossia i testi rivelati ai quali i bahá’í fanno riferimento. 2 Nelle Scritture bahá’í la parola “io” ha due significati: «il primo è l’“io” con cui si identifica il singolo creato da Dio […]. Il secondo è l’“ego”, eredità oscura e animalesca che tutti possiedono, la bassa natura che può risolversi in un mostro di egoismo, brutalità, lussuria eccetera» (a nome di Shoghi Effendi, Guida, 97). Shoghi Effendi (1897-1957), pronipote di Bahá’u’lláh, fu il Custode della Fede bahá’í dal 1921 fino alla sua morte.

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mo sia loro strettissimo parente. ‘Abdu’l-Bahá spiega: l’uomo «non può vivere senza sonno, esigenza naturale; deve assumere cibi e bevande, che la natura esige e richiede» (Promulgation, 81). In un altro contesto osserva poi che «alcuni animali, per quanto riguarda certi sensi, superano l’uomo» (Lezioni, 272), quasi a sottolineare il fatto che la grandezza dell’uomo non dipende da una sua supremazia fisica. ‘Abdu’l-Bahá infatti chiarisce: «L’uomo, il vero uomo, è anima, non corpo; benché l’uomo fisicamente appartenga al regno animale, pure l’anima sua lo innalza al di sopra del resto della creazione. Guardate come la luce del sole illumina il mondo della materia; allo stesso modo la luce divina diffonde i suoi raggi nel regno dell’anima» (Saggezza, 101).

Il rapporto fra l’anima e il corpo L’anima nasce – come individualità – nel momento della fecondazione. In quell’istante lo zigote – che potenzialmente contiene in sé l’uomo che ne verrà – diventa come uno «specchio» (‘Abdu’l-Bahá, Lezioni, 255) capace di rispecchiare nel mondo della creazione «i fulgori» di quello «spirito» che «è emanato dalla realtà della Divinità» (Promulgation, 59), cioè l’anima. Altrove è detto che il corpo è come «una calamita per lo spirito» che vi si manifesta «con tutte le sue perfezioni» (Lezioni, 255). Che ciò avvenga fa parte del grande «piano creativo di Dio» (Promulgation, 293): la materia, nel suo evolvere e nelle sue continue trasformazioni, acquisisce differenti capacità di esprimere nel mondo della creazione le realtà spirituali dei mondi divini. Nello zigote umano acquisisce la capacità di esprimere lo spirito dell’uomo. Per spiegare il rapporto fra anima e corpo Bahá’u’lláh ricorre alla metafora del sole (l’anima) e della terra (il corpo). Egli scrive: «L’anima dell’uomo deve paragonarsi a questo sole e tutte le cose della terra devono essere considerate come il suo corpo […]. L’anima dell’uomo è il sole da cui il corpo è illuminato e trae la sua vitalità» (Spigolature, 150, 151). ‘Abdu’l-Bahá adduce numerosi altri esempi per spiegare il rapporto fra anima e corpo: a. «lo spirito umano non entra nel corpo fisico; vi è in qualche modo “collegato”. Questo “collegamento” è come quello fra lo specchio e il sole» (Studies, 37).

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b. «il corpo è una veste utilizzata dallo spirito» (Promulgation, 259). c. «Lo spirito o anima umana è il cavaliere e il corpo è solo il destriero» (Promulgation, 416).

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d. Il corpo umano è un tempio nel quale «il prezioso, inestimabile dono» assegnato da Dio all’uomo, la mente, può «sviluppare tutte le sue capacità» così che «l’uomo divenga il riflesso e l’immagine di Dio, come è stato rivelato nella Bibbia: “facciamo l’uomo a nostra immagine”» (Promulgation, 28). In altre parole, l’anima si rispecchia nel corpo, di cui si avvale come di una veste, o di uno strumento per esprimere le proprie qualità. ‘Abdu’l-Bahá dice: «L’anima agisce nel mondo fisico per mezzo del corpo» (Divine Philosophy, 123). Pertanto, spiega ‘Abdu’l-Bahá, l’anima è «l’intermediario fra il corpo e lo spirito» (Saggezza, 118), «un anello fra corpo e spirito. Riceve doni e virtù dello spirito e li dà al corpo, come i sensi esteriori portano ciò che ricevono dal mondo esterno ai sensi interiori, affinché (le impressioni) possano essere deposte nella memoria e l’uomo le possa utilizzare tramite le sue diverse facoltà» (Tablets, 611). Pur essendo così intimamente correlata al corpo, l’anima ne è indipendente. «Il fatto che una persona malata mostri segni di debolezza – scrive Bahá’u’lláh – è da ricercarsi negli ostacoli che si interpongono fra la sua anima e il suo corpo, poiché l’anima, di per se stessa, resta immune da qualsiasi infermità del corpo». D’altra parte il corpo dipende strettamente da essa. «Tutto le è così strettamente correlato – soggiunge – che se la sua relazione con il corpo fosse interrotta per meno di un batter d’occhio, ciascuno di questi sensi smetterebbe immediatamente di esercitare le proprie funzioni e sarebbe privato del potere di manifestare i segni della propria attività» (Spigolature, 160). Il corpo dunque non è altro che una macchina che funziona grazie ai doni che l’anima continuamente gli conferisce attingendoli dai mondi dello spirito. «È […] l’anima – afferma ‘Abdu’l-Bahá – che dirige le facoltà dell’uomo, che governa la vita umana» (Saggezza, 102). Contemporaneamente il corpo è uno strumento di cui l’anima si serve per esprimersi nel mondo.

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Il corpo e l’io natale Anche l’«io natale» con le sue «emozioni naturali» (‘Abdu’lBahá, Promulgation, 244) è un retaggio comune all’uomo e all’animale. Nell’uomo esistono comportamenti istintivi, come nell’animale, la cui origine si trova nel mondo della natura. Essi possono considerarsi veri e propri programmi di azione dettati dal materiale genetico, una precisa sequenza di istruzioni chimiche contenute nel genoma che – attraverso meccanismi biochimici e neuroormonali – danno origine ad attività fisiologiche e a comportamenti particolari utili per la realizzazione degli scopi del corpo: conservarsi, riprodursi e regolarsi. Tali sono le “emozioni naturali”. Bahá’u’lláh le chiama «affetti disordinati e vani» (Spigolature, 315). ‘Abdu’l-Bahá le chiama «imperfetti attributi dell’io natale» (Promulgation, 310), le paragona a una «ruggine che priva il cuore dei doni di Dio» o anche a «polvere […] sullo specchio» (Promulgation, 244), e così le elenca: «gelosia, cupidigia, lotta per l’esistenza, inganno, ipocrisia, tirannia, oppressione, dispute, contese, eccidi» (Antologia, 196), «attaccamento al mondo, avarizia, invidia, amore del lusso e degli agi, alterigia, desiderio egoistico», «antagonismo, odio […], vendetta, ferocia, astuzia […], bramosia, ingiustizia e tirannia» (Promulgation, 244, 465). Le emozioni naturali – se non sono opportunamente guidate – portano l’uomo a essere materialista, egoista, antagonista degli altri uomini, vile, tiranno, in altre parole prigioniero del mondo della natura e pertanto assai simile a un animale, offuscando – proprio come «una ruggine» o un velo di «polvere» – lo splendore della sua realtà spirituale; esse lo portano ad assecondare le esigenze e soddisfare i bisogni della sua natura animale, anche a discapito della sua natura superiore, umana e divina. ‘Abdu’l-Bahá fa altresì notare che negli Scritti sacri della tradizione «questa natura inferiore dell’uomo è simboleggiata come satana» e spiega che satana è solo «la naturale inclinazione della natura inferiore […], l’io malvagio dentro di noi, non una persona malvagia esteriore» (Promulgation, 287). In un altro passo afferma: «Satana o qualunque cosa sia vista come il male si riferisce alla natura inferiore dell’uomo. Questa natura inferiore è simboleggiata in vari modi» (Promulgation, 294-295). Dal punto di vista bahá’í dunque la natura animale dell’uomo è il corpo con l’io natale; essa si esprime negli istinti presenti in lui

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– come negli animali –, alfine di ottenere che egli possa soddisfare i bisogni del corpo e cioè conservarsi, riprodursi e regolarsi come individuo e come specie in un mondo dominato dalle leggi della natura. In sé la natura animale non è quindi nulla di malvagio; non lo è certamente nell’animale. Ma poiché nell’uomo esiste anche la capacità di esprimere una natura superiore, che essa invece tende a ignorare e a soffocare, questa natura animale può essere male, in senso relativo. Scopo della vita dell’uomo è pertanto che l’anima consegua la piena guida del corpo e dell’io natale, cosa che può ottenere imparando a eseguire la volontà di Dio che gli è resa nota dalle sacre Scritture.

La cura del corpo Quanto alla cura del corpo, i Testi bahá’í contengono alcune indicazioni fondamentali riguardanti l’igiene e la salute, meritevoli di studio e di sviluppo. Il concetto per cui il corpo – tempio dell’anima – debba essere tenuto lontano da tutto ciò che causi ripugnanza è alla base dell’igiene, alla quale Bahá’u’lláh attribuisce grande importanza. Nel Kitáb-iAqdas, il grande libro delle leggi bahá’í, e in altri Scritti vi sono alcune prescrizioni che riguardano specificamente l’igiene e la salute: Egli prescrive ai suoi seguaci di «essere essenza di pulizia fra gli uomini» (Kitáb-i-Aqdas, § 74) e per questo stabilisce leggi riguardanti l’igiene personale, l’igiene dell’ambiente e la cura di eventuali malattie. Al concetto della pulizia e della purezza ‘Abdu’l-Bahá dedicò un suo famoso scritto, noto fra i bahá’í come Tavola della Purezza, dove afferma: «Avanti ad ogni cosa, nel viver dell’uomo, viene la purezza, indi la freschezza, la pulizia e l’indipendenza dello spirito», e poi soggiunge: «[...] anche la pulizia del corpo, per quanto sia una cosa fisica, nondimeno esercita una grande influenza sullo spirito», e per spiegare il concetto paragona la pulizia del corpo a una musica che, semplice suono, pure è capace di suscitare sentimenti nel cuore (Antologia, 143). Il concetto della moderazione nella vita è un altro punto fondamentale per la preservazione della salute: «la temperanza e la moderazione di un modo naturale di vivere» sono ciò che permette all’uomo di mantenere quella «condizione di equilibrio» per cui «ogni cosa gradita fa bene alla salute» (‘Abdu’l-Bahá, Antologia, 148, 151).

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L’obbligo di astenersi da ogni sostanza che crei torpore e dia assuefazione (non solo le droghe ma anche l’alcool) è un altro elemento fondamentale nell’educazione materiale: «Badate di non usare alcuna sostanza che induca pigrizia e torpore nel tempio umano e arrechi nocumento al corpo» (Bahá’u’lláh, Kitab-i-Aqdas, § 155). Altrettanto dicasi della raccomandazione di evitare il fumo. L’esortazione a perseguire lo sviluppo spirituale è un ulteriore fattore che contribuisce alla salute fisica; e infatti lo sviluppo spirituale conferisce all’uomo la capacità di guidare le emozioni, invece di reprimerle o di lasciarsene dominare, e un conseguente sentimento di serenità e di gioia spirituale che è un importante fattore di salute fisica. ‘Abdu’l-Bahá afferma: «La gioia ci dà ali! Nelle ore di gioia le nostre forze sono più vive, il nostro intelletto è più acuto, la nostra comprensione più chiara. Sembriamo più a trattare col mondo e a trovare la nostra sfera di utilità. Ma quando la tristezza ci invade diventiamo deboli, le forze ci abbandonano, la comprensione è offuscata e l’intelligenza velata. Le cose della vita che si svolge intorno a noi sembra che ci sfuggano, gli occhi del nostro spirito non riescono a scoprire i misteri sacri, e diventiamo come esseri morti» (Saggezza, 132).

Il progresso spirituale – apportatore della vera gioia – in questo senso contribuisce alla salute del corpo. L’obbligo di esser produttivi nella vita, attraverso l’espletamento di un lavoro utile alla società, contribuisce a creare nell’uomo quel senso di realizzazione personale che è indispensabile a una vita sana. Bahá’u’lláh infatti osserva: «chi è occupato nel lavoro è molto meno incline a soffermarsi sulle amarezze della vita» (Tavole, 158). Quanto al lavoro, esso non è associato alla fatica e considerato una punizione per l’uomo. Bahá’u’lláh afferma: «Ci siamo degnati di innalzare il vostro impegno nel lavoro al rango dell’adorazione a Dio, l’Unico Vero […]. Quando l’uomo si dedica a un mestiere o a un commercio, al cospetto di Dio questa sua occupazione è in sé considerata un atto di preghiera; e ciò altro non è che un pegno del Suo onnicomprensivo, infinito favore» (Tavole, 24).

L’impegno collettivo di creare e mantenere nel mondo una civiltà sana ed equilibrata, «un sistema sociale ad un tempo progressivo e pacifico, dinamico e armonioso, un sistema che pur favorendo la creatività e lo spirito di iniziativa dell’individuo, si fondi sulla coope-

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razione e sulla reciprocità» 3, contribuisce a creare un ambiente sociale sempre più adatto a un sano sviluppo dell’uomo. D’altra parte, l’amore di Dio, con la conseguente visione del mondo come un giardino che l’uomo ha il compito di coltivare e abbellire, comporta uno sforzo di preservare e migliorare l’ambiente naturale con innegabile vantaggio per la salute fisica dell’umanità.

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La “sacralità del corpo”: uno dei diritti umani Se il corpo umano è un tempio nel quale «il prezioso, inestimabile dono» assegnato da Dio all’uomo, la sua mente, può «sviluppare tutte le sue capacità», così che «l’uomo divenga il riflesso e l’immagine di Dio, come è stato rivelato nella Bibbia: “facciamo l’uomo a nostra immagine”» (‘Abdu’l-Bahá, Promulgation, 28), il corpo umano è sacro. La vita fisica dell’uomo è dunque sacra, e questo comporta una serie di prescrizioni a sua protezione. Innanzi tutto è proibito uccidere. Bahá’u’lláh prescrive nel Kitáb-i-Aqdas: «nessun’anima ne uccida un’altra […]. Uccidereste colui che Dio ha vivificato, che ha dotato di spirito con un Suo soffio? Deplorevole sarebbe la vostra trasgressione davanti al Suo trono! Temete Dio e non alzate mani di ingiustizia e oppressione a distruggere ciò che Egli Stesso ha costruito» (§ 73).

‘Abdu’l-Bahá spiega: «L’uomo è il tempio di Dio. Non è un tempio umano. Se si distrugge una casa, il proprietario ne è addolorato e incollerito. Ma quando un uomo distrugge un edificio progettato e costruito da Dio il torto è ben maggiore. Indubbiamente merita la condanna e la collera di Dio» (Promulgation, 352). Quanto ai rappresentanti del governo, la condanna dell’abuso del potere, ossia della tirannia, contenuta in molti degli Scritti che Bahá’u’lláh inviò ai governanti del mondo, collettivamente o individualmente, soprattutto dopo il 1868, implica che anche loro sono tenuti a rispettare la vita umana. Bahá’u’lláh proibisce esplicitamente nel Kitáb-i-Aqdas tanto la tratta degli schiavi, quanto l’uso della schiavitù: 3 La Casa Universale di Giustizia, Promessa, 5. La Casa Universale di Giustizia è l’organo direttivo, formato da nove persone elette a suffragio universale, che guida l’intera comunità bahá’í dalla sua sede sul Monte Carmelo a Haifa.

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«Vi è stata proibita la tratta degli schiavi, uomini e donne. Non spetta a colui che è lui stesso un servitore comperare un altro servitore di Dio; e questo è stato proibito nella Sua Tavola Santa […]. Nessuno si ponga al di sopra di altri; tutti gli uomini non sono altro che schiavi davanti al Signore» (§ 72).

Donne e uomini sono liberi di disporre di se stessi nella scelta del coniuge, una libertà che molte culture del mondo ancora negano. La scelta del coniuge è però sempre condizionata dal consenso dei genitori di entrambi, in modo che essi possano «instaurare amore, unità e armonia» fra le famiglie (Kitáb-i-Aqdas, § 65) e manifestare gratitudine e rispetto verso i genitori, un concetto oggi ampiamente disatteso, e spesso osteggiato, dalla cultura occidentale in nome della libertà dell’individuo. Questa disposizione è uno degli esempi dell’equilibrio fra diritti e doveri sostenuto dagli insegnamenti bahá’í, in una visione che non privilegia né l’individuo né la comunità, ma tende a equilibrarne il peso per il conseguimento del fine supremo dell’unità. Shoghi Effendi spiega che il rapporto fra individuo e società come lo intende la Fede bahá’í «si basa essenzialmente sul principio della subordinazione della volontà dell’individuo a quella della società. Tale concetto non reprime l’individuo e non lo esalta al punto da farne una creatura antisociale, una minaccia per la società. Come sempre, segue la “regola aurea”» (Shoghi Effendi, in La Casa Universale di Giustizia, Libertà individuale, 26). Bahá’u’lláh abroga nel Kitáb-i-Aqdas ogni impurità rituale: «Dio ha, altresì, abolito, come dono dalla Sua presenza, il concetto di “impurità”, per cui diverse cose e persone erano considerate impure […]. Associatevi dunque con i seguaci di tutte le religioni […]» (§ 75).

Esistono numerosi esempi di impurità religiosa. Per esempio, in alcune precedenti dispensazioni religiose, le donne erano considerate ritualmente impure durante le ricorrenze mensili. In altre dispensazioni interi gruppi sociali o religiosi erano considerati impuri. L’abrogazione dell’impurità rituale comporta anche un’ulteriore affermazione della pari dignità fisica di tutti gli esseri umani in qualsiasi circostanza. La prescrizione di condurre una vita «assolutamente casta» prima del matrimonio e «assolutamente fedele a chi si è scelto come compagno» (a nome di Shoghi Effendi, in La Purezza, 25) dopo il matrimonio comporta un rispetto per la sacralità del corpo, che sem-

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bra sconosciuto nel mondo occidentale. Riconoscere il diritto alla castità, un concetto che non fa certo parte dell’attuale elenco dei diritti umani, significherebbe per esempio scoraggiare l’attuale tendenza a insegnare una smodata libertà sessuale e moderare alcuni fenomeni sociali che stanno oggi ampiamente e impunemente violando la libertà delle persone in questo senso, come per esempio gli onnipresenti messaggi erotici ed erotizzanti ai quali è materialmente impossibile sottrarsi data la loro indiscriminata diffusione. Infine, anche la proibizione, già menzionata, che «un uomo, dotato della ragione, consumi ciò che gliela carpisce» (Kitáb-i-Aqdas, § 119) e l’esortazione a «non usare alcuna sostanza che induca pigrizia e torpore nel tempio umano e arrechi nocumento al corpo» (Kitáb-iAqdas, § 155) rientra fra le prescrizioni intese a preservare l’integrità del corpo, in quanto strumento della mente dell’uomo, «il dono più grande che l’uomo ha ricevuto da Dio» (‘Abdu’l-Bahá, Saggezza, 45). Queste indicazioni sono completate da altre prescrizioni, sintetizzate nella già menzionata lettera di ‘Abdu’l-Bahá nota fra i bahá’í come Tavola della purezza, nella quale si raccomanda la pulizia, l’igiene, la moderazione, in breve, una vita sana. L’esame di queste prescrizioni e questi consigli indica chiaramente che il rispetto della sacralità del corpo può essere pienamente estrinsecato solo nel rispetto dell’intera gamma dei diritti previsti dalla Carta internazionale dei diritti, soprattutto quelli economici e sociali, nonché con un’estensione dei diritti anche al diritto allo sviluppo spirituale e quindi alla creazione di una società che questo diritto consenta di esercitare.

Il corpo dopo la morte fisica La sacralità del corpo permane anche dopo la morte e costituisce la base dei semplici riti funerari bahá’í. La Casa Universale di Giustizia spiega: «Siccome al momento della morte l’essenza reale ed eterna dell’uomo, la sua anima, abbandona la veste fisica per librarsi nei regni di Dio, possiamo paragonare il corpo a un veicolo usato per il viaggio nella vita terrena e non più necessario, una volta che la destinazione sia stata raggiunta» (in Lights of Guidance, 156-157).

Il prolungato legame della salma con un’anima su questa terra impone di trattarla col massimo rispetto. Dopo la morte, la salma vie-

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ne spogliata delle vesti che la ricoprivano, rispettosamente lavata e profumata, adornata con un anello sul quale sono incise le parole «Sono venuto da Dio e a Lui ritorno, distaccato da tutto tranne Lui, tenendomi stretto al Suo Nome, il Misericordioso, il Compassionevole» (Bahá’u’lláh, Kitáb-i-Aqdas, § 129), e infine deposta in una bara fatta di un materiale quanto più resistente possibile, per esempio un buon legno. La salma non deve essere cremata, ma sepolta in terra in un luogo che disti non più di un’ora dal luogo del trapasso. ‘Abdu’lBahá ha così spiegato le ragioni del divieto della cremazione: «Il corpo dell’uomo, che si è formato gradualmente, deve allo stesso modo decomporsi gradualmente. Ciò si accorda con l’ordine reale e naturale e con la legge divina […] l’ordine divino formulato dal decreto celestiale è che il corpo dopo la morte sia trasformato da uno stadio a un altro diverso dal precedente, così che a seconda delle relazioni esistenti nel mondo, gradualmente si combini e si mescoli con altri elementi, passando così attraverso vari stadi fino al regno vegetale, trasformandosi in piante e fiori, sviluppandosi in alberi del più alto paradiso, divenendo olezzante e smagliante di colori. La cremazione lo sopprime velocemente impedendogli queste varie trasformazioni, gli elementi si decompongono con tanta rapidità che la trasformazione in questi vari stadi viene impedita» (The body of man, 317).

I funerali devono essere semplici, e così le tombe. Nei funerali si raccomanda di evitare ogni eccesso di cordoglio. Bahá’u’lláh infatti scrive: «Ho fatto della morte un messaggero di gioia per te. Perché ti duoli? Creai la luce perché diffondesse su te il suo splendore. Perché te ne schermisci?» (Parole Celate, 18).

Pertanto, se è comprensibile che si soffra per la perdita di una persona cara, questo dolore è ampiamente compensato dalla consapevolezza che i defunti si avviano verso i gioiosi mondi dello spirito, avvolti nel misericordioso abbraccio di Dio. Questo spirito di abbandono alla volontà e all’amore di Dio che caratterizza i funerali bahá’í è perfettamente esemplificato nella preghiera, prescritta da Bahá’u’lláh per i riti funebri, che recita: «O mio Dio! Questo è il Tuo servo, figlio del Tuo servo, che ha creduto in Te e nei Tuoi segni, e ha volto il viso verso di Te, completamente separato da tutto fuorché da Te. In verità, fra coloro che mostrano misericordia, Tu sei il più misericordioso.

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O Tu Che perdoni i peccati degli uomini e nascondi le loro colpe, trattalo come s’addice al cielo della Tua munificenza e all’oceano della Tua grazia. Concedigli d’entrare nell’ambito della Tua misericordia trascendente che esistette prima della creazione della terra e del cielo. Non v’è altro Dio che Te, il Perdonatore, il Generosissimo». Si ripeta sei volte il saluto «Alláh-u-Abhá» 4 e poi diciannove volte ognuno dei seguenti versetti: In verità, noi tutti adoriamo Iddio. In verità, noi tutti c’inchiniamo innanzi a Dio. In verità, noi tutti siamo devoti a Dio. In verità, noi tutti innalziamo lode a Dio. In verità, noi tutti rendiamo grazie a Dio. In verità, noi tutti siamo pazienti in Dio. (Se la persona defunta è una donna, si dica: «Questa è la Tua ancella, figlia della Tua ancella, ecc.»).

Conclusione La visione del corpo negli Scritti bahá’í rispecchia dunque alcuni aspetti fondamentali di questa giovane religione: – La forte presenza del divino nella vita quotidiana. – La visione unitaria della realtà: la realtà fisica non si contrappone a quella spirituale ma ne è un’espressione di grado inferiore. – L’identificazione dell’individuo con la sua realtà spirituale, l’anima. – Il riconoscimento dello stretto rapporto fra l’ego e il corpo. – La visione unitaria della scienza e della religione, due sistemi di conoscenza che si compenetrano reciprocamente. – La prescrizione di usare la moderazione in ogni cosa.

Bibliografia ‘ABDU’L-BAHÁ, Abdul-Baha on Divine Philosophy, The Tudor Press, Boston 1918. ID., Antologia, Casa Editrice Bahá’í, Roma 1987.

4 Alla lettera, «Iddio è il Più Glorioso»: una formula usata dai bahá’í alla fine delle preghiere e come saluto.

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La concezione del corpo nelle religioni universali: il bahaismo

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ID., The body of man, which has been formed gradually, must similarly be decomposed gradually, in Star of the West XI, 317-318. ID., Le lezioni di San Giovanni d’Acri. Risposte a quesiti, raccolte e tradotte dal persiano da Laura Clifford Barney. Acri (‘Akká) 1904-1906, Comitato Bahá’í di Traduzione e Pubblicazione, Roma 1961. ID., The Promulgation of Universal Peace. Talks delivered by ‘Abdu’l-Bahá during His visit to the United States and Canada in 1912, compiled by Howard MacNutt, Bahá’í Publishing Trust, Wilmette, Illinois 19822. ID., La saggezza di ‘Abdu’l-Bahá. Raccolta dei discorsi tenuti da ‘Abdu’l-Bahá a Parigi nel 1911 e a Londra nel 1912-1913, Comitato Bahá’í di Traduzione e Pubblicazione, Roma 1969. ID., Tablets of ‘Abdu’l-Bahá Abbas, 3 voll., Bahá’í Publishing Society, New York 1909-1915. IL BÁB, Antologia, Casa Editrice Bahá’í, Roma 1984. BAHÁ’U’LLÁH, Il Kitáb-i-Íqán. Il libro della certezza, Casa Editrice Bahá’í, Roma 19942. ID., Il Kitáb-i-Aqdas. Il libro più santo, Casa Editrice Bahá’í, Roma 1995. ID., Le parole celate di Bahá’u’lláh, Casa Editrice Bahá’í, Roma 1999. ID., Spigolature dagli Scritti di Bahá’u’lláh, Casa Editrice Bahá’í, Roma 20033. ID., Tavole di Bahá’u’lláh rivelate dopo il Kitáb-i-Aqdas, Casa Editrice Bahá’í, Roma 1981. LA CASA UNIVERSALE DI GIUSTIZIA, La libertà individuale e ordine sociale, Casa Editrice Bahá’í, Roma 1990. ID., La promessa della pace mondiale, Casa Editrice Bahá’í, Roma 1985. Guida per un vita bahá’í. Compilazione, Casa Editrice Bahá’í, Roma 1976. Lights of Guidance, A Bahá’í reference file compiled by Helen Basset Hornby, ed. riv., Bahá’í Publishing Trust, New Delhi 1996. La purezza. Compilazione, Casa Editrice Bahá’í, Roma 1989. Star of the West, The first Bahá’í magazine in the Western world, published from 1910 to April 1924, reprint, George Ronald, Oxford 1978. Studies in Immortality, in Star of the West XIV, 8-12, 35-42. The Three Realities, Address by ‘Abdu’l-Bahá at The White Lodge, Friday Evening, January 3, Wimbledon, England 1913, in Star of the West, VII, 117-119, 124.

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Corpo e religione nel mondo antico e orientale

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La concezione del corpo nelle religioni del Tibet

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La concezione del corpo nelle religioni del Tibet

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di

Elena De Rossi Filibeck

Dalla vasta opera di Giuseppe Tucci (1894-1984) dedicata al Tibet 1 si apprende che la civiltà tibetana tradizionale era caratterizzata da un profondo sentimento religioso, forse ispirato anche dalla formidabile potenza della natura che, come è stato notato, genera sentimenti di meraviglia misti a timore 2, e che ha avuto un ruolo straordinario nelle credenze dei Tibetani, poiché essi vedevano negli elementi naturali il riflesso di molteplici divinità, spiriti buoni e cattivi. Nelle credenze religiose precedenti all’introduzione del buddhismo, avvenuta una prima volta nel VII secolo e una seconda nell’XI secolo della nostra era, troviamo tracce evidenti di animismo e sciamanesimo, le quali, accolte e rielaborate, hanno dato vita a una religione sincretica che si esprime negli enigmi sapienziali, nei culti sciamanici 3 come anche nelle raffinate elaborazioni filosofiche delle scuole buddhiste tibetane, volte alla ricerca dell’esperienza di un assoluto trascendente 4. 1 Cf. in particolare G. Tucci - W. Heissig, Les Religions du Tibet et de la Mongolie, Payot, Paris 1973. 2 Vedi la riflessione sulla influenza della natura nel sentimento religioso dei Tibetani, presente nella religione popolare che deve essere distinta dalla religione Bon, precedente al buddhismo, in P. Kvaerne, The Bon religion of Tibet: a historical enigma, in A. Madonna - E. Bianchi (edd.), Facets of Tibetan religious Tradition, Leo S. Olschki Editore, Firenze 2002, pp. 17-30: p. 20; e il concetto di Awe and wonder come radice della vita religiosa in R.R. Marett, Preanimistic religion, in «Folklore», XI (1900), pp. 161-182; cf. anche R. Girard, Origine della cultura e fine della storia. Dialoghi con Pierpaolo Antonello e Joao Cezar de Castro Rocha, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003, p. 59, dove si discute sul fatto che la religione non può essere generata solamente dal timore e dalla reverenza ispirati nell’uomo dagli eventi naturali. 3 Cf. Chogyal Namkhai Norbu, Drung, Deu e Bon. Le narrazioni, i linguaggi simbolici e il Bon nell’antico Tibet, A. Clemente (ed.), Shang shung Edizioni, Teramo 1996. 4 «[…] queste scuole del tardo buddhismo sottoponendo ad acuta analisi il nostro io scoprivano in esso l’immagine e il simbolo del microcosmo ed insegnavano ad enucleare da questa imperfetta natura che noi siamo un essere perfetto al di là di ogni contingenza e di ogni dolore». Così Giuseppe Tucci in Splendori di un mondo che scompare, in Le vie d’Italia e del mondo III-8-1935, pp. 911-938: p. 918.

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L’importanza dell’elemento religioso, che ha contribuito a formare una civiltà unica al mondo, è presente nei racconti mitologici tramandati dalla tradizione orale fino ai testi dei monaci buddhisti del periodo della seconda introduzione, persistendo ancora nella letteratura moderna di autori di etnia tibetana, che a partire dagli anni Ottanta hanno potuto pubblicare le loro opere nella Repubblica Popolare Cinese 5. Ed in questo senso la civiltà tibetana offre un esempio autentico di verifica circa l’affermazione di René Girard, secondo la quale «la religione è la madre di tutta la cultura» 6. L’invasione e l’occupazione cinese degli anni Cinquanta segnano il limite cronologico che indica il cambiamento di questa civiltà: è l’inizio del processo di dissoluzione dell’antica società tibetana che il mondo occidentale del ventesimo secolo aveva imparato a conoscere, in parte dai racconti di viaggio dei pochi che si erano fin lì avventurati, soprattutto missionari, e in parte dai rapporti dei militari inglesi che erano entrati nel paese nel momento in cui anche il Tibet era stato coinvolto nel “grande gioco” 7. L’immagine che l’Occidente aveva ricevuto era quella di un popolo di mistici, di santi e di maghi, votato all’ascetismo e alla magia, e questa immagine mitica aveva trovato la sua celebrazione nella leggenda di Shangri-La 8. L’approfondimento degli studi in campo tibetologico ci permette oggi di interrogarci sui realia culturali del Tibet prendendo come punto di partenza la visione che i Tibetani stessi hanno tramandato della loro civiltà nella loro letteratura. Prima di presentare alcuni esempi del concetto di corpo nel mito e nel rito, entrambi intesi come ambiti essenziali 9 per la comprensione dei fenomeni culturali e religiosi di una società, è illuminante notare la varietà semantica della parola “corpo” che esiste nella lingua tibetana. 5 Cf. ad esempio un’opera tradotta in italiano di Tashi Dawa, Lo splendore dei cavalli del vento, Tranchida, Milano 1994, e la critica letteraria di Danzhu Angben, Tashi Dawa and his works, in «Chinese Literature» 3 (1991) pp. 58-62. 6 R. Girard, Origine della cultura e fine della storia. Dialoghi con Pierpaolo Antonello e Joao Cezar de Castro Rocha, cit., p. 67. 7 Cf. A. McKay (ed.), The History of Tibet. The modern Period: 1895-1959. The Encounter with Modernity, vol. III, p. 4. 8 Sull’immagine del Tibet recepita in Occidente attraverso il corso del tempo, cf. i contributi nel volume T. Dodin - H. Rather (edd.), Imagining Tibet. Perceptions, projections, and fantasies, Wisdom Publications, Boston 2001. 9 Cf. R. Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 20036.

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Una prima distinzione è in relazione al linguaggio onorifico che lo designa con il termine sku quando ci si riferisce al corpo di una persona di alto rango nella scala sociale, mentre diventa lus per tutti gli altri 10. Questi due termini uniti in composti formano molteplici parole, ma sempre all’interno del loro primo significato lessicale. Non sembra infatti che il termine corpo in tibetano si presti agli usi metaforici del nostro linguaggio, come corpo d’armata, corpo di ballo, ecc., e questo proprio perché il concetto di unità non gli appartiene. Infatti il termine filosofico phung po 11 indica l’aggregato di più componenti che sono forma o corpo, sensazioni, percezioni, impulsi e coscienza, e che sono alla base della nozione innata di identità in una persona. Un essere umano è il prodotto della congiunzione temporanea di questi cinque aggregati in costante mutamento. La coscienza è il principio che accentra tutte le informazioni sensoriali ed è quindi la sede del pensiero discorsivo. Sostenuta da un subconscio condizionato dalle azioni passate, la ben nota “legge del karma”, è proprio questa coscienza che trasmigra da un’esistenza all’altra quando, nel momento della morte, gli elementi che costituiscono il corpo si disintegrano. In tutti i suoi aspetti, dal più grossolano al più sottile, sostanzialmente il corpo non è altro che un aggregato complesso e diversificato dei cinque elementi che compongono tutto l’universo: terra, acqua, fuoco, vento e spazio. Il microcosmo di un individuo è l’esatta replica del macrocosmo dell’universo 12.

10 Sul linguaggio onorifico in tibetano cf. S.V. Beyer, The Classical Tibetan Language, State University of New York Press, Albany 1922, p. 152. È da notare come molte parole che indicano parti del corpo umano siano scritte con la lettera prefissa ma, come in mKhal ma (rene), mGul (gola), mGrin pa (collo), mNgal (utero), mChu (labbra), ecc. (cf. ibid., p. 114), fatto che indicherebbe la correlazione e la formazione del termine con la parola mi (uomo), in uno stadio più antico della lingua (es. proto tibetano*myikhal >*m-khal> mkhal). Ricordiamo inoltre che l’importanza data all’anatomia umana si vede dal tipo dei nomi che indicano le unità di misura nelle regole iconometriche, come mdzub ma (dito, indice), thal mo (palmo della mano), khru (gomito/cubito), rkang (piede): cf. E. Lo Bue, Iconographic Sources and Iconometric Literature in Tibetan and Himalayan Art, in T. Skorupski (ed.), Indo Tibetan Studies, Buddhica Britannica, Series continua II, The Institute of Buddhist Studies, Tring 1990, pp. 171-197: p. 192. 11 Per una descrizione dettagliata degli aggregati cf. S. Harding, Machik’s complete explanation, clarifying the meaning of Chod, Snow Lion Publications, Ithaca-New York 2003, pp. 192-194. 12 Su questa concezione del corpo mutuata dal pensiero indiano, cf. A. Rosu, Les conceptions psychologiques dans les textes médicaux indiens, Publications de l’Institut de

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Secondo il buddhismo tibetano che segue la via dei Mantra, oltre al corpo materiale, detto anche rag pa’i lus (letteralmente il “corpo che sente”), consistente nei cinque aggregati psicofisici (phung po), vi è un corpo sottile (yid lus), diverso ma inerente al corpo materiale, e un corpo sottilissimo (gnyugs ma’i lus), proprio perché si riconosce al corpo umano una duplice natura secondo la quale il corpo materiale è considerato come il contenitore di una potenza di vibrazione o respiro, veicolo di energia spirituale 13. Secondo il tantra della medicina 14 il processo di formazione del corpo umano nell’utero materno è simile a quello del fuoco che nasce dallo strofinamento di pezzi di legno: il sangue materno può essere paragonato a una selce e lo sperma paterno al ferro, la coscienza che entra in questa miscela a un pezzo di corteccia e l’embrione al fuoco. Il valore che i Tibetani danno all’embrione è tale che nel computo degli anni di una persona bisogna scalarne uno per sapere davvero l’anno di nascita, perché essi considerano l’inizio della vita di una persona dal momento del suo concepimento. Secondo un’antica teoria che sopravvive nel buddhismo tibetano, ciò che dà la vita agli aggregati è lo spirito vitale, che non è solo appannaggio degli uomini, ma di tutti gli esseri viventi in quanto partecipi delle stesse energie che percorrono il cosmo, tanto che si pensa che questa forza vitale, detta bla 15, possa passare da un individuo all’altro o anche essere comunicata a vegetali o minerali. Tra tutte le forme di nascita degli esseri viventi la più preziosa era considerata quella che avveniva in un corpo umano 16, poiché ritenuto il più idoneo per il raggiungimento dell’illuminazione. Così dice Milarepa, (1040-1123), uno dei mistici tibetani più noti in Occidente: «Il corpo che possiede la materialità di sangue e carne e la percezione propria della coscienza è il risultato della matura-

Civilisation Indienne (fasc. 43), Paris 1978; P.V. Sharma, Indian Medicine in the Classical Age, vol. LXXXV, Chowkhamba Sanskrit Studies, Varanasi 1972. 13 Vedi la spiegazione di questi termini in G. Tucci - W. Heissig, Les Religions du Tibet et de la Mongolie, cit., p. 88, e anche in F.J. Varala (ed.), Il sonno, il sogno, la morte: un’esplorazione della consapevolezza con il Dalai Lama, Neri Pozza Editore, Vicenza 2000, pp. 240-243. 14 Cf. Y. Donden - J. Kelsang, Il Tantra della medicina tibetana, Ubaldini Editore, Roma 1980, p. 50. 15 Cf. G. Tucci - W. Heissig, Les Religions du Tibet et de la Mongolie, cit., pp. 242 -247. 16 Cf. R.A.F. Thurman, The life and the teachings of Tsong kha pa, Library of Tibetan Works and Archives, Dharamsala 1982, pp. 56-58.

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La concezione del corpo nelle religioni del Tibet

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zione karmica dei dodici nessi causali – come i samskara e così via, derivati dall’ignoranza senza inizio. Per i virtuosi che desiderano l’illuminazione esso è il ricettacolo del corpo umano pienamente qualificato (dal ‘byor). Per i miseri che accumulano atti negativi è il mezzo che conduce alle rinascite inferiori. Il corpo umano è un’occasione importantissima di guadagno, oppure di perdita, volta al conseguimento di quanto è bene e di quanto è male, nella linea di confine tra felicità e miseria» 17. L’importanza del corpo fisico nel mondo tibetano si vede anche dalla rilevanza della scienza della medicina che assicurava la buona salute. L’integrità fisica era considerata un valore fin dai tempi del Tibet prebuddhista, addirittura un prerequisito per esercitare la regalità. Leggiamo in un’antica cronaca 18: «Alla sposa del re nacque un figlio cieco; le fu detto: “chiama un medico dal paese degli Azha, gli aprirà gli occhi e sarà posto sul trono. Se gli occhi non si dovessero aprire allora cesserà la discendenza”». Anche nel Tibet buddhista troviamo la stessa tendenza, dovuta anche a influenze del pensiero indiano, testimoniata da un genere letterario detto zhabs rten (letteralmente “piedi saldi”), che raccoglieva le composizioni fatte dai discepoli per augurare lunga vita e buona salute al proprio maestro 19. Il termine sku ha poi il doppio significato di corpo fisico e di persona; è attestato fin dai monumenti epigrafici (rdo ring) dell’antico Tibet dell’VIII secolo, che sono i primi testimoni della scrittura introdotta nel Tibet appena un secolo prima, e appare anche in parole composte con significato differente ma con valenza di onorifi-

17 gTsang smyon Heruka, La vita di Milarepa, C. Gianotti (ed.), UTET, Torino 2001, pp. 162-163. 18 Cf. E. Haarh, The Yarlung Dynasty, Gad’s Forlag, Copenhague 1969, p. 339. 19 Cf. J.I. Cabezòn, Firm Feet and Long lives: the zhabs rten literature of Tibetan buddhism, in J.I. Cabezòn - R.R. Jackson (edd.), Tibetan Literature. Studies in Genre, Snow Lion Publication, Ithaca-New York 1996, pp. 344-357. Questa tendenza sembra essere un riflesso del pensiero indiano, sorto nel milieu brahmanico dove si cercava di conquistare l’immortalità materiale e spirituale; per cui la salute e la lunga vita, che per essere tale doveva durare fino ai cento anni, non davano solo vantaggi terreni, ma interessavano anche la vita futura: lo yoga, il tantrismo e l’alchimia sviluppavano le attitudini di un soma incorruttibile, visto come mezzo per trascendere la condizione trasmigratoria e ottenere l’immortalità definitiva o il riunire il proprio sé con l’assoluto: A. Rosu, Les conceptions psychologiques dans les textes médicaux indiens, Editions E. de Boccard, Paris 1978, p. 220. Nell’arte tibetana è diffusa la rappresentazione iconografica dei tshe ring drug skor, ovvero i sei simboli della lunga vita: cf. R. Beer, The encyclopaedia of Tibetan symbols and motifs, Serindia Publications, London, pp. 96-100.

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co 20 (ad esempio sku bla “divinità personale”, sku chung “fanciullezza del re”); ha continuato ad avere lo stesso significato onorifico fino ai nostri giorni, quando grazie al film di Martin Scorsese chiunque avrebbe potuto capire che sku mdun si riferiva al XIV Dalai Lama, Tenzin rgya mtsho. E naturalmente sku è il termine che forma i composti di chos sku (dharmakaya), longs sku (sambogakaya), sprul sku (nirmana kaya), cioè i tre corpi del Buddha 21. Nel buddhismo tantrico tibetano il meditante raggiunge la realizzazione mistica quando attraverso i gradi delle consacrazioni compie la sintesi di questi tre corpi, li percepisce come esperienza personale. I gradi delle consacrazioni prevedono la visualizzazione e l’integrazione simbolica dell’atto corporeo umano per eccellenza, l’atto sessuale. Scrive Tucci: «[…] la simbolica erotica si impadronisce dell’esperienza tantrica e la presenza della sposa diventa un elemento essenziale del rito» 22. Quando durante la meditazione si attua il dissolvimento progressivo di ogni dicotomia e si giunge alla fase di realizzazione dell’unione del corpo illusorio, che è il nostro corpo fenomenico, con il corpo della luce radiante, che è il corpo sottile, si sperimenta il corpo dell’assoluta trascendenza o dharmakaya. Corpo si dice ancora con il termine gzugs, inteso come forma esteriore di ogni cosa che appartiene alla sfera del modo sensibile, e lus (corpo fisico), parola etimologicamente correlata al verbo lus pa, che vuol dire “lasciare”, “abbandonare” (infatti il corpo è ciò che si deve abbandonare dopo la morte), o anche correlata con lud pa, che significa tutto ciò che non serve e che non è utile. Il corpo è la visibilità della nostra impermanenza, di ciò che non sta fermo e non permane uguale a se stesso. Dice un proverbio tibetano: «Se vuoi vedere uno spettacolo guarda il tuo corpo» 23. Lo stesso Milarepa fa parlare il corpo per dare insegnamenti al suo discepo20 Cf. H.E. Richardson, A Corpus of early Tibetan inscriptions, Royal Asiatic Society, London 1985, pp. 43, 161. 21 La teoria dei tre corpi del Buddha si sviluppa nel Mahayana, in cui il termine corpo si sposta dalla forma fisica del Buddha per significare in realtà un insieme di virtù astratte. Per una dotta spiegazione si veda M. Piantelli, Il Buddismo Indiano, in G. Filoramo (ed.), Storia delle Religioni, 4. Religioni dell’India e dell’Estremo Oriente, Laterza, Bari 1996, pp. 277-368. 22 G. Tucci - W. Heissig, Les Religions du Tibet et de la Mongolie, cit., p. 118. 23 Cf. Milarepa, Il grande sigillo. La conoscenza originaria di Mahamudra, C. Gianotti (ed.), Mimesis, Milano 2004, p. 17.

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lo Ras chung. Alla richiesta insistente del discepolo per avere istruzioni, Milarepa si toglie la veste di cotone e mostra le natiche piagate, e Ras chung, che sente una profonda venerazione per il modo in cui il maestro praticava l’ascetismo, si commuove e piange 24. Gli asceti, come gli eremiti o gli yogin erranti tibetani, condividono la stessa ricerca spirituale con i mistici di altri religioni, ed è quindi intuitivo e giusto pensare che, sebbene il corpo umano sia alla base del cammino della realizzazione mistica, la ricerca dell’incorporeità sia tenacemente perseguita attraverso la pratica del digiuno o smyung ba e quella del bcud len, che consiste nell’estrarre da fiori e piante, ma anche da minerali, un elisir che dona buona salute e longevità, e nel nutrirsi solo con quei succhi. Si adopera ancora il termine lus per indicare la suprema realizzazione a cui conducono le pratiche dello rdzogs chen, ossia la grande perfezione, che portano alla sublimazione dei cinque elementi di cui è composto sia il cosmo che il corpo umano. In occasione del trapasso del praticante, questa fase di sublimazione avviene attraverso un processo fotico che comporta la disintegrazione del corpo fisico (lus) in pura energia o luce (‘ja’, “luce d’arcobaleno”): ciò altro non vuol dire che la dissoluzione dei costituenti della personalità (phung po) nella dimensione dello stato primordiale dell’esistenza e la fusione del principio mentale nello stato della realtà assoluta 25. E mentre il corpo scompare nella luce d’arcobaleno, restano unghie e capelli. Sebbene sia noto come anche in altre culture tra i residui simbolici del corpo ci siano le unghie e i capelli, non è ancora chiaro se in ambito tibetano questo sia dovuto al fatto che non sono materia vivente o perché sono ritenute impure e insensibili, o perché invece sono da considerare come reliquie.

Il corpo nel mito «Tibet, paese degli spiriti affamati, dei demoni dalle facce rosse mangiatori di carne» 26: questa definizione riflette l’idea che antica24 Cf. M. Sernesi, Milarepa’s six secret songs the early transmission of the bde mchog snyan brgyud, in «East and West», vol. 54, 1-4(2004), pp. 251-287: p. 275. 25 Cf. R. Prats, Contributo allo Studio Biografico dei primi gTer ston, Istituto Universitario Orientale, Series Minor XVII, Napoli 1982, pp. 46-47. 26 R.A. Stein, Une chronique ancienne de bSam yas:sBa bzhed, Publications de l’Institut des hautes études chinoises, Paris 1961, p. 1.

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mente i Tibetani avevano del loro paese come di un luogo abitato da demoni, tanto da immaginare il loro stesso territorio come il corpo di un demone femminile, la Srin mo, disteso sul dorso. Più tardi, con la conversione dei Tibetani al messaggio del Buddha, si dirà che solo il dharma buddhista ha domato il corpo della demone, attraverso la costruzione di cappelle buddhiste piantate come dei chiodi sul cuore, sulla testa, sulle mani e sui piedi di lei, per fissarla al suolo ormai domata, e si dirà che il caos, il disordine demoniaco, è stato sostituito dall’ordine del mandala buddhista che ricrea magicamente il cosmo. Il racconto del corpo della demone inchiodato al suolo, sebbene elaborato in ambito buddhista come mito fondatore della vittoria del buddhismo sulla religione preesistente, conserva tracce delle antiche credenze che sono ancora oggi poco conosciute, ma sembra che questo mito possa essere letto alla luce di altri miti della creazione, che parlano dello smembramento di un essere vivente molto spesso concepito come la Madre Terra. Lo smembramento rituale è ancora presente nel mito della montagna Yar lha sham po, una delle più venerate in Tibet. Dobbiamo ricordare che è da ricondurre a un primitivo animismo la tendenza a immaginare animato il territorio di innumerevoli spiriti, che sono stati poi diligentemente classificati e integrati nel pantheon buddhista, pur mantenendo intatte le loro caratteristiche. Secondo questa tendenza, definita recentemente come una «sacramental natural ontology», il paesaggio e i luoghi sono percepiti come abitati da divinità e il loro aspetto è pensato come antropomorfo 27. Nei culti locali continua a sopravvivere come in passato la credenza del genius loci (yul lha) 28, identificato nella montagna, che è insieme divinità e antenato dell’intero villaggio. Il monte Yar lha sham po è in realtà una divinità che nella sua manifestazione di yak è stata vinta e il corpo dell’animale smembrato. Ma per ogni reminiscenza di antichi culti c’è una rilettura in chiave buddhista: in questo mito è il mago Padmasambhava che guida lo

27 Cf. J. Gyatso, Down with the Demoness. Reflections on a femine ground in Tibet, in A. McKay (ed.), The History of Tibet, vol. I, pp. 307-321. 28 Cf. S.G. Karmay, The Tibetan cult of mountain deities and its political significance, in A.M. Blondeau - E. Steinkellner (edd.), Reflections of the mountain, Österreichischen Akademie der Wissenschafter Verlag, Wien 1996, pp. 59-75.

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yak intorno alla montagna e lo sottomette, fissandolo al suolo con il magico pugnale perché resti fermo nel terreno. Nel buddhismo tantrico l’atto di demarcare, costruire e fissare è presente nel rito della costruzione del mandala, che a sua volta durante la meditazione diventa corpo del meditante e offerta dello stesso alla propria divinità tutelare 29. Ancora in tempi moderni il rito funerario detto “della pietra celeste” consiste nello smembramento del cadavere, i cui pezzi vengono poi offerti agli uccelli e ai cani.

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Il corpo nel rito Parlando del concetto di corpo e religioni nel Tibet non si può non parlare del rito del gCod 30. Qui si fondono diversi elementi dell’antica religione con il buddhismo, e il corpo assume un valore fondamentale. Il rito consiste infatti nell’offerta del proprio corpo ai demoni. Il meditante realizza il mistico sacrificio del suo corpo mediante la vi-

29 Sul rapporto tra corpo e mandala cf. D. Martin, Mandala Cosmogony. Human Body good thought and the revelation of the secret mother tantras of Bon, Harrassowitz Verlag, Wiesbaden 1994. 30 Su questa tradizione si veda J. Edou, Machig Labdron and the foundation of gCod, Snow Lion Publications, Ithaca-New York 1996. Si legga una avvincente descrizione del rito in A.D. Neel, Mistici e Maghi del Tibet, Ubaldini Editore, Roma 1965, pp. 113-114: «[…] il celebrante soffia nel rkang gling, la tromba fatta con un femore umano, invitando i demoni alla festa che si sta preparando. Si immagina attraverso la concentrazione mentale che una divinità femminile che personifica la propria volontà esca dalla sommità del cranio e con una spada tagli la testa a colui che medita, poi mentre stormi di vampiri si raccolgono in golosa attesa la divinità gli stacca le membra, lo scortica, gli apre il ventre, le interiora, si sparge il sangue dappertutto. Dopo questo il meditante così prega: “Calpesto il mio io, gli uomini, gli dèi, calpesto il demone dell’orgoglio, dell’ira, della lussuria e dell’ignoranza. Oggi pago i miei debiti offrendo questo perché sia distrutto questo mio corpo che ho tanto amato: do la mia carne a coloro che hanno fame, il mio sangue a coloro che hanno sete, la mia pelle a coloro che sono nudi, le mie ossa a coloro che hanno freddo perché le brucino, do la mia felicità agli infelici, il mio soffio vitale per rianimare i morenti”. La visione del macabro banchetto svanisce. Le grida dei demoni e vampiri si spengono. Al drammatico sacrificio segue la solitudine completa delle tenebre. Ora chi ha meditato, cioè colui che ha compiuto il rito, deve immaginare di essere divenuto un piccolo mucchio di resti carbonizzati che emerge da un fango nero che simboleggia il male spirituale che ha contaminato il meditante con le cattive azioni compiute durante le molteplici vite. Deve ora capire che l’idea stessa del sacrificio altro non è che una illusione nata dall’orgoglio e che è priva di fondamento, perché non ha niente da dare perché non è niente».

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Elena De Rossi Filibeck

sualizzazione dello stesso come un’entità cosmica, tagliato a pezzi e smembrato. I tratti in comune con lo sciamanesimo sono appunto il rito dello smembramento del corpo dello sciamano e della rigenerazione dello stesso, e la visione di se stesso come uno scheletro. La differenza sta nel fatto che attraverso il rituale del gCod il meditante tende al superamento dell’ego e non a ottenere una forza soprannaturale. Senza trascurare quanto proviene dalla tradizione indiana, come ad esempio il noto racconto in cui si narra di come il Buddha offrì se stesso alla tigre affamata, nel rito del gCod troviamo la presenza dei demoni concepita su due livelli teorici diversi: da una parte essi sono pensati come esseri realmente esistenti, che agiscono e interferiscono nel mondo degli uomini, e ciò è profondamente radicato nella visione culturale e religiosa del mondo tibetano prebuddhista; dall’altra, con l’avvento del buddhismo indiano, nello stesso rito è presente il concetto caro alla filosofia del Mahayana, e in special modo al sistema dello Yogacara, che insiste sulla non esistenza di demoni e divinità, considerati immaginazione della mente, senza sostanza e privi di un sé: «la radice dei demoni è la propria mente» 31. Un altro rito nel quale il corpo assume un alto valore simbolico si ritrova nella celebrazione della cerimonia buddhista del smon lam, o “grande preghiera”, che coincide con la festa del capodanno durante la quale si svolge il dramma del capro espiatorio 32. La celebrazione di questa festa, che ha lo scopo di allontanare gli influssi maligni, è realizzata per il bene di tutti e dà luogo a un’integrazione del monachesimo con il mondo laico. Era infatti la festa nazionale dell’intero popolo tibetano. Durante il suo svolgimento assistiamo al temporaneo capovolgimento dell’ordine sociale, e ciò non è separabile dalle usanze esorcistiche della cacciata del male, o gtor bzlog, accumulatosi nel corso dell’anno. La festa del smon lam dura molti giorni e nel trentesimo si celebra il rito del glud gong rgyal po, ovvero del “re demone riscatto”. Un monaco prende le vesti da Dalai Lama e un uomo del popolo quelle da re demone con il volto dipinto metà di bianco e metà di 31 K. Kollmar-Paulenz, Khros ma nag mo, the wrathful black one and the deities summoned to the ritual feast in the gCod tradition of Tibetan Buddhism. A preliminary survey of the gCod demonology, in ZAS, 34 (2005), pp. 209-230. 32 Sulla cerimonia del smon lam cf. R.A. Stein, La civiltà tibetana, Einaudi, Torino 1998, p. 188; sulla teoria del capro espiatorio come rituale che si ritrova in molte culture, cf. R. Girard, Origine della cultura e fine della storia. Dialoghi con Pierpaolo Antonello e Joao Cezar de Castro Rocha, cit., p. 144.

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La concezione del corpo nelle religioni del Tibet

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nero. Questo personaggio nei giorni precedenti era andato di casa in casa a raccogliere offerte simboleggianti le disgrazie subite dai donatori nell’anno appena trascorso. L’uomo poi va dal finto Dalai Lama per giocare una partita a dadi che, essendo questi truccati, non può che finire con la vittoria del Dalai Lama. Il re demone, sulla cui persona sono stati simbolicamente riversati tutti i mali della comunità, fugge inseguito dalla folla che lo scaccia lontano. Sempre nel corso della festa del nuovo anno esiste un simbolico sacrificio umano che ha per vittima un fantoccio di pasta, nudo e grande come un bambino di 5 anni, che viene fatto a pezzi e gettato nel fuoco dal dio della guerra e dai suoi accoliti. Il rito si conclude con una danza generale. Il sacrificio umano è il simbolo della distruzione dei nemici della dottrina, da ricollegare al regicidio rituale di Glang dar ma, l’ultimo re della monarchia tibetana, persecutore del buddhismo.

Conclusioni Come si è cercato di mettere in rilievo per comprendere il concetto di corpo nelle religioni del Tibet, dobbiamo fare una distinzione tra il periodo buddhista e quello antecedente alla sua introduzione. La condizione dell’esistenza umana favorisce la riflessione sui mezzi e le possibilità da adottare nella battaglia a più livelli fra le potenze del bene e quelle del male, che prosegue continuamente e che continuamente coinvolge l’uomo, bisognoso in questa lotta di un sostegno “altro” da sé. Prima dell’avvento del buddhismo i Tibetani – così apprendiamo dalle fonti cinesi di epoca T’ang (600-900 a.C.) – erano guerrieri di razza selvaggia, orgogliosi della forza fisica e della morte in battaglia, che onoravano la gioventù e disprezzavano la vecchiaia e la malattia. L’introduzione del buddhismo mitigò i valori e i costumi aggressivi fino a creare, con l’avvento dei Dalai Lama, una società che si ispirava all’ideale del bodhisattva, dove l’esaltazione della forza fisica cedeva il passo a quella della compassione; dove l’idea filosofica della corporeità transitava da visioni antropomorfiche del territorio alla dissoluzione dei componenti materiali e psichici nella chiara luce.

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Alessandro Roccati

Il “somatocentrismo” dell’antico Egitto

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di

Alessandro Roccati

Nello stadio iniziale dell’antichissima civiltà egizia (III millennio a.C.) le parole sono ancora strettamente collegate agli oggetti che esse denotano, e sembrano dotate di proprietà magiche. Il linguaggio è una realtà ontologica. Il componente fonetico e quello semantico, il significante e il significato formano un’unità anche concettualmente indivisibile. Questo dato è basilare per comprendere correttamente il sistema razionale elaborato dagli Egizi. Nel sistema referenziale dell’antico Egitto il corpo, non l’uomo, è il centro dell’universo. Di fatto non esiste una complessiva entità corporea, un termine che indica il “corpo”, bensì una pluralità di organi, attinenti alla fisiologia, “mani”, “cuore”, “capo”, ecc., designati anche dal termine generico “membro” (at o Ha), le cui raffigurazioni furono assunte nella scrittura geroglifica; ed egualmente da una pluralità di elementi afferenti alla “persona”: il “nome”, “l’ombra”, “l’energia” (bA), ecc. Tutte queste componenti sono assolutamente concrete, e costituiscono in qualche modo il modello anatomico dell’universo. Secondo una devozione che si sviluppa nel I millennio a.C., con riferimento simbolico allo smembramento del corpo di Osiride, le parti del (suo) corpo furono assunte come “reliquie” custodite nei principali santuari dell’Egitto 1. Da esse si dipartono funzioni che sembrerebbero meno direttamente percepibili. Sul dimorfismo sessuale umano è fondata l’intera sessualizzazione formale dell’universo. Braccia e gambe impersonano l’azione e il moto (con cui si collegano la gestualità e la danza), la lingua è l’organo (in senso fisico) del linguaggio, il cuore la sede dell’intelletto, il ventre il luogo del pensiero. La proiezione è la più antica forma di scoperta del mondo circostante: l’animazione degli oggetti inanimati, la personificazione di cose, piante, animali sono le più notevoli manifestazioni della procedura della scoperta per via 1 Cf. H. Beinlich, Die Osirisreliquien. Zum Motiv der Körperzergliederung in der altägyptischen Religion (Äg. Abh. 42), Wiesbaden 1984 (2000).

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Il “somatocentrismo” dell’antico Egitto

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proiettiva 2. La funzionalità delle parti del corpo, pur indagata sul piano fisiologico, non è riconosciuta come un sistema se non sul piano etico. Tanto che i singoli dèi possono palesarsi sotto sembianze umane o animali, talora ibride. Infatti, anche sul piano religioso non è stato ancora elaborato il “concetto” di divinità, ma gli esseri superiori esistono solo in quanto persone o entità anche complesse. L’elemento che lega gli esseri e i loro componenti si può definire come “sostanza” (kA), esso comprende il cibo che si trasforma in corpo, la potenza sessuale che permette la rigenerazione; in breve, concerne l’aspetto tangibile di una persona, alla stregua di una “statua” o del “nome”. Lunghe liste lessicali identificano ogni parte del corpo a un dio specifico, e le membra degli dèi sono fatte di diverse sostanze preziose. Le persone divine si differenziano così dalle persone umane. Si conosce fin dal II millennio a.C. un libro magico destinato alla “protezione delle membra”. Le parti del corpo e le loro funzioni sono altresì al centro del linguaggio; esse determinano particolari comportamenti grammaticali e sintattici. Infine la creazione del mondo avvenne agendo su varie funzioni umane. Per rendere innocui i nemici si legano mani e piedi. Anche sul piano pratico i medici, adepti di una scienza che ebbe in Egitto una particolare eccellenza, sono in genere addetti ad organi precisi: gli occhi, il ventre, ecc., ossia la loro competenza si fissa sui singoli componenti, ma ciò non significa probabilmente che si tratti di specialisti di determinati settori. Questa terminologia deriva logicamente dalla frammentazione della visione del corpo. In altre parole, tante erano le componenti dell’uomo come persona. A questo riguardo si distingueva tra “uomo” come “essere umano” (rmT, uomo e donna = homo, a[nqrwpoı, Mensch) e come “essere sociale” (z = vir, ajnhvr, Mann), e tale duplicità era osservata dopo la morte (mt “morto [comune]” ; Ax “defunto illustre [glorificato]”); talora le persone potevano ricevere più di un nome (nome sociale e nome particolare). Ma non vi era distinzione tra l’uomo e il “corpo”. Le componenti di quest’ultimo erano “parti dell’uomo” e non “parti del corpo”. Ossia l’uomo era il corpo e viceversa, il che spiega la necessità della mummificazione. Logicamente tali concezioni si riflettono automaticamente sull’arte figurativa, rilievo o sta2 Cf. I. Fonagy, Le lettere vive. Scritti di semantica dei mutamenti linguistici, P. Bollini (ed.), Dedalo, Bari 1993, p. 164.

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Alessandro Roccati

tuaria, dove la “statua” riproduce la “persona” e il suo “corpo”; singolarmente non è possibile rappresentare solo parte dell’individuo. La concreta fisicità delle concezioni impediva di elaborare nozioni relative ad entità incorporee; al contrario, il passaggio tra la vita e la morte si collocava totalmente nell’ambito del reale, e la morte stessa era considerata una persona fisica. Il corpo umano fu oggetto di un attento esame fisiologico fin dal periodo più antico. Fondamentali trattati medici ne attestano la conoscenza a scopo terapeutico, ma non fu forse questo lo scopo principale che guidò dapprima lo studio del corpo umano, quanto la curiosità di scoprire in esso i meccanismi che regolano la natura. Le parti anatomiche dell’uomo, o quelle corrispondenti di animali, furono copiosamente assunte tra i simboli della scrittura geroglifica. Entità cosmiche erano assimilate a figure umane, come la dea del cielo Nut, che ingoia alla sera e partorisce al mattino il sole. Il cielo era talora immaginato come una vacca, e l’altopiano ad ovest della città di Tebe era concepito come una enorme vacca sdraiata, la dea Hathor in persona, nel luogo della cui vulva, una caverna con conca nella valle delle regine, si svolgevano riti rigeneratori. Il riflesso linguistico del lessico attinente alle concezioni riscontrate si elabora in connessione con il processo di testualizzazione, che prende avvio con il II millennio a.C. La costituzione di un lessico specialistico trova uno sviluppo sintomatico in una serie di metafore costruite su elementi del corpo umano, che fanno concorrenza a precedenti espressioni sintetiche. Anche se i vocaboli appartengono a un più ampio contesto di affinità linguistiche, tale fenomeno appare riservato all’area egizia. La designazione del “ventre” (Xt) può indicare una “corporazione” divina. Il termine per “cuore” entra in molteplici combinazioni analitiche: “lungo (Aw) di cuore (ib)” equivale a “generoso”; “accetto (Szp) al cuore” sostituisce “amare”; “che è sul (Hry) cuore” significa “in mezzo”. La parola “bocca” (r) designa egualmente il “linguaggio”, le “asserzioni orali” (con cui si traduce erroneamente “capitolo” di libro). L’espressione “sulle (due) braccia” (Hr-awy) rende il concetto di “subito” (cf. l’italiano “sui due piedi”). Le funzioni delle parti del corpo hanno originariamente tutte carattere performativo, dal vedere (“fare” con gli occhi) al dire (“fare” con la bocca: “bocca” vuol dire anche “parola”), all’agire (“fare” con le braccia). Esiste un rituale specifico (“l’apertura della bocca”) per assicurare la fruizione delle funzioni vitali a esseri inerti come statue e mummie.

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Il “somatocentrismo” dell’antico Egitto

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La stesura di trattati di medicina trova un riscontro letterario nella più antica versione conosciuta di quello che è noto come Apologo di Menenio Agrippa, ossia il rapporto armonico tra le varie parti del corpo. Il medesimo è oggetto di attente codificazioni nel campo artistico, che stabiliscono i rapporti di grandezza rispettivi tra le diverse componenti. Alcune di queste, come il “cubito”, la “mano”, il “dito”, sono elevate a unità di misura assolute. Il sistema decimale, fondato sulle mani, risale almeno alla protostoria ed è imposto particolarmente alle misurazioni astronomiche (anno, mese). Un sistema di frazioni è rappresentato dal II millennio a.C. secondo la scomposizione di un “occhio” mitico, quello costituito dalla luna come uno degli occhi del “cielo” (ossia il dio Horo). «Le nostre lingue naturali, con il loro fondo più antico, attestano che l’uomo, dall’origine, ha tentato di razionalizzare l’universo proiettando su di esso sia il modello vivente del suo corpo, sia le costruzioni più astratte del suo spirito: l’immagine di un macrocosmo umanizzato e metaforico, oppure la geometria» 3. Da quanto precede si evince che il “corpo” per gli Egizi antichi era soprattutto un oggetto, esso stesso frutto e non fonte di osservazione. Lo spostamento verso la funzione di soggetto osservante si nota soltanto a partire dalla XVIII dinastia, tra l’altro anche come scopo della riforma amarniana, che teorizza il cambiamento.

Bibliografia H. BEINLICH, Die Osirisreliquien. Zum Motiv der Körperzergliederung in der altägyptischen Religion (Äg. Abh. 42), Wiesbaden 1984 (2000). H. BRUNNER, Das Herz im ägyptischen Glauben, in W. RÖLLIG (ed.), Das hörende Herz. Kleine Schriften zu Religions - und Geistesgeschichte Ägyptens (OBO 80), Fribourg/Göttingen 1988, pp. 8-41. I. FONAGY, Le lettere vive. Scritti di semantica dei mutamenti linguistici, P. BOLLINI (ed.), Dedalo, Bari 1993. P. LACAU, Les noms des parties du corps en égyptien et en sémitique, Paris 1970.

3 P. Zumthor, Babele ou l'inachèvement, Paris 1997 (tr. it., Babele dell'incompiutezza, Bologna 1998, p. 201).

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Alessandro Roccati

G. LEFEBVRE, Tableau des parties du corps humain mentionnées par les égyptiens, Cairo 1952. F.J. QUACK, Dekane und Gliedervergottung. Altägyptische Traditionen im Apokryphon Johannes, in «Jahrbuch für Antike und Christentum», Münster 38 (1995), pp. 97-122.

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P. ZUMTHOR, Babele ou l’inachèvement, Paris 1997 (tr. it., Babele dell’incompiutezza, Bologna 1998).

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Corpo artificiale e corpo naturale: dalla visione vedica alla visione tantrica induista 189

Corpo artificiale e corpo naturale: dalla visione vedica alla visione tantrica induista di

Malgorzata Sacha

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Fondamenti vedici e tantrici per i rispettivi concetti di corpo: somiglianza gerarchica contro equivalenza Riferirsi oggi all’uso del corpo come metafora nella descrizione del sistema sociale e dell’ordinamento cosmico nel pensiero induista sembra quasi una banalità. Eppure considerare questa metafora dalla prospettiva degli studi rituali potrebbe offrire alcune interessanti intuizioni circa la natura del complicato rapporto fra due importanti fenomeni della religione induista: la tradizione vedica e la tradizione tantrica. Inoltre, è proprio questo aspetto socio-cosmico del corpo umano a essere oggetto di sofisticate congetture in entrambe le tradizioni in questione. Già gli autori dei Veda, e particolarmente delle loro ultime sezioni chiamate Bra¯ hmanas, formularono ipotesi sulle connessioni e le interrelazioni che, come essi ritenevano, strutturavano la realtà. Si riteneva che queste connessioni (bandhu) ponessero in relazione cose, entità e fenomeni 1. Chi possedeva la conoscenza esoterica di queste connessioni era ritenuto in grado di manipolare i regni naturale, soprannaturale e sociale per mezzo di operazioni rituali. Si pensava che queste connessioni universali fossero organizzate lungo due assi: verticale e orizzontale. Lungo ogni asse, si immaginava l’esistenza di una serie di fenomeni, entità, ecc., fra loro collegati. Il principio alla base dell’ordinamento di questi fenomeni, ecc., era la vicinanza fra “prototipo” (pråma) ed “equivalente” (pratimå), dovuta a un criterio di affinità o somiglianza. Come detto in precedenza, le entità erano collegate fra loro tramite un principio di

1 Il termine bandhu (letteralmente “legame, vincolo”) che sta per “connessione” è stato oggetto di varie interpretazioni, ognuna delle quali è risultata di notevole importanza per la nostra comprensione e ricostruzione dell’ontologia vedica. Conseguentemente, il principio affettivo che regola le connessioni universali è stato inteso in vari modi, spaziando dalla somiglianza, attraverso l’omologia, all’equivalenza e infine all’identità.

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Malgorzata Sacha

analogia o affinità, ma ancora più rilevante era l’ordinamento gerarchico degli equivalenti stessi in relazione al loro prototipo. Il termine specifico di “somiglianza gerarchica” fu creato da Brian K. Smith per descrivere il modo particolare con cui la dottrina vedica trattava le complessità 2. L’idea della somiglianza gerarchica ha immediate e interessanti conseguenze. Per esempio, le connessioni verticali possono essere viste come collegamento fra l’equivalente visibile e manifesto e il suo prototipo invisibile e trascendente. Conseguentemente, il sacrificatore poteva venire collegato al dio creatore, Prajåpati. Si pensava, quindi, che tutti i prototipi e gli equivalenti collegati verticalmente partecipassero della stessa essenza, sebbene a livelli diversi. Questa visione, come si può immaginare, è del tutto valida per eventuali congetture cosmologiche. L’universo, nella speculazione vedica, dovrebbe essere teomorfo. Come si ricorderà, in S´B 6.3.1.9 si dice che Prajåpati è la forza vitale (il “respiro”, pråma) della sua creazione o la sua anima. La creazione in sé è vista come un processo di emanazione e di esteriorizzazione di quel che già si celava nel Creatore. Ma, allo stesso tempo, la creazione è disintegrazione del corpo cosmico o del sé di Prajåpati, provocata dalla sua emanazione procreativa. Da ciò, l’universo è considerato un caos piuttosto che un cosmo vero e proprio. Come giustamente rileva Smith, la creazione sembra essere «una trasformazione da unità perfetta senza parti a totalità imperfetta» 3 perché «la vita in sé è considerata intrinsecamente imperfetta senza la struttura formativa che solo il rituale può fornire» 4. Quindi il rituale è un’attività curativa in grado di porre rimedio alla totalità imperfetta, ordinando e legando fra loro cose sparse estremamente sagge 5. Si pensava che questo ambizioso progetto potesse realizzarsi per mezzo di strutture analogiche ritualmente costruite, che rappresentavano una sorta di piattaforma sicura da dove era possibile 2 B.K. Smith, Reflections on Resemblance, Ritual, and Religion (Oxford University Press, New York 1989), Motilal Banarsidass, Delhi 1998, pp. 47, 49; ID., Classifying the universe: the ancient Indian Varna system and the origins of caste, New York-Oxford 1994, p. VII. 3 B.K. Smith, Reflections on Resemblance, Ritual, and Religion, cit., p. 62. 4 Ibid., p. 68. 5 Come ha dimostrato Verpoorten, «il passo verso la cosmogonia e l’ontologia nella concezione vedica non è quello di un ritorno all’unità primordiale quanto di una ricostruzione di una struttura completa senza eliminare la diversità» (J.M. Verpoorten, Unité et distinction, p. 81, citato da B.K. Smith, Reflections on Resemblance, Ritual, and Religion, cit., p. 62).

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Corpo artificiale e corpo naturale: dalla visione vedica alla visione tantrica induista

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comunicare con il sacro, senza rischiare di venire assorbiti in possibili mondi caotici e lontani. L’esperto dei rituali, il bramino per nascita e iniziazione, era sempre visto sulla soglia, da una parte, fra sacro e profano e, dall’altra, fra ordine e caos. Ci si rivolgeva a lui come a una divinità in terra, che collegava il cosmico al sociale. Il suo ruolo era garantire che l’ordine sociale fosse compreso in un ordine sacro. Nella speculazione vedica, la struttura gerarchicamente ordinata era considerata l’equivalente più vicino all’ordine sacro, e questo perché responsabilità del bramino era quella di impedire qualsiasi liminalità che potesse costituire un pericolo per l’ordine ritualmente e socialmente costruito. Se si presentava una qualche liminalità, veniva completamente bandita e ritualmente modificata in modo che potesse adattarsi ad alcune categorie, a seguito della rigida classificazione già esistente. Qualsiasi liminalità era considerata come un serio rischio di irruzione del caotico, del non conosciuto e del non certo nel mondo della costruzione sacro-sociale. L’idea di un mondo teomorfo è stata accolta anche nella speculazione tantrica induista. Le storie della emanazione primordiale dell’Uno nei molti nelle scritture tantriche vengono in genere riconsiderate in modo filosofico. Tuttavia, nella speculazione tantrica, questo generale modello cosmologico si combina con l’idea di un’implicita maya, vale a dire una sorta di magico potere creativo che opera sulla base del puro Assoluto ed è a esso inerente quale suo aspetto giocoso. Conseguentemente, l’approccio al problema della creazione nel tantrismo deve avvenire su base epistemologica e non metafisica. E, come nella tradizione vedica, il rituale viene nuovamente presentato come il rimedio alla totale mancanza di comunicazione con il sacro. Ma, diversamente dall’interesse vedico, quello tantrico è di comprendere quel che il bramino di solito aborrisce (o considera con orrore). Il praticante tantrico ha interesse a fare esperienza delle liminalità al fine di utilizzarle come canali per una possibile comunicazione con il sacro. E per fare questo non fa uso dei filtri di una nozione di purezza socialmente costruita, come fa invece il bramino. Per lui l’irruzione del sacro amorfo, sia pure caotico, nel mondo umano è benvenuta, e non al fine della disintegrazione universale e del collasso della vita sociale. Il fine del praticante tantrico è quello di manipolare con la forza – secondo lui, la forza sacra che si cela in ogni liminalità – al fine di pervadere, riempire il mondo umano di essenza sacra. I praticanti tantrici sono consapevoli non meno dei bramini dei pericoli delle liminalità. Così, anche nella tradizione

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Malgorzata Sacha

tantrica le liminalità devono essere affrontate ritualmente. Ma se i ritualisti vedici hanno tentato di costruire gli edifici rituali analogici in modo che somigliassero ai loro prototipi sacri, i praticanti tantrici hanno tentato semplicemente di importare il sacro direttamente nel mondo umano. All’interno del contesto rituale, i tantrici costruiscono le forme equivalenti, sostituite gradualmente da quelle sempre più trasparenti, vale a dire, quelle sommamente somiglianti ai loro analoghi prototipi sacri. Presumono che a un certo punto di tale “sintonia” rituale, l’essenza del sacro penetri nel duplicato ritualmente costruito, trasformandolo così nel prototipo vero e proprio, o almeno nell’entità che somiglia al prototipo a un livello il più elevato possibile. La differenza riguardo al modo di vedere vedico e tantrico e all’utilizzo della categoria di somiglianza e dei duplicati ritualmente costruiti ha conseguenze fondamentali per la loro rispettiva nozione del corpo umano e della sua funzione religiosa.

Corpo contrattuale vedico e corpo divinizzato tantrico Come abbiamo già ricordato riguardo ai sacerdoti e ai metafisici vedici, l’attività rituale non “simboleggiava” la realtà, ma costruiva, integrava, costituiva e dava forma al reale. La formazione del cosmico, passando per l’analogia, era vista come avente il suo equivalente nella formazione dell’umano. L’antropogonia nella speculazione vedica era il problema non solo della procreazione ma anche, e alla fine in maniera più importante, della formazione rituale. I rituali vedici, solenni e domestici, dovevano essere celebrati da un esecutore qualificato: nel primo caso, il sacerdote bramino agiva per conto di un sacrificatore; nel secondo caso, era lo stesso capofamiglia. In qualsiasi scenario la questione principale era: cosa significa essere un esecutore qualificato o un soggetto del rituale? Sia il sacrificatore che il sacerdote che agiva per conto di questi dovevano essere persone socialmente complete, con prerogative, status, ecc., chiaramente definiti. Per di più sia il sacerdote che il sacrificatore dovevano essere ritualmente puri per il tempo dell’esecuzione dell’intero rituale. Cosa significava essere una persona socialmente completa? Per essere tale, un individuo si doveva sottoporre a una serie prescritta di rituali di passaggio. I Samskara vedici, dal punto di vista storico, e oggi i Samskara indù, sono ritenuti essere questa serie di indispensabili at-

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Corpo artificiale e corpo naturale: dalla visione vedica alla visione tantrica induista

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ti rituali, che assicurano la costruzione di un persona fisica e sociale. La chiave di lettura del concetto vedico e poi di quello indù di “corpo artificiale” è da trovarsi in questa serie ritualmente adottata di identità sociali. La vera e propria qualificazione per l’attività rituale riguarda anche la questione dell’adozione di alcuni particolari stati del corpo artificiale. Ma prima che tali stati possano essere adottati, l’individuo deve passare necessariamente attraverso una serie di stati liminali intermedi. Come si ricorderà, in qualsiasi rito di passaggio connesso a liminalità temporali è presente un pericolo naturale, che deve essere affrontato dalla persona in fase di cambiamento. Già Van Gennep aveva sottolineato la natura minacciosa di ogni liminalità – intellettuale, sociale e cosmica –: aveva fatto notare che, essendo inclassificabili, queste liminalità hanno la capacità di sconvolgere le specifiche classificazioni imposte dall’uomo sulla base di una sua realtà determinata. In tali stati liminali, il corpo umano è indefinito, naturale. È proprio questo corpo che nella tradizione vedica rende il suo possessore impuro, inidoneo ad agire come soggetto rituale. Quindi, anche nella sua condizione innaturale, socialmente vincolata e ritualmente pura, al corpo umano non viene attribuita importanza sostanziale durante i principali riti sacrificali vedici. Nel migliore dei casi, il corpo consente al soggetto di entrare nel regno rituale (sempre che il Sé del soggetto, il suo atman, sia stato ritualmente purificato nei riti preparatori). Allora il suo corpo deve essere come temporaneamente “sospeso”, lasciato sulla soglia del principale rito sacrificale e sostituito con il suo duplicato rituale: un corpo sacrificale – il corpo consegnato dai sacerdoti di solito durante un diverso rituale o all’inizio del sacrificio stesso –. Potremmo definire questo corpo rituale acquisito come “corpo contrattuale”, data la particolare transazione che ha luogo fra il sacrificatore e il/i sacerdote/i che lo rappresentano. Come scrive Charles Malamoud: «Il sacrificatore, così, ha (almeno) due corpi: sulla base del compenso che si impegna a pagare, e che effettivamente paga durante la cerimonia, il sacrificatore assicura che il suo corpo sacrificale sarà opportunamente guidato (qui il rischio è grande: se si allontana dal percorso, il sacrificatore può perdere la ragione); mentre attraverso la daksina egli riprende possesso del suo corpo profano una volta ultimata la cerimonia» 6.

6 C. Malamoud, Cooking the World. Ritual and Thought in Ancient India, transl. David White, Oxford University Press, Delhi 1996, pp. 183-184.

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Malgorzata Sacha

È possibile rilevare un approccio diverso alla funzione religiosa del corpo umano in relazione al tantrismo indù. Innanzitutto, è il corpo naturale piuttosto che quello artificiale ad attirare l’attenzione del praticante tantrico. Potremmo dire che il corpo nel suo stato artificiale sia una metafora del sistema sociale, rappresentando il contenimento ordinato delle categorie, laddove il corpo naturale è una metafora di ciò che è caotico, aperto, fluido. Tale corpo, nelle speculazioni dei ritualisti vedici, si presta a essere visto come impuro. In tema di simbolismo dell’impurità, sono le parti superficiali del corpo o le sue secrezioni a venire evidenziate. E, di fatto, solitamente vengono entrambe usate come elementi determinanti nelle arti magiche, nella stregoneria e nei rituali magici. Nel simbolismo tantrico, sono particolarmente importanti le secrezioni corporee, specialmente sangue e sperma, due sostanze potenti, che rappresentano una forma condensata di vita nel suo libero stato fluido e sono due liminalità attraverso le quali il contatto con l’aspetto energetico dell’assoluto è privo di pericoli. Per questo vengono usati nei rituali, non importa se considerati per quel che sono o come simboli. Ma non sono soltanto le parti superficiali del corpo o le sue secrezioni ad avere importanza per le manipolazioni rituali. Seguendo la potente metafora tantrica dello psicocosmo, il corpo umano è ritenuto essere la migliore immagine del divino. Dato anche il suo aspetto liminale fluido, viene ritenuto il miglior canale per introdurre il divino nel suo aspetto energetico, fluido e indiviso. A parte il corpo del praticante, in alcuni culti tantrici vengono usati a questo scopo i corpi di altri: nel contesto delle pratiche mistiche, un partner di sesso opposto, mentre, nel contesto di pratiche particolari, l’uso del cadavere, del corpo umano morto. Quando guardiamo più da vicino qualsiasi forma della cosiddetta p‰jå tantrica, possiamo subito ravvisare l’ambizioso progetto di divinizzazione del corpo. La p‰jå è un rituale quotidiano paninduista, con una struttura complessa, che impiega elementi tipici, quali offerte e cerimoniali all’immagine sacra, ripetizione del mantra principale della divinità (ishtamantra) e un sacrificio con il fuoco (quest’ultimo è facoltativo). Il fondamento mistico di una p‰jå tantrica, se confrontata con una p‰jå non-tantrica, è il rito chiamato nyåsa. Il nyåsa potrebbe definirsi un rito di assegnazione delle lettere dell’alfabeto o del corpo dei mantra o di molti altri oggetti aventi un fondamento mistico (come, per esempio, i siti sacri, le mete di pellegrinaggio) a varie parti del corpo, che a causa di ciò si ritiene venga investito di potere divino e

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Corpo artificiale e corpo naturale: dalla visione vedica alla visione tantrica induista

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salvaguardato 7. Volendo generalizzare: l’intera serie di differenti nyåsa che devono essere eseguiti nel contesto rituale è semplicemente una serie di manipolazioni mistico-simboliche che mirano ad “assumere” o a “installare” particolari energie, o poteri divini, sulla materia “ricevente”, in modo che questa venga trasmutata, rinvigorita o semplicemente sacralizzata, santificata. Solo dopo aver portato a termine con successo questa complicata e varia sistemazione mistica di poteri sacri, articolata in più fasi, la materia così elaborata può essere considerata realmente divina 8. Soltanto allora, così trasmutato e ricostruito in modo nuovo, l’intero essere del praticante tantrico diventa un contenitore umano in grado di ricevere la forma energetica del sacro. Eseguendo particolari gesti rituali, la forza sacra discende e si insedia nel cuore del praticante. Il gesto rituale susseguente, che deve essere eseguito dopo la serie di diversi nyåsa, dovrebbe essere una p‰jå mentale, interiore, alla divinità (ishtadevatå) in tal modo insediatasi nel cuore del praticante. Questo genere di p‰jå consiste solitamente in una serie di visualizzazioni e contemplazioni creative, rinvigorite, potremmo dire, da opportuni gesti ieratici (mudrå). La fase successiva del rituale, poi, è la proiezione, il passaggio della forza divina dal cuore al simbolo esterno. Tale simbolo ora potrà servire da altro contenitore o da altra materia ricevente. In alcune forme particolari di culto tantrico, un essere umano consacrato, il corpo consacrato, potrebbe servire a tale scopo. Quindi, alla fine, la p‰jå esteriore (båhya-p‰jå) viene offerta alla divinità ora insediatasi all’esterno del vero e proprio corpo del praticante tantrico 9. Con il gesto rituale conclusivo, il praticante libera la forza sacra opportunamente insediatasi. Con questo, l’intera p‰jå è terminata. Dopo questo rituale, si ritiene che l’intera essenza del soggetto, incluso il corpo, sia almeno in parte trasmutata, elevata e divinizzata. Con la ripetizione quotidiana del rito obbligatorio della p‰jå e di altre tecniche di trasmutazione mistica, il praticante tantrico mira ad avere il suo intero essere profondamente trasformato, fino al punto che persino la materia del suo corpo terreno si possa ritenere totalmente trasformata. 7 Vedi, per esempio, Kularnavatantra 15, 46, secondo il quale coloro che si creano un’“armatura” attraverso un nyåsa saranno protetti contro ogni ostacolo sul loro cammino. 8 La stessa concezione si rinviene dietro le applicazioni con rito nyåsa eseguite su un idolo, per renderlo animato mediante una forza sacrale. 9 Tutti e tre gli elementi costitutivi della p‰jå esteriore sono rappresentati dai loro equivalenti simbolici nel contesto della p‰jå interiore.

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Conclusioni La filosofia tantrica segue il concetto vedico di connessioni universali fra cose, entità e fenomeni. Tuttavia, laddove la comprensione vedica del principio guida delle connessioni universali si fonda sull’imperativo del trascendentalismo, la comprensione tantrica della somiglianza si basa sulle premesse ontologiche dell’immanentismo che funge da trascendentalismo. Conseguentemente, i ritualisti vedici tendono a servirsi del potere dell’immaginazione per costruire il sistema dei duplicati rituali delle entità sacre trascendenti e metafisiche, puntando a dare inizio alla comunicazione con il sacro e, successivamente, a prepararsi la strada verso mondi sacri soprannaturali, presumibilmente raggiungibili dopo la morte. Il corpo umano, prima di tutto, deve essere dominato per adeguarsi all’idea sociale e rituale di purezza. Tale requisito di purezza del corpo rende il possessore idoneo a eseguire il viaggio rituale attraverso le realtà analoghe dei mondi sacri. Durante il rituale, il corpo umano vero e proprio dovrebbe (deve) essere sostituito con il corpo ritualmente costruito. In altre parole, si richiede che il soggetto rituale accetti gli stati particolari del corpo reso ritualmente artificiale. I praticanti tantrici, invece, imbrigliano semplicemente la loro immaginazione nel contesto dei loro rituali, usandola quale mezzo per trasformare la presunta energia primordiale, l’energia prevista cioè per essere introdotta nel tempo e nello spazio rituale e poi proiettata su qualsivoglia materia terrena, nella speranza di trasmutarla in essenza divina. Potremmo dire che la predisposizione immaginativa tantrica ha sposato sia l’esigenza dei ritualisti vedici di incanalare l’essenza della vita in un ordine gerarchico prefissato, sia l’esigenza di chi vuole abolire tale gerarchia. Per mezzo delle pratiche di conferimento di poteri, i praticanti tantrici nel corso della loro vita sono in grado di passare gradualmente o immediatamente da un’identità sociale strutturata a un’identità divina dinamica, che racchiude sia il cosmo sociale immanente, governato dai principi della divisione, sia la gerarchia verso un urgrund sovracosmico. Il corpo umano nel tantrismo è utilizzato come conduttore di forza trasmutante, come contenitore di tale forza, e infine come materia sottoposta al processo di trasmutazione. In altre parole: è solo attraverso il corpo umano che l’irruzione del sacro nel regno terreno è possibile. Per servire a tale scopo, nella tradizione tantrica al concetto di corpo viene data un’elaborazione ontologica e rituale. Conseguente-

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Corpo artificiale e corpo naturale: dalla visione vedica alla visione tantrica induista

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mente, a causa del relativo livello di realizzazione tantrica, si ritiene che il corpo sottoposto a pratica spirituale tantrica raggiunga stati sempre più avanzati di cosmizzazione e di divinizzazione. L’insieme sé-corpo completamente trasformato è ritenuto assumere una forma naturale. E in quanto tale, viene concepito come nucleo mobile del divino incarnato, come una sorta di pietra filosofale che racchiude sia l’unità che la diversità, rappresentando in tal modo l’approssimazione più vicina possibile all’aspetto dinamico dell’assoluto, oppure, nel caso di una certa speculazione tantrica radicale, persino l’identico duplicato di quanto sopra. A un dato livello avanzato della realizzazione tantrica, l’equivalente ritualmente trasformato deve, in parole povere, venire riassorbito nel prototipo emissivo. Con questo, il corpo umano artificiale ritrova il suo posto nel corpo prototipo naturale dell’assoluto.

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Malgorzata Sacha

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Il “somatocentrismo” dell’antico Egitto

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Corpo e religioni nei sincretismi

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Alessandro Roccati

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Il corpo e l’esperienza religiosa: i culti popolari in Brasile

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Il corpo e l’esperienza religiosa: alcune questioni preliminari, con particolare riferimento ai culti popolari in Brasile

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di

Roberto Motta

Il problema del corpo nella religione viene associato alla questione generale della sostituzione della “volontà naturale” con la “volontà razionale” (Tönnies) o dell’“azione affettiva” con l’“azione razionale” (Weber). Sebbene rappresenti un segno di modernità, questa trasformazione ha radici nell’antica Grecia (Nietzsche) e nella Teologia del Nuovo Testamento (san Paolo). A causa della complessità della sua composizione etnica, in Brasile è presente una coesistenza di religioni iconofile (o somatofile) e di religioni logofile. Ma persino qui le religioni corporee sono soggette a un crescente processo di razionalizzazione, a causa degli studiosi che rispecchiano la diffusione della modernizzazione nella società brasiliana. Infine, viene suggerita una risposta prudente alla domanda inerente una possibile sopravvivenza di autentiche religioni corporee, in un mondo sempre più esposto alla razionalizzazione globalizzata.

Tönnies, Weber, Nietzsche e il corpo Questo saggio affronta alcuni problemi inerenti lo status del corpo nella religione e nella sociologia della religione. Eppure, il tema del corpo interessa non solo la religione. È molto presente nella teoria sociologica generale, specialmente negli autori con una mentalità storica. Perciò, che venga usata esplicitamente o meno, la parola “corpo”, o un suo equivalente, si profila minacciosamente nell’opera di Tönnies, Community and Society. In essa si afferma che «la volontà naturale è l’equivalente psicologico del corpo umano […] la volontà naturale implica il pensiero nello stesso modo in cui l’organismo contiene quelle cellule cerebrali che, se stimolate, provocano le attività psicologiche che sono da considerarsi equivalenti del pensiero» 1. 1 F. Tönnies, Community & Society, translated by C.P. Loomis, New Brunswick, N.J. 1978; Transaction Publishers, 1988, p. 103. Più avanti, nello stesso capitolo, Tön-

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Roberto Motta

Il corpo è presente anche nella teoria sociologica di Weber, con la contrapposizione fra azione affettiva e azione razionale. Sebbene Weber sia meno propenso di Tönnies a usare termini quali “corpo” e “organismo” (o i loro equivalenti), si potrebbe concludere che, secondo la sua opinione, l’azione affettiva ha la sua sede nel corpo e scaturisce dalle sue passioni. Perché

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«[l’azione] affettiva (specialmente emozionale) è determinata dagli affetti e dagli stati emotivi peculiari di chi agisce. […] L’azione è affettiva se soddisfa un bisogno di vendetta, di gratificazione sensuale, di devozione, di tensioni emotive attive» 2.

In un certo senso, questo è un problema centrale della sociologia, cioè il passaggio da un’azione che scaturisce dall’emozione e dalla passione a un’azione che scaturisce dal pensiero e dalla razionalità. Riguardo a Weber, dobbiamo soltanto ricordare il quesito che egli formula nei primi paragrafi della Introduction 3 alla Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie: «A quale combinazione di circostanze si dovrebbe attribuire il fatto che nella civiltà occidentale, e solo nella civiltà occidentale, siano emersi fenomeni culturali che (come a noi piace pensare) traggono origine da una linea di sviluppo avente un valore e un significato universali [...]» 4.

E prosegue con il chiarire che è la razionalità di scienza, teologia sistematica, astronomia, medicina, chimica, musica, architettura, amministrazione e, infine, economia, ad attribuire valore universale alla civiltà occidentale 5. Anche se Weber (a differenza di Hegel) non suggerisce un sistema metafisico che giustifichi l’aumento della ranies aggiunge che «un aggregato o una forma di volontà razionale è attinente a un aggregato di volontà naturale nello stesso modo in cui uno strumento o una macchina artificiali costruiti per ottenere determinati scopi o risultati sono paragonabili ai sistemi organici e ai diversi organi del corpo animale» (p. 135). 2 M. Weber, Economy and Society, G. Roth - C. Wittich (edd.), 2 voll., University of California Press, Berkeley 1978, p. 25. 3 Spesso pubblicata come introduzione ai suoi saggi sul Protestant Ethic and the Spirit of Capitalism, viene qui citata secondo la traduzione di Talcott Parsons. 4 M. Weber, The Protestant Ethic and the Spirit of Capitalism, translated by T. Parsons, Scribner’s, New York 1958, p. 13. L’enfasi è stata aggiunta da R.M. 5 Analogamente, per Hegel, è sempre in Occidente, e soltanto in Occidente, che lo spirito raggiunge la razionalità, prendendo coscienza di sé in lucidità, riflessione e libertà, che non è altro che la conseguenza della coincidenza del suo esistere in sé e per sé: «Quel che rende grande il nostro tempo è il riconoscimento della libertà, il possesso dello spirito da parte di sé, il fatto che esso esista in sé e per sé» (G.W.F. Hegel, Vor-

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Il corpo e l’esperienza religiosa: i culti popolari in Brasile

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zionalità, egli afferma che i fenomeni culturali hanno acquistato un significato universale grazie al loro permearsi di razionalità. Situato, come egli fu, al culmine dello sviluppo storico – «am Spitze der Geschichte», nell’espressione felice di Nicolaus Sombart 6 –, Weber s’impegnò nell’interpretazione di questa tendenza predominante della storia del suo tempo e, al pari di Tönnies, egli, usando una terminologia tutta sua, sollevò vivamente il problema del corpo nelle scienze sociali. Si può concludere che per Weber il “significato universale”, dipendente quale è dalla razionalità, comporta forme di pensiero e di azione che trascendono il corpo, con le sue percezioni, le sue emozioni e le sue passioni, e che si collocano al di sopra di queste ultime nella scala del progresso. Weber sostiene che fu grazie al calvinismo che «il grande processo storico nello sviluppo delle religioni, l’eliminazione della magia dal mondo […] giunse alla sua conclusione logica» 7, comportando, fra le altre conseguenze, come suo «compito particolarmente urgente, la distruzione del godimento spontaneo, impulsivo» 8, associato alle naturali tendenze del corpo. E mentre considera che il calvinismo rappresentò il culmine di tale processo, Weber prende atto delle conseguenze di altre influenze, quali «gli antichi profeti ebrei» 9 e «il pensiero scientifico ellenistico» 10. Riguardo quest’ultimo, Nietzsche vede la razionalizzazione, che implica la repressione del godimento spontaneo e impulsivo, già all’opera nel V secolo a.C., con Euripide e Socrate. Perchè dapprima «nel canto e nella danza l’uomo esprimeva se stesso quale membro di una comunità superiore; aveva dimenticato come camminare e come parlare ed era in procinto di librarsi nell’aria, danzando. I suoi stessi gesti esprimevano incanto. […] Si sentiva una divinità, si aggirava vittima lesungen über die Geschichte der Philosophie, v. XX, Werke, vol. III, Frankfurt 1971, p. 329, così citato da J. Habermas, 1988). 6 N. Sombart, Einige Entscheidende Theoretiker, in A. Weber (ed.), Einführung in die Soziologie, Pipper Verlag, München 1958, p. 43. 7 M. Weber, The Protestant Ethic and the Spirit of Capitalism, translated by Talcott Parsons, Scribner’s, New York 1958, p. 105. 8 Ibid., p. 119. 9 Al profetismo etico viene spesso attribuita un’importanza eccessiva nell’antico giudaismo dagli studiosi di mentalità weberiana. Sebbene in questo saggio non si potrà dare adeguata trattazione a questo argomento, lasciateci sottolineare che, come evidenziato da Rudolf Bultmann (1984), lungi dall’essere una religione profetica, il giudaismo, ai tempi di Gesù, non era né una religione profetica, e nemmeno una religione dichiaratamente etica, ma piuttosto una religione dove si osservavano regole e precetti rituali e di culto. 10 M. Weber, The Protestant Ethic and the Spirit of Capitalism, cit., p. 105.

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Roberto Motta

di un incanto, in estasi, come le divinità che vedeva camminare nei suoi sogni. Non era più un artista, ma era divenuto un’opera d’arte» 11.

Lo spirito della tragedia venne allontanato da una «potenza demoniaca che parlava attraverso Euripide. Ma persino Euripide era, in un certo senso, soltanto una maschera: la divinità che parlava attraverso di lui non era Dioniso né Apollo, ma un demone del tutto nuovo, di nome Socrate. E la tragedia greca naufragò per questo» 12.

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Il risultato finale di questo cambiamento, riguardo al quale Nietzsche non si premura di nascondere il suo pessimismo, è da una parte che «i Greci divennero […] sempre più appassionati di logica e del rendere logico il mondo e, in questo modo, più “volenterosi” e “rigorosi”. […] Il graduale prevalere di razionalità e di utilitarismo teorico e pratico […] furono tutti sintomi di un calo di vigore, di imminente vecchiaia, e di sfinimento fisiologico» 13.

D’altra parte, egli dice che, mentre «la visione del mondo tragico venne ovunque completamente annientata da questo spirito intrusivo non-dionisiaco […] questa dovette sparire dall’arte per rifugiarsi nel mondo degli Inferi, nella forma, per così dire, degenerata, di culto segreto» 14.

Se, seguendo la sostanza dei saggi di Roger Bastide sulla “acculturazione”, la vediamo come una reinterpretazione del primitivo in termini di forme europee o razionalizzate di percezione e di sensibilità 15, Nietzsche appare come un precursore degli studi antropologi11 F. Nietzsche, The Birth of Tragedy and The Case of Wagner, translated by Walter Kaufman, Vintage Books, New York 1967 (or. 1872), p. 37. 12 Ibid., p. 82. 13 Ibid., p. 21. 14 Ibid., p. 109. 15 Bastide fa riferimento, fra le altre cose, a «une prise de conscience de l’Afrique par des sensibilités et intelligences désafricanisées» (R. Bastide, Le Prochain et le Lointain, L’Harmattan, Paris 2001, p. 141), più o meno traducibile come «la consapevolezza dell’Africa da parte di sensibilità e intelligenze non africanizzate». Egli si dimostra pessimista riguardo al risultato finale dell’acculturazione, come lo è Nietzsche in merito alla sostituzione dello spirito della tragedia con il razionalismo di Socrate ed Euripide. Non esita a utilizzare le parole “degenerazione” e “degradazione” per descrivere l’acculturazione degli africani in Brasile e altrove. Riguardo agli Stati Uniti, osserva che «Il peggio doveva accadere quando i discendenti alla fine fecero propri i valori norda-

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Il corpo e l’esperienza religiosa: i culti popolari in Brasile

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ci sul contatto, il cambiamento e la compenetrazione finale fra culture. A ogni modo, non vi è alcun dubbio che egli veda come una sorta di decadenza la sostituzione del razionalismo con la pienezza della passione e dell’emozione 16.

Paolo e il “culto spirituale”

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San Paolo è esattamente sulla linea che Nietzsche attribuisce a Socrate, quando nella lettera ai Romani afferma: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale» 17.

I cristiani dovrebbero quindi dedicarsi a quel che Paolo chiama logikèn latreían, che nel latino della Vulgata è stato tradotto con obsequium rationale 18. Laddove sarebbe preferibile lasciare l’interpretazione tecnica ed ermeneutica di questo e di altri passaggi a specialisti nello studio della Bibbia, possiamo dire che l’affermazione di Paolo, a fini pratici, asseriva l’esclusione del corpo, con la sua spontaneità, le sue emozioni, la sua esaltazione e le sue passioni, dalla pratica religiosa occidentale. mericani e si abbandonarono a un “narcisismo bianco”. Non riuscirono a vedere altro modo per dimostrare il loro identificarsi con l’America che adottare una sorta di puritanesimo» (R. Bastide, Color, Racism, and Christianity, in J.H. Franklin [ed.], Color and Race, Beacon Press, Boston 1969, p. 46). 16 La religione greca era in larga misura una religione danzata (cf. G. Rouget, La Musique et la Transe: Esquisse d’une Théorie Générale des Relations de la Musique et de la Possession, Gallimard, Paris 1980, e gli scritti da lui menzionati). Sembra che sia stato il caso anche della religione ebraica originaria. Sappiamo che Re Davide era solito danzare mentre praticava il culto. Addirittura danzava sino a mostrarsi nudo, come riferito esplicitamente nel libro II di Samuele, dove è scritto: «e Davide danzava con tutte le sue forze davanti al Signore; ora Davide era cinto di un efod di lino. […] E Mikal, figlia di Saul, gli uscì incontro e gli disse: “Bell’onore si è fatto oggi il re d’Israele a mostrarsi scoperto davanti agli occhi delle serve dei suoi servi, come si scoprirebbe un uomo da nulla!”» (2 Sam 6, 14 e 20, citato secondo la versione di Re Giacomo). 17 Lettera ai Romani 12, 1, citata secondo la versione di Re Giacomo. L’originale in greco riporta thysían per “sacrificio” e latreían per “culto”. Nella versione in lingua francese, la Bible de Jérusalem, si legge, rispettivamente, sacrifice e culte per rendere i due termini greci. 18 La Prima lettera di Pietro fa riferimento a «ieráteuma hágion [...] pneumatikàs thusías» (2, 5), vale a dire a «sacerdozio santo [...] sacrifici spirituali», con un significato generale molto simile alle citate affermazioni di Paolo (cf. R. Bultmann, Theologie des Neuen Testaments, Mohr Siebeck, Tübingen 1984).

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Roberto Motta

Ciò nonostante, è possibile notare un indubbio, limitato recupero del corpo nella cristianità medievale (sia orientale che occidentale), che fu molto una religione di immagini e di icone. Questa tendenza si manifestò in maniera ancora più marcata nel periodo barocco, durante il quale, almeno nel mondo di lingua portoghese, le danze nelle chiese – fra cui le cosiddette danças de São Gonçalo –, o intorno alle chiese, sebbene non costituissero un aspetto formale della pratica del culto, non erano affatto insolite. Come è noto, la Riforma, di cui una delle maggiori espressioni fu il ritorno alle fonti bibliche, verbali della cristianità, rappresentò una reazione ferma e matura, soprattutto nella sua versione calvinista, alla iconodulia medievale. Calvino scrive un’energica confutazione dell’uso religioso delle immagini nel capitolo XI del Libro I della sua Institution Chrétienne 19. E fino a oggi il calvinismo resta un prototipo delle “religioni iconoclaste”, usando la terminologia di Victor Turner 20. Secondo il rimpianto antropologo britannico «Le religioni iconofile spesso sviluppano sistemi rituali elaborati e complessi; i simboli tendono a essere visivi e l’esegesi è legata al percorso rituale. Le religioni iconoclaste sono associate a una riforma radicale e cercano di purificare il “significato implicito” cancellando i signantia, i simboli iconici, che appaiono loro come “idoli” che vanno a interporsi fra i singoli credenti e le verità enunciate dai fondatori religiosi» 21.

Tuttavia, può accadere che in alcune situazioni, come nel caso dei sistemi operativi dei computer, le icone siano private del loro intrinseco valore simbolico e ridotte a segni di carattere puramente arbitrario. Di conseguenza, alcuni tipi di religione possono essere solo apparentemente religioni dell’immagine e della pienezza emozionale del corpo, dal momento che immagini, gesti ed effusioni sono stati ridotti a semplici segni in diretta dipendenza da una struttura intellettiva. Questo è quel che è accaduto, come vedremo, in alcune forme della religione afro-brasiliana. 19 «Comment l’Écriture, pour corriger toute superstition, oppose exclusivement le vrai Dieu à toute les idoles des païens» (J. Calvin, Development of Brazilian Civilization, University of California Press, Berkeley 1978, p. 58). 20 Naturalmente queste parole, o altre equivalenti, furono usate da altri autori prima di Turner. 21 V. Turner, Symbolic Studies, in «Annual Review Of Anthropology», vol. 4, Palo Alto (CA) 1975, p. 155.

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Il corpo e l’esperienza religiosa: i culti popolari in Brasile

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Complessità brasiliane Il caso del Brasile, se paragonato alla tendenza principale dei paesi occidentali, è a sé e merita un’attenzione in qualche misura maggiore. Lì sono presenti religioni del corpo che sono religioni di danza, di estasi e di offerta sacrificale. Sono derivate da una fusione fra tradizioni africane e cattolicesimo barocco dell’epoca coloniale. Il genere di cattolicesimo che ha prevalso nel Brasile coloniale e che, a vari livelli di sincretismo con i culti di influenza africana, è ancora oggi autorevole, venne in larga misura trasformato in “rapporto diadico” 22 fra uomini e santi, espresso mediante voti, feste, danze vere e proprie e altri rituali 23. Come è stato scritto da Gilberto Freyre, considerato il maggiore interprete della cultura brasiliana, «è stato un genere di fraternizzazione che difficilmente avrebbe potuto essere messo in atto in presenza di un qualsiasi altro tipo di cristianità che non fosse quella che prevalse in Brasile durante il suo periodo di formazione; una […] blanda forma di religione domestica, proveniente dalle cappelle delle Big Houses, le carceri, che vigilava sullo sviluppo della società brasiliana, con relazioni di tipo familiare, si potrebbe dire, esistenti fra santi e uomini, con chiese in cui si celebravano sempre feste, battesimi, matrimoni, e con insegne, santi, crismi e novene. Fu questa cristianità domestica, lirica e festosa, con i suoi santi maschili e femminili, umanamente affabili, e con le sue Madonne, madrine dei giovani, a creare i primi legami spirituali, morali ed estetici fra i neri di provenienza africana e il nucleo familiare brasiliano con la sua cultura. […] La liberazione dello schiavo, da difendere e persino da mostrare in pubblico – prima alla vigilia dell’Epifania e poi la notte di Natale, la notte di Capodanno e durnte i tre giorni di Carnevale –, le forme e gli accessori della sua cultura simbolica, idolatra e totemica, permettono di farsi un’idea davvero valida del processo di riavvicinamento fra le due culture in Brasile» 24.

Nel suo linguaggio in qualche modo fiorito, usando espressioni che non suonano più politicamente corrette, Freyre attirava l’atten22 Riguardo questo concetto, vedi G. Foster, Tzintzunzan: Mexican Peasants in a Changing World, Little Brown, Boston 1967. 23 Come non è difficile immaginare (con un piccolo aiuto da parte di Max Weber), questo tipo di religione non ha certo contribuito a un processo generalizzato di razionalizzazione del comportamento sociale e della società. 24 G. Freyre, The Masters and the Slaves: A Study in the Jürgen, 1986 (or. 1933), pp. 373-374.

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zione su un aspetto fondamentale della cultura brasiliana, con implicazioni teoriche che riguardano, fra le altre cose, la disputa sorta intorno alla tesi dell’etica protestante e dello sviluppo del capitalismo moderno. Il Brasile tradizionale, per così dire, fece la sua scelta. Scelse la festa con tutte le sue ambiguità, la festa che interpreta il rito nella sua purezza originaria, senza avere alcun altro significato intrinseco che non sia il suo stesso aver luogo e l’ammettere la coesistenza di diverse “eziologie” religiose. Questo è il reale processo che sta alla radice delle religioni sincretiche popolari brasiliane (e certamente anche di altre forme di sincretismo). La cultura della festa, come ne era fin troppo consapevole Weber, si trova in netta contrapposizione con una cultura basata sul disincanto e sulla razionalità. Perché la purezza originaria del rito equivale alla purezza originaria delle idee. Per una religione che si incentra sulla festa, è difficile applicare il concetto weberiano o, se è per questo, hegeliano di razionalità come qualità di pensiero che è cosciente di sé nella lucidità e nella riflessione. In Brasile è presente ancora oggi una coesistenza – e questo rende il Brasile, come è stato definito, una sorta di laboratorio del mondo postmoderno – di diversi tipi di religione, alcuni dei quali sono religioni danzate e quindi del corpo. Eppure, il futuro di queste religioni non è affatto certo. Perchè la spontaneità del corpo viene limitata dall’influenza di altri fattori. Mentre per alcuni interpreti, o per alcuni praticanti, l’africanità associata alle religioni del corpo presentava una connotazione positiva di “autenticità”, altri l’hanno associata a “primitività”, “immoralità” e ad altre caratteristiche “odiose”, attribuite ad alcuni miti e pratiche rituali come la macellazione sacrificale di animali. Così, alla metà del XX secolo, si manifestò un nuovo movimento religioso il cui intento era quello di “purificare” e “civilizzare” le religioni del Brasile, soggette all’influenza africana e indiana, sottoponendole a un processo di reinterpretazione basato in gran parte su principi teologici estratti dagli scritti di Allan Kardec, il “codificatore” francese della reinterpretazione data allo spiritismo nel XIX secolo in termini di credenze asiatiche e di dottrina scientista. Il nuovo movimento adottò un nome afro-brasiliano, Umbanda. Non è stato un movimento compatto, essendo ogni congregazione autonoma e quindi in grado di operare le proprie scelte fra le varie credenze e pratiche da reinterpretare. In senso tipico-ideale, Umbanda ha fatto sua la nozione di progresso spirituale. Postula che l’universo è composto di due piani di realtà, spirituale e materiale. Il

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secondo è animato da esseri provenienti dal passato che ritornano periodicamente, o si reincarnano seguendo la loro missione trascendentale. Si ritiene che sia possibile la comunicazione fra i credenti sul piano materiale e coloro che si trovano nel mondo dello spirito. Umbanda ridefinisce lo stato di trance dei tradizionali culti afro-brasiliani in termini medianici, trasformandolo in una sorta di possessione verbale in cui la normale personalità del medium viene sostituita da quella di una “entità” disposta a offrire consigli e indicazioni utili per eliminare le cause di afflizione, materiale e/o morale. Umbanda, come si evince dal titolo del libro di uno dei suoi eminenti studiosi, è «la morte bianca della stregoneria nera» 25. Si stanno espropriando l’Africa e le sue tradizioni, perché servano la causa dell’unità e del progresso morale e materiale della nazione brasiliana. I fondatori di Umbanda, tuttavia, non hanno affatto previsto che un numero crescente di devoti dei gruppi afro-brasiliani, capeggiati soprattutto da tradizionali autorità afro-brasiliane, che agivano come mediatori religiosi – ma con l’assistenza tecnica di alcuni antropologi e sociologi, sia stranieri che brasiliani –, avrebbero, in nome di una “autenticità” africana, creato un’alternativa religiosa rivitalizzata, in grado di competere, e forse di supplire alle loro, sul mercato religioso delle grandi città del Sudest brasiliano. Questo è stato un ritorno clamoroso alle tradizioni specificamente africane. La dichiarata integrazione sincretica di Umbanda è arrivata a essere cosiderata una contaminazione della purezza primitiva idealizzata delle credenze e dei riti africani.

La Santa Alleanza L’appartenenza a questi gruppi rivitalizzati afro-brasiliani viene ora offerta a una massa di consumatori di beni e servizi di una tipologia religiosa indipendente dalle origini etniche e razziali da cui essi provengono. È stata definita la disetnizzazione dell’etnicità 26. L’etnici25

R. Ortiz, A Morte Branca do Feiticeiro Negro, Vozes, Petrópolis, R. J. (Brazil)

1978. 26 In merito a questi argomenti, vedi, fra gli altri, R. Motta, L’Invention de l’Afrique dans le Candomblé du Brésil, in «Storia, Antropologia e Scienze del Linguaggio», anno IX, fascicolo 2-3 (1994), pp. 65-85, e ID., Ethnicity, Purity, the Market and Syncretism in Afro-Brazilian Cults, in S.M. Greenfield - A. Droogers (edd.), Reinventing Religions: Syncretism and Transformation in Africa and the Americas, Rowman and Littlefield, Lanham (Maryland) 2001, pp. 71-85.

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tà non è più una caratteristica degli idolatri, ma rimane quale marchio di “autenticità” della merce religiosa che viene offerta a persone di ogni provenienza, razziale e nazionale. Questi consumatori non vengono in nessun modo considerati come partecipanti a movimenti etnici. Se in Brasile esistono movimenti politici di gente di colore, in genere sono circoscritti a gruppi di intellettuali e artisti. E il loro atteggiamento verso gli esperti, e quello degli esperti verso di loro, è, nella migliore delle ipotesi, ambivalente. Senza recidere i loro legami con i maggiori gruppi sacerdotali di Bahia (o di Recife) – la fonte da cui trarre la loro legittimità sul mercato religioso –, Candomblé, la religione afro-brasiliana per antonomasia, si è trasformata in una religione universalistica, che si rivolge, senza discriminazioni di razza o di origini etniche, a tutti i brasiliani, e in realtà a tutta la gente. Si è andata diffondendo in tutto il Brasile e oltre i suoi confini, come alternativa ad altre chiese e sette, compreso il cattolicesimo romano, che qualcuno aveva dichiarato essere la vera religione della popolazione brasiliana. In concomitanza con questa diffusione, le religioni afro-brasiliane hanno subito una serie di cambiamenti, in quanto sono state codificate e motivate razionalmente da sociologi e antropologi, che spesso tendono a valutare i movimenti religiosi in base alla loro conformità ai criteri che essi considerano esempi tipici di modernità e di progressività. Malgrado la loro manifesta natura sacrificale, le religioni afro-brasiliane vantano una indubbia concezione della modernità, desumibile, fra le altre cose, dal loro rifiuto delle nozioni di colpa e di peccato. Grazie agli scritti di sociologi e di antropologi, la religione Candomblé ha ricevuto reinterpretazioni teologiche assai razionalizzate. Convegni e conferenze, a cui hanno partecipato sia ricercatori che sacerdoti, sono serviti da concili ecumenici durante i quali la fede è stata definita e manifestata. Ciò, in un certo senso, rappresenta l’attuazione del progetto positivista. Se la “religion de l’humanité” non è ancora pienamente riuscita a prendere il posto delle religioni che affondano le loro radici in uno scenario teologico, è compito di sociologi e antropologi provvedere alla temporanea incombenza di gestire quel che di esse resta. Questo è quel che, in Brasile, stanno mettendo in pratica le scienze sociali. Sociologi e antropologi hanno interpretato e valutato i movimenti religiosi nei termini di una loro relazione con la “modernità”. Un nuovo tipo di sincretismo è risultato dal modo in cui gli scienziati sociali hanno trattato le religioni afro-brasiliane e immaginato per esse una teologia completa, assai razionalizzata. A causa di questa trasformazione, Candomblé e i culti a essa collegati passano, per usare un

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lessico ispirato a Victor Turner, da una forma di religione fortemente iconofila e somatofila a una principalmente logofila (se non del tutto iconoclasta), sempre più dipendente dalle manipolazioni socio-antropo-teologiche di intellettuali che ritengono di dover conferire (per usare l’espressione di Claude Lévi-Strauss nella sua disputa con JeanPaul Sartre) il “dono dell’intelligibilità” a chi pratica questi culti 27. Le religioni afro-brasiliane consistevano, in fondo, in un sistema di manipolazione magica del mondo. I fedeli stabilivano rapporti personali di dipendenza con le loro divinità, alle quali offrivano animali, sacrificati su altari di pietra. Offrivano anche i loro corpi, perché vi abitassero le divinità, specialmente durante le danze o negli stati di trance, in cui la personalità divina si impossessava di quella umana. Niente potrebbe essere più lontano da questa religione che un qualsiasi tentativo di razionalizzazione etica o ascetica. I devoti non davano alcuna importanza a principi o a concetti astratti di bene e di male, categorie che venivano negoziate a seconda delle circostanze. Né esisteva un corpus di etica sociale in questa forma di religione, il cui approccio è tipicamente e fondamentalmente “naturalistico”, non-ascetico e conformista riguardo allo status quo. Qui ci troviamo al polo opposto rispetto a religioni dell’astrazione e della razionalità, come venivano considerate da Marx, Weber e dai loro epigoni. Un’alleanza, santa e accademica, si è quindi creata in Brasile fra i devoti afro-brasiliani e gli scienziati sociali che definiscono e illustrano i valori della modernità. È così che i ricercatori hanno dato a Candomblé – che, naturalmente, è sempre stata una religione realmente in essere con i suoi riti e i suoi miti – un sistema teologico ben strutturato che le permette di diventare, per così dire, una religione autonoma, chiaramente consapevole della posizione singolare e indipendente che occupa fra le altre religioni, che concorrono con essa nell’attirare proseliti. Gli studiosi sono arrivati persino al punto di creare un’intera, inventata Africa ad usum Candomblé. Le conferenze accademiche hanno giocato un importante ruolo nell’elaborazione di una teologia Candomblé, e nella sua trasmissione ai religiosi e ai seguaci di questa religione che, in occasione di questi meeting, vengono a contatto con i ricercatori nella più totale libertà, eguaglianza e fraternità. 27 C.

Lévi-Strauss, Structural Anthropology, Doubleday Anchor Books, New York

1967.

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Considerazioni finali Si potrebbe a questo punto sollevare la questione se, sottoponendosi a queste trasformazioni, le religioni afro-brasiliane siano state soggette a un processo di “decomposizione” piuttosto che di “ricomposizione”. Perché nello stesso modo in cui, secondo Nietzsche, Euripide e il suo demone, Socrate, hanno portato all’irreparabile perdita dello spirito della tragedia e alla sua sostituzione con il razionalismo e il moralismo, l’acquisizione di una teologia razionalizzata da parte degli afro-brasiliani ha significato per loro la perdita della forza religiosa del corpo, con le sue emozioni, le sue passioni e i suoi fluidi. I gesti e la danza in sé si trasformano in pura manifestazione, priva, o quasi, di intrinseca forza simbolica. Ma non dobbiamo credere che tutto questo sia accaduto a seguito di una cospirazione degli studiosi. Perché gli scienziati sociali, a loro modo, riflettono il processo di razionalizzazione di una società che ha subìto un rapido processo di modernizzazione e di sviluppo 28. Un’ulteriore questione, per niente circoscritta al solo Brasile, riguarda il futuro, la reale possibilità di sopravvivenza e di rinascita delle religioni del corpo, con tutto il suo patrimonio istintivo e passionale, in un mondo di razionalità globalizzata. Allora l’affermazione di san Paolo riguardo alla logikè latréia non è affatto reversibile? Qualsiasi cosa vorremmo che accadesse, non dovremmo abbandonarci a illusioni utopiche. Dobbiamo riconoscere che in questi tempi assistiamo, malgrado il postmodernismo, a una rapida diffusione di quel tipo di razionalità messa in evidenza nella sociologia di Max Weber. Come può il corpo inserirsi in questo contesto? È in grado, quale fonte e sede di espressione religiosa, di sopravvivere come qualcosa di più di semplici vestigia? Possono i suoi gesti, nel campo della religione, evitare di essere ridotti a un sistema di segni 29, o,

28 Ciò, tuttavia, non preclude la sopravvivenza, per un periodo di tempo imprecisato, di nuclei pre-moderni di devoti, latori dell’antica religione del corpo. 29 Michel Leiris, acuto osservatore e appassionato delle “religioni danzate” dell’Africa e dell’America Latina, era perfettamente consapevole dell’incompatibilità fra le religioni del corpo e la modernità occidentale. Perciò osserva: «Essere un altro fuori di sé, superare se stessi in uno stato di eccitazione o di trance, non è una delle necessità fondamentali di un uomo? Non dovremmo, quindi, dare credito a varie società, che non si sono affatto industrializzate o solo fino a un certo livello, perché si sono procurate i mezzi per soddisfare questa esigenza nel modo più diretto tangibile, cosa che nes-

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usando le parole attribuite all’ex cardinale Ratzinger, oggi papa Benedetto XVI, allo stato di “pantomime”, eseguite nelle chiese e nei templi con il pretesto di un ritorno all’emozione e alla spontaneità? Persino in Brasile, dove la religione del corpo sopravvive ancora fino a un certo punto, il corpo viene spesso trasformato in un sistema di segni, privi della pienezza simbolica delle danze e degli stati di trance di derivazione africana e della irradiazione dell’immagine nella cristianità medievale o barocca. La questione riguardo alla possibilità di un ritorno al corpo è in definitiva legata a concezioni latenti del postmodernismo. In questo saggio non c’è posto per un dibattito su cosa componga la sua essenza. È certo che il muro di Berlino è caduto, con tutto quello che rappresentava. Ma non così Wall Street 30 e tutto quel che significa 31. Se la modernità è caratterizzata (fra le altre cose) da una diffusione della razionalità e del capitalismo, allora è certo che non ha perso vigore. Al contrario, sembra che non ci siano limiti alla sua diffusione. Perciò, finché la tendenza del nostro tempo verso la razionalità globalizzata è probabile che perduri, le religioni del corpo, nella misura in cui nascono, usando le parole di Tönnies, dalla volontà naturale o dall’azione affettiva di Weber, sembrano essere destinate a indebolirsi, ovunque non siano già scomparse.

Testi di consultazione R. BASTIDE, Color, Racism, and Christianity, in J.H. FRANKLIN (ed.), Color and Race, Beacon Press, Boston 1969, pp. 34-49.

suna organizzazione sociale basata puramente sulla produzione e quindi chiusa a tutto quel che è irrazionalità, sarebbe in grado di fare?» (M. Leiris, Preface, in A. Métraux, Le Vaudou Haïtien, Gallimard, Paris 1958, p. 10). 30 Nonostante le World Towers. 31 E certamente significa, con le parole di Marx ed Engels che sono così rappresentative del nostro tempo (forse anche più di così) come del tempo in cui furono pubblicate per la prima volta, la diffusione della razionalità o, se si preferisce, dello spirito del capitalismo, che «ha annegato, nelle acque gelide del calcolo egoistico, l’estasi più celestiale del fervore religioso, la passione cavalleresca, il sentimentalismo filisteo. […] Tutto quel che è solido si disperde nell’aria e tutto quel che è sacro è profanato» (K. Marx - F. Engels, Manifesto of the Communist Party [or. 1848], in K. Marx - F. Engels, Basic Writings on Politics and Philosophy, L.S. Feuer [ed.], Doubleday [Anchor Books], Garden City [NY] 1959, pp. 9-10).

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ID., Le Prochain et le Lointain, L’Harmattan, Paris 2001. R. BULTMANN, Theologie des Neuen Testaments, Mohr Siebeck, Tübingen 1984. J. CALVIN, Development of Brazilian Civilization, University of California Press, Berkeley 1978. J. HABERMAS, L’Institution Chrétienne: Livres Premier et Second, Éditions Farel, Marne-la-Vallée 1978 (or. 1541).

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G. FOSTER, Tzintzunzan: Mexican Peasants in a Changing World, Little Brown, Boston 1967. G. FREYRE, The Masters and the Slaves: A Study in the Jürgen, 1986 (or. 1933). ID., Le Discours Philosophique de la Modernité, Gallimard, Paris 1988. G.W.F. HEGEL, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, v. XX, Werke, vol. III, Frankfurt 1971, as quoted by Habermas, 1988. M. LEIRIS, Preface, in A. MÉTRAUX, Le Vaudou Haïtien, Gallimard, Paris 1958, pp. 7-10. C. LÉVI-STRAUSS, Structural Anthropology, Doubleday Anchor Books, New York 1967. K. MARX - F. ENGELS, Manifesto of the Communist Party (or. 1848), in K. MARX - F. ENGELS, Basic Writings on Politics and Philosophy, L.S. FEUER (ed.), Doubleday (Anchor Books), Garden City (NY) 1959. R. MOTTA, L’Invention de l’Afrique dans le Candomblé du Brésil, in «Storia, Antropologia e Scienze del Linguaggio», anno IX, fascicolo 2-3, (1994), pp. 65-85. ID., Ethnicity, Purity, the Market and Syncretism in Afro-Brazilian Cults, in S.M. GREENFIELD - A. DROOGERS (edd.), Reinventing Religions: Syncretism and Transformation in Africa and the Americas, Rowman and Littlefield, Lanham (Maryland) 2001, pp. 71-85. ID., Body Trance and Word Trance in Brazilian Religion, in B.M. PIRANI - I. VARGA (edd.), Bodily Order, Mind, Emotion and Social Memory, Current Sociology, vol. 3, n. 2, monography 1, 2005. F. NIETZSCHE, The Birth of Tragedy and The Case of Wagner, translated by W. Kaufman, Vintage Books, New York 1967 (or. 1872).

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Il corpo e l’esperienza religiosa: i culti popolari in Brasile

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R. ORTIZ, A Morte Branca do Feiticeiro Negro, Vozes, Petrópolis, R. J. (Brazil) 1978. G. ROUGET, La Musique et la Transe: Esquisse d’une Théorie Générale des Relations de la Musique et de la Possession, Gallimard, Paris 1980. N. SOMBART, Einige Entscheidende Theoretiker, in A. WEBER (ed.), Einführung in die Soziologie, Pipper Verlag, München 1958. F. TÖNNIES, Community & Society, translated by C.P. Loomis, New Brunswick (NJ) 1978 (Transaction Publishers, 1988).

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V. TURNER, Symbolic Studies, in «Annual Review Of Anthropology», vol. 4, Palo Alto (CA) 1975, pp. 145-162. M. WEBER, Economy and Society, G. ROTH - C. WITTICH (edd.), 2 voll., University of California Press, Berkeley 1978. ID., The Protestant Ethic and the Spirit of Capitalism, translated by T. Parsons, Scribner’s, New York 1958.

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Alessandro Olivieri Pennesi

Corpo e religione nei sincretismi: il New Age

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di

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Stiamo nuotando in un mare di consapevolezza New Age, olistica e spirituale, che sembra essere straripata oltre gli argini delle vecchie credenze e della coscienza limitata. La prova è ovunque: il pensiero della Nuova Era sta diventando la corrente principale. (Brian Weiss, Messaggi dai Maestri, Milano 2000, p. 12)

Per una definizione del New Age 1 Il New Age presenta confini difficili da definire, in quanto non ha un fondatore, non ci sono capi carismatici, non ci sono leader riconosciuti; negli Stati Uniti è riferita al New Age l’espressione metanetwork, vale a dire una rete di reti, di collegamenti a cui fanno riferimento autori, ricercatori spirituali, scienziati. Gli ambiti nei quali si diffonde vanno dall’educazione alla musica, che ne è l’espressione più commerciale ma con un suo peso, una sua incidenza, all’economia, alle tecniche di vendita e di gestione del personale, al mondo delle terapie alternative o non convenzionali. Il New Age tende a caratterizzarsi alla stregua di un movimento culturale. Un modo alter-

1 Il termine sincretismo si è diffuso in epoca moderna grazie soprattutto al New Age; tuttavia, l’effettivo significato del termine non va confuso con l’interpretazione che questo movimento gli attribuisce. Infatti, mentre il New Age afferma che la parte “migliore” di ogni religione è costituita dal suo lato esoterico, segreto e misterico, l’accezione più moderna di “sincretismo” indica semplicemente che il “substrato” di tutte le religioni è unico; agli effetti del sincretismo non è perciò importante a quale credo si appartenga, ma l’effettivo impegno nella ricerca interiore all’interno della religione o dottrina nella quale si è stabiliti, per scelta o cultura. Il sincretismo religioso, infatti, afferma la sostanziale unità di tutte le fedi e le scuole di pensiero, al di là dei dogmi e delle differenze formali ed esteriori; secondo la visione sincretista, i concetti e principi fondanti di ogni credo (quali ad esempio la paternità di Dio e la fratellanza degli uomini, il valore e l’importanza della preghiera, l’amore universale, ecc.) sono gli unici e gli stessi (cf. Wikipedia).

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Corpo e religione nei sincretismi: il New Age

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nativo di vedere e percepire la realtà. Il New Age intende collegarsi alle ere astrologiche: ci troviamo oggi al termine dell’era astrologica dei Pesci che ha caratterizzato gli ultimi duemila anni di Storia. Con il passaggio del Millennio, si è entrati nell’Era dell’Acquario, sotto l’influsso del segno zodiacale dell’Acquario 2. Ciò sta a significare che si manifesteranno dei radicali cambiamenti, trasformazioni importanti a livello planetario. Si annuncia, con l’avvento dell’Acquario, un’era nuova, un uomo nuovo, una grande religione mondiale, universale, frutto di una sintesi o, meglio, di un sincretismo di tutte le religioni esistenti, un Nuovo Ordine mondiale a livello economico, politico e sociale. Il testo base che ha annunciato l’era nuova è della sociologa americana Marilyn Ferguson, che sul finire degli anni ’70 scrisse la Cospirazione dell’Acquario con il sottotitolo esplicativo: Trasformazioni personali e sociali negli anni ’80. Prendiamo in considerazione i tratti salienti del New Age: innanzi tutto si fa appello a strutture di carattere scientifico introducendo il concetto di mutamento di paradigma e nuovo paradigma, mutuato da un’espressione di Thomas Khun contenuta nel volume La struttura delle rivoluzioni scientifiche che egli scrisse negli anni ’60. Ne consegue che il percorso dell’umanità presenterebbe dei passaggi anche a livello conoscitivo non graduali; ci troviamo dinanzi a modelli che vengono sostituiti, modelli concernenti il livello politico, sociale, terapeutico, in generale un po’ in tutti i vari ambiti del sapere. L’altro aspetto sensibilmente presente nel New Age è il potente fascino per l’oriente, per le religioni orientali, quindi l’induismo, il buddhismo, il taoismo, alcune loro particolari manifestazioni; di qui le tecniche legate a queste forme religiose, come la meditazione Zen, lo Yoga, la Meditazione Trascendentale, il Tai Chi. Un terzo aspetto è il riferimento alla cosiddetta “quarta forza” della psicologia; siamo, infatti, passati dal comportamentismo alla psicologia freudiana, alla psicologia umanistica, per arrivare oggi alla nuova psicologia transpersonale. Esponenti principali, in tale ambito, sono C. Gustav Jung, A. Maslow con la sua psicologia delle esperienze di vertice (peak experiences) così chiamate, e R. Assagioli. A partire dalla psicologia del profondo, si giunge con Maslow alla psicologia delle “vette”, dei vertici, degli stati mistici, degli stati cosiddetti alterati o modificati di coscienza. 2 Celebre il riferimento al musical americano Hair con il suo brano musicale Aquarius.

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Alessandro Olivieri Pennesi

Alcuni di questi studiosi, come lo psichiatra S. Grof, hanno fatto esperienze anche con gli allucinogeni (LSD) per modificare gli stati dell’io. Tra gli autori a cui il New Age si ispira vi è anche un antropologo americano scomparso recentemente, Carlos Castaneda, che in diversi suoi libri, tradotti anche in italiano, tra i quali A scuola dallo Stregone, illustra le esperienze sulla modificazione degli stati di coscienza attraverso le droghe e le tecniche sciamaniche degli indiani d’America. La Psicosintesi del medico italiano Roberto Assagioli, già menzionato, compare anch’essa come teoria di riferimento e manifesta particolari affinità con la Teosofia di M.me Blavatsky. La caratteristica del New Age è quella, quindi, di servirsi di svariati apporti, è sincretista, potremmo dire una sorta di “ombrello” che copre una varietà di espressioni. Qualche studioso definisce il New Age come un grande supermarket della religiosità, nel quale si può entrare e prendere quel che occorre, ed è ritenuto utile per la trasformazione dell’“uomo nascente”, espressione cara ad un noto esponente del New Age in Italia 3. Il New Age è essenzialmente una sorta di umanesimo che pone al centro l’uomo, con le sue potenzialità, e dove Dio viene messo da parte, e se compare è sempre in “funzione di”, non è l’oggetto di adorazione, di preghiera, ma mero strumento.

I precurosori del New Age Le radici del fenomeno di quest’inizio di millennio vanno ricercate nell’occultismo ottocentesco, in particolare nella corrente della cosiddetta Teosofia di M.me Blavatsky, una veggente russa, la quale, a seguito di diverse esperienze esoteriche, fonda a New York nel 1875 la Società Teosofica, dalla quale sono poi nate altre organizzazioni, tra cui l’Antroposofia di R. Steiner e l’Associazione dei Triangoli. Quest’ultima, ad opera di A.A. Bailey, una dissidente della Teosofia che scrisse il libro precursore della Nuova Era: Il Ritorno del Cristo, del 1948, sotto la dettatura di un “Maestro della Gerarchia”. Altre ulteriori suggestioni provengono dall’esoterismo occidentale 4, ma anche da tutto il filone magico che fa riferimento alle dottrine

3 Lo scrittore e poeta Marco Guzzi, già direttore della rivista new age italiana «Olis». 4 Per mezzo di Emanuel Swedenborg (1688-1772), il conte di Saint Germain (1698-?), gli alchimisti.

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Corpo e religione nei sincretismi: il New Age

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tantriche dell’induismo. Si ripropone oggi anche l’antica gnosi, al punto che viene riportato in auge un Cristo gnostico 5, un illuminato, un uomo che ha raggiunto diversi gradi di iniziazione e attraverso l’Illuminazione è riuscito a portare un messaggio di salvezza, ma in questo caso non si tratta di una salvezza per fede, come il cristianesimo professa, bensì una “salvezza” attraverso la conoscenza.

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Aspetti della galassia New Age La cultura del corpo, le terapie dolci, la visione profonda del Sé, la concezione ecologica, l’amore per i colori, i suoni, i cristalli, le energie, la meditazione, prendono lo spunto, sostiene A.N. Terrin, dalla nuova situazione epistemologica odierna, inaugurata dalla fisica quantistica e dalla sua alleanza con il mondo orientale, e in particolare con il tantrismo 6. Il New Age tenta di mettere in sintonia il corpo con lo spirito e invita a controllare di più il corpo tramite lo spirito e lo spirito attraverso il corpo per portare armonia. La visione meccanicistica e newtoninana del mondo, afferma sempre Terrin, aveva operato una separazione artificiale del corpo e dello spirito; merito della Nuova Era è stato l’aver messo di nuovo lo spirito entro il corpo e aver portato a una visione – di evidente ispirazione aristotelica e tantrica 7 –

5 Vi è una rivisitazione dei Vangeli apocrifi e la ricerca di nuove rivelazioni tramite il channelling. 6 Sulle terapie dolci un esempio classico è S. MacLaine, Cercarsi dentro. Guida alla trasformazione interiore, Milano 1989. Sui legami tra fisica quantistica e tradizioni orientali si veda il volume di F. Capra, Il Tao della Fisica, Adelphi, Milano 1989. 7 Viene chiamata così una forma dell’induismo che si basa essenzialmente sui Tantra (i Libri) composti fra l’VIII e il XV secolo della nostra era. Si dà come scopo la salvezza mediante la conoscenza esoterica delle leggi della natura. I 64 Tantra sono soprattutto dei manuali di magia e di occultismo; essi descrivono lettere, suoni, formule, incantesimi “miracolosi”, capaci di agire sugli uomini e sulle cose; essi insistono in particolare sull’unione mistica della divinità con se stessa, accoppiamento dal quale è nato il mondo. Numerosi dipinti rappresentano questa unione mistica sotto la forma di un uomo e di una donna praticanti il coito (maithuna); sarebbe un controsenso interpretare queste opere come rappresentazioni coscientemente erotiche. Il “tantrismo di destra” distingue nel corpo umano 6 centri di energia (i cakra) raffigurati da fiori di loto; il centro inferiore è la sede della dea serpente Kundalini, simbolo dell’energia cosmica. Con un metodo ispirato dallo yoga, il saggio “sveglia Kundalini” e la fa arrivare al centro più elevato, sede di Siva; a questo livello si opera l’unione mistica che riempie il saggio di una felicità indicibile (questa pratica, il laya-yoga o “yoga di assorbimento”, è una forma simbolica dell’attività sessuale). Il “tantrismo di sinistra” (vamacara) non utilizza lo

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per cui il corpo e la mente sono inscindibili: il corpo non è altro dallo spirito e lo spirito non può essere sano se il corpo non è attraversato da energia positiva 8. Le tecniche psicosomatiche costituiscono, per alcuni osservatori, il campo più ampio in cui si esercita e trova credito il New Age.

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La via della salute e della salvezza La salute è la salvezza, proprio come la malattia è disarmonia, frammentazione del proprio sé. Salute e salvezza che generalmente riferiamo rispettivamente al corpo e allo spirito nel New Age si uniscono e si dissolvono; da questa prospettiva sorge il network terapeutico, da considerarsi tra i più vasti settori della Nuova Era. In esso si possono individuare quattro orientamenti: a) il mondo delle medicine cosiddette alternative (o medicine dolci o non convenzionali). Il fisico F. Capra nel suo saggio Il punto di svolta delinea questa nuova visione della salute riallacciandosi alle grandi tradizioni orientali e alle guarigioni sciamaniche. Oggi assistiamo ai fenomeni di guarigione mediante lo spirito, pratica caratteristica del variegato mondo pentecostale cristiano che presenta sorprendenti paralleli con le forme terapeutiche diffuse in ambito New Age, ad esempio la pratica reiki. La tecnica reiki è un metodo di guarigione basato sull’utilizzo delle mani per dare energia reiki “canalizzata”, proveniente da una supposta energia vitale universale. La rivista americana «Yoga Journal» fornisce la seguente definizione: «Il Reiki può essere considerato come l’arte di attivare, applicare ed equilibrare l’energia della forza vitale universale che risiede in ogni essere vivente, sia animale sia vegetale». Come la tecnica analoga, “Tocco terapeutico” (Therapeutic Touch), il Reiki è praticato ormai in varie cliniche nel mondo. Il Reiki riguarda una forza o energia che viene variamente espressa come chi, ki, qi o prana (si osservi il ki al termine della parola “Reiki”). La credenza in questa forza, deyoga. Gli iniziati partecipano per prima cosa ad un’orgia sessuale collettiva al fine di provare la vanità delle passioni e di sfuggire alla loro tirannia. Le loro pratiche assomigliano a quelle dei sakta. 8 James Redfield con il suo romanzo La profezia di Celestino (tr. it., Corbaccio, Milano 1994) introduce il New Age nel mondo delle illuminazioni che renderanno l’uomo pura vibrazione e invisibile.

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Corpo e religione nei sincretismi: il New Age

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finita come forza vitale, forza universale, forza sanante, energia universale, energia guaritrice, o una combinazione di questi termini, è alla base del Reiki. Marcia Montenegro, nel suo studio Reiki: Healing with the force, in merito a tale energia riporta l’affermazione di un praticante reiki: «puoi chiamarlo Dio, oppure chi, prana. Tu puoi chiamarlo Amore». Pertanto anche se tale forza è considerata Dio, si tratta in ogni caso di un’energia da manipolare ed usare. b) Le ginnastiche dolci. A partire dall’euritmia di Rudolf Steiner, fondatore della Società Antroposofia, il New Age promuove la tecnica dei massaggi (californiano, reichiano, Alexander, shiatzu), le danze sacre di Gurdjieff e Findhorn. È nei termini di apertura al sacro che, in ambito New Age, si riscoprono le danze introdotte dall’esoterista russo di origine armena, G.I. Gurdjieff. La pratica dei “movimenti”, così definita, mira a raggiungere una nuova consapevolezza dei nostri atteggiamenti fisici che ci definiscono, a riscoprire una presenza dell’essere attraverso il riequilibrio del corpo e una messa in ordine delle sue funzioni. I movimenti dunque si indirizzano all’insieme del nostro essere attraverso molti mezzi differenti. Il movimento definito “i cerchi”, che viene eseguito da seduti, consente di raggiungere un silenzio interiore; i movimenti di preghiera conducono al di sopra della “condizione umana” attraverso la bellezza di gesti dal significato profondo. Non intendono soddisfare un mero senso estetico, quanto liberare energie con l’aiuto di posture appropriate. I movimenti definiti come “Moltiplicazioni” si basano sulla legge del tre e sulla legge del sette, che, in conformità all’insegnamento esoterico, governano il mondo creato. I danzatori si muovono lungo traiettorie matematiche, in cui il significato del loro posto, e conseguentemente del loro ruolo, è determinato dalla legge che si esprime. Alla base delle varietà di movimenti vi è una vera scienza sacra, che apre ad altre dimensioni passando attraverso un lungo processo che consiste nel lasciare andare lo stato di tensione che compare a ogni istante nelle varie forme: eccesso di volontà, agitazione della mente, desiderio di risultato, o una qualunque paura; in tal modo ci si apre a un’altra forza di attrazione che colloca “tra cielo e terra”, punto d’incontro, mediazione tra due mondi, quello umano e un altro da cui proviene l’energia più elevata che possiamo conoscere. Un’energia in grado di trasformare, liberare, collocando in uno stato che la mistica cristiana definisce “di grazia”. La danza pertanto diviene lo strumento di una energia universale trattenuta

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per un istante nel corpo. Nel riconoscimento del corpo come ciò che riceve e trasforma tutte le energie che passano attraverso di esso, e nel ricercare l’equilibrio, la misura e il perfezionamento della sua stessa sostanza, G.I. Gurdjieff ha fatto della scienza dei movimenti una delle basi del suo insegnamento. Un interessante repertorio di Danze Sacre lo ritroviamo anche presso la celebre Comunità acquariana di Findhorn (Scozia), che nel 1976 riceve in una sorta di eredità spirituale il lavoro del professor Bernard Wosien dell’Università di Monaco di Baviera: ballerino e coreografo, conoscitore di danze tradizionali di molti Paesi del mondo da lui visitati, Wosien ha l’idea di mettere insieme delle danze che aiutino a sviluppare una consapevolezza spirituale e a far gioire l’anima. Raccoglie così varie coreografie che hanno la caratteristica di svilupparsi quando le persone si prendono per mano in cerchio, e lui stesso ne crea di ulteriori accompagnate da musica classica (“danze di meditazione”); il nome che viene naturale per queste danze che si prefiggono di risvegliare la naturale armonia con gli altri e col cosmo è Heilige Tanze, Danze Sacre appunto, oggi conosciute per lo più come le Danze Sacre di Findhorn 9. L’esperienza spirituale della Danza Sacra, in ambiente New Age, è vissuta non solo da chi la pratica direttamente, ma viene anche trasmessa agli spettatori, in quanto si crea un campo energetico di mutazione dove molte energie scorrono dalla Terra al Cielo e dal Cielo alla Terra, e coinvolgono tutti i presenti; nell’esperienza della danza vissuta dal punto di vista interiore s’insegna a vivere realmente il corpo come Tempio dell’Anima, ed eseguendo dei movimenti scanditi da una ritmicità che richiama quello dei rituali cerimoniali, i new agers si accordano al Ritmo Eterno dell’Universo, con il risultato di sintonizzare Mente, Cuore e Corpo alla Forza Unica che si cela dietro tutte le cose create. c) Le psicotecniche che mirano a modificare la coscienza e a sperimentare più elevate esperienze interiori. Si possono menzionare tra gli altri, il training autogeno di Schultz, il ribirthing di Orr, la P.N.L. di Bandler e Grinder, la cristalloterapia, la respirazione olotropica di Grof, le tecniche di risveglio della Kundalini, firewalking (camminata su carboni ardenti) riproposta da Antony Robbins. In tale ambito rientra

9 Per un’introduzione alla conoscenza della comunità di Findhorn si veda P. Giovetti, Findhorn. Un modello di vita per il Duemila, Ed. Mediterranee, Roma 1990.

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anche il controverso fenomeno del channelling, che metterebbe in contatto con entità disincarnate, al fine di ottenere guarigioni, superare lo stress, potenziare la creatività e la terapia R. (terapia della reincarnazione). Attraverso gli scritti dello psichiatra statunitense Brian Weiss e le autrici italiane Paola Giovetti e Manuela Pompas l’antica dottrina della reincarnazione viene modificata sostanzialmente al fine di raggiungere un autoperfezionamento tramite la regressione ipnotica in cui si sperimentano gli innumerevoli cicli di morte e rinascita. d) Le meditazioni. Il quarto campo delle terapie New Age include tecniche utilizzate dai più come mere forme di rilassamento profondo: lo Zen, la Meditazione Trascendentale, il Tai-Chi. Tra gli elementi che accomunano le varie forme di meditazione, possiamo individuare le tecniche di respirazione (pranayama nella tradizione yogica), la recita dei mantra, la concentrazione sui chakra. L’insegnamento sui centri di energia sottile, o chakra, risponde a una ben precisa visione nella quale l’uomo, afferma Antonio Gentili, maestro di meditazione profonda, è chiamato all’autorealizzazione attraverso la conoscenza e lo sviluppo delle proprie potenzialità, in un’interazione continua con la sfera cosmica e divina. L’individuo si presenta come ricettacolo e fonte di energia, in grado di assorbire, ravvivare e trasmettere forza vitale, detta prana. Ed è al concetto di prana che si rifà la sorprendente esperienza di Jasmuheen 10, nota in Italia attraverso la Scuola del Respiro di Paolo Cericola. Australiana di nascita, ma di ascendenza norvegese, Jasmuheen è molto lontana dall’idea comune che si ha di un’asceta dedito alla mortificazione del corpo. È una donna attraente che sembra molto più giovane della sua età anagrafica, madre di due figlie oramai adulte. Jasmuheen afferma di trarre alimento direttamente dal prana, o energia fotonica, attraverso un processo simile alla fotosintesi; ma l’essenza del messaggio di cui si fa portatrice non è tanto il superamento del bisogno di cibo, quanto la liberazione dagli schemi mentali che soffocano le nostre potenzialità, rendendo difficile l’incontro di ognuno con l’essere divino interiore. Jasmuheen sarebbe arrivata a questi sorprendenti risultati dopo aver vissuto per molti anni in ritiro, meditando e studiando le filosofie orientali.

10 Cf.

Jasmuheen, Nutrirsi di Luce, Ed. Mediterranee, Roma 1998.

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L’esperienza del sacro in una religiosità sincretista

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Il New Age non è precisamente una religione, ma è estremamente interessato a ciò che è chiamato “divino”. L’essenza del New Age è la libera associazione di varie attività, idee e persone a cui si può applicare questo termine. L’homo religiosus della New Age è uno gnostico moderno che tenta di vivere un’esperienza transpersonale nel quadro di una religiosità cosmica sincretista. Sebbene l’immensa varietà in seno al New Age, si possono individuare alcuni punti comuni: – il cosmo è un tutto organico; – è animato da un’Energia, che viene anche identificata come Anima o Spirito; – si crede molto nella mediazione di varie entità spirituali. Gli esseri umani sono capaci di ascendere a sfere superiori invisibili e di controllare la propria vita oltre la morte; – si sostiene l’esistenza di una “conoscenza perenne” che è antecedente e superiore a tutte le religioni e culture; – le persone si mettono alla scuola di maestri illuminati o asceti.

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Corpo e religione nei sincretismi: il New Age

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Corpo, religione e società di

Roberto Cipriani

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Premessa C’è una caratteristica che è peculiare del corpo umano e che lo rende un elemento dotato di un che di divino e di perpetuo allo stesso tempo: esso è in grado di riprodursi all’infinito – lo fa da almeno tre milioni e mezzo di anni, come testimonia il fossile di ominide femminile denominato Lucy, ritrovato in due esemplari nell’Africa centrale – e ancora lo farà per molto tempo, senza soluzione di continuità nella sua attività più significativa e pregna di conseguenze durature. Date queste peculiarità del corpo la religione, anch’essa vocata alla dimensione soprannaturale e a quella dell’eternità, non poteva e non può essere del tutto estranea alle numerose sollecitazioni legate alla natura fisica e materiale degli esseri viventi. Alla luce di tali premesse, torna assai più facile comprendere il valore metaforico (e non solo) di alcuni espedienti tesi a valorizzare il contenuto corporeo in un contesto specificamente religioso. Così quella che era un tempo la sedia gestatoria del pontefice cattolico serviva a mettere in mostra, a enfatizzare la figura, la persona fisica del papa, esaltandone il ruolo attraverso la sopraelevazione del suo essere, della sua figura, alta e distante, quasi irraggiungibile, al di sopra di tutti e di tutto. E poi, d’altra parte, un altro mezzo quale la camera fotografica è in grado di conservare in vita i corpi dei morti, non più attori sociali diretti ma protagonisti indiretti, mediante la ri-presentazione ovvero la rappresentazione iconica dei loro profili umani, i quali di tal maniera vengono anche ri-presentificati per fungere da elemento di coagulo sociale, da riferimento esemplare e da richiamo ideale, in una ri-proposizione delle loro idee e istanze. Insomma, i defunti non defungono del tutto proprio grazie alla vitalità recuperata mediante la stampa delle loro immagini da vivi.

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Roberto Cipriani

In effetti, come ci ricorda Francesco Faeta, «le fotografie dei defunti, perché sanciscono nella loro oggettività una mutazione ed una cessazione, perché costituiscono comunque realtà viva e operante e contengono parte dell’essenza e della costitutività del referente, ben si prestano all’opera di restaurazione eidetica» 1.

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La religione del corpo Il secolo appena trascorso è stato anche definito il secolo del corpo appunto per l’aumento di attenzione prestata agli aspetti relativi alla corporeità, sino a farne quasi una sorta di nuova religione. A tale nuova fenomenologia hanno contribuito, fra l’altro, i mezzi di comunicazione di massa e le nuove modalità di diffusione delle opere d’arte 2. Un regista come Federico Fellini ha più volte proposto commistioni – ora immediate ora solo allusive – fra corpo e religione, in particolare in film quali Satyricon nel 1969, Roma nel 1972 e Amarcord nel 1973. Di recente ha riscosso un largo successo di pubblico un’altra produzione cinematografica dal titolo Il grande silenzio, che coniuga insieme l’esperienza della vita materiale con quella spirituale, in un monastero di clausura di stretta osservanza a Grenoble. Ma già in precedenza il film Il cielo sopra Berlino aveva sollecitato l’interesse per figure angeliche piuttosto materializzate ma anche protettive. Pure sul piano dell’iconografia corrente stanno destando ben più che curiosità le immagini relative ad angeli e altre creature soprannaturali, che però divengono tanto umane da provare sentimenti ed emozioni alla pari degli altri esseri viventi. Così l’essere e l’apparire si sovrappongono di continuo sino a confondersi, con parvenze di ambiguità e incertezza. Qualcosa di indefinito, di sospeso e di vago si registra pure a livello linguistico, ad esempio con l’indeterminatezza che riguarda un termine come “salma”, che può essere “soma” – ancora un lemma

1 F. Faeta, Il santo e l’aquilone. Per un’antropologia dell’immaginario popolare nel secolo XX, Sellerio, Palermo 2000, p. 163. 2 Cf. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino1966 (ed. or. 1936).

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impreciso che rimanda al vocabolo greco originario indicante il corpo – nel senso di bagaglio trasportato, ma altresì si riferisce al cadavere (oggetto di onoranze cultuali religiose), al corpo defunto, senza trascurare peraltro la possibilità del rinvio al corpo vivente come parte imperfetta in quanto materiale, contrapposta a quella spirituale dell’anima (dagli evidenti connotati religiosi). Del resto il parlare di salmerie presuppone materiali utili alla sopravvivenza sia a livello alimentare (come viveri) sia a livello militare (come munizioni, in senso lato, di difesa e di salvezza). Appunto a proposito di azione salvifica non è neppure da dimenticare l’espressione icastica che recita: caro cardo salutis, per cui dunque la carne è il cardine della salvezza: insomma l’incarnazione del Dio che si fa uomo è il tramite essenziale per l’opera salvatrice, è il discrimine fra il divino e l’umano, il confine tra soprannaturale e naturale, fra cielo e terra, quindi anche fra religione e corpo. Ma di fatto l’umanità diventa condizione indispensabile, decisiva per la comunicazione con il preternaturale. Il corpo del Cristo-Dio è il tramite che realizza il piano della redenzione e che permane in mezzo agli esseri umani grazie alla celebrazione eucaristica.

Per un approccio storico-sociologico al corpo In Francia più che in Italia la questione del corpo è stata ampiamente tematizzata, come testimonia appieno l’opera rimarchevole in tre volumi di Alain Corbin, Jean-Jacques Courtine e Georges Vigarello su l’Histoire du corps 3. Riflessioni emblematiche e tragiche insieme sono poi quelle dell’ebreo Primo Levi in Se questo è un uomo 4, dove nel 1947 egli scrive mestamente: «il mio corpo non è più il mio corpo». E Varlam Salamov ne I racconti della Kolyma 5 quasi gli fa eco aggiungendo che «le ossa gelano, il cervello e l’anima s’intirizziscono». L’uno e l’altro sono testimoni di vicende legate rispettivamente alla dittatura del nazismo tedesco e del comunismo sovietico, entrambe ideologie che hanno fatto del corpo un fulcro della 3 Cf. A. Corbin - J.-J. Courtine - G. Vigarello, Histoire du corps, 3 voll., Seuil, Paris 2006. 4 Cf. P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1976. 5 V. Salamov, I racconti della Kolyma, Adelphi, Milano 1995.

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loro visione della realtà, tutta improntata alla magniloquenza, alla supremazia e al trionfo della forza – come ha ben evidenziato George Mosse 6 –, ma che hanno altresì martoriato all’inverosimile soggetti inermi e rei solo di non condividere le idee dominanti. Oggi ben altre sono le mode correnti. Ma anche adesso all’esaltazione dell’onnipotenza del corpo forte e sano si accompagna una sua umiliazione, che se non ripropone le traversie e le violenze dei campi di concentramento germanici e del confinamento russo ai lavori forzati imposti dalla GULAG (Direzione Centrale Statale dei Campi di Lavoro), mette nondimeno a dura prova i corpi trafiggendoli, perforandoli, vulnerandoli, in definitiva negandoli, considerandoli non concreti ma astratti e quindi attraversabili perché senza resistenza e senza consistenza, il tutto senza soluzione di continuità e di fatto mummificando anzitempo, etichettando come un pacco postale, marchiando come un animale il fisico, esposto, sottoposto e nudo. Ma, a parte tali esempi massimi di non rispetto della corporeità e della sua natura umana e debole, il vero decisore del destino del corpo altro non è che il DNA, che con il suo andamento elicoidale sempre sinistrorso – il cui perché nessuno ha sinora spiegato – di fatto predetermina malattie ed esiti fatali secondo uno scadenzario predefinito e ineludibile.

La negazione del corpo Il corpo è più volte nominato, invocato, designato, ambito, ma altrettante è vituperato, annientato, negato. Il suo paradosso è di essere al tempo stesso scrutato, stenografato, ingrandito, ispezionato, anche lì dove non si era mai giunti in precedenza, cioè al suo interno, in interiore hominis. Dalla radiografia alla scintigrafia, dall’ecografia all’endoscopia, è tutto un perlustrare il corpo nelle sue componenti più imperscrutabili per l’occhio umano. In tal modo si valorizzano e si esaltano i ritrovati della scienza che permette tutto questo, cioè un’analisi in profondità difficilmente immaginabile in precedenza. 6 Cf. G.L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse, il Mulino, Bologna 1975; Id., Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Laterza, Roma-Bari 2002; Id., L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste, Laterza, Roma-Bari 2002.

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Nel frattempo però il corpo stesso continua a essere ora rigettato, ora osannato, secondo le diverse correnti ideologiche della laicità razionale e dell’immanenza terrena, ma pure attraverso le prospettive religiose e confessionali, diversificate fra loro e insieme contrapposte alle prospettive laicizzanti. Ma forse l’attacco più diretto alla corporeità è venuto dalla psicanalisi, che l’ha come condannata a una sorta di incoscienza, mentre la fenomenologia l’ha considerata una specie di incarnazione della coscienza. Intanto l’antropologia ne ha fatto un tema di elezione. La pittura, la scultura come la fotografia e la cinematografia l’hanno liberata dagli orpelli, dagli abiti, dai costumi che la ricoprivano, rendendola invece visibile nella sua interezza, nella sua nudità, nuovo oggetto di attenzione visuale e di disputa etico-religiosa. Il movimento omosessuale ha portato infine il discorso sul corpo sino alle conseguenze estreme dell’esibizione intesa quale rivendicazione-provocazione, con risvolti anche politici come nel caso del Fronte Omosessuale di Azione Rivoluzionaria. Su un altro versante va pure notato che oggi il corpo è sempre più riparabile, modificabile, riadattabile. Le protesi sostituiscono ciò che manca o non funziona. Il soma è dunque riprogrammato. Persino la morte può essere differita, almeno parzialmente, grazie all’intervento di intubazioni, macchine per la respirazione, erogatori di ossigeno. Queste “morti dilatate” hanno esempi illustri nei giorni estremi del dittatore spagnolo Francisco Franco e dell’uomo politico brasiliano Tancredi Neves. Sul piano morale, inoltre, si pongono questioni che vanno dall’eugenetica all’eutanasia, insomma dalla vita alla morte, senza soluzione di continuità lungo il percorso esistenziale. Ma l’orizzonte si allarga pure a questioni meno drammatiche che concernono la cosmesi, la dietetica, la chirurgia plastica, le irradiazioni ultraviolette per l’abbronzatura fuori stagione, i tatuaggi, il piercing, le mutilazioni. A livello iconico il corpo mostrato è passato dai vecchi calendari da barbiere (ormai pezzi da museo) – regalati ai clienti – ai calendari a contenuto maschile o femminile, od omosessuale – messi in vendita anche per ragioni di beneficenza. Non è poi da trascurare il fatto che proprio il contrario del bello, del grazioso e del ben fatto, e dunque il mostruoso, l’orrido, l’anomalo, il deforme, l’orripilante, il bestiale e il feroce, sia oggetto

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di opere letterarie, artistiche, televisive, cinematografiche, che interessano soggetti di ogni età. Così il difforme e il multiforme come impossibile possibilitato divengono fulcro di interesse, strumento di operazioni commerciali, veicolo di nuove mode e correnti con venature intellettuali e ideologiche. Quasi senza soluzione di continuità si è transitati dai numeri marcati sul braccio dei condannati nei campi di concentramento all’uso della propria pelle come manifesto di autorappresentazione all’esterno dei propri sentimenti e delle proprie idee. La vistosità del corpo diventa altresì performance atletica, spettacolo, esposizione enfatizzata, che ha la sua acme nella dinamica della tortura come prova-sperimentazione che esaspera la sfida con le capacità di resistenza di chi esegue e di chi subisce, ma peraltro di chi assiste dopo aver ordinato l’atto o da semplice spettatore contingente, estemporaneo. Affine a tale forma di esercizio che mette a dura prova il soggetto, a qualunque titolo coinvolto, è il fachirismo che, facendo leva su un’abitudine acquisita alla sopportazione di situazioni disagiate e tormentose, suscita atteggiamenti di incredulità come pure di rispetto, se non proprio di venerazione, come ben sanno i praticanti induisti, delle forme estreme di annullamento della sofferenza. Il passo successivo porta alla sublimazione del corpo sino a farne un tutt’uno con l’anima. Si dice allora – con un singolare neologismo che francesizza in parte un termine inglese e non tiene conto delle regole grammaticali – che l’anima è body buildé, è cioè costruita (e costituita) come corpo, insomma si è corporizzata, materializzata nel corpo. A questo punto non è ben chiaro se sia il corpo ad aver fatto un salto di qualità o se sia l’anima a essere discesa al piano della mera materialità. Ma tant’è.

Le nuove dinamiche del corpo Un recente testo di Hervé Juvin 7 sembra segnare l’apice della glorificazione dedicata al corpo. Ormai la neo-chirurgia riparatrice ed estetica, la neo-genetica, la neo-dietetica e la neo-estetica hanno 7 Cf.

H. Juvin, L’avènement du corps, Gallimard, Paris 2006.

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costruito un monumento imponente, maestoso, all’ideologia del benessere, che sfocia anche in esiti a contenuto religioso: non ci si accontenta del diritto alla salute terrena, si aspira alla salute eterna, alla salvezza imperitura, alla protezione garantita a ogni livello, naturale e soprannaturale, alla prevenzione efficace e sicura contro le insidie di questa vita e di quella futura. Si passa dunque dalla stipula di contratti assicurativi a carattere sanitario e antinfortunistico alla richiesta di patronati salvifici da parte di un santo o di un guru, o quanto meno di un consigliere in vista del futuro ancora da venire, oltre la soglia della morte corporea. Detto altrimenti, l’utilizzo pluriennale del corpo non sembra bastare, lo si vuole perpetuare e per questo si cercano garanzie affidabili. Nel frattempo si studiano altre soluzioni alternative che danno lena e sviluppo inusitati all’industria del corpo: le questioni dell’aborto e della contraccezione sono ormai considerate superate, le nuove problematiche riguardano la clonazione, il matrimonio fra pari sesso, la banca genetica, la fecondazione artificiale, le modifiche degli embrioni. La medicalizzazione è spinta oltre ogni misura. Il corpo viene dunque considerato un patrimonio economico sui generis, venduto in parti per trapianti, prestato per cessioni di midollo spinale – a tal fine si ricorre persino a una procreazione non prevista ma finalizzata a una destinazione medica. In pratica il corpo sta divenendo sempre più un prodotto fra gli altri, commerciabile come tanti. Ma resta pur sempre un nostro prodotto, una proprietà riservata, che nondimeno pare stia dando luogo a un nuovo capitalismo, quello dell’esercizio della proprietà privata relativa al proprio essere fisico (con valutazioni in termini di prezzi relativi a ogni singolo organo, quasi una nuova vetrina da macelleria umana, che espone e cataloga pezzi e costi, come in un prontuario assicurativo di risarcimento danni). Sociologicamente un altro fenomeno è da rilevare: l’invecchiamento crescente della popolazione parrebbe ridare linfa alla pratica religiosa, riempiendo di nuovo chiese ormai quasi vuote. La tendenza in atto sembra essere quella di preservare sempre più individui in realtà incapaci di riprodursi, per ragioni di età. Ma anche fra gli anziani permane il culto del corpo, una sorta di religione in antitesi a quella di eventuale appartenenza. Invero si tratta di un quasi-culto della corporeità, giacché mancano molti caratteri di una devozione

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religiosa. E tuttavia la ricerca del benessere a ogni costo prosegue senza sosta. Nel contempo, comunque, si guarda pure al benessere successivo al momento finale dell’esistenza.

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Da Rosmini a Marcel: la coscienza del corpo Nel corso della storia dell’umanità il corpo ha visto alternarsi diversi e opposti atteggiamenti, che hanno mostrato una particolare attenzione alla sua espressione più vitale, il sangue. In proposito rimane esemplare l’opera di Piero Camporesi sul «sugo della vita» 8. Orbene, il sangue è solo una componente di un insieme assai più complesso e articolato, oggetto di sentimenti forti e duraturi che si esprimono al massimo nelle opere d’arte, le quali lasciano tracce profonde, con impronte a lunga gittata: dal David, biblico e ignudo, di Michelangelo a quello, ispiratore, di Donatello, dall’Adamo della Cappella Sistina ai fascinosi bronzi di Riace è tutto un intreccio di movenze, di allusioni, di rimandi, di simboli, di richiami, che offrono stimoli di riflessione sul significato dell’esistenza, e dunque anche sui contenuti religiosi. Dopo le vicende medievali così ben descritte da Le Goff e Truong sul ruolo del corpo 9, si assiste nel periodo rinascimentale a una frattura fra sacro e profano, fra anima e corpo, che ingenera quasi una corsa all’accaparramento del corpo sia da parte della religione che della medicina, nel contesto di un gioco come in quello di una guerra, in forme costrittive o solo ottative, nell’ambito quotidiano o in quello lavorativo, fra i popolani come fra i dotti. Solo più tardi, dapprima con Rosmini 10, si affermerà la dottrina del sentimento fondamentale corporeo, per cui la conoscenza ha inizio dalla stessa percezione corporea, come è ben evidenziato anche nella Quinta Meditazione di Husserl 11, che individua così la fondazione fenomenologica dell’alterità.

8 Cf. P. Camporesi, Il sugo della vita. Simbolismo e magia del sangue, Comunità, Milano 1984. 9 Cf. J. Le Goff - N. Truong, Histoire du corps au Moyen Âge, Liana Levi, Paris 2006. 10 Cf. S.A. Rosmini, Nuovo saggio sull’ordine delle idee, Sodalitas, Milano 1926. 11 Cf. E. Husserl, Meditazioni cartesiane. Con l’aggiunta dei discorsi parigini, Bompiani, Milano 1989.

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Corpo, religione e società

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Per Rosmini, fondatore di una congregazione religiosa, il punto di partenza è la coscienza di sé come corporeità, che consente di sentirsi vivere, dunque di conoscere; per questo la conoscenza non è scindibile dal corpo che la rende possibile. Proprio grazie al corpo è dato conoscere sensibilmente ciò che gli è esterno ed estraneo. E dunque deriva anche da qui il sentimento di appartenenza, la concezione del sé a sé. Ecco quindi che l’esperienza, Erlebnis, si lega alla coscienza stessa del corpo, inteso come Leib e diverso perciò dalla natura del corpo, inteso come Körper. La prima (coscienza del corpo) si distingue dalla seconda (natura del corpo) per il grado di consapevolezza e di riflessività che l’accompagna. Se ne deduce che la prospettiva religiosa è più legata tendenzialmente allo stato della coscienza e meno a quello della natura. Nondimeno quest’ultima costituisce l’origine del tutto, giacché non è immaginabile un essere pensante privo di struttura corporea, mentre per ragioni di varia natura è ipotizzabile il contrario, cioè un corpo poco dedito al pensare. Non è un caso peraltro che per parlare del corpo mistico del Cristo si usi l’espressione mystischer Leib e non mystischer Körper, come pure Leib Christi piuttosto che Körper Christi o del Signore (des Herrn). Del resto la figura stessa del Cristo è l’incarnazione emblematica dell’unione fra religione e corpo, visto che l’opera di redenzione religiosa è attribuita appunto all’essere divino fattosi uomo, divenuto carne prendendo un corpo. Una volta ancora la corporeità offre una riserva straordinaria di senso. Essa è linguaggio, significato, messaggio, in una parola è cultura e, pertanto, anche religiosità che si vive attraverso il gesto, la comunicazione, l’intelligenza, la consapevolezza, la coscienza. Non è dunque fuori luogo interrogarsi con Gabriel Marcel (1966; Riva 1985) 12: «si ha un corpo o si è un corpo?». Invero, come già osservava Husserl, il corpo è l’unica vera proprietà che appartiene agli esseri umani in modo duraturo. Esso è centro e funzione di tutto e a tutto dà senso, ivi compreso quello religioso. Dal punto di vista sociologico infine ciò che più interessa sottolineare è il carattere eminentemente sociale del corpo, che per esempio si estrinseca sia attraverso la sessualità che la religiosità, mediante digiuni e diete come pure mediante esercizi e ritiri spirituali. 12 Cf. G. Marcel, Giornale metafisico, Abete, Roma 1966; anche F. Riva, Corpo e metafora in Gabriel Marcel, Vita e Pensiero, Milano 1985.

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Pietro De Vitiis

La morte di Dio e la soggettività come corpo di

Pietro De Vitiis

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La morte di Dio fra secolarizzazione e fine della metafisica La modernità, l’illuminismo, con le loro rivoluzioni sia scientifiche che politico-sociali, hanno sicuramente anche provocato una frattura rispetto alla tradizione religiosa dell’Occidente, che poi è stata descritta dai sociologici mediante il concetto di secolarizzazione. Ora, è difficile dire se tale frattura abbia subìto un’attenuazione col passaggio alla postmodernità e con i fenomeni ad essa connessi, anche se alcuni sociologici hanno cominciato a parlare di desecolarizzazione; però se si vuole avere di essa una visione non ancora attenuata, ed anzi drammatica nella sua radicalità, bisogna rifarsi all’annuncio di Nietzsche della morte di Dio, che anche per il suo appello a una sorta di decisione esistenziale fa da contrappunto all’esortazione di Kierkegaard, pensatore edificante, a un cristianesimo vissuto nella contemporaneità, al di là delle mediazioni storiche. L’annuncio di Nietzsche, come è noto, si trova in un’opera del 1882, che già dal titolo, Die fröhliche Wissenschaft, annuncia cambiamenti decisivi in una disciplina, la filosofia, che non si era mai presentata come “gaia” bensì, a partire da Platone, che può essere considerato il fondatore della metafisica, come una meditatio mortis: «Il più grande degli avvenimenti recenti – che “Dio è morto”, che la credenza nel Dio cristiano è diventata incredibile – comincia già a gettare la sua ombra sull’Europa. Almeno per i pochi i cui occhi, la cui diffidenza negli occhi è abbastanza forte e sottile per questo spettacolo, sembra appunto che qualche sole sia tramontato, che qualche antica fiducia profonda si sia tramutata in dubbio: per essi il nostro vecchio mondo deve apparire ogni giorno più serotino, più sospettoso, più estraneo, più “vecchio”. Per quanto riguarda però l’aspetto principale, si può dire che l’evento stesso è fin troppo gran-

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La morte di Dio e la soggettività come corpo

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de, troppo distante dalla capacità di percezione di molti, perché sia lecito dichiarare arrivata anche solo la notizia di esso; senza dire poi che molti già sappiano ciò che veramente si è verificato con esso, e tutto quello che ora deve crollare, dopo che è stata scalzata questa credenza, in quanto costruito su di essa, ad essa appoggiato e con essa cresciuto: per esempio tutta la nostra morale europea» 1. Di fronte a un evento così immane, che può esser paragonato all’oscuramento di un’eclisse di sole, l’orizzonte non è sereno – l’aforisma tratta appunto della nostra serenità –, però è almeno libero e questo può essere un vantaggio per i filosofi: «In realtà, noi filosofi e “spiriti liberi”, davanti alla notizia che il “vecchio Dio è morto” ci sentiamo come irradiati da una nuova aurora; il nostro cuore trabocca di riconoscenza, meraviglia, presentimento, aspettativa – finalmente l’orizzonte torna ad apparirci libero…» 2. Certo, a Nietzsche non sfuggono le conseguenze etiche o storico-religiose del grande evento – tematiche che possono rientrare nella problematica della secolarizzazione –, però egli si richiama ai filosofi, e non soltanto in senso formale, ma esamina il grande evento anche sotto l’aspetto metafisico. Una storia della metafisica, e quindi della sua “fine”, Nietzsche la delinea in modo schematico in un passo della sua opera del 1889: Götzen-Dämmerung oder Wie man mit dem Hammer Philosophiert, in cui viene abbattuta, appunto a colpi di martello, la vecchia distinzione fra il mondo vero e il mondo apparente, che a partire da Platone sta alla base della metafisica come distinzione fra ciò che è veramente essente, cioè il mondo delle idee, e l’apparenza del mondo sensibile diveniente. Per Nietzsche questa distinzione è un errore, la cui storia egli descrive in un paragrafo intitolato: Come il “mondo vero” alla fine diventò una favola. «Il mondo vero, raggiungibile per il saggio, il pio, il virtuoso – egli vive in esso, lo è. (La forma più antica dell’idea, relativamente ragionevole, semplice, convincente. Perifrasi dell’affermazione “Io, Platone, sono la verità”)» 3. Chiaramente qui Platone viene indicato come il padre della metafisica, che successivamente viene adattata al cristianesimo, nel quale il raggiungimento del mon-

1 F. Nietzsche, Die fröhliche Wissenschaft, in Werke in zwei Bänden, Bd. I, München 1967, p. 489. 2 Ibid., pp. 489-490. 3 F. Nietzsche, Götzen-Dämmerung oder Wie man mit dem Hammer Philosophiert, in Werke in zwei Bänden, Bd. II, cit., p. 340.

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Pietro De Vitiis

do vero si configura come una promessa, che comincia a entrare in crisi con la modernità: «Il mondo vero irraggiungibile, indimostrabile, non promettibile, però già come pensato una consolazione, un’obbligazione, un imperativo (fondamentalmente l’antico sole, ma attraversato dalla nebbia e dalla scepsi; l’idea divenuta sublime, pallida, nordica, di Königsberg)» 4. Qui Nietzsche allude alla funzione svolta dalla moderna filosofia della soggettività nel mettere in crisi la distinzione metafisica dei due mondi. In Kant, e nella sua critica alle tradizionali prove dell’esistenza di Dio, già si apre l’abisso della ragione, che però viene superato grazie a un recupero della metafisica sul piano dell’obbligazione morale. Nietzsche va invece decisamente verso il nichilismo: «Il “mondo vero”, – un’idea che non serve più a nulla, nemmeno più obbligante, un’idea inutile, divenuta superflua, conseguentemente un’idea confutata: aboliamola!» 5. Questo è il momento in cui il mondo vero è diventato favola, che poi risponde, dal punto di vista della secolarizzazione, alla morte di Dio. Dal punto di vista ontologico si pone però un altro problema: che il mondo vero sia diventato una favola significa che si è invertita la gerarchia ontologica, nel senso che ora il sensibile acquista un primato sul soprasensibile, sull’ideale; oppure invece non consegue che la stessa gerarchia ontologica venga meno? Nietzsche sembra propendere per questa seconda parte dell’alternativa: «Il mondo vero l’abbiamo abolito: quale mondo è rimasto? Forse quello apparente? Ma no! Col mondo vero abbiamo abolito anche quello apparente!» 6. C’è però un passo di Also sprach Zarathustra, che fa parte di un discorso di Zarathustra su coloro che disprezzano il corpo, in cui Nietzsche pone in effetti una gerarchia ontologica affermando il primato del corpo sullo spirito: «A coloro che disprezzano il corpo voglio dire la mia parola. Essi per me non devono mutare il loro apprendimento o il loro insegnamento, bensì solo dire addio al proprio corpo e quindi diventare perciò muti. “Corpo sono io ed anima” – così parla il bambino – e perché non si dovrebbe parlare come i bambini? Però il risvegliato, colui che sa dice: io sono del tutto corpo e nulla oltre a ciò; e l’anima è solo una parola per qualcosa nel mio corpo. Il corpo è una grande ragione, una molteplicità con un 4 Ibid., 5 Ibid. 6 Ibid.

p. 341.

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La morte di Dio e la soggettività come corpo

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solo senso, una guerra e una pace, un gregge e un pastore. Strumento del tuo corpo è anche la tua piccola ragione, fratello mio, che tu chiami “spirito”, un piccolo strumento e giocattolo della tua grande ragione. “Io” tu dici e sei fiero di questa parola. Ma più grande ancora è ciò cui non vuoi credere, il tuo corpo e la sua grande ragione: che non dice io, ma attua l’io» 7. Nietzsche sembrerebbe qui rovesciare la metafisica, mettere il corpo, il sensibile, al di sopra del soprasensibile, cioè dello spirito, piuttosto che uscire da essa. La novità del suo pensiero sta poi nel fatto che egli pensa la soggettività come corpo, a differenza dell’idealismo trascendentale, che invece la pensava come spirito. L’annuncio della morte di Dio è quindi connesso a due tesi che hanno attinenza con l’ontologia: la dichiarazione della fine della metafisica in quanto platonismo – una fine che può essere intesa sia come rovesciamento della metafisica che come uscita da essa – e la concezione della soggettività come corpo, che poi implica indubbiamente una rivalutazione di esso rispetto allo spirito.

Nietzsche nella storia della metafisica secondo Heidegger Il problema è però se tale rovesciamento della metafisica sia veramente un superamento di essa o soltanto una diversa disposizione degli elementi che appartengono alla sua struttura, e su di esso può darci qualche indicazione importante Heidegger, il quale propende per questa seconda alternativa, come appare da Holzwege: «Poiché però i precedenti valori supremi dominavano sul sensibile a partire dall’altezza del soprasensibile, e poiché la metafisica è la struttura di questo dominio, con la posizione del nuovo principio della svalutazione di tutti i valori si realizza il rovesciamento di ogni metafisica. Nietzsche considera questo rovesciamento come superamento della metafisica. Però ogni rovesciamento di questo tipo rimane solo l’irretimento, che inganna se stesso, nella stessa cosa divenuta irriconoscibile» 8. Heidegger è convinto che Nietzsche rimanga nel solco della tradizione metafisica, e lo dimostra attraverso un esame approfondito 7 F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra, in Werke in zwei Bänden, Bd. I, cit., p. 565. 8 M. Heidegger, Holzwege, Frankfurt am Main 1963, p. 214.

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della storia della metafisica che viene svolto nei due volumi di Nietzsche, e in particolare nella lezione del 1940 dal titolo Der europäische Nihilismus. In primo luogo, la volontà di potenza nietzscheana, che per Heidegger è un concetto metafisico vero e proprio, cioè un concetto dell’essere o “entità” (Seiendheit) dell’ente, è una forma di quella soggettività moderna che è stata introdotta nella storia della metafisica da Descartes, per il quale la sostanza della realtà, il subiectum, diventa il cogito, soggetto del pensiero. Anzi, Nietzsche porta a compimento la metafisica di Descartes: nonostante le divergenze che possono esserci tra i due filosofi, dovute anche alla distanza temporale, essi si accordano nell’essenziale: «Ora, non è che noi pensiamo – scrive Heidegger – che Nietzsche sostenga una dottrina eguale a quella di Descartes, ma affermiamo la cosa molto più essenziale che egli pensi il medesimo (das Selbe) nel compimento storico essenziale» 9. È vero che la posizione di Descartes è ancora ontoteologica, però egli pone le basi di quella metafisica della soggettività, in cui la verità diventa certezza e l’essere dell’ente consiste nell’esser rappresentato (Vorgestelltheit), di modo che l’uomo comincia ad assurgere a misura e centro di riferimento della realtà, e di tale soggettività la volontà di potenza di Nietzsche è la forma più compiuta. Per Heidegger ciò che conta è «vedere che Nietzsche sta sul fondamento della metafisica posto da Descartes e fino a che punto debba necessariamente stare su di esso» 10. Non si tratta quindi di un rapporto accidentale o superficiale: «Infatti, il rapporto di Nietzsche a Descartes è essenziale per la posizione metafisica fondamentale propria di Nietzsche. In base a questo rapporto si determinano i presupposti interni della metafisica della volontà di potenza» 11. Si tenga presente che la volontà di potenza non ha un fine a sé superiore, vuole quindi se stessa, la propria potenza o il proprio potenziamento, quindi ritorna a sé nel divenire. Questa mancanza di un fine esterno viene poi a coincidere con la negazione del predominio del soprasensibile sul sensibile che caratterizzava sia la metafisica platonica che quella del cristianesimo, vale a dire col nichilismo: «Per questo nichilismo la sentenza “Dio è morto” non significa solo l’impotenza del Dio cristiano bensì l’impotenza di tutto il soprasen9 M. Heidegger, Nietzsche, 10 Ibid., pp. 173-174. 11 Ibid., p. 174.

Bd. II, Pfullingen 1961, p. 149.

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La morte di Dio e la soggettività come corpo

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sibile cui l’uomo deve, e vorrebbe anche, sottomettersi. Questa impotenza significa il disfacimento dell’ordine precedente» 12. Poiché la volontà di potenza è senza fini (ziel-los), anche l’uomo che ad essa corrisponde non ha fini al di sopra di sé e quindi è il superuomo. «Spesso – scrive Heidegger – si è soliti obiettare a Nietzsche che la sua immagine del superuomo è indeterminata e che la figura di questo uomo sia inafferrabile. A tali giudizi si perviene perché non si comprende che l’essenza del super-uomo consiste nell’andare al di là dell’uomo attuale. Questi ha bisogno di ideali e aspirazioni, e li cerca ancora “sopra” di sé. Il superuomo, al contrario, non ha più bisogno di questo “sopra” e di questo “al di là”, poiché egli vuole unicamente l’uomo stesso, e precisamente non secondo qualche particolare prospettiva ma semplicemente come il signore dell’incondizionata attuazione della potenza con gli strumenti di potere di questa terra resi completamente accessibili» 13. Il superuomo è quella forma di uomo che è misura di tutte le cose, in connessione con la svalutazione del soprasensibile e con la trasvalutazione di tutti valori, che coincide poi metafisicamente con la morte di Dio: «In quanto però “Dio è morto”, ciò che per l’uomo deve diventare misura e centro, può essere soltanto l’uomo stesso…» 14. Si tenga presente che per Heidegger è stata la metafisica moderna della soggettività, inaugurata da Descartes col suo concetto di verità come certezza, ad elevare l’uomo per la prima volta a centro e misura dell’ente. Anche l’affermazione di Protagora, secondo cui l’uomo è misura di tutte le cose, va intesa nel senso che nell’uomo si definisce il limite di ciò che è manifesto nell’ente, e non invece come affermazione del primato della soggettività sull’ente, che è poi il significato moderno: «Per Protagora l’uomo è misura di tutte le cose nel senso della delimitazione che dà la misura all’ambito del disvelato e al confine del nascosto. Per Descartes l’uomo è misura di tutte le cose nel senso dell’arroganza dell’eliminazione del limite del rappresentare muovendo verso la certezza che assicura se stessa» 15. Per questo si può vedere la dottrina del superuomo come un esito della soggettività cartesiana: «Solo nella dottrina del superuomo come dottrina 12 Ibid., 13 Ibid., 14 Ibid., 15 Ibid.,

p. 38. p. 125. p. 39. pp. 172-173.

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del predominio incondizionato dell’uomo nell’ente la metafisica moderna perviene alla determinazione estrema e compiuta della sua essenza. In questa dottrina Descartes celebra il suo supremo trionfo» 16. Si potrebbe però obiettare che per Descartes la soggettività è pensiero, res cogitans, mentre per Nietzsche essa è corpo, cosicché il suo pensiero realizza piuttosto un rovesciamento del cartesianesimo, mettendo in rilievo, dei due elementi della definizione tradizionale dell’uomo, non la razionalità ma l’animalità. Per Heidegger, però, anche con questo rovesciamento Nietzsche continua a pensare nella direzione di Descartes: «Il fatto che Nietzsche ponga al posto dell’anima e della coscienza il corpo, non cambia nulla alla posizione metafisica fondamentale, che è stata stabilita da Descartes» 17. Nietzsche poi non pensa il corpo come sostanza materiale, come res extensa, bensì come la sfera degli istinti, degli impulsi vitali, e ciò consente di riconoscere chiaramente «con quale decisione la metafisica di Nietzsche si sviluppi come compimento della posizione metafisica di Descartes, solo che tutto viene spostato dall’ambito del rappresentare e della coscienza (della perceptio) a quello dell’appetitus, degli impulsi e viene pensato incondizionatamente sulla base della fisiologia della volontà di potenza» 18. Si tenga presente che la soggettività è veramente incondizionata solo se la volontà come impulso, istinto, passione ha il primato sulla soggettività come ragione e rappresentazione, come Heidegger afferma nella lezione del 1940, Nietzsches Metaphysik: «Solo nel rovesciamento nichilistico del predominio del rappresentare nel predominio della volontà in quanto volontà di potenza la volontà raggiunge il dominio incondizionato nell’essenza della soggettività… Mediante il rovesciamento nichilistico la soggettività rovesciata del rappresentare viene non solo capovolta in quella del volere, ma viene addirittura attaccata e trasformata l’essenza tradizionale dell’incondizionatezza. L’incondizionatezza del rappresentare è sempre ancora condizionata da ciò che ad esso si offre. L’incondizionatezza della volontà soltanto, invece, rende possibile a ciò che si offre di esser tale. L’essenza della soggettività incondizionata raggiunge il suo compimento soltanto in tale rovesciante conferimento di possibilità 16 Ibid., 17 Ibid., 18 Ibid.

p. 62. p. 187.

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La morte di Dio e la soggettività come corpo

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della volontà» 19. Si comprende quindi come la metafisica moderna raggiunga la sua forma compiuta proprio nella soggettività nietzscheana come corpo. Non solo in Descartes ma anche fino ad Hegel la metafisica continua ad avere carattere “ontoteologico”, e la soggettività è determinata come pensiero e come spirito, in modo diverso quindi rispetto a Nietzsche. «Noi non diciamo soltanto – scrive Heidegger – “metafisica della soggettività incondizionata”, poiché tale determinazione vale anche per la metafisica di Hegel, in quanto questa è la metafisica della soggettività incondizionata della volontà che sa se stessa, cioè dello spirito. Corrispondentemente, in lui il modo dell’incondizionatezza si determina a partire dall’essenza della ragione in sé e per sé essente, che Hegel pensa sempre come unità di sapere e volere, e mai nel senso del “razionalismo” del mero intelletto. Per Nietzsche la soggettività è incondizionata come soggettività del corpo, cioè degli impulsi e degli affetti, vale a dire della volontà di potenza» 20. In Hegel ha avuto già luogo un primo rovesciamento della metafisica platonica, in quanto egli non pensa più l’incondizionato come essere bensì come soggettività, però è necessario ancora un secondo rovesciamento affinché la soggettività raggiunga la sua piena incondizionatezza, ed esso ha luogo appunto nel passaggio di Nietzsche dalla razionalità all’animalità nel modo di concepire l’uomo come soggetto. A questo punto però il mondo soprasensibile pensato da Platone ha perduto ogni efficacia – ha avuto luogo, potremmo dire, la “morte” di Dio – in quanto la soggettività come corpo mira solo al dominio della terra, cioè all’incremento della propria potenza ed ha perso ogni riferimento trascendente. Sulla base della conclusione della storia della metafisica in Nietzsche, Heidegger può ripensare l’intera storia di essa: nella metafisica moderna l’idea platonica diventa perceptio, attività rappresentativa, e inizia quindi il percorso della soggettività moderna, la quale però trova il suo lontano presupposto nel fatto che l’idea platonica è “visibilità” (Sichtsamkeit), “aspetto” (Aussehen) 21. Heidegger fa anche riferimento agli aspetti vitalistici del pensiero di Nietzsche, conformemente ai quali la soggettività come corpo si presenta come «bionda bestia vagante avida di preda e di vittoria», 19 Ibid., p. 301. 20 Ibid., p. 200. 21 Cf. ibid., pp.

229ss.

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come si legge in Zur Genealogie der Moral 22: «Pertanto, l’essenza incondizionata della soggettività si sviluppa necessariamente come la brutalitas della bestialitas. Alla fine della metafisica sta la tesi: homo est brutum bestiale. Il detto di Nietzsche della “bionda bestia” non è una esagerazione occasionale, bensì il contrassegno e la sigla di un contesto, in cui egli stava consapevolmente, pur senza vederne completamente le connessioni storiche essenziali» 23. Però questi aspetti vitalistici non sono forse i più significativi per cogliere il significato epocale del pensiero di Nietzsche, e Heidegger fa infatti anche riferimento al rapporto della volontà di potenza nietzscheana, che mira al dominio della terra, con la civiltà delle macchine, cioè con la tecnica moderna, e cita un passo tratto dallo scritto del 1880 Der Wanderer und sein Schatten, che tratta della macchina come principio di organizzazione. «La meccanizzazione consente – scrive Heidegger – un dominio, sempre ed ovunque controllabile, dell’ente, ed anche un risparmio e al tempo stesso un accumulo di energia. Anche le scienze rientrano nel suo ambito essenziale» 24. In Jenseits von Gut und Böse Nietzsche sostiene anche «che l’uomo è l’animale non ancora stabilizzato (nicht festgestellt)» 25, e Heidegger fa osservare che se si pensa l’uomo non più sulla base della razionalità bensì sottolineando l’animalità, come poi è richiesto dal concetto di soggettività come corpo, si può raggiungere una nuova stabilizzazione: «Se l’animalità dell’uomo viene ricondotta alla volontà di potenza come sua essenza, l’uomo finalmente diventa “animale stabilizzato”. “Stabilizzare” significa qui: determinare e delimitare, e quindi al tempo stesso rendere stabile, l’essenza, portare a stabilità nel senso dell’incondizionato riposare su se stesso del soggetto del ra-ppresentare» 26. Sviluppando questo discorso di Heidegger e

22 F.

Nietzsche, Zur Genealogie der Moral, in Werke in zwei Bänden, Bd. II, cit.,

p. 196. 23 M. Heidegger, Nietzsche, Bd. II, cit., pp. 24 Ibid., p. 309. 25 F. Nietzsche, Jenseits von Gut und Böse,

200-201. in Werke in zwei Bänden, Bd. II, cit.,

p. 56. 26 M. Heidegger, Nietzsche, cit., Bd. II, pp. 306-307. Per l’approfondimento del rapporto fra Nietzsche e Heidegger può essere un valido strumento il volume 2° dello Heidegger-Jahrbuch, dal titolo Heidegger und Nietzsche, Freiburg-München 2005; per le tematiche da noi trattate si possono vedere i saggi: B. Vedder, “Gott ist tot”. Nietzsche und das Ereignis des Nihilismus, Freiburg-München 2005, pp. 157-173 e H. Seubert, Nietzsche, Heidegger und das Ende der Metaphysik, Freiburg-München 2005, pp. 297-320.

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La morte di Dio e la soggettività come corpo

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tenendo presente anche il suo collegamento della volontà di potenza con la tecnica, si può affermare che nella società tecnologica, la cui prassi si ispira al criterio del funzionalismo, tende a venir meno la distinzione fra ciò che è possibile, nel senso di fattibile o realizzabile, e ciò che è lecito in senso morale, dal momento che il criterio è dato in ultima analisi dal funzionamento. Il superameno del dissidio fra il possibile e il lecito comporta una stabilizzazione del comportamento umano in senso extramorale, proprio quindi nella direzione indicata da Nietzsche.

L’ambiguità di Nietzsche Poiché la storia della metafisica comincia con la concezione dell’essere come idea, decisivo è per Heidegger il rapporto di Nietzsche con Platone, che della metafisica è il fondatore: «Metafisica, idealismo, platonismo significano essenzialmente lo stesso. Essi rimangono decisivi anche là dove si fanno valere contromovimenti o rovesciamenti. Platone nella storia dell’Occidente diventa il prototipo del filosofo. Nietzsche non ha solo designato la sua filosofia come rovesciamento del platonismo. Il pensiero di Nietzsche era ed è in ogni aspetto un unico, e spesso molto conflittuale, diverbio con Platone» 27. Bisogna poi tenere presente che Nietzsche riduce anche il cristianesimo al platonismo, che per primo ha introdotto le nozioni di spirito puro e di bene in sé: «Però la lotta – egli scrive – contro Platone, o per dirlo in modo più comprensibile e accessibile al “popolo” – infatti il cristianesimo è platonismo per il popolo –, la lotta contro la secolare oppressione cristiano-ecclesiastica ha creato in Europa una splendida tensione dello spirito, come mai c’era stata sulla terra: con un arco così teso si può ora colpire i bersagli più lontani» 28. Forse, questa riduzione del cristianesimo al platonismo potrebbe trovare una conferma nella tesi sostenuta da Agostino nel De vera religione, secondo la quale la concezione platonica che le immagini sensibili ingannano e che quindi bisogna rivolgersi alla forma im-

27 Ibid., pp. 220-221. 28 F. Nietzsche, Jenseits

von Gut und Böse, in Werke in zwei Bänden, Bd. II, cit.,

p. 10.

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Pietro De Vitiis

mutabile delle cose, con la conseguente svalutazione, sul piano del comportamento, dei desideri e dei piaceri legati al corpo, trovava allora accoglienza, grazie alla predicazione cristiana, anche fra il popolo e non solo presso i filosofi: «si haec per totum orbem iam populis leguntur, et cum veneratione libentissime audiuntur…», come scrive Agostino 29. Una cosa del genere lo stesso Platone non l’avrebbe ritenuta possibile, cosicché si andava delineando una sorta di rovesciamento dell’atteggiamento rispetto alle massime platoniche: «Si haec sic accipiuntur, ut quomodo antea talia disputare, sic nunc contra disputare monstruosum sit» 30. Ora, per quanto il platonismo possa aver fornito, nell’età della patristica, un terreno fruttuoso di incontro fra la nuova visione religiosa cristiana e il pensiero antico, non ci sembra possibile ridurre il cristianesimo alla svalutazione platonica del corpo e del sensibile, se si tiene presente che è dottrina cristiana fondamentale il farsi carne del Logos. Il cristianesimo dovrebbe quindi piuttosto portare a rivalutare quel mondo delle immagini, delle copie sensibili, che il platonismo ha svalutato. Un esempio di ciò lo possiamo trovare nel teologo cattolico Hans Urs von Balthasar, che nel quadro di una teologia “estetica” critica la concezione, che si trova nel platonismo, secondo la quale le immagini (Bilder) sono «un regno senza verità o una copia sbiadita della verità, che è priva di importanza per la conoscenza, se non anche ad essa di ostacolo» 31. Questo errore deriva dal fatto che l’essenza, il fondamento, la realtà in sé vengono separati dalle immagini, o fenomeni, in cui essi si manifestano: «L’esperienza vissuta della irrealtà delle immagini, della loro inessenzialità e insussistenza, della loro completa transitorietà e caducità, può essere così forte nel soggetto che questi dapprima non riesce a gettare alcun solido ponte fra le immagini e il mondo in sé essente» 32. In realtà, però, non si può scindere l’essenza dalla manifestazione: «L’apparizione dell’essenza si presenta dapprima come l’inessenziale del mondo delle immagini, dietro la cui variopinta abbondanza l’essenza rimane inconoscibile. Ma poi dopo risultò che le immagini non erano comprensibili in altro modo che come espressione e significa29 Agostino, De vera religione, 3, 5. 30 Ibid. 31 H.U. von Balthasar, Theologik, I: 32 Ibid.

Wahrheit der Welt, Einsiedeln 1985, p. 149.

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La morte di Dio e la soggettività come corpo

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to. L’essenza non era essa stessa la propria manifestazione. Tuttavia appariva in essa, nella misura in cui riusciva a tradurre la sua profondità nella superficie delle immagini» 33. Questa connessione fra l’essenza e la manifestazione, che impedisce una concezione astratta delle immagini, richiede un concetto manifestativo o fenomenologico di verità, in base al quale viene riconosciuta «l’essenza della verità come manifestazione che appare dell’ente stesso che non appare» 34. L’immagine come manifestazione raggiunge poi il suo culmine nella parola: «Tutto ciò alla fine giunge a compimento dove l’immagine ottiene a sua funzione più alta: nella parola» 35. Questa è segno sensibile in cui emerge qualcosa di interno, di nascosto. Finora il discorso si è svolto sul piano filosofico, però dal punto di vista teologico, la Parola è il Logos che appare nella “figura” (Gestalt) storica del Cristo, secondo il concetto teologico di rivelazione. Che poi tale apparire abbia anche una dimensione di bellezza, di splendore e quindi di “gloria” (Herrlichkeit), è ciò che assicura il carattere “estetico” della teologia. Non è quindi possibile, a nostro avviso, pensare il cristianesimo solo sulla base dell’ascesa platonica verso il mondo soprasensibile, perché non meno importante, e anche più caratterizzante, è l’apertura di una dimensione storica di manifestazione. In ogni caso quindi il distacco del cristianesimo dal corpo, la componente ascetica che pur è presente in esso, non può significare distacco dalla dimensione storica. Come ha fatto osservare il filosofo della religione Bernhard Welte, Nietzsche, malgrado il suo tentativo di eliminare il soprasensibile platonico e cristiano, ha lasciato sussistere una qualche forma di trascendimento del finito, che trova espressione nel concetto del superuomo. Il “sovrumano” (Übermenschliche) nell’uomo sarebbe ancora un residuo di quell’infinito nell’anima cui si sono richiamate le visioni religiose che hanno affermato l’idea del divino: «E dunque anche qui si vede che l’infinito, l’eterno, o per esprimerci con Nietzsche, il sovrumano appartiene all’autorealizzazione dell’uomo. Questa è di nuovo la verità dell’idea di superuomo» 36. Da ciò deriva poi anche

33 Ibid., p. 175. 34 Ibid., p. 150. 35 Ibid., p. 175. 36 B. Welte, Zwischen

Zeit und Ewigkeit. Abhandlungen und Versuche, Freiburg-

Basel-Wien 1982, p. 173.

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Pietro De Vitiis

l’ambiguità di Nietzsche, che Welte pone in rilievo nel titolo stesso del suo saggio del 1981: Nietzsches Idee vom Übermenschen und seine Zweideutigkeit. Dato però l’ateismo di Nietzsche, la finitudine umana viene sottoposta a un sovraccarico eccessivo, in quanto si vuole raggiungere l’infinità sovrumana dando un’importanza infinita alla finitudine fattuale, il che mette poi in crisi la stessa distinzione fra il bene e il male: «Ma ciò porta necessariamente alla negazione, cioè al male, che consiste nel dare un’importanza infinita al finito, schiacciando con la volontà fattuale come assoluto ogni altra cosa» 37. Queste considerazioni di Welte fanno sorgere il dubbio che Nietzsche non abbia raggiunto, con il suo concetto di soggettività come corpo, quella stabilizzazione dell’animale uomo, cui egli certo mirava col suo rovesciamento del platonismo.

37 Ibid., p. 172. Anche in un precedente saggio del 1958, Nietzsche Atheismus und das Christentum, Welte afferma che Nietzsche fa emergere la contraddizione di finito e infinito che è presente nell’uomo, che può porre la sua volontà come incondizionata oppure volere l’incondizionato nella fede in Dio. «L’uomo compreso come volontà rimane nelle sue possibilità essenziali un caso non chiarito, una domanda aperta, una contraddizione dialettica. Anche Nietzsche non ha dato a questa aperta dialettica una soluzione chiara, pur avendola resa percepibile per il pensiero in modo energico ed esteso» (B. Welte, Nietzsches Atheismus und das Christentum, in Auf der Spur des Ewigen, Freiburg-Basel-Wien 1965, p. 253). Il divino è presente nel pensiero di Nietzsche nella figura mitica di Dioniso, che esprime l’identità dinamica degli opposti, e anche implicitamente nell’idea di una dimensione superiore all’uomo, come è quella del superuomo. «Pertanto, Nietzsche pensa in modo esatto e conseguente se nel progetto della sua soluzione dell’enigma uomo fa riferimento non all’uomo ma a ciò che è al di sopra dell’uomo: al di sopra dell’uomo è ciò che unicamente può liberare l’uomo e conferirgli la pienezza, e lo può portare al puro “sì” dell’esistenza non menomata e indivisa, e quindi, in ultima analisi, divina» (ibid., p. 254). Con l’idea del superuomo, che poi non è nemmeno l’uomo superiore, Nietzsche cerca una conciliazione dell’umano e del divino, in cui si avverte, secondo Welte, una nascosta nostalgia del cristianesimo: «L’unità e conciliazione del divino e dell’umano può essere solo dono e grazia, mai però qualcosa di voluto in modo violento. Nel discorso nietzscheano del superuomo l’uomo parla, senza saperlo, “in sogno” della grazia di Dio. Egli parla di ciò che nella teologia cristiana viene chiamato anche sovra-natura. In tal senso questo discorso è, anche detto nell’ebbrezza e nella follia, tuttavia un discorso cristiano» (ibid., p. 259). All’interpretazione di Welte accenna anche H. Spano, il quale riconosce a Nietzsche una «vocazione autenticamente religiosa» (H. Spano, Friedrich Nietzsche. Tra finis christianismi e questione del senso, in Nichilismo e gestione del senso. Da Nietzsche a Deridda, a cura di S. Sorrentino, Roma 2005, p. 35).

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Corpo e religione nei sincretismi: il New Age

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Corpo e religione nell’arte

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Alessandro Olivieri Pennesi

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Corpo e religione nell’arte romana del Seicento e del Settecento

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Corpo e religione nell’arte romana del Seicento e del Settecento

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di

Vittorio Casale

La delimitazione del campo di tale intervento è legata al settore specifico dei miei interessi: la storia dell’arte del Seicento e del Settecento a Roma. L’arte romana di quel periodo presenta infatti quasi in toto contenuti di carattere religioso, che è pressoché impossibile esprimere se non esteriorizzandoli, innanzitutto, nella raffigurazione di beati e di santi nella loro fisicità 1. In questi due secoli si assisté a un enorme incremento dell’arte religiosa a Roma, per una serie di ragioni (a partire da quella, più ovvia, consistente nel fatto che Roma era la sede della Curia); ci restringiamo a quelle che appaiono le più determinanti: due ragioni di segno diverso, ma non genericamente collegate: la ipervalutazione del valore psicagogico dell’immagine, che pone il barocco come la prima “civiltà dell’immagine”; e l’incessante proclamazione di santi e di beati, che comportava quasi fisiologicamente il conio e la diffusione di moltissime immagini. La produzione artistica attivata dalle canonizzazioni è talmente vasta e diversificata, e lo spessore della problematica talmente alto, che davvero è possibile perdersi o peggio finire in improprie generalizzazioni. Così appare ragionevole proporre soltanto una campionatura che riesca davvero emblematica degli aspetti più caratterizzanti del rapporto fra santità e corporeità. Le pur molto differenziate rappresentazioni di beati e santi si possono per comodità raggruppare in tre filoni fondamentali: le immagini iconiche di personaggi generalmente santi, con gli stereotipi della santità impressi sui volti ispirati e negli atteggiamenti raccolti; gli eventi miracolosi della loro esistenza; le visioni e le estasi. I primi due settori non sembrano offrire molto materiale al fine di analizza-

1 Sulle visioni e l’estasi nell’arte romana dei due secoli si veda V. Casale, “Più accennarsi che esattamente descriversi”; difficoltà e sperimentazioni nelle immagini di visioni ed estasi dell’arte romana fra Sei e Settecento, in Visioni ed Estasi, capolavori dell’arte europea tra Seicento e Settecento, catalogo della mostra a cura di G. Morello, Roma 2004, pp. 85-99.

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Vittorio Casale

re il modo di porsi degli artisti di fronte al rapporto di cui ci stiamo occupando: nel primo caso la rappresentazione iconica dei santi tende quasi ad annullare la raffigurazione della corporeità, per sostituirla con la resa per così dire smaterializzata della figura umana; il secondo si comporta quasi al contrario, poiché deve raffigurare azioni – sia pur miracolose – che impegnano il santo essenzialmente nella sua fisicità. Il terzo è quello che risponde meglio al nostro tipo di analisi, poiché le visioni e le estasi sempre chiamano in causa tutt’e due le componenti del tema qui trattato, sia pure in combinazioni che possono essere varie: la corporeità e la religione, o, più specificamente, la fisicità e il misticismo. Gli artisti si sono dovuti confrontare da sempre con queste tematiche e con i problemi di rappresentabilità che esse comportano, proponendo varie soluzioni. La difficoltà principale consiste, com’è naturale, nell’assenza di un referente tangibile da cui prendere le mosse per raffigurare uno dei due termini, lo spirito, qui nella accezione specifica di misticismo. Non mancano però le basi su cui potersi documentare per la conoscenza di fatti tanto straordinari da varcare i limiti di ogni comune esperienza: i resoconti diretti forniti dagli stessi protagonisti o dai loro biografi. Sono testimonianze preziose, che informano sulla natura delle visioni e la dinamica delle estasi, e spesso anche sulle risposte sollecitate dalla soprannaturale tensione mistica scatenata da quegli eventi. Si tratta però di materiali da usare con estrema cautela, anche perché non sempre sono scritti autobiografici ma registrazioni di biografi a un quoziente di fedeltà difficilmente accertabile. Anche i racconti autobiografici necessitano di grande attenzione per essere utilizzati in modo pertinente. Infatti si riferiscono a fatti sfuggenti e dai contorni incerti – come si verifica nei sogni – per loro stessa natura, e inoltre di difficile registrazione per il turbamento e l’estenuazione scatenati dalle eccezionali circostanze. Questi scritti hanno costituito la base per il conio delle immagini agiografiche e c’è da pensare che siano stati certamente presenti agli artisti e ai committenti, basti citare il racconto della transverberazione di santa Teresa da sempre messo in rapporto col capolavoro di Bernini. Come ogni altro il grandissimo artista fornisce una personale interpretazione dell’evento ultraterreno narrato nel resoconto autobiografico: il necessario canovaccio, nulla di più. Evitando generalizzazioni si può affermare che Bernini e gli altri grandi in genere cercarono di attenersi ai resoconti biografici, componendo immagini

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Corpo e religione nell’arte romana del Seicento e del Settecento

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che possono essere viste come il contrario dell’ekfrasis: l’immagine quale equivalente del resoconto letterario. Se alla registrazione dei fatti inevitabilmente alterata, fornita dai protagonisti e ancor più dai biografi, aggiungiamo le personali interpretazioni degli artisti, c’è da interrogarsi sulla plausibilità di una ricerca come quella che stiamo conducendo; e, se il nostro unico obiettivo fosse di arrivare a conoscere quale tipo di dialettica le visioni e le estasi misero in campo fra religione e corporeità, spirito e senso, umano e divino, sarebbe davvero il caso di desistere. L’indagine sarebbe invece pienamente legittima qualora volessimo ricostruire il modo in cui fu visto attraverso il tempo il rapporto fra i due termini traendo indicazioni fra le molte che, alla stregua di ogni altro documento storico, forniscono le opere d’arte. Ma occorrerebbero repertori iconografici completi per ogni santo e ordinati cronologicamente, in modo da combinarli fra loro per poter riconoscere nella pittura un andamento unitario nell’intendere il rapporto corporeità-religione. La santa che può vantare un’iconografia vasta e ininterrotta, tale da consentire qualche considerazione più generale sul modo di raffigurare quel tipo di rapporto, è Teresa d’Avila. È una delle sante più famose e divulgate, per vari motivi, di cui forse il più determinante, per restare aderenti al tema della raffigurazione della santità, fu la biografia redatta dalla stessa. Le continue edizioni furono corredate da incisioni che affidavano alla forza dell’immagine il compito di rendere evidenti e indimenticabili i suggestivi racconti, e finirono per comporre un consistente dossier che rende possibile cogliere il modificarsi degli stessi soggetti attraverso il tempo. Ma si deve anche tenere presente che proprio l’incessante produzione di immagini portò quasi inevitabilmente alla persistenza dei modelli e quindi frenò in qualche modo le innovazioni interpretative. Inoltre le incisioni a corredo della biografia avevano uno scopo essenzialmente didattico e illustrativo, per cui il rapporto che andiamo analizzando vi occupa un ruolo piuttosto marginale: è il fattore meno variabile, rispetto all’intonazione stilistica che riflette i vari temperamenti artistici e il gusto del momento. Ad esempio, le due incisioni del Matrimonio mistico, quella di Adrien Colleart (1613) e quella tratta da Lazzaro Baldi (1670) 2, mostrano la

2 Sull’agiografia illustrata di santa Teresa si veda V. Casale, Lazzaro Baldi e Ciro Ferri “agiografi” di santa Teresa d’Avila, in Atti del convegno «Culto dei santi, istituzioni e classi sociali in età preindustriale», S. Boesch Gasano - L. Sebastiani (edd.), L’Aquila-Roma, 1984, pp. 737-788. La prima incisione citata fa parte della Vita Beatae Teresiae

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santa presente a se stessa e nel pieno possesso dei sensi, anche se cambia molto la messa in scena. Collaert presenta un’impaginazione ancora di gusto tardomanieristico, in cui Cristo è addirittura racchiuso nella mandorla di ascendenza bizantina. Lazzaro Baldi riprende l’ossatura della scena, ma vi infonde una ventata di naturalezza, e Cristo è quasi una figura umana, che poggia sullo stesso piano dove la santa si inginocchia. Vediamo ora quali effetti producono sul fisico le accese tensioni mistiche, liberate dalle visioni e dalle estasi. In ciò ci basiamo sulle relazioni fornite direttamente dai protagonisti o raccolte dai loro agiografi. Come altre possibili ricerche sul tema, anche questa non può procedere se non per casi singoli e arrivare quindi a deduzioni la cui validità può talvolta estendersi anche oltre i singoli episodi, ma senza che si approdi a una sorta di regola generale, dato che le visioni e le estasi potevano presentare dinamiche molto diverse in rapporto alle peculiarità degli eventi e delle singole personalità. E non è detto che anche la stessa persona non potesse viverle in una pluralità di modi, come vedremo nel caso di santa Caterina de’ Ricci. In occasione del rapimento mistico la normale dinamica sensoriale appare profondamente alterata. In questi frangenti l’ardore spirituale prende decisamente il sopravvento sulla corporeità, al punto da ridurne la forza e in parte le funzioni; del resto una delle espressioni più frequentemente adoperate in questi casi – da intendere in senso strettamente letterale – è proprio la perdita dei sensi. Non può trattarsi ovviamente dell’azzeramento totale della sensibilità, ma di una drastica riduzione che produce l’isolamento dell’individuo e favorisce così la concentrazione necessaria per percepire i fenomeni soprannaturali ed entrare in sintonia con essi. Santa Teresa d’Avila racconta dettagliatamente di aver avvertito il corpo disarticolarsi e la voce venir meno quasi del tutto: «Altre volte viene così gagliardo [l’impeto], che né questo né altro si può fare, poi che tronca tutto il corpo, in modo che né piedi, né braccia si possono maneggiare, anzi se si sta in piedi convien porsi a sedere, come una cosa abbandonata, che né anco può rifiatare, solamente dà alcuni gemiti non grandi percioché non può, ma sono grandi nei

a Jesu, album di 25 incisioni di Adrien Colleart e Cornelis Galle, edito ad Anversa nel 1613 (un anno prima della beatificazione); la seconda, opera di Lazzaro Baldi, correda la biografia illustrata di padre Alessio Maria della Passione, Vita effigiata et esercitij affettivi di S. Teresa di Gesù maestra di celeste dottrina…, Roma 1670.

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sentimenti» 3. Un’altra grande mistica, santa Caterina de’ Ricci, ripropone sostanzialmente la stessa situazione nella perdita dei sensi e addirittura nella sospensione del respiro: «In somma cotanto frequenti erano le astrazzioni e l’estasi di questa sposa di Cristo, che la custodia sua stimava che ella pochissimo dormisse, onde era la vita sua, in quei primi anni, quasi miracolosa: stando essa […] alienata tal’hora per sei, otto o dieci ore, con tutto il corpo immobile, con gl’occhi aperti, con aspetto e faccia tanto venerabile, che eccitava grandemente Dio. Conoscevasi il sonno dal ratto da questo, che nel sonno halitava, ma non già nel ratto» 4. Il suo misticismo le poteva far vivere anche esperienze diverse, cui partecipava non soltanto con lo spirito, ma con la pienezza della sua corporeità, come ad esempio la visione del suo matrimonio mistico: «Si noti che tutto questo giocondo mistero vide la serva di Dio Caterina non in ratto o vero alienata da i sensi, ma in visione aperta e desta essendo e nei sensi corporei» 5. Una situazione, questa, non tanto comune, poiché durante le visioni soprannaturali è abitualmente la vista il senso che si altera più profondamente, fino a venir meno del tutto. E in un certo senso è quasi ovvio: le visioni soprannaturali non si possono discernere con gli strumenti che usiamo per la conoscenza della realtà, ma esigono attrezzature più sofisticate, capaci di “vedere” anche le cose immaginate. Inoltre la perdita della vista contribuisce più degli altri sensi a produrre l’isolamento dal mondo circostante che, come abbiamo detto, è la condizione indispensabile per percepire la visione interiore. Così santa Teresa con esemplare aderenza riesce a far comprendere l’eccezionale situazione di annichilimento: «Per la maggior parte stanno serrati gl’occhi ancorché non volessimo chiuderli, e se sono alcune volte aperti, come già dissi, [la persona] non considera, né averte a quello che vede» 6. Descrivendo una delle sue visioni più famose, santa Caterina Fieschi Adorno chiarisce definitivamente l’ossimoro della perdita della vista che si coniuga con una visione: il mistico vede con un tipo di strumento più spirituale degli occhi umani: con gl’occhi della mente, come vedremo più avanti. La perdita della vista, la sospensione del respiro, l’annientamento della

3 G.F. Bordini, Vita della M. Teresa di Gesù…, 4 Fr. S. Razzi, Vita di Santa Caterina de’ Ricci,

Roma 1599, p. 348. De Agresti (ed.), Firenze 1965, p.

133. 5 Ibid., p. 130. 6 G.F. Bordini,

Vita della M. Teresa di Gesù…, cit., p. 232.

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corporeità possono portare a una situazione prossima alla morte, in cui il corpo diviene un oggetto passivo, totalmente incapace di governarsi: «Quando l’anima è annichilata e trasformata, all’hora non opera, non parla, non vuole, non sente, non intende, non comprende, e non ha in sé sentimento, di dentro né di fuori che si possa movere, e in tutte le cose Dio è che regge e guida senza mezzo di altra natura» 7. Come si comportano gli artisti chiamati a raffigurare questo pelago dell’indefinito, del contraddittorio, dell’inesprimibile? Anche qui è impossibile tracciare delle costanti: certo essi si basarono sulle “testimonianze” scritte, ma abbiamo visto quanto esse siano evasive e varie. E si deve considerare che non sempre gli artisti erano completamente liberi di formare le iconografie, dato che spesso erano diretti dai committenti. Infine si deve lasciar spazio anche al gusto personale dell’artista, che può avere influito nell’interpretazione dei fatti, del resto assai poco netti nei loro confini per essere privi quasi totalmente di un vero e proprio referente reale. Perciò, come abbiamo fatto per gli scritti dei santi, proponiamo alcuni esempi particolarmente rappresentativi. Incominciamo prendendo in esame uno degli esempi più divulgati dell’arte barocca, l’Estasi di santa Teresa di Gian Lorenzo Bernini. Per dimostrare l’aderenza all’evento scrupolosamente perseguita dall’artista viene sempre citato il resoconto della santa, con cui ella ci informa di essere stata trafitta da un angelo con una freccia infuocata. Non vi è dubbio che Bernini ebbe presente tale resoconto, ma nella sua opera tutto ciò costituisce solo la nuda ossatura dell’evento, alla quale l’artista aggiunse molto di più, dimostrando così di essersi ben documentato anche sui complessi risvolti che quella particolare estasi, e le altre, potevano produrre sull’assetto fisico dei protagonisti. Bernini infatti si applicò molto a raffigurare la risposta fisica della santa all’insostenibile ascensione mistica. E in questo impegno potrebbe aver tenuto presenti alcuni passi dell’autobiografia teresiana, rivelatori dello stato di grande turbamento dovuto al convergere di pena e gusto, di tumulto e di pacificazione, e infine di totale prostrazione, come ad esempio quello in cui il suo stato le «pare il transito della morte, eccetto, che seco tira un tal contento questo patire, che 7 G. Marzabotto, Libro de la vita mirabile e dottrina santa, de la beata Caterinetta da Genova…, Genova 1551, f. 50.

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non sò a che cosa l’assomigliare. In questa maniera perdo alcuna volta talmente il polso, per quello mi riferiscono alcune delle sorelle, che tal volta mi s’appressano, che non lo sentono ponto, e hò l’ossa tanto aperte, e le mani tanto rigide, che non le posso alcune volte congiungere, e così mi rimane il dolore sin all’altro giorno ne polsi e nel corpo che pare sia stata dislogata» 8. L’artista è riuscito mirabilmente a rendere l’effetto dello slogarsi e della riduzione della corporeità fin quasi al suo annullamento, delegando al panneggio straordinariamente fratto – si direbbe animato – la funzione di rendere il drammatico turbamento. L’opera inoltre esprime quasi paradigmaticamente le incertezze che in modo pressoché fisiologico si intrecciano all’estasi: il corpo della santa è ancora un organismo o si è trasformato in un coacervo di arti “dislogati”? Ella respira ancora? E vede con gli occhi o soltanto con la mente? E così via. Si può aggiungere che anche lo spettatore è intimamente coinvolto nel clima irreale dell’evento, al punto che potrebbe chiedersi se abbia di fronte una concreta opera di scultura o se, quasi rispecchiando la vicenda della santa, stia per essere catturato da una visione dai contorni incerti e sfumati, come è tipico di quei fenomeni. Poniamo ora degli esempi che presentano altre interpretazioni, diverse sia rispetto a quella proposta da Bernini, sia fra loro. Per dodici anni, a partire dal 1542, santa Caterina de’ Ricci fu rapita ogni settimana in un’estasi che poteva durare anche due giorni e nella quale riviveva le varie fasi della passione di Cristo, immedesimandosi a tal punto che le accadeva di mimarle. «Si vedeva meravigliosamente muovere il corpo suo: e decentissimamente le spalle, le braccia e l’altre membra esporre e di maniera piegare, che la mansuetudine di Gesù salvatore ne gl’animi delle persone astanti imprimeva. Nella coronazione poi delle spine [...] si vedeva l’ancilla di Cristo piegare et inchinare testa, hora in su un lato et hora in su l’altro, secondo che quei malfattori lo venivano schernendo, quando in una e quando in altra parte» 9. Ne L’estasi di santa Caterina de’ Ricci, Agostino Masucci rappresenta la mistica rapita in estasi di fronte al Crocifisso mentre apre le braccia mimando la crocifissione. La chiave interpretativa dell’opera non è la rappresentazione di un miracolo e nemmeno di un fatto reale, ma piuttosto di un garbato teatrino nel quale l’artista si cura di evitare ogni clamore di sentimenti e di gesti; 8 G.F. Bordini, Vita della M. Teresa di Gesù…, cit., pp. 227-228. 9 Fr. S. Razzi, Vita di Santa Caterina de’ Ricci, cit., p. 126.

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quindi non coinvolge direttamente lo spettatore, semmai lo incanta col garbo supremo, con la leggerezza, il clima sospeso, quel senso di cortesia e di bon ton che è poi la particolare declinazione del marattismo caratterizzante l’intera sua produzione. L’effetto che la visione produce sulla fisicità della santa – a parte il ratto – è quasi nullo: qui la giovinetta sembra conservare tutti i sensi, anche se il carattere di fiaba, distante e ovattato, attenua molto la fisicità dei partecipanti. Un’interpretazione più realistica, seppur capace di dar forma anche al soprannaturale, è quella data da un grande artista del Settecento non solo romano: Marco Benefial. Prendiamo in considerazione l’altra Caterina delle canonizzate nel Settecento: santa Caterina Fieschi Adorno, favorita da una particolare visione, descritta così da lei stessa: «Mentre in tali agitazioni trovavasi il di lei spirito ecco che tutto in un tratto se le presenta avanti gl’occhi della mente il suo amore Gesù, il quale curvando le spalle sotto una pesantissima Croce versava rivoli di sangue dalle sue piaghe in guisa tale, che la casa tutta sembrava essere da quello inondata. Ad una somigliante veduta sopraffatta Caterina sentì talmente accendersi da un interno amoroso fuoco, che parevale dovesse allora distaccarsele per violenza del petto il cuore, e restò così altamente impressa nell’animo suo codesta visione, che ovunque rivolgevasi sembravale di vedere cogl’occhi stessi del corpo il suo Gesù Crocefisso, e scorrere per ogni parte quel suo sangue preziosissimo, che con tanto amore per lei versato aveva» 10. Il racconto aggiunge un’interessante precisazione sulle modalità con cui veniva percepita la visione: in un primo momento si tratta essenzialmente di un’immaginazione, che viene recepita con gl’occhi della mente; in un secondo tempo – e così appare efficacemente segnato il passaggio all’estasi vera e propria – la santa discerne l’evento miracoloso cogl’occhi stessi del corpo; cioè, all’apice dell’estasi mistica il senso della vista torna ad inverare l’apparizione trasformandola in un evento che accade realmente, accertabile anche dalla fisicità degli attori. Non è dato di sapere se, nell’accingersi a dipingere, l’artista si fosse documentato direttamente sulla biografia della santa, ma è del tutto ragionevole supporlo. Nel superbo capolavoro il Cristo portacroce esce fuori dal suo regno di nuvole e poggia il piede sul mattonato dove lo attende la santa inginocchiata. È tangibile, si potrebbe dire, la fisicità dei protagonisti, non meno delle co10 Vita di Santa Caterina Fiesca Adirna da Genova succintamente descritta e ricavata da’ processi fatti per la di lei canonizzazione…, Roma 1737, p. 19.

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Corpo e religione nell’arte romana del Seicento e del Settecento

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ordinate spaziali e della perpendicolare caduta del sangue che sgorga dal corpo di Cristo e scorre sul legno della croce; si materializza anche, in un certo senso, lo spazio celeste che lo circonda. Caterina è nel pieno dell’estasi: osserva con raccoglimento e ormai cogl’occhi stessi, per certi aspetti ricongiungendo, grazie alla suprema finzione dell’arte, la perdita della vista fisica – che le consente la visione – e il suo riacquisto che le dà modo di percepire come reale un evento esistente nello spazio del misticismo.

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Corpo e identitù Claudia nell’arte Caneva del post-human

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Corpo e identità nell’arte del post-human di

Claudia Caneva

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La storia dell’arte non è fine a se stessa: essa serve alla conoscenza dell’uomo. (W. Pinder)

Introduzione Il corpo, oscillando, nella storia, tra pura materialità e rarefazioni concettuali, è sempre stato ed è, in maniera del tutto particolare oggi, un tema di attenta riflessione. La dimensione corporea è, infatti, l’aspetto originario, originale e concreto che esprime la specificità di ognuno di noi, percepito, allo stesso tempo, come personale sorgente di vita e personale sorgente di morte. Il corpo umano è profondamente legato alla dimensione della soggettività personale, anche quando esso diventa tema dell’attività creativa, dell’opera d’arte, contenuto della cultura. L’uomo, infatti, non si incontra solo con la “realtà oggettiva” del proprio corpo, ma “sperimenta il corpo” come coscienza soggettiva, e anche esperienza soggettiva del medesimo. Alcuni artisti dell’arte del post-human hanno fatto del proprio corpo il contenuto delle loro performance. In questo contesto i problemi collegati al corpo sono contemporaneamente legati alla sua identificazione ontologica, quale corpo della persona dell’artista. Il corpo umano inteso come manifestazione della persona e sorgente di comunicazione interpersonale, come comunicazione dell’umanità stessa, quando diventa soggetto-oggetto dell’opera d’arte, pone un problema che non è solo di natura estetica, ma anche etica. Il corpo, infatti, in alcune performance estreme viene intenzionalmente “minacciato”, nel senso che diventa oggetto di appropriazione e, in alcuni casi, di vero e proprio abuso. «Nell’ambito della storia dell’arte occidentale il rapporto armonico dell’io con il mondo era rappresentato dalla forma simbolica

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della prospettiva, dalla messa in scena della profondità che esprimeva la relazione con la natura e la storia. La figura umana occupava, seppure in maniera sempre più problematica una centralità gratificante […] da Klimt in poi, la profondità diventa uno spazio di superficie in cui la figura si distende in orizzontale ed in verticale, scorporandosi completamente dal fondo […]» 1. U. Galimberti afferma che, dopo aver declinato la salvezza nell’ambito più modesto della salute per scongiurare malattia e morte, non più accompagnate da speranze ultraterrene, il corpo assume il ruolo di santuario ideologico, in cui l’uomo consuma i resti della sua alienazione. Galimberti parla di alienazione, perché oggi «non abitiamo più il nostro corpo, ma, al pari degli schizofrenici, lo percepiamo come altro da noi (come è e come dovrebbe essere), come qualcosa che dobbiamo costruire per renderlo il più possibile corrispondente ai canoni di salute, bellezza e forza proposti da una pseudocultura». E tutto si ferma lì, aggiunge Galimberti, «nella clausura di un autismo narcisistico che non approda alla comunicazione, ma alla soddisfazione di essere oggetto di un desiderio che, ripiegandosi su se stesso, celebra la sua perversione» 2. Nel panorama contemporaneo, grazie alle sempre più sofisticate tecnologie, il nostro corpo si manipola, si trasforma, si ri-progetta. R. Marchesini lo paragona a un paesaggio (somato-landscape), osservabile grazie alle sempre più sofisticate tecniche di indagine che sono ormai in grado di mostrarcelo non solo nei recessi più reconditi e microscopici, ma altresì di fornirci immagini tridimensionali delle sue attività fisiologiche, delle sue fasi metaboliche e dei suoi umori. «Attraverso microtelecamere a fibre ottiche e metodologie di medical imaging come la tomografia assiale computerizzata (TAC), la tomografia a emissione di positroni (PET), la tomografia a emissione di singolo fotone (SPET), la risonanza magnetica (RM), il paesaggio corporeo diventa accessibile ai nostri occhi come un pianeta vivo che sussulta in vertiginose onde peristaltiche, in violente contrazioni miocloniche, in tempeste di flussi secretori, in una catena di reazioni organiche che ricordano i terremoti e gli uragani» 3. 1 A. Bonito Oliva, Disidentico, dal catalogo della mostra Disidentico. Maschile e femminile e oltre, Napoli, Museo di Castelnuovo, dicembre 1998-febbraio 1999. 2 U. Galimberti, Narcisisti e schizzati, così trionfa l’apparenza, in «La Repubblica», 14 novembre 2006. 3 Cf. R. Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 207.

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Lo sconcerto che deriva da tale esperienza, aggiunge sempre R. Marchesini, è sì attribuibile alla novità di osservare ciò che di consuetudine non ci è dato di vedere, ma deriva soprattutto dal fatto che ciò «sancisce la perdita di quel carattere misterioso del corpo […], il superamento di quel clima di profanazione con cui avevano dovuto confrontarsi Leonardo da Vinci e Andrea Vesalio» 4. Ognuno di noi potrà immergersi nel proprio corpo, esplorarlo come ambiente, come una metropoli. Il somato-landscape diventa così un vero e proprio spazio di esperienza, «attrattore di nuove epistemologie, un volano di nuove coniugazioni con il mondo» 5. Nell’arte, le opere di una piccola schiera di artisti contemporanei (prime fra tutti nell’idea di esplorare il proprio corpo Mona Hatoum e Janine Antoni 6) sempre più mettono in contatto scienza medica, tecnologia mediale, identità e corpo. Ossessione dei mass media e confine della scienza, il corpo, in queste opere, risulta sempre più trasformato: si evidenzia lo sconvolgimento e il turbamento dell’immagine complessiva dell’uomo. Nello smembramento delle stesse forme umane e nella graduale e sempre più decisa separazione dalla natura, l’io vaga confuso, come un nomade, tra i frammenti del sé. La domanda che nascerà spontanea, rispetto a queste manifestazioni artistiche, sarà: possiamo definirla arte? Quale forma di bellezza manifestano? Sono, forse, il frutto del disorientamento dell’uomo contemporaneo che si sente chiuso nel labirinto di un soggettivismo narcisistico fine a se stesso? Hanno e vogliono esprimere un senso? O forse la crisi del linguaggio contemporaneo, compreso quello artistico, che ha dissociato il pensiero dalla verità e dalla sua bellezza, è tale che si propone di non esprimere nulla, ma vuol essere solo avventura, un vagabondare nella follia del divenire? Riflettere sulle soluzioni formali così discordanti che il corpo umano, in quanto soggetto artistico, ha prodotto nel corso dei secoli (dal pluteo dell’altare di Ferentillo scolpito dal Magister Ursus, al

4 Ibid., p. 208. 5 Ibid., pp. 210-211. 6 Mona Hatoum, anglopalestinese,

nelle sue performance usa introdurre microscopiche sonde nella bocca e in altri intimi orifizi, utilizza amplificatori acustici, videoproiettori, sensori delle onde elettriche per esplorare i moti interiori del proprio corpo, quelli che sfuggono alla coscienza. Produce poi dei video che espone al pubblico. Janine Antoni è un’artista newyorkese che usa il proprio corpo per creare originali, ma discutibili performance.

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David di Michelangelo, alle Forme uniche nella continuità di Boccioni, alle performance post umane) significa cogliere e comprendere le differenze profonde che rispecchiano il modo di pensare di un’epoca e il punto di vista dal quale gli uomini hanno visto se stessi e il mondo. Inoltre, se saremo in grado di leggere le provocazioni dell’arte del post-human considerandole non solo come realtà storiche, ma come sintomi di una sofferenza – valutando la forza simbolica con la quale questi fenomeni mettono in luce i rivolgimenti avvenuti nel profondo del mondo spirituale dell’uomo –, potremo dire che l’arte non è solo distrazione ai margini della vita. René Huyghe affermava che «l’arte è, per la storia delle comunità umane, ciò che il sogno di un uomo è per lo psichiatra» 7; nell’arte, infatti, l’anima di un’epoca non si mette la maschera, essa cerca se stessa e manifesta anche una sorta di presagio. Essa giunge al cuore della vita, ne rivela i misteri più profondi e sconosciuti, ne contiene le confessioni più immediate e più sincere, perché più spontanee. L’arte rappresenta un’esperienza fondamentale dell’esistenza umana, e riconoscerne l’importanza significa far cadere quell’ostracismo di principio nei confronti del valore veritativo di altre forme dell’esperienza umana e ridefinire lo statuto epistemologico dei diversi linguaggi. Nel rendere, infatti, ragione dell’intero fenomeno cognitivo umano in tutte le sue articolazioni, si dovrebbe cercare di restituire valore e dignità a quelle esperienze che, come l’arte, non si realizzano solo sotto il principio della verificabilità scientifica, ma rappresentano un vero potenziamento della coscienza, nel processo di autenticazione della persona umana. Nell’accostarsi, poi, a un’opera d’arte bisogna tenere presenti tutte quelle indicazioni che l’artista ha destinato «a ottenere la comunicazione del suo respiro vitale» 8, bisogna fare uno sforzo di fedeltà che costituisce l’unica possibilità di cogliere l’intima natura

7 R. Huyghe cit. in H. Sedlmayr, Perdita del centro, Borla, Roma 1948, p. 13. 8 A. Parente, La musica e le arti, EDA, Savigliano 1982, p. 253. Nel valutare

un’opera d’arte non bisogna farsi prendere da facili sentimentalismi, quanto piuttosto è necessario tenere presenti quelli che E. Betti definiva il canone richiedente l’adeguazione dell’intendere e il canone dell’autonomia e immanenza ermeneutica, i quali pongono l’interprete di fronte a un termine fermo ed insuperabile che vincola inesorabilmente la sua attività (cf. E. Betti, Teoria generale dell’interpretazione, Giuffrè, Milano 1990, p. 761).

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dell’oggetto. Non il giudizio, ma l’ascolto, saper cogliere cioè la traccia, il segnale, per pervenire a quel “significato ulteriore”, non solo in termini psicologici quanto piuttosto in termini fenomenologici, come risultato, cioè, di tendenze/scelte dell’artista. Ecco allora che talvolta la più violenta e arbitraria deformazione cela il proposito di una rivelazione più profonda 9. Vedremo come in queste manifestazioni artistiche contemporanee, estreme, ci sia l’ostinata volontà di mettere in evidenza che nel processo di produzione dell’opera d’arte il corpo non è soltanto iniziativa, ma contenuto stesso, nel senso che esso giunge a fare di sé l’opera-forma, un significato vivente! Il rapporto corpo-religione, corpo-spiritualità nell’arte ritengo debba esser visto all’interno di un’analisi della dimensione estetica dell’esistenza umana che vuole coglierne l’eco qualitativo e irripetibile: il corpo è, infatti, luogo di risonanza, veicolo di trascendenza. Il concetto di risonanza, infatti, richiama un rapporto con la verità secondo modalità mediate, e questo non tanto per incapacità dell’uomo di salire immediatamente verso contemplazioni spirituali, quanto piuttosto per una concezione di verità, in particolare quella che si riferisce alle realtà spirituali, che non è semplicemente una proprietà logica del giudizio, bensì è sorgente e origine del pensiero. L’arte, infatti, rappresenta l’unico modo finito affinché il fantastico 10 e l’infinito possano accedere alla coscienza, possano essere comunicati. Attraverso l’osservazione di alcune opere d’arte del post-human analizzeremo come è vissuto, secondo questi artisti, il rapporto dell’uomo contemporaneo con il proprio corpo. «Dopo gli dèi, le rivoluzioni e i mercati finanziari, il corpo diventa criterio di verità […] riponiamo in lui tutte le nostre speranze» 11 afferma H. Juvin.

9 Nell’arte si rivela quel tipico destino dell’uomo, di ritrovarsi a fare cose che poi non riesce a penetrare fino in fondo, eppure le ha fatte lui stesso: perché le opere d’arte hanno pur sempre qualcosa di misterioso che le avvolge! (cf. L. Pareyson, Teoria della Formatività, Bompiani, Milano 2002). 10 La fantasia è da intendersi come uno dei sensi interni (insieme a memoria, senso comune, istinto) dell’uomo. Fantasia, immaginazione, è quella facoltà dell’uomo che alimenta la spinta di autotrascendenza ed è capace di muoverlo alla progettualità nel suo desiderio d’essere. 11 H. Juvin, Il trionfo del corpo, Egea, Milano 2006.

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L’arte del post-human 12 Il termine post-human deriva dall’ambito artistico ed è stato il nome di un’operazione culturale intelligentemente approntata dal critico americano Jeffrey Deitch, poliedrico manager newyorkese, laureato in storia dell’arte ed economia, sponsor di Jeff Koons e curatore di importanti mostre, tra le quali Artificial Nature. Nel 1992 si inaugura, nel Museo di Arte Contemporanea di Losanna, una mostra di arte contemporanea intitolata Post human. Rappresenta il primo evento espositivo che si è occupato in maniera esplicita del “nuovo corpo”, il corpo, cioè, in relazione ai fenomeni più innovativi e dibattuti della cultura contemporanea: trasformazioni, manipolazioni, rapporto tra artificiale e naturale. La post-human è, infatti, l’arte che raccoglie le sfide dell’epoca dell’ingegneria genetica, della robotica, della cibernetica, delle mutazioni organiche, degli impianti di protesi, delle clonazioni e delle ibridazioni genetiche, del corpo invaso dalla tecnologia, del corpo geneticamente modificato. Risultato: l’uomo bionico, modificabile, ricostruibile come un meccano, il tutto innestato nel fertile terreno di una produzione pseudoartistica che invade il mercato di bric-àbrac elettronico-digitale, dei videogame, dei robot tutto fare e di altre invenzioni del mondo cyborg 13. Nel catalogo della mostra, Jeffrey Deitch, che ne è stato il curatore, espone il suo manifesto: «Il mondo emergente nel quale la chirurgia plastica, la ricostruzione genetica e gli innesti di componenti elettronici diventano prassi comune, potrà ben presto essere assunto come uno stadio ulteriore dell’evoluzione darwiniana dell’essere umano. Tali innovazioni tecnologiche inizieranno anche ad alterare radicalmente la struttura delle interazioni umane […]», e aggiunge: «l’era moderna potrebbe essere definita come il periodo della scoperta dell’io, l’era postmoderna nella quale viviamo può essere intesa come un periodo transitorio di disintegrazione dell’io […], forse l’era post umana, che co12 Cf. C. Caneva, Il post umano nell’arte, in I. Sanna, La sfida del post umano. Verso nuovi modelli di esistenza?, Atti del Seminario di studio La sfida del Post-umano. Verso nuovi modelli di esistenza? del 10-11 luglio 2004. Studium, Roma 2005, pp. 255-268. 13 Interessante sarebbe una riflessione sulla differenza tra la concezione settecentesca di automa e quella novecentesca di cyborg: l’automa infatti rassicurava riguardo l’eccellenza del corpo, il cyborg si presenta invece come un nuovo uomo, con un nuovo corpo: mutante.

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mincia ad intravedersi all’orizzonte, sarà caratterizzata dalla ricostruzione dell’io» 14. La sovrapposizione tra umano e artificiale, le ambigue promesse di un avvenire tecnologico e globalizzato, si sono riversate dalla finzione narrativa, dalle pagine di fantascienza di Philip Dick (gli androidi e i mutanti che rivedremo nel film Blade Runner di Ridley Scott) alla vita di tutti i giorni, ai robot di Asimov, sollecitando un’attenta e urgente riflessione. Famoso e interessante al riguardo anche il film Viaggio allucinante di Richard Fleischer, tratto dal romanzo di Isaac Asimov. Un anno dopo la mostra Post human, Helena Kantowa, curatrice della sezione «Aperto ’93» della Biennale di Venezia, mostra le ultime tendenze dell’arte internazionale, ivi comprese quelle che hanno per protagonista il corpo. Ma accade un fenomeno nuovo, è come se dai postumani si fosse staccata un’ala più dura, interessata ad esperienze estreme: è il corpo che interessa, ma il corpo in mutazione violenta e traumatica. Li chiamano i nuovi linguaggi, tattoo, piercing e pratiche sadomasochiste. Entriamo nel post-organico, dove si evidenzia sempre più la pretesa e il desiderio di trascendere il biologico 15.

Il corpo nell’arte del post-human Il rapporto tra religione e corpo/corporeità è un rapporto originario, fondamentale, colmo di significati e di implicazioni. Di esso si fanno carico le religioni a ogni latitudine e da diversi punti di osservazione. 14 A. Vettese, Capire l’arte contemporanea dal 1945 ad oggi, Umberto Allemandi & C., Torino 1998, p. 299. 15 Il cyberpunk riscuote molta attenzione da parte dei mass media. L’editoria, in particolare, dà vita a collane specializzate. Si venerano i nuovi eroi del corpo: William Gibson e David Cronenberg, il regista giapponese Shinja Tsukamoto. Il pubblico che ama questi “nuovi linguaggi” del corpo ha un’età anagrafica che corrisponde ai giovani che ascoltano Marylin Manson e Nine Inch Nails. In Italia, alla fine del 1993, esce la rivista Virus che si propone come Trimestrale delle mutazioni dedicando ampi spazi alla performer Orlan, all’americana Nan Goldin. Tra il 1996 e il 1997, sul tema della “nuova corporeità” vengono pubblicati due libri: Il corpo post organico di Teresa Macrì e Identità mutanti di Francesca Alfano Miglietti, direttrice di «Virus». In campo “artistico” si possono menzionare al riguardo le performance di Marcel Lì Antunez Roca che offre se stesso, la propria carne, alle torture e alle manipolazioni del pubblico, con la macchina da lui creata che veste il suo corpo. È costituita da piccoli pistoncini, ganci, tamponi guidati dagli spettatori attraverso un computer.

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Il corpo è assunto come metafora dell’aggregazione dei fedeli, miraggio di trasfigurazione escatologica, ma è anche luogo di sospetti per l’impoverimento dello spirito, tema di predicazione morale e di pratiche mortificatorie. Il tema del corpo è sempre presente nelle religioni. Per uomini e donne il destino stesso dell’esperienza religiosa e l’apertura alla fede passa attraverso l’armonioso o disastroso rapporto con cui sentono e vivono la loro dimensione corporea. Tutto questo perché il corpo umano è un universo culturale e simbolico. Esso è il filtro, l’interfaccia tra la realtà esterna e quella interna, che necessariamente elabora la prima. Per questo il corpo umano in quasi tutte le civiltà è diventato, dal punto di vista artistico, il modello stesso dell’universo, e talora addirittura il modello dell’immagine del dio creatore, tanto da dar vita a un ricco simbolismo. Le stesse parti del corpo hanno assunto valore di metafora, ipostasi di sentimenti, di atteggiamenti o di caratteri. Prendiamo per esempio come il cosmo ha assunto, nelle diverse culture, forma umana. Da Vishnu (figura solitamente di uomo con 4 braccia) a Buddha (rappresentato come un giovane uomo in meditazione), a Pan-Ku (la materia che dà sostanza alla creazione; di origine giapponese, viene rappresentato come un vecchio stante a gambe larghe e ginocchia piegate, ha una barbetta rada e le sopracciglia folte, in mano tiene il disco dello yin e dello yang), a Tangaroa (il suo aspetto è umano, ma caratterizzato da omuncoli che brulicano sul suo corpo, il suo volto non ha fisionomia, ma il naso, la bocca e gli occhi sono segnati dagli omuncoli da cui ha avuto origine l’universo; lo ritroviamo in Polinesia), ai Nommo (i due gemelli primigeni, secondo la credenza dei Dogon, popolazione insediata nell’area del Mali, presso il fiume Niger: hanno forma umana stilizzata maschile e femminile che con diverse modalità congiungono il mondo degli uomini con quello delle divinità), al Cristo cosmico. L’ iconografia del Cristo cosmico è rappresentata da un uomo che tiene fra le mani la sfera del cosmo e sembra che vi imprima il movimento. Il Cristo cosmico è una dicitura coniata da Teilhard de Chardin, sostenitore del significato cosmico dell’Incarnazione. Il microcosmo viene rappresentato come un uomo nudo, talora con le braccia allargate, che definisce così lo spazio, in verticale e in orizzontale, inscritto in un cerchio che allude al cosmo. Il concetto di microcosmo allude a un’analogia fra l’universo creato da Dio e l’uomo; la relazione fra i due termini si trova sia nei testi sacri che nella speculazione filosofica pita-

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gorica, ermetica, platonica e neoplatonica, e giunge fino al Rinascimento. Il motivo che porta a considerare valida questa relazione, al di là delle singole credenze religiose e dell’aspirazione a sostanziare in questo modo l’eccezionalità della persona umana rispetto al creato, risiede nella constatazione che tanto l’universo quanto il corpo umano rispondano a criteri di armonia 16. Il corpo dell’uomo, in quanto soggetto artistico, esprime nelle diverse epoche storiche il punto di vista dal quale gli uomini vedono e si rappresentano il mondo. L’uomo si fa soggetto artistico, alla continua ricerca di se stesso e del senso della propria esistenza. Ogni epoca storica ha, inoltre, elaborato schemi di rappresentazione e sistemi proporzionali della figura umana: il canone classico coincide, in linea di massima, con il Doriforo di Policleto 17; il canone medievale si presenta come una figura umana inscritta in una stella a cinque punte, modificata in modo che ogni raggio della stella coincida con collo, spalle e gambe (Villard de Honnecourt); il cinque viene considerato, infatti, il simbolo dell’uomo e il numero del mondo 18. Il canone rinascimentale s’identifica con l’Uomo Vitruviano di Leonardo, a fondamento del quale vi era un’idea di bellezza estetica che si esprimeva con la simmetria e la proporzione. Le proporzioni del corpo umano vengono avvicinate alle frazioni musicali (Francesco Giorgi 19 o Zorzi che pubblicò nel 1525 il De Harmonia Mundi totius). Nel Novecento, alle immagini tradizionali, si cominciano ad aggiungere quelle derivate dalle ricerche scientifiche e tecnologiche. La figura umana subisce profonde trasformazioni.

16 Nel primo caso, questa si manifesta nella regolarità dei moti planetari, nell’alternanza ordinata delle stagioni, del giorno e della notte; nel secondo caso è l’armonia delle misure del corpo che suggerisce il concetto di microcosmo, la regolarità del battito cardiaco e del ritmo respiratorio. Tutto ciò influì sui più grandi artisti del mondo occidentale, da Policleto a Leonardo da Vinci, fino ad Albrecht Durer e Michelangelo. Cf. M. Bussagli, Il corpo umano. Anatomia e significati simbolici, Electa, Milano 2005, pp. 10-33. 17 Policleto, sculture greco del V sec. a.C. Il Doriforo è una figura maschile nuda e leggermente ancata, il buono e il bello si raggiungono poco a poco attraverso molti numeri, armonia e rapporto proporzionale fra le parti. 18 Cinque sono i sensi, e il quinto giorno della creazione gli animali popolarono la terra. Viene mantenuta l’idea del rapporto proporzionale, la testa è il modulo di riferimento della figura umana. 19 Architetto e matematico, considerò la testa e l’altezza totale del corpo un tono musicale. Per approfondimenti cf. M. Bussagli, Il corpo umano. Anatomia e significati simbolici, cit., p. 43.

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L’esperienza delle avanguardie, in particolare del cubismo (Demoiselles d’Avignon di Pablo Picasso, del 1907), provocano un profondo ripensamento dei modi di rappresentazione della figura umana. Quando lo “smontaggio” dell’immagine umana si unì, poi, alla problematica figurativa del movimento, vide la luce il futurismo (1910). Lo studio del movimento e della conseguente successione delle immagini di un corpo umano produsse soluzioni artistiche inedite come Il nudo che scende le scale n. 2 di Marcel Duchamp. Qui il movimento si carica di valenze metaforiche. Il Nudo che scende le scale n. 2 ha i movimenti di un manichino, di un robot. In questa accurata analisi del movimento di un corpo che scende le scale come fosse un meccano, Duchamp anticipa quel processo a cui lui stesso darà vita l’anno successivo, caricando macchine e oggetti industriali (si pensi alla Macinatrice di cioccolata) di significati che alludono alla condizione umana. Ricordiamo anche la celeberrima scultura di Boccioni intitolata Forme uniche nella continuità dello spazio, del 1913, e Sintesi del dinamismo umano, opera poi distrutta. La modulazione sulla figura umana che propose il Novecento si sviluppò ulteriormente e, prendendo le mosse da quel percorso espressivo che ha in sé l’idea della destrutturazione del corpo, approdò a soluzioni come quelle di Henry Moore (1898-1986) e di Jean Dubuffet (1901-1985, che inaugurò l’Art brut, «peinture del vie moderne»). Nel primo caso si assiste a una nuova volumetria del corpo e nel secondo trionfa la deperibilità del corpo che, con Francis Bacon, diverrà monumento della putrefazione della carne. La concezione del corpo, il suo spazio, la sua presenza nell’immaginario e nella realtà, nella vita quotidiana e nella società ha, di fatto, subìto profondi mutamenti nelle diverse culture. Il significato attribuito al corpo è diverso da religione a religione e all’interno delle diverse spiritualità. Si è avuta, nella storia, un’alternanza di significati sul ruolo del corpo. Lo studio di un allievo di Emile Durkheim ha analizzato «il modo in cui ogni società impone all’individuo un uso rigorosamente determinato del corpo» 20. Quale trasformazione è, allora, intercorsa dal corpo ginnico e scultoreo dell’antichità greco-romana a quello presentato dall’ascetismo monastico e dallo spirito cavalleresco del Medioevo? Come si è passati dal corpo prigione dell’anima, da cui si doveva, al più presto, 20 J.

Le Goff, Il corpo nel Medioevo, Laterza, Bari-Roma 2005, p. 8, nota 4.

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evadere per raggiungere la salvezza, alla psicoanalisi che ha identificato il soggetto con il proprio corpo, simbolo e rivelazione dell’inconscio? All’interno della stessa concezione cristiana il corpo ha conosciuto molteplici incomprensioni, ambiguità ed esaltazioni: si è passati dalla concezione dualistica di corpo e anima propria del platonismo di molti Padri della Chiesa, alla concezione unitaria della persona umana caratteristica della cultura giudaico-cristiana, dalla santità senza il corpo alla santità con il corpo, dalla perdita dei sensi al loro ritrovamento nell’esercizio della perfezione interiore, da corpo glorificato quale strumento e veicolo dell’incarnazione al corpo veicolo e simbolo della perdizione, condannato e umiliato 21. Corpo nella sua fisicità e corpo come realtà sentita e vissuta. Husserl affermava: «Io trovo il mio corpo nella sua peculiarità unica, cioè come l’unico a non essere mero corpo fisico (Korper), ma proprio come corpo organico (Leib)» 22. Corpo distribuito, corpo modificato, corpo espropriato, corpo ridotto, falsificato, corpo tra determinismo biologico e determinismo culturale. Corpo come ambiguità di essere e di avere, come conoscenza, come relazione, corpo come sessualità che implica l’acquisizione di una specifica identità, ma anche corpo come inganno, come ingombro… corpo malato. La lettura di alcune opere dell’arte del post-human, che rivelano una sorta di ripiegamento soggettivistico autoreferenziale, le nuove solitudini in una società globalizzata, ci richiama alla urgente questione antropologica di una lettura del corpo in termini di unitarietà. Non io ho un corpo, ma il corpo che io sono affermava MerleauPounty: «lungi dall’essere il mio corpo per me un semplice frammento nello spazio, non ci sarebbe per me spazio alcuno se io non avessi un corpo» 23. Non esiste, infatti, un corpo che non appartenga a un essere umano, così come non esiste un essere umano che non abbia un corpo: il corpo è l’io, come l’io è il corpo. L’io è un tutt’uno con il corpo, in quanto l’interiorità è espressa dall’esteriorità 24. 21 Cf. I. Sanna, Identità aperta, Queriniana, Brescia 22 E. Husserl, Quinta Meditazione, in Meditazioni

2006, pp. 325-328. cartesiane, Bompiani, Milano

1970, p. 107. 23 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, il Saggiatore, Milano 1969, p. 119. 24 Cf. E. Moltmann-Wendel, Il mio corpo sono io. Nuove vie verso la corporeità, Queriniana, Brescia 1996.

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Il corpo, quindi, non solo come mero oggetto fisico, ma come luogo di esperienza del nostro esserci nel mondo, il corpo come luogo di esperienza della nostra presenza nel mondo. Esperienza spesso caratterizzata dal dolore. Legata al corpo è la sensazione del dolore. Il dolore, infatti, è quanto di più proprio, personale e intrasferibile possa darsi nella vita dell’uomo. Nessuno, inoltre, può sopravvivere alla sofferenza se non vi attribuisce un senso. Per questo l’uomo ha elaborato “scenari di senso” entro i quali vivere il dolore. Il dolore, tonalità fondamentale della nostra vita emotiva, acquista in ambito religioso diversi significati: di male fisico, conseguenza del disordine introdotto dal peccato, o di male morale, legato al libero arbitrio, ma anche di via privilegiata di espiazione e di purificazione. La stessa ricerca del dolore è vista come mezzo di espiazione e di elevazione. In ambito moderno il dolore viene desacralizzato e, più che redimere, è da redimere. Il rapporto corpo-dolore è uno dei temi ricorrenti nella Body Art degli anni ’60, periodo in cui si mettono in atto azioni di rivolta contro la società e la cultura dominante, quella dei consumi, che anestetizza la vita dell’uomo. In questo contesto il corpo è il luogo privilegiato di espressione e di liberazione 25. Gli artisti scelgono di mettere in mostra le pulsioni intime, di infrangere i tabù, di comunicare i propri incubi, di rivelare i loro aspetti più nascosti. La performance stessa diventa un atto di conoscenza, di esplorazione del proprio corpo o, meglio, del corpo dell’artista: atto che si interroga su quale sia il significato dell’uomo e quale sia il senso della vita. Vorrebbe essere un atto di ri-appropriazione di se stessi.

25 Si possono citare Gilbert & Georg: sono bodyartisti inglesi che, a differenza di molti altri esponenti della Body Art, sostituiscono l’idea di liberazione dal corpo con un tipo di operazione che tende invece a proporre il corpo stesso come immagine-oggetto esterno all’io, una sorta di doppio se stesso che si presenta in sculture solide e tridimensionali. Scopo della loro arte è la contemplazione della loro vita, allo stesso tempo unita e distaccata da loro. Il significato ultimo di tutto il loro lavoro sta proprio nella contemplazione, nell’immobilità e nell’appiattimento dei sensi. Nei loro recenti lavori, che gli artisti chiamano photo-pieces, sostituiscono se stessi con la loro immagine fotografica nella quale si presentano come manichini simmetrici dai colori piatti, in composizioni geometriche, con l’intento di stabilire relazioni sensibili tra realtà e sogno, tra il grigiore della vita e ciò che potrebbe essere (cf. L. Masini, Dizionario del fare arte contemporaneo, Sansoni, Firenze 1992).

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Questo atto di ricerca si attua attraverso l’analisi continua del proprio sé, dei propri bisogni, dei desideri inappagati. Si celebrano vari riti, il cui senso è da ricercarsi in pratiche di culto arcaiche o in cerimoniali ossessivi di vario tipo 26. Questi tipi di performance proseguono anche oggi, nell’arte del post-human, con toni più duri, discutibili, suscitando in molti casi interrogativi e perplessità. È il caso di Sterlac, artista australiano che afferma tutto il suo disprezzo per il corpo. Si fa appendere a ganci di acciaio conficcati nella carne, imitando rituali di iniziazione praticati presso alcune popolazioni indiane o precolombiane. Gina Pane si veste di bianco, si ferisce le labbra e il volto con una lametta, mostra il suo corpo cosparso di vermi, si infila le spine di fasci di rose sul braccio, rotola su di un pavimento cosparso di pezzi di vetro. L’esperienza interiore, dagli abissi dell’inconscio, diviene pensiero cosciente, affiora e si esibisce sul corpo, attraverso lesioni e ferite 27. L’elemento di fondo è la ferita, la blessure, come in Escalade non-anesthésiée 1970, in cui i piedi nudi salgono su una scala su cui al posto dei pioli sono stati messi dei frantumi di vetro: metafora, spiega l’artista, della difficoltà di ascendere, in senso generale e spirituale, e del dolore che ne consegue. La Pane avvierà il recupero di una corporeità di suggestione religiosa, in cui avranno rilievo le figure di martiri e santi. Si tratterà di portare sulla scena il dolore fisico, non fine a se stesso, ma come metafora del disagio esistenziale. La pelle trafitta dalle spine, un’anamnesi di san Sebastiano, e il sangue assumeranno una veste ritualistica. È la stessa artista che afferma: «I miei lavori erano basati su di un certo tipo di pericolo. Arrivai spesso ai limiti estremi, ma sempre davanti ad un pubblico […] mi tagliavo mi frustavo e il mio corpo non ce la faceva più. La sofferenza fisica non è solo un problema personale, ma un problema di linguaggio. Il corpo diventa l’idea stessa mentre prima era solo un trasmettitore di idee. C’è tutto un ampio territorio da investigare, da qui si può entrare […] dall’arte alla vita, il corpo non è più rappresentazione, ma trasformazione» 28.

26 Cf. A. Dall’Asta, La ricerca artistica contemporanea, in «La Civiltà Cattolica», 3 settembre 2005, vol. III, p. 392. 27 Cf. ibid., p. 393. 28 Citazione in F. Alfano Miglietti, Nessun tempo, nessun corpo… Arte, Azioni, Reazioni e Conversazioni, Skira, Milano 2001, p. 27.

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Corpo e identitù nell’arte del post-human

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Questa ricerca vuole raggiungere le forme estreme del dolore: si manifesta e si riconosce nel mettere in scena il male, nella ferita, nella mutilazione, e giunge fino a darsi la morte, come forma estrema del sacrificio di sé. È il caso di Rudolf Schwarzkogler, artista viennese. Si dissanguava metodicamente e ostinatamente, si avvolgeva in fasce bianche come una mummia e simulava aggressioni. Si suiciderà nel 1969, dopo una crisi depressiva. Gli artisti accettano di vivere esperienze dolorose e crudeli, afferma Dall’Asta, che attraversano la linea di confine tra vita e morte. Sperimentando la morte è come se indagassero il senso della vita 29. È un’immersione violenta, totale e provocatoria l’esperienza delle performance di Hermann Nitsch, nel castello di Prinzendorf presso Vienna. Un «Orgien Mysterien Theater», Teatro delle orge e dei misteri, una sorta di happening di sei giorni durante i quali simula una crocifissione con un personaggio-attore nudo, che viene cosparso dagli altri attori del sangue di animali macellati per l’occasione: il tutto con sottofondo di musica sacra. Nitsch dichiara che ogni religione insegna a suo modo l’ebbrezza dell’essere e che è necessario annunciare un cristianesimo dionisiaco: «tutta la mia arte è una preghiera», afferma. Nel riflettere sul rapporto arte e vita è necessario uscire direttamente dalla metafora pittorica ed entrare nella vita stessa, facendo, di ciò che è più vitale, il sangue, il proprio colore e facendo dell’esperienza comunitaria più antica la propria forma. Nitsch crea delle vere e proprie feste catartiche con riferimenti a riti dionisiaci e a rituali cristiani, a cui partecipano numerosi “attori” e dove l’orrore e la compassione suscitata dal sangue e dal sacrificio simbolico devono produrre una presa di coscienza degli istinti aggressivi e naturali dell’uomo, repressi e rimossi dalla società contemporanea dei media. È un’arte di denuncia, ma anche di forte ripiegamento autistico, che si sviluppa parallelamente alle cure psichiatriche di reintegrazione primaria, fondata sul principio della catarsi e della liberazione attraverso l’espressione degli impulsi aggressivi. È un’arte che a posteriori può sembrare una metafora di un tentativo di evasione, di aggressione al corpo sociale, ma che rimane nei confini insuperabili del dolore. Ron Athey si infila siringhe ipodermiche sulla fronte per simulare una corona di spine, come un nuovo san Sebastiano, perché vuo-

29 Cf.

A. Dall’Asta, La ricerca artistica contemporanea, cit., p. 394.

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le provare tutte le possibilità di conoscenza del proprio corpo. «L’artista vuole andare alle origini del confine tra vita e morte, tra desiderio e difesa, tra voyeurismo ed esibizionismo, tra tendenze sadiche e piacere masochistico. Cerca l’uomo nuovo, non castrato dal funzionalismo; l’uomo che esce dai limiti imposti dal sociale per recuperare una originarietà che permette l’emergere alla coscienza di quegli aspetti che normalmente censuriamo. Tuttavia, abbiamo l’impressione di essere ai limiti dell’abuso del proprio corpo, in cui si accondiscende a una perversione sadomasochista. Si esplorano i limiti estremi della vita, ci si lascia sedurre dalla morte per accettare di diventarne vittime» 30. Possiamo citare anche il performer Franco B, nato in Italia, ma inglese di adozione. «Mi ferisco il corpo per sentirmi libero», dichiara al suo intervistatore in occasione della mostra a Bologna. In scena si presenta nudo, dipinto di bianco e grondante di sangue che sgorga da siringhe e cateteri che applica alle vene sotto il controllo medico 31 (andò in onda sul canale televisivo Italia Uno nello speciale Lavori in carne).

Corpo e identità L’esigenza, oggi, di indagare sul corpo è resa forse più urgente dal fatto che i fenomeni della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica hanno messo in discussione questa coordinata antropologica che, insieme alla dignità e alla personalità, costituisce la base del processo identitario della persona umana. Il corpo è la nostra storia, afferma Le Goff 32, il corpo è simbolo dell’essere dell’uomo, è la manifestazione dell’identità personale: «l’appartenenza del corpo alla persona umana è così strettamente necessaria che esso rientra nella definizione di uomo» 33, affermò Giovanni Paolo II. La ricerca dell’identità è una costante dell’esistenza e, laddove l’identità non è più consegnata, è affannosamente ricercata. Nella misura in cui, infatti, si è esaurita l’indiscutibilità metafisica dell’anima e si è progressivamente pensata la nostra soggettività non più in termi30 Ibid. 31 M. Belpoliti,

Sotto la pelle scorre la vita. Tagliarsi per capire chi siamo, in «La Stampa» del 26 marzo 1999. 32 Cf. J. Le Goff, Il corpo nel Medioevo, cit., p. 161. 33 K. Wojtyla, Persona e atto, LAV, Città del Vaticano 1982, pp. 231ss.

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Corpo e identitù nell’arte del post-human

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ni di sostanza, nell’attuale trionfo dell’indistinto, nella misura in cui diminuisce la fede in una salvezza ultramondana, aumenta la preoccupazione per il proprio corpo 34. Tutto ciò si ripercuote nell’espressione artistica contemporanea e gli artisti del post-human mostrano come sia necessario, per conoscere la propria identità, mettere in scena il proprio corpo, la nuda carne, la pelle, come atto di conoscenza. La pelle ha sempre raccontato delle storie, forse è per questo che tanti giovani e meno giovani si accaniscono sui loro corpi? Oggi, al tempo dei corpi mutoidi non bastano più le parole, le immagini, la scrittura; il corpo è il messaggio. Lo psicoanalista francese Dieder Anzieu parla di un io pelle 35 che si sviluppa come involucro autonomo, immagine dell’io somatico, nel momento in cui il bambino si rende conto di essere separato dalla madre; l’automutilazione è una forma di ridefinizione di questo confine del corpo, un modo cruento attraverso il quale si differenzia il proprio sé dagli altri. «Il sangue che scorre dalle ferite prova che dentro c’è la vita, invece del nulla», affermano i cutter, «ci tagliamo per sapere chi siamo» 36. Niente di nuovo: quello dell’automutilazione è un fenomeno ricorrente nella storia dell’umanità, consueto nei riti di tipo religioso. A questo punto, però, il corpo non è più un confine inviolato. Si è a favore della sua continua manipolazione, ma mentre la mortificazione della carne da parte degli sciamani o dei santi cristiani li metteva in comunicazione con un Altro, le mutilazioni rituali di oggi a cosa rinviano? Non rinviano a niente altro che al corpo stesso, nella più totale autoreferenzialità e nel più profondo isolamento 37. Il corpo, oggi, appare continuamente interpretato, analizzato, destrutturato in una spasmodica ricerca di comprensione di sé che non conosce fine. Dalla seconda metà del Novecento è sempre più evidente, anche nell’arte, la crisi del corpo fisico a detrimento del corpo spirituale. Il corpo diventa luogo di ricerca, luogo privilegiato di un progetto che l’artista compie alla ricerca della propria identità.

34 Cf. A. Allegra, Dopo l’anima. Locke e la discussione sull’identità personale alle origini del pensiero moderno, Studium, Roma 2005; C. Taylor, Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, Feltrinelli, Milano 1993; citati in I. Sanna, Identità aperta, cit., p. 9. 35 Cf. D. Anzieu, L’Io pelle, Borla, Roma 1994. 36 M. Belpoliti, Sotto la pelle scorre la vita, cit. 37 Ibid.

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Secondo Teresa Macrì, autrice del libro Il corpo post organico, il «corpo contemporaneo è ormai la mappa su cui convergono diverse sinestesie e sensibilità pulsionali, è la topografia su cui ibridazioni inorganiche possono innestarsi» 38. L’uomo è l’unico animale in grado di scegliere la propria identità e questa anarchia delle mutazioni dischiude finalmente nuovi orizzonti. Il fisico si modella secondo i desideri della mente. È caduto ogni tabù sulla manipolazione del corpo, il fisico viene ripensato e ridefinito dal suo utente, l’uomo. È l’avvento di un remapping senso cognitivo, reso possibile dalla trasformazione antropologica inaugurata dalle tecnologie informatiche 39. Secondo lo storico dell’arte H. Sedlmayr, l’arte non trova più entro i confini dell’umanismo alcun campo che possa dare frutto e gli artisti, oggi, nomadi del bello, sono usciti dal regno dell’umano e stanno vagando chi sa dove! La condizione a venire, secondo Sedlmayr, si fonda sulla consapevolezza di un progressivo abbandono della specie umana 40. Della stessa opinione è R. Marchesini che afferma: «la nostra specie sta attraversando un periodo critico in veloce trasformazione in cui le sempre più potenti possibilità di intervento modificheranno sostanzialmente non solo l’ambiente dell’uomo, ma anche le caratteristiche strutturali e funzionali del corpo, l’identità ontologica. Il pensiero tecnologico permetterà di ri-progettare la condizione umana liberandola da vincoli temporali, perfomativi ed estesici, che oggi l’affliggono» 41. L’attuale stagione postmoderna è caratterizzata anche dalla peculiare problematicità dell’identità, dalla “liquefazione universale delle identità”. L’identità personale, in questo contesto, si frammenta in realizzazione plurali, appiattite sull’attimo fuggente. L’identità si affaccia sul virtuale, sul travestimento, sul vuoto; tutto dipende dal modo in cui uno vuol essere “giocato”: il gioco della spersonalizzazione. Possiamo portare, a proposito, l’esempio delle foto-tessere di Andy Warhol, immagini artificiali che ci rendono estranei a noi stessi. È la consapevolezza dell’essere immersi in un processo inarrestabile di omologazione che divora ogni cosa. È ripetizione infinita e iterazione, annullamento della memoria, consumo

38 T. Macrì, Il corpo post organico, Costa & Nolan, 39 Cf. R. Marchesini, Post-human, cit., p. 525. 40 Cf. H. Sedlmayr, Perdita del centro, cit., p. 197. 41 R. Marchesini, Post-human, cit., p. 527.

Genova 1996, p. 7.

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Corpo e identitù nell’arte del post-human

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e non presa di coscienza. Il corpo concreto si fa assente, è un immagine senza referente. Un cliché ottenuto attraverso un processo meccanico che cancella ogni carattere individuale, per mostrare un uomo senza identità. La vita dell’uomo si consuma, sempre secondo Warhol, nella negazione programmata della propria identità 42. La Francesca Alfano Miglietti, che da quando ha scoperto di avere un identità multipla si fa chiamare FAM, docente dell’università di Bologna e direttrice della rivista «Virus», parla di identità mutanti. Secondo la Miglietti è necessario mettere in discussione lo statuto autarchico dell’ontologia umana, avviare un processo di rivisitazione del dominio antropocentrico, partendo dal rifiuto dell’identità psicologica, interattiva, somatica, proposta dalla tradizione umanistica. Il corpo deve diventare teatro di un processo di rinegoziazione profonda che lo coniuga con l’alterità animale e macchinina. Ne è un esempio il lavoro di Cindy Shermann, che la Miglietti commenta così: «l’artista demitizza il corpo e limita se stessa facendosi clone o mettendo insieme pezzi di corpi tra loro estranei: il risultato finale è a metà strada tra l’animale e l’uomo, il corpo e la protesi, una bambola e un oggetto sessuato inanimato» 43. L’identità va considerata come una prospettiva mobile: bisognerebbe, secondo la Miglietti, avere la possibilità di modificare il proprio corpo a secondo della moltitudine di identità che la mente produce, bisognerebbe avere la possibilità di non lasciarsi riconoscere, una Babele di volti cangianti, di essere in continua metamorfosi. Una nuova era, un’era in cui il corpo non è più una dichiarazione di appartenenza di razza, di sessualità. È come se l’universo ontologico si frantumasse e da ciò prendessero vita mosaici di possibilità imprevedibili. Arnulf Rainer, a metà degli anni Sessanta, inizia la ricerca sul proprio corpo che lo porterà ai celebri autoscatti fotografici, in cui si rappresenta in esasperate grimace di disperazione e di disgusto, nel tentativo, come lui stesso affermerà, di esemplificare e ampliare la personalità umana. Secondo l’analisi di Dall’Asta, Rainer costruisce la sua poetica attraverso una serie di esperienze che vedono in scena il corpo, la fotografia, l’aggressione attraverso mezzi grafici. La sua ricerca di identità si esprime attraverso l’analisi del proprio volto,

42 Cf. A. Dall’Asta, 43 Ibid., p. 242.

La ricerca artistica contemporanea, cit., pp. 389-390.

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nell’esplorazione delle sue possibilità espressive, ottenute tramite la smorfia e lo sberleffo. Le smorfie sono ottenute attraverso l’assunzione di droghe e trucchi per provocare stati di ira. La nostra identità, secondo Rainer, non può essere mai fissata nell’immobilità di uno scatto fotografico. La nostra identità è un sistema aperto, è un processo in continua autocreazione. «Tutte le mie rielaborazioni di fotografie sono rappresentazioni di me stesso, riproduzioni del mio io ancora inconsapevole. La ricerca di se stessi non si può separare dalla ricerca di possibili metamorfosi, di ciò che non è ancora noi stessi. Molti uomini dormono in me, ma tutti quanti devono diventare uno solo. Così sono andato alla ricerca dei miei confini, dei miei contorni, di un punto di riferimento. Ma ho trovato soltanto che mi potevo espandere per ogni verso indefinitamente. Perché no? Da allora il mio desiderio è stato di aprirmi permanentemente, ma contemporaneamente di conquistare un punto di appoggio fermo come il granito» 44. Nelle sue performance l’artista si offre come corpo sacrificale in una società che ha sopito la vita dell’essere umano nel più tragico conformismo. Rainer, secondo Dall’Asta, evita così l’irrigidimento dell’indagine fotografica nella paralisi della foto-ricordo, non lasciandola passare allo stato di cosa morta 45. Ricordiamo i calchi dei visi sulla creta di Marina Abramovich, che come maschere funerarie vengono definiti oggetti transitori o anche specchi per la partenza. «Il mio lavoro è contro il DNA», afferma la performer Orlan, che ha inaugurato nel 1990 la cosiddetta Arte Carnale. Utilizza il suo corpo come atto di liberazione e nello stesso tempo assume una posizione di chiara antitesi all’accademia della forma omologata della chirurgia estetica. «Io stessa, Orlan, il mio corpo è l’opera d’arte. Il mio corpo si de-situa, si ri-battezza, si ri-configura […] io amo le identità multiple e nomadi» 46. Il corpo è allora un corpo vagabondo, in continua trasformazione. Il già citato performer australiano Sterlac sperimenta nuove forme di ibridazione tecnologica. Si è fatto innestare un terzo braccio comandabile da un mouse. Ingoia piccoli robot che gli scrutano den-

44 Citazione in A. Dall’Asta, La ricerca artistica contemporanea, cit., p. 391. 45 Cf. ibid. 46 Orlan l’ha dichiarato in un’intervista di M. Pratesi, Il mio corpo, la mia opera,

in

«La Repubblica», del 5 novembre 1996.

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Corpo e identitù nell’arte del post-human

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tro e chiama i video “sculture dello stomaco”. Tutto il suo percorso artistico è rivolto a esplorare il corpo nel tentativo di annullare ogni possibile resistenza alla fusione con la tecnologia. Dal 1997 è professore onorario di «Arte e robotica» nello stesso ateneo in cui lavora Hans Moravec, esponente di punta della ricerca nel campo del progetto Intelligenza Artificiale e noto al pubblico per aver teorizzato la possibilità di scaricare la mente umana nei computer. Il corpo è considerato un residuo arcaico, un vestito di cui la mente si libererà, appena disporrà degli strumenti capaci di esperire il mondo. Il corpo post umano si estenderà a un’entità robotica e diventerà l’ospite di nano-tecnologie che lo libereranno dalla fatica, dall’invecchiamento e ne miglioreranno la funzionalità. Mutazioni organiche, inserimenti di protesi, ibridazioni genetiche non sembrano, però, avere in Italia la stessa necessità estetica di altri paesi del mondo. Da questo punto di vista il lavoro più convincente resta quello di L. Ontani. Qualche organo artificiale si è visto nelle opere di Balletti e Mercandelli, come denuncia sociale. La riflessione sul rapporto umano-post umano, in relazione sia alla crisi dell’antropocentrismo, sia ai nuovi legami con le tecnologie, è stato portato avanti da importanti studiosi come Mario Perniola che ha scritto Il sexappeal dell’inorganico. Rosi Braidotti ha proposto un collegamento tra post umano e le soggettività nomadiche nel suo libro In metamorfosi.

Conclusione Secondo Jeffrey Deitch «nel futuro, gli artisti non saranno impegnati solo a ridefinire l’arte. Nel futuro post umano gli artisti potranno essere coinvolti nel ridefinire l’arte […] ma e soprattutto saranno impegnati nella ridefinizione dell’esistenza stessa» 47. Quale sarà il ruolo del corpo in questo tentativo di ridefinizione dell’esistenza? L’elemento corporeo, negli esempi citati, è trasformato esso stesso in palcoscenico, ma per rappresentare cosa? Un corpo come carne senza incanto e senza più mistero, un corpo demitizzato, tragicamente mortale. Un corpo che mette a disagio, come afferma Dall’Asta, che provoca e disgusta; un corpo senza Dio 47 J.

Deitch, in «Flash Art», n. 170, ottobre-novembre 1992.

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e senza dèi, un corpo ridotto a pelle, adattabile e manipolabile per identità in continua trasformazione. In questa azione di discredito attuata dall’uomo nei confronti del proprio corpo, la natura si vendica del fatto che l’uomo l’abbia ridotta alla condizione di oggetto di dominio, di materia bruta. Secondo Le Goff, questo bisogno di crudeltà e di distruzione dell’uomo sul proprio corpo è il risultato del tentativo di rimozione di ogni intimo rapporto tra il corpo e lo spirito 48. Le auto-immagini che, nella storia attraverso l’arte, l’uomo ha dato di sé sono state molteplici. L’uomo ha scelto di trasformare il corpo in opera d’arte nel tentativo di cercare e comprendere se stesso. A questo punto, però, l’uomo prende coscienza di una duplice impossibilità e di una tensione. All’uomo non è possibile identificarsi con il proprio corpo, ma nemmeno è possibile distinguersi da esso, e questa duplice impossibilità è all’origine di una profonda tensione: pur essendo quella del corpo una mediazione necessaria, essa non esprimerà del tutto e non esaurirà mai quello che l’uomo è.

48 Cf.

J. Le Goff, Il corpo nel Medioevo, cit., p. 13.

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Corpo e identitù nell’arte del post-human

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Corpo, religione e identità

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Corpo e identitù nell’arte del post-human

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Corpo, religione e sessualità di

Massimo Petrini

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Introduzione In ambito religioso, nel senso più ampio del termine, la sessualità è stata ritenuta la parte meno nobile della donna e dell’uomo, più della donna che dell’uomo, tanto da considerare necessarie pratiche di purificazione, per esempio dopo il parto, o da considerare impura e intoccabile la donna mestruata, per il carattere sacro che il sangue riveste in molte culture. Tanto impura la sessualità da renderne diffusa la predicazione dell’astensione ai fini dell’ascesi o della vita da santi 1. Non esiste però un tema sul quale le religioni abbiano una posizione comune quanto su quello della sessualità. Una posizione comune che considera il sesso una potente forza naturale il cui unico scopo è la procreazione e l’espressione dell’amore puro tra un uomo e una donna, legati l’uno all’altra dall’impegno morale di farsi una leale compagnia. Il fatto stesso che il matrimonio venga sancito, con particolari rituali, in tutte le religioni e le culture dimostra il ruolo cruciale della sessualità nelle relazioni umane. Inoltre la sessualità è intimamente intricata con la violenza. Per questo le sue tre funzioni, relazionale, erotica e procreativa, sono ambivalenti e sono pericolose: sono cariche di un possibile disordine (incesto, adulterio, stupro, gelosia, pedofilia). La sessualità, più delle altre realtà umane, sveglia la violenza mimetica dei vicini. Per questo necessita di essere sottomessa a un campo di norme legislative, simboliche ed etiche, strettamente connesse tra loro. Dal punto di vista simbolico, i simboli forniti dai miti, dai riti diversi (di iniziazione, di passaggio, di matrimonio...), dalle feste, che sono anche momenti controllati di trasgressioni sessuali, contribuiscono a umanizzare la sessualità. 1 Cf.

A.M. Marlia, Il difficile rapporto tra anima e corpo, in «Confronti» 5 (2006),

p. 35.

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Massimo Petrini

Il vissuto della sessualità si manifesta così nell’attrazione sessuale, che costringe l’Io a riconoscersi come essere di desiderio; nell’affetto e nell’amore, realtà misteriosa che trasforma gli individui in coppia (amore coniugale), da coppia di individui in coppia di genitori (amore parentale). Una esperienza radicale di legami che va oltre la meccanica dell’incontro genitale. Le società hanno sempre mirato a ottenere “figli a tutti i costi” e i figli maschi in modo particolare. Ed hanno, a questo fine, tenacemente controllato le donne 2. La fertilità di una moglie che partorisce prova che il contratto matrimoniale è stato correttamente realizzato e totalmente rispettato. Ciò che si scambia è la donna e la sua fertilità. Nel momento in cui una gravidanza si annuncia, si prova che la famiglia di origine della donna ha fatto fede ai propri doveri. Anche la fecondità è insieme esperienza della finitudine e della trascendenza. Costituisce, infatti, la presa di coscienza del proprio limite: la procreazione, per darsi, necessita del corpo dell’altro, ossia dell’altra parte dell’umanità, rompe così la volontà di onnipotenza e di autosufficienza; dona vita alla libertà del figlio, che non corrisponde mai alle attese dei genitori e che, in fondo, sfugge per sempre a loro. Vi è, però, insito il sentimento della trascendenza, perché la vita che nasce va oltre loro, oltre i limiti del loro potere, e perciò viene da altrove e da lontano 3. Tuttavia, in ambito religioso, si attestano, poi, due stati di vita: il matrimonio e il monachesimo. Se l’istituzione del matrimonio sembra affermare che gli uomini e le donne non possono vivere senza l’altro, o almeno non dovrebbero, il monachesimo sembra affermare che lo possono fare, o almeno potrebbero farlo. È necessario infatti tenere presente come la sessualità sia stata considerata anche un luogo privilegiato di esperienza e di incontro con il divino o di fuga dalla relazione religiosa della vita. Infatti, in molte culture subisce una sorta di erotizzazione del sacro (riti orgiastici, prostituzione sacra, ecc.) e una sacralizzazione del sessuale (le devianze sessuali come segni della divinazzazione della persona). L’ambiguità e l’ambivalenza profonda del legame “sesso-sacro-divino” conducono a due atteggiamenti estremi che possono caratteriz2 Cf. F. Héritier, Masculin/Féminin. Le pensée de la différence, Odile Jacob, Paris 2002, p. 25 (tr. it. Maschile e femminile. Il pensiero della differenza, Laterza, Roma-Bari 1997). 3 Cf. I. Schinella, Religioni e sessualità, in G. Russo (ed.), Enciclopedia di Bioetica e Sessuologia, Elledicì/Velar/CIC, Leumann (To) 2004, p. 1502.

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Corpo eCorpo, identitù religione nell’arte e sessualità del post-human

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zare le diverse religioni: pensare e vivere la sessualità come una realtà impura, indegna del Creatore e della creatura umana con la conseguente fuga da essa e la devalorizzazione della relazione amorosa, del piacere, della fecondità; in senso contrario, una sopraestimazione e valorizzazione dell’esperienza estatica dell’amore e del piacere come spazio privilegiato e unico dell’incontro con Dio: la storia delle eresie religiose in genere, e in particolare di quelle cristiane, e l’esperienza delle sette mostrano quanto sia reale un tale rischio 4. Ora, è interessante notare dal punto di vista delle culture religiose che sia il matrimonio che il monachesimo hanno storicamente coinvolto la subordinazione delle donne come un principio di organizzazione. Questo porta a un paradosso. Come esseri umani, la religione offre alle donne la salvezza, ma come donne offre la subordinazione. Sembra così di poter affermare che le religioni hanno avuto più successo nell’offrire una salvezza spirituale o la liberazione alle donne, o la libertà, si può dire, che l’uguaglianza. Tutto questo accentuato, molte volte, da una cultura della società che in qualche modo influenza i dettami religiosi, rafforzando l’asimmetria dei rapporti umani. Tuttavia si può affermare che le religioni associate con le strutture religiose, se hanno spesso compromesso i diritti delle donne, d’altro canto hanno portato la salvezza, e se non la salvezza, il conforto; se non il conforto, la sicurezza; se non la sicurezza almeno un’ampia struttura di significati ai milioni di credenti, uomini e donne 5.

Islam La preminenza maschile è fondamentale nell’Islam, ma non per questo il Corano disconosce il mondo femminile. Si racconta persino che «alcune donne della prima comunità furono ardenti femministe, come l’antica guerriera Nusaybah. Quest’ultima domandò al profeta Muhammad per quali ragioni nel Corano Dio si rivolgeva sempre agli uomini e non alle donne. Secondo questa leggenda Dio

4 Cf. ibid., p. 1501. 5 Cf. A. Sharma, Toward a general theory of women and religion, in J. Runzo - M.N.

Martin (edd.), Love, Sex and gender in the world religions, Oneworld Publications, Oxford 2000, p. 179.

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riconobbe la validità di tale domanda: per questo in seguito la Rivelazione si rivolgerà nello stesso tempo “ai credenti e alle credenti”» 6. Chiaramente si tratta di razionalizzazioni apocrife. La visione coranica si sviluppa secondo il criterio della gerarchia dei sessi. La donna procede dall’uomo: Dio «ci ha creati da una persona (nafs) unica da cui ha tratto una compagna» 7. Dal punto di vista cronologico la donna è seconda e trova la sua finalità nell’uomo. È stata fatta per il suo piacere, per il suo riposo, per la sua realizzazione. Il significato principale della sessualità è la ricerca del piacere erotico: l’appetito sessuale è una pulsione fondamentale al pari della sete e della fame, che deve essere soddisfatta, segno anticipatore delle gioie della vita dopo la morte, pur considerando che non esiste altro tipo di relazione sessuale che non sia correttamente vissuta nel Nikàh (unione matrimoniale). È permessa la poligamia fino a quattro spose 8, ricordando però che la prima moglie conserva sempre un ruolo particolare. La dicotomia esiste per volontà divina e la sessualità, che è il mettere in relazione l’uomo e la donna, è un caso particolare di questa volontà divina assolutamente universale. Molteplici versetti lo affermano in modo esultante, in particolare la sura coranica dei “Romani” 9. Questa dicotomia sessuale è sottolineata dall’abbigliamento. Una raccolta di hadith, i racconti della vita del profeta Muhammad, contiene tutto un libro sulle buone maniere nell’abbigliamento 10. Chiaramente si lascia a ogni musulmano la libertà di vestirsi come preferisce, a condizione di rispettare tutto ciò che, pur dissimulando le forme del corpo, può differenziare i sessi. Si tratta di sostituire alle forme anatomiche un simbolismo sessuale dell’abito, che di conseguenza esercita una funzione ben precisa che va a sommarsi a quella di utilità universale: far trascendere il biologico tramite il teologico. L’abito, strumento di pudore, deve dissimulare il corpo e riflettere nello stesso tempo la dicotomia sessuale del mondo. L’abito, cioè, cessa di essere un semplice uso per diventare norma etica, e anche teologica. 6 E.

Esin, La Mecque, ville bénie, Médine, ville radieuse, Albin Michel, Paris 1963,

p. 97. 7 Corano XLIX, 13. 8 Cf. I. Schinella, Religioni e sessualità, cit., p. 9 Cf. Corano XXX, 16-26. 10 Cf. Boukhari, Cah’ih, vol. VII, pp. 18-178.

1505.

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Un ulteriore esempio, in questo ambito, è costituito dalla barba e dal velo. La barba è un privilegio maschile e gode di un posizionamento privilegiato all’interno delle prescrizioni; il Profeta stesso ha dato l’esempio occupandosene meticolosamente. È il simbolo stesso della virilità, così come il velo è il simbolo della femminilità. La pratica coranica della sessualità riveste quindi una notevole importanza religiosa: è la vita che si diffonde, l’esistenza umana moltiplicata, la creazione perpetuata. La funzione sessuale in sé è una funzione sacra. È uno dei segni (‘aya) dai quali si riconosce la potenza divina. Accettare il proprio sesso significa accettare di essere testimone di Allah. La relazione sessuale della coppia riprende e amplifica un ordine cosmico che deborda dappertutto: la procreazione rinnova la creazione. L’amore imita l’atto creatore di Dio. Del resto il Corano presenta numerosissimi versetti che descrivono la genesi della vita fondata sulla copulazione e sull’amore fisico 11. La visione coranica della sessualità è totale e totalizzante. Il cosmico e il sociologico, lo psicologico e il sociale si fondano sull’unione dei sessi. La sessualità è creazione e procreazione: è affermazione e complementarità, è relazione sessuale. La sessualità è il diverso unificato, e questo ne spiega l’importanza e la potenza purificatrice. Tutto questo, chiaramente, significa il rifiuto radicale di tutte le forme di ascetismo: chi disprezza il corpo, infatti, disprezza anche lo spirito. L’Islam è innanzitutto naturalismo e la spiritualità islamica trabocca di naturalezza. Essa quindi deve essere regolamentata per fare in modo che se ne faccia un buon uso: il Corano ne regola la pratica. Ogni rapporto sessuale al di fuori del matrimonio è punibile. I rapporti prematrimoniali sono condannabili. Alla luce di queste considerazioni si evince quanto il problema della sessualità sia in un certo senso semplificato per la tradizione arabo-musulmana. La comprensione della sessualità non muove dalle esigenze avvertite dall’individuo e dalla comunità, bensì dalla volontà di Dio nella forma rivelata nel Libro sacro. L’Islam, in quanto religione totalizzante, conosce numerose raccomandazioni etiche per tutti gli ambiti della vita. Attenzione reciproca, rispetto e rapporti discreti tra uomo e donna sono principi importanti nel codice di comportamento tra i sessi. Questo codice, che pro11 Cf.

A. Bouhdiba, La sessualità nell’Islam, Bruno Mondadori, Milano 2005, p. 8.

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muove positivamente un rapporto dignitoso degli uni con gli altri, se compreso in modo errato e portato all’eccesso, può condurre a escludere la donna dallo spazio pubblico. Per legittimare questo modo di comportarsi vengono addotte argomentazioni di scarso rilievo che non appartengono alla dottrina islamica, ma sono prodotti culturali. Per esempio, alla questione del perché gli spazi della preghiera degli uomini e delle donne sono separati o del perché durante la preghiera comune in un luogo le donne occupano le file posteriori, da parte musulmana si può costantemente ascoltare la risposta seguente: «affinché gli uomini non vengano distolti dal pregare a causa delle donne». Ci sono numerose tradizioni che cercano letteralmente di motivare l’esclusione della donna dalla società con «prescrizioni religiose» 12. Nella tradizione dell’età islamica originaria, c’era scambio vivace e collaborazione feconda tra uomini e donne. Di quell’epoca si conoscono donne che portarono avanti l’insegnamento dell’Islam come insegnanti teologhe e giuriste. I loro modelli erano le donne del profeta Muhammad, la figlia Fatima e la nipote Zaynab 13. D’altra parte, ci si deve guardare dal considerare le idee, che derivano da una interpretazione liberale spesso anche “sfrenata” del concetto di “libertà”, come ideali per tutto il mondo, e liquidare, anzi condannare come fuori moda costumi e usanze diverse. La trasposizione di certi ideali “moderni” nel mondo islamico viene facilmente rifiutata dai musulmani come un nuovo tentativo di colonizzazione e genera perciò intensa resistenza 14. Occorre anche considerare che le attività e gli spazi separati vengono dai musulmani per lo più percepiti e valutati in modo diverso. Per molte donne musulmane gli spazi specifici significano un luogo di protezione nel quale esse possono dar forma senza impedimenti alle loro attività con altre donne. Esse non vi vedono svantaggi e ostacoli per una vita attiva. Le consuetudini dominanti, che da una prospettiva esterna possono essere percepite come uno svantaggio e una condizione discriminante, considerate in una prospettiva interna presentano molti vantaggi che le donne rivendicano volentieri, non avvertendo in esse alcuna minorazione 15. 12 Cf. 13 Cf.

ibid., p. 15. H. Mohagheghi, Cammini intrapresi dalle donne in comunità musulmane. Il caso della Germania, in «Concilium» 3 (2006), p. 90. 14 Cf. A. Schimmel, Meine Seele ist eine Frau. Das Weibliche im Islam, München 1995, p. 185. 15 Cf. H. Mohagheghi, Cammini intrapresi dalle donne in comunità musulmane, cit., p. 91.

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Non mancano tuttavia voci femminili che auspicano la ripresa dell’uguaglianza iniziale instaurata nel Corano tra uomini e donne, che rifletta le nozioni di solidarietà e di partnership che devono esserci tra loro per assicurare la loro missione comune: essere vicari di Dio sulla terra 16.

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Hinduismo L’hinduismo è un complesso universo religioso all’interno del quale le più svariate tradizioni trovano elementi unificanti. Rinveniamo infatti in esso percorsi religiosi diversi: i più ortodossi, legati a codici e norme, altri che sono stati esposti ad influenze tipicamente cristiane, e altri ancora più moderni e liberali. Di conseguenza il tema della sessualità si colloca in un mondo variegato. Nei sacri testi, i Veda, due estesi e importanti inni sul matrimonio utilizzano riferimenti cosmici per sottolineare la centralità attribuita all’unione uomo-donna nell’universo. L’uomo e la donna sono le due polarità, simbolo del dualismo della creazione, che si uniscono in matrimonio, e l’unione sessuale prefigura lo stato di beatitudine suprema: l’unione erotica è una potente metafora del piacere sublime che l’anima individuale può godere nell’unione con il Divino. Il matrimonio è sacro e alla famiglia è data una grandissima importanza, al punto da essere considerata superiore alla vita monastica ed eremitica. La procreazione è un dovere religioso poiché rende possibile la continuazione dei riti sacri in favore degli antenati defunti della famiglia. Non si è veri uomini senza moglie e figli. L’attività sessuale è consentita solo nel matrimonio, compresa quella esposta nel famoso testo del Kamasutra. Si ritiene che una condizione di purezza (o di altruismo) nei due futuri genitori durante l’atto del generare e la loro consapevolezza di essere impegnati ad amministrare un “rito” di importanza universale abbiano una grande influenza sul carattere spirituale del bambino che nascerà, in armonia con i principi della legge karmica 17.

16 Cf. M. Labidi-Maiza, Erede di mio padre. Percorsi di una musulmana femminista, in «Concilium» 3 (2006), p. 104. 17 Cf. F.S. Brena, L’eterna ricerca, in D. Beltrutti - F.S. Brena - M. Tiengo, Dolore ed energia, Mattioli 1885, Fidenza (PR) 2006, pp. 121-122.

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Alla moglie, ancora oggi, viene riconosciuta una condizione propizia in ragione del suo stato maritale. La sua purezza si esprime principalmente attraverso la sua fertilità, e la sua capacità di generare figli maschi. È raccomandata la castità prematrimoniale in quanto si ritiene che i matrimoni privi di relazioni precedenti siano forti e genuini, e raramente finiscano in un divorzio o in una separazione. La sterilità femminile può essere un valido motivo per il divorzio 18. Quattro sono gli stati di vita in un succedersi di crescita e di maturità, distacco e servizio alla società e a Dio: quello dello studente, del capofamiglia, dello studio delle sacre scritture, del monachesimo. I giovani dovrebbero trascorrere i primi vent’anni di vita in castità come Brahmachary (da Brahmacharya/castità) ovvero persone non coniugate, apprendendo l’autodisciplina prima di tutto nella cura dei genitori e in seguito all’interno di un Ashram, sotto la direzione di un maestro. Viene poi lo stato di vita del matrimonio, per esercitare il dovere della procreazione. La vita sessuale è prevista solamente in questo secondo stadio in cui l’uomo e la donna godono i frutti delle loro passioni, soddisfacendo i propri desideri nell’ambito della vita familiare. Quattro sono gli scopi della vita per lo sviluppo armonioso dell’essere umano: dharma, il sostenere il principio sacro della vita; artha, il procurarsi benessere e mezzi materiali; kama, il desiderio e la sua soddisfazione; e infine moksha, la liberazione dal divenire o salvezza eterna 19. Una volta che la loro progenie è cresciuta e che il loro debito nei confronti della specie umana è stato estinto, l’uomo e la donna entrano nelle ultime fasi della loro vita terrena. Si ritirano in una dimora tranquilla, poco affollata per condurvi una esistenza frugale e semplice e mettere gli anni restanti della loro vita comune al servizio degli altri con il loro esempio e condividendo con loro la propria esistenza; così facendo, l’uomo e la donna si preparano a una morte serena e sacra. Sebbene apprezzata per la sua potenziale fertilità, l’atteggiamento dell’ortodossia verso la donna rimane oppressivo. I tradizionalisti 18 Cf. I. Schinella, Religioni e sessualità, cit., p. 1506. 19 Cf. F. Di Maria Jayendranata, Al di là del bene e

del male, in «Confronti» 9

(2006), p. 29.

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ritengono le donne contaminate e impure durante la mestruazione. Uno schiacciante numero di tabù è imposto ad esse per incanalare e controllare la sessualità 20. Anche dalla formula usata nella cerimonia nuziale induista si evince quanto la donna sia a totale servizio dell’uomo. Il marito è ritenuto “figlio” della moglie, anzi il figlio più giovane della moglie, quello cioè che ha più bisogno di cure 21. Dice il Rig-Veda: (alla coppia) «Possiate non separarvi; possiate raggiungere la pienezza degli anni, giocando con figli e nipoti e godendo della vostra casa»; (alla sposa) «Fiorisci, senza uno sguardo cattivo, senza danneggiare tuo marito, buona con gli animali, amabile di mente e di grande splendore; sii la madre di eroi, sii devota agli dèi e portatrice di felicità; sii propizia ai nostri uomini, donne e bestiame. Generoso Indra! Dota questa sposa di eccellenti figli e fortuna; dalle dieci figli e che suo marito sia l’undicesimo» 22. Sono evidenti il rispetto della moglie e la sua partecipazione integrante alla vita familiare, considerato anche che il rito domestico non può essere compiuto senza la sua presenza. Infatti, anche se alle donne è proibita la recitazione dei Veda, la loro presenza è determinante per il buon fine di un rituale: «Dove le donne sono onorate, lì gli dèi si rallegrano; ma dove non sono onorate, tutti i rituali rimangono senza frutto» 23. I testi affermano e sottolineano una teorica uguaglianza come suggerisce l’inno I due Signori della casa: «Marito e moglie in dolce accordo offrono oblazioni agli Dei. Devoti al sacrificio, accumulando ricchezza, essi servono l’immortale e onorano gli Dei, essi servono l’immortale e onorano gli Dei, congiunti in reciproco accordo». Se le funzioni e i doveri dell’uomo e della donna sono profondamente diversi nei ruoli sociali, entrambi perseguono gli stessi fini, essi rappresentano le due metà che solo congiunte possono trovare la piena realizzazione: Io sono Lui, tu sei Lei io sono il Canto, tu sei il Verso, io sono il Cielo, tu sei la Terra. 20 Cf. M. Khanna, Un dialogo sulle due facce dell’induismo e le sue conseguenze per il discorso del genere, in «Concilium» 3 (2006), pp. 111-113. 21 Cf. C. Guerre, La religiosità orientale. Induismo e Buddismo a confronto con il Cristianesimo, Il Minotauro, Frascati (Roma) 2003, pp. 69-70. 22 Rig-Veda X, 85. 23 E.A. Monius, Origins of Hindu Ethics, in W. Schweiker (ed.), The Blackwell Companion to Religious Ethics, Blackwell, Malden (MA) 2005, p. 336.

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Noi due dimoreremo qui insieme, diventando genitori di figli 24. Nella cultura brahmanica ortodossa, centrata sul maschio, la nascita di un figlio incarna una fonte di speranza, mentre la nascita di una figlia è motivo di ansietà, tensione e disperazione. La società vedica preferiva i figli alle figlie. Essere nata donna rappresentava una punizione per qualche peccato commesso. L’infanticidio femminile non era insolito. La nascita di un figlio maschio veniva celebrata al di sopra di quella di una figlia, perché i maschi erano investiti del dovere del culto degli antenati che avrebbe assicurato la liberazione spirituale dei genitori. Anche i sacri codici della legge perpetuavano gli stereotipi del ruolo sessuale, concedendo opzioni maggiori e una flessibilità più grande al figlio maschio e imponendo più gravi restrizioni alle ragazze, destinandole unicamente a svolgere i ruoli domestici di moglie e di mamma. La condizione secondaria o inferiore accordata alla ragazza ha avuto come risultato il crimine del feticidio femminile. Ancora oggi questo pensiero ha influenza sociale. A questo proposito si può ricordare che quando nasce un bambino il rituale induista prevede che il neonato sia posto su di un vaglio in cui precedentemente sono state messe delle ceneri di sterco di vacca, dello zafferano e alcune monete. Se il neonato è maschio, si allontanano gli spiriti maligni battendo su un piano di rame. Se invece è femmina, non è necessario farlo perché non c’è alcun motivo per cui gli spiriti maligni debbano essere invidiosi di una donna 25. Ancora, la donna è impura, poiché il suo corpo ha escrezioni di liquidi più degli uomini, e può costituire una tentazione per l’uomo. Per questi motivi all’uomo è data la ricerca di un self-control, mentre alle donne non dovrebbero essere concesse indipendenze di pensiero e di circostanze: «Suo padre la protegge da bambina, suo marito nella giovinezza, i suoi figli nell’età anziana». Ancora, un importante testo hindu afferma: «Una ragazza, una giovane donna o anche una vecchia non devono mai agire secondo la propria volontà, neanche in casa loro… una donna non farà mai niente di sua volontà. Moglie, figlio e schiavo, questi tre non hanno proprietà; qualunque proprietà acquisiscano è di colui al quale essi appartengono» 26.

24 Atharva-Veda XIV, 2, 64, 71. Cf. F. Di Maria Jayendranata, Al di là del bene e del male, cit., p. 28. 25 Cf. M. Queguiner, Introduzione all’Induismo, EMI, Bologna 1962, p. 55. 26 Satapatha-Brahmana, Kanda I, Adhyaya VIII, Brahamana, I.

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Inoltre abitudini come il matrimonio tra bambini, il purdah (segregazione delle donne o pratica di coprire il corpo e nascondere così le forme), il sati ortodosso (la pratica delle vedove di unirsi ai loro mariti defunti sulla pira funeraria), le restrizioni sul risposarsi delle vedove e i diritti di proprietà non hanno contribuito nel tempo a migliorare il ruolo sociale della donna. Quantunque la filosofia religiosa hindu simbolicamente concepisca le donne quali riflesso di una dea, incarnando molteplici virtù e forze spirituali date dalla divinità (tecnicamente note come shakti o energia cosmica), questa idealizzazione non ha avuto riflessi nella loro condizione sul piano sociale. Nella prospettiva hindu, la donna occupa le cose terrene nell’ordine cosmico, l’uomo invece occupa quelle trascendentali e insieme rappresentano l’armonia cosmica. Il dovere della donna è quello di stare in casa per occuparsi delle faccende domestiche, invece l’uomo esce dalla casa per lavorare, per nutrire la propria moglie con buon cibo, vestiti e ornamenti.

Buddhismo È interessante considerare preliminarmente tre particolarità della tradizione buddhista: la prima, il buddhismo cresce nell’ambito della matrice di un’altra religione, così che il sistema etico buddhista si colloca nel solco sociale della tradizione brahmanica, con la conseguenza che ne assume le forme della prassi sociale diffusa in India. La seconda, il buddhismo preserva, in qualche modo, la sua identità di “religione di scelta”, alla quale si aderisce volontariamente e non attraverso la nascita o l’etnicità. In particolare, al livello di essere professionalmente buddhista – come monaco o monaca 27 – una persona sceglie di lasciare la realtà delle norme e delle strutture legali familiari per partecipare a un altro sistema legale che in molti modi contrasta con le precedenti convinzioni. Naturalmente, non è inusuale che le religioni abbiano differenti strutture legali ed etiche per specialisti e non specialisti, ma nel caso del buddhismo questa divisione marca maggiormente la differenza. Non si prescrive tanto 27 Buddha fu molto riluttante all’ingresso delle donne nel suo ordine, come si evidenzia nella storia di Mahaprajapati, sua zia e sua bambinaia, considerato che la madre muore dopo circa sette giorni dalla sua nascita. Il racconto evidenzia come il Buddha, riluttante, si convinca solo quando Mahaprajapati gli ricorda il “debito di latte” che ha con lei.

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una rottura dei legami familiari, quanto porre se stessi in un ambito monastico con una propria e diversa religiosità. Terza particolarità, in concerto con i due punti precedenti, il buddhismo difficilmente ha inteso sviluppare una egemonia che è la norma in altre religioni, piuttosto si è posto in modo flessibile di fronte alle religioni e non ha mai richiesto ai laici di identificare se stessi esclusivamente come buddhisti o di relazionarsi esclusivamente a preti buddhisti per i loro problemi spirituali. Non è sorprendente, quindi, che il buddhismo in tempi e luoghi differenti, si sia incarnato in modalità differenti e abbia lasciato molte aree di vita e della famiglia alle diverse legislazioni e religioni locali. I miti buddhisti delle origini spiegano la sessualità e la famiglia come il risultato di errori cosmici. In particolare, questa narrazione della genesi del mondo evidenzia, quasi come una concezione gnostica, che gli esseri umani discendono da esseri fatti di luce che solo lentamente presero una forma fisica come risultato di desideri e avidità. Nel descrivere questa graduale “discesa dell’uomo”, si evidenzia l’eziologia di elementi della vita umana, quali il corpo, la famiglia, la sessualità, i possessi. Soprattutto, tutte le narrazioni evidenziano che, benché l’uomo e la donna siano coinvolti in un mondo materiale, tuttavia gli esseri umani hanno la loro vera origine in una condizione eterea, una condizione non corporea; di conseguenza la vita che si conosce ha una dimensione che può essere superata nel raggiungimento del nirvana. La famiglia, come area della sessualità e della procreazione, infatti, contrasta con quanto afferma il Buddha nel discorso sulle “Quattro nobili verità”, ove afferma fra l’altro, che «esiste uno stato di perfezione spirituale libero da tutte le insufficienze, in una pratica di vita che deve permettere di liberarsi progressivamente dai desideri e in particolare dall’avidità. Deve permettere di prendere le distanze dai fenomeni di attaccamento e soprattutto dall’attaccamento a se stessi, deve permettere inoltre di uscire dalle tenebre dell’ignoranza e dell’oscurantismo in cui l’uomo è immerso, e che lo inducono ad abbandonarsi senza restrizioni a tutti questi oggetti di sofferenza» 28. Possiamo leggere quattro modelli di famiglia nel discorso buddhista: quello della rinuncia alla famiglia, quello di un corporativismo 28 N. Qusar - J.C. Sergent, Medicina tibetana e alimentazione, Pratiche Editrice, Parma 1996.

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familiare che connotò le relazioni monastiche, quello di una élite monastica basata su mistiche genealogie, quello di una attività pastorale. Considereremo maggiormente questo aspetto. Il buddhismo, nelle sue prime fasi, prescrisse delle norme per quelli che rimanevano in famiglia. Queste linee-guide morali definiscono lo stile di vita da tenere in casa: essere obbedienti agli anziani e considerare i bisogni degli altri, aderire a un generico gruppo di precetti – non uccidere, non rubare, non essere bugiardo, non bere, o commettere adulterio. La logica di questi precetti familiari è che i membri della famiglia, osservando una condotta morale, collezionino meriti ed evitino azioni che, dopo la morte, potrebbero condurli a qualche rinascita ripugnante. Poco era detto sui rapporti fra i membri della famiglia, oltre che il mutuo rispetto e la necessità di una condotta non aggressiva. Gli autori buddhisti sembrano non avere interesse nella elaborazione di codici sessuali, quanto piuttosto di stabilire delle norme che sembrano invocare la mutua soddisfazione. Considerati i principi familiari che dominano, e particolarmente quelli che invocano una sottomissione filiale ai propri genitori e anziani, si può affermare che il buddhismo era, ed è ancora, fautore delle tradizionali strutture familiari. Questo interesse è complesso, ma una delle ragioni più importanti è che i monasteri fanno capo alle famiglie per quanto riguarda il loro sostentamento. Inoltre non si dovrebbe sottovalutare il fatto che il Buddha stesso o altre eminenti figure sono presentate come protettori della famiglia, poiché, propriamente implorati, possono dispensare pioggia, buoni raccolti, gravidanze 29. È interessante notare come la rinuncia al mondo sia emblematica del dominio sulle forze della fertilità e del benessere, così come la rinuncia alla famiglia sembra, in realtà, non spezzarne la continuità e la vicinanza in termini di emozioni, obblighi, continuità. È una importante tradizione buddhista che gli uomini e le donne abbandonino la propria casa per una disciplina più efficace, si rasino i capelli e divengano monaci e monache. Attualmente le monache si impegnano nell’attività sociale e sono considerate nell’opera missionaria con i bambini e i giovani, così come nella gestione di istituzioni assistenziali. Sono pure in aumento le monache responsabili 29 A. Cole, Buddhism, in S.D. Browning - C.M. Green - J.Jr. Witte (edd.), Sex, Marriage & Family in world religions, Columbia University Press, New York 2006, pp. 299-307.

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di ruoli di ricerca e di guida nella disciplina buddhista nelle università e presso gli istituti monastici. Tuttavia i problemi della discriminazione di genere pongono una sfida per l’Ordine. Ne sono un esempio gli otto comandamenti che obbligano una monaca, giovane o anziana che sia, a inchinarsi davanti a un monaco, sia egli più anziano o più giovane. Ancora, alcuni Ordini sostengono che è impossibile per una donna ricevere l’illuminazione semplicemente per il fatto di essere femmina. La prima teoria afferma che le donne non possono ottenere i cinque stati (che in sanscrito sono di genere maschile, e dunque non possono essere semplicemente assunti da esseri femminili): il primo è quello di re saggio, che gira la ruota (della legge); il secondo quello del re celeste; il terzo è lo stato di re Mara (il tentatore); il quarto è di re Brama (il creatore) dell’universo, e il quinto è quello di re della legge eterna (dharma) dei tre stadi, identificato con il Buddha. Questi passaggi appaiono nella sezione Chepaldapum (capitolo di Devadatta) del Sutra del Loto 30, e tra gli altri dell’Obunyul. La teoria della trasformazione secondo i caratteri maschili è costruita intorno alla figlia del re Naga (spiriti dall’aspetto di serpenti o draghi) che fu trasformata in uomo e raggiunse l’illuminazione nella sezione Chepaldapum del Sutra del Loto 31. In più si è sottolineato che raramente è possibile per le donne reincarnarsi in figure maschili, anche se hanno compiuto molte buone azioni. Questo insegnamento ha contribuito al formarsi dell’opinione secondo cui le donne devono essere autrici di numerose buone azioni per trasmigrare o essere trasfigurate in uomini, e inoltre che le donne hanno bisogno di assumere la natura maschile per essere illuminate 32. Le due differenti prospettive dei monaci buddhisti sull’illuminazione delle donne continuano ancora oggi. Vale la pena di notare che il punto di vista negativo sulle donne agì come elemento importante nel restringere le loro attività e nel limitare l’azione religiosa della donna in vista maggiormente del benessere e della felicità della famiglia che per ottenere l’illuminazione.

30 Sutra del Loto, Rizzoli, Milano 2001, p. 248 (n. 51 del cap. XI: «Apparizione di uno stupa»). 31 Ibid., pp. 246 e 248 (nn. 48 e 51). 32 Cf. K. Young-Mi, Uguaglianza di genere, buddhismo e società coreana, in «Camillianum» 3 (2006), pp. 140-143.

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Comunque, dopo gli anni Ottanta dello scorso secolo, i monaci e i credenti buddhisti iniziarono ad accorgersi che l’insegnamento originale di Buddha si basava sull’uguaglianza dei generi. Questo mutamento ha reso possibile per le credenti la partecipazione ai ritiri di meditazione nei templi, in passato una opportunità per i maschi laici di portare a compimento l’illuminazione, ma proibiti altresì alle donne. D’altra parte, nel buddhismo Therevada è presente una radicale misoginia e un’ansia maschile verso il corpo femminile e la sessualità. Nella disciplina monastica Vinaia il Buddha così risponde a un monaco errante tentato da un rapporto maritale: «Sarebbe meglio, pazzo uomo, di porre il tuo organo maschile nella bocca di un serpente terribile e velenoso piuttosto che in una donna… Sarebbe meglio, pazzo uomo, porlo su carboni ardenti che in una donna. Perché? Di conseguenza, pazzo uomo, potresti morire o affrontare una lenta agonia, ma non rischieresti di passare a una più modesta rinascita, a un cattivo destino, di rovinarti, all’inferno. Proprio per questo, pazzo uomo» 33. Nel buddhismo Mahayana l’obiettivo monastico non è semplice rinuncia al corpo e alla sessualità, ma l’aspirazione a vivere al di sopra delle passioni: «L’Arhat è… non essere più a lungo soggetto alle polluzioni umide». La salvezza è concepita come uno stato spirituale manifestato nella mente e nel corpo, il tentativo di inibire (o, in particolare, esorcizzare) tutti gli istinti sessuali, e non semplicemente di prevenire una evidente attività sessuale.

Confucianesimo È necessaria una puntualizzazione. Confucianesimo è un termine occidentale, non la traduzione di un termine cinese. La genesi del termine è correlata agli sforzi dei missionari cristiani di comprendere le dottrine e le convinzioni dell’élite cinese e di associarli a una figura. Ancora, il confucianesimo non è definito “una religione” in cinese – tale designazione è riservata al buddhismo, al cristianesimo, all’islam, al giudaismo e ad alcune forme di taoismo –, ma di fatto lo è stata nella cultura cinese. 33 S. Collins, The Body in Theravada Buddhist Monasticism, in S. Coakley, Religion and Body, Cambridge University Press, Cambridge 1997, p. 185.

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Il termine confucianesimo suggerisce una entità fondamentale, ma se lo leggiamo più accuratamente possiamo vedervi una pluralità di tradizioni confuciane che si evolvono nel tempo. La storia dimostra che un ambivalente confucianesimo riguardo le capacità delle donne e la convinzione delle loro potenzialità spirituali varia grandemente, allargandosi e restringendosi, in risposta ai cambiamenti ideologici, alle culture locali, alle circostanze economiche. Il canone fondamentale degli insegnamenti confuciani risale alla dinastia Han (202 a.C. - 220 d.C.), quando i Cinque Classici furono completati e i testi come gli Analects (Lunyu, letteralmente «Discussioni considerate») si diffusero ampiamente. Questi testi non hanno nulla da dire sulle donne, descrivendole semplicemente come «difficili a trattare» (Analects 17, 25), probabilmente perché la loro mancanza di educazione in materia di rituali e di coltivazione delle virtù le rende incapaci di attivare relazioni sociali con grazia. Nel Book of Changes (Yijing), le donne sono considerate la manifestazione umana del principio cosmico yin, identificato con l’hexagram kun, “il ricettivo, la terra”. La caratteristica fondamentale dell’hexagram kun è di rimandare alla devozione e alla quieta perseveranza, in contrasto con l’attività dello yang. L’immagine chiave è quella di una complementarità di yang-cieli-maschile e yin-terra-femminile, con quest’ultimo in una posizione remissiva. La stessa cosmologia favorì la gerarchia dello yin-yang, poiché yang era la forza, la luce, la vita, la crescita, e yin la debolezza, il decadimento, l’oscurità, la morte. Se ne può leggere una prima attestazione nel differente trattamento riservato ai neonati descritto nel Book of Odes (Shijing): «Un figlio sarà nato, sarà posto sul letto. Sarà avvolto in eleganti abiti e gli sarà dato uno scettro di giada per giocare. Una figlia sarà nata, sarà posta sul terreno, sarà avvolta nella stoffa, le sarà data una piastrella per giocare». Rituali confuciani successivi come il Book of Rites (Liji), scritti durante la prima dinastia Han (202 a.C. - 8 d.C.), ancora sottolineano l’importanza di mantenere le distinzioni anche spaziali tra uomini e donne, fatti salvi i funerali e i sacrifici. Una volta sposata, il principale dovere della donna era partorire un figlio erede. Altri doveri religiosi erano preparare gli altari dei sacrifici, le salse, conservare i cibi usati nei riti, osservare le cerimonie. Perseguire la perfezione spirituale per le donne significava riflettere e completare le azioni dei partecipanti maschi. Questa ambiguità dei

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ruoli delle donne e il loro status hanno persistito nel tempo, in particolare quello domestico di moglie e madre. Il matrimonio è considerato obbligatorio, così la procreazione, per assicurare la necessaria continuità alla celebrazione di rituali ancestrali. Gli obblighi dell’uomo verso i suoi antenati è quello di far sposare i suoi figli, e l’autorità del capofamiglia sulle decisioni dei matrimoni è ancora data per scontata 34. Nell’ambito delle tradizioni confuciane fu compiuto ogni sforzo per evitare di parlare di atti sessuali: ad esempio, era usata la frase “non entrare nelle stanze interne” per descrivere la necessità di astenersi da rapporti sessuali quale componente del processo di purificazione da perseguire prima di offrire sacrifici agli antenati. In sintesi, anche nel passare dei secoli, è rimasta l’immagine della buona moglie, della nuora obbediente, della madre virtuosa, della casta vedova. Tentativi di ridiscutere i ruoli sorsero a partire dal 1910, e riguardarono il degrado della condizione femminile, espressa dalla limitazione dei piedi, dall’infanticidio femminile, e dallo stesso commercio della donna come moglie, come concubina o come schiava. Nessuna di queste pratiche era inerente al confucianesimo, ma tutte emblematiche della subordinazione delle donne nel sistema sessuale del neoconfucianesimo, sviluppatosi nei secoli 35. Tuttavia alcuni filosofi cinesi hanno considerato seriamente la sfida delle critiche femministe e hanno tentato di rispondervi con una reinterpretazione delle norme. Si è osservato che anche nell’ambito della storia patriarcale del confucianesimo si possono rintracciare alcuni elementi favorevoli al mondo femminile, tenuto conto che fondamentalmente il confucianesimo esalta una natura condivisa da tutti gli esseri umani e la possibilità per ognuno, sia maschio o femmina, di raggiungere la saggezza. La principale virtù confuciana del ren (benevolenza, umanità) si potrebbe perciò identificare con qualcosa di analogo all’etica femminile del “care”, cioè del curare nel senso più ampio 36.

34 Cf. P. Ebrey, Confucianism, in S.D. Browning - C.M. Green - J.Jr. Witte (edd.), Sex, Marriage & Family in world religions, cit., p. 368. 35 Cf. V.L. Nyitray, The real trouble with Confucianism, in J. Runzo - M.N. Martin (edd.), Love, Sex and gender in the world religions, cit., pp. 182-189. 36 Cf. M. Berkson, Trajectories of Chinese Religious Ethics, in W. Schweiker (ed.), The Blackwell Companion to Religious Ethics, cit., p. 400.

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Tradizioni religiose africane Nell’Africa tradizionale la donna è stata sempre considerata come madre di famiglia, del clan e del gruppo etnico. La donna era vista come un sacro “contenitore” della vita, che porta dentro di sé i fondamenti della vita maschile e femminile. In questo contesto della fertilità il ruolo e l’immagine della donna sono ancora splendidi, anche se le influenze esterne e la dura realtà economica hanno corroso questo valore. Una madre è tenuta in estrema considerazione, una donna nubile non ha nessuna posizione nell’Africa tradizionale. Nelle comunità rurali tuttavia le donne sono completamente sottomesse ai loro mariti. Si è venuta affermando una tridimensionalità della vita della comunità: nel quotidiano gli esseri umani possono vivere solo in una bipolarità implicante una tripolarità. In altre parole, l’uomo deve necessariamente relazionarsi alla donna e poi, insieme, a una terza polarità, il bambino. L’essere vivente, umano, è completo solo come uomo e donna convocati da un bambino, che è rappresentativo del mondo dei non ancora nati e, allo stesso tempo, il messaggero della comunità degli antenati 37. La filosofia africana dà valore al corpo umano, celebra la bellezza e la vita. L’incarnazione è considerata come uno strumento dei rapporti senza i quali un individuo non può affermare se stesso nel mondo. In questa rete di relazioni il corpo è essenzialmente sessuato, perché è solo attraverso rapporti sessualmente identificati che gli esseri umani giungono ad essere, ad entrare in relazione e a prolungare la vita. Gli africani avevano un profondo senso del pudore. I genitori ben difficilmente parlavano di sesso con i loro figli. Il linguaggio eufemistico sugli organi sessuali rivela che essi erano considerati una zona riservata, cose segrete al di sotto degli abiti. E di quello che è privato non si può parlare in pubblico. Tuttavia, esisteva un certo discernimento, per cui i genitori impartivano un’educazione sessuale essenziale prima del matrimonio. Il diritto consuetudinario proteggeva le donne nubili dalla violenza sessuale, e il sesso veniva salvaguardato all’interno di un contratto matrimoniale, pur ricordando che il problema era, ed è tuttora, il fatto che una donna non risulta mai sposata con una sola persona ma con un’intera famiglia, anzi, 37 Cf. B. Bujo, Differentiations in African Ethics, in W. Schweiker (ed.), The Blackwell Companion to Religious Ethics, cit., p. 425.

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con un intero clan. Lo scopo era ingrandire il clan indipendentemente dal modo in cui uomini e donne, all’interno dello stesso, si unissero sessualmente. La promiscuità attraverso il clan era una cosa normale perfino tra i cristiani 38. Attraverso i contatti con il mondo esterno, oggi, la pratica della sessualità in Africa è cambiata molto. Il sesso è diventato un bene di consumo, uno fra gli altri. Se ne parla sempre più senza vergogna e il manto di pudore che copriva i relativi discorsi si è sfilacciato. Le relazioni prematrimoniali, screditate dai diversi magisteri cristiani, sono ridiventate moneta corrente. Le chiese cristiane storiche (la chiesa cattolica, quelle protestanti e quelle ortodosse) assimilano e vivono la morale sessuale e familiare in un contesto africano segnato dall’invadenza dell’omosessualità e dalle rovine provocate dalla pandemia dell’AIDS. Nel tentativo di ancorarsi alle esigenze del Vangelo e della morale ufficiale in materia di etica sessuale, vi sono certamente fedeltà eroiche ed esemplari, ma anche interrogativi e talvolta compromessi 39. Oggi l’HIV/AIDS, che domina il ruolo della donna, di colei cioè che è tenuta a prestare assistenza e aiuto, ha penalizzato la fanciullezza di molte ragazze. Quando il padre di famiglia è ammalato, è la madre di famiglia che si prende cura di lui; ma se ad essere ammalata è la madre di famiglia, tocca alla bambina prendersi cura di lei. Le figlie femmine vengono spesso costrette ad abbandonare la scuola per curare e assistere i genitori, i fratelli o i parenti ammalati. Ancora, sono le donne anziane a dover assistere i figli malati e i nipoti superstiti. In conclusione, nonostante vi sia una generale accettazione del fatto che le donne e gli uomini sono uguali davanti a Dio, in pratica si favoriscono gli uomini a discapito delle donne. Se anche giovani donne istruite optano per una vita da single, onde intraprendere la loro crescita individuale come anche la loro piena realizzazione di esseri umani, capita che vengano discriminate da società che scelgono di assumere soltanto donne sposate 40. Il cristianesimo ha introdotto il celibato religioso; occorre ricordare però che nell’Africa tradizionale uomini e donne erano ugual38 Cf. T.M.G. Byamungu, Incarnazione e interconnessione. Una prospettiva africana, in «Concilium» 2 (2002), pp. 158-171. 39 Cf. J.B. Salla, Chiese storiche e morale familiare e sessuale. Omosessualità e Aids, in «Concilium» 4 (2006), pp. 114-123. 40 Cf. A. Nasimiyu-Wasike, Cristianesimo e femminismo tra i Babukusu del Kenia occidentale, in «Concilium» 3 (2006), pp. 39-51.

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mente riconosciuti come degni strumenti con i quali le divinità comunicavano con l’umanità e le persone con il divino. Le chiese si opposero a qualsiasi forma di ministero femminile, sia che fosse di indole sacerdotale sia che fosse di indole profetica; in realtà i ruoli ministeriali delle donne nell’Africa religiosa erano molto più espressione di una caratteristica naturale, piuttosto che una qualifica clericale.

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Ebraismo In linea generale, l’ebraismo non conosce la condanna della sessualità e dell’appagamento sessuale, fatti salvi gli usi degli haredim (i pii, i timorati), lontanissimi però dal comune sentire dell’ebreo e dell’ebraismo medio 41, tanto che la cultura ebraica non conferisce alcuna nota di merito al comportamento celibatario 42. La sessualità viene considerata parte della conditio humana; essa offre – in quanto condizione per la procreazione – la possibilità di affrontare “il pungiglione della morte” ma, al contempo, è anche sintomo della incompletezza umana e della differenza rispetto a Dio. Il Dio di Israele è pensato al maschile, ma non in forma sessuata. Il linguaggio biblico antropomorfico adopera immagini del corpo: il braccio, la mano destra, la bocca, ma Dio non è mai sessuato 43, e non ha neppure un comportamento sessuale. È vero che «Dio, lo sposo di Israele, è una potente metafora sponsale», ma Dio non bacia, non accarezza, non coccola, non mostra cioè alcuna emozione fisica per Israele. Sono usate due parole nel testo ebraico per parlare di sesso: bw’ (bo’) – entrare, giungere, venire, coabitare – e skb (shakhabh) – coricarsi, giacere, coabitare, eiaculazione, atto sessuale. L’atto di “entrare” (163 volte) e “coricarsi-giacere” (19 volte) sono parte importante 41 L’esplicita sessuofobia di questi gruppi ultraortodossi, nati all’interno del movimento chassidico polacco, che dall’Europa orientale si è diffuso in Israele e negli Stati Uniti, risale, in massima parte, alle reazioni scatenate in quella parte del mondo, quasi tre secoli fa, dai riti orgiastici praticati da alcune sette sabbattiane e frankiste alla ricerca di una via mistica alla divinità, e per loro natura, inevitabilmente destinati a creare scandalo e ripulsa in una società, come quella dello shetl (in passato, tipico villaggio ebraico dell’Europa orientale), già di per sé non certo improntata al femminismo (cf. S. Di Nepi, Il corpo “accettato” nella tradizione ebraica, in «Confronti» 6 [2006], p. 36). 42 Cf. D. Biale, Eros and Jews. From Biblical Israel to Contemporary America, Basic Books, New York 1992, p. 217. 43 Cf. T. Frymer-Kensky, Law and Philosophy. The Case of Sex in the Bible, in J. Magonet (ed.), Jewish Explorations of Sexuality, Berghahn Books, Providence 1995, p. 4.

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nei racconti della Genesi. Il “coricarsi-giacere” si presenta in modo concentrato in Gn 19 (6 volte). È lo stesso termine che il Levitico usa per condannare le relazioni sessuali illecite (cf. Lv 14; 15; 18 e 20). Nel racconto delle figlie di Lot i termini si alternano e si ripetono, trattandosi di iniziativa esclusiva delle donne. Anche il Libro di Rut – di marcato protagonismo femminile – è prodigo del “coricarsi-giacere” (8 volte) e dell’“entrare” (7 volte). La presenza del vino è fondamentale in questo testo. Nella Bibbia il vino è presente in svariati scenari, ma è frequente il suo collegamento con la mancanza della capacità di intendere e con una forte sensualità (cf. Os 4, 11; Ct 1, 2-4; 2, 4; 4, 10; 5, 1; 7, 10; 8, 2). Nei testi di Ester 1, 10, Giuditta 12, 10ss. e Rut 3, 7 il vino viene esplicitamente collegato alla seduzione e alla perdita di controllo della situazione da parte degli uomini. Se dunque la concezione biblica, espressa nelle azioni dei patriarchi e dei personaggi chiave della storia d’Israele, risulta improntata a una visione serena della corporeità, vissuta come elemento naturale e normale della creazione, anche nelle posteriori compilazioni normative rabbiniche la percezione del matrimonio e della vita di coppia non può che essere costruita in un’ottica positiva. E se certamente sarebbe inutile andare a cercare nel Talmud l’elogio dei rapporti extraconiugali (l’adulterio è un delitto gravissimo), l’obbligo di sposarsi in giovane età – e la corrispondente condanna morale riservata a chi vi si sottrae – nell’intento di garantire col matrimonio la continuità del popolo d’Israele attraverso i figli, ma anche la completezza della vita degli individui raggiungibile grazie alla scelta di una compagna e amica con cui condividerla, ripropongono nella pratica quotidiana il sentimento così chiaramente esemplificato da Sara e Abramo e dai loro successori 44. L’intimità sessuale viene intesa nell’ebraismo come contenente le più grandi potenzialità di sviluppo spirituale, alla stregua dunque di un mezzo attraverso il quale una coppia sposata esprime la propria santità e, spesso, la diffonde anche all’esterno dell’ambiente domestico, nel mondo. Secondo il pensiero ebraico, marito e moglie sono originariamente, prima delle loro rispettive nascite, una sola anima che viene divisa in due nel momento in cui il primo dei due individui viene concepito. Il matrimonio quindi, e più specificatamente l’unione fi44 Cf.

S. Di Nepi, Il corpo “accettato” nella tradizione ebraica, cit., p. 36.

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sica tra i coniugi, costituisce la riunione delle due metà in una entità unica 45. La tradizione, nel tempo, ha sottolineato come la notte del venerdì sia «un tempo speciale per le relazioni maritali». Proprio perché Dio non rappresenta “nessun modello” per la sessualità, nei rituali vi è una rigida separazione fra il sessuale e il sacro. Il sessuale è riservato all’essere umano mortale, e l’accento posto sulla differenza sessuale sottolinea la differenza tra Dio e l’essere umano. Con la circoncisione, nel corpo maschile viene inscritta simbolicamente la propria incompletezza e vulnerabilità, mentre le leggi della niddah, che si riferiscono al sangue femminile, mettono in risalto la peculiarità del femminile. Il termine niddah viene da nadhadh, il cui significato è “allontanato”, “separato”. Le leggi della niddah 46 sono espresse spesso da prescrizioni sulla purità e interpretate come svalutazione del corpo femminile durante le mestruazioni e dopo il parto. Ma è assurdo supporre che in una tradizione religiosa, in cui discendenza e procreazione si annoverano fra i massimi beni (e, almeno nella interpretazione ortodossa, nessun maschio celibe è ammesso al rabbinato o a svolgere funzioni liturgiche nella sinagoga), la donna sia oggetto di un investimento negativo proprio nei momenti in cui ha dato la vita oppure il suo corpo manifesta i sintomi della capacità di concepire e dare alla luce. Quindi nel caso della niddah, la funzione delle leggi sulla purità sembra risiedere nella sottolineatura della differenza sessuale 47. Si sottolinea che per quanto riguarda l’impurità mestruale, essa è ben diversa dalle conseguenze di un incidente, di altre perdite di sangue occasionali o fortuite. Il sangue della deflorazione e quello dovuto a ferita non sono impuri 48. Sul versante femminile, tutto si sposta con più evidenza nel campo della vita familiare e collettiva 49. 45 Cf. G. Ghiandelli, La donna nell’ebraismo, L.S. Gruppo Editoriale, Quarto Inferiore 2006, p. 79. 46 Il trattato Niddah, settimo della divisione mishnica di Tohotot (Purità) contiene una visione articolata (dei tannaim) dell’impurità della donna mestruata. Esso però contiene anche normative relative al rapporto sessuale, al puerperio, regole per determinare il momento in cui i bambini incominciano ad acquisire impurità, le impurità connesse con la morte. 47 Cf. C. Von Braun, La codificazione culturale del corpo maschile e del corpo femminile, in «Concilium» 2 (2002), pp. 56-57. 48 Cf. R. Di Segni, «Colei che non ha mai visto il sangue». Alla ricerca delle radici ebraiche dell’idea di concezione verginale di Maria, in «Quaderni Storici» 3 (1990), pp. 785-789. 49 Cf. A. Destro, Antropologia e religioni. Sistemi e strategie, Morcelliana, Brescia 2005, p. 174.

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Da un lato, con l’accentuazione della differenza dei sessi viene rafforzato il rapporto esistente fra sessualità e procreazione: in effetti, in ebraico, la parola che sta per procreazione è adoperata anche quale sinonimo di sessualità. Ma, d’altro canto, mettendo l’accento sul rapporto fra sessualità e procreazione, si rafforza anche la differenza sessuale come fondamento del desiderio e come richiamo alla mortalità umana. Se la sessualità appare dunque come una “funzione indispensabile” della procreazione, la stessa procreazione si mostra come funzione della sessualità. Se con la differenza sessuale viene sottolineata l’incompletezza dell’essere umano e la differenza fra esso e Dio, la procreazione stessa appare come un “mezzo” per ricordare in continuazione agli esseri umani questa incompletezza 50. Che con le leggi della niddah, che proibiscono il rapporto sessuale in certi periodi, vengano anche conservate le strutture del desiderio è una cosa che si ritrova anche nel Talmud. Tutto questo può essere letto e interpretato diversamente; se, infatti, è innegabile che tra un divieto e l’altro, la forzata astinenza e la conseguente attesa per la durata circa di una settimana ogni mese possano contribuire a rendere non noioso il menage, d’altro canto è anche vero che l’orrore per il sangue può determinare sospetto e sfiducia per le donne in coloro che, più o meno consapevolmente, stravolgono il senso della norma religiosa e attribuiscono l’impurità del sangue non a questo ma alla donna che ne è portatrice 51. Ancora, da un’altra prospettiva, proprio la questione mestruale può rivelarsi, nella pratica quotidiana, un inatteso baluardo per le donne. La lavanda rituale, infatti, grazie alla quale il ciclo mestruale può dirsi ufficialmente terminato, va svolta in gran segreto e, se molti sostengono che tale riservatezza serva a proteggere le donne dal malocchio e dall’invidia di chi augura loro di non riuscire ad avere figli – egli quindi, in questo modo, non saprebbe quando lanciare i suoi strali –, è evidente che colei che non informa il coniuge dell’avvenuto bagno è protetta da rapporti indesiderati, e questo, in epoche in cui la violenza sessuale all’interno e all’esterno delle mura domestiche era all’ordine del giorno, non doveva essere un fatto da poco 52.

50 Cf. C. Von Braun, La codificazione culturale del corpo maschile e del corpo femminile, cit., p. 58. 51 Cf. ibid., p. 56. 52 Cf. S. Di Nepi, Il corpo “accettato” nella tradizione ebraica, cit., p. 37.

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La maggiore o minore presenza sulla scena pubblica delle donne risente anche delle contingenze dei tempi e della storia; tuttavia il sangue mestruale ha conseguenze anche in ambito cultuale, ovunque, almeno nella pratica ortodossa, le donne vengono tenute a debita distanza dai riti sinagogali e dagli uomini che li officiano in prima persona. In conclusione, rispettare le donne e il corpo è il pilastro di una visione non ansiogena e criminalizzante della vita sessuale delle coppie, fermo restando che, appunto, tale vita deve svolgersi esclusivamente nell’ambito del matrimonio. Anche l’approccio mistico, quello qabbalistico, rimane nel solco di questa linea di generale accettazione, comprensione ed esaltazione di ogni aspetto della creazione, e dunque comprende – e talvolta promuove, pur senza arrivare agli estremi settari – l’erotismo umano.

Cristianesimo Il rapporto fra cristianesimo e sessualità non è stato tra i più idilliaci nella storia. È ancora abbastanza recente l’espressione popolare «Non lo faccio per piacere mio ma per dare un figlio a Dio». Quella che oggi viene definita “la teologia del corpo” 53 ha dovuto faticare non poco a trovare la sua strada tra i meandri del pensiero filosofico extrabiblico e la marea devastante di stili di vita neopagani, che tendono a deformare e snaturare la bellezza dell’amore umano. La tentazione manichea di una netta separazione tra corpo e spirito con la conseguente svalutazione della sessualità è sempre stata in agguato nella riflessione teologica, e talvolta ne ha anche lambito i confini rischiando di inquinarne i fondamenti 54. Anche la teologia del matrimonio e l’etica che da essa consegue si sono andate elaborando talvolta più da un confronto con le varie filosofie dell’uomo e della natura, che non interrogando il dato biblico sulla specificità del soggetto umano creato, redento e chiamato alla risurrezione 55. 53 Cf. C. Rocchetta, Per una teologia della corporeità, Camilliane, Torino 1993; Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò. Catechesi sull’amore umano, Città Nuova-Libreria Editrice Vaticana, Roma 1985; Y. Semen, La sessualità secondo Giovanni Paolo II, San Paolo, Cinisello Balsamo 2005. 54 Cf. E. Moltmann-Wendel, Spirito e corpo. La risposta femminista, in «Concilium» 32 (1966), pp. 87-96; E. Moltmann-Wendel, Il mio corpo sono io. Nuove vie verso la corporeità, Queriniana, Brescia 1996, p. 12. 55 Cf. G. Grandis, Il corpo: il suo linguaggio e i suoi significati nella relazione coniugale, in «Esperienza e Teologia» 19 (2004), pp. 49ss.

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È importante notare che l’ordine sessuale cristiano – e quindi anche la sessualità – ha avuto premesse totalmente diverse da quelle ebraiche. Dato che il Dio cristiano ha assunto un corpo umano nel suo figlio, il Dio cristiano assume anche un sesso 56. E questo è un elemento da non trascurare, in particolare nella storia del rapporto tra l’uomo e la donna. Nel racconto di fonte sacerdotale (cf. Gn 1, 26-31) la creazione dell’uomo, maschio e femmina, a immagine e somiglianza di Dio è strettamente connessa al dominio da esercitare sulle altre creature. Nel racconto di fonte jahvista (cf. Gn 2, 7; 15-24) Dio plasma l’uomo dalla polvere della terra, lo pone nel giardino dell’Eden, gli fa imporre nomi a tutti gli altri esseri viventi, e solo dopo aver constatato che non vi era «un aiuto che gli fosse simile» Dio crea la donna, che «si chiamerà donna (ishshà) perché dall’uomo (ish’) è stata tolta». È questo secondo racconto (primo in ordine di tempo) ad avere influenzato, fino a tempi recenti, la formazione dell’antropologia teologica dominante nell’insegnamento della Chiesa. Paolo (cf. 1 Cor 11, 7-10) afferma esplicitamente che l’uomo è immagine e gloria di Dio, mentre la donna è immagine dell’uomo, derivando da lui ed essendo stata creata per lui. Pertanto alcuni Padri, rifacendosi a questo testo, negano che la donna sia creata a immagine di Dio, mentre altri lo ammettono ma solo sul piano spirituale che prescinde dal sesso. L’immagine di Dio riguarda cioè l’anima umana razionale e quindi asessuata, in quanto la differenziazione sessuale viene intesa come limitata alla sfera corporea. Le prime visioni negative delle donne furono ulteriormente sviluppate nella teologia paolina, che sottolineò come la procreazione e il matrimonio fossero mali necessari, che dovevano rimanere separati dal piacere fisico ed emotivo, poiché la sola giustificazione del matrimonio era la riproduzione della razza umana 57. Negli studi sulla primitiva comunità cristiana si dà importanza al corpo e alla sessualità, e gli atteggiamenti verso il corpo ne costituiscono un elemento centrale 58. 56 Cf. C. Von Braun, La codificazione culturale del corpo maschile e del corpo femminile, cit., pp. 58-59. 57 Cf. P. Ariès - A. Bèjin (edd.), Western Sexuality. Practice and Precept in Past and Present Times, Blackwell, Oxford 1986. 58 Cf. P. Brown, The Body and Society: Men, Women, and Sexual Renunciation in Early Christianity, Columbia University Press, New York 1988 (tr. it., Il corpo e la società. Uomini, donne e astinenza sessuale nel primo cristianesimo, Einaudi, Torino 1992); R. Lane Fox, Pagans and Christians, Viking, London 1986.

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L’esegesi dei Padri si basava anche su 1 Tm 2, 11-15, di cui non si metteva in discussione (come si fa oggi) l’attribuzione a Paolo. La sottomissione della donna viene ricondotta al fatto che essa è stata creata dopo l’uomo, e soprattutto alla sua responsabilità nella caduta originaria: è stata lei a essere ingannata e a trasgredire, e la via per il suo riscatto sarà la maternità e una vita santa 59. Paradossalmente i circoli gnostici cristiani considerano gli avvenimenti evangelici, che descrivono le relazioni affettive di Gesù con le donne a lui intorno, come delle immagini della assimilazione dolce e irresistibile della donna, permanentemente inferiore sotto la guida del principio-guida, l’uomo. La gerarchia del cielo sulla terra, della mente o anima sul corpo, come del maschio sulla femmina, ha profondamente influenzato il cristianesimo classico nel suo passaggio dal mondo ebraico a quello greco-romano, dal I al V secolo; ma il cristianesimo è stato anche modellato da un’idea contraria, inintelligibile nei termini dei dualismi greci, e cioè dalla credenza nella risurrezione del corpo 60. Ciò ha dato all’ascetismo cristiano uno scopo molto più radicale di quello che troviamo nella filosofia greca, che si accontentava di dominare il corpo pur dandogli ciò che gli era dovuto. Gli asceti cristiani si concentravano con molta maggiore insistenza sul corpo e sulla repressione del suo bisogno di cibo, riposo e dei suoi impulsi sessuali, perché avevano una visione più profonda del suo potenziale di trasformazione. I cristiani si aspettavano che il corpo, anziché essere denigrato a morte per permettere all’anima di spiccare da sola il volo verso la vita immortale, fosse trasformato in quello che san Paolo chiamava “corpo spirituale” (cf. 1 Cor 15, 42-44), perdendo i suoi stimoli al cibo, al sesso e al sonno, che esprimevano la sua caduta nella mortalità. Questo corpo spirituale, purgato delle sue espressioni mortali legate alla colpa, si sarebbe unito all’anima in un cosmo trasformato di vita eterna. Gli stessi rigori ascetici esprimono gli inizi di questa purificazione del corpo per fargli recuperare la sua natura spirituale originaria. Gregorio di Nissa immagina questo processo di trasformazione del corpo come l’abbandono di una tunica lacera. Quest’analogia ha le sue radici nell’esegesi patristica di Gn 3, 7, in cui il fatto che Adamo ed Eva si 59 Cf. M.T. Garutti Bellenzier, Identità della donna e dell’uomo nell’insegnamento della Chiesa, in Pontificium Consilium Pro Laicis, Uomini e Donne. Diversità e reciproca complementarietà, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2005, pp. 109-110. 60 Cf. P. Brown, Il corpo e la società. Uomini, donne e astinenza sessuale nel primo cristianesimo, cit.

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coprano con delle “pelli” dopo la Caduta viene interpretato come un cadere da un corpo immortale a un corpo mortale 61. La “via angelica” della prima comunità cristiana, paradossalmente, allo stesso tempo svaluta e deifica il corpo. Quello dei primi cristiani era uno stile di vita escatologico, basato sul superamento dei tormenti della sessualità. Nel tardo primo secolo l’ideale cristiano di un’assoluta continenza sessuale fa la sua apparizione: «Benedetti sono quelli che hanno mantenuto la carne pura, per quelli diverrà un tempio di Dio… Benedetti sono i continenti, per loro Dio parlerà» (Atti di Paolo e Tecla, 4). Nel secondo secolo, i seguaci di Taziano, un teologo latino, affermavano che l’unione sessuale di Adamo ed Eva è stata strumentale per creare una “società erronea”. Ne è conseguito che questa prospettiva ha rotto «l’antica continuità dell’uomo e del mondo naturale» e abrogato «l’asserzione che la società umana cresceva organicamente da naturali esigenze». Ogni generazione di teologi cristiani si confrontò con la tradizione della continenza. Clemente di Alessandria, scrivendo alla fine del secondo secolo e proseguendo su questa via, presenta un’austera visione «dell’ideale umano della continenza… che è sottolineato dai filosofi greci, che insegna di resistere alle passioni, di non sottomettersi ad esse, e di ammaestrare gli istinti a perseguire obiettivi razionali». L’ideale della continenza sessuale è anche supportato dallo Spirito Santo, quando Tertulliano connette la sospensione di tutte le attività sessuali con il dono dello Spirito: «Con la continenza potrai acquistare una grande santità; risparmiando la carne, sarai capace di investire nello Spirito» 62. Questa intensità spirituale non implica nessuna mera divisione dell’essere umano in spirito e corpo, ma il bisogno di preparare il corpo allo Spirito attraverso il controllo e la sottomissione, una limitazione spesso associata con il declino dell’attività sessuale che sopravviene con l’invecchiamento. Tertulliano descrive i leader della Chiesa come “Spirito e gerontocrazia”. Solo attraverso la negazione il corpo poteva divenire lo strumento con il quale l’adepto imparava a suonare la musica interiore del sacro. Nel terzo secolo, nella società romana la verginità venne a costituire un valore centrale della comunità. La “via angelica” di vivere

61 Cf. R. Radford Ruether, Ripensare la creazione e la distruzione. La rivalutazione del corpo nell’eco-femminismo, in «Concilium» 2 (2002), p. 66. 62 De ieiunio 1.1, in «Corpus Christianorum» 2, 1262, cit. in P. Brown, The Body and Society: Men, Women, and Sexual Renunciation in Early Christianity, cit., p. 78.

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oltre il corpo e la sessualità ha avuto implicazioni estreme per quelli che, come Origene, adottarono la pratica dell’autocastrazione 63. Come eunuco, Origene divenne «una lezione vivente della indeterminatezza di base del corpo» 64. Il corpo così trasformato costituisce in tal modo un’icona visibile della trasformazione spirituale – in termini escatologici una “prima tappa” della salvezza alla fine del tempo. Più tardi, a Milano e a Roma, come nelle grandi chiese dell’Oriente, le vergini della chiesa ebbero il ruolo di “pietre umane di confine”. La loro presenza definì la basilica cattolica come un privilegiato spazio sacro. Per i Padri del deserto, il desiderio sessuale adempie di nuovo una funzione metonimica, ora in termini esistenziali, perché rivela il legame che giace nel cuore dell’uomo decaduto. La fuga dal corpo fu poi sottolineata dall’espressione di Ambrogio: «al credente è necessario evitare, non impantanarsi, o essere risucchiato dalla infida palude della carne». Per Girolamo, il corpo umano costituiva una foresta oscura, piena di stormi di animali selvaggi, che possono essere controllati solo attraverso rigidi codici dietetici e l’assoluta trascuratezza delle occasioni di attrazione sessuale. Per quanto riguarda la Scolastica, limitandoci a Tommaso, la finalità della creazione della donna viene affrontata nella Summa Theologiae, laddove si afferma che l’aiuto fornito dalla donna all’uomo riguarda solo la generazione, «poiché per qualsiasi altra funzione l’uomo può essere aiutato meglio da un altro uomo» 65. Tuttavia, nei primi documenti della cristianità, le lettere di Paolo, circa un terzo dei leader delle chiese domestiche di Roma erano donne, donne erano apostoli evangelizzatori, donne erano profeti e insegnanti. In passato si è tentato di utilizzare san Paolo per fondare un antifemminismo “cattolico”, attribuendo all’Apostolo presunti insegnamenti prescrittivi, che in realtà risentivano piuttosto delle esigenze delle chiese locali a cui egli si rivolgeva e del clima culturale dell’ambiente giudaico ed ellenistico in cui operava 66. 63 Cf. U. Ranke-Heinemann, Eunuchs for Heaven: The Catholic Church and Sexuality, Deutsch, London 1990. 64 P. Brown, The Body and Society: Men, Women, and Sexual Renunciation in Early Christianity, cit., p. 169. 65 Cf. Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 92, art. 1; I, q. 98, 2 sed contra. 66 Cf. S. Zedda, Relativo ed assoluto nella morale di san Paolo, Queriniana, Brescia 1984.

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Corpo, religione e sessualità

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Poiché il cristianesimo come nuova religione nacque e si sviluppò in ambito domestico, e tale rimase fino alla metà del terzo secolo, i ruoli domestici dell’uomo e della donna influenzarono la nuova religione. Questo modello adottato dalle prime Chiese creò uno spazio per una leadership femminile. Se la donna aveva un ruolo centrale nella casa, questo tuttavia non intaccava il concetto della moglie sottomessa al marito, che era un asserto della legge romana, anche se, considerata la casa in una prospettiva economica, i ruoli erano complementari. Ma con il tempo, con la costruzione degli edifici delle chiese, l’adorazione divenne una azione pubblica, e la cattedra del vescovo ne venne a costituire la centralità; lo spazio pubblico era già maschile e l’ufficio pubblico una sua prerogativa. Tertulliano, teologo africano della metà del terzo secolo, sottolineò il ruolo della chiesa come spazio pubblico spiegando che il clero, similmente ai leader della società civile, possedeva certi diritti: il diritto di battezzare, di insegnare e di celebrare l’Eucaristia. In accordo con l’ideologia sessuale che vedeva l’uomo nello spazio pubblico e la donna nello spazio privato, le donne non avrebbero potuto esercitare uffici e funzioni pubbliche, tanto meno nella chiesa. Tertulliano sottolinea ancora che una donna non può ricoprire un ufficio pubblico perché questo è una funzione maschile 67. Tuttavia la relazione della cristianità con la sessualità e, più specificamente, gli atteggiamenti cristiani verso le donne sono più diversi e complessi di questa generalizzazione. La ricerca sulla tradizione mistica femminile medievale è stata molto importante. Le donne erano condannate per la loro natura fisica, ma nel dodicesimo e tredicesimo secolo erano più atte a somatizzare le loro esperienze del divino. Nella lotta contro le eresie (come il “dualismo” dei Catari), i miracoli corporei delle donne furono usati dalla Chiesa come contrapposizione alle dottrine empie. L’estasi religiosa delle donne fu adoperata come metodo di legittimazione del ruolo delle donne nella società. La mariologia fu la fonte di tali argomenti. Al di fuori di queste prospettive, si sviluppò poi la concezione secondo cui sia la Chiesa (ecclesia) che l’umanità (humanitas) erano di genere femminile 68. Una ripresa del valore del corpo in teologia, soprattutto nell’ambito dell’antropologia teologica, è dovuta a vari fattori. Sinteticamen67 Cf. K.J. Torjesen, When Women Were Priests, Harper, San Francisco 1993, pp. 155-178. 68 Cf. C. Bynum, Fragmentation and Redemption. Essay on Gender and the Human Body in Medieval Religion, Zone Books, New York 1991.

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te, innanzitutto vi è lo stimolo dato dalla necessità di confrontarsi con il fenomeno culturale della “rivoluzione sessuale” 69, esploso nella seconda metà del secolo scorso, in cui la libertà sessuale, vissuta fuori dal tradizionale codice morale, rappresentava un nuovo spazio di libertà individuale e politica contro ogni forma di restrizione sia di carattere culturale che religioso della civiltà contemporanea. Inoltre, lo sviluppo delle scienze biologiche costringeva a ripensare alla radice il corpo nella sua dimensione personalistica e nel suo significato e poneva nuove questioni di carattere etico, che chiamavano in causa i nuovi poteri sul corpo di cui l’uomo veniva a disporre. Un impulso decisivo però è stato dato dalla cristologia conciliare, che ha determinato un radicale rinnovamento dell’antropologia d’ispirazione cristiana. Nella Gaudium et spes, al numero 22, l’uomo è pensato alla luce del mistero del Verbo incarnato, in cui trova piena luce anche la sua altissima vocazione che è l’amore, così che «il principio ultimo di ogni realtà è atto di amare piuttosto che atto di essere», senza arrivare a vedere una contrapposizione tra essere e amore, ma un approfondimento del significato ultimo dell’esistere umano 70. Nella coppia umana, che è costituita dall’unità dei due nella carne – l’uomo e la donna: «e i due saranno una carne sola» (Gn 2, 24) –, il linguaggio del dono si attua attraverso il linguaggio del corpo. Tramite il corpo, infatti, l’amore diventa nel tempo reale, vale a dire sperimentabile e comunicabile. Nella vita coniugale, infatti, l’amore si esprime attraverso il corpo sessuato. La dimensione del dono costituisce la chiave morale per comprendere il valore del corpo e della sessualità nell’esperienza coniugale come esperienza di comunione, di gioia e di piacere: «Gustare il piacere sessuale senza con ciò trattare la persona come un oggetto di godimento, ecco la sostanza del problema morale» 71. Quando la sessualità è scissa dall’esperienza soggettiva del dono totale di sé, essa cade a mera relazione biologica e rimane falsificata nel suo valore personalistico. Esprime molto bene questa verità un passaggio della Familiaris consortio: «La sessualità, mediante la quale l’uomo e la donna si donano l’uno all’altra con gli atti propri ed esclusivi degli sposi, non è affatto qualcosa di puramente biologico, ma riguarda l’intimo nucleo della persona umana come tale. Essa si realiz69 Cf. 70 Cf.

W. Reich, La rivoluzione sessuale, Massari, Bolsena 2001, G. Grandis, Il corpo: il suo linguaggio e i suoi significati nella relazione coniugale, cit., pp. 52-53. 71 J. Bastare, Eros redento, Qiqajon, Magnano (VC) 1991, p. 59.

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za in modo veramente umano, solo se è parte integrale dell’amore con cui l’uomo e la donna si impegnano totalmente l’uno verso l’altra fino alla morte. La donazione fisica totale sarebbe menzogna se non fosse segno e frutto della donazione personale totale, nella quale tutta la persona, anche nella sua dimensione temporale, è presente: se la persona si riservasse qualcosa o la possibilità di decidere altrimenti per il futuro, già per questo essa non si donerebbe totalmente» 72. La sessualità possiede così due fondamentali significati: unitivo e procreativo. La finalità unitiva è ciò che caratterizza essenzialmente il matrimonio, che altro non è che una singolare forma di “comunione di persone”. Nell’esperienza matrimoniale questa comunione è quindi abituale, sempre presente. E quando diventa attuale attraverso l’esercizio della sessualità dei corpi, crea le condizioni perché l’effetto di questa unione sia quello di trasmettere la vita a nuove persone. Propriamente parlando, si potrebbe dire che la procreazione non è il fine intrinseco del matrimonio, che è la piena comunione delle persone, ma l’effetto di questo fine. L’amore e la vita costituiscono i due fondamentali valori dell’esperienza coniugale 73. Oggi la tradizione della Chiesa cattolica, in materia di sessualità, parte da una visione olistico-ecologica della persona, secondo la quale il desiderio sessuale, l’amore personale e l’apertura del dono dei figli sono collegati 74. La Chiesa dice che il sesso di per sé è una cosa buona: fa parte di quella creazione che Dio ha considerato e visto come “buona”. Infatti, nel libro della Genesi la realtà creata non solo è realtà ontologicamente diversa da Dio, ma è anche realtà positiva perché voluta da Dio. Il volontario gesto creante di Dio e la positività della materia sono significati dalle frasi più volte ripetute: «Dio disse» e «Dio vide che era cosa buona» 75. Il sesso è una realtà creata dalla mano di Dio, intrinseca al matrimonio e alla procreazione dei figli, sin dall’“inizio”, quando Dio ha creato la persona incarnata e “li ha creati maschio o femmina”. La sessualità perciò è tutto quanto riguarda un uomo o una donna, e non semplicemente una capacità riproduttiva biologica. Al centro 72 Familiaris consortio, 11. 73 Cf. G. Grandis, Il corpo:

il suo linguaggio e i suoi significati nella relazione coniugale, cit., p. 63. 74 Cf. M. Lutz, Trasformazioni e crisi nel rapporto uomo-donna, in Pontificium Consilium Pro Laicis, Uomini e Donne. Diversità e reciproca complementarietà, cit., p. 61. 75 Gn 1, 1-3.

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della creazione del maschio e della femmina c’è il matrimonio, una realtà creata da Dio, elevata a sacramento dal suo Figlio incarnato. Fedele alla rivelazione, la Chiesa pone il matrimonio al centro del proprio insegnamento sulla sessualità. Essa mette tutta la sessualità in relazione col matrimonio e propone un uso corretto della sessualità nelle vocazioni al matrimonio, al celibato e alla verginità. In modi diversi queste sono tutte vocazioni “coniugali”, tutte feconde. Essa trova inoltre qui la redenzione della sessualità umana, così che il matrimonio è qualcosa di più profondo del “rimedio per la concupiscenza” dei teologi medievali. All’interno del sacramento del matrimonio, la sessualità viene elevata, così da diventare feconda sia come amore pieno di grazia, sia come mezzo apportatore di figli nel mondo all’interno della famiglia. Nel matrimonio, l’unione sessuale diventa unione coniugale, l’“unica carne” della donazione reciproca. L’atto della consumazione del matrimonio è così l’inizio dell’amore di donazione di sé. Esso stabilisce il legane coniugale indissolubile (vinculum) ed è esclusivo, domandando la fedeltà sino alla morte. La vera libertà sessuale si basa su questa fedeltà reciproca del marito e della moglie. Questo centro del matrimonio sulla sessualità sottolinea il principio che la procreazione non è mai separata dalla sessualità. Nel suo insegnamento contro la contraccezione, la Chiesa tiene insieme i due significati dell’atto matrimoniale, unitivo e procreativo. Essi non devono essere separati e neanche messi l’uno contro l’altro. La Chiesa vede la finalità dell’unione sessuale non in termini biologici, come la “riproduzione”, ma piuttosto come “procreazione”, all’interno della quale gli sposi cooperano con il loro Creatore nel trasmettere una nuova vita 76. L’insistenza, rimproverata tante volte alla Chiesa, sui problemi della morale sessuale, non è rimozione della carica erotica della sessualità, né si deve a una visione manichea, ma alla percezione esatta della centralità della famiglia. L’etica cristiana è il primo tentativo rigoroso di inserire il mistero affascinante della sessualità in un progetto storico concreto: il matrimonio, sacramento dell’amore 77.

76 Cf. J.P. Elliott, La Chiesa cattolica e la sessualità, in Pontificio Consiglio per la Famiglia, Famiglia e questioni etiche, EDB, Bologna 2004, pp. 141-142. 77 Cf. J. Fuchs, Desiderio e tenerezza, Claudiana, Torino 1984, p. 180.

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Sabino Palumbieri sdb Sessualità e dimensione religiosa

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Sessualità e dimensione religiosa di

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Premessa La vasta area di scavo nella diade sessualità e dimensione religiosa qui viene tratteggiata con la scelta del limite ad alcune note introduttive di antropologia fenomenologica, in vista dell’esplorazione dell’avventura filosofica dell’éros, privilegiandone la posizione in Platone e sostando successivamente sulla visione dell’éros nell’ebraismo-cristianesimo.

Il sacro e il mistero Ogni esperienza profonda evidenzia la presenza dell’anelito. Non si tratta del semplice desiderio per l’oggetto verso cui si tende. Esso si configura, invece, come caratterizzato dalla carica indefinita di attesa di qualche realtà che è sempre al di là dell’acquisito stadio di ricerca. Secondo la testimonianza esperienziale del profondo, nessuna situazione può placare tale tensione. Si può restare accontentati, ma non placati. È la tensione verso un totalmente-Altro, che caratterizza la struttura antropologica in proiezione verso un oltre-ogni-altro-oltre. Tale anelito indefinito, perché relativo al soggetto finito, l’esser-ci dell’essere umano, verso l’altro dai connotati di infinito, fa intravedere una meta che è come l’esperienza junghiana dell’orizzonte, mai raggiungibile e sempre, comunque sia, télos di ogni attesa. Vi si intravede l’infinito della Bellezza, l’infinito della Potenza, l’infinito della Verità, l’infinito della Comunione, cioè l’infinito dell’Essere. Il totalmente-Altro si intravede come l’ultima stazione del dinamismo del profondo. È quello che Paul Tillich chiama l’ultimate concern 1. Questo totalmente-Altro si percepisce come mistero sommo, 1 P. Tillich, Systematic theology, I, The University of Chicago Press, Chicago 1951, pp. 22ss.

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cioè non comprensibile, non misurabile, non controllabile. Come nessuno può prendere in braccio se stesso comprendendosi, nessuno può prendere insieme l’infinito del valore che soltanto lampeggia attraverso la proiezione di ogni valore costituito da valori contingenti. Siamo qui nella regione dell’inquietum cor, che appalesa la struttura profonda dell’essere antropologico come essenzialmente religioso. Le religioni storiche sono interpretazioni con motivazioni teoretiche o storico-dottrinali e con espressioni simboliche – miti e riti – di questa religiosità costitutiva.

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Sessualità e contemplazione La sessualità dell’uomo, intesa come dimensione dell’essere che trasversalmente coinvolge i tre livelli costitutivi, quali sono quello della corporeità, della psico-affettività e della spiritualità, nella esperienza si coglie come insufficiente e incompleta e spinge il soggetto continuamente verso la patria della sua pienezza. La sessualità si rivela anche come parola poetica, come contemplazione della Bellezza, che tenta di aprirsi il varco attraverso il simbolo. Mette conto ricordare l’intuizione agostiniana che «unicamente il bello è amato» 2, e che «non possiamo amare nient’altro che ciò che è bello» 3. Ora, poiché il bello si conosce come tale non nel momento dell’esercizio razionale, ma in quello teoretico nel senso letterale della parola che è il contemplativo, dunque l’esercizio della sessualità di per sé si caratterizza come spazio di contemplazione. E questa punta sulla bellezza come armonia di forme e come simbolo o rinvio a una realtà che trascende quella immediata nella segnalazione costante della sua sorgente e che, nel riflesso del frammento, si presenta nel corpo colto come microcosmo o sintesi della bellezza disseminata nell’universo, e qui avvertita nel dialogo sessuale come un dono condensato e ricco delle vibrazioni, dei suoni, delle sfumature dei colori e offerto al tu, che è il destinatario totale e totalmente coinvolto. È lo spazio del godimento di un’opera d’arte di natura, calda e vivente, da contemplare fruendo e da fruire contemplando. È una estetica che prende l’essere umano in tutte le sue dimensioni e alle stesse radici della vita. Da questo centro di luminosità intensa 2 Agostino, Confessioni, 4, 3 Id., De musica, 6, 13, 38;

13, 20; PL 32, 701. PL 32, 1183.

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Sessualità e dimensione religiosa

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si diffondono riverberi sulle altre armonie del creato. E allora, su tutte si tende a proiettare il gusto sperimentato. Le indefinite forme della vita si compongono in una policromia di disegno beatificante. Nulla risulta più scontato. Tutto è contemplato nell’esercizio dell’éros e attraverso di esso si riveste di armonia e forme, cioè di bellezza e di senso.

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Éros, autotrascendimento e sacro Qui l’esercizio della sessualità introduce all’armonia e comporta la parola di riconciliazione con il mondo intero. Chi ama si sente nell’orizzonte della bellezza dell’amato e, perciò, in sintonia con la bellezza del cosmo intero. A questo punto la sessualità matura l’esperienza della tenerezza, che a sua volta introduce nella comunione, che è il télos di tutto il processo della tensione. È l’attingimento del mistero dell’interiorità dell’altro. Esso salda il cerchio interumano ai livelli più profondi. E questo itinerario che dalla realtà rinvia al simbolo e dal simbolo ritorna alla realtà, ancora più risignificata a mano a mano che il circuito vitale si reitera, riporta il soggetto ai livelli di autotrascendimento originale. Si evidenzia così l’esercizio dell’éros come non fruizione di un prodotto, ma come godimento di un mondo-altro intravisto e sempre più cifra di un oltre. All’uomo non basta il dato. Egli cerca sempre il significato e, in questo caso, i significati parcellari rinviano al sovrasignificato in tensione verso l’infinito assiologico. La tensione fra l’oggetto dell’appagamento e la carica dell’indefinito che è contenuta in esso fa sì che l’éros venga a rivelarsi come il tanto ma non il tutto. L’éros da sempre deve cimentarsi con il thánatos. Amore e morte sono in continuo conflitto già nelle strutture costitutive dell’uomo nel ruolo di istinto di vita e istinto di morte, nelle indefinite forme delle loro manifestazioni. «Quanto più ampia è l’esigenza di sentirsi presenti in maniera così potente e profonda qual è quella sessuale, tanto più dolorosa è la percezione, continuamente sottesa, che la morte in qualunque momento ne può segnare la fine» 4. Anche sotto questo aspetto, la sessualità porta inscritta in sé la tendenza verso il suo trascendimento. Si rivela come il luogo privilegiato della horkheimeriana nostalgia del totalmente Altro 5. Si può di4 A. Valsecchi, Nuove vie dell’etica sessuale, Queriniana, Brescia 1973, p. 82. 5 Cf. M. Horkheimer, La nostalgia del totalmente Altro, Queriniana, Brescia 1972.

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re, dunque, che l’esercizio della sessualità di per sé è anche spazio di profezia verso il sempre ulteriore non ripetitivo, ma qualitativamente nuovo. «La dimensione sociale della sessualità lascia trasparire più chiaramente come essa contenga un riferimento all’assoluto, e il suo risveglio rappresenti per l’uomo un insopprimibile e inesausto richiamo alla trascendenza» 6. Possiamo dire che l’indefinito dell’éros, per natura, punta all’infinito dell’agápe, qui inteso come l’amore caratterizzato dal culmine della perfezione dell’essere. Nel dinamismo costitutivo, dunque, la sessualità tende a un amore trascendente. E nell’esercizio di essa, quando vengono auscultate le dinamiche profonde insite nella tensione costitutiva, il soggetto si riscopre sempre al meglio come «animal symbolicum» 7, cioè tendente a «conferire il nome alle cose» (Gn 2, 19), ove nome sta per significato profondo. Se l’uomo reca in sé questo marchio – risultante e sintesi del suo autotrascendimento costante e della sua esigenza del simbolo e della struttura sacrale che lo caratterizza nel fondo – non può questo passaggio essere considerato di alienazione né frutto di operazione sublimatoria. È un dato fenomenologico imperioso nella sua inestirpabilità e vastità applicativa. Tutto ciò non comporta la diminuzione dell’esperienza segnata dalla contingenza, ma rivela la sua autenticità, in quanto la collega ad altro di cui essa è solo il riflesso. È questa la premessa per il suo godimento pieno. Il realismo, inteso come fidelitas ad rem, comporta il rispetto della relatività di quelle esperienze, che sono tali non soltanto perché sotto il segno della caducità, ma soprattutto in quanto sono relative all’Assoluto a cui esse rinviano. Si può dire, in questa luce, che i sensi cercano senso. E questo, a sua volta, tende alla radicazione e al completamento in quello che Viktor Frankl chiama il sovrasignificato, inteso come significato onnisignificante: «La fede religiosa, nella sua essenza, è fede in un significato superiore, un atto di fiducia radicale nel sovrasignificato» 8. E questa, appunto, è la zona del sacro, fondamento costitutivo di ogni formulazione storica della religione.

6 A. Valsecchi, Nuove vie dell’etica sessuale, cit., p. 74. 7 E. Cassirer, Saggio sull’uomo. Introduzione ad una filosofia

della cultura, Armando, Roma 1968, p. 81. 8 V.-E. Frankl, Dio nell’inconscio. Psicoterapia e religione, Morcelliana, Brescia 1975, p. 91.

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L’Éros nella poesia e cultura popolare Questo dato interiore – l’éros che cerca e tende verso l’ulteriore, intravisto, della Bellezza –, che la fenomenologia evidenzia, viene trattato nell’arcipelago della letteratura, delle religioni misteriche e delle culture popolari, a cui mette conto fare almeno un cenno. Nella letteratura possiamo recensire come rappresentante tipico Esiodo 9, per il quale l’éros è forza vitale primigenia della natura che la porta inscritta. Essa presiede alla formazione dei diversi mondi. Anche Virgilio parla di una sorta di mente che è intrinseca a tutti gli esseri e che li anima. È questa la base della vittoria plenaria e radicale dell’amore. «Omnia vincit amor (l’amore vince tutto)», afferma Virgilio nelle Bucoliche 10, e aggiunge: «Et nos cedamos amori (cediamo anche noi all’amore)». La tragedia greca si pone su questa linea, indicando nell’éros una forza cosmica indomabile 11. Nella cultura popolare, l’éros è considerato come violenza istintuale, che caratterizza l’essere umano nel piano dell’attrazione sessuale. Benedetto XVI, nell’enciclica Deus caritas est, afferma: «I greci – senz’altro in analogia con altre culture – hanno visto nell’éros innanzitutto l’ebbrezza, la sopraffazione della ragione da parte di una “pazzia divina” che strappa l’uomo alla limitatezza della sua esistenza e, in questo essere sconvolto da una potenza divina, gli fa sperimentare la più alta beatitudine» 12. Nell’arte abbiamo due icone caratteristiche: l’una è quella di Éros con le ali e rappresenta la personificazione della brama dell’uomo puntato verso la bellezza. La seconda è di Éros con le ali tarpate per invidia di quegli dèi che gli impediscono di salire, come Giove aveva fatto con Prometeo. È interessante notare che Prometeo, la cifra emblematica dello homo faber, ed Éros, simbolo dello homo aestheticus-eroticus, sono bersaglio della condanna della divinità pagana. Gli dèi dell’Ellade 9 «Colui che produce l’abbandono e soggioga nel petto di tutti la mente e la saggia volontà» (Esiodo, Teogonia, 116, 22). 10 Bucoliche, X, 69. 11 «O Éros, o irresistibile e indomabile Éros, tu che ti abbatti prepotente sugli esseri, tu folle sull’immensa estensione dei mari, tu non ignori l’antro selvaggio delle fiere, tu frughi i recessi delle solitudini lontane. Chi degli immortali, chi dei mortali un giorno fuggì mai dal tuo irresistibile tocco? E pure il tuo governo è disperata follia. Sei tu che volgi all’ingiustizia e rovina lo spirito dei mortali» (Sofocle, Antigone, 781-793). 12 Benedetto XVI, Lettera enciclica Deus caritas est, n. 4, Libreria editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006.

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sono gelosi possessori dei loro tesori. Sono invidiosi dell’uomo che conquista e, quindi, del progresso umano. E lo sono altresì dell’uomo felice, del godimento molteplice dell’uomo. Mette conto rimarcare che la concezione della divinità determina la percezione della validità del dimensionale umano costitutivo, che è quello del lavoro e della relazione. Come Prometeo, l’uomo dinamico viene incatenato alla rupe, così Éros, di per sé l’alato, viene tarpato delle sue ali. Éros diventa Éros aptéros. Nelle religioni misteriche, l’éros coincide con l’ebbrezza dionisiaca in cerca della comunione con il divino. La sete del sacro nell’uomo passerebbe attraverso questa theiamanía o follia divina, connessa con l’esercizio del sesso senza freni. «Nelle religioni questo atteggiamento si è tradotto nei culti della fertilità, ai quali appartiene la prostituzione “sacra”, che fioriva in molti templi. L’éros venne quindi celebrato come forza divina, come comunione con il Divino» 13. L’enciclica Deus caritas est nel merito si riferisce alla posizione di Nietzsche, che ricentra il culto dionisiaco e ripresenta il suo messaggio come salvifico per l’avvento dell’iperuomo 14. In Ecce homo, che è l’ultima opera del filosofo tedesco, egli scrive: «Sono stato capito? Dioniso contro il crocifisso» 15. È significativo il sottotitolo del testo, Come si diventa ciò che si è. L’uomo sarebbe essenzialmente ebbrezza, neutralizzata da tonnellate di moralismo provenienti da religioni inibitorie. Si tratta di liberarsi da queste superfetazioni dell’incapacità di crescere e delle fobie di un divino alienante, per optare verso un mondo di autenticità e di libertà, intesa come immersione nel pancosmico o naturismo disinibito. Si ricordi che Dioniso è il dio della follia creatrice, della danza, delle pulsioni sfrenate, dell’immediatismo, della violenza che non ha limiti per raggiungere il suo scopo sino al dilaniamento dell’altro 16. Naturalmente qui il Dioniso dell’ebbrezza viene contrapposto al Crocifisso, che è «l’uomo dei dolori, colui che ben conosce il sof13 Ibid. 14 Cf. ibid., n. 3. 15 F. Nietzsche, Ecce

homo. Come si diventa ciò che si è, cap.: «Perché sono un destino», § 9. 16 È sintomatico il coro delle Baccanti, che inneggia all’afferramento dell’attimo che fugge, e all’isola di Afrodite dove abita quell’amore che attrae irresistibilmente. «Portami lassù, o dio dello strepito. Tu che guidi le Baccanti in mezzo a cori di festa. È là che vivono le Grazie e il Desiderio. È là che alle Baccanti si concede di sfrenarsi nei riti» (ibid., pp. 397 e 417).

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frire» (Is 53, 3). Scrive Benedetto XVI: «Il cristianesimo, secondo Friedrich Nietzsche, avrebbe dato da bere del veleno all’éros che, pur non morendone, ne avrebbe tratto la spinta a degenerare in vizio. Con ciò il filosofo tedesco esprimeva una percezione molto diffusa: la Chiesa con i suoi comandamenti e divieti non ci rende forse amara la cosa più bella della vita? Non innalza forse cartelli di divieto proprio là dove la gioia, predisposta per noi dal Creatore, ci offre una felicità che ci fa pregustare qualcosa del divino?» 17.

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L’Éros nella sua avventura filosofica Nella filosofia, che è sempre il filtro critico delle culture e delle prassi conseguenti, troviamo una focalizzazione dell’éros molto interessante, da cui non possiamo prescindere. Scegliamo Platone, il filosofo appunto dell’éros. Egli rilegge il patrimonio sapienziale di Socrate in chiave di éros. «Io dichiaro – dice il Maestro – di non essere competente in altro che in tà erotikà (in argomenti d’amore)» 18. Platone, erede e ricreatore di tale ricchezza di messaggio, avvita il suo pensiero attorno a questo categoriale, e lo esprime, come al solito, in forma simbolica. Nel merito afferma Nygren: «Il mito dell’éros può essere addirittura definito come il mito platonico centrale, che più di ogni altro ci permette di gettare uno sguardo nei più profondi motivi della concezione platonica» 19. Come è noto, i miti sono preesistenti a Platone, ma egli li ha sublimati. Circa quello di éros, va detto che esso acquisiva valenze diverse nell’area della letteratura, del linguaggio popolare, del politeismo corrente. Scegliamo Esiodo, che dà forma poetica alle diffuse credenze popolari, ricche di miti, di riti e di simboli. Éros è considerato come forza cosmogonica nella sua Teogonia. L’Éros è dy´namis che fa sì che tutte le forze del cosmo si unifichino e producano una vita nuova 20. Insieme a Éros, Esiodo presenta il mito complementare di Afrodite, che simboleggia il desiderio sessuale. Perciò è chiamato anche Éros parédros, cioè accompagnatore di Afrodite. La loro 17 Benedetto XVI, Deus carits est, cit., n. 3. 18 Platone, Simposio, 177d. 19 A. Nygren, Eros e agape. La nozione cristiana

dell’amore e le sue trasformazioni, il Mulino, Bologna 1971, p. 143. 20 Cf. S. Fasce, Eros: la figura e il culto, Università di Genova 1977, p. 231.

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complementarità, tradotta in termini di lógos, significa che éros come forza attraversa il cosmo e giunge alle soglie dell’umano, e così si rivela come spinta all’unione sessuale, che specifica l’unione generale degli esseri complementari. Afrodite ha bisogno di Éros. «Afrodite presiede all’unione sessuale, ma nulla essa può senza la forza che attira l’uno verso l’altro i protagonisti» 21. Insomma, i due simboli del potere pandominatore della natura e di quello indomabile dell’amore costituiscono la linea di continuità «sulla quale si è svolta l’interpretazione di Éros parédros di Afrodite» 22. La religione orfica del VI secolo a.C. se ne appropria e pone come fondamento il mito di Éros, coniugando l’elemento cosmologico e quello antropologico. In più, conferisce valenza soteriologica all’Éros, in quanto realizza la comunione con il divino. A mano a mano che la simbologia popolare si affina 23, viene rimarcata la distinzione dei ruoli di Afrodite, che presiede al piacere fisico, e di Éros che lo è per il sentimento amoroso. Nel periodo ellenistico ci sarà di nuovo l’assorbimento del ruolo di Eros in quello di Afrodite. Nei tragici greci prevale la caratterizzazione dell’Éros come forza indomabile sia del cosmo che dell’uomo. Sofocle nell’Antigone invoca: «O Eros, o irresistibile e indomabile Eros, tu che ti abbassi prepotente sugli esseri, tuo possesso, e trascorri la notte riposando sulle tenere gote dell’adolescenza, tu folle sull’immensa estensione dei mari, tu non ignori l’antro selvaggio delle fiere, tu frughi i recessi delle solitudini lontane. Chi degli immortali, chi dei mortali un giorno fuggì mai dal tuo inarrestabile tocco? E pure il tuo governo è disperata follia. Sei tu che volgi a ingiustizia e rovina lo spirito dei mortali» 24. Dai Frammenti e dalle Commedie, Éros viene indicato come aptéro, o privato di ali dagli dèi per la sua eccessiva intraprendenza.

21 C. Calame (ed.), L’amore in Grecia, Laterza, Roma-Bari 1997, p. XXXVI. 22 S. Fasce, Eros: la figura e il culto, cit., p. 231. 23 Cf. S. Givone, Eros/Ethos, Einaudi, Torino 2000, pp. 22-29; G. Reale, Storia del-

la filosofia antica, I. Dalle origini a Socrate, Vita e Pensiero, Milano 1984, p. 48; S. Fasce, Eros: la figura e il culto, cit., pp. 146 e 124. 24 Sofocle, Antigone, 781-793.

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Platone, un approdo fondamentale

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1. L’Éros, il paradosso Platone, trovandosi davanti a un materiale polimorfo, trasfigura questo mito anzitutto demitizzandone il carattere divino 25. Egli ne parla in varie sue opere come nel Fedro e nella Repubblica, ma una trattazione più esauriente la compie nel Convivio. L’ambito di collocazione è quello del banchetto attorno a Socrate. Tutti i commensali prendono la parola e si esprimono in termini elogiativi su Éros. Pausania distingue le due interpretazioni, facenti capo a quello celeste e a quello terrestre. Il primo, rivolto verso il bello, il secondo, teso verso i sensi. Per Aristofane, Éros personifica la brama della ricomposizione delle due parti fratturate: il sy´mbolon, tra l’amante che cerca l’amato e viceversa, in ordine all’unione. Éros dice sempre tensione. Simboleggia sempre ricerca mai domata. E, nell’intervento della profetessa Diotima di Mantinea, tale tensione si dirige verso l’alto. È brama ascensionale verso qualche perfezione mancante, a partire dalle forme della fisicità, fino alle zone più alte dello spirito. In questo, Éros è il vero titolare della philía tès sophías. L’autentico filosofo, teso alla esplorazione sempre ulteriorizzata della verità. «Perché la sapienza lo è delle cose più belle, ed Éros è amore del bello, ne consegue necessariamente che Éros è filosofo, e come filosofo sta in mezzo fra il sapiente e l’ignorante» 26. Il codice genetico di Éros, che è figlio di Penía e Póros 27, lo colloca nell’area di chi manca di perfezione, proprio come Penía, sua madre, e si attiva con la scaltrezza del padre, Póros. In termini di pensiero contemporaneo, si può tradurre così il messaggio: Éros è il simbolo dell’autotrascendimento incessante verso la Trascendenza valoriale in linea ascensionale, ove l’ascesa comporta l’ascesi. «Perché questo è proprio il modo giusto di procedere e di essere da altri guidato nelle questioni d’amore – recita il testo 25 Nota Lassèrre: «Così, la divinità di Éros scompare dietro l’idea che incarna; l’importanza stessa dell’amore non è misurata dal posto che occupa nella vita degli uomini. In altri termini, non c’è più timore né stupore dinanzi alla forza elementare rappresentata da Éros; il dio è divenuto un oggetto di studio altrettanto propizio al ragionamento che all’immaginazione» (citato in C. Calame, L’amore in Grecia, cit., p. 205). 26 Platone, Simposio, 204b. 27 Id., Convivio, 203b.

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del Convivio –. Cominciando dalle bellezze di questo mondo, in vista di quella ultima bellezza, occorre salire sempre, come per gradini, da uno a due e da due a tutti i bei corpi, e dai bei corpi a tutte le belle occupazioni; e, da queste, alle belle scienze, e dalle scienze giungere infine a quella scienza che è la conoscenza di questa stessa bellezza, e conoscere all’ultimo gradino ciò che sia questa bellezza in sé» 28. Ed è proprio qui che Éros aptéros riprende le ali e si libra nel cielo della religione della bellezza con l’anagogia ovvero pedagogia graduale verso le vette del divino. Qui Éros, possiamo dire, è la cifra emblematica dell’uomo-cuore inquieto di Agostino, che punta verso la Bellezza increata e sorgiva di ogni bellezza che ne deriva. Éros è, dunque, titolare dell’inquietudo cordis, che nel platonismo è anche nostalgia del paradiso iperuranico perduto. A questo punto, la letteratura aristofanea dell’Éros, che nel Convivio è anche tensione della parte fratturata verso il ricongiungimento con l’altra complementare, si ripresenta. Ma non solo più nei termini del maschile e del femminile, bensì in quelli più profondi e metafisici. L’essere contingente, che è un bene ma limitato, va in cerca della sua integrazione con la sua parte costitutiva per cui è stato posto in essere, cioè il Bene assoluto 29. 2. Éros, spazio religioso Qui, l’ermeneutica platonica circa la struttura d’essere dell’essere uomo si addentra nel mistero dell’uomo, come cuore proteso all’assoluto del valore. Ed è qui la forza della concezione platonica dell’Éros, che si muove, per costituzione, in uno spazio di sacro religioso. Non è l’Éros delle religioni orfiche. Tanto meno quello delle religioni misteriche, che sostano sul pianerottolo dei sensi e danno valenza di assoluto a questo stadio. In questo quadro c’è un conato di assolutizzazione del relativo e di relativizzazione dell’assoluto imprigionato nel frammento. 28 Ibid., 211c. 29 Cf. G. Reale,

Éros demone mediatore e il gioco delle maschere nel «Simposio» di Platone, Rizzoli, Milano 1997, p. 187. «Éros è generazione dell’eterno nella bellezza. La bellezza è l’orizzonte a partire dal quale ciò che è sempre identico a sé, l’Uno, è generato e tratto fuori dal cuore stesso del molteplice. Lì l’anima è già da sempre in comunione con l’unità dell’essere…» (S. Givone, Eros/Ethos, cit., p. 45).

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L’operazione, comunque sia, è sintomatica del disagio dell’uomo-cuore nel fermarsi al dato edonistico senza alcun riferimento al trans-episodico. In Platone, viceversa, si registra un autentico percorso di autotrascendimento verso la Trascendenza, che resta tale. Platone disincaglia l’assoluto dal frammento. Ché anzi, in ogni frammento, la tensione verso l’oltre, termine teleologico assoluto, è presente. «L’amante ama il corpo bello, non già nel suo essere corpo, ma piuttosto, in modo determinante, nel suo essere bello» 30. Realisticamente, Platone parla della necessità dell’ascesi in questa ascesa, onde evitare di smarrire le proporzioni dell’itinerario della spinta dell’Éros. La sophrosy´ne è indispensabile in ogni attività erotica. Nel Filebo, Platone avverte che l’éros antropologico è uno dei bisogni necessari dell’essere umano, ma che il suo uso deve essere compiuto con grande moderazione, perché il degrado al livello bestiale è in agguato 31. La chrésis aphrodísion, cioè l’uso del piacere, deve essere retta sempre dal lógos temperante. «Quando la virtù, che tende al meglio, guida razionalmente e prevale, la sua prevalenza prende il nome di temperanza» 32. Significativa è la ricaduta della schiavitù sotto il segno della sfrenatezza erotica sulla schiavitù della tirannia sugli altri. Chi è schiavo della bramosia tende a diventare tiranno nei confronti degli altri. Chi, invece, è regale nel dominare le sue passioni è in grado di governare pacificamente i suoi simili 33. La patria dell’Éros è la bellezza ideale. Il mistero dell’Éros platonico appartiene all’area del sacro. Si presenta con il suo carattere religioso, che segnala una chiara trascendenza. Nel tempo umbratile dell’ascesa-ascesi, l’Éros non sorvola il mondo. Ma genera virtù robuste. L’anima guidata dall’Éros, assetato di bellezza ideale, disseta lo spazio umano in cui vive mediante saggezza relazionale, leggi sociali, costumi civili, ispirati appunto a questa tensione della psyché. Qui si registra l’immenso cantiere storico, applicativo 30 G. Reale, Éros demone mediatore, cit., p. 208. 31 Cf. Platone, Filebo, 63. 32 Id., Fedro, 237e. 33 «Gli eccessi sessuali del tiranno, quando arriva a disonorare i figli – ragazzi e ra-

gazze – dei cittadini, sono spesso invocati come causa prima dei complotti volti a rovesciare la tirannide e ristabilire la libertà» (M. Foucault, L’uso dei piaceri. Storia della sessualità, II, Feltrinelli, Milano 2000, p. 86.

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dell’Éros platonico 34, che si rivela come un categoriale polivalente nel tentativo ermeneutico della tensione verso l’alétheia dell’uomo e la fondazione dell’arethé, al segno dei dati innegabili dell’interiorità, sempre inabitata dall’anelito presente e dal télos intravisto.

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3. Rischio di dissaldatura Nella versione del neoplatonismo, Plotino considera l’Éros come anelito verso l’Uno, da cui ogni essere deriva per degrado fino allo stadio della y´le. Nel senso contrario a tale degrado, c’è il ritorno all’Uno determinato appunto dall’Éros. Esso ha origine dalla psyché, proprio nella sua condizione di povertà. «L’Éros – dice Plotino – è una realtà affine alla materia; ed è un demone generato dall’anima in quanto sprovvista di Bene ma di lui bramosa» 35. Contrariamente alla impostazione platonica, che tentava di coniugare Éros e storia, sia pur umbratile, Plotino risolve tutto nel circuito Éros e Uno, assegnando come suo télos la theoría o contemplazione dell’oltre essere 36. Resta la svolta platonica dell’Éros, feconda di ispirazioni e di interpretazioni della complessità e dell’unità dell’essere umano che, nella sua paradossalità, dice unitotalità, in protensione costante verso il valore e il fondamento onnifondante. Si afferma, nelle vicende interpretative dell’Éros, il mistero di questa dialettica antropologica, in cui il corporeo e il simbolico si coniugano. Sintetizza in merito Armido Rizzi: «Partendo dal Libro IV del De rerum natura di Lucrezio, accostandolo a Un amore di Swann di Proust, la metafora del desiderio dell’éros trasferisce in un codice unico il veicolo fisico e corporeo e il senso spirituale […]. Questo rivela che l’éros stesso è strutturalmente un fenomeno metaforico, in cui costitutivamente il corporeo è trasferito nell’ambito simbolico. Noi crediamo che ciò possa essere riferito al fenomeno dell’amore in generale, perché dà vita a metafore originarie, perché appartiene all’origine stessa del metaforico, cioè a quel doppio movimento di pensiero e linguaggio che si sviluppa dalla radice fisica e corporea dell’esistenza umana» 37. 34

Cf. C. Dumoulié, Il desiderio. Storia e analisi di un concetto, Einaudi, Torino

2002. 35 Plotino, Enneadi, III, 5, 9, 55. 36 Cf. C. Dumoulié, Il desiderio. Storia e analisi di un concetto, cit., p. 55. 37 A. Rizzi, Radici dell’éros, in «Filosofia e teologia», XIV/3 (2000), p. 463.

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Il divorzio tra corporeo e simbolico è una violenza fatta all’uomo. Ora, il simbolico nell’esperienza dell’éros, proprio per la sua non placabilità della carica di desiderio – il disavanzo blondeliano tra volontà volente e volontà voluta –, sfocia nel mistero trascendente e onnifondante. E l’esperienza dell’esercizio dell’éros, sotto il segno della chiusura, mentre di per sè connota apertura, rivela altresì l’insidia tanatologica sempre presente. E allora, l’éros, in quanto ascende e ascendendo si autentica, nel senso che punta verso il suo télos naturale, rivela la sua necessità soteriologica. Esso «ha in sé l’impulso per la salvezza e la guarigione. È energia psichica che ci sprona, poiché si tratta di crescere, di espanderci, di stabilire legami, rapporti con gli altri» 38. L’éros invoca la sotería dalle minacce di chiusura nell’ego da una parte, e, dall’altra, dalle fughe nel rischio plotiniano di disincarnazione, che pone tra parentesi la dimensione materiale quotidiana, storica, mondana, frammentaria dell’esistenza. Il pericolo della visione antropologica disincarnata già è presente nel dualismo platonico chiaramente professato nel Cratilo, con la indicazione del sóma come séma della psyché 39. L’anima, cioè, resta sepolta nella tomba del tempo, dello spazio, del limite, dell’ignoranza, dell’errore. Spirituale e corporale, esistenziale e sociale vanno tenuti presenti in una visione integrale e non integristica dell’uomo, che è mistero dell’esserci proteso al mistero onnifondante dell’Essere.

La proposta biblica nel panorama religioso 1. Una svolta originale Una rivoluzione si registra in una impostazione religiosa bipolare, quale quella ebraico-cristiana, con la dialettica della continuità-discontinuità. È una svolta rispetto alla visione delle culture religiose contemporanee della Mesopotamia, della Siria, di Canaan, dell’Egitto. Qui, la ricchezza di riti e di miti della fecondità era da una parte l’interpretazione della sfera sessuale nel senso sacrale divinizzato, e dall’altra parte, con il sesso in quanto esercizio della sessualità, degrada38 W. Müller, Intimität. Wom Reichtum ganzheitlicher Begegnung, Grünewald, Mainz 1989, p. 65. 39 Cf. Platone, Cratilo, 400c.

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to a Éros apteros. I due poli opposti da cui prende nettamente le distanze la visione ebraico-cristiana sono dunque la divinizzazione del corpo sessuato dei miti orfici in particolare, e la degradazione del corpo sessuato del platonismo e, soprattutto, del plotinismo. Il suo esercizio costituiva quasi un segno-tramite partecipativo della divinità. La visione biblica rompe con questa impostazione, restituendo alla sessualità il suo spessore umano e, per così dire, profano. Il Cantico dei cantici, per esemplificare, risulta come l’inno all’éros, con la esaltazione della bellezza della donna e dell’amore divampante nelle sue folgorazioni di ricchezza umana, descritta nella sua densità e carica di particolari 40. Vi si nota anche l’evidenziazione dell’ambiguità drammatica dell’esercizio della sessualità 41. Tutto il tessuto storico della Bibbia fa da sfondo, relazionando tradimenti, adulteri, tentazioni, lotte e rinunce, lacrime e sangue, a motivo del degrado dell’éros. Ché anzi, il Libro di Osea è la grande metafora storica dell’amore erotico contrastato e tradito. Il capitolo 16° di Ezechiele, poi, è l’altissima poesia del sentimento della ricerca e della ferita e della speranza, con slanci, ardimenti, iracondie, sconfitte e vittorie. Nella Genesi poi, la sessualità viene trattata soprattutto come reciprocità analogica rispetto all’iconicità teomorfa. Dio è trascendente la sessualità, che di per sé dice particolarità (sexus da secare). Pertanto, l’attribuzione del dato sessuale alla iconicità divina è da cogliere sul piano analogico attorno al nucleo affermato della reciprocità d’amore. «Dio creò l’uomo a sua immagine. A immagine di Dio lo creò. Maschio e femmina li creò» (Gn 1, 27) 42. La differenza dei pronomi nel numero singolare e quello plurale è estremamente indicativa. Nella prima espressione, l’uomo (’ d m) al singolare designa la creatura umana in genere, l’umanità concreta fatta di terra (humus), impastata cioè di fragilità, caducità, friabilità. Nella seconda, invece, si riportano le differenze di questa creatura umana. Il testo originale 40 Cf. L. Renna, Eros, persona e salvezza. Un’indagine nella filosofia e nella teologia, Ediz.Vivere In, Roma 2005, pp. 71-73. 41 Cf. F. Salvoni, Sesso e amore nella Bibbia, Lanterna, Genova 1970. 42 «Il versetto 27 esprime il concetto che i due sessi sono creati direttamente da Dio. Tutti e due sono ’ d m, immagine a Dio somigliantissima. “In Genesi 1, 26-28 l’Uomo è considerato nelle sue relazioni costitutive: - ’ d m è immagine di Dio: è relazione con Dio, che è asessuato; - ’adam domina sul cosmo: relazione col cosmo; - ’ d m è distinto in maschio e femmina: relazione interpersonale; - maschio e femmina sono benedetti: relazione con la storia e con la cultura”» (M. Cimosa, Genesi 1-11. Alle origini dell’uomo, Queriniana, Brescia 1984, pp. 31-32).

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significativamente parla di ’ish e ’ishshah 43. Ciò vale a dire che Dio creò l’uomo, cioè la creatura umana a sua immagine e, all’interno di questa creazione, creò gli esseri differenziati sessualmente, ma nelle due versioni sempre icone somigliantissime di Dio, che è relazione d’amore perfetto. Da qui sgorga la dignità uguale degli esseri, che sono sessuati diversamente. Essi sono metafisicamente persone, ma non lo sono che specularmente differenziate. Non si può dicotomizzare la loro dimensione spirituale da quella corporea e dal loro riferirsi costantemente all’unico progetto di Dio. La corporeità, in questo contesto, si esprime come estrinsecazione dell’interiorità 44 e insieme costituiscono l’unicum della personalità. Ché anzi, la sessualità voluta da Dio non è scomponibile, ma è dimensione che attraversa i tre livelli della costituzione antropologica, che sono appunto l’essere corporeo, l’esserre affettivo, l’essere spirituale: un unico essere in tre modalità diversificate dell’unico indissaldabile essere. 2. Unità nella diversità In questo senso, la corporeità non viene dissolta. Tutt’altro. Resta valorizzata sia come espressione dell’interiorità, sia come relazione all’iconicità. Infatti anche l’atto sessuale supremo, in quanto dice estrinsecazione dell’atto di comunione nel suo strato più profondo – senza del quale sarebbe un atto-impulso e non un atto-gesto (gerens sensum) –, è impregnato di dimensione iconico-relazionale d’amore. La bi-sessualità, voluta dal Creatore, è collocata nel quadro della personalità dell’uomo e della donna. Nella sezione testuale denominata jahvista (Gn 2, 4b - 3, 24), la descrizione si fa più analitica e si muove nella forma immaginifica. Vi si legge: «E il Signore Dio disse: “Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile”» (Gn 2, 18). E qui la descrizione icastica nei suoi particolari: il sonno indotto in Adamo, il prelievo della costola, la plasmazione della donna. Tutti questi elementi contribuiscono a indicare l’uguaglianza dell’origine. I due soggetti sono entrambi ’ d m, cioè ognuno di essi è essere umano 43 «Sarebbe come dire – afferma Mario Cimosa – “uoma” perché proviene dall’“uomo”. Uguale natura anche se diverso ruolo» (ibid., p. 74). 44 Cf. S. Palumbieri, L’uomo, questo paradosso. Antropologia filosofica II. Trattato sulla condizione e con-centrazione antropologica, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2000, pp. 82-86.

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fatto di terra, ma nella versione complementare: il primo in quella maschile (in ebraico ’ish) e la seconda in quella femminile (’ishshah). Al di là delle immagini tanto pittoresche, si colgono precisi messaggi che vanno contro la corrente delle culture limitrofe. Anzitutto, il lavoro creativo è tanto dell’uomo, non è il tutto dell’uomo. Il “dare il nome” agli esseri infraumani non riempie il profondo di Adamo. Egli anela alla comunione. Questo è il secondo versante della somiglianza con Dio, che è amore, al di là del lavoro creativo che non può riempire gli abissi dell’anelito. La costola, come parte più vicina al cuore, sede del sentimento fondamentale, secondo l’archetipo analogico universale, indica che la donna è da considerare il cuore del cuore dell’uomo e non invece, come abitualmente nelle culture limitrofe, come strumento biologico (procreazione), strumento edonistico (fonte del piacere sessuale) e organizzativo (cura dei figli e della casa). L’immagine della costola contiene, tra le sue pieghe, il manifesto radicalmente più rivoluzionario della centralità della donna nella storia dell’uomo. In questo brano, l’uomo al maschile scoppia nel suo primo epitalamio: «Questa è davvero carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa» (Gn 2, 23). L’uomo al maschile canta la sua gioia, perché ha trovato la comunione a livello delle tre dimensioni di cui si sente costituito, quella del corpo, quella del cuore e quella dello spirito. La complementarità non significa subalternità o mero prolungamento. Invece, è partecipazione di mutua appartenenza a livello di comunione. Nel capitolo 3° della Genesi, poi, si registra il passaggio dal progetto del Creatore alla frantumazione dell’uomo creato. L’iconicità resta offuscata e la globalità del senso della sessualità viene spezzata. Si impone la concupiscenza, intesa come brama di dominio dell’uno sull’altro e perciò i protagonisti si vergognano di essere nudi (cf. Gn 3, 10). 3. Nudità: ambivalenza e distanza È interessante notare che il tema della nudità nei primi capitoli della Genesi viene trattato due volte. Alla conclusione del capitolo 2º – che, mette conto ricordare, registra con il capitolo 1° il progetto divino circa la sessualità – si dice che «Tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna» (Gn 2, 25). Nel capitolo 3°, invece, che tratta della caduta a picco del progetto

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a causa dell’uso distorto della libertà donata, si registra appunto che essi «si nascosero dal Signore» (Gn 3, 8). E l’uomo risponde a JHWH, che lo chiama e gli chiede: «Dove sei?» (Gn 3, 9), confessando: «Ho avuto paura perché sono nudo, e perciò mi sono nascosto» (Gn 23, 10). C’è, dunque, nudità e nudità. Nel primo caso, essa è il simbolo dell’immediatezza della comunicazione dall’uno all’altro. Allorché le anime e i cuori, con tutti i loro sentimenti, si confrontano, si mettono a nudo reciprocamente attraverso l’estrinsecazione dell’interiorità. Questa traduzione ad extra nell’area del sensibile e tangibile è operata dalla mediazione ontofenomenologica che è la corporeità. È sempre l’interiorità a dare significato alla gestualità. Il gesto corporeo, invece, che non proviene dal profondo, segna la frattura del rapporto tra significante e significato. È un fiore senza radici. Una scatola senza contenuto. Un segno, appunto, senza significato. Questa è la base dell’alienazione come frantumazione violenta del proprio sé, che è indissaldabile. Ora, la vergogna, espressa nel libro genesiaco, è l’aspetto reattivo dell’alienazione avvenuta. Essa denota il dolore di una perdita di configurazione secondo il piano originario. La vergogna di trovarsi nudi esprime il sentimento della scissione della corporeità dalla significatività spirituale, che è l’indicazione verso l’interiorità. La consapevolezza della dissociazione si esprime nella vergogna. La vera struttura dell’éros qui resta squilibrata, perché viene violentata nella sua teleologia costitutiva, che è quella del godimento profondo e integrale della persona tridimensionata, e quindi comprendente anche la sfera dello spirito nella zona del sacro, come tensione verso l’oltre-ogni-altro-oltre. Solo l’esperienza di comunione dà la percezione della pienezza dell’essere. Il contrario relega l’éros nell’area del thánatos. In realtà, éros e thánatos si pongono in termini di alternatività. Quando l’éros è costretto a varcare le soglie del thánatos è condannato a non godere più del suo frutto naturale. 4. L’Éros, tensione e partecipazione all’agápe Orbene, la religiosità è la dimensione che dà senso – in quanto espressione dello spirito – a tutto quanto si compie nel corporeo. Corpo e religione qui si evidenziano fenomenologicamente congiun-

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ti. L’uso del corpo chiede di essere finalizzato secondo la sua natura – è come know how del congegno, e l’uomo non è un congegno meccanico ma un pluridimensionale complesso – e la natura delle dinamiche corporee, ivi compreso l’aspetto edonico, tende di per sé alla comunione profonda, che segna la direzione dell’oltre-ogni-altro-oltre. Se, proprio da tale comunione, le dinamiche corporee prendono significato, allora appare evidente che la religiosità potenziata nella ispirazione biblica conferisce una grande valenza a tutto ciò che è gestualità sessuale. Tutt’altro che in contrasto, corpo e religione biblicamente si congiungono come desiderante e significante. Nel Nuovo Testamento, quando la pienezza dei tempi giunge (il kairós), questa visione viene potenziata e addirittura sublimata come riflesso partecipativo dell’amore con cui Cristo ama la Chiesa. Nella Lettera agli Efesini si annuncia: «Mariti amate le vostre mogli come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei […]. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, poiché chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno ha mai, infatti, preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura come fa Cristo con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola. Questo mistero è grande. Lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa» (Ef 25-32). L’esercizio della sessualità, qui, è elevato alla dignità di segno divino, pur restando realtà umana in tutta la sua interezza. L’éros non soltanto tende per natura alla felicità dell’agápe divina, ma in certo modo viene a esserne partecipazione. Va pertanto esercitato secondo la struttura agapica: «Amatevi come io ho amato voi» (Gv 13, 34). Ogni gesto coniugale si fa quasi gesto sacramentale, come segno visibile e tangibile dell’amore che lega Cristo alla Chiesa sua sposa. L’esercizio della dimensione sessuale nel suo triplice livello psichico, affettivo e spirituale è materia di sacramento, segno partecipativo della corrente di vita che unisce Dio agli uomini in una interazione di partner uguali nella dignità, complementari nella sessualità. Essa si presenta nel suo esercitarsi e dispiegarsi come realtà appellante all’oltre. Già nel libro genesiaco è oggetto della compiacenza divina, che constata che «ciò era molto buono» (Gn 1, 31). Qui si evidenzia immediatamente la polarizzazione rispetto a certe visioni del pensiero spiritualista ellenico, condensato, ma non esclusivamente, nel platonismo, che tendeva a disprezzare la materia

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in tutte le sue espressioni. Si pensi alla dichiarazione del Cratilo summenzionato, del corpo come carcere dell’anima. Nel platonismo, si consuma il processo di svalutazione del corpo, accentuando il lento spegnimento del calore dell’essere, fino ad arrivare al grado del non-essere, come si evidenzia nella posizione di Plotino. La realtà sessuale è un grande valore, dunque, in quanto oggetto di bene-dizione. Bene-dire è, da parte di Dio, presso cui il dire è il costituire, il bene-far-essere. Dunque, Dio considera buona quella realtà non perché la etichetta come tale, ma nella realtà ontologica la costituisce buona. E perciò se ne compiace. Ecco la seconda accezione del bene-dire divino. Dio è felice di questo modo di essere umano. Ben lungi dall’essere oggetto di tolleranza da parte della Divinità, l’essere sessuato dell’uomo e della donna è motivo di beatitudine da parte del Creatore. 5. L’ascesa verso la bellezza Ciò detto, va sottolineato che la Bibbia valorizza, sì, ma non divinizza la sessualità, ché anzi la celebra nella sua secolarità e la esalta nella sua densità di dinamismo umano. Benedetto XVI nel merito sottolinea che «due cose emergono chiaramente dalla […] concezione dell’éros. Innanzitutto che tra l’amore e il Divino esiste una qualche relazione: l’amore promette infinità, eternità – una realtà più grande e totalmente altra rispetto alla quotidianità del nostro esistere. Ma al contempo è apparso che la vita per tale traguardo non sta semplicemente nel lasciarsi sopraffare dall’istinto. Sono necessarie purificazioni e maturazioni, che passano anche attraverso la strada della rinuncia. Questo non è rifiuto dell’éros, non è il suo “avvelenamento”, ma la sua guarigione in vista della sua vera grandezza» 45. In questa chiave mette conto leggere l’elogio dell’amore umano, fatto inno divino nel Cantico dei cantici. È la celebrazione dell’éros, della ricerca della bellezza muliebre, del fulgore dei corpi attraverso cui traluce lo spirito al sommo delle sue vibrazioni, che si manifesta nel gaudio dell’unione tra l’amato e l’amata in tutto il suo spessore fisio-psico-affettivo. 45

Benedetto XVI, Deus caritas est, cit., n. 5

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Questo è un dato del dono ricevuto dall’Alto. Come ogni dono, fa appello al compito della sinergia che si specifica nell’esercizio della sessualità come impegno di purificazione, di ascesi, di affrontamento della sofferenza, di superamento delle tendenze autocentrate, che diventano tentazioni di bloccaggio al dialogo e alla costruzione del noi. Inoltre, come si è accennato, alla compiacenza, nel momento del kairós neotestamentario, si aggiunge l’elevazione dell’esercizio complesso della sessualità, a simbolo privilegiato dell’alleanza d’amore tra Dio e l’umanità, tra Cristo e la Chiesa. Restando pienamente umana, la sessualità è chiamata alla partecipazione della ricchezza infinita di Dio. Vale a dire che l’éros umano, conservando i suoi ritmi, i suoi gesti, la sua stoffa, viene immerso nell’oceano dell’agápe divina. Ed è qui che, come una sbarra di ferro immersa nell’altoforno, si fa gradualmente purificare e innalzare, senza perdere nulla di umano. E tutta questa ricchezza umana purificata è messa in grado di far maturare i germi della potenzialità indefinita, segnati dal limite umano e inquinati dalla condizione di ambiguità che intride ogni forma della condizione esistenziale. L’indefinito dell’éros punta all’infinito dell’agápe. L’éros fragile cerca l’amore eterno come suo modello da riprodurre, come suo energetico da invocare, come sua garanzia da aspettare, nella sua tensione costitutiva verso l’oltre. L’uomo è un essere finito, impregnato di aneliti di infinito. E così si rivela in tutte le sue dimensioni, espressioni e operazioni. Insomma, la sessualità integrale esige religiosità autentica. L’éros è un cammino incessante verso la kalokagathía, la bellezza intesa come bontà allo stato incandescente. Questa tensione si distende lungo il cammino senza limiti, che coincide con l’autotrascendimento costitutivo verso la Trascendenza 46. Il rischio è quello di scambiare un solo tratto di itinerario come meta, una stazione intermedia come traguardo. Dove c’è amore, c’è ardente tensione verso la Bellezza, presentita più che avvertita, pregustata più che goduta. È questa la via pulchritudinis del nuovo Umanesimo storico-esistenziale. E questa visione può essere la base di una interrelazione diversa tra i due partner, ove si apre un futuro per il mondo perché c’è uno spazio ulteriore verso la Bellezza nel mondo.

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Cf. S. Palumbieri, L’uomo, questo paradosso…, cit., pp. 47-49; 65-68.

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In una cultura di sessismo e unidimensionalismo della corporeità, possiamo recepire come segno di speranza il confermato e riletto rapporto tra corpo e religiosità, intesa quest’ultima come esercizio del livello del sacro puntato verso la Bellezza trascendente. Ed è qui che, ancora una volta, l’assioma di Dostoevskij è carico di speranza: «Sarà la bellezza che salverà il mondo» 47.

47 L. Del Santo, Dostoevskij inedito. Quaderni e taccuini 1860-1881, I, Vallecchi, Firenze 1980, p. 580; ibid., IX, nn. 332 e 379; ibid., XI, n. 30.

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Donne, femminismo e religione

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Corpo, Corpo,donne, donne,religione: religione:un unterreno terrenodadaesplorare, esplorare,una unamatassa matassadadadipanare dipanare

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Corpo, donne, religione: un terreno da esplorare, una matassa da dipanare *

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di

Francesca Brezzi

Corpo e religione: il titolo stesso di questo studio indica un rapporto complesso, una relazionalità difficile, ma i due termini schiudono altresì un’area aperta per un dibattito a più voci, sia da un punto di vista disciplinare che ideologico e politico; più voci, ma sarebbe forse giusto dire molti interrogativi, inedite domande, e affermo questo con la consapevolezza che non ci sono soluzioni univoche, né, come è stato sottolineato, scorciatoie semplificatrici, dal momento che l’estensione del campo delle decisioni possibili costringe gli esseri umani a confrontarsi con problematiche tali da rimettere in discussione il rapporto con la propria natura biologica, con la percezione di sé, con il proprio ambiente, ecc. 1. D’altra parte, una riflessione sulla corporeità è ineludibile, dal momento che la comunicazione fra le persone umane è sempre mediata dal corpo, senza il quale non si dà comunicazione. La conseguenza immediata è che una coscienza inadeguata o falsa della propria corporeità rende inadeguata o falsifica la comunicazione interpersonale. La riflessione sul corpo inteso come psiche e soma, sul pensiero e sui sentimenti vuole sfuggire alle strettoie del riduzionismo sperimentale per aprirsi a un chiarimento della connessione psicofisica, che costituisce quello che Husserl chiamava il Leib (corpo proprio o vivente). E anche la sua più geniale allieva, Edith Stein, coglie nel dinamico sviluppo di quel tutto il percorso della vita degli esseri viventi: dalle piante agli animali, sottolineandone proprio l’affettività, ai viventi umani – corpo, psiche e spirito – di cui ricerca l’equilibrio. Muovendo dal basso, cioè dai vissuti, si può procedere alla comprensione della complessità dell’essere umano, che consenta poi di inoltrarci nei sentieri dell’etica e forse dell’esperienza religiosa. * Dedico questo saggio alla memoria di mia madre, che è mancata proprio il giorno e nelle ore in cui esponevo questo intervento, il 7 ottobre 2006. 1 Cf. M. Toraldo di Francia, La sfida delle biotecnologie: ricerca scientifica, mutamenti culturali, nuovi scenari per l’etica, in «Parolechiave» 17 (1998), pp. 47-70.

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Francesca Brezzi

In via pregiudiziale si deve ricordare come il femminismo sia stato il primo movimento teorico che ha messo sul tappeto le grandi questioni implicite nell’ambiguità del corpo, ambiguità dovuta al fatto di essere da un lato legato ai processi materiali della biologia, dall’altro di essere iscritto negli sviluppi della cultura; ed è significativo che il femminismo abbia caratterizzato tale enigmaticità privilegiando la densità simbolico-linguistica, di cui oggi vediamo gli esiti più radicali nelle teorie della donna “cyborg” di Donna Haraway, nel gioco teatrale di Teresa de Lauretis, e infine nell’io nomade di Rosi Braidotti. All’interno di questa tematica generale il mio intento – più limitato e vicino a miei interessi, la filosofia della religione – vuole cogliere alcuni nodi comuni e paralleli del percorso filosofico e teologico femminista nell’epoca della crisi, del decostruzionismo, ma anche della globalizzazione, cioè dell’ascolto e del dialogo con le religioni altre. La domanda che nasce immediatamente è provocatoria: possiamo considerare il cristianesimo (e le religioni in genere) causa dell’oppressione della donna? A questo interrogativo si può rispondere in vari modi, ma è una questione che per il momento lascio in sospeso, così come non mi avventurerò in un’analisi filologica di quei testi in cui si parla bene o male della donna; tralascerò pertanto tutte le dispute antifemministe, rinvenibili nella religione – argomento questo molto superato. Più fecondo è lo sguardo positivo e propositivo che mostra come l’impegno filosofico e teologico femminista abbia espresso non solo un elemento di novità, ma anche di grande travaglio: le tante donne che hanno scritto e pensato su questi temi hanno dimostrato una notevole preparazione teologica e culturale, e quindi la loro presenza e le loro battaglie hanno rappresentato un segno di liberazione da sovrastrutture culturali in un percorso dove la donna era assente. Mi piace ricordare, a tale proposito, come papa Giovanni Paolo II, nei suoi tanti interventi su questo tema, abbia affermato proprio la necessità di superare “sedimentazioni” culturali e storiche, condizionamenti ambientali, pregiudizi; nella Lettera alle donne riconosce con sincerità questa grande dimenticanza, il soggetto donna o la donna come soggetto: «Sì, è l’ora di guardare con il coraggio della memoria e il franco riconoscimento delle responsabilità nella lunga storia dell’umanità; […] se in questa non sono mancate, specie in determinati contesti storici, responsabilità oggettive anche in non pochi figli della Chiesa, me ne dispiaccio sinceramente». È necessario pertanto un «mutamento del cuore», ripete il papa agli uomini di Chiesa, mutamento che è invito a un profondo «rinnova-

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Corpo, donne, religione: un terreno da esplorare, una matassa da dipanare

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mento» 2. Si può in tal modo restituire alla storia, alla cultura, alla tradizione religiosa il volto femminile, interrogandosi anche sul non detto delle donne, come sostiene Giovanni Paolo II, superando le tracce documentarie, riconoscendo l’espropriazione dell’apporto intellettuale delle donne. Si può finalmente interrompere un silenzio, eliminare alcuni ostacoli non di poco conto (come la costruzione teorica maschile), per riportare alla luce il ricco patrimonio rimosso e misconosciuto. Da parte sua il pensiero femminista all’inizio del terzo millennio, oltre ad offrire una ricca produzione bibliografica, manifesta un arcipelago di posizioni, un prisma, di grande originalità e forza, una pluralità di voci – come vedremo – che può confrontarsi paritariamente con la tradizione filosofica (e si può dichiarare, non potendo in questo contesto approfondire, come forse questa si mostri impreparata) 3. Se la produzione contemporanea, dunque, è ricca, importante e di grande spessore (si pensi solo ai nomi di Schüssler Fiorenza, Reuther, le teologhe latinoamericane), l’ambito non è tranquillo e pacifico, né al suo interno, né nella ricezione esterna: già altrove ho posto tali questioni sotto il segno di sfida e inquietudine – due catego2 Lettera alle donne, n. 3. 3 Giustamente Gerstenberger

afferma: «I dibattiti dei teologi maschi contemporanei sembrano non prendere molto sul serio la critica femminista di Dio […] un contributo maschile, critico e aperto, all’attuale dibattito teologico sulle sfide femministe al nostro modo di immaginare Dio è pericolosamente sottorappresentato» (Erhard S. Gerstenberger, Yahweh the Patriarch. Ancient Images of God and feminist theology, Fortress, Minneapolis 1996, p. XI). Anche Franco Restaino, filosofo attento e sicuro conoscitore delle filosofie femministe, sostiene: «Il confronto non è possibile o praticabile, perché gli eredi – e le eredi – della filosofia tradizionale nei suoi due versanti (analitica e continentale) non sono pronti/e – né disposti/e – a quel confronto; non hanno studiato le posizioni del pensiero femminista con l’impegno e l’interesse con i quali le filosofe femministe hanno studiato le posizioni della filosofia tradizionale […] rischiano pertanto di trovarsi in una posizione di spiazzamento rispetto al “punto di vista femminista” che finora può essere comodamente ignorato (un’altra cosa, un altro mondo rispetto alla filosofia) e che invece non potrà più essere ignorato se, come punto di vista dell’altra metà del mondo irrompe scomodamente nella filosofia mettendo in discussione, e augurabilmente svelandone la obsolescenza, antiche o nuove nicchie o scuole o pratiche di pensiero e di ricerca» (F. Restaino, Femminismo e filosofia: contro, fuori o dentro, in A. Cavarero - F. Restaino, Le filosofie femministe, Bruno Mondadori, Milano 2002, p. 223, testo introduttivo fondamentale e ricco di una bibliografia di ampia portata sul tema). Altri testi di riferimento sono i quattro volumi della History of Women Philosophers (Kluwer, Dordrecht 1989-1995), che ripercorrono fedelmente le tappe della filosofia occidentale, mettendo in evidenza il contributo delle donne. In italiano, indispensabili tutti i volumi della Comunità di Diotima; inoltre AA.VV., Il filo (sofare) di Arianna, A. Ales Bello - F. Brezzi (edd.), Mimesis, Milano 2001.

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Francesca Brezzi

rie che non posso ora analizzare – 4, ma solo richiamare collegandole alla riflessione femminista tout court. Sfida, perché l’elaborazione femminile relativa al religioso nei confronti dei testi sacri ha rappresentato innanzi tutto una sorta di rottura, di irruzione, ma insieme l’espressione dell’esigenza di pluralità del nostro tempo. Direi di più. Solo un pensiero “adulto” della donna, e quindi la sua promozione e difesa, esprimono la maturità di una società. L’inquietudine, a sua volta, nasce dalla irruzione stessa, che interrompe l’assenza della donna nel percorso della riflessione religiosa e della teologia del passato 5, e genera tante domande alle quali non è possibile dare una risposta univoca; ma anzi, secondo il tipo di relazione che si pone tra i termini si scompagina un significato e se ne aprono altri 6, sì che anche le definizioni offerte: teologia della donna, teologia femminista, teologia al femminile, ecc., ricoprono disparati livelli di contenuto, che tuttavia rappresentano una presenza critica e quindi una ri-creazione. Considerando il cammino del pensiero femminista come un viaggio, valutando il suo carattere prismatico, tralascio il percorso 4 Per un maggiore approfondimento di questi concetti mi permetto di rinviare ai miei articoli: Donne e religione: sfida e inquietudine. Nel potere della sapienza: spiritualità femministe in lotta, in Spostando mattoni a mani nude, F. Brezzi - G. Providenti (edd.), Franco Angeli, Roma 2003, pp. 63-79; Il Dio Padre delle donne, in Il fenomeno religioso, R. Cipriani - G. Mura (edd.), Urbaniana University Press, Roma 2002, pp. 385-399. Sul rapporto donne-religione si vedano altresì: Essere al femminile nella complessità, in Filosofia, Donne, Filosofie, Milella, Lecce 1994, e il volume La passione di pensare. Angela da Foligno, Maddalena de’ Pazzi, Jeanne Guyon, Carocci, Roma 1998. 5 Le prime studiose di questa tematica, infatti, hanno dovuto constatare una mancanza: la teologia concepita come intellectus fidei, cioè indagine razionale sulla fede, in cui la ragione presenta caratteristiche logico-formali, ha quasi sempre escluso la donna dal proprio ambito, lasciandole tuttavia possibilità di manifestazione nell’universo sommerso delle esperienze religiose, in quel “sapere” su Dio che comprende il linguaggio e il sapere simbolico, poetico, il sapere-sentire, cioè la valorizzazione delle intuizioni e delle concrete-corporali esistenze religiose; e qui ritroviamo la presenza delle mistiche, o le madri spirituali nel Rinascimento, molto spesso le eretiche. Oggi tuttavia ci si dovrebbe interrogare su quel tipo di presenza, per approfondire, oltre al dato innegabile che l’ambito mistico costituì per lungo tempo l’unico accesso delle donne a una “parola ascoltata”, i veri caratteri di essa, non solo passionalità, emotività, corporeità, ma anche altezza speculativa, astrazione mentale, insomma razionalità, come alcune recenti pubblicazioni stanno a dimostrare. Ci permettiamo di rinviare al nostro testo: La passione di pensare. Angela da Foligno, Maddalena de’ Pazzi, Jeanne Guyon, cit., in cui ho trattato in maniera più esauriente tale problematica. 6 Per una panoramica storica sul femminismo cristiano si può consultare R. Gibellini, L’altra voce della teologia: lineamenti e prospettive di teologia femminista, in Donne e teologia, Queriniana, Brescia 1988, pp. 101-179, con nutrita informazione bibliografica.

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diacronico, ovvero il viaggio storico segnato da tappe significative 7, e affronto in maniera sincronica, teoreticamente, un nodo significativo, legato al nostro tema: il corpo come mutato modo di comunicazione con Dio, ovvero l’immaginario femminile che disegna un Dio relazionale, dopo essermi tuttavia brevemente soffermata sul piano metodologico di questa riflessione. Un’ultima precisazione, che avvia ai contenuti: se si è detto delle categorie comuni nel proficuo legame tra filosofia e teologia, un concetto è centrale, il partire da sé, in quanto il confronto con tali tematiche non avviene da nessun luogo: portiamo il peso del nostro corpo, per l’appunto, e della nostra cultura, delle nostre esperienze situate in un tempo e in uno spazio; ma ciò costituisce insieme un limite e una risorsa, e nel mio caso si tratta dell’attenzione di uno sguardo di donna che va oltre i confini del razionalismo, non potendosi ignorare, o rimuovere, non solo le dimensioni non razionali, ma soprattutto il livello simbolico degli immaginari individuali e collettivi, e il valore della vita psicologica profonda, come vedremo.

L’ermeneutica femminista del sospetto A livello metodologico il percorso filosofico e quello teologico mostrano un significativo intreccio nell’intento – appunto unitario – 7 Accettiamo la periodizzazione fornita da Rosemary Radford Ruether, che vede tre fasi del femminismo religioso, o “femminismo teologico”. Una prima fase (fine dell’Ottocento e primi del Novecento) rappresentata dalla redazione della Bibbia della donna (Woman’s Bible), opera di una grande donna cristiana nord-americana, Elizabeth Candy Stanton, che dalle affermazioni patriarcali, in cui la donna veniva considerata un essere inferiore, proseguiva con un lavoro di vero e proprio collage, insieme avviando un progetto di revisione e re-interpretazione, alla luce della nuova coscienza che andava in quegli anni appena sbocciando. Il secondo periodo risale agli anni Cinquanta e prende il nome di “teologia della donna”, diversa da “teologia femminista”, perché è la riflessione che si volge alla donna come oggetto, ed è compiuta soprattutto da teologi; se è segno di apertura, perché pone a tema il femminile come obiettivo dello studio, essa offre ancora una prospettiva limitata, in cui la donna viene vista solo come oggetto di riflessione. Una terza fase vede nascere la “teologia femminista”, che si manifesta negli anni Settanta-Ottanta ed è concepita in contrapposizione a quella precedente: “teologia femminista”, innanzitutto, perché è opera di autrici e intende la donna quale oggetto e soggetto della riflessione stessa; come tale è espressione del parlare in prima persona, quale si ritrova in quegli stessi anni nel movimento femminista, e collega strettamente questa riflessione alla militanza politica. Nasce inizialmente in ambiente protestante, ma successivamente si sviluppa altresì nel contesto cattolico. Può essere definita anche “teologia al femminile”, ma ciò che la distingue dalla “teologia delle donne” è tale carattere forte di impegno e di intreccio con il “cammino” di liberazione della donna.

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di decostruzione e ricostruzione, ed è questo un compito profetico, come sottolinea Walter Brueggemann 8, cui giustamente risponde Elisabeth Schüssler Fiorenza quando caratterizza la propria impresa ermeneutica femminista come un movimento interattivo tra sospetto e critica, memoria e ricostruzione, proclamazione e attualizzazione creativa 9. In altre parole, come sostenuto sia da filosofe che da teologhe, occorre mettere in atto una pratica di ermeneutica femminista del sospetto, che smascheri una riflessione teologica colonizzata, smemorata, analfabeta 10, e si apra a una spiritualità femminista rinnovata e originaria; la riflessione delle donne è stata colonizzata dal potere maschile perché sottomessa a direttive estranee, espressa con una lingua non propria, il verbo degli uomini; colonizzata anche per le figure di riferimento proposte, sempre maschili, dimenticando le significative presenze femminili. E da qui la seconda caratteristica, la mancanza di memoria, l’amnesia di una fede dimentica del vissuto femminile. Infine l’elaborazione e la spiritualità delle donne sono analfabete, perché private del linguaggio per dire un’esperienza altra, non considerata autorevole dalla parola ufficiale, sia perché si tratta di esperienze particolarissime, anche povere e concrete, legate al vissuto quotidiano, sia perché, come è noto, le donne erano (e talvolta sono) escluse dal sapere alto, dalla cultura ufficiale, dai momenti liturgici. Vogliamo sottolineare come questa medesima istanza, tale difficile opera di decostruire e costruire, sia presente nella speculazione contemporanea in molte filosofe, in specie femministe: concordando con l’interpretazione heideggeriana della tradizione metafisica dell’Occidente e del suo destino nichilista, Irigaray cerca di scavare più a fondo e di dare un nome a tale destino, cioè smascherare il carattere sessuato che si nasconde sotto la pretesa neutralità, sconfiggere la metafisica e rispondere agli interrogativi forti della filosofia, quali: da dove veniamo? a chi parliamo? chi sono io? chi sei tu? e infine come il soggetto può ritrovare se stesso quando è espatriato nel di8 Cf. W. Brueggemann, The Prophetic Imagination, Fortress, Philadelphia 1978, pp. 44-79. 9 Cf. E. Schüssler Fiorenza, Bread not Stone. The Challenge of Feminist Biblical interpretation, Beacon, Boston 1995, pp. 1-22. 10 Così suggestivamente la definisce Marie Andrée Roy, fondatrice con altre donne cristiane femministe del Quebec della comunità «L’altra Parola», attiva dal 1976, di cui dà notizia in Il respiro delle donne, Il Saggiatore, Milano 1997, pp. 105-114.

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scorso? 11. Irigaray smantella con coraggio quell’equilibrio fittizio e precario – riassunto nel soggetto neutro –, innalzato artificiosamente, per procedere alla ri-affermazione dell’incarnazione o naturalità di esso focalizzando la diversità del soggetto femminile. Il soggetto dimenticato, o espropriato, deve permettere l’apertura a una dimensione diversa, finora scarsamente considerata, quella che Irigaray chiama della “differenza sessuale”: questo è il problema della nostra epoca, per dirla con Heidegger, ciò che è rimasto di non pensato nella metafisica occidentale, impensato da cui forse può venire la salvezza. Se la differenza sessuale è il problema occultato, occorrerà una rivoluzione di pensiero, quella che insistentemente Irigaray caratterizza quale “opera dell’edificare”, necessaria dopo la distruzione, che insieme è radicamento e innalzamento 12: un dire altro, una creatività nuova e una nuova poetica definita etica contro l’ontologia, etica che determinerà rapporti diversi tra i soggetti e tra il soggetto e il mondo. Suggestivo questo passo, in cui il demolire e il costruire consentono una connessione tutta particolare: «Un connettivo non basta. Ci vuole spazio, un distanziamento. Non si addicono né il vuoto che, in un certo modo, è invalicabile, né la connessione senza distanza. La rappresentazione dell’intervallo accessibile a tutte e a tutti non è forse l’aria?» 13. Ma questo è anche un viaggio esperienziale delle donne, sia filosofe che teologhe, che in questi nostri tempi non si limitano a “ripensare semplicemente” la filosofia e la teologia, ma vogliono partecipare a una nuova creazione per esprimere «a different heaven and earth», come suggestivamente suggerisce Sheila Collins 14. In altri termini, la significatività di tale percorso emerge non solo per l’aspetto teorico di riscoperta della presenza femminile nelle espressioni del religioso, ma anche per la ricaduta pratica che comporta, per la prassi di emancipazione femminile che vi è sottesa. L’impresa comune di filosofe e teologhe mostra come il dire Dio delle donne possa consentire di procedere oltre l’impasse delle inaridite concettualizzazioni di Dio, formulazioni comunque sempre oppressive – Dio quale Re degli eserciti, Potere Assoluto –, come è 11 Cf. L. Irigaray, Parler n’est jamais neutre, Ed. de Minuit, Paris 1984, p. 11 (tr. it., Etica della differenza sessuale, Feltrinelli, Milano 1985, p. 62). 12 Cf. M. Andrée Roy, Il respiro delle donne, cit., p. 162. 13 Ibid., p. 169. 14 S. Collins, A different heaven and earth, The Judson Press, Valley Forge 1974.

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riconosciuto anche da un filosofo come Jean Luc Marion e da un teologo come Joseph Moingt 15, per avanzare oltre l’idolatria verso la ricchezza dell’immagine. Lo scopo di questo nuovo linguaggio è rinvenibile nella depatriarcalizzazione del divino, ovvero nel rifiuto di una certa nozione di Dio Padre, che ha consentito il consolidarsi di un’idea e una prassi secondo cui la maschilità è normativa per l’umanità, come sottolineato anche dalle filosofe, per esempio Irigaray, già ricordata, e Simone de Beauvoir che dichiara: «Egli è il soggetto, lei è l’altro» 16. Se è derivata l’esclusione dell’immaginario femminile dal simbolismo del divino, con conseguenze disperanti non solo per la teoresi, ma anche per la concreta esistenza, politica e sociale delle donne – si pensi solo alla violenza presente nelle dittature maciste –, è giunto il momento, “aperta la diga”, di accettare e creare nuovi simboli, sottolineando con queste autrici che le «immagini parlano all’intelletto, alla volontà e al sentimento», cioè a tutto l’essere umano, partendo dall’esperienza stessa che ogni creatura (donna o uomo) può compiere di nominare Dio, laddove le categorizzazioni patriarcali non rappresentano più un nutrimento, non offrono la linfa vitale. Come non accostare alle riflessioni delle teologhe le trafelate domande di Luce Irigaray, che ha trattato in vari suoi scritti questo tema del linguaggio: dopo aver richiamato l’esigenza di «scoprire la parola della donna», la filosofa caratterizza tale parola come intessuta con il corpo, che diventa in tal modo carne viva e spirituale e «questa tappa è necessaria per il divenire divino» di donne e uomini: «solamente in due, nel rispetto della(e) differenza(e) tra loro essi sono co-redentori del mondo: dei loro corpi, dell’universo cosmico, della società e della Storia» 17. Il nuovo linguaggio, né unico, né singolo, sarà plurale, «processo creativo a molte voci, sia passate che presenti, che dialogano con varie fonti, per dire Dio di nuovo in una 15 Cf. J. Moingt, Immagini, icone e idoli di Dio, in «Concilium» 1 (2001), pp. 172184; J.L. Marion, Dieu sans l’être, Fayard, Paris 1982 (tr. it., Dio senza l’essere, Jaca Book, Milano 1987). 16 S. de Beavoir, Il Secondo sesso, il Saggiatore, Milano 2002, p. 16. Di L. Irigaray si veda Donne divine, in Sessi e genealogie, La Tartaruga, Milano 1985, oltre ai più noti Etica della differenza sessuale, cit., e L’oblio dell’aria, Bollati Boringhieri, Torino 1996. Interessante altresì il volume curato da Irigaray, Il respiro delle donne, cit., con interventi di varie autrici. Sul tema della paternità di Dio ho parlato più estesamente in Il Dio Padre delle donne, in Il fenomeno religioso, cit. 17 L. Irigaray, La redenzione delle donne, in Il respiro delle donne, cit., p. 130.

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miriade di modi nella vita di un cristianesimo dai molti volti che si affaccia ad un nuovo millennio» 18.

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La danza di interrelazione ovvero il Dio relazionale Riteniamo che uno degli itinerari essenziali della riflessione filosofica e teologica femminista sia rappresentato dal ri-nominare Dio, percorso ricchissimo di sentieri e di varie traiettorie: il recupero dei caratteri femminili o materni della Divinità, la rivalutazione della Sofia (hokmah), di cui ho parlato in altra occasione 19, così come la riscoperta del misticismo femminile, esempio quest’ultimo paradigmatico di un pensare Dio altrimenti: il misticismo femminile infatti «ignorando il peccato della carne, anzi liberando la carne di Dio» 20 non rappresenta l’espressione di una passionalità smisurata, ma raggiunge notevoli altezze speculative. In questa sede vorrei soffermarmi sul disegno, che si va delineando progressivamente più nitido, intorno alla relazionalità di Dio quale categoria essenziale e feconda di sviluppi; disegno in cui il pensiero femminile si manifesta con autorevolezza e particolarità, proprio partendo dall’attenzione alla corporeità. Anche in questo ambito non si tratta di novità assolute, ma di un’opera di restauro di significati originari, persi o nascosti da sedimentazioni storiche. Osserva giustamente il teologo Christoph Theobald: «il tentativo di pensare Dio in termini di relazione, tradizionale nella teologia cristiana, sembra ricevere in tempo di postmodernità, una nuova attualità» 21. Sullo sfondo ancora il comune terreno teorico di filosofia e teologia e l’inquietante domanda di Adorno al termine della Dialettica 18 E. Wainwright, Osare il nuovo nell’immaginazione religiosa. Dio nella teologia femminista, in «Concilium» 1 (2001), pp. 127-139: p. 129. 19 Cf. Il Dio Padre delle donne, in Il fenomeno religioso, cit., in cui analizzo la teologia della Divina Sapienza seguendo il testo di E. Schüssler Fiorenza, Gesù figlio di Miriam, profeta della Sophia, cit., p. 133ss., teologia riportata alla luce anche da altre teologhe femministe: come è noto, Schüssler Fiorenza focalizza, quasi inventandone i termini, la tradizione patriarcale del kiriocentrismo, intendendolo come l’intreccio di strutture di dominio che formano il contesto di società ingiuste; tradizione nata storicamente sia dalla caratterizzazione della divinità patriarcale, kiriarcale (da Kiriòs), sia dalla maschilità di Gesù, da cui sono derivate le conseguenti esclusioni delle donne. 20 G. Codrignani, Il diritto delle donne alla Rivelazione, in In un corpo sessuato, Atti del XIII incontro nazionale Donne CDB, 2003, p. 7. 21 C. Theobald, Dio è relazione, in «Concilium»1 (2001), pp. 62-78. L’autore si richiama a Tommaso d’Aquino e a Riccardo di San Vittore.

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negativa: «come pensare dopo Auschiwitz?». E il “dopo Auschwitz” purtroppo può essere aggiornato con gli infiniti mali e orrori del nostro inquieto oggi. Se un itinerario della filosofia ha risposto con il pensiero della differenza che rinvia a una diversa trama dell’essere, relativamente al Divino, si riporta in primo piano la teologia trinitaria, il mistero trinitario, che un monoteismo “sempre più esangue”, come afferma Christoph Theobald, ha sospinto in secondo piano. È questo un tema che fa tremare le vene e i polsi, e che pertanto non possiamo affrontare in maniera esaustiva; ricordiamo solo con Theobald i fondatori della teologia trinitaria contemporanea, Karl Barth e Karl Rahner, la svolta di Jurgen Moltmann, e via via i contributi di altri grandi teologi come von Balthasar e Hemmerle 22. Nella riflessione teologica femminile è significativo lo specifico contributo a tale problematica che, superando con agilità controversie annose, focalizza l’aspetto di dialogicità, di comunione interpersonale che sostanzia il Dio relazionale, a cui si giunge ancora partendo dall’esperienza del divino in noi e formulando nuovi simbolismi centrati sul corpo. La teologa statunitense Carter Heyward parla della passione per la relazione e della passione per la giustizia, quali cifre dell’atto creativo stesso: «filia, eros e agape sono parole diverse per designare un atto d’amore unico» 23. L’incarnazione del Cristo è il farsi carne di tale potere in relazione, che pertanto si trasforma anche nel Dio compassionevole e sofferente. Ne deriva un altro attributo significativo, particolarmente avvertito dalla riflessione religiosa femminista: se si pone al centro dell’attenzione non la natura del Dio che si è solitamente abituati a considerare maschile, ma la persona e le tre Persone della Trinità, si può focalizzare il Dio come passione per la giustizia, il Dio che libera gli oppressi, tra cui le donne da sempre povere e vessate in certi contesti socioculturali. Eliminando la tradizione patriarcale, molte autrici si avviano verso la “teologia inclusiva”, ossia verso una teologia che si faccia carico degli interrogativi e dei tentativi di risposta di tutti gli esseri umani. Ciò significa che il Dio relazionale

22 Si veda per una sintesi il saggio di C. Theobald, Dio è relazione, cit., che in particolare esamina la teologia trinitaria di Gisbert Greshake. 23 C. Heyward, Al principio è la relazione, in Il respiro delle donne, cit., p. 117-125: p. 119, saggio tratto dall’opera The Redemption of God. Atheology of mutual relation, University of American Press, Washington 1982.

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delle donne non è contrario al Dio degli uomini, bensì al Dio Padre padrone; non si tratta, pertanto, di rinunciare alla Bibbia, ma, con scelta di fede, compiere una rilettura di una tradizione troppo monocorde. Le teologhe femministe non ricercano solo la liberazione delle donne, ma offrono una visione della divinità più conforme alle domande di oggi: significativa la lettura della relazionalità di Dio che le donne sperimentano nella maternità, quindi ancora nella corporeità: Dio supera la freddezza concettuale ed esprime una concezione della vita che consiste in «forza e tenerezza, felicità e lacrime, intuizione e ragione» 24. Pertanto la tradizione riletta dalle teologhe femministe consente il collegamento rinnovato con la Trinità relazionale dei Padri Cappadoci, i quali nella perichoresis coglievano «l’essere l’uno nell’altro, compenetrandosi senza confondersi», la mutua compresenza che esiste tra le Persone divine, come sostiene una teologa italiana, Adriana Zarri, che aggiunge: «e questo ci pare configuri un Dio più femminile, non tanto connotato dall’essere, quasi dall’assistere dal di fuori alla struttura di se stesso, quanto piuttosto dal vivere, con somma partecipazione dal di dentro di sé […], un tale Dio alberga l’altro nel suo interno e da questa sua intima esperienza trae interesse e volere creativo delle molteplici alterità create» 25. Nuovi simbolismi, si è detto; e se il teologo Greshake definisce la comunione delle tre Persone divine come «un gioco trialogico di amore, unica via di autocomunicazione», le teologhe con grande suggestione parlano di «una danza di interrelazione» 26, e gioco e danza indicano la via di una rinnovata e trasformata liturgia 27. Da questa sfida immaginativa, allora, deve nascere, ancora riscoprendo tesori nascosti o aprendosi a testimonianze nuove, un modo inedito di rivolgersi a Dio, un Dio di fronte al quale – come chiedeva Heidegger – si possa ancora danzare e cantare; sfida coraggiosa per le chiese, sottolineano le teologhe, perché le donne «intraprendono un audace progetto, danno forma a una nuova immaginazione religiosa che le rende capaci di dire Dio, di rivolgersi a Dio e di in24 Cf. C. del Prado - A.M. Tepedino, in L. Moody, Women Encounter God. Theology across the Boundaries of Difference, Orbis Maryknoll 1996, pp. 63-64. 25 A. Zarri, Una teologia della vita, in Il respiro delle donne, cit., pp. 91-101: p. 99. 26 Si veda C. Mowry La Cugna, Dio per noi. La Trinità e la vita cristiana, Queriniana, Brescia 1991, ed E. Wainwright, Osare il nuovo nell’immaginazione religiosa. Dio nella teologia femminista, cit., pp. 135-136. 27 Ho parlato di questo tema in A partire dal gioco, Marietti, Genova 1993.

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contrare Dio in modi che arricchiscono la vita per il loro spirito e per il loro impegno nel progetto evangelico di liberazione, attuazione del regno di Dio» 28. Sfida coraggiosa, ma non impossibile, perché proprio nella ritrovata genealogia femminile, in quelle tracce che filosofe e teologhe con pazienza individuano «andando e venendo tra passato e presente, chiarendo la tradizione a partire dalla loro recente liberazione e ricevendone luce per la costruzione di una identità propria» 29, troviamo Miriam, sorella di Mosè e Aronne, che con gesto e parola canta e danza ringraziando JHWH per aver aiutato il popolo a sfuggire dalla schiavitù: «la profetessa Miriam, dice Es 15, 20, prese in mano il timpano: tutte le donne uscirono al suo seguito danzando e suonando». Profetessa è definita Miriam, accanto ai fratelli – e quindi in posizione paritaria –, non solo, ma tale espressiva connotazione, della quale vorrei ribadire il valore di critica e ricostruzione, significativamente esprime anche «il legame con le tradizioni orientali della parola oracolare», e molte sono le donne in varie religioni, investite di questa missione. Scavando poi nell’azione di Miriam la teologa Michèle Bolli focalizza come ella abbia preso l’iniziativa della celebrazione e in tale iniziativa sia presente “con tutta se stessa” – possiamo dire con Hannah Arendt –, corpo e spirito; la valorizzazione del corpo «consente di gettare un primo ponte tra lei e ciascuna di noi, ma anche tra lei e l’importanza che ogni cristiano accorda dopo Gesù Cristo all’esistenza in un corpo singolare: o di donna o di uomo. Questo luogo corporeo è importante perché in esso si è vissuta l’Incarnazione e può viversi la fedeltà cristiana a questo evento» 30. Gesto danzato quello di Miriam, ma ripetuto anche in un altro periodo storico da David davanti all’Arca dell’Alleanza, azione che ogni credente può rinnovare attualizzando una tradizione, aprendosi anche a una comunione con gli altri e con il creato tutto. 28 E. Wainwright, Osare il nuovo nell’immaginazione religiosa. Dio nella teologia femminista, cit., pp. 138-139. 29 L. Irigaray, Introduzione, in Il respiro delle donne, cit., p. 13. 30 «Miriam compie un gesto, dice una parola e costituisce il gruppo delle donne. Al suo seguito si forma il coro degli uomini. Essa riunisce così l’intero popolo. Non c’è apartheid, ma neppure fusione. […] Non c’è traccia di sessismo». Interessante altresì il riferimento etimologico al termine ebraico tof, timpano ma anche neonato, riferimento che consente, oltre all’esegesi letterale, una interpretazione simbolica dell’offerta a Dio da parte di una donna, madre spirituale, di un nuovo nato, il popolo liberato (cf. M. Bolli, Il gesto e il canto di una profetessa, in Il respiro delle donne, cit., pp. 24ss.).

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Vorrei aggiungere come si offra al nostro pensare un’autentica polifonia, una pluralità di voci che arricchiscono tale immaginazione religiosa; non solo, ma questa può diventare altresì una cifra del dialogo interreligioso: nei nuovi rituali femminili, le donne africane o asiatiche danno nome a Dio ricorrendo ai simboli delle loro culture e della loro attuale esperienza di vita, «donne di colore, indigene di culture diverse possono danzare e cantare», esprimendo una liturgia che le creature tutte (donne e uomini) vogliono esercitare in prima persona: rivolgersi alla trascendenza con una presenza corporea, con un respiro che come alito, soffio, spirito (ruah) è segno di vita nuova. Irigaray significativamente mostra come il respiro sia il primo gesto di autonomia del vivente; per le donne quindi è la cifra del loro nascere a se stesse, attraverso di esso possono accedere allo spirituale, alla scoperta di un’incarnazione propria: «il respiro delle donne? Un soffio che va dal di fuori al di dentro, dal di dentro al di fuori del corpo. Uno spirito che collega la vita dell’universo al più profondo dell’anima» 31. Siamo partiti dalla riflessione sul corpo e il telos è stato quello di comprendere appieno i diversi aspetti della corporeità sia in termini comunicativi, che religiosi e affettivi, così da restituirle la giusta dimensione e dignità. Forse si intravede la corporeità come una forza grande, una ricchezza da mettere a disposizione della comunità intera perché circoli liberamente in tutti i nostri rapporti e contribuisca a renderli più creativi, più fecondi. Ma vorrei concludere che dalla indagine sulla corporeità si deve giungere a una riflessione sull’essere umano e la sua natura, quindi, si palesa una tematica complessa e composita, quasi una tessitura o una matassa, ricca di fili diversi da dipanare, tessitura in cui intervengono con autorevolezza filosofia e teologia.

31 L.

Irigaray, Introduzione, in Il respiro delle donne, cit., p. 9.

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C.Beatrice BeatriceTortolici Tortolici

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di

Beatrice Tortolici

Come ci ha ricordato Van Gennep «il corpo umano è stato sempre trattato come un semplice pezzo di legno che ciascuno dispone e sistema a suo modo» 1, e noi aggiungiamo che quello della donna è stato trattato anche peggio perché spesso è stato (ed è) gestito da persone mosse da motivi utilitaristici (economici e di potere) sia personali sia collettivi. L’individuo, però, non soltanto ha un corpo (tanto da prenderne le distanze e di cui si può fare uso per questa o quella ragione 2), ma è anche corpo. Se diciamo “abbiamo un corpo”, intendiamo questo un oggetto, ma se diciamo “siamo il nostro corpo”, intendiamo un modo di essere persona. Abbiamo un corpo che ci racchiude, ci custodisce, ci distingue, ci separa da altri oggetti e persone, ma siamo anche corpo mediante il quale testimoniamo la nostra esistenza, il nostro modo di vivere la realtà, sia essa sociale che spirituale. Nelle due condizioni di avere ed essere, il corpo può rappresentare un’appartenenza, una testimonianza di fede, un penitenziario, e può essere un dono che si fa all’altro e all’Altro assoluto. Ciò ci consente di pensare al corpo come: 1. espressione della propria esistenza; 2. strumento di mediazione. Prima degli anni Cinquanta del secolo scorso, era frequente sentire e conoscere persone, soprattutto donne, che nel nostro paese vivevano la religiosità e la preghiera con manifestazioni esagerate. Nel meridione, soprattutto durante la preparazione spirituale alla ricorrenza della Pasqua, le preghiere erano rafforzate con vere e proprie mortificazioni del corpo che andavano dal dormire su giacigli o su letti, nei quali erano posti sassi e altri oggetti di disturbo che non consentivano di riposare, alle fustigazioni; era un modo tangibile di 1 A. Van Gennep, I 2 Cf. M. Scheler, La

riti di passaggio, Boringhieri, Torino 1981, p. 63. posizione dell’uomo nel cosmo, (1928), M.T. Pansera (ed.), Ar-

mando, Roma 1997.

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pregare Dio offrendogli il proprio dolore come se, in tal modo, si potesse essere più vicini a lui e alla sofferenza che ha patito durante il martirio della Croce. Nel Sud i segni della mortificazione del corpo erano forti ed evidenti anche durante la festa del Santo Patrono. Per chiedere una grazia o per ringraziare il santo di una grazia ricevuta, al termine della processione, talvolta, alcuni fedeli seguivano la statua del patrono all’interno della chiesa in ginocchio e leccavano il pavimento spolverato immediatamente prima del loro passaggio da un parente o da un amico. A Roma, ancora negli anni Sessanta e Settanta, si saliva la Scala Santa in ginocchio per rafforzare la propria preghiera e dimostrare, in maniera tangibile, la propria devozione; era un modo di sentirsi più degni di avvicinarsi a Dio e di esprimere la propria devozione con atti di sottomissione. Oggi pratiche religiose così particolari, talvolta anche violente, in genere, non si seguono più, tuttavia non sono scomparse completamente. Lo aveva già ricordato Lanternari nella sua opera del 1997 3, quando parlava dei battenti di Nocera Terinese, di Tiriolo, di Verbicaro in Calabria, e lo confermano i riti della Settimana Santa che si svolgono ancora oggi in questi paesi. A Verbicaro (Cs), per esempio, anche quest’anno (2006), in occasione della Settimana Santa, si è svolta la processione dei battenti 4. Come risulta da una ricerca svolta recentemente, a nulla è valsa la lettera pastorale, datata 20 febbraio 1983, con la quale il vescovo mons. Lauro invitava gli abitanti della cittadina a non esibirsi in atti violenti sul proprio corpo, insanguinando le gambe e lasciando impronte di sangue sulle soglie delle chiese. «Il Signore – scriveva mons. A. Lauro – non vuole questi atti di degradazione umana» e ricorda che «il corpo di Cristo deturpato dalla violenza non è un modello da imitare (il corsivo è nostro)» 5. Oltre al significato sociale di facile comprensione insito nel termine “degradazione”, c’è un grande significato antropologico nel3

V. Lanternari, Antropologia religiosa. Etnologia, storia, folklore, Dedalo, Bari

1997. 4 I battenti, durante la processione, si procurano ferite sulla parte anteriore delle cosce con u cardiddo, dischi di sughero di circa cinque centimetri sui quali è posto uno strato di cera nella quale vengono conficcati pezzi di vetro. 5 S. Totaro, La funzione mediatrice degli angioletti nei rituali della Settimana Santa, Lampi di Stampa, Milano 2005, p. 68.

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l’espressione “il corpo di Cristo non è un modello da imitare”. Non è da imitare perché Cristo è Dio e l’uomo non lo è, e, al di là del fatto che per la sua finitezza l’uomo non può mettersi a confronto con l’infinità di Dio, non può imitarlo perché la sua esperienza di sofferenza non attua la trasformazione del sacrificio in sacralità. Come ha messo in risalto René Girard 6, è il sacrificio della vittima e lo spargimento del suo sangue innocente che rende questa sacra e che genera nuova vita. Cristo, morendo, sparge il suo sangue innocente che, proprio perché è sparso, rigenera la vita e “purifica” l’umanità che si era macchiata con il peccato originale. Ma allora, perché si continua ad assistere a queste pratiche? Perché il corpo è così tanto mortificato ancora oggi? Cosa rappresenta? Che significato ha? Quale è il significato simbolico che esso racchiude? Le risposte possono essere molteplici e con ampi riferimenti che vanno dal senso di appartenenza (nel nostro caso religiosa), al mantenimento di una tradizione della nostra cultura; ma, al di là e al di sopra di queste pur importanti considerazioni, il significato antropologico sta nel fatto che il corpo è ciò che unisce l’individuo umano alla natura e, attraverso la cultura, a Dio. Il corpo è l’individuo e ciò che egli può usare come sua rappresentazione. Per questo motivo il corpo assume il significato di “espressione” e di “comunicazione”. Il corpo è un “linguaggio” che vuole raccontare la manifestazione della devozione religiosa di alcune persone. Nel trovare le risposte alle domande che ci siamo poste consideriamo il corpo: A) come liminarità; B) come luogo antropologico. Nell’uno e nell’altro caso il corpo ha la doppia funzione di “distinzione” e di “raccordo” e “mediazione”. A) Per quanto riguarda il primo caso, già Mary Douglas 7 aveva sottolineato la condizione di liminarità del corpo. Per lei la pelle è ciò che divide il corpo interno dal mondo esterno nel quale è immer-

6 R. Girard in Sacro e violenza riprende l’opera di Hubert e Mauss, Saggio sulla natura e la funzione del sacrificio del 1899, nella quale si esplicita che la vittima è sacra se la si sacrifica. 7 Cf. M. Douglas, Purezza e pericolo, il Mulino, Bologna 1996.

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so; noi vogliamo estendere questa liminarità e considerare non soltanto la pelle, ma la persona nella sua interezza e complessità come elemento di liminarità. Il corpo rappresenta il punto di demarcazione che delimita e distingue nettamente l’Io dall’Altro, che crea una spazio tra l’Io e l’Altro, ma è anche l’elemento che consente l’avvicinamento all’altro fino alla congiunzione con questo. È il confine che divide l’interno della persona dal suo esterno, che la preserva da eventuali contaminazioni, ma è anche il medium tra il dentro e il fuori, tra l’Io e l’altro. Ciò vale per gli individui e, se dilatiamo il concetto dell’altro fino a estenderlo all’Altro assoluto, ritroviamo il corpo anche nella dimensione di liminarità tra l’uomo e Dio. Il corpo costituisce la mediazione tra il terreno e il divino, oltre che per la sua componente fisica, anche per la sua componente mentale e psichica, che proiettano l’uomo verso il trascendentale prima e verso il trascendente poi. B) Per il secondo aspetto, il corpo è il luogo antropologico: 1) nel quale risiede direttamente il divino (come per alcune religioni), o 2) nel quale si iscrive il patto dell’alleanza tra l’essere umano e il trascendente, e quanto più i segni sono profondi, visibili e indelebili, tanto più il patto sembra assumere significato intenso. 1) Il corpo come sede del divino lo troviamo in molte religioni; in qualche caso è molto più esplicito, come per i Baul del Bengala 8: per loro il divino è all’interno del cuore di ogni uomo. L’essenza del credo baul, infatti, è che il divino si nasconde nel cuore di ogni uomo e che nessun prete e nessun profeta, nessun rituale e nessuna religione organizzata possono aiutare l’uomo a raggiungere il divino che dimora nella profondità del proprio essere. Chiese, santuari e moschee possono soltanto intralciare questo percorso di ricerca, dato che solo il corpo umano è la sacra dimora dell’Assoluto. Il corpo, per questa popolazione, non è un elemento impuro da mortificare, non è portatore di corruzione, o esso stesso corruttibile, ma assume il significato di custode e di espressione dell’immanente 8 I Baul del Bengala non hanno una vera e propria religione, hanno una filosofia che risente dell’incontro di diverse espressioni religiose come il tantrismo, il buddismo, il sufismo e il vaishnavismo, e che pone l’uomo al centro dell’universo.

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e del trascendente. In virtù di questa visione sacra e divina degli esseri umani, i Baul del Bengala professano la fratellanza universale, rifiutando il sistema delle caste, e professano l’uguaglianza di qualsiasi fede e religione 9.

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2) Il corpo è anche il “libro” nel quale si scrivono, in maniera indelebile e non, incisioni; dove si eseguono modificazioni di alcune parti anatomiche che rappresentano l’offerta, il dono che l’uomo fa di sé a Dio 10; talvolta vi si iscrivono le condanne che questo infligge all’uomo anche per mano dei suoi rappresentanti in terra, i quali spesso abusano della loro funzione e strumentalizzano il corpo per motivi sociali e per fini politici.

Il corpo femminile Se il corpo (maschile o femminile che sia) rappresenta la mediazione tra la natura umana e quella divina, il corpo femminile diviene un centro di interesse particolare sia per il “pericolo” che questo generalmente rappresenta nell’economia della vita del gruppo (mi riferisco, per esempio, ai casi di pericolo di impurità analizzati da M. Douglas 11 e ai pericoli cui sono esposti gli uomini del Medio Evo 12), sia, più in generale, per la sua “sessualità” il cui senso risente della doppia valenza che l’uomo ha riservato alla donna nel corso della storia. Parafrasando M. Douglas che parla di impurità riferendosi ai cibi contaminati e contaminabili, oppure alla impurità legata allo stato di malattia e alla fuoriuscita incontrollata degli umori femminili, l’impurità per eccellenza portata dalla donna è rappresentata dalla 9 Cf. S. Forni - C. Penacini - C. Pussetti (edd.), Antropologia, genere, riproduzione, Carocci, Roma 2206, pp. 117-118. 10 Generalmente le modificazioni di alcune parti anatomiche avvengono secondo dei rituali, i quali riaffermano il legame sociale tra quanti partecipano e tra i partecipanti e il sopranaturale, tra questi e Dio. L’offerta del proprio corpo è un dono che si compie anche con sacrificio. Già Spencer e Tylor, con la loro “teoria del dono”, avevano considerato il sacrificio una forma di dono che gli esseri umani fanno agli esseri soprannaturali, intesi come una sorta di capi a cui si rivolgono per chiederne benevolenza. Secondo Spencer questa modalità segue l’usanza di lasciare doni sulle tombe per placare e propiziare le anime dei defunti. Cf. A. Ciattini, Antropologia delle religioni, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1997. 11 Cf. M. Douglas, Purezza e pericolo, cit. 12 A questo proposito vedi G. Duby, I peccati delle donne nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari 2000.

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sua sessualità e dalla difficoltà di controllarla e di limitarla. In questo caso, la mancanza di controllo è segno di assoluta negatività. E ciò che dal punto di vista sociale e antropologico è impurità, spesso dal punto di vista religioso è peccato. L’impurità e il peccato si coniugano perfettamente e si rafforzano reciprocamente creando disordine e disorientamento sociale. L’unitarietà del gruppo e della collettività va preservata e, per garantirne la funzionalità, interviene anche la religione a rafforzarne le modalità di controllo, indicando in modo esplicito i casi nei quali era ed è consentita o meno, facendo così assumere alla sessualità un vero e proprio carattere religioso sia nelle religioni istituzionalizzate sia in quelle non istituzionalizzate. Per molto tempo il corpo integro della donna ha rappresentato l’espressione simbolica della purezza e il segno della devozione religiosa. Le vestali romane 13, per esempio, dovevano mantenere il corpo integro fino al raggiungimento del trentesimo anno di età 14 e, se non rispettavano i divieti, si macchiavano di incesto la cui punizione era la morte. Le vestali condannate venivano murate vive in una buca che, dopo il loro ingresso, il sommo sacerdote e gli altri sacerdoti che lo assistevano riempivano di terra fino a chiudere il terrapieno. Il seduttore veniva ucciso a nerbate. Plutarco riferisce i particolari del supplizio cui la donna colpevole veniva sottoposta, ma nel renderli noti mostra già l’uso strumentale che si può fare dell’appartenenza religiosa e la “deresponsabilizzazione” dei diretti operatori. Racconta Plutarco che, quando preparavano la stanza per eseguire la condanna, vi mettevano dentro «un giaciglio e delle coperte, una lucerna accesa, una piccola provvista di cose necessarie alla vita, come pane, acqua, latte, olio, quasi che l’uomo volesse sottrarsi alla responsabilità di distruggere per fame un corpo consacrato con i riti più solenni» 15, come – aggiungiamo noi – se l’azione della morte di una persona non dipendesse da coloro che l’hanno resa esecutiva, ma dipendesse da

13 Le vestali erano sacerdotesse addette al culto della dea Vesta, dea vergine del focolare presso gli antichi latini. 14 Le vestali, prima in numero di 6 poi di 7, erano votate alla dea fra i 6 e i 10 anni, passavano dalla potestà del padre a quella del pontefice massimo; custodivano alcuni cimeli e il focolare pubblico, che doveva rimanere sempre acceso tranne il 1° marzo. Erano rigorosamente votate alla castità; dopo i 30 anni di sacerdozio potevano ritirarsi e sposarsi. 15 C. Augias, I segreti di Roma, Mondadori, Milano 2005, pp. 7-8.

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necessità superiori, divine appunto. L’offesa compiuta per non aver rispettato i divieti imposti era così grande che poteva avere solo una risposta: la morte. In tempi successivi a quelli dell’antica Roma le cose non sono cambiate molto. Nel Medioevo le donne che non vivevano la loro sessualità secondo le regole stabilite dalla comunità sociale e religiosa subivano condanne altrettanto dure, talvolta venivano bruciate vive come le streghe e accusate esse stesse di essere streghe 16. In alcuni territori, ancora oggi, le donne per gli stessi motivi sono uccise sotto i colpi delle pietre. Il tutto è “giustificato” (se si può parlare di giustificazione) dal bisogno di osservare regole ben collaudate dalla tradizione e sostenute da una motivazione religiosa. Se per un verso la donna è sacra, per un altro, per la sua la sessualità (soprattutto la sessualità libera), è indice di pericolo morale ed è segno di squilibrio sociale, ma, considerato il fatto che la donna e la sua sessualità sono “nella” stessa persona e sono “la” stessa persona, è un paradosso distinguere la donna dalla sua sessualità e dissociarla schizofrenicamente. Questa dissociazione è sempre stata mantenuta molto viva e, anche se è pronta a essere osservata o negata a seconda dei casi che la cultura e la società del momento richiedono, non si riesce a superare completamente. Considerando la parte (sessualità) per il tutto (la donna), la donna è sacra quando la sua sessualità è legata alla maternità, quando è gestita secondo i canoni sociali e/o religiosi indicati; se invece questi vengono disattesi nell’ordine e nel grado del contesto, la donna è disapprovata moralmente ed è considerata elemento di “rottura” sociale, culturale e perfino religiosa. Il corpo la esalta e il corpo la condanna. Sebbene oggi le cose in parte siano cambiate, non sono modificate completamente nella sostanza. Come hanno sottolineato psichiatri, psicoanalisti e studiosi del profondo, l’inconscio maschile “sente” la donna come creatura divina e come creatura malevola, come “madre” e come “strega” 17, e se questa è una visione laica, ce n’è una religiosa che in alcuni paesi è ritenuta ancora valida. Nel nostro 16 Cf. G. Duby, I peccati delle donne nel Medioevo, cit. 17 Oggi l’uomo non sente più la donna schizofrenicamente

divisa in madre (buona) e femmina (cattiva), ma non ha superato completamente il dubbio che nutre sulla sua libera sessualità e, quindi, della sua moralità; l’uomo sente la donna ancora come proprio oggetto da difendere e teme per la sua integrità quando è lontano. Non più tardi di qualche mese fa alcuni giovani universitari (i quali avrebbero dovuto aver superato alcuni pregiudizi di valore degli anni passati sia perché giovani sia perché la società di oggi è più acculturata) difendevano calorosamente l’idea di non “potersi fidare”

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paese ieri più di oggi, e in alcuni paesi islamici ancora oggi, la donna era ed è considerata possibile espressione delle azioni del demoniaco, e talvolta il suo corpo è visto come il luogo nel quale questo prendeva (e prende) sembianze umane. Ieri, per esempio, erano le donne medievali dell’Occidente che, per distruggere il diabolico che si riteneva fosse nel loro corpo, venivano bruciate permettendo al fuoco di attuare la punizione contro di esse e di mettere in atto la funzione di “purificazione” sociale; oggi sono le donne di paesi non molto lontani dal nostro che, se ritenute non rispettose dei cosiddetti canoni morali ufficiali, sono sottoposte a pene fisiche cruente. Le lapidazioni in Nigeria, in Sudan, per esempio, alle quali sono condannate le donne riconosciute adultere, anche per il solo fatto che qualcuno affermi che sono tali, sono punizioni distruttive che le conducono alla morte e sono “giustificate” anche da motivazioni religiose. I motivi reali sono di controllo sociale e di potere che l’uomo ha, e vuole avere, su di esse, ma quelli dichiarati sono di ordine morale e religioso, e lo sono nella misura in cui si associa il comportamento adulterino anche a una forma di possessione del corpo della donna da parte del maligno. Le pietre, non troppo piccole né troppo grandi, che vengono scagliate contro la donna bloccata in una buca fino al collo (la donna condannata deve morire, ma non subito) sono pietre che simbolicamente vengono scagliate contro il demoniaco che è racchiuso nel corpo femminile.

Ordine e disordine Dal punto di vista antropologico la sessualità, che ha una valenza religiosa e morale di bene e di male, rispecchia il rapporto che esiste tra l’ordine e il disordine, e se la maternità rappresenta la regola naturale, culturale e divina, la libera sessualità è solo disordine sociale e offesa alla sacralità. Nel primo caso la funzione del corpo della donna è finalizzata alla procreazione, alla “regola” della natura, alla sopravvivenza del-

completamente delle loro ragazze se queste vivevano lontano da loro; la frase che ripetevano con molta sicurezza era: «Se è venuta con me, chi mi dice che non va con altri?». L’idea secondo cui “tutte le donne sono poco di buono tranne la propria madre, la sorella, la moglie e la figlia” è molto dura a morire.

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l’umanità e, quindi, è sacralizzato; nel secondo caso l’espressione della libera sessualità, che non segue i dettami religiosi e i modelli sociali che garantiscono la finalità e la condivisione della collettività, esce da ogni schema prestabilito: non è finalizzata ma è autofinalizzata, non è garantita dal divino ma è autogarante. Il senso della finalità e della garanzia si sposta, così, dalla sfera trascendente del divino a quella immanente dell’umano. Ciò che non è bene sociale e religioso è male individuale e collettivo e, in quanto tale, va estirpato, e se il “male” è nel corpo della donna, questa va battuta, punita, anche distrutta; non importa che sia una persona e che soffra e patisca sul suo corpo dolori atroci e indescrivibili: la donna è considerata, ancora una volta, un oggetto da manipolare e da gestire. D’altronde la donna non è l’uomo che ha costruito la cultura e la società secondo le regole che questo si è dato, non è Dio, e come tutto ciò che non è né una cosa né un’altra, che non ha, cioè, un’identità chiaramente distinguibile secondo i parametri sociali riconosciuti come valori, è segno di disordine e di incertezza. La donna è ritenuta un rischio e fonte essa stessa di pericolo. Dal pericolo al male il passo è breve. L’idea che la donna sia tutto ciò si perde nella notte dei tempi. Pensiamo, per esempio, a Eva che ha offerto ad Adamo la fatidica mela che lo ha allontanato definitivamente dalla vicinanza di Dio. Eva, cioè la donna, è stata la porta del diavolo. Se il corpo è il luogo antropologico, la sessualità in generale, e la zona genitale in particolare, rappresentano la fonte del male e il luogo del pericolo. Oggi, dal punto di vista religioso e sociale, non si condivide più quest’idea lontana, tuttavia non è scomparsa completamente: la donna e il suo corpo rappresentano ancora un pericolo. Ma di quale pericolo si tratta? In generale del pericolo (per l’uomo) di perdere il controllo sociale e culturale che ha avuto, e in particolare di perdere il controllo della vita, del pensiero e della volontà che, per tanto tempo, sono state considerate capacità esclusivamente maschili e, in quanto tali, ritenute espressioni dirette della volontà di Dio. L’uomo si è sempre considerato la continuità diretta di Dio in terra. Nella tradizione cristiana, egli è fatto direttamente da Dio a sua immagine e somiglianza, nella forma (spirito) e nella sostanza del pensiero; la donna, invece, è la compagna dell’uomo “fatta” dalla costola di Adamo, cioè da qualcosa che, seppure di origine divina, non è divino. Dunque la donna è lontana da Dio e non è divina.

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C’era anche una motivazione antropologica, che sottolineava il non valore della donna relegandola quasi esclusivamente al ruolo di fattrice: era il seme che genera. Il seme lo ha l’uomo e non la donna. Secondo la tradizione il seme proviene direttamente dagli spiriti, dagli esseri soprannaturali e viene custodito nelle ossa del maschio fin della sua nascita. Anche Leonardo da Vinci condivideva questa teoria al punto tale da disegnare il percorso del seme che, immagazzinato nella testa, scende fino al pene lungo la colonna vertebrale, in un lento deflusso che diventa brusco nel momento dell’atto sessuale “svuotando” l’uomo della sua sostanza. In un certo senso, la capacità di procreare dell’uomo corrisponde alla sua capacità intellettuale. La testa della donna è vuota di sostanza spermatica: la donna non ha nulla. Ancora nella seconda metà del 1800, nel Grand dictionnaire universel du XIX siècle (1866-1876), alla voce “donna” si leggeva: «In che cosa consiste l’inferiorità intellettuale della donna? […] Che cosa le manca? Il fatto di produrre germi, ossia idee», assimilando, come ricorda Francoise Héritier con un rapido giro di parole, l’idea creatrice al seme riproduttivo 18. L’uomo contribuisce alla vita e la donna solo alla materia (che talvolta è anche mostruosa). Questa idea era diffusa già ai tempi di Aristotele, quando sosteneva che «il primo stadio dell’anormalità, della mostruosità, è il concepimento di una femmina e non di un maschio» e ricordava che «lo sperma del maschio […] modella la materia che è dentro la femmina» 19. Il corpo della donna, dunque, è lontano dal divino, e tra lei e il divino l’uomo ha creato un ponte disseminato e ricoperto di regole sociali da rispettare per consentirle di espletare la funzione (in questo caso) divina, di fattrice. La donna non è divina, ma lo diventa nella maternità. Se la sessualità della donna non è utilizzata per procreare secondo le norme decretate dalla collettività, rientra nella condizione di pericolosità. Le donne non controllate sessualmente destabilizzano l’ordine e le regole che l’uomo ha creato, e per evitare ciò debbono essere sempre controllate e “addomesticate”. Quando Lévi-Strauss sostiene che la società poggia su pilastri fondamentali e inequivoca18 Cf. F. Héritier, Maschile e femminile. Il pensiero della differenza, Laterza, RomaBari 2000. 19 B. Tortolici, Appartenenza, paura, vergogna. L’Io e l’Altro antropologico, Monolite, Roma 2002, p. 56.

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bili, come quello della proibizione dell’incesto, della ripartizione sessuale dei compiti e del riconoscimento dell’unione sessuale, parte dall’assunto che la donna sia un oggetto “domesticato”; la femmina, così, da materiale grezzo diventa donna “addomesticata” 20. Nella corporeità e nella sessualità sono iscritte a livello di codice genetico le due parole che delimitano l’esistenza: vita e morte. Il corpo, secondo l’uso che se ne fa, dà la vita o dà la morte, avvicina o allontana. Se la sessualità è finalizzata alla procreazione, il corpo della donna dà la vita e congiunge l’umano al divino; ma se è autofinalizzata, è l’elemento di rottura e di allontanamento da esso. Quasi tutte le religioni non ammettono l’espressione della sessualità non finalizzata alla procreazione 21. La considerazione negativa della donna, che ha dominato per tanto tempo, oggi non è più presente nei modi rigidi e assoluti di ieri. Sono lontani i tempi del Medioevo in cui non le si riconosceva l’anima. In genere, tranne la forza fisica, oramai le è stata riconosciuta qualsiasi attività di pensiero e la possibilità di intraprendere qualsiasi attività lavorativa con le stesse aspettative e con i medesimi risultati dell’uomo; tuttavia ancora è lunga la strada da percorrere per riconoscerle l’uguaglianza di valore nei confronti dell’uomo e una divinità che non sia fatta solo di sottomissione. Al di là delle argomentazioni di carattere teologico che non possiamo considerare per mancanza di competenza e per l’ambito delle nostre riflessioni, nelle normative e nelle regole della Chiesa cattolica le donne hanno sempre un ruolo di secondo piano, proprio perché la priorità del loro operato è quella della sottomissione a Dio e all’uomo 22. Il corpo della donna è ancora molto spesso oggettivato e separato dalla persona che lo rappresenta. Pur con le particolarità di cui abbiamo appena parlato, oggi il corpo assume un nuovo ruolo nei confronti della religione e dei rituali religiosi. 20 Cf. 21 Cf.

ibid., pp. 40-41. G. Nadali, Sessualità, religioni e sette. Amore e sesso nei culti mondiali, Armando Editore, Roma 1999. 22 La sottomissione, considerata una condizione necessaria per la donna, è simbolicamente rappresentata dall’uso del velo. Per la religione cattolica il velo che copre il capo e il volto delle spose nel giorno del matrimonio non è solo un ornamento, ma il segno della loro sottomissine a Dio e all’uomo che diverrà il marito. Oggi il velo dell’abito da sposa è il segno della tradizione e ha perso l’originario significato di sottomissione, come ha perso il significato di castità il colore bianco dell’abito; il velo rimane segno di sottomissione nell’abito delle religiose.

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Nel contesto della cultura postmoderna, per rispondere alla necessità di superare le mancate aspettative di un tempo tecnologico condotto all’insegna del potere economico e politico e per non perdersi e appiattirsi in una comune dimensione globale, in diversi luoghi del nostro paese e in diversi quartieri delle città sono ricomparse le processioni religiose per le festività del santo patrono o del santo cui è dedicata la chiesa parrocchiale rionale. Si recupera la particolarità locale in una realtà sociale globale, si ritrova un modo di aggregazione sociale in una realtà nella quale l’individualità isola sempre di più le persone. Nel recuperare le ritualità sacre, il corpo ritrova la sua centralità di azione nella ricerca del divino. Una realtà come quella di Verbicaro oggi è diversa rispetto a quella che si celebrava cinquant’anni fa, e nella secolarizzazione del sacro dovuta al cambiamento sociale e alla sua individuazione all’interno dell’individuo, la religione, pur mantenendo in parte “il morso del destino” individuale di cui parla James, assume un carattere sempre più collettivo. Il corpo non è più soltanto un dono che si fa a Dio o al santo per testimoniare la devozione, la propria sottomissione e, attraverso le sue mortificazioni, un modo di partecipare ai dolori patiti da Cristo e dai santi; è un modo diretto di avvicinarsi alla sfera divina e di vivere la spiritualità con tutta la persona che vive il corpo come “essere” e come “avere”: la persona è il suo corpo. In questo caso l’avere un corpo ed essere un corpo si identificano nella persona che li rappresenta, la quale vive la spiritualità nella sua umanità. In questo modo non significa deprezzare la sfera divina e ridurla a quella umana, ma cogliere entrambe nella “relazione” e nella “reciproca continuità”. Il divino e l’umano sono distinti ma, mentre prima l’umano tendeva al divino negando il corpo attraverso la sua mortificazione e/o la sua violenza (nella persona corpo e spirito sono intesi separati), ora il corpo rappresenta il ponte umano della realtà trascendente dello spirito e la umanizzazione di questo. La sofferenza e il dolore del corpo patiti da Cristo durante la sua passione erano l’espressione dell’umano e del divino uniti nella stessa persona, e la rievocazione che se ne fa oggi durante i riti della Settimana Santa, come ha rammentato Benedetto XVI, è il ricordo dell’attualizzazione dell’umanizzazione del divino. La sofferenza umana patita da Cristo nel corpo è la umanizzazione di Dio: Cristo è umanizzato e il corpo è il “luogo” della sua umanità.

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Corpo religioso collettivo La storia ci ha mostrato come spesso, per motivazioni di ordine politico ed economico, nella relazione dell’umano e del divino, si fossero confusi i ruoli e le competenze; si è strumentalizzato il bisogno di spiritualità dell’uomo e, in nome di Dio, si sono svolte azioni che di divino non avevano assolutamente nulla. Il desiderio di raggiungere e/o di mantenere il potere hanno fatto cambiare le carte in tavola al punto da fare apparire i bisogni materiali come necessità spirituali. L’uomo (e il suo bisogno di religiosità) è stato strumentalizzato a tal punto da non riconoscere di essere manipolato e da essere indotto ad operare secondo le necessità contingenti del potere. Il bisogno spirituale individuale si allarga al collettivo e nella collettività si risponde ai giochi della ricerca del potere di pochi. Per questo si sono messe in campo lotte svolte in nome di Dio, e per questo si continuano a svolgere guerre sventolate come guerre di religione. È la realtà delle guerre ancora attive nel mondo e condotte in nome della religione. La trasformazione del rapporto uomo-Dio ha assunto una personalizzazione al punto da strumentalizzare un bisogno naturale fino alla sua esasperazione fanatica. Il fanatico, come ricorda B. Welte in Dal nulla al mistero assoluto, «vive nel ricordo della possibilità autentica della religione: e questa possibilità autentica vive ancora in lui. Ma egli l’ha violentemente deformata, trasformandola in elemento di terrore per molti» 23. Il corpo è il luogo individuale che esprime il patto che si iscrive tra la persona e Dio, ma può divenire anche corpo sociale, del quale la funzione dei corpi dei singoli componenti costituisce la forma e l’espressione religiosa di interi gruppi e comunità. Il significato simbolico del corpo individuale si estende e si trasfigura nei corpi fisici di interi gruppi e popolazioni (ad esempio, ebrei, curdi). Soprattutto durante i periodi di crisi (durante i quali si attua un indebolimento delle istituzioni normali che favorisce la formazione delle folle, cioè di assembramenti popolari spontanei, suscettibili di sostituirsi interamente a istituzioni indebolite o di esercitare su queste una pressione decisiva), questi gruppi divengono anche oggetto e strumento di persecuzioni. 23 O. Tolone, Bernhard Welte. Filosofia della religione per non-credenti, Morcelliana, Brescia 2006, p. 226.

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Il senso religioso e la religione, pur rimanendo un fatto personale individuale, costituiscono il collante di interi gruppi che le vivono come una vera e propria ideologia. Dopo la caduta delle ideologie sono venuti meno i punti referenziali a cui riferirsi, e la dimensione di precarietà sociale ed esistenziale che si è determinata nel mondo contemporaneo ha trovato nella religione una possibilità di riferimento stabile. L’estensione della religiosità dall’individuale al collettivo ha assunto un carattere che l’ha resa sostenitrice come l’ideologia; in altri termini, la religione oggi offre alla collettività la forza che proponeva ieri l’ideologia. Oggi si svolgono le guerre di religione, strumentalizzando queste come se fossero bandiere da sventolare per issarle sul pennone più alto e attestare così il maggior potere e la maggior forza da ritenere. Certo, le religioni hanno un potere, indicano i modelli di vita da seguire e le regole morali da osservare, ma queste indicazioni, volte a raggiungere e a garantire il valore della persona, spesso sono manipolate e strumentalizzate dal potere politico. I conflitti religiosi in atto sono pretesti per nascondere dietro di essi i reali motivi di ricerca di potere e di desiderio di dominazione di alcuni su altri. Per aizzare i croati contro il gruppo minoritario serbo, nelle strade di Zagabria si leggevano manifesti su cui era scritto «Dio protegge la Croazia»; ma Dio era implorato anche da parte opposta, dal nemico; sembrava che ci fossero tanti Dio, uno diverso dall’altro, come se il Dio che protegge un popolo dovesse distruggere l’altro ritenuto nemico. La realtà che stiamo vivendo ci mostra un modo particole di vivere la religione. In nome di Dio si vivono lotte religiose intense e diffuse, che spesso divengono vere e proprie furie religiose, condotte, come in Afghanistan, da “santi guerrieri”. Come abbiamo detto poc’anzi, le motivazioni reali delle lotte sono economico-politiche, sono rivendicazioni richieste da minoranze politiche e, per attuarle, si fa leva proprio sul senso religioso e si tenta di dimostrare che la propria religione è in qualche modo messa in minoranza e non è rispettata nei suoi modi di attuazione. «Se in gruppi di ogni sorta, di ogni dimensione, di ogni credenza religiosa […] non si occupasse di esclusioni, repressioni, emarginazioni e perfino di annientamenti della propria spiritualità imposte dalla politica, la creazione di uno Stato, di per sé, difficilmente porterebbe a scontri tra le comunità» 24.

24. C.

Geertz, Mondo globale e mondi locali, il Mulino, Bologna 1999.

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Le masse in lotta rappresentano il corpo collettivo che lotta in nome di Dio con una violenza indescrivibile, fatta di tumulti, di omicidi, di sommosse, di guerre civili, di distruzioni, di assalti condotti da kamikaze, anche da kamikaze donne. Sono lotte religiose che superano l’accezione di religione e il senso religioso individuale. Il termine “religioso” assume un significato più vasto che comprende l’appartenenza etnica, l’appartenenza a una nazione, a un continente, a una tribù, a una razza, consolida il gruppo e nel contempo restituisce alla persona la dimensione individuale della religiosità. Dopo gli anni della decolonizzazione, la caduta del Muro di Berlino, il crollo dell’Unione Sovietica, la fine della guerra fredda, è andato sempre più aumentando il peso politico delle religioni, ed è aumentato tanto più quanto più il mondo diveniva “un mondo in frammenti”. Le ideologie del liberalismo, del socialismo, del nazionalismo hanno lasciato il posto alla religione che “ancora non ha fallito”. C’è chi vede nella confusione morale, nella perdita dei valori sociali e umani dell’epoca contemporanea il motivo del successo della religione anche sotto l’aspetto dell’ideologia; ma c’è un motivo più profondo che decreta il successo e la buona riuscita della sua attuazione. La religione è un fatto personale, ma è anche un fatto condiviso dal gruppo di appartenenza, è espressione di interiorità perché è infusa di sentimento e sorregge, conforta, rassicura, assicura ricompense, benedice. In questa dimensione la fede conta moltissimo; c’è la forza di travalicare l’individualismo e di renderla più operativa e risolutiva nella collettività. Si comprende così come, in nome di Allah, di Dio, si diano vita a lotte e massacri, si comprende come faccia un kamikaze ad avviarsi alla sua morte nella convinzione che, oltre a lui stesso, muoiono tante altre persone. Il corpo ritorna nell’importanza del sacrificio religioso. Il kamikaze si è preparato all’ultima azione, sa che quando inizia la sua missione inizia anche la fine della sua vita terrena, ma sa anche che il suo sacrificio serve a Dio per realizzare il suo progetto salvifico. Quando è la donna ad essere kamikaze, il fine dell’azione è il medesimo, ma il sacrificio accoglie in sé anche la sottomissione cui era originariamente “destinata”. Qui ritorna il significato antropologico del sacrificio. Il sacrificio salva, la dispersione del sangue (quello del kamikaze e quello delle persone che per caso si trovano nel luogo della distruzione) purifica il luogo e il gruppo impuro. Parafrasando Nietzsche, la volontà

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di potenza che caratterizza il nostro tempo, la cui anima è politica ed economica, si copre dietro la maschera della religione facendo apparire spirituali esigenze che sono soltanto temporali e secolari. «Non si cerca di dare fuoco a una moschea Mughal che si ritiene collocata nel luogo di nascita di Rama, né si cerca di far rinascere rituali precolombiani nei pueblo maya, ci si oppone all’insegnamento dell’evoluzione nel Texas e nell’Arkansas o si indossa il velo nell’école primarie semplicemente per ottenere degli obiettivi pragmatici ed esteriori, materiali» 25.

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La relazione La relazione è una necessità dei nostri tempi e la donna può, e deve, metterla in atto in quanto è favorita proprio dalla sua stessa struttura naturale. Per la donna è più facile; ella infatti è capace per natura di relazionarsi con il diverso in maniera paritaria, è l’applicazione concreta della sua capacità di procreare che la mette in condizione di essere parte integrante del figlio, che vive come persona autonoma non sottomessa a lei. La donna, quando porta in grembo un figlio, è una e due, e quando questo nasce è individuo accanto a un altro individuo. Anche il pensiero della donna rispecchia la sua funzione biologica della procreazione e, come il corpo accetta nuove vite, così il pensiero, secondo la tipologia del pensiero pragmatico che la caratterizza, accetta nuove forme e nuove esperienze senza perdere di vista la sua aderenza con la realtà. Ciò non avviene senza difficoltà, poiché il processo conoscitivo è denso di conflittualità e il pensiero che lo attua si snoda tra certezze e inquietudini. La positività (pragmaticità) del pensiero femminile risiede proprio in questa conflittualità e nella problematicità con la quale lo affronta; questo infatti è un pensiero sempre pronto a mettersi in discussione e a proporsi con altre possibili alternative. Il pensiero della donna non è scleroticamente stabilizzato in modelli rigidi, ma è capacità di accettazione, di apertura, di rinnovamento e di libertà nel rispetto suo, dell’altro e della natura; modifica il

25

Ibid., p. 117.

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contenuto del suo pensare, accetta il cambiamento culturale così come accetta in sé una nuova vita, e con la stessa semplicità è capace di passare da una dimensione ad un’altra. Questa possibilità di cambiamento della donna non è instabilità e mancanza di coerenza (accuse che le sono sempre state rivolte), ma è capacità naturale di comprendere il cambiamento come progresso e come equilibrio di adattabilità; è possibilità di cambiamento come possibilità di messa in atto della relazione. E, come mette in relazione le varie differenze sociali, il corpo della donna mette in relazione anche la sfera terrena con quella divina, anzi esso è il simbolo della relazione tra l’uomo e Dio. Il corpo, per concludere, non solo è distinzione e separazione (liminarità), ma è anche comunicazione e collegamento (mediazione). Dio e la sua divinità non sono solo su una dimensione opposta a quella umana che deve rimanere distaccata per non essere inficiato nella sua grandezza e nella sua perfezione infinita, ma è in una dimensione nella quale la corporeità è parte integrante della spiritualità e della divinità. Il corpo è lo “strumento” della loro reciproca applicazione in un contesto culturale nel quale la parola d’ordine è multireligiosità in un mondo globale di multiculturalità.

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Il linguaggio del corpo femminile come paradigma etico

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Il linguaggio del corpo femminile come paradigma etico di

Giulia Paola Di Nicola

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Il terremoto delle identità di genere 1 Come stanno mutando le identità maschili e femminili e come viene interpretato questo mutamento? Si sta passando dalla donna compagna, aiuto, risorsa sociale, alla donna in carriera, prepotente e aggressiva? Si sta passando da una identità maschile “forte” a una “debole”, dall’ideale dell’eroe, del superuomo all’uomo fragile o addirittura sconfitto? Come si configurano i due generi quando “l’uomo maschio, adulto, civilizzato” non è più il modello dell’umanità tutta? È possibile valorizzare la differenza senza gerarchizzare i due generi? È possibile essere realmente uguali senza appiattirsi nell’unisex? Sono domande importanti in un’epoca in cui si aspira a stabilire rapporti soddisfacenti e non si trova la strada per realizzarli. Il fatto stesso che assistiamo alla crescente presenza di identità disturbate (si pensi all’aumento della violenza, alla crescita della offerta della prostituzione femminile e della domanda maschile relativa, alla frigidità, ecc.) impone una revisione coraggiosa delle categorie che regolano il nostro modo di pensare. La formazione dell’identità diviene oltremodo difficoltosa, quando mancano chiare mete. Nella cultura cattolica ancora poco si è fatto per superare certe convinzioni pur nobili del passato, bene espresse ancora nel 1687 dal sacerdote e nobiluomo di cultura F. Fénelon, animato dalle buone intenzioni di dedicarsi all’educazione

1 Per un più ampio sviluppo delle tematiche qui presentate mi permetto di rimandare a G.P. Di Nicola, Uguaglianza e differenza, Città Nuova, Roma 1988; Id., Il linguaggio della madre. Aspetti sociologici e antropologici, Città Nuova, Roma 1994; G.P. Di Nicola - A. Danese, Lei & Lui, Effatà, Torino 2001; Id., Il maschile a due voci, Manni, Lecce 1999.

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Giulia Paola Di Nicola

delle fanciulle. Sosteneva infatti: «Nulla è più trascurato che l’educazione delle fanciulle» 2 e nello stesso tempo ribadiva: «La scienza delle donne, come quella degli uomini, deve limitarsi a un’istruzione in rapporto alle loro funzioni: la differenza tra le loro attività deve determinare quella dei loro studi. Bisogna dunque limitare l’istruzione delle donne alle cose che abbiamo dette», precisando: «Essa è incaricata dell’educazione dei figli: dei maschi fino a una certa età, delle figlie fino a quando si sposano o si fanno monache; deve occuparsi del comportamento dei domestici, del loro costume, del loro servizio; delle minute spese domestiche, dei modi di far tutto con economia e con decoro; per solito anche di trattare con gli affittuari e di riscuotere le rendite» 3. Viene fatto un breve cenno ai difetti delle fanciulle che l’educazione dovrebbe cercare almeno di attenuare: «Le si alleva in una fiacchezza e una timidezza che le rendono incapaci di una condotta ferma e costante. Al principio vi è molta affettazione e più tardi molta abitudine, in quelle loro paure infondate e in quelle lacrime che versano così prodigalmente […]. Bisogna anche reprimere in loro le amicizie troppo tenere, le piccole gelosie, i complimenti eccessivi, le adulazioni, le smancerie […]. Esse scambiano la facilità del parlare e la vivacità di immaginazione con l’intelligenza; non fanno scelte fra i loro pensieri; non vi mettono alcun ordine rispetto alle cose che debbono dire; mettono della passione in quasi tutto quello che dicono, e la passione fa parlare molto: quindi non si può sperare molto di bene da una donna, se non la si riduce a riflettere ordinatamente, a sottoporre a critica i propri pensieri, a esprimerli brevemente, a saper poi tacere. Un’altra circostanza contribuisce a far lunghi i discorsi delle donne; ed è che sono per natura astute e che usano lunghi rigiri per venire al loro scopo […]. Esse hanno naturalezza nell’adattarsi così da poter recitare agevolmente ogni sorta di commedie; le lacrime a loro non costano nulla […]. Aggiungi che sono timide e piene di falsa vergogna […]. Ma nulla è da temere nelle fanciulle quanto la vanità. Esse nascono con un desiderio violento di piacere; le vie che conducono gli uomini al potere e alla gloria essendo chiuse per loro, cercano un compenso nelle attrattive dello spirito e del corpo; da ciò viene il loro parlare dolce

2 F. Fénelon, Sull’educazione delle fanciulle, tr. it. a cura di L. Nutrimento, Canova, Treviso 1963, un’opera che si colloca tra la Didactica magna di Comenio e i Pensieri sull’educazione di Locke, 1693. 3 F. Fénelon, Sull’educazione delle fanciulle, cit., p. 147.

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e insinuante, da ciò viene la loro viva aspirazione alla bellezza e a tutte le grazie esteriori: un’acconciatura, un nodo di nastro, un ricciolo di capelli più alto o più basso, la scelta di un colore, sono per loro altrettante faccende importanti» 4. L’identità femminile risultava dunque bloccata entro un ideale spiritualista-flaccido. Si è data per scontata l’identificazione naturale tra femminilità e spirito materno-altruistico abbassando la persona alla dimensione biologico-naturale. Per superficialità o per comodità, sono state promosse a virtù eroiche e cristiane le rinunce e le sottomissioni forzate: le donne sarebbero portate naturalmente alla dedizione a un uomo, in una sorta di servitù innata quando non di masochismo. Di fatto, la storia ci ha consegnato troppe donne sanguinarie; troppe ancora oggi gettano i figli nei cassonetti. Perciò il disincanto sugli effetti perversi del sentimento materno (quanti figli rovinati dalle loro madri!) va di pari passo con una maggiore consapevolezza del compito dell’essere persona e madre. La sua percezione è oggi notevolmente cambiata proprio perché la donna non si percepisce in primis e solo come madre. Tradizione e natura non sono più referenti certi. Nella ricerca psico-sociale le donne mostrano alcune significative variazioni nel modo di vivere la maternità: un’alta spinta ideale; lucidità di espressione e autoanalisi; orientamento a non volere per gli altri ciò che si è subito; critica al ruolo maschile e richiesta di un forte coinvolgimento del partner; insoddisfazione sulle strutture ospedaliere e i consultori; rivisitata concezione della sessualità come comunicazione e staccata dalla maternità; riscoperta del valore maternità come scelta; riscoperta della propria persona e dell’importanza della comunicazione di valori e sentimenti; equidistante rifiuto dell’egocentrismo e dell’annullamento di sé nell’altro; valore dell’informazione sulla maternità; alto tasso di coerenza interna; rifiuto di un orientamento culturale che si appella al destino; orientamento ai valori della serenità e della gioia da condividere e nello stesso tempo consapevolezza di una inevitabile solitudine; “funambolismo” culturale e esistenziale, ossia la capacità di gestire orizzonti culturali e situazioni plurime 5. Sono tratti che danno motivazioni all’87% di risposte positive sulla maternità e che ci confermano la direzione qualitativa e personalista dell’impegno 4 Ibid, pp. 135-140. 5 Cf. G. Longo Di Cristoforo,

Codice madre. Orientamenti, sentimenti e valori nella nuova cultura della maternità, Armando, Roma 1992, pp. 19ss.

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delle madri d’oggi alla ricerca di contesti più umani di libertà, corresponsabilità e amore. È oggi convinzione diffusa che la maternità-genitorialità reclami una maturità psicologica e spirituale rare volte raggiunta. La vita dello spirito del resto è frutto per tutti, uomini e donne, di virtù acquisite, anche se più o meno facilitate dalla natura. Nel mondo cattolico forse è stato Mounier a spingersi più avanti in un’analisi critica della natura femminile e dell’educazione relativa. Egli vedeva le donne come: «[…] una stirpe che da millenni è stata scartata dalla vita pubblica, dalla creatività intellettiva e molto spesso dalla vita stessa, che si è adattata ad essere relegata in disparte, nella timidezza e in un sentimento tenace e paralizzante della propria inferiorità, in una discendenza in cui da madre in figlia, certi elementi essenziali dell’organismo spirituale umano sono rimasti incolti ed hanno potuto atrofizzarsi durante i secoli» 6. Nella sua denuncia la persona era soffocata dalla nobile funzione materna: «La persona della donna non è certo separata dalle sue funzioni, ma la persona si costituisce sempre al di là dei dati funzionali e spesso in lotta contro di essi. Se c’è nell’universo umano un principio femminile, complementare o antagonista di un principio maschile, è necessario ancora una lunga esperienza perché sia liberato dalle sovrastrutture storiche: tale processo comincia appena. Ci vorranno delle generazioni: occorrerà andare a tentoni, alternare l’audacia… e la prudenza, che esige di non sacrificare le persone a prove di laboratorio; occorrerà […], certe volte, scommettere contro ciò che si chiama la “natura”, per vedere dove finisce la vera natura. Così a poco a poco senza dubbio la femminilità si libererà dall’artificio, percorrerà sentieri che noi non supponiamo, abbandonerà quelli che credevamo tracciati per l’eternità. E, ritrovandosi, si perderà. Vogliamo dire che non si realizzerà più, come oggi, in un mondo chiuso, in gran parte artificiale, falsamente misterioso a causa della sua reclusione. Liberata dai facili “misteri” ingannevoli, raggiungerà forse qualche grande mistero metafisico, donde comunicherà con tutta 6 E. Mounier, Manifeste, in Oeuvres, Seuil, Paris, I, p. 560. Non sono mancate altre voci negli anni successivi. Per don Orione: «L’attacco contro questa fortezza sociale che è la famiglia cristiana, custodita e mantenuta dall’indissolubilità del matrimonio, ora lo tenete ancora, vedrete che domani diventerà furioso. Il femminismo è una parte importantissima della questione sociale, e il nostro torto, o cattolici, è quello di non averlo compreso subito. Fu un grande errore» (D.L. Orione, Nel nome della Divina Provvidenza. Le più belle pagine, Piemme, Casale Monferrato 1955, p. 36).

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l’umanità, anziché restare una digressione della storia dell’umanità. All’uomo, soddisfatto di un facile razionalismo, insegnerà forse che il “mistero femminino” è più esigente dell’immagine compiacente che se ne offre, e lo aiuterà ad approfondire il suo proprio mistero […] valendosi di questo immenso spazio che l’uomo moderno ha disdegnato e di cui l’amore è il centro. Se osasse farlo, sarebbe la donna oggi a capovolgere la storia e il destino dell’uomo» 7.

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Oltre le identità idem Certamente rivoluzionando la loro identità le donne hanno provocato il mutamento anche di quelle maschili, data la reciprocità delle prospettive. Per questo se oggi abbiamo donne intraprendenti abbiamo anche uomini “dolci”. La conferma del mutamento dell’identità maschile viene dai frammenti di osservazione giornalistica, dalle produzioni letterarie, dalla saggistica 8, dal cinema e dagli spot pubblicitari: maggiore corresponsabilità nella gestione della famiglia, dalla cura dei figli ai lavori domestici; recupero del valore umano e affettivo della procreazione, esigenza di un lavoro soddisfacente, al di là dell’assorbimento totale nella produttività. Le ricerche, condotte soprattutto sui giovani, attestano il mutamento dei valori, come per esempio la caduta delle appartenenze ideologico-politiche. Attestano inoltre che non solo per le ragazze, ma anche per i ragazzi la famiglia è un valore primario, da conquistare, difendere e privilegiare rispetto al partito e al lavoro 9. La Badinter, riprendendo la cognizione scientifica che rivela il sesso genetico XX per la donna e XY per l’uomo, sviluppa un discorso di trasformazione dell’identità maschile a partire dalla presenza di una dimensione femminile X nell’uomo 10. L’uomo violento, istintivo e trasgressivo, il Rambo, appare in questa prospettiva il prodotto artificiale e desueto di immagini massmediali che esaltano la virilità istintiva. Nella realtà un tale modello di uomo appare mutilato nella sua umanità integrale, come del resto lo sarebbe una donna 7 E. Mounier, Manifeste, cit., 8 Cf. I. Magli, Cari maschi,

I, p. 560. ora inventatevi un altro padre, in «La Nazione», 31.12.1999; F. Gianfranceschi, L’amore paterno, Rizzoli, Milano 1982; E. Lequeret, Uomini in cerca di identità, in «Le Monde Diplomatique», marzo 2000. 9 Cf. AA.VV., La famiglia vista dagli adolescenti, Demian, Teramo 1994. 10 Cf. E. Badinter, XY. De l’identité masculine, Odile Jacob, Paris 1992.

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che restasse ferma a una femminilità tradizionale e bloccata. Come modello opposto, vengono proposti l’uomo del Dolce Stil Novo e quello del Terzo Millennio, capaci di accogliere e assecondare in sé anche le dimensioni femminili. In ogni caso oggi non si può porre più la questione dei generi sotto la forma della contrapposizione alternativa tra maschilità e femminilità pure, come anche tra natura e cultura. Si è imparato a valorizzare le tante sfumature in quelle che prima erano le dicotomie infrangibili (maschio/femmina, malattia/salute, peccato/piacere, incontinenza/castità, affettività/ragione, azione/pensiero, dovere/piacere, corpo/mente). Inoltre sono aumentate insieme conoscenze e conoscenza dell’ignoranza: l’uomo e la donna sanno di non sapere e sono più disponibili a mettersi in questione. La complessità impone a tutti di riconoscersi ignoranti circa lo specifico delle identità di genere. Nonostante la scoperta della mappa del genoma umano e la sempre più approfondita conoscenza dei misteri della vita, di cui la clonazione è forse l’aspetto più eclatante, la donna e l’uomo sanno ancora meno di un tempo chi sono come uomo e come donna. Diffidano delle “idee chiare e distinte” come pure dei frettolosi embrassons nous, delle difese aprioristiche, ideologiche e confessionali. In questo senso la cultura postmoderna è forse più matura nel guardare con disincanto alle soluzioni frettolose che scavalcano il necessario travaglio delle identità. Uomo e donna si conoscono specchiandosi l’uno nell’altra e insieme rigenerano la realtà, leggendola “a due voci” nella reciprocità delle prospettive, quelle che costituiscono l’umanità come uomo e come donna. Essi vogliono sfuggire alle alternative semplicistiche che contrappongono il rifiuto del passato e la sua accettazione acritica, la differenza, abissale e conflittuale e l’uguaglianza piatta e senza vita (è una sottile ideologia maschilista quella di voler tutti uguali a sé ed è una reazione pendolare femminista quella di volersi emancipare assimilandosi) 11. L’uomo e la donna di oggi sanno solo che non vogliono più essere rinchiusi negli stereotipi che li separano l’uno dall’altra con frontiere infrangibili e optano per una flessibilità aperta. Sanno anche che non può essere più una metà del cielo a definire l’altra. Già 11 Uguaglianza del resto è altra cosa rispetto a parità, che ha un’accezione giuridica o politica (pari opportunità) e allude a uno svantaggio da recuperare.

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la pagina genesiaca ci avverte: Adamo era solo fango quando Dio alitava in lui e dormiva quando Egli creava Eva. Nessuno dei due è in grado di svelare all’altro il mistero del suo essere, perché ciascuno è “a immagine” di Dio solo 12. Il mistero presenta solo un punto d’origine e un altro d’arrivo, racchiusi dentro quell’armonia biblica espressa dal versetto: «Maschio e femmina li creò; a immagine di Dio li creò» (cf. Gn 1, 27). Neanche però ci si può arrendere ripetendo il già detto oppure abbandonandosi a un silenzio che sarebbe la rinuncia al pensiero stesso; meglio rischiare di sbagliare e dover tornare sui propri passi. Meglio balbettare e confrontarsi senza sovraccaricare di attese o di certezze il cammino della storia. Non è cosa da poco riuscire a risvegliare l’attenzione, perché gli uomini e le donne di oggi facciano essi stessi piccoli passi avanti nel discernimento, liberi da paletti pregiudiziali dietro cui rifugiarsi con la pretesa dell’assolutezza della natura, di Dio, della storia. È giusto che l’intelligenza navighi senza frontiere: «Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?» 13. S. Weil la considerava una obbligazione etica: «La libertà assoluta è essenziale all’intelligenza, nel suo ambito. L’intelligenza deve esercitarsi con libertà assoluta oppure tacere» 14. Dopo il periodo della prepotenza maschilista e dell’aggressività femminista, è già un ottimo risultato riuscire a riflettere a vele spiegate, consapevoli di dover attraversare una sorta di kenosi del patriarcato e del matriarcato, guidati dalla promessa del Regno, proiettati verso il futuro, senza sdegnare di recuperare i buoni valori del passato, col suo peso ingombrante ma anche le sue risorse preziose, spesso ancora inesplorate. «Il passato – sostiene Ricoeur – contiene promesse non realizzate, frecce non scoccate, che sta a noi raccogliere, risuscitare, come i morti della valle di Josafath» 15.

Quali modelli per le donne d’oggi Tra le proposte che il mondo contemporaneo offre, al di là di quelle tradizionali, emergono soprattutto i tre modelli della donna “realizzata” (in carriera), della falsa emancipata, che si lascia traspor12 Cf. Gn 1, 27. 13 Lc 12, 57. 14 S. Weil, Lettre à un religieux, Gallimard, Paris 1951, p. 65. 15 Cf. P. Ricoeur, La sfida e le speranze del nostro futuro, in «Prospettiva

Persona»,

n. 4 (1993).

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tare dal nulla consumistico, della combattente, impegnata nella lotta femminista (o piuttosto contro l’antifemminismo, come reazione pendolare al rapporto diseguale e maschilista tra i generi 16). Il disorientamento colpisce anche le proposte del mondo cattolico, tra caudatari della tradizione, rivoluzionari-contestatori, intransigenti sostenitori delle differenze di natura, spiritualisti, oltre a coloro che, pur restando fedeli alla Chiesa, non ne condividono gli orientamenti ufficiali e vivono uno stato di “migrazione psicologica”, quella che consente di restare “dentro” abitando nello stesso tempo “fuori”. Ciascuna ragazza deve gestire alla meglio il problema della costruzione del sé, scegliendo punti di riferimento più o meno consistenti e avendo di mira, come risulta dalla ricerca sociologica, il meglio: una bella famiglia e un lavoro gratificante, successo nell’amore e nella vita sociale. A fronte delle energie impiegate per realizzare concretamente un tale obiettivo, è più facile che le aspirazioni si scontrino con la realtà: s’incontrano frequentemente donne realizzate nel lavoro e con un matrimonio fallito alle spalle o viceversa. Di qui il difficile lavoro di aggiustamento per costruire identità soddisfatte dentro e oltre le contraddizioni e i limiti del reale. Frequentemente s’incontrano profili misti e talvolta contraddittori di donne libere e tradizionali, cattoliche e atee, disinvolte nell’uso degli strumenti elettronici e impantanate di fronte a una gomma forata, tenaci e senza cedimenti sul lavoro e fragili e disarmate di fronte a un sentimento o a un imprevisto. Vale anche in questo caso la regola sociologica per cui ci si conforma più facilmente alle conquiste oggettive, tecniche, giuridiche, sociali, che alle trasformazioni culturali, giacché i modelli acquisiti con l’inculturazione impregna16 Nel mercato delle proposte culturali, la parola “femminismo” indica la denuncia di una realtà di sfruttamento e oppressione della donna (funzione critica e di denuncia), ma indica anche la volontà di eliminare le cause della marginalità delle donne nel sistema politico, familiare, economico, educativo, e quindi ha un’ambizione costruttiva di condizioni egualitarie (funzione utopica); talaltra esprime una riflessione sul senso del genere femminile in sé (per la costruzione di una identità autopoietica), come nella cosiddetta cultura della differenza; talaltra ancora, in alcune frange, una affermazione di superiorità, in risposta alla tradizionale svalutazione del genere femminile. Quando il termine è associato a concetti di radicale “liberazione sessuale”, si stabilisce una sorta di identificazione tra femminismo e contraccezione, aborto, amore libero e talvolta lesbismo. Nelle sue accezioni etiche, esso indica invece la valorizzazione di quei valori umani dapprima considerati secondari perché più tipicamente “femminili” e oggi al contrario recuperati nel dibattito sull’uomo e sull’ambiente, come rapporto armonico con la natura (ecologia), con gli altri e con Dio (cf. G.P. Di Nicola, Femminismo, in G. Campanini - E. Berti, Dizionario delle idee politiche, AVE, Roma 1993, pp. 324-337).

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no i meandri più segreti della mente, assorbiti già nella culla, attraverso le fantasie del papà e della mamma, col coro parentale e amicale 17. I problemi di mutamento d’identità di genere non si misurano anno per anno. Non potendo né volendo tentare di risolvere la complessità del problema molte ragazze oggi preferiscono assuefarsi alla corrente a occhi chiusi, lasciandosi andare all’oblio frastornante del consumismo e della falsa emancipazione. Di fatto la maggior parte delle ragazze non sa nemmeno a quando risale, anno più anno meno, il diritto di voto 18. Sembrano mille miglia lontane dall’avere consapevolezza del cammino fatto dalle loro antenate per ottenere i diritti di cui esse godono, come pure delle trappole misogine nascoste nella cultura dominante, supportata dai mass media. Il loro modo di reagire all’immagine tradizionale della donna si concretizza nell’adozione più o meno pedissequa dei comportamenti vincenti dell’oggi. Desta non poche preoccupazioni constatare che nel linguaggio non poche ragazze usano parole che alludono a una sessualità pensata a misura e per gratificazione del solo maschio, per sentirsi libere o forse per esorcizzarne la misoginia. Finiscono così con l’adottare disinvoltamente espressioni maschiliste e volgari per strada, in discoteca o navigando su internet, assumendo su di sé le cattive abitudini maschili, senza dar peso alla gravità dei concetti richiamati. Fanno il possibile per essere conformi alla moda corrente, facendo propri i comportamenti più contraddittori insieme agli anfibi, allo zainetto, al tatuaggio nei punti più impensati del corpo. Altre amano negare la propria relazione col corpo (bulimia, anoressia) a favore di una gestibilità libera e indipendente dell’identità di genere, ad uso e consumo propri, nascondendosi dietro giochi di ruolo che internet facilita. È la via breve per reagire all’immagine stereotipata della donna e dell’uomo tradizionali senza dover elaborare un proprio percorso creativo. Il corpo assume in tal caso un’importanza straordinaria: dev’essere snello, agile, in forma, deve inviare messaggi di attrazione attraverso il vestito, la pettinatura, la postura, i tatuaggi. Si fanno diete, esercizi ginnici, operazioni chirurgiche, per ricostruirsi un corpo secondo i propri desideri e le mode correnti. In questo modo le ra-

17 Cf. E. Gianini-Belotti, Dalla parte delle bambine, Feltrinelli, Milano 1976. 18 Cf. l’inchiesta di M. Virno (ed.), Donna e politica, IARES, Solfanelli, Chieti

1992. Si vedano anche G.P. Di Nicola, Donne e politica. Quale partecipazione, Città Nuova, Roma 1994; P. Gaiotti De Biase, Che genere di politica?, Borla, Roma 1998.

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gazze e i ragazzi oggi riconoscono la centralità del corpo a cui continuamente rimandano col loro linguaggio ricco di richiami alla sessualità, anche se nello stesso tempo e contraddittoriamente giocano a liberarsi dalla soggezione corporea, rivendicando il potere di assumere identità diverse da quella indicata dalla natura. L’identità in gioco, con il cambio delle maschere, può però finire col prendersi gioco della persona e impedirle di ritrovarsi. Alle più tenaci, si offre la prospettiva del neofemminismo come pista di ricostruzione del mondo e della propria identità. Queste ragazze s’inseriscono perciò mentalmente in quella che è una delle rivoluzioni più significative della nostra epoca, che pur senza spargimento di sangue, ha cambiato lentamente ma decisamente il volto della famiglia e della società. Gli incontri, le conferenze, i gruppi di base, le rendono coscienti di quale terremoto culturale ancor prima che sociale abbiano comportato le faticose conquiste che sono storia relativamente recente: il diritto di voto, il nuovo diritto di famiglia, l’istruzione allargata, l’accesso a tutte le professioni, la tutela della maternità e il controllo della natalità. Soprattutto la lunga lotta per la conquista del diritto di voto, traguardo principale delle prime rivendicazioni (per ottenerlo, si è dovuto attendere un secolo negli USA, poco meno in Inghilterra e la fine della Seconda Guerra mondiale in molti paesi europei. In Italia essa data dal 1945). Negli ultimi decenni poi si sono verificati cambiamenti prima impensabili nel campo scientifico, riguardanti da vicino la vita, la morte, la riproduzione, e di conseguenza anche il modo di pensare se stessi. Le opinioni sono estremamente diversificate e variano in relazione all’età, alla cultura, alle appartenenze ideologiche, politiche, religiose. Non poche persone si domandano ancora se la rivoluzione delle donne sia una patologia della nostra epoca – e quindi una trasgressione della natura e della tradizione (inevitabilmente destinata a rientrare nei ranghi) – oppure un processo inarrestabile e costruttivo. Le donne che assumono la prospettiva femminista acquisiscono uno slancio etico, non di rado massimalista, animato dall’aspirazione alla giustizia in nome della quale infrangono i vecchi equilibri. Proprio la forte tensione etica, con spinte di rottura e provocazioni, è pregio ma anche limite, per una certa impaziente intransigenza, che tende a ridurre i problemi a declamazione ideologica. Inoltre la sottolineatura antifamiglia continua a costituire una delle ragioni principali della profonda spaccatura tra il femminismo laico e quello cristiano, giacché la tradizione cattolica e il magistero si sono schierati a

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difesa della famiglia come nucleo fondamentale di socialità, sia per le relazioni private sia come presidio antistatalista. L’ostilità intransigente di un certo mondo cattolico ha finito col favorire l’alleanza preferenziale che il femminismo ha via via realizzato con filosofie di stampo illuminista, come l’esistenzialismo, il marxismo, certi rami dell’antropologia culturale, della psicanalisi, della fenomenologia. Il femminismo infatti ha trovato udienza nei movimenti rivoluzionari e specialmente nel binomio marxista: liberazione = lavoro extradomestico. Si è consolidata così la tesi di una emancipazione che passa necessariamente per l’inserimento delle donne nel processo produttivo. Il disorientamento in questo campo è ancora palese. Un altro punto debole della pista neofemminista è la discrasia tra la cultura delle élite e la realtà concreta delle tante donne che non si riconoscono nelle militanti o nelle studiose delle comunità scientifiche. È una scissione che caratterizza ogni movimento d’avanguardia, per lo più guidato da una ristretta oligarchia pensante, ma che in questo caso si rivela particolarmente profondo. Attualmente i movimenti delle donne, che non si possono certo considerare morti, appaiono forse meno ideologizzati, anche se in occasione delle conferenze internazionali dell’ONU risfoderano vecchi proclami e manifestano una vivacità non priva di insidie 19. Si appoggiano alla ricerca scientifica dalla quale si attendono sempre nuovi sviluppi, come dimostra la vivacità del dibattito su argomenti del tipo: produzione del sapere, comunicazione, clonazione e nuove tecnologie, cyborg, femminismo e multietnicità (si è parlato infatti di “femministe della web-generation” 20). Lo ha confermato la IV Conferenza europea di Ricerca femminista di Bologna 2000 (550 adesioni di cui l’80% costituito da donne in giovane età). A fronte di tanta vivacità nel campo sociale e scientifico manca invece una bussola di orientamento di carattere antropologico ed etico. Oltretutto, a fronte di un femminismo rivendicatore della differenza di genere, ve n’è un altro che esalta la libertà nel campo della sessualità e dell’identità di genere fino a negare la realtà di fatto, quella cioè dalla prevalenza in natura di due generi ben riconoscibili e biologicamente orientati alla riproduzione. In contrapposizione viene esaltata la pluralità di generi equipollenti. Accade che nelle 19 Per un bilancio sul piano etico e religioso, rimandiamo a M.G. Noccelli - P. Vanzan, Pechino ’95, AVE, Roma 1996. 20 Cf. S. Nirenstein, in «La Repubblica», 29.IX.2000.

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conferenze internazionali ONU, specie quelle sulle donne (si veda Pechino 1995), si avallino i diritti delle lesbiche e degli omosessuali a partire dalla concezione di una sexual orientation appartenente a ciascun individuo e di un conseguente lifestyle che ciascuno sceglie, indipendentemente dal sesso di appartenenza biologica. La parola gender, che accentua la dimensione culturale rispetto a quella fisiologica, viene usata in questi casi strumentalmente per affermare il diritto alla libera scelta dell’identità a proprio uso e consumo, ritenendo che esistano in natura cinque modelli equipollenti di orientamento di genere (maschio con maschio, maschio con femmina, femmina con femmina, femmina con maschio, bisessuali). Un riorientamento antropologico ed etico si rende necessario, perché le ragazze, in mezzo a tanta confusione, non svendano la loro umanità e femminilità al gioco nichilista. Vi si collega la difficoltà di educare e orientare, non essendo più chiara la “vocazione” della donna e la teleologia del suo corpo.

Per un’ermeneutica del corpo femminile Il travaglio per la costruzione dell’identità non può trascurare le indicazioni che vengono dal corpo, il quale è come un libro aperto da leggere e rileggere lungo il corso del tempo, un libro che si modifica con noi e ci modifica. Dalla sua ermeneutica occorre ripartire per elaborare identità soddisfatte, ecologicamente legate all’habitat, pur senza restare imbrigliate nei vincoli deterministici della natura. Non è possibile smembrare l’essere umano integrale, scollando la coscienza, l’intelligenza, l’affettività, l’anima, il corpo, se non per esigenze analitiche. Il corpo è una realtà ontologicamente costitutiva dello stare al mondo. Diversamente si cade negli astrattismi o spiritualismi irreali e nelle relative conseguenti dissociazioni (si pensi alle patologie riscontrate nelle donne “utero in affitto”) 21. Il corpo ha un suo linguaggio che non è possibile sottovalutare né sopravvalutare («C’è più ragione nel tuo corpo che nella tua miglior sapienza» diceva Nietzsche) 22. Esso trasmette continuamente flussi di comunica-

21 Cf. R. Bodei, Destini personali. L’età della colonizzazione delle coscienze, Feltrinelli, Milano 2002. 22 Si vedano in proposito gli studi di R. Lodetti, Il corpo umano, vol. IV, Dehoniane, Bologna 1990-1998.

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zione, segnali di richiesta di attenzione e di cura che vanno decifrati lungo l’intera vita e provocano risposte nella sfera dell’emotività, dell’intelligenza, della spiritualità. Non si è il proprio corpo, non si abita il corpo come fosse una casa, non lo si può distanziare da sé, non lo si può prestare. Ciascuno vive l’aporia del suo essere in un corpo e nello stesso tempo di trascenderlo, sapendo di essere più di un corpo, di dover obbedire ai ritmi del proprio corpo – subendone in modo inestricabile i condizionamenti – e di spaziare con la mente e l’anima oltre i corpi. Questa duplice pulsione vale anche in relazione alla propria appartenenza di genere. Partire dal corpo significa evidenziare la differenza di genere senza distaccarla dal vissuto concreto delle relazioni tra corpi-persone viventi. Del resto ciascuno può dirsi uomo o donna solo nella sua specifica condizione corporea. Allo stesso modo il Verbo di Dio può farsi uomo solo se assume una “carne”, uno spazio e un tempo definiti, un genere, appunto un corpo. La persona però resta al di sopra, pur essendo dentro, il genere cui appartiene. Si nasce maschi e femmine sapendo di essere più che solo una femmina o un maschio. Per questo niente in questo campo può essere dato per scontato o per definitivo. L’arte di decifrare e rispondere ai fasci di segnali comunicativi del corpo costruisce nel tempo la nostra identità, intrecciandola con quella delle altre personecorpi con cui veniamo in contatto. Lo sguardo, la carezza, il sorriso, il tono della voce, l’abbraccio, la danza, la stretta di mano, fanno la capacità comunicativa di una persona, che conosce gli altri e si conosce, genera se stessa e gli altri (connaître) nelle interazioni quotidiane. Se è indubbio che i due generi offrono all’evidenza oltre che due corpi diversi anche una diversa tonalità dello stare al mondo, la difficoltà sta nell’interpretare questa differenza, giacché essa nasconde un misterioso tesoro di cui ci sfuggono i contorni: si è costretti a riconoscere un’ulteriorità di senso tutte le volte che lo si vuole catturare. Il lavoro ermeneutico deve guardarsi perciò dal rischio del dogmatismo e dell’universalismo, cioè di chiudere i discorsi e di rinchiudere tutti gli uomini e le donne in nuove-vecchie gabbie di genere. Meglio coniugare il dire col tacere e attendere. Di conseguenza l’ermeneutica qui proposta della femminilità parte dal corpo e dal vissuto, da cui si traggono indicazioni nient’affatto esaustive e soprattutto a carattere simbolico (sarebbe fuorviante un’interpretazione che volesse vedere riprodotte tutte le donne con le categorie ermeneutiche qui proposte). Di ciascuna indicazio-

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ne verranno indicati il corrispondente maschile 23 e la deriva, ossia la corruzione che trasforma in negativo la risorsa positiva.

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La relazionalità La relazionalità della persona si manifesta più marcatamente nel corpo della donna. Il processo generativo femminile contiene infatti – come inscritti nella natura – significati paradigmatici della relazionalità della persona. Soprattutto la maternità esalta questa caratteristica, per il rapporto unico, due in uno, che si stabilisce tra madre e feto. Il senso della maternità va oltre i limiti della natura per divenire indicativa della capacità della persona di fare spazio, di accogliere l’altra, di contenerla, e poi via via lasciarla vivere nella sua autonomia, e anche aiutarla a distaccarsi da sé. Si può leggere in trasparenza nel dato fisiologico materno l’invito al superamento dell’individualismo, del prometeismo, del delirio di onnipotenza dell’idealtipo del self made man. Il figlio rappresenta la sfida dell’apertura alla condivisione del dono della vita, anche se non esime dal rischio di far pesare su di lui ipoteche e aspettative individuali. La maternità comporta un significativo imprinting nell’identità intrapsichica, sociale e relazionale della donna e una particolare capacità di trasmetterla ai figli, essendo la donna protagonista del processo generativo. Tale centralità della donna non comporta l’estraneità dell’uomo: la generazione, distinta dalla pura procreazione fisiologica, qualifica radicalmente l’identità della persona in quanto tale 24. Implica la maturità del trascendimento di sé nella pro-tensione allargando il proprio io o il “noi” (di coppia, di comunità) agli altri e favorendo in qualche modo la loro crescita. Anche per questo Maria si trova sempre dove nasce la fede della Chiesa, dove nascono alla fede i discepoli (a Cana come sotto la croce). L’esperienza relazionale che la maternità implica, con esplicito riferimento al cordone ombelicale che unisce e rende interdipendenti madre e figlio, dispone ad assumere prospettive olistiche, integrate, ecologiche, a non perdere di vista l’integralità della persona e dei 23 Per i tratti del maschile si veda il citato Lei & Lui, Laterza, Bari 1981, pp. 150ss. 24 Cf. G. Angelini, Il figlio. Una benedizione, un compito, Vita e Pensiero, Milano

1994, p. 29.

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contesti ambientali superando le false dicotomie, le frammentazioni, le gerarchizzazioni. Se questa esigenza fosse intesa in maniera fondamentalista, essa costituirebbe un anacronistico ritorno al passato. Per esempio, in campo scientifico non sarebbe possibile vivere nella società complessa eliminando la specializzazione e le competenze specifiche. Nell’ottica femminile però rimane secondario se non dannoso tutto ciò che contribuisce a indebolire i legami tra le persone, a segmentare le specifiche esperienze, ostacolando i processi d’integrazione. Il tratto della relazionalità invita anche a non accentuare la relazione di potere, essendo stato il potere troppo concepito come proprietà di un individuo, dal capofamiglia a tutti gli altri capi della società. A partire dall’esperienza della relazionalità materna ci si domanda se sia possibile e come cambiare una storia che riflette i dinamismi diseguali tra oppressori e oppressi, trasformando le relazioni da autoritarie, competitive, gerarchiche a cooperative e solidali. In effetti il rapporto tra madre e bimbo, pur essendo asimmetrico, non è un rapporto di potere ma di cura. Il potere viene riconcettualizzato su questa base come energia diffusa, forza e responsabilità, capacità di assumere oneri relazionali, di suscitare l’azione piuttosto che bloccarla, di fare il possibile affinché al momento giusto sia possibile tagliare il cordone ombelicale e stare di fronte all’altro non più come superiore-dipendente, ma nella reciprocità interpersonale. Non a caso il femminismo, inteso qui nella sua accezione positiva, combatte tutte le ideologie dell’oppressione, come il razzismo e le varie forme di emarginazione, alla ricerca di nuove forme di convivenza nei diversi campi dell’attività umana. Per esempio, nel mondo del lavoro dove combatte l’irrigidimento delle strutture, favorendo un’organizzazione flessibile degli orari, migliori relazioni tra datori di lavoro e dipendenti, condizioni di cooperazione tra i diversi componenti dell’azienda. La corruzione di questo tratto – il cui corrispettivo maschile consiste nell’affermazione di sé – consiste nella tendenza a impossessarsi dell’altro, a catturarlo nel proprio amplesso e fagocitarlo, come anche, nel contempo, a occultare la sua vocazione personale. L’attaccamento incapace di distacco è causa di numerosi conflitti d’identità da parte di chi non vuole o non sa tagliare il cordone ombelicale, metafora questa di una dipendenza fisica ininterrotta (si pensi alle conseguenze nel campo matrimoniale).

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La coscienza del limite Una più accentuata coscienza del limite riflette il vissuto della donna, più condizionato dalla sintonia con la natura, dalla fragilità del corpo, dalle mestruazioni, dal pancione della gravidanza, dall’allattamento, ecc. Le è indispensabile una dinamica veloce di accettazione dell’imprevisto (spostamenti del ciclo, gravidanze inattese), che le consente di acquisire una maggiore consapevolezza di non essere in grado di padroneggiare il proprio corpo e pilotare la propria vita. La coscienza del limite implica l’accettazione della regola dell’interdipendenza tra tutti gli esseri viventi, che delinea l’appartenenza al mondo e impedisce di “volare troppo alto”. Ci si riconosce fatti della stessa pasta degli animali, delle piante, della terra, del cosmo. Si privilegia così la dimensione dell’ascolto e del consenso alla realtà rispetto a quella della programmazione e del dominio (della vita, della natura, ecc.). Una madre che sa leggere il messaggio del suo corpo apprende che non è sempre possibile scegliere con precisione se e quando e come avere un figlio (è più difficile evitarlo che realizzarlo a tutti i costi, come l’ingegneria genetica ben sa). L’evento di una nuova gravidanza resta legato all’imprevedibile anche quando è previsto, perché richiede comunque la consegna della propria persona a un futuro ignoto, a un qualcuno di cui non si conosce il volto né il destino. Si sa invece chiaramente che la propria vita cambierà a partire dalla presenza di un altro dentro di sé. Una madre si sente chiamata interiormente a vivere l’infinita pazienza di chi ascolta il distillarsi della vita giorno per giorno nel proprio ventre e alimenta la fiducia nella regolare conclusione del processo senza avere il potere di controllarlo e gestirlo. Di fronte a questa realtà non valgono le competenze acquisite, i titoli di merito, i progetti più o meno razionali; occorre ammutolire, attendere con pazienza, allargare gli spazi dell’intimità rifuggendo dalle piazze, dalle masse. Pur restando tra gli altri, si vive l’esperienza del deserto, che talvolta purtroppo è esilio forzato per l’abbandono da parte del coniuge e della società 25. L’esperienza della maternità è ambivalente: facilita un atteggiamento di docile accondiscendenza alla realtà, per il fatto che la materia e la storia non assecondano i propri desideri, e nello stesso tempo inculca la gioiosa consapevolezza di ave25 Cf.

E. Musi, Per una pedagogia della nascita, dattiloscritto.

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re in dote il potere di generare, di poter portare un proprio personale contributo all’opera della creazione: atto di abbandono e di creatività, di carnalità e di spiritualità. La prima chiara percezione della differenza come limite è data alle ragazze dalle mestruazioni, le quali troppo spesso vengono vissute come un peso ingiusto, rivestite di significato misterioso e negativo, se non collegate a impurità e vergogna. Non c’è una cultura che riconosce nel sangue il grande valore simbolico per il richiamo sacrale e sacrificale che esso ha in tutte le culture, nel positivo e nel negativo, per il suo effetto distruttivo-cannibalesco (dee e dèi assetati di sangue) e purificatorio (quello versato per le grandi cause). È il segno di un amore forte, che non si arresta di fronte alla sofferenza e si dona senza riserve. Esso appare tanto più ricco di implicazioni religiose se è il sangue di una vittima pura, di un animale giovane, di una vergine, di un giovanetto, come primizia di vita gradita agli dèi. Il sangue del Cristo è quello di una vittima senza macchia, pura, vergine, che si offre a Dio e ristabilisce l’alleanza con gli uomini. Anche il sangue di Maria è puro, nei suoi cicli e nel parto. È il sangue che ha nutrito Gesù attraverso il cordone ombelicale e la placenta e che, mescolato al Suo, viene offerto al Padre. Poco è stato fatto sinora per evidenziare il legame tra Eucaristia e simbologia del corpo femminile, giacché in proposito la questione del sacerdozio ha fatto da freno alla ricerca. Eppure un’ottica di fede fa splendere la femminilità vicina e dentro il Cristo dell’Eucaristia, nel quale «furono riconciliate tutte le cose, avendole pacificate per il sangue della croce, sia le terrestri sia le celesti» (Col 1, 10). I richiami simbolici sono troppo evidenti per essere sottaciuti. Il corpo della donna è strutturato fisiologicamente in modo da poter alimentare un’altra creatura, perché possa vivere 26. La madre è colei che dona la vita che sgorga dalla morte di sé, dal proprio corpo “spezzato” e condiviso 27. Dare il sangue è dare se stessi, ma nello stesso tempo è anche un ricevere, se è vero che si ha quel che si è donato. Nota un Padre del deserto: «Dà sangue e otterrai lo Spirito» 28. 26 Cf Mt 20, 28; Mc 10, 45; Lc 22, 27; Gv 10, 17-18; 13, 14a; Fil 2, 7-8; Eb 10, 5 b.7a; Gv 3, 16; Rm 5, 8; 8, 32; 1 Gv 4, 9-10.14; e per il sangue: Gv 14, 9; 2 Cor 4, 4; Col 1, 15. 27 Nelle fiabe, il contrappeso della madre che nutre per la vita è rappresentato dalla strega che nutre con cibi di morte (vedi la mela per Biancaneve). 28 Vita e detti dei Padri del deserto, L. Mortari (ed.), Città Nuova, Roma 1996, p. 299.

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Approfondire il senso positivo della differenza da questo punto di vista può essere particolarmente importante per le ragazze, poiché offre loro alcuni input indispensabili a poter accettare – e non subire – il ritmo non sempre facile del loro corpo. Agli occhi della ragazza che diviene adolescente il suo sangue viene versato invano: non c’è ferita, non c’è frutto evidente, non c’è persona a cui giovi. Essa non può darsene ragione se non interpreta il senso teleologico-vocazionale del suo corpo, la promessa di amore e fecondità, la richiesta di donazione, la chiamata all’alleanza e alla cooperazione con la natura, con l’uomo e con Dio creatore. In particolare, la gravidanza è da considerare un particolare periodo di Grazia, da non limitare alla maternità-verginale di Maria, ma, con le debite differenze e proporzioni, da estendere alla gravidanza ordinaria di tutte le donne. Il sangue versato lungo tutto l’arco della vita feconda invita a dare se stessi in nutrimento. Analogicamente: «Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, versato per molti» (Mc 14, 24; Mt 26, 28). Esso è anche il richiamo simbolico alla necessità di purificare ogni cosa che ci è stata donata. Vocazione alta e difficile da capire, quella inscritta nella femminilità, che va distinta dall’imposizione della maternità come obbligo e destino. Mounier mette in guardia dal farsi complici dell’abbandono della vocazione personale della donna in nome di un funzionalismo maternalista: «Ogni volta che impongo ad un uomo vivo di identificarsi con una delle sue funzioni, o quando mi comporto con lui come se egli vi si riducesse di fatto, pecco contro la persona. Quando stimo, per esempio, che ci sono uomini e donne che sono “fatti per” tagliare tutti i giorni lo stesso pezzo di ferro. Quando riduco la donna alla sua funzione casalinga o alla sua funzione erotica o anche alla sua più alta funzione della maternità, senza pormi la domanda sulla vocazione spirituale che le compete […] io pecco contro la persona […] la escludo dalle più alte potenzialità dell’uomo, la riduco allo stato di oggetto e di strumento» 29. Il sangue femminile non è legato esclusivamente all’esperienza della maternità e del parto, ma ai cicli vitali che ritmano l’esistenza di ogni donna, quasi a segnare la sua vocazione materna indipendentemente dal generare o meno i figli. È collegabile anche all’interruzione necessaria dell’attivismo per dedicare l’attenzione alla sopportazione del dolore, per poi scoprirne i frutti positivi nella diversa 29 E.

Mounier, Personalismo e cristianesimo, Ecumenica, Bari 1977, pp. 51-52.

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percezione di sé e degli altri. Riconoscerne la propria fragilità significa possedere le chiavi per entrare nella stanza più segreta dell’io e aprire le porte alla comunicazione dei cuori, delle intelligenze, delle anime. Questa capacità empatica femminile è un dono fondamentale per stabilire un rapporto educativo. L’esperienza del limite infatti favorisce un’educazione rispettosa dell’alterità dell’altro, insegna a sapersi ritirare e continuare ad amare anche di fronte a eventuali scelte non condivise. Il legame non può essere preteso, non può assoggettare l’altro alla schiavitù del debito di restituzione. È l’io che deve destrutturarsi e ristrutturarsi per costruire nuove sintonie di fronte al nuovo che l’altro rappresenta. Una madre ripete quotidianamente e in modo simbolico l’esperienza del parto: «Come il parto – ha scritto Campanini – così ogni autentica educazione è sempre un sofferto “lasciare uscire da sé” il figlio» 30. Avvia infatti all’autonomia, autorizza la partenza dei figli dal luogo delle origini. La coscienza del limite implica, sempre a livello simbolico, la consapevolezza dell’infrangersi di tutti i sistemi di relazione e di pensiero, di tutte le costruzioni umane di fronte alla morte, e quindi della sostanziale dipendenza umana. Il sangue mensile è periodico richiamo a questa condizione di mortalità e corrispettivamente al primato di Dio. Il limite non è infatti solo l’esperienza della propria fragilità ma anche la consapevolezza che tutte le cose del mondo, pur belle e buone, sono corrotte e corruttibili. Esse non costituiscono di per sé il fondamento della felicità. Forse anche per questo l’esperienza religiosa della donna è più frequente e più immediata. La fede dà la risposta all’anima che sa che “la roccia” va cercata altrove rispetto al mondo. In tutto ciò la donna è una speciale “immagine di Dio”. Essa impara concretamente, dal suo corpo, a fare dono della sua carne, del suo sangue, della sua vita come fa sacramentalmente Cristo con il Suo corpo, assumendo per sé un compito materno 31. La corruzione di questo tratto – e al maschile questo tratto suona come lotta contro il limite – sta nella tendenza a eccedere nella consapevolezza dei propri limiti e ritirarsi, rinchiudersi, delegando ad altri le proprie responsabilità sociali, accontentandosi del piccolo 30 G. Campanini, Fedeltà e tenerezza. La spiritualità familiare, Studium, Roma 2001, p. 42. 31 Cf. Lc 22, 19-20.

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mondo della casa, rinunciando ad affrontare la realtà, atteggiamento che ha connotato una grande fetta di popolazione femminile nella storia. Mounier si rivolge in questi termini a una ragazza che vuole rimanere troppo a lungo bambina: «Quando dico ragazzina, evoco una impressione insieme simpatica e penosa che lei mi dà spesso, quella di avere accanto a me una ragazzina e non una donna. Non mi fermo qui. Ho capito molto bene che lei gioca ancora un po’ a fare la ragazzina […]. Ma non bisogna giocare troppo con le maschere, sa. Altrimenti, prima o poi, esse finiscono col prendersi gioco di noi. È ora di diventare una vera donna; ciò vuol dire un essere spirituale adulto, che non si ritira davanti a niente e non si aggrappa alla sua adolescenza. Ciò vuol dire semplicemente una donna che osserva, assume e matura la sua condizione di donna, la osserva e non arretra di fronte alle strade a cui conduce. […] Del resto noi, chi più chi meno, abbiamo paura di vivere e qualcosa in noi vorrebbe restare bloccato, protetto, puerile, per non dover giocare il ruolo dei capitani su una barca in mare aperto. È ora di rompere con l’affettività; intendo quest’affettività primaria, carnale, che frena in noi la vocazione più alta. Sia lucida, ascolti gli appelli della sua vocazione e tutti i suoi riceveranno in seguito molto più da lei, nella franchezza e nello spogliamento reciproco. Lei allora si sarà sacrificata per la verità. Mi perdona questo lungo discorso? […] Non ho resistito a tenderle una mano amica» 32. La corruzione della coscienza del limite si combatte con il potenziamento dell’autostima. C’è differenza tra il progettare il proprio io, la propria vita e l’accettare supinamente la natura, gli eventi. Perciò dal punto di vista clinico-pedagogico, terapie appropriate vengono intraprese per aiutare le donne a credere nelle proprie potenzialità, a uscire da schemi sessisti e patriarcali e ad avviare processi di autonomia, di self promozione, di incoraggiamento allo sviluppo della propria personalità, ad assumere comportamenti strumentali ed espressivi insieme, a prendere in seria considerazione sia i comportamenti di cura sia quelli economici. Vi è legata la convinzione diffusa che molte attività terapeutiche non possano essere praticate sulle donne dagli uomini, specie se si tratta di donne in condizioni di dipendenza patologica. Anche gli uomini vengono aiutati a lavorare per purificare i loro modelli patriarcali di dominazione, lavoro che esige il coinvolgimento dei propri cari e co32 E.

Mounier, Lettre à un jeune amie, in Oeuvres, cit., IV, p. 825.

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munque la presenza di una comunità nella quale sperimentare il valore e i limiti della propria presenza.

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Cura del fragile Strettamente connessa alla maternità è la cura della vita, che si manifesta nelle sue diverse forme come attitudine a nutrire, attraverso la placenta, ricca di tutto ciò che alimenta la sussistenza, all’allattamento, alle forme di procacciamento e distribuzione del cibo sino a quelle della protezione dell’altro, a lenire le ferite e alleviare la sofferenza nelle malattie, ad accompagnare i propri cari alla morte, nella fase terminale. La cura della vita, che si estende dal figlio partorito al prossimo, comporta l’azione educativa non sotto la forma della imposizione delle regole del comportamento, quanto della consegna di un mondo affidabile: accompagnamento (mothering), incoraggiamento, sguardo valorizzante, che sa dare fiducia e sostenere i passi incerti della crescita. La dimensione generativa della persona si prolunga così nel compito educativo, che trasmette la struttura conoscitiva del mondo attraverso il linguaggio (la lingua materna!). Una madre non ripete soltanto, come vuole una certa cattiva interpretazione femminista di Eco, ma rigenera il linguaggio per la sua creatura, lo ripropone in forma tutta sua, con un valore aggiunto rispetto al linguaggio ricevuto, perché esso diviene espressione della sua identità, della sua storia di vita, del rapporto empatico che sperimenta col figlio. Per lui/lei ogni madre riscrive la cultura. Anche per questo un certo femminismo pone l’accento sul linguaggio sino a volersene impadronire con un’azione di self-determination, ossia una delle pratiche legate ai movimenti liberatori, che acquista un aspetto fondamentalista, se incentrando il discorso della differenza sulla lingua rischia di divenire pedante e rifiutare il passato, buttando al mare il bambino con l’acqua sporca. Prendendosi cura dell’altro una donna sperimenta il suo essere dono e nello stesso tempo promuove il passaggio dalla condizione dell’essere “per sé” dell’individuo a quella dell’essere “con” e “per l’altro”. È forse più agevole di conseguenza acquisire in ogni relazione l’attitudine al sostegno, alla generazione e/o al rafforzamento di un legame. In senso allargato maternità è infatti prendersi cura dell’altro (I care) non per obbligo giuridico e lavorativo, ma dietro

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la spinta di una sollecitudine etica che dimostra l’estendersi del codice materno oltre i confini naturalisticamente segnati (maternage, Chiesa madre, ecc.) 33. Nel corpo della donna è inscritto il compito indispensabile alla prima sopravvivenza del neonato: l’allattamento, attraverso il quale il bimbo succhia un cibo impastato del corpo della madre assimilandone quasi l’essenza. È noto che sant’Agostino ha riconosciuto esplicitamente di aver succhiato la fede insieme al latte sin dalla primissima infanzia. Il latte materno ha suscitato un misterioso fascino nel corso della storia: è simbolo di qualità infinite, vere o presunte, di un’alimentazione naturale e completa, ricca e povera, giacché non occorrono grandi risorse per procurarselo. Il bimbo che succhia il latte al seno riceve, come augura il popolo, “sangue e latte”, divenendo ogni volta più consustanziale con la madre, la quale gli trasmette flussi di corrispondenza e impronte di memoria anteriori al linguaggio, attraverso il contatto corporeo, lo sguardo incantato, la parola e il gioco. A livello spirituale, il latte è simbolo di letizia e di appagamento nel rapporto dell’anima con Dio 34. Isaia, noto come «cantore insuperabile della maternità di Gerusalemme», usa la metafora del latte per esprimere le delizie dell’amore materno di Dio e scrive: «Prima di provare i dolori ha partorito […]. Chi mai ha udito una cosa simile, chi ha visto cose come queste? Nasce forse un paese in un giorno; un popolo è forse generato in un istante? […] Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa quanti la amate. Sfavillate di gioia con essa voi tutti che avete partecipato al suo lutto. Così succhierete al suo petto e vi sazierete delle sue consolazioni; succhierete, deliziandovi, all’abbondanza del suo seno […]. I suoi bimbi saranno portati in braccio, sulle ginocchia saranno accarezzati. Come una madre consola un figlio così io vi consolerò; in Gerusalemme sarete consolati. Voi lo vedrete e gioirà il vostro cuore» 35. 33 È questa sollecitudine che caratterizza per Ricoeur un’antropologia di tipo personalista, caratterizzata dal tripode etico: cura di sé, sollecitudine per l’altro, istituzioni giuste (cf. P. Ricoeur, Il tripode etico della persona, in A. Danese, Persona, comunità, istituzioni, ECP, Firenze 1994, pp. 66-72). 34 Le immagini del monte e del petto-mammella sono interscambiabili (A. Fanuli, La donna nell’Antico Testamento: alcune considerazioni esegetico-teologiche, in AA.VV., La donna nella Chiesa e nel mondo, Dehoniane, Bologna 1988, pp. 163-184, 173-174; Id., Il racconto Iahvista della formazione dell’uomo e il suo peccato, in A. Fanuli - A. Rolla, Il messaggio della salvezza, 3 voll., ElleDiCi, Leumann (To) 1987). 35 Is 66, 7-14.

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Nel mondo contemporaneo la maternità è da una parte umiliata tutte le volte che è oggetto di sfruttamento mercantile e oppressione, dall’altra esaltata in una sorta di maternità sociale allargata. La caring society, attraverso lo sviluppo delle reti sociali di base, della richiesta di adozioni, del volontariato 36, è infatti un’estensione del codice materno alla società tutta, risorsa indispensabile per far fronte al disagio sociale e all’anonimato delle masse, quando l’alter diviene alienus e l’io alienato 37. È infatti un bisogno vitale della persona, uomo e donna, vivere in contesti sociali vivificati da rapporti di reciprocità. Anche se la presa di cura caratterizza uomini e donne responsabili, è pur vero che la chiamata della donna a stare vicina a ciò che è fragile si fa sentire in modo più forte, sino a spingerla ad atti eroici di donazione. Lo attesta il famoso episodio di Salomone, indicativo dell’intuizione che il re ebbe della logica della maternità nel dirimere la contesa tra due donne, di cui ciascuna rivendicava per sé il bambino nato vivo e attribuiva all’altra quello nato morto. Egli chiese di dividere in due il bambino, perché sapeva che la madre vera avrebbe preferito l’alienazione della propria maternità, l’accusa di spergiuro, la condanna sociale e penale piuttosto che la morte del figlio. La cura della vita – che ha per corrispettivo maschile il dinamismo vitale – è in questo senso soprattutto amore, da intendersi anche oltre il sentimento, come approccio alla vita che impregna di sé ogni attività umana, compreso il pensiero; hanno intuito così i personalisti pensando al futuro della filosofia, al bivio tra nichilismo e rinnovamento: «Un pensiero che pone l’amore nel cuore del mondo, lo pone nel cuore della filosofia, e la filosofia, orientata da due secoli sulla produzione delle idee, ne deve essere profondamente rinnovata […]. Che sia offerto alla riflessione sull’amore uno sforzo altrettanto considerevole quanto quello che è stato dato alla riflessione sulla conoscenza e, a fortiori, a quello che si è rivolto all’invenzione tecnica» 38. 36 Angeloni dà la seguente definizione: «Caratteristica essenziale del volontario è, quindi, la spontaneità dell’impegno; requisito naturale, la gratuità del servizio; condizione necessaria, l’inserimento dell’attività personale dei volontari nella programmazione globale dell’aiuto allo sviluppo; fine supremo, il perseguimento di un alto ideale di solidarietà umana e sociale, che va oltre i ristretti confini del proprio Paese per abbracciare le sorti dell’umanità più bisognosa d’aiuto» (R. Angeloni, Lineamenti della nuova legislazione sulla cooperazione italiana allo sviluppo, Introduzione al testo di legge del 9/2/1979, n. 38). 37 Cf. E. Mounier, Le personnalisme, in Oeuvres, cit., III, p. 453. 38 E. Mounier, Feu la chrétientè, in Oeuvres, cit., III, pp. 593-594.

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Il lato debole di questo tratto sta nel ridurre l’amore e la cura a sentimentalismo, ad adempimento di compiti e servizi utili al buon vivere degli altri, nella cura pedissequa e materiale dei loro bisogni, nell’ossessione dell’altro sino ad annullare la propria vocazione, in una parola nell’amare troppo e male, vivendo una prodigalità non sapiente e alla fine insoddisfatta e ricattatoria.

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Quale trasgressione Se una certa mentalità maschilista ha attribuito all’uomo il carattere della trascendenza rispetto al dato (che sarebbe in contrasto con la difficoltà della donna di sollevarsi al di sopra della natura), è possibile vedere invece proprio nel corpo della donna il segno di una novità che rompe la consuetudine, rappresenta una trasgressione rispetto all’assestamento della vita: la nascita cambia la realtà per il sopraggiungere di un nuovo essere umano, di una prospettiva sul mondo che prima non esisteva. Ogni madre sperimenta la riorganizzazione del mondo tutto intorno al neonato. Poiché si verifica nel proprio corpo il parto non è mai una esperienza comune, anche se è avvenuto per miliardi di donne in tutti i tempi: è sempre l’irrompere di una novità trasgressiva, un evento straordinario, il miracolo di un essere umano, di un mistero incarnato che rompe con l’antico e permette di ricominciare la storia. Come il corpo della donna fa spazio in sé, così la donna fa spazio nel mondo, per consentire a questo essere umano che vi si affaccia di abitarlo il più degnamente possibile. Lei avverte il compito di rendergli vicina e familiare la realtà, rigenerando il mondo a sua misura per evitare che gli appaia ostile, a cominciare dal proprio corpo e dalla propria identità, per ristabilire di conseguenza nuove relazioni con tutto e tutti gli altri. In quanto portatrice per natura di questa trasgressione innovatrice, la femminilità dispone al miracolo che supera la normale concatenazione degli eventi. Concentrando le forze sull’essenziale, tutto il resto le appare meno importante (strutture sociali, politiche, giuridiche ed ecclesiali). Di fatto si riscontra nelle donne una più accentuata capacità di vivere dentro le strutture, in apparente subordinazione, e nello stesso tempo di oltrepassarle, come si vede nella disponibilità, qualora siano in gioco affetti e valori irrinunciabili, a trasgredirle, ossia ad agire in contrasto con ciò che è fissato nelle regole, nelle istituzioni, in tutto ciò che è sistematizzato e sistematizzabile.

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Il linguaggio del corpo femminile come paradigma etico

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La trasgressione dal punto di vista simbolico giunge a dare la vita quando sono in gioco legami interpersonali ritenuti sacri, come accade nel mito di Antigone, che subisce la sepoltura viva in una tomba per non aver rinunziato a seppellire il fratello morto, come aveva comandato lo zio Creonte. Antigone non può abbandonare suo fratello agli uccelli rapaci. Trasgredisce ed è perdente rispetto alle leggi, ma è vittoriosa dal punto di vista della storia, degli avi e degli dèi che l’attendono nell’al di là. Attraverso di lei, secondo la felice intuizione hegeliana, la femminilità sconfitta resta però presente nel consesso civile come «eterna ironia della comunità» 39. Antigone afferma la legge dell’amore che è anche linguaggio degli dèi. Preferisce infatti obbedire a Dio piuttosto che agli uomini. Analogicamente si può collegare a una prospettiva alta sulla femminilità il riconoscere che vi sono momenti in cui è necessario “odiare” il padre, la madre, i figli e la propria vita per affermare il primato di Dio, perché da Lui questi affetti possano tornare centuplicati, valorizzati e rinnovati, dopo essere stati lavati dal sangue dell’Agnello. Se il lato debole di questo tratto consiste nell’incapacità di fare i conti con l’oggettività, e quindi nella tendenza a rifugiarsi nel privato, vi si collega però anche quel necessario distacco dalle strutture che consente di adattarsi a vivere dentro di esse senza lasciarsene schiacciare, conservando per sé la possibilità di andare incontro alle persone al di là dell’involucro del loro status sociale. S. Weil riteneva che fosse una sua “vocazione” specifica quella di avvicinare le persone andando oltre le diverse situazioni politiche, ambientali, culturali: «Ho un fondamentale bisogno – credo di poter parlare di “vocazione” – di passare tra gli uomini e i diversi ambienti umani confondendomi con essi, assumendo lo stesso colore, fin là dove, almeno, la mia coscienza non vi si oppone, scomparendo fra loro, per far sì che si mostrino quali sono, senza mutare volto per me. Desidero conoscerli come sono, per amarli così come sono. Diversamente, infatti, non sarà loro che io amerò, e il mio amore non potrà essere vero» 40. Questo tratto vale infine per comprendere il diverso rapporto della donna con la fede, nella quale è meno orientata alle regole, alle istituzioni e più fortemente attenta al rapporto spirituale, affettivo

39 Cf. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, La Nuova Italia, Firenze 1970, II, p. 34. Su Antigone mi permetto di rimandare al mio lavoro Nostalgia di Antigone, Andromeda, Teramo 1998. 40 S. Weil, Attesa di Dio, Rusconi, Milano 1984, p. 25.

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Giulia Paola Di Nicola

e mistico con Dio. Entro un orizzonte escatologico, grazie alla capacità di vivere dentro e fuori le strutture istituzionali, di stare nella Chiesa visibile con l’anima rivolta a quella invisibile, si rende più comprensibile il compimento del sacerdozio regale degli uomini e delle donne in Dio e il coronamento della verità nella carità («più grande è la carità» 41).

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Il volto positivo del dolore Se si pensa alla sofferenza fisica dell’uomo come a un segno di decadenza e preannuncio di morte, nella donna c’è un segno particolare, nel parto, di una sofferenza fisica strettamente legata alla generazione e quindi alla dimensione positiva della gioia. Questo ha a che fare con la generatività che è un processo in atto già prima dei nove mesi previsti dalla gestazione e destinato a non concludersi sulla scena del parto, ma a svilupparsi sul piano ermeneutico simbolico a livelli di grande profondità umana e spirituale. La nascita comporta la lacerazione, la separazione. Il grido della madre e del bambino esprimono insieme la celebrazione della conclusione e del cominciamento, del dolore e del trionfo della vita sulla morte. Nel corpo della donna è impressa l’altra faccia del negativo, a testimonianza del legame inscindibile tra dolore e amore, sofferenza e gioia, morte e risurrezione. Soprattutto il momento del travaglio è il lavoro faticoso e doloroso che da una parte soggioga il corpo sopraffatto dal dolore e dall’altra apre alla fecondità. Non è possibile separare l’un aspetto dall’altro. Parallelamente in campo conoscitivo, il travaglio educa a valutare i processi come gli effetti, ossia a non puntare tanto sull’efficienza immediata delle azioni e sui suoi risultati oggettivi, quanto sugli obiettivi e le intenzioni, accettando con pazienza i tempi, i modi e i percorsi con cui sono perseguiti. I mezzi utilizzati divengono importanti quanto gli scopi, ben sapendo che gli obiettivi raggiunti con la violenza otterrebbero effetti boomerang. Se gli scopi possono essere perseguiti in modi differenti, è necessario rispettare le prospettive dei singoli attori nonché eventuali scacchi dell’azione, come momenti di un processo in cui ciascun contributo, fallimentare o vincente, contribuisce allo sviluppo dell’insieme. 41 1

Cor 13, 13 e MD, n. 30.

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Il linguaggio del corpo femminile come paradigma etico

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Il travaglio evoca anche la capacità di generare e rigenerare con fatica il mondo, la cultura, la lingua, nella trasmissione-ricreazione che la madre ne fa ai figli. Grazie a questa esperienza la madre ha una particolare attitudine per trasmettere la visione religiosa del mondo. Non consegna infatti solo baci e carezze, ma anche l’esperienza vivente di un amore comunicato anche senza parole e senza che il bambino possa prendere la sua parola. Attraverso il linguaggio dell’amore, che da Platone a Cristo è linguaggio divino, la madre è fonte di sintonie misteriose, di spiritualità e religiosità, indipendentemente dalle norme che più tardi ella stessa forse insegnerà al bambino, in ossequio alle tradizioni e alle culture differenti. Il suo stesso generare il figlio, nutrirlo e curarlo è premessa indispensabile perché la mente umana possa formarsi l’idea di un Dio Padre-Madre, di cui la mamma è icona privilegiata. Dio viene pensato come madre molto prima che possa essere chiamato padre. Nell’educazione una madre rivive il travaglio del parto a piccole dosi quotidiane. Rigenerare significa accogliere in ogni momento la differenza dell’altro, come pure, dal punto di vista culturale, rendere sempre più umane le strutture sociali e mentali della convivenza, immettendo flussi di vita nuova nel sociale. In chiave simbolica ogni attività generatrice è materna. Per questo è stato fatto un collegamento significativo tra maternità della donna e maternità del Cristo. Lo si può trovare già nell’episodio di Nicodemo, che domanda a Gesù: «Può forse un uomo entrare di nuovo nel grembo di sua madre e rinascere?». Per il maestro occorre realmente essere ripartoriti come uomini nuovi 42. Gesù stesso appare così metaforicamente come una madre che ri-genera e fa ri-nascere 43. Parimenti l’azione salvifica di Gesù nella croce è un atto ge-

42 Cf. Gv 3, 1-7. 43 Il Vecchio Testamento

è ricco di immagini di Dio come madre che nutre: in braccio a Dio l’anima sta tranquilla e serena come un bimbo svezzato (cf. Sal 131); Egli dà cibo ai piccoli del corvo che gridano a lui (cf. Sal 147, 9); sotto le sue ali si trova rifugio (cf. Sal 91, 4; 17, 8; 36, 8; 57, 2; 61, 5; 63, 8); è un’aquila che veglia la sua nidiata, vola sui suoi nati, li prende e li solleva sulle sue ali (cf. Dt 32, 11); la sua tenerezza è più fedele di quella di qualsiasi madre: «Sion ha detto: Il Signore mi ha dimenticato! Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?» (Is 49, 14-15). In Dt 32, 18 si trova un’immagine tipicamente femminile: «La Roccia che ti ha generato, tu hai trascurato; hai dimenticato il Dio che per te ha sofferto i dolori del parto». Gerusalemme è espressa molte volte con simboli materni, come il grembo che accoglie il Signore, la “tenda”, la “città” dove abita Dio, la “fonte” d’acqua viva (cf. Zc 14, 8; Is 33, 21; Is 12, 3; Sal 46, 5; Ap 22, 1).

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nerativo materno da cui scaturisce la Chiesa, nuova Eva. Il suo grido, il grido del parto della nuova creazione. Il parto allude a una dinamica divina, segno nella carne della donna di uno stile di vita intratrinitario e perciò modello di un’umanità che vive generando, di una Chiesa che continua a comportarsi da madre. Il dolore nel parto non ha l’ultima parola: è passaggio alla vita. Ricorda che ogni sofferenza contiene la promessa di una gioia più grande ed è premessa di infinite più illuminanti comprensioni del mistero dell’amore divino. Il corpo della donna diviene in quest’ottica segno particolare del mistero della vita che trionfa sulla morte. Non è certo un caso che l’annuncio della morte-risurrezione sia affidato innanzitutto a Maria Maddalena, grazie alla quale viene proposto alla fede della prima comunità. La corruzione di questo tratto consiste nel vittimismo, nell’accentuazione scomposta della propria sofferenza, ponendosi al centro dell’attenzione altrui, nella depressione e in tutte le forme di non accettazione della sofferenza che possono assumere aspetti patologici (bulimia, anoressia, depressione, suicidio o tentativo di suicidio). **** Ai tratti della femminilità qui proposti si collega bene l’antropologia personalista e comunitaria, dal momento che si tratta di caratteristiche valide in chiave etica per tutti, anche se sono più significativamente ricavabili dal corpo e dal vissuto delle donne. Non si tratta di risorse che producono effetti positivi automaticamente, non si tratta di un’identità idem, ma di un compito: sul piano etico e spirituale, ogni donna vive un processo di apprendimento della e dalla maternità, se impara a dare ascolto al muto linguaggio del suo corpo; ancor più l’uomo impara, vedendolo iscritto nel corpo della donna, che la persona è se stessa se si dona, se sa amare qualcuno soffrendo, se sa tirarsi indietro per fargli spazio, se sta nel rapporto con l’altro in quell’atteggiamento generativo materno che è fecondo di nuove realtà intersoggettive 44. Ciascuno dei due generi si co-educa con l’altro, apprende da sé e dall’altro i segreti della vita acquisendo attitudini umane più complete e mature.

44 «Occorre che io diminuisca perché egli cresca» dice Giovanni in rapporto a Gesù (Gv 3, 30).

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Corpo, donne, femminismo e religione

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Corpo, donne, femminismo e religione

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di

Emanuela Prinzivalli 1

Come studiosa del cristianesimo antico, offrirò alcuni spunti di riflessione su due dei poli sui quali verte il tema “corpo-religione”: prima il corpo e poi la donna, mostrando l’intersezione delle problematiche a riguardo. Seguirà una brevissima considerazione conclusiva. 1. La riflessione sul corpo nasce in ambito greco con Platone: il corpo dell’uomo vivo si palesa come unità quando si precisa l’idea di anima, donde il problema se debba essere considerato uomo l’insieme di anima e corpo, oppure soprattutto l’anima o soprattutto il corpo 2. La soluzione platonica, come è noto, vede nel corpo lo strumento dell’anima, nella quale risiede l’identità del soggetto 3. 2. Il cristianesimo sviluppa una fortissima rivalutazione ontologica del corpo, grazie alla dottrina della risurrezione, ereditata dal giudaismo farisaico 4, che costituì, anche a livello popolare, il momento di maggior frizione e incomprensione del messaggio evangelico con la cultura circostante: Paolo, nel discorso ai gentili emblematicamente sceneggiato da Luca sull’Areopago (cf. At 17, 31-32), viene interrotto proprio quando inizia a parlare della risurrezione. A distanza di un secolo circa il pagano Celso, di tendenza platonica 5, continua a dimostrare rifiuto intellettuale e disgusto emozionale verso tale dottrina: 1 Il testo non è stato modificato rispetto a quello presentato alla Tavola rotonda, e mantiene quindi un andamento discorsivo e un apparato di note ridotto al minimo. 2 Emblematica la formulazione dell’Alcibiade maggiore, 129-131. 3 Si veda in proposito F. Sarri, Socrate e la nascita del concetto occidentale di anima, Milano 1997. 4 La credenza emerge nel giudaismo del Secondo Tempio (cf. Dn 12, 1-3 e 2 Mac 7), e nel caso dei farisei diventa un elemento di autodefinizione: C. Setzer, Resurrection of the Body in Early Judaism and Early Christianity. Doctrine, Community and Self Definition, Boston-Leiden 2004, pp. 21-36. 5 Quasi tutta l’opera di Celso, il Discorso vero contro i cristiani, è conservata da Origene nella sua confutazione, il Contro Celso. Nel testo riporto C. Cels. V, 14, nella traduzione di A. Colonna.

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Emanuela Prinzivalli

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«Un’altra stoltezza di costoro è credere che quando Dio abbia destato le fiamme, a guisa di un cuoco, tutto il resto del genere umano perirà tra le fiamme, ed essi soli invece rimarranno salvi, non solo quelli che allora vivranno, ma anche quelli morti prima in un tempo qualsiasi, i quali risorgeranno dalla terra con lo stesso corpo che avevano una volta. Speranza degna semplicemente dei vermi! Infatti quale anima umana potrebbe desiderare ancora un corpo putrefatto? Il fatto che questa dottrina non è condivisa da taluni, fra voi (giudei) e fra i cristiani, mostra quanto sia enormemente empia, ripugnante e assurda: difatti qual corpo completamente imputridito è capace di ritornare alla natura primitiva, e alla condizione originaria che aveva prima di dissolversi?».

La testimonianza di Celso circa la ripulsa anche di taluni cristiani verso l’idea di una risurrezione del corpo è interessante, perché ci dice che la rivalutazione ontologica, di cui abbiamo detto, non è disgiunta da una intensa problematizzazione, causata dall’influsso del platonismo, che agisce a vari livelli fra i cristiani: come semplice scetticismo, come rafforzamento delle tendenze gnostiche, o come ricerca di una formulazione del dogma che insista piuttosto sulla trasformazione gloriosa del corpo 6. A un certo punto la riflessione metterà a tema anche il problema dell’eventuale risurrezione del corpo sessuato 7. 3. Un altro aspetto del cristianesimo delle origini concorre alla valorizzazione del corpo: l’esortazione alla continenza. In Paolo leggiamo: «Il corpo non è per la fornicazione, ma per il Signore […]. Fuggite la fornicazione. Qualunque altro peccato l’uomo commetta è fuori del suo corpo, ma colui che commette fornicazione pecca contro il proprio corpo. Voi sapete bene che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo, che è in voi e che ricevete da Dio» (1 Cor 6, 12-19). Vero è che l’esaltazione della continenza può essere collegata, oltre che a un’intensa attesa escatologica, che destituisce di valore le realtà transeunti, come avviene in Paolo, a un atteggiamento francamente anticosmico, in base al quale la procreazione e l’esercizio della sessualità sarebbero una violazione del primo disegno di 6 Sulla risurrezione mi permetto di rinviare a un mio contributo nel volume 44 dal titolo Morte e resurrezione, di prossima pubblicazione nella serie Dizionario di spiritualità biblico-patristica della casa editrice Borla. 7 Debbo ancora rinviare a un mio contributo: E. Prinzivalli, Early Christian Anthropology: Gender Models in Creation and Resurrection, in K.E. Børresen, (ed.), Christian and Islamic Gender Models, Roma 2004, pp. 45-65.

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Corpo, donne, femminismo e religione

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Dio sull’uomo: in entrambi i casi, comunque, ciò che l’uomo e la donna fanno del loro corpo è estremamente importante 8. 4. Il cristianesimo è provvisto di un testo sacro. Il fondamento dell’antropologia cristiana si trova nei capp. 1-3 di Genesi, che vengono discussi e interpretati con consapevolezza teorica a partire dal II secolo, nel momento in cui il cristianesimo si distacca in modo definitivo dal giudaismo e si presenta al mondo circostante come una religione autonoma. In Gn 1, 26-27 e 2, 7ss. abbiamo i due racconti sulla creazione dell’essere umano, rispettivamente di Adam (collettivo per la specie) o di ha-Adam (specifico per un individuo maschio). In entrambi i casi l’uomo viene rappresentato come un’entità unitaria, non essendoci in Genesi contrapposizione di corpo e anima: il soffio di vita trasmesso da Dio in Gn 2 è l’animazione. Il significato dell’essere a dell’immagine di Gn 1, 27 rimane non definito, o perlomeno di non immediata decifrazione per i successivi interpreti, ed è su questo punto che verteranno le dispute. L’influsso platonico, come problematizza a livello escatologico la fede nella risurrezione, così porterà alla contrapposizione a livello protologico dei due racconti di Genesi 9, vedendo nel primo la creazione dell’anima, la sola componente dell’uomo che è a immagine di Dio, nel secondo la creazione del corpo 10. Passiamo adesso alla donna: 1. A prescindere dagli spazi maggiori che le donne avevano avuto nelle prime comunità cristiane, come risulta dalle fonti più antiche, spazi che progressivamente si ridussero per l’omologazione alla società patriarcale dell’epoca, a livello di riflessione teorica, il cristianesimo, in consonanza con tutto il pensiero antico, assume come assiomatica la sua inferiorità rispetto al maschio: la donna è più debo-

8 Sull’encratismo cf. il fondamentale volume G. Sfameni Gasparro, Enkrateia e antropologia. Le motivazioni protologiche della continenza e della verginità nel cristianesimo dei primi secoli e nello gnosticismo (Studia Ephemeridis Augustinianum 20), Roma 1984. In generale sul rapporto fra cristianesimo e corporeità sempre stimolante è il volume di P. Brown, Il corpo e la società. Uomini, donne e astinenza sessuale nel primo cristianesimo, Torino 1988. 9 La cui redazione originaria in effetti risale ad autori e a epoche diverse, e fu successivamente assemblata dal redattore di Genesi, come la moderna filologia biblica ha da tempo riconosciuto, ma di cui gli antichi non avevano idea. 10 Per una rapida ma efficace sintesi sull’argomento: G. Visonà, L’uomo a immagine di Dio. L’interpretazione di Genesi 1, 26 nel pensiero cristiano dei primi tre secoli, in «Studia Patavina», 27 (1980), pp. 393-430.

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Emanuela Prinzivalli

le fisicamente e psichicamente. Essa viene definita per devianza e negazione rispetto al paradigma rappresentato dall’uomo. Tuttavia nella tradizione cristiana, come nella radice ebraica, agisce e si radicalizza anzi, quale centrale istanza religiosa, lo schema del rovesciamento: il messia si manifesta nella debolezza, il primogenito viene soppiantato, l’umile esaltato. Dio dà forza ai deboli, quindi alle donne, alle martiri, nelle quali rivive il martirio di Cristo. Ciò rappresenta almeno una potenziale apertura a prospettive diverse per la donna. Vorrei segnalare, a mo’ di esempio, un solo testo. Ireneo di Lione (II secolo) – se egli è l’autore della Lettera sui martiri di Lione, ma in ogni caso il testo promana dal suo ambiente –, in quanto rappresentante di un cristianesimo ancora entusiasta, fornisce una straordinaria descrizione della martire Blandina, capace di mettere in crisi uno degli argomenti che attualmente sorreggono la preclusione cattolica al sacerdozio femminile, quello cosiddetto dell’in persona Christi, cioè l’impossibilità della donna di rappresentare, in quanto femmina, a livello simbolico Cristo-maschio nella messa (a dire il vero non riproposto da ultimo dall’attuale pontefice che si attesta piuttosto sull’argomento storico). Così dice la Lettera: «Blandina, dal canto suo, fu sospesa a una traversa e così offerta in selvaggio pasto alle fiere che le saltavano addosso. La sua figura sospesa sembrava, allo sguardo, avere forma di croce ed ella inoltre, con il suo pregare vibrante, ispirava grande esaltazione nei compagni di martirio che durante l’agone scorgevano, anche con gli occhi del corpo, nella figura della consorella, quella di colui che per loro era stato crocifisso» 11. 2. Gn 1 e Gn 2 sono testi di riferimento, ovviamente, anche quando si parla della donna. Ma mentre in Gn 2 l’uomo e la donna sono creati in modi diversi e in tempi diversi, il discorso è più complesso per Gn 1, 26-27, dove l’Adam generico è unico ed è maschio e femmina. Se il testo di Gn 2, che viene ricondotto all’autore jahwista, legittima facilmente, anche se non la esplicita, la subordinazione femminile, perché la donna è creata dopo l’uomo e come suo aiuto, il primo testo, ricondotto all’autore sacerdotale, è più aperto a diverse interpretazioni. È interessante notare come i teologi cristiani antichi, che sostengono una visione unitaria dell’essere umano, escludano la donna dall’immagine a livello protologico, a causa della sua complessiva inferiorità – è la posizione che si intravede già in Paolo, 11 Mart. Lugdun. I, 41, in A.A.R. Bastiaensen et alii (edd.), Atti e passioni dei Martiri, Milano 1987, p. 82. Il corsivo nel testo è mio.

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Corpo, donne, femminismo e religione

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1 Cor 11, e che viene sviluppata dagli antiocheni – mentre i teologi cristiani influenzati dal platonismo, i quali collocano l’immagine di Dio a livello dell’anima asessuata, possono includere la donna nell’immagine 12. 3. Quando, dopo l’entusiasmo dei primi tempi, le comunità cristiane si organizzarono secondo una gerarchizzazione patriarcale, sul piano pratico l’esaltazione della continenza permise alla donna di conservare margini di libertà e di autonomia. Abbiamo detto sopra che la tendenza encratica ha due versanti, uno ortodosso, in cui l’esaltazione della continenza si risolve nella pratica ascetica, e uno eterodosso, in cui si somma con un rifiuto generalizzato delle nozze e quindi dell’intero assetto cosmico. In entrambi i casi, sia nella grande chiesa sia nei gruppi marginali eterodossi, la continenza risulta funzionale a un miglioramento della condizione della donna, perché le fornisce la possibilità di sottrarsi all’identificazione esclusiva del suo ruolo con l’attività riproduttiva. Qui dobbiamo fare uno sforzo per calarci, noi donne e uomini occidentali del nuovo millennio, in una mentalità che solo da poco più di un cinquantennio è cambiata, grazie anche alle scoperte della medicina che hanno consentito alla donna il controllo della propria capacità riproduttiva, e quindi hanno reso, almeno potenzialmente, la procreazione una libera scelta di donazione. Matrimonio e riproduzione, sempre collegati in precedenza, non erano invece materia di libera opzione per le donne antiche (ma la situazione si prolunga fino all’età moderna): la scelta del monastero, quando ovviamente non fosse forzata, rappresentava allora uno spazio di libertà personale recuperato. Non è un caso che fino alle soglie dell’età moderna le donne poetesse e scrittrici sono state in massima parte, se non esclusivamente, monache o figure assimilabili (cito in modo del tutto casuale solo alcuni nomi: Egeria, Roswita, Ildegarda di Bingen, Giuliana di Norwich, Juana Inés de la Cruz, ecc.). L’attuale situazione mostra ancora in Occidente 13 tracce di sofferenza per un mutamento tutto sommato impensabilmente rapido rispetto a un percorso di storia plurimillenario. La rivoluzione dei modelli antropologici nel mondo contemporaneo è stata più o meno 12 Su ciò cf. K.E. Børresen, Immagine di Dio, immagine dell’uomo? L’interpretazione patristica di Genesi 1, 27 e di 1 Corinzi 2, 7, in Id. (ed.), A immagine di Dio. Modelli di genere nella tradizione giudaica e cristiana, Roma 2001, pp. 163-188. 13 È evidente che il mio discorso è limitato all’Occidente: la riflessione per le altre aree geografiche richiederebbe ben altro spazio e competenze ben più ampie.

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Emanuela Prinzivalli

volentieri accolta nelle varie confessioni cristiane. La situazione della Chiesa cattolica è particolarmente problematica. Da un lato essa ha mostrato di condividere i recenti presupposti antropologici di uguaglianza fra maschio e femmina, parimenti teomorfi nel loro essere persona 14, con superamento allo stesso tempo dell’uguaglianza asessuata basata sul dualismo platonico antropologico e della disuguaglianza dell’antica antropologia unitiva – come avviene nella lettera apostolica Mulieris dignitatem, che effettua un’operazione di chirurgia ermeneutica sul testo di Ef 5 a riguardo –, ma dall’altro non ne accetta le conseguenze a livello cultuale 15. Il risultato è un interessante quanto, almeno a parere di chi scrive, problematico uso di alcune categorie del pensiero della differenza 16 per riproporre una diversa finalità e destinazione dell’apporto femminile, considerato imprescindibile nella Chiesa attuale.

14 Mi preme sottolineare che gli attuali sviluppi hanno la loro scaturigine dagli spunti innegabilmente forniti dal pensiero cristiano e biblico. 15 Su ciò cf. K.E. Børresen, Cristianesimo e diritti delle donne: l’«impedimentum sexus», in D. Corsi (ed.), Donne cristiane e sacerdozio. Dalle origini all’età contemporanea, Roma 2004, pp. 261-271. 16 Cf. i punti 6 e 17 della recente Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica sulla collaborazione dell'uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo.

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Il corpo nella religiosità carismatica cattolica

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Il corpo nella religiosità carismatica cattolica di

Verónica Roldán

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Introduzione Sin dai suoi inizi la riflessione sociologica ha riservato una particolare attenzione al corpo, per il suo essere un elemento fondamentale nella costruzione dell’identità e per avere un ruolo primario nel rapporto tra il sé e gli altri, tra l’impegno personale dell’individuo e le norme e i valori della comunità di appartenenza. Infatti, il corpo è chiamato in causa per la sua innegabile centralità nella comunicazione intersoggettiva e nella sociabilità. Già Emile Durkheim, nella sua opera sulla divisione del lavoro sociale 1, vedeva nel corpo un elemento indispensabile della vita comunitaria, presente nello spazio sociale e nei rapporti tra gli individui. Questa concezione prenderà più forza ne Le forme elementari della vita religiosa, in cui il sociologo francese ne segnala il carattere basilare nell’esperienza di socializzazione e di vita comunitaria che ogni individuo sperimenta anche attraverso il proprio corpo 2. Oggi, i vari approcci sociologici contemporanei – in particolare quello strutturalista, interazionista e fenomenologico – rilevano nel corpo un indicatore di differenziazione sociale e sessuale, d’educazione morale, d’appartenenza economicosociale, di status, di canoni estetici e di criteri di bellezza 3. Nel presente saggio, si vuole analizzare – a partire da una ricerca empirica – il ruolo del corpo nell’ambito del movimento carismatico cattolico. Si tratta di un tipo di religiosità caratterizzato da forti elementi emozionali e da un marcato utilizzo del corpo nella sua ritualità e interazione comunitaria. 1 Cf. E. Durkheim, De la division du travail social: étude sur l’organisation des sociétés supérieures, 1893 (tr. it., La divisione del lavoro sociale, Comunità, Milano 1962). 2 Cf. E. Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse. Le système totémique en Australie, Alcan, Paris 1912 (tr. it. di E. Navarra, Le forme elementari della vita religiosa. Il sistema totemico in Australia, Newton Compton Italiana, Roma 1973). 3 Cf. P. Duret - P. Roussel, Il corpo e le sue sociologie, collana Modernità e Società, Armando Editore, Roma 2006.

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Verónica Roldán

In altre sedi si è analizzato complessivamente il tipo di religiosità proposto dal Rinnovamento carismatico cattolico (RCC), ora si vogliono prendere in esame gli aspetti intimamente relazionati al tema del corpo, cioè quegli elementi presenti nella credenza, nella pratica, nell’esperienza e nell’appartenenza religiosa, che mettono in evidenza il significato della corporeità nel vissuto religioso in un’ottica positiva in cui l’uomo con la sua concretezza esistenziale e ontologica è protagonista di un rapporto più intimo e sensibile con il divino e con il suo prossimo. L’obiettivo finale sarà riflettere sul corpo in relazione alle teorie sul rapporto corpo-religione-modernità, soprattutto a partire dalle tesi che vedevano il corpo penalizzato dai processi di razionalizzazione, di individualizzazione e di privatizzazione, con la conseguente trasformazione del corpo da soggetto a oggetto (per esempio, di consumo).

Il pentecostalismo. Una breve introduzione storica Approfondire la conoscenza sulle origini pentecostali del Rinnovamento carismatico cattolico pare un passo obbligato, poiché esse hanno avuto un’importante incidenza nei lineamenti teologico-simbolici del movimento e anche nella sua ritualità. La nascita del pentecostalismo in ambito protestante è legata al ministro metodista Charles F. Parham, originario di Muscatine nell’Iowa, che nel 1895 sostenne la tesi secondo la quale occorreva lottare contro le denominazioni protestanti ufficialmente esistenti e costituire nuove comunità cristiane indipendenti, mantenendo solo tenui legami con le altre comunità. In base al libro degli Atti e alle Lettere dell’apostolo Paolo, Parham decise di fare qualcosa per la sua vita religiosa, poiché vedeva la debolezza del suo ministero se paragonata alla potenza divina ivi riflessa. Il suo interesse era riferito alle conversioni, ai miracoli, alle guarigioni miracolose, tutti elementi che, messi a confronto con le esperienze vissute dai primi cristiani, la sua Chiesa non mostrava di possedere. Nell’ottobre del 1900 Parham decise di aprire una Scuola Biblica della quale egli stesso sarebbe stato direttore e studente. Il pastore trovò un edificio a Topeka, nel Kansas, e invitò chiunque volesse unirsi a lui nello studio del Nuovo Testamento. Alla Bethel Bible School 4 si presentarono quaranta stu4 Chiamata anche Bethel Healing Home (Casa di cura di Betel); cf. D. Gelpi, Pentecostalismo americano, in «Concilium», 9 (1973), p. 123.

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denti. Lo studio della Bibbia cercava di risolvere gli interrogativi che preoccupavano Parham e i suoi discepoli: l’esperienza di un incontro con lo Spirito Santo, come nel Nuovo Testamento e negli Atti degli Apostoli, e in particolare i segni concreti di quell’incontro. Essi, in base a uno studio comparato delle cinque descrizioni del battesimo nello Spirito Santo contenute negli Atti, trovarono come fattore costante il curioso fenomeno chiamato “parlare in lingue”, prima, e “l’imposizione delle mani”, poi. Nella Bibbia, nel passaggio che si riferisce alla Pentecoste, quando Maria, la madre di Gesù, e gli apostoli sono riuniti in preghiera, si parla dell’effusione dello Spirito Santo in questi termini: «Quando il giorno della Pentecoste giunse, tutti erano insieme nello stesso luogo. Improvvisamente si fece dal cielo un suono come di vento impetuoso che soffia, e riempì tutta la casa dov’essi erano seduti. Apparvero loro delle lingue come di fuoco che si dividevano e se ne posò una su ciascuno di loro. Tutti furono riempiti di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, come lo Spirito dava loro di esprimersi» (At 2, 1-4). Alla scuola di Topeka, una giovane studentessa, Agnes Ozman, chiese a Parham di pregare su di lei attraverso l’imposizione delle mani. In quel momento la signorina Ozman ricevette il Battesimo nello Spirito Santo e dalle sue labbra uscirono dei vocaboli incomprensibili. Il “parlare in lingue” venne riconosciuto come prova iniziale del Battesimo nello Spirito Santo. Questo episodio è datato tra il 31 dicembre 1900 e il 1º gennaio 1901. Le origini del pentecostalismo sono tuttavia legate a tre episodi, tre revival, che ne segnano l’inizio permettendo al movimento di acquisire in pochi anni una notevole risonanza internazionale: il primo – appena segnalato – a Topeka, Kansas, nel 1901; il secondo ad Azusa Street, Los Angeles, nel 1906; il terzo nel Galles, tra il 1904-1908 5. È opportuno evidenziare, inoltre, che alle origini della corrente protestante denominata “pentecostalismo” vi sono quattro radici remote e due prossime: tra le prime il “battesimo nello Spirito Santo”, le guarigioni, il “pre-millenarismo” e l’oralità; tra le radici prossime l’“anti-denominazionalismo” e la “glossolalia”, chiamata anche “dono delle lingue”. 5 Cf. F.A. Bruner, The Theology of the Holy Spirit, Grand Rapids 1970; D. Gelpi, Pentecostalismo americano, cit.; M. Introvigne - P. Zoccatelli - N. Ippolito Macrina - V. Roldán, Enciclopedia delle Religioni in Italia, ElleDiCi, Leumann (To) 2001.

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Il primo aspetto, il battesimo nello Spirito Santo, collega immediatamente il pentecostalismo con il movimento holiness. La seconda radice consiste nell’interesse per le guarigioni e per altri segni della presenza dello Spirito Santo (profezie, estasi, ecc.). È nel Settecento e nell’Ottocento che un rinnovato interesse per le guarigioni e per i miracoli si manifesta nei grandi movimenti di risveglio. In ambiente holiness le posizioni a proposito sono piuttosto diverse, ma l’interesse popolare per le guarigioni e i fenomeni estatici è molto forte. La terza radice remota è il “pre-millenarismo”, vale a dire la credenza secondo la quale Gesù Cristo ritornerà sulla terra – in mezzo a catastrofi apocalittiche, causate dalla malvagità degli uomini – per inaugurare un regno di mille anni “precedente” il Giudizio Universale. Nella seconda parte dell’Ottocento, il premillenarismo ha un enorme successo all’interno delle diverse correnti storiche del protestantesimo, anche se incontra particolari resistenze in un settore dello stesso movimento holiness. La quarta radice del pentecostalismo è costituita dalla religiosità afro-americana. In effetti, gli afro-americani avevano aderito a una grande varietà di denominazioni protestanti e ne avevano create di proprie. La loro spiritualità era caratterizzata soprattutto dall’oralità, da modi espressivi che si affidavano alla predicazione, alle tradizioni orali, al canto, alla danza, al corpo più che alla parola scritta. L’attenzione a modi espressivi che prescindono dalla parola scritta e dalla teologia spiega poi il successo del pentecostalismo nel mondo contemporaneo (dove i media confinano nuovamente lo scritto in una dimensione subordinata) e anche nei paesi del Terzo Mondo, dove l’oralità è ancora molto diffusa. Infine vi sono le due radici prossime, l’“anti-denominazionalismo” e l’interesse per la glossolalia. Riguardo alla prima si può segnalare la consapevolezza fra i pentecostali che molte correnti protestanti precedenti erano nate per costituire qualcosa di diverso dalle denominazioni esistenti, ma con il trascorrere del tempo anch’esse si sono istituzionalizzate diventando a loro volta delle denominazioni. Negli anni Ottanta del secolo XIX, in particolare nelle Chiese metodiste, si sviluppa un movimento di “uscita” (come-outism) per evitare la fondazione di nuove denominazioni. Molti gruppi vogliono appartenere a una singola congregazione locale (chiamata spesso semplicemente “Chiesa di Dio”) e costituire semplici network con altre comunità locali dello stesso orientamento, senza però dotarsi di specifiche strutture.

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La seconda radice prossima del pentecostalismo è l’interesse per la “glossolalia”, ovverosia per l’esperienza religiosa che si fonda sull’emettere suoni o parole che non corrispondono a nessuna lingua conosciuta. Benché entrambi i fenomeni siano definiti “parlare in lingue”, la glossolalia non deve essere confusa con la “xenoglossia”, che consiste nell’esprimersi correttamente in una delle lingue umane conosciute, però sconosciuta a chi inizia a parlarla 6.

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1. Il pentecostalismo cattolico Il pentecostalismo cattolico, oggi chiamato Rinnovamento carismatico cattolico, è il frutto di un’innovazione audace che deve la sua ispirazione iniziale al movimento di origine protestante di maggior sviluppo tra quelli cristiani, il pentecostalismo 7. Il termine “rinnovamento carismatico” racchiude in sé la diffusione di temi tipici del pentecostalismo (la glossolalia e la guarigione, fra le altre manifestazioni dello Spirito, insieme a una teologia del battesimo nello Spirito Santo) in chiese o comunità cristiane al di fuori delle denominazioni pentecostali. Tra queste ultime si possono citare le Assemblee di Dio inglesi, le Chiese episcopaliane, quelle presbiteriane e più tardi luterane. Le riunioni tenute in questi ambiti sono chiamate “carismatiche” e non “pentecostali”, perché il pentecostalismo era inizialmente ritenuto sinonimo di fanatismo, se non di eresia. Nei primi anni Sessanta del secolo XX la pratica della glossolalia e il battesimo nello Spirito Santo sono adottate dalle maggiori denominazioni degli Stati Uniti e del Canada; alle Chiese già menzionate si aggiungono nel frattempo i metodisti, i mennoniti e i battisti, non senza opposizione da parte della maggioranza delle denominazioni protestanti, che negli anni Settanta cercano di accoglierlo, di organizzarlo e di gestirlo tramite appositi comitati nazionali. In quegli anni il movimento carismatico da fenomeno americano diviene fenomeno

6 Cf. M. Introvigne (ed.), La sfida pentecostale, ElleDiCi, Leumann (To) 1996; Id., I Protestanti, collana Religioni e Movimenti, ElleDiCi, Leumann (To) 1998; M. Introvigne - P. Zoccatelli - N. Ippolito Macrina - V. Roldán, Enciclopedia delle Religioni in Italia, cit. 7 Cf. R. Laurentin, Movimento carismatico nella Chiesa cattolica. Rischi e avvenire, Queriniana, Brescia 1976; Id., Il rinnovamento carismatico: rinnovamento profetico o neo-consevatorismo?, in «Concilium», 1 (1981), pp. 60-73; E. Pace, I movimenti religiosi nelle società contemporanee, in «Quaderni di sociologia», 2 (1992), pp. 39-54.

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mondiale, penetrando anche in Gran Bretagna fra gli anglicani; tuttavia il fattore che dà una svolta decisiva al successo del movimento carismatico mondiale è collegato con la nascita di un movimento analogo in ambito cattolico, il Rinnovamento carismatico cattolico 8. Nel 1967 Ralph Keifer e Patrick Bourgeois, assistenti del dipartimento di teologia dell’Università Duquesne di Pittsburg, in Pensylvania (università cattolica fondata dai Padri dello Spirito Santo), che frequentano il movimento ecclesiale dei Cursillos de Cristiandad, recepiscono l’ondata critica sollevata negli Stati Uniti da Giovanni XXIII e dal Concilio Vaticano II maturando la conclusione della necessità di un maggior impegno nella loro religiosità per fortificare la propria fede. Avendo letto del materiale sul movimento carismatico e interessandosi ai doni dello Spirito Santo, partecipano a riunioni inter-denominazionali sia in ambito presbiteriano che pentecostale, accettando che si preghi su di loro per una nuova effusione dello Spirito Santo, che si manifesta con il carisma del canto in lingue. Successivamente, in un congresso di Cursillos i due professori dell’Università di Duquesne incontrano Ralph Martin e Stephen Clark. Quest’ultimo ha appena finito di leggere un libro che lo ha entusiasmato e sconcertato allo stesso tempo, La croce e il pugnale di David Wilkerson 9: è l’autobiografia di un pastore che lascia una tranquilla vita parrocchiale di paese per una rischiosa esperienza fra la malavita e i drogati di Brooklyn, a New York. Negli ultimi capitoli del libro Wilkerson spiega il senso di quell’esperienza: «Lo Spirito Santo è la risposta» 10. Dopo due mesi Keifer “scopre” un altro libro che parla dell’esperienza pentecostale: Essi parlano in altre lingue, di John Sherrill 11, in cui vengono esposte le vie e i metodi per accedere all’esperienza dello Spirito Santo. Questi due “libri-chiave” che parlano della potenza dello Spirito Santo sono “la base” della preghiera e delle discussioni. Queste letture saranno suggerite successivamente agli studenti prima del ritiro, organizzato dal 17 al 19 febbraio 1967: una trentina di ragazzi della Duquesne University

8 Cf. M. Introvigne - P. Zoccatelli - N. Ippolito Macrina - V. Roldán, Enciclopedia delle Religioni in Italia, cit. 9 Cf. D. Wilkerson, The Cross and the Switchblade, Chosen Books Old Tappan, New Jersey 19746 (tr. it., La Croce e il Pugnale, Editrice Uomini Nuovi, Marchirolo [Varese] 1994). 10 Cf. ibid. 11 Cf. J. Sherrill, They Speak with Other Tongues, McGraw Hill, Nueva York, 1964 (tr. it., Essi parlano in altre lingue, Editrice Uomini Nuovi, Marchirolo [Varese] 1994).

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di Pittsburg sperimentarono per la prima volta e in modo spontaneo il battesimo nello Spirito Santo e la glossolalia, dando origine all’odierno Rinnovamento carismatico cattolico. In ambiente carismatico quell’episodio iniziale è comunemente conosciuto come “il fine settimana di Duquesne” 12.

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Il corpo nella religiosità carismatica La presente riflessione sul rapporto corpo-religione nell’ambito della religiosità carismatica si inserisce in un più ampio studio su questo movimento, condotto a Buenos Aires e a Roma. La ricerca è stata realizzata negli ultimi anni del secolo appena scorso e aggiornata recentemente. L’indagine empirica ha comportato la raccolta di 40 interviste in profondità a dirigenti, sacerdoti, membri ed ex-membri del movimento, effettuate in Italia; e di 46 interviste realizzate in Argentina, insieme a circa 200 ore di osservazione partecipante nei due paesi. L’obiettivo principale è stato l’analisi delle principali dimensioni della religiosità carismatica: la credenza, l’esperienza, la pratica, l’appartenenza religiosa. Sono state prese in considerazione altresì le origini storiche, la struttura organizzativa e gerarchica del movimento, il rapporto con le strutture istituzionali (con la Conferenza Episcopale Italiana, con quella argentina, con il Vaticano), le caratteristiche socio-politiche dei membri e, per ultimo, la loro percezione della religione, della politica, della modernità e dei valori. 12 La produzione bibliografica sulle origini storiche del movimento carismatico cattolico è vasta; tra i testi più significativi si possono citare: P. Gallagher Mansfield, Come da una nuova Pentecoste: lo straordinario inizio del Rinnovamento Carismatico Cattolico, tr. it., Ancora, Milano 1993; C.S. O’Connor, The pentecostal movement in the catholic church, Ave Maria Press, Notre Dame (Indiana) 1971; K. Ranaghan, Il ritorno dello Spirito. Storia e significati del movimento pentecostale, Jaca Book, Milano 1978; F.A. Sullivan, The pentecostal Movement, in «Gregorianum», 53 (1972), pp. 237-265; J. Massingberd Ford, Il movimento pentecostale cattolico, in «Concilium», 9 (1972), pp. 115122; M. Panciera, Sono un milione i carismatici cattolici, in «Regno-Attualità», 12 (1975), pp. 278-287; Id., Il Rinnovamento nello Spirito in Italia, RnS, Roma 1992; R. Laurentin, Movimento carismatico nella Chiesa cattolica. Rischi e avvenire, cit.; Id., Il rinnovamento carismatico: rinnovamento profetico o neo-consevatorismo?, cit.; A. Barruffo, Il Rinnovamento carismatico: una esperienza di preghiera, in «Rassegna di Teologia», 1 (1975), pp. 37-52; E. Zoffoli, Carismi e Carismatici nella Chiesa, Dehoniane, Roma 1991; D. Foglio, Il vero volto del Rinnovamento nello Spirito in Italia. “Alla luce di un’indagine”, voll. I e II, Edizioni del Moretto, Brescia 1981; Id., Il vero volto del Rinnovamento nello Spirito in Italia, vol. II, Edizioni del Moretto, Brescia 1988.

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In altre sedi sono stati presentati i risultati di quella ricerca comparativa 13. In questa sede saranno esaminati gli elementi direttamente connessi al tema del corpo e, quindi, dell’effusione dello Spirito Santo e dei suoi doni e carismi; la concezione del miracolo e della guarigione; la pratica religiosa, in particolare la partecipazione alla messa e alla preghiera comunitaria; i rapporti intersoggettivi all’interno del gruppo d’appartenenza; le conseguenze e i cambiamenti personali a partire da questa esperienza; infine, il significato dell’appartenenza al Rinnovamento cattolico.

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1. L’effusione dello Spirito Santo e le sue manifestazioni I carismatici cattolici si riconoscono nei documenti del Concilio Vaticano II e nei successivi insegnamenti del Magistero, sostenendo che alla Cristologia proposta dal Concilio segue un nuovo culto relativo alla figura dello Spirito Santo, un culto non praticato in gran parte degli ambienti cattolici. Anche se i responsabili, sia laici che religiosi, oggi insistono nel chiarire che il Rinnovamento riconosce il carattere trinitario del rapporto con Dio, la riscoperta della terza figura della Trinità, lo Spirito Santo, è l’elemento centrale della sua religiosità. Sin dagli inizi, nel 1967, fu proprio invocando lo Spirito Santo per una nuova effusione che i primi professori dell’Università Cattolica di Pittsburg presero contatto con i gruppi pentecostali protestanti. Ed è anche l’effusione dello Spirito, che sperimentano gli studenti nel “fine settimana di Duquesne”, a costituire l’esperienza fondante di questo movimento religioso. L’effusione dello Spirito Santo in ambiente carismatico implica prima di tutto l’esperienza della Pentecoste, ovvero l’azione potente dello Spirito nell’intimità di chi la riceve; è il contatto diretto, reale – e corporale –, sostengono i membri, che la persona ha con Dio Padre e Dio Figlio inondati dallo Spirito Santo. L’effusione dello Spirito Santo implica il rinnovarsi come uomo, ma principalmente come cristiano, come testimone del Vangelo. Secondo quanto affermano gli intervistati, questa è la missione che Gesù ha affidato ai suoi discepoli prima della sua ascensione: «Andate per tutto il mondo, pre13 Cf. V. Roldán, La religiosidad de los grupos carismáticos. Un estudio comparativo Roma-Buenos Aires, in «Sociedad y Religión», 18/19 (1999), pp. 73-98; Id., La religiosità carismatica cattolica. Uno studio comparativo tra la situazione argentina e quella italiana, in «Società e Religioni», n. 57, gennaio-aprile (2007), pp. 81-90.

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dicate il vangelo a ogni creatura. Chi avrà creduto e sarà stato battezzato sarà salvato; ma chi non avrà creduto sarà condannato. Questi sono i segni che accompagneranno coloro che avranno creduto: nel nome mio scacceranno i demoni; parleranno in lingue nuove, prenderanno in mano dei serpenti; anche se berranno qualche veleno, non ne avranno alcun male; imporranno le mani agli ammalati ed essi guariranno» (Mc 16, 15-18). L’effusione ha delle conseguenze precise in rapporto al proprio corpo e a quello altrui: a partire da questo nuovo stato di grazia, il cattolico rinnovato scaccerà i demoni dai corpi dei posseduti, parlerà in altre lingue, il suo corpo sarà protetto, e imporrà le mani su altri corpi malati per cui essi guariranno. Significa anche un vissuto di forti emozioni, di allegria, di tristezza, di pentimento, sensazioni e sentimenti sperimentati attraverso il pianto, la risata, oppure il riposo nello Spirito che è una forma di svenimento. L’esperienza dell’effusione implica altresì la possibilità di vivere come nelle prime comunità cristiane e di essere discepoli di Gesù, testimoniandolo costantemente con la propria vita. Non si tratta di un nuovo sacramento – affermano i carismatici –, ma si collega al battesimo e alla cresima poiché implica un rinnovamento dei doni e dei carismi, già donati da Dio in quei due momenti 14. La conseguenza primordiale è la conversione personale o “una seconda conversione”. È il segno dell’esperienza profonda della presenza di Dio, è un dono che procede dallo Spirito Santo e conduce alla verità completa rivelata da Cristo nelle scritture 15. È il risveglio della vita del cristiano che si manifesta nel cammino di santificazione attraverso i carismi spirituali ricevuti per l’edificazione della Chiesa 16. Secondo gli intervistati a Buenos Aires e a Roma, l’effusione dello Spirito può essere ricevuta da chiunque lo desideri. Essa può avvenire in modo spontaneo oppure dopo un periodo di formazione e preparazione impartita dal gruppo che si frequenta. Tra i segni tangibili di questo battesimo – come accadde ai primi che fecero quest’esperienza negli Stati Uniti in ambienti protestanti – v’è la glossolalia, cioè il parlare in lingue. Un altro elemento costante è il “dono delle lacrime”, conseguenza di una grande gioia, di una grande emo14 Cf. S. Carrillo Alday, El bautismo en el Espíritu Santo, Editorial Kyrios, Buenos Aires 1997, p. 19. 15 Cf. E. Basombrío, La misión del Espíritu Santo, Editorial Kyrios, Buenos Aires 1997. 16 Cf. S. Carrillo Alday, El bautismo en el Espíritu Santo, cit., p. 21.

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zione oppure di un vero pentimento che porta alla purificazione: «nei gruppi di preghiera il dono delle lingue è una delle manifestazioni più straordinarie […]; il dono delle lacrime nel senso di una grande gioia che il Signore mette nel cuore della persona per averlo incontrato personalmente al punto tale che si piange di gioia». Altri carismi dichiarati dagli intervistati – e confermati dalle osservazioni dei partecipanti alle due realtà studiate, Buenos Aires e Roma – sono il carisma della profezia, dell’interpretazione delle profezie, del discernimento, dell’apertura profetica della Bibbia, della guarigione fisica, della liberazione spirituale (esorcismo), della testimonianza e dell’evangelizzazione. Il “riposo nello Spirito”, una manifestazione dell’effusione per lo più controversa, è, a un primo sguardo, un semplice svenimento. Secondo gli intervistati è tale la potenza dello Spirito che si sente l’indebolirsi delle membra inferiori e il corpo viene letteralmente buttato a terra. Chi lo ha sperimentato sostiene che non si tratta di un semplice svenimento o perdita di coscienza, ma «nella grande maggioranza, si prova la sensazione di debolezza fisica in tutte le membra; il senso dell’assenza di peso è pure frequentemente descritto, ma si tratta di una impressione e non di un qualche inizio di levitazione! Più raramente il soggetto si sente come sbalordito, o meglio, afferrato dall’intensità della presenza interiore che “sente” sul momento. […] In tutti i casi, queste sensazioni fisiche sono veicoli di uno stato penetrante di pace e di dolcezza» 17. Essa è stata valutata negativamente dai critici esterni al movimento come “manipolazione di persone”, “fenomeno di massa”, “fenomeno isterico”, “effetto magnetico, mediatico o parapsicologico”, “fenomeno ipnotico” 18. Il Rinnovamento contesta queste accuse respingendole fermamente. Nelle comunità carismatiche visitate in occasione della ricerca di campo si è assistito a questo “dono dello Spirito Santo” in alcuni gruppi di Buenos Aires e nella Comunità Gesù Risorto di Roma. Il “riposo nello Spirito” si manifesta come una sorta di svenimento che si produce in alcune persone durante la riunione di preghiera, la messa, o come conseguenza dell’imposizione delle mani da parte di altri membri del gruppo, per l’intercessione di qualche grazia o per una nuova effusione dello Spirito Santo. 17 P. Madre - F.R. Efraim, 18 Cf. ibid., pp. 25-27.

Il riposo nello Spirito, Rns, Roma 1982, p. 29.

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Vi è da sottolineare che l’effusione è intimamente collegata all’imposizione delle mani che uno o più individui realizzano su qualche “fratello nella fede” – questo aspetto era stato rilevato dai primi studenti della Bethel School guidata da Parham nei suoi studi biblici –. L’imposizione delle mani ha perlopiù un carattere invocatorio: «imporre le mani significa offrire a Dio la creatura sulla quale si sta pregando e proporre le tue mani come se fossero le mani di Dio». Implica, altresì, essere canale fisico attraverso il quale Dio raggiunge l’altro: «L’imposizione delle mani è proprio questo “io confido in te”, dare fiducia a quel fratello, l’essere anche tramite del Signore stesso e […] un comunicare, ecco “io sono completamente con te”, “non sei solo” non è un fluido, non è un mantra, non è un qualcosa di astratto, è una comunicazione anche questo gesto fisico». L’esperienza vissuta nel Rinnovamento carismatico ha diverse conseguenze nella vita dei membri. La principale si dà nella dimensione spirituale: nell’incontro personale con Dio e con Gesù attraverso lo Spirito Santo e, di conseguenza, nella riscoperta dell’amore di Dio, nell’avvicinamento ai sacramenti e alla Chiesa. Un sacerdote di Roma commentava: «Io credo che il segno caratteristico dell’effusione dello Spirito è la gioia, e questo sì che è soprannaturale perché è una gioia diversa. Tu vedi queste persone che hanno ricevuto il dono dello Spirito Santo anche al di fuori del Rinnovamento carismatico e improvvisamente hanno una luminosità e una felicità interiore che non si può spiegare umanamente, perché magari passano attraverso situazioni vitali terrificanti però conservando questa luce negli occhi, conservando questo splendore, no? che ti fa dire, “bene, allora qui c’è qualcosa di grande in questa gente”». Anche il rapporto con Dio Padre è vissuto nel più intimo della propria corporeità; i membri del Rinnovamento dichiarano di avere un’immagine nuova di Dio che è Amore e, in conseguenza, il rapporto con Lui è divenuto più intimo, diretto e reale: «Quando hanno fatto la preghiera su di me per l’effusione, ho sentito delle sensazioni pazzesche, anzitutto ho pianto, ecco, cosa che non mi succedeva da 25-30 anni; non ho pianto neanche quando è morta mia madre, quando è morto mio padre, quando mi sono nati due bambini, quella sera, quel giorno ho pianto come un matto, non so cosa mi è successo e di tanto che piangevo ho cercato il fazzoletto per pulirmi il naso, non trovavo il naso, mi pulivo gli occhi, non c’ero più, completamente, e Dio che mi coccolava, mi cantava la “ninna nanna”, sono stato adottato».

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2. L’idea di miracolo e di guarigione Il movimento carismatico si è sempre caratterizzato per la presenza di miracoli e di guarigioni, alcuni assai spettacolari, come conseguenza anche del legame con la tradizione pentecostale protestante. Questo aspetto è uno degli elementi per i quali il movimento viene comunemente criticato sia da altri settori religiosi sia da ambienti non religiosi ma “razionalistici”. L’argomento dei miracoli, e in particolare quello delle guarigioni fisiche, sono dei “cavalli di battaglia” del movimento. In effetti, una gran percentuale di persone che si è avvicinata ai gruppi del Rinnovamento lo ha fatto proprio nella ricerca di una guarigione fisica. In Argentina, il miracolo viene concepito dagli intervistati come qualcosa di straordinario che supera i limiti della ragione umana. È un elemento – sostengono gli intervistati – che Dio utilizza per richiamare l’attenzione delle persone che sono lontane da Lui e per attirare verso di sé, come faceva Gesù, le persone che sono in difficoltà (di qualsiasi tipo: salute, lavoro, famiglia, ecc.). Miracolo è anche la vita stessa oppure la guarigione da una malattia grave. Un sacerdote a Buenos Aires ha preferito usare l’espressione “manifestazione dell’amore di Dio” al posto del termine “miracolo”. Rispetto alla guarigione fisica vi è un particolare interessante da sottolineare: generalmente le guarigioni avvengono in momenti di grande fervore comunitario – quando, ad esempio, il movimento organizza affollati incontri di preghiera, di lode, oppure messe di guarigione e liberazione –. Le guarigioni fisiche sono numerose a tal punto che hanno dato vita a un comitato che organizza un archivio con la documentazione medica ufficiale, per provare il fatto che sono avvenute guarigioni di malattie in modo non comprensibile per la medicina. Esso raccoglie e conserva i certificati medici che attestano l’esistenza di una malattia prima e la sua totale scomparsa poi. Le guarigioni spirituali, più comunemente chiamate “liberazioni” – una specie di esorcismo –, vengono praticate dai “professionisti”, ovvero da sacerdoti specializzati e preparati spiritualmente. Ma le guarigioni possono essere effettuate anche da laici che possiedono il carisma della guarigione fisica o della liberazione spirituale 19. 19 Per un approfondimento della letteratura argentina che tratta delle guarigioni (sanación) “dell’anima, dello spirito e del corpo”, cf. D. Betancourt, Iniciación al Ministerio de sanación, Publicaciones Kerygma, México [s.d.]; A.J. Uribe, Ministerio de sa-

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Bisogna segnalare che vi è una differenza tra le diverse correnti carismatiche esistenti a Buenos Aires e a Roma 20. Questa diversità è basata soprattutto sul tipo d’organizzazione e sul maggiore carattere clericale o laicale che esse assumono. Nella religiosità, la differenza può essere segnalata dal fatto che i diversi gruppi adottano delle pratiche in relazione ai vari carismi. Il carisma della liberazione spirituale è uno dei punti che segna la diversità dei gruppi; questa distinzione avviene anche tra i gruppi o le comunità di una stessa corrente. Nella letteratura italiana del movimento, i temi della liberazione, della guarigione e del miracolo vengono trattati nei capitoli riguardanti i carismi donati dallo Spirito Santo. La liberazione è concepita come il potere di liberare l’uomo dagli influssi diabolici che possono essere la conseguenza di pratiche occulte, come, ad esempio, sedute spiritiche, pratiche di maleficio, arti magiche, divinazione. Essa va esercitata dal gruppo in modo comunitario e in relazione ai carismi del discernimento e dell’intercessione. Nei casi di possessione demoniaca si raccomanda la presenza degli esorcisti incaricati dal vescovo. Per la guarigione fisica da qualche malattia, invece, il movimento consiglia al gruppo di offrirsi come canale di misericordia attraverso il quale Dio possa raggiungere e guarire il “fratello”, perché «la guarigione è sempre compiuta dal Signore, ma egli vuole servirsi di persone a cui comunica doni particolari attraverso i quali la sua potenza vuole raggiungere i sofferenti» 21. Infine, riguardo ai miracoli, i carismatici ricordano che Gesù ne ha operati molti, tra essi la guarigione da malattie. Quei miracoli indicano la sovranità di Gesù che ha il potere su tutta la realtà del creato, ma non ha nessun fine “esibizionista” o “trionfalista”. Il potere di fare i miracoli, per la maggior gloria di Dio, è anche trasmesso ai suoi discepoli e “credenti”, ma è legato soprattutto al mandato dell’evangelizzazione 22. nación, Lumen, Buenos Aires 1989; B. Leahy Shlemon, La oración que sana, Editorial Lumen, Buenos Aires 1993. 20 Le correnti carismatiche a Buenos Aires sono: la Renovación Carismática; la Comunidad de Convivencias; il Movimiento de la Palabra; il Sistema Integral de Nueva Evangelización, e i carismáticos independientes. A Roma le correnti sono: il Rinnovamento nello Spirito, la Comunità Maria, la Comunità Gesù Risorto. 21 M. Panciera, Rinascere dall’alto. Seminario di vita nuova nello Spirito, RnS, Roma 1997, p. 98. 22 Cf. ibid., pp. 99-100.

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Vi è un aspetto da sottolineare, cioè il fatto che alcune persone sostengono di aver potuto superare dei problemi psicologici e/o psicosomatici a partire dalla loro partecipazione al gruppo, in particolare dopo aver fatto l’esperienza dell’effusione dello Spirito. Tra le diverse critiche che il movimento riceve vi è quella secondo cui in realtà si tratta di un’esperienza religiosa che adempie a funzioni di “terapia di gruppo”. La discussione in questo senso viene estesa a chi sostiene che nel campo religioso vi sia una lotta per “la cura” dell’anima, in cui intervengono figure religiose – destinate tradizionalmente a questo ruolo – e altre figure – psicologi o psichiatri – che contendono lo spazio simbolico, nel passato destinato alle prime 23. Da un’altra parte, secondo la bioenergia, il poter esprimere le emozioni a contatto con l’altro, vale a dire il liberare il corpo nel contatto con l’altro, è un esercizio terapeutico centrale 24. 3. La pratica religiosa Riguardo al precetto della messa, il movimento, pur prendendo parte alla liturgia eucaristica “tradizionale”, ha – e questo cambia di caso in caso – le sue proprie celebrazioni, anche officiate da sacerdoti che non fanno parte del Rinnovamento. Le messe “carismatiche”, in genere, hanno una durata maggiore di quelle tradizionali 25 e si caratterizzano per una forte partecipazione “corporale”, in cui vi sono canti festosi, manifestazioni di giubilo, guarigioni fisiche guidate da sacerdoti che hanno il carisma dell’intercessione per la guarigione fisica e spirituale. Un aspetto significativo da segnalare è che in queste messe i sacerdoti “carismatici” predicano le omelie permeate da una “spiritualità differente”, vale a dire con un maggior coinvolgimento e sentimento. Durante le celebrazioni avvengono guarigioni fisiche, spirituali e “miracoli” che attirano persone di diversi ambiti socio-culturali e che non sempre appartengono al movimento. A Buenos Aires, 23 Cf. P. Bourdieu, Genèse et structure du clamp religieux, in «Revue française de sociologie» (1971), pp. 295-334. 24 Cf. P. Duret - P. Roussel, Il corpo e le sue sociologie, Armando Editore, Roma 2006, p. 56. 25 Per un maggiore approfondimento sulle “messe carismatiche”, cf. A. Ibañez Padilla, ¿Cómo son las misas carismáticas?, Comunidad de Convivencias, Buenos Aires 1997.

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la fama di questi curas sanadores (preti guaritori) si è sparsa rapidamente ed essi sono molto seguiti. Qualcosa di simile accade anche a Roma. Vi è un ulteriore elemento da notare: al termine della maggior parte delle messe celebrate a Buenos Aires il sacerdote, accompagnato dai responsabili laici del movimento, percorre tutta l’Assemblea portando in mano il Santissimo. I partecipanti alla messa aspettano quel momento per poter toccare il vetro dell’ostensorio in cui è contenuta l’Ostia. Questo momento è vissuto come il reale passaggio di Gesù tra la gente e ricorda quel passaggio biblico in cui Egli venne toccato da una donna e sentì che una forza usciva dal suo corpo, come segno di guarigione o benedizione (cf. Mc 5, 25-34). Se in alcuni vicariati di Buenos Aires i vescovi si sono premurati di orientare correttamente i leader del movimento riguardo a questa pratica, in altre parrocchie questa pratica è stata proibita dal vescovo, come nel caso del Vicariato Centro 26. Nel Rinnovamento vi è in più la “preghiera comunitaria”; essa può essere di quattro tipi: di lode, cioè «consiste nel lodare Dio, la sua persona e le meraviglie della sua bontà» 27; di adorazione comunitaria oppure personale: «Consiste nel rimanere alla presenza di Dio, entrare in lui, rimanere nel suo amore» 28; di ringraziamento: questa preghiera nasce dalla gratitudine a Dio per quanto ha operato a favore dell’uomo 29; e infine d’intercessione, che implica il pregare per altri e a favore di coloro che sono nel bisogno. Questa ultima preghiera si può fare anche con l’imposizione delle mani oppure con la benedizione 30. La preghiera comunitaria che risente di una forte influenza pentecostale fa sì che i gruppi carismatici si distinguano da altri, anche essi cattolici, per la partecipazione corporale, per la presenza di canti, di danze, e per un evidente clima festoso.

26 Buenos Aires, essendo una metropoli di grandi dimensioni, è divisa in quattro vicariati: Centro, Belgrano, Flores e Devoto. 27 Associazione Rinnovamento nello Spirito, 1989, p. 10. 28 M. Panciera, Rinascere dall’alto. Seminario di vita nuova nello Spirito, cit., p. 103. 29 Cf. ibid.; inoltre, Associazione Rinnovamento nello Spirito, 1989, p. 10. 30 M. Panciera, Rinascere dall’alto. Seminario di vita nuova nello Spirito, cit., p. 104; Associazione Rinnovamento nello Spirito, 1989, p. 10.

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4. L’appartenenza. L’interscambio comunitario L’appartenenza è la dimensione intimamente collegata alla vita collettiva e comunitaria. Il primo approccio con il movimento avviene comunemente con la partecipazione a qualche messa “carismatica”, come accade per lo più a Buenos Aires, oppure a un’assemblea di preghiera, come è comunemente il caso di Roma. In queste occasioni si possono contattare i “servitori” che in generale si distinguono dal resto dei partecipanti poiché vestono qualche divisa che evidenzia il loro ruolo, come ad esempio un gilet colorato. Altre volte, il nuovo arrivato è notato da questi “servitori” che lo accolgono molto affettuosamente nell’assemblea e lo invitano successivamente alle riunioni settimanali di preghiera. I tipi di rapporti che si sviluppano all’interno dei gruppi o delle comunità di preghiera sono prevalentemente di fraternità. Le persone vengono chiamate “sorelle” e “fratelli nella fede”. Si parla di una grande famiglia. Vi sono casi in cui si formano vere e profonde amicizie, altri casi in cui le coppie si conoscono e successivamente si sposano. In Argentina si parla maggiormente di solidarietà; effettivamente, di fronte a una situazione economica difficile, che in alcuni casi è di vera e propria emergenza, si trovano delle persone disposte ad assistere anche economicamente i membri più bisognosi. Le relazioni che si stabiliscono tra giovani e meno giovani, e tra persone appartenenti a diversi ceti sociali, è qualcosa che viene ben visto ed è indicato soprattutto come una “grazia” sia a Buenos Aires sia a Roma. Nelle piccole comunità, i rapporti sono certamente più profondi. In esse si crea un clima di vera “amicizia cristiana”: «Si sente proprio la coesione, la fratellanza; il dolore di uno diventa il dolore di tutti, e la gioia di uno diventa la gioia di tutti». Tuttavia, come in tutte le situazioni comunitarie – o di famiglia, se si vuole –, i rapporti non sono sempre armoniosi, e questo è indicato dagli stessi intervistati che segnalano uno spirito di costante perdono. Il senso dell’appartenenza, che gli aderenti a questo movimento dichiarano di avere, sembra risiedere nella forte esperienza personale con Dio Padre e Gesù Cristo, assistiti dall’effusione dello Spirito Santo. Nelle interviste, alla domanda: «Cosa significa appartenere al movimento carismatico?», sono stati ribaditi gli aspetti del rapporto reale con Dio, della scoperta dell’infinito amore del Padre, della gioia per la salvezza personale perché Gesù Cristo è il Salvatore che con la sua

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risurrezione redime l’umanità dai suoi peccati. Un altro aspetto più volte segnalato è la serenità per l’appartenere alla Chiesa cattolica. Una volta coinvolti nel tipo di religiosità carismatica, i “benefici” che trovano i membri possono essere definiti prevalentemente secondo quattro tipi: a) spirituali, poiché al primo posto vi è l’esperienza di un rapporto intimo e reale con Dio, quindi si sente profonda pace, gioia, felicità, crescita interiore, unione con Dio e un forte amore per il prossimo (sia nel gruppo stesso che al di fuori di esso); b) materiali, ad esempio l’aiuto nel pagamento delle spese per la partecipazione a qualche corso o seminario di formazione – in particolare nel caso italiano –, e per l’assistenza materiale concreta – come avviene nel caso argentino –; c) i benefici derivanti dalla partecipazione ad una vita comunitaria, vale a dire trovare degli amici oppure sapere di poter contare sempre su delle persone disponibili ad ascoltare i propri problemi personali; infine, d) quelli che sono collegati all’atteggiamento positivo che assumono le persone di fronte ai tanti problemi della vita quotidiana, nei rapporti di coppia, nei rapporti con i propri familiari, con le persone nell’ambito del lavoro oppure dello studio. Domenico Grasso, teologo e docente dell’Università Gregoriana di Roma, incaricato di seguire i gruppi del Rinnovamento nei primi tempi, ha affermato che l’esperienza proposta dal movimento «ha dato a milioni di persone un senso nuovo della loro appartenenza a Cristo, dei sacramenti, della Chiesa, della Gerarchia, della Vergine. Tutto è stato reso più semplice, più spontaneo, più concreto. La Bibbia, per tanti, è ridiventato il libro della fede e viene letta con la stessa devozione con la quale la leggevano i santi Padri. Che cos’è tutto questo se non un’effusione dello Spirito, il quale ha comunicato la sua opera di unificazione tra gli uomini, prima all’interno della Chiesa, poi con i “fratelli separati”, e già si parla del Rinnovamento come di una realtà che va estendendosi anche in altre religioni» 31. L’appartenere al Rinnovamento sembra quindi essere vissuto dai membri come una grazia e un dono di Dio; è stato indicato anche come un impegno nella comunità e nella Chiesa. Il senso di appartenenza al movimento può essere riassunto nelle parole di una signora intervistata a Buenos Aires: «Io sono cattolica apostolica romana praticante e carismatica». 31 D.

Grasso, I carismi nella Chiesa. Teologia e storia, Queriniana, Brescia 1982, p.

193.

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Conclusioni Il Rinnovamento carismatico cattolico, nato alla fine degli anni Sessanta, frutto di incontri interconfessionali con il mondo pentecostale protestante, propone un tipo di religiosità caratterizzato dal fervore e dall’intensità dell’esperienza. Si tratta di un tipo di vissuto religioso che rimanda ai modelli comunitari tradizionali, in cui il corpo è un elemento centrale di sociabilità e interazione. In effetti, alla base di questa nuova esperienza religiosa il progetto dell’individuo non differisce da quello del gruppo e il corpo non è fattore di individuazione, non opera come strumento di separazione tra sé e il mondo, tra sé e gli altri, come è tipico delle società moderne. Nell’analisi del rapporto corpo-modernità, si evince che in un contesto globalizzato le collettività non sempre sembrano fornire modelli decisivi di riferimento. In questo stato di cose il corpo diviene un motivo di culto in sé e per sé. L’apparenza sembra rivestire la totalità del soggetto fornendo un’identità superficiale, favorendo in questo modo la crescita dell’individualismo. Come sostengono Duret e Roussell nella loro analisi sociologica sul corpo, «i dati fisici non sono più quelli dell’efficacia a servizio di una collettività, ma quelli di un “benessere” individualizzato. Il corpo inaugura un nuovo rapporto nella sfera privata, in cui l’edonismo e la ricerca del piacere sono divenuti legittimi» 32. Nella religiosità carismatica, al contrario di quanto propongono i modelli imperanti dell’individualismo e dell’edonismo, in cui il corpo racchiude il soggetto su se stesso e consente solo «un’esistenza puramente attuale, senza trascendenza, senz’altro obiettivo che la conservazione del proprio potenziale fisico e di quello di seduzione» 33, viene superato il banale slogan moderno di “essere se stessi” seguendo il proprio istinto oppure “il proprio cuore”. Il Rinnovamento pare rilevare l’importanza del corpo in quanto fondamento materiale del soggetto e della comunicazione intersoggettiva, al di là delle differenze di genere oppure generazionali, delle barriere della posizione socio-economica, delle diversità di status o d’appartenenza sociale, e persino dei canoni estetici. Questo movimento religioso si fonda sul primato della conversione interiore soggettiva e ridefinisce il rapporto del soggetto rispetto al32 P. Duret - P. 33 Ibid., p. 59.

Roussel, Il corpo e le sue sociologie, cit., p. 58.

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la tradizione oggettiva della Chiesa-istituzione; propone altresì una maggiore radicalità evangelica e una totale libertà dei “carismi”, a partire dall’esperienza di sé in una piena comunicazione interpersonale. In questo tipo di religiosità si prende coscienza del valore del proprio corpo in quanto espressione della persona, e, per dirla con le parole della filosofa italiana Maria Teresa Russo, «l’uomo si incontra con la “realtà del corpo” e “sperimenta il corpo” […]; tutto ciò ha come conseguenza la presa d’atto del carattere personale, cioè esistenziale e biografico di ogni nostra esperienza che chiama in causa il corpo» 34. Nell’esperienza carismatica il soggetto vive la sacralità partecipando a una vita comunitaria, e lo fa con tutta la sua umanità, includendo anche il proprio corpo senza nasconderlo, né tenerlo a distanza dagli altri. In essa, il soggetto – con la sua concretezza ontologica ed esistenziale – è l’elemento primario di sociabilità prima e di religiosità poi. Questo vissuto della propria spiritualità a partire da una comunicazione fisica dà voce all’interiorità dell’individuo non fine a se stessa, ma permettendo un contatto più intimo e sensibile con il sacro e con gli altri. Il che significa che l’uomo nella sua comunità d’appartenenza può vivere tramite il suo corpo un rapporto reale e diretto con Dio ed essere, allo stesso tempo, veicolo dell’esperienza spirituale altrui.

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Corpo e religione nel «Cantico dei cantici»

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Corpo e religione nel Cantico dei cantici: la prospettiva ebraica

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Corpo e religione nel Cantico dei cantici: la prospettiva ebraica

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di

Irene Kajon

È mio compito, in questo contributo, esporre il modo in cui alcuni esegeti ebrei hanno interpretato il Cantico dei cantici, il libro della Bibbia che più di ogni altro celebra l’amore tra uomo e donna con parole che esaltano la bellezza, l’attrazione fisica, il piacere dei sensi. Dunque in esso mi soffermerò su alcune interpretazioni ebraiche del passato e del presente. Prima di esporre questo tema è necessario però ricordare sia il luogo occupato dal Cantico dei cantici entro la liturgia ebraica, sia la discussione che si accese tra i rabbini nei primi secoli dell’era cristiana a proposito dell’opportunità di inserire tale libro nel Canone, ovvero tra i testi considerati scritti dagli autori per ispirazione divina e, dunque, meritevoli di studio e riflessione particolari da parte della comunità. Dare qualche breve ragguaglio su questi due ultimi aspetti non ha però, come vedremo, soltanto il fine di informare riguardo alla preghiera ebraica o alla storia della tradizione ebraica in quanto formatasi intorno alle sue fonti principali, ma anche quello di introdurre già, in certo modo, a interpretazioni di questo libro biblico: un libro che, nella cultura occidentale, ha giocato un ruolo importante come modello di ogni dramma d’amore, di ogni dialogo tra amanti 1. 1. Nella terza parte della Bibbia ebraica, denominata Chetuvim, ovvero “Scritti” o “Agiografi” (le prime due parti sono la Torah, ovvero il Pentateuco, e Neviim, i Profeti), troviamo il Cantico dei cantici. Tra i libri che costituiscono tale parte – Salmi, Proverbi, Giobbe, Cantico dei cantici, Ruth, Lamentazioni, Ecclesiaste, Esther, Daniele, Esdra-Neemia, Cronache – quelli del Cantico dei cantici, Ruth, Lamentazioni, Ecclesiaste, Esther, hanno una funzione peculiare entro 1 Cf. Dante Alighieri, Vita Nova (1292-3); W. Shakespeare, Romeo and Juliet (1588-94); J.-J. Rousseau, La nouvelle Héloïse (1761), i quali esprimono le relazioni d’amore con parole molto simili a quelle del Cantico dei cantici.

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la vita comunitaria ebraica, così come essa si svolge nella maggior parte dei luoghi: essi sono indicati come Meghilloth, ovvero “Rotoli”, poiché vengono letti da membri della comunità in occasione di determinate festività ricorrenti nel calendario liturgico. Il Cantico dei cantici è letto a Pesach, la Pasqua, festa che celebra l’uscita degli ebrei dall’Egitto, e che cade sempre in primavera; Ruth a Shavuot, ovvero Settimane (o Pentecoste), festa che ricorre nei mesi della mietitura e del raccolto, maggio o giugno, e che ricorda come Dio diede a Mosè regole e prescrizioni al Sinai affinché le rendesse note al popolo e, attraverso di esso, si rendessero manifesti i principi che reggono la vita umana associata; Lamentazioni nel 9 di Av (mese che corrisponde a luglio-agosto), data che ricorda le distruzioni del primo tempio di Gerusalemme, nel 586 prima dell’era cristiana, e del secondo tempio, nel 70; Ecclesiaste a Succot, o Capanne, festa che ricorre ogni settembre od ottobre, e che ricorda le peregrinazioni ebraiche nel deserto, dopo l’esodo; Esther nel 14 di Adar – mese corrispondente al febbraio-marzo – durante Purim, ovvero Sorti, festività che ricorda come gli ebrei, grazie a una serie fortuita di circostanze, ma anche con l’opera umana, riuscissero a sconfiggere i loro avversari e a salvarsi, in occasione di una persecuzione avvenuta in Persia intorno alla metà del V secolo prima dell’era cristiana 2. Ora, se è semplice cogliere il nesso tra i libri letti e le ricorrenze relative di Shavuot, 9 di Av, Succot, Esther – infatti il libro di Ruth celebra la fedeltà della protagonista alla famiglia e alla comunità, osservanti determinate regole, nella descrizione di un idillio campestre all’epoca del maturarsi di ciò che è stato seminato; quello di Lamentazioni esprime la sofferenza provocata dalla distruzione e deportazione del popolo e la speranza della redenzione; quello di Ecclesiaste constata la precarietà e fragilità dell’uomo e delle imprese umane, quasi essi non avessero alcun terreno saldo su cui poggiare; e quello di Esther racconta la storia della regina ebrea sposa di Assuero e nipote di Mordechai che, grazie alla sua intelligenza, fu strumento di salvezza per i suoi correligionari –, difficile sembra afferrare il rapporto tra il Cantico dei cantici e Pesach. Quale connessione vi è mai, ci si potrebbe domandare, tra questo poema d’amore e la festa della libertà, la quale implica tanto la liberazione dalla schiavitù egiziana quanto la libera obbedienza a un 2 Cf. Bibbia ebraica, vol. 4: Agiografi, D. Disegni (ed.), Giuntina, Firenze 1995, pp. 189, 199, 207, 216, 233.

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Dio che, al roveto ardente, dichiarando il Suo nome, si presenta come prototipo dell’agire etico – un agire che, essendo non egoistico, permette a colui che ne è il soggetto di sfuggire alla finitezza, pur intervenendo nel mondo? A questa domanda si potrebbe rispondere però con altre domande, le quali lasciano già presagire la risposta. Infatti: non coincide forse l’amore – quando esprime disinteresse, distacco dell’essere umano dalle cose terrene, rinuncia alla naturale tendenza all’affermazione di sé nell’essere e nel tempo, in nome dell’esporsi senza riserve quando l’altro gli rivolge il suo appello, esigendo una risposta positiva – con la libertà, intesa come obbedienza a comandamenti che provengono non dalla storia, ma da un oltre rispetto a questa? Non ha forse l’amore, che provoca nell’anima l’impulso ad abbandonare il suo nascondiglio, nella consapevolezza insieme dei suoi limiti e del suo valore («nera io sono, eppure graziosa […]», Ct 1, 5), un’affinità con la libertà, che è un camminare senza segreti sotto la guida della ragione? Non implica la libertà, in quanto dà luogo ad azioni aventi un significato etico, il vivere in una dimensione diversa da quella delle inclinazioni e passioni tese all’appagamento del proprio “io”, in una sfera in cui il sensibile indica la presenza dell’intellettuale, trascendente rispetto al sensibile stesso, quel vivere che è anche tipico di chi ama nell’altro ciò a cui infinitamente aspira? Nella equiparazione di libertà e amore la tradizione liturgica ebraica trova dunque la ragione della corrispondenza tra la festa di Pesach e la lettura del Cantico dei cantici: la festività che ricorda l’esodo dalla casa di schiavitù verso l’assenza di confini del deserto, dove sarà data la legge che rende l’uomo libero, e il Cantico dei cantici che consiste nell’alternanza delle due voci degli amanti, non più residenti innanzi tutto sulla terra, ma nello spazio aperto dell’amore, hanno tra loro una profonda consonanza. Nella preghiera gli ebrei rendono manifesto questo accordo. 2. La formazione del Canone della Bibbia ebraica o Tanach (termine formato dalle lettere iniziali delle parole Torah, Neviim, Chetuvim) avvenne gradualmente, in un periodo che si estende per molti secoli, dall’epoca di Esdra (V secolo prima dell’era cristiana) fino al X secolo dell’era cristiana. Lo Shir ha-Shirim asher li-Shlomo (Cantico dei cantici di Salomone) venne incluso nel Canone, come accennato, dopo accese discussioni, che si svolsero all’inizio dell’era cristiana, tra i rabbini che si interrogavano circa l’opportunità di tale inserimento.

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Poteva questo libro essere stato scritto da una persona animata da spirito divino, ovvero da un profeta, e diventare dunque testo autorevole dal quale la comunità avrebbe dovuto in futuro trarre insegnamenti come fonte di saggezza? Non era esso pieno di riferimenti alla fisicità degli esseri umani, ai loro corpi, di richiami sensuali che avrebbero potuto condurre i lettori a un’immersione nella vita piuttosto che a un’elevazione verso Colui che non può essere raffigurato in immagini, perché unico, incorporeo, trascendente i fenomeni della natura? Nel Cantico dei cantici vi è un solo riferimento a Dio: nel versetto 8, 6 si dice, parlando dell’amore in quanto contrapposto alla gelosia, all’invidia, all’odio, il quale è «duro come lo Sheol» (lo Sheol è la tomba, la morte), che «le sue scintille sono scintille di fuoco, una fiamma del Signore». È questo l’unico punto del testo in cui compare il nome divino: l’espressione “fiamma del Signore” rende, infatti, il termine ebraico shale’evetia, composto da shale’evet , “fiamma”, e dalle lettere jh, le quali costituiscono le iniziali del Tetragramma (JHWH), il nome impronunciabile di Dio, e designano dunque in forma abbreviata e pronunciata come ja quest’ultimo. Ma, al di là di quest’unico rinvio a Dio in un testo che è un’ode alla vivacità e mobilità dell’esistenza, al rinnovarsi delle stagioni, alla crescita e al maturare dei frutti della natura e degli esseri viventi, bisogna anche tener presente innanzi tutto il modo indiretto e fuggevole di tale riferimento, e poi il fatto che una particolarità della lingua ebraica è quella di utilizzare la forma abbreviata del Tetragramma per dar forza ed enfasi a un sostantivo: sicché la parola shale’evetia potrebbe anche essere tradotta, oltre che come “fiamma del Signore”, semplicemente come “fiamma vivida, ardente, bruciante” 3. Se si adotta nella lettura del Cantico dei cantici quest’ultima interpretazione di tale termine, risulta infine assente in esso ogni accenno a Dio, sia pure lieve. Come poteva dunque questo libro, così legato al mondo quotidiano, rinviare a un al di là rispetto a esso, a un Dio eterno? È scritto nel trattato della Mishnah intitolato Yadaim (3, 5), parte dell’ordine Torot, che Rabbi Akivah, vissuto nel II secolo dell’era cristiana, così si espresse a proposito del Cantico dei cantici:

3 Su questa particolarità della lingua ebraica attrae già l’attenzione Spinoza: cf. il suo Trattato teologico-politico, Primo capitolo.

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Il mondo intero non è tanto prezioso quanto il giorno in cui fu dato a Israele il Cantico dei cantici, perché tutti gli scritti sono santi, ma il Cantico dei cantici è il santo per eccellenza 4.

Il termine “santo”, che traduce l’ebraico kadosh – il quale non dovrebbe essere reso, come a volte accade, con la parola “sacro”, la quale evoca il numinoso, il misterioso, ciò che nello stesso tempo affascina e terrorizza, ma appunto come “santo”, poiché esso nella Bibbia ebraica e nelle fonti ebraiche sviluppatesi intorno a questa viene riferito innanzi tutto a Dio, definito mediante le Sue azioni come Colui che esercita giustizia e pietà, ed ha dunque un significato esclusivamente etico 5 –, caratterizza secondo Rabbi Akivah il libro a causa dell’equiparazione tra “santità” e capacità di amare: come il Santo ama l’uomo, così l’uomo dovrebbe amare l’altro uomo a causa del suo amore per il Santo. Il Cantico dei cantici fu scritto dunque, secondo Rabbi Akivah, da un autore ispirato da quello stesso amore che aveva mosso Mosè a scrivere la Torah, da un profeta. Nella celebrazione del legame d’amore tra l’uomo e la donna esso esprime la celebrazione di ogni amore che si manifesti come un esporsi, un uscire fuori di sé per entrare in contatto con l’altro, senza che tra gli amanti vi sia inizialmente bisogno di alcuna mediazione, di alcuna parola, di alcun elemento ulteriore. E tale amore ha più valore di tutto ciò che si possa trovare nel mondo in quanto insieme di fenomeni, di cose appartenenti solo alla natura, di eventi aventi luogo solo nel tempo. Fu il giudizio espresso dall’autorevole Rabbi Akivah a proposito del libro a far sì che esso fosse incluso nel Tanach; ed esso è anche parte della versione greca dei Settanta, e poi della Bibbia cristiana. 3. Molte sono le interpretazioni che sono state date del Cantico dei cantici nella lunga storia intellettuale degli ebrei. Mi limiterò a ricordarne alcune, appartenenti a varie epoche e a vari ambiti culturali, per poi porre la questione se tra di esse sia possibile rintracciare dei tratti comuni che ci permettano di caratterizzarle come esempi diversi di una esegesi ebraica. Vedremo più avanti come, in effetti, si possano delineare per lo meno due elementi peculiari di questa esegesi. 4 Cf. Bibbia ebraica, vol. 4, cit., p. 189. 5 Cf. E. Lévinas, Dal sacro al santo, Città Nuova, Roma 1985 (ed. orig., Paris 1977).

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La prima interpretazione sulla quale brevemente mi soffermerò è quella rabbinica, ovvero quella contenuta in testi talmudici, in Midrashim, in commenti alla Bibbia che si richiamano al Talmud – un’interpretazione che ha inizio nella tarda antichità e dura fino a oggi: attraverso il collegamento tra questo testo e i libri dei profeti Isaia, Geremia, Ezechiele, i rabbini hanno visto negli amanti del Cantico dei cantici i simboli della comunità d’Israele e di Dio 6. Come la donna e l’uomo di quel testo si amano, si avvicinano, si allontanano, così – secondo le immagini evocate da tali profeti – la casa di Giacobbe e il suo Dio, come una sposa e il suo sposo, stringono un patto che implica fedeltà, ma può anche essere tradito, e poi ristabilito di nuovo. Se un Dio, che sfugge a ogni immagine che cerchi di racchiuderlo in sé e determinare in tal modo completamente il Suo essere, ama l’uomo per il fatto stesso che gli dà la capacità di agire senza avere come suoi moventi inclinazioni sensibili, bensì per libera osservanza di una regola razionale, l’uomo ama il Dio che in tal modo gli si manifesta con tutto se stesso. Nel commento rabbinico al Cantico dei cantici vi è dunque l’eco della fondamentale preghiera ebraica Shema, Israel nella quale le parole iniziali riproducono Dt 6, 4-5: «Ascolta, Israele: il Signore è nostro Dio, il Signore è unico. E amerai il Signore tuo Dio con tutta la tua anima, con tutto il tuo cuore, con tutte le tue forze».

Tuttavia – ci si potrebbe domandare – non approda infine questa interpretazione, che pone in relazione il legame erotico umano e il legame d’amore tra la casa di Giacobbe e Dio, a una mancanza di parallelismo, a una disparità tra i due legami dapprima considerati nei loro elementi comuni? Se la donna ama con tutta se stessa l’uomo di bell’aspetto che l’attrae e che ricerca, può l’ebreo amare con tutto se stesso un Dio che rimane oltre ogni dato sensibile, definibile solo come soggetto morale, un “Io” senza corpo, ovvero un puro ideale? Può l’uomo amare anima e corpo Colui del quale valuta soltanto le azioni nel mondo, definite come buone e giuste? A questa domanda si potrebbe rispondere ricordando che anche nel Cantico dei cantici le belle fattezze dell’amato sono soltanto i segni del suo animo libero e retto: l’eros, quando è profondo e ha continuità nel tempo, è rivolto anch’esso innanzi tutto all’ideale che ha nel reale il suo momento

6 Cf.

Bibbia ebraica, vol. 4, cit., p. 189.

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esteriore. Questo non potrà mai essere pienamente congruente con quello, così come Dio è oltre la Sua traccia nel mondo. L’interpretazione che Jehudah Ha-Levi, poeta e filosofo ebreo vissuto nella Spagna sotto dominazione araba, offre nel suo Kuzari (1140), pone il Cantico dei cantici in rapporto con l’annuncio messianico 7. Il re dei Kazhari, il quale ha deciso di convertirsi all’ebraismo, essendo insoddisfatto della sua religione e non trovando né nella filosofia, né nel cristianesimo, né nell’islam risposte convincenti ai quesiti che egli si pone riguardo alla condotta più gradita a Dio e al modo migliore per poterla attuare, domanda al rabbino che lo istruisce dei lumi sull’aspirazione degli ebrei al ritorno a Sion, come premessa dell’era messianica. Lo spirito d’amore, che lega l’amata allo sposo, cantato nel libro, è secondo Jehudah Ha-Levi quello spirito di fiducia e di speranza che unisce gli ebrei a un Dio loro redentore e redentore dell’umanità. Questo spirito – così il rabbino spiega al re – non è spento negli ebrei, ma deve essere ravvivato perché divenuto debole a causa delle persecuzioni e delle sofferenze; quando questo avverrà, non solo attraverso una ripresa della fede da parte degli ebrei in un futuro di giustizia e di pace, ma anche mediante un’azione divina nella storia, si sarà realizzato il presupposto necessario all’avvento di una nuova epoca. Il popolo d’Israele è per Jehudah Ha-Levi il rappresentante, il simbolo dell’intera umanità: in tale veste, esso ha il compito di mantenere il suo spirito pronto a ricevere lo spirito divino – ed è l’amore ciò che unisce i due diversi spiriti. Nella Guida dei perplessi (1190) di Maimonide i riferimenti al Cantico dei cantici sono frequenti là dove si prende in esame il senso complessivo della Legge che è la conoscenza di Dio e il mettere in pratica i Suoi comandamenti 8. Tali obiettivi raggiunse nel modo più perfetto solo colui che fu animato da spirito profetico in sommo grado, solo Mosè che, appunto, fu l’autore della Legge stessa, ovvero dei cinque libri della Torah. Egli la improntò a tale fine teoretico e a tale fine pratico: sapere chi Dio sia implica amarLo e prendere a modello delle proprie azioni le azioni divine, e tale sapienza conduce dunque necessariamente dalla contemplazione all’azione. Ogni uomo però, secondo Maimonide, può cercare di avvicinarsi a Mosè: l’amore che il Cantico dei cantici indica come ciò che lega due creature uma7 Cf. 8 Cf.

Kuzari, parte seconda, §§ 23-24. Guida dei perplessi, M. Zonta (ed.), UTET, Torino 2005, parte terza, capp.

XXV-LIV.

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ne allude allo spirito profetico che lega l’uomo e Dio. Diviene dunque possibile interpretare i versetti del testo biblico in modo da vedere in essi allusioni alla vita del profeta: come egli si trovi al cospetto di Dio, abbia per Dio una passione amorosa che, riempiendo completamente il suo animo, non lascia spazio per affetti o sentimenti rivolti ad altri oggetti, ed eserciti la sua capacità di visione del sovrasensibile, distaccandosi dalle cose terrene e mirando alla perfezione intellettuale, soltanto allo scopo di agire con giustizia, equità e benevolenza nella società e nel mondo. Scrive Maimonide, riferendosi a Mosè come il più grande tra i profeti e ad Aronne e Miriam che, dotati anch’essi di spirito profetico, si sono avvicinati al fratello pur senza eguagliarlo, nell’accompagnarlo nella sua vita ed opera: «Essi [“i sapienti del Talmud”] dicono […] che il detto biblico: “e là morì Mosè, servo del Signore, nella terra di Moab, sulla bocca del Signore” “insegna che egli morì con un bacio”. Parimenti si dice di Aronne: “Sulla bocca del Signore, e morì là”; e così dicono i “sapienti” di Miriam: “Anch’essa morì con un bacio” – però, non si dice di lei che morì “sulla bocca del Signore”, perché a proposito di una donna non è bello applicare questa metafora. Lo scopo del discorso è dire che tutti e tre sono morti in una condizione di piacere, perché percepivano Dio con una violenta passione; e nel fare questo discorso i “sapienti” applicano il metodo poetico ben noto di chiamare la percezione ottenuta grazie ad una violenta passione per Dio “bacio”, come sta scritto: “Che Egli mi baci con i baci della Sua bocca”. Essi dicono che questo tipo di morte, che è in realtà una salvezza dalla morte, venne ottenuto solo da Mosè, Aronne e Miriam. Quanto ai restanti profeti e uomini virtuosi, essi ne restano privi, ma in generale anch’essi hanno una più forte percezione intellettuale nel momento della separazione dell’anima dal corpo, come sta scritto: “E andrà davanti a te la tua giustizia, e la gloria del Signore ti prenderà sotto la sua protezione”» 9.

Lo spirito profetico, a differenza dell’intelletto di cui parla la filosofia aristotelica, avente per oggetto un ente intelligibile impersonale, è per Maimonide rivolto alla conoscenza di un Dio a cui l’uomo assegna quegli attributi che sono propri delle azioni virtuose, di un Dio che si delinea dunque come soggetto o persona. È questo, nella Guida dei perplessi 10, l’unico modo che l’uomo ha di parlare di 9 Ibid., cap. LI, p. 749 (nell’ed. it. cit. sono indicate le fonti da cui Maimonide estrae le sue citazioni). 10 Cf. ibid., parte prima, capp. L-LX.

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Dio in termini positivi, poiché tutti gli altri attributi – di carattere non etico – sono espressi sotto forma di negazioni di privazioni, e conservano comunque un’ambiguità, una equivocità: essi indicano in certo modo due cose qualitativamente diverse nel momento in cui sono riferiti all’uomo o a Dio (la sapienza divina, ad esempio, cui si giunge negando in Lui l’ignoranza, è diversa in senso qualitativo, e non solo di grado, da quella umana), a differenza degli attributi etici che impongono all’uomo di diventare simile a Dio. Diverso è, nel filosofo e nel profeta, il modo di concepire il divino, e dunque il modo di entrare in contatto con esso 11: mentre il filosofo pensa Dio attraverso un intelletto che si distacca dai sensi e dai corpi sensibili, il profeta giunge a Dio come essere umano che conserva la sua unità di intelletto e passione. Il Cantico dei cantici, secondo Maimonide, esalta questa unità. L’interpretazione del libro offerta da Hermann Cohen in Religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo si fonda sulla considerazione che il centro della Scrittura ebraica e di tutti i testi ebraici, aventi in questa le loro origini, sia formato dall’idea dell’unicità di Dio 12. Mentre la ragione teoretica rintraccia l’unità del cosmo, quella pratica va alla ricerca di un Uno che non abbia alcun punto di contatto con la natura e che si configuri perciò come “Io”, ideale etico, esempio di eticità: Egli stesso, in quanto modello della condotta etica, dà all’uomo, essere condizionato, la ragione pratica. Le fonti ebraiche, essendo tutte costruite sull’idea del Dio unico, si presentano dunque nella storia della cultura come testi peculiari: la loro originalità e unilateralità è costituita dalla critica radicale di ogni riduzione dell’idea a materia, di Dio all’uomo. Dunque il Cantico dei cantici, parte integrante di tali fonti, secondo Cohen deve essere visto come un poema che, narrando il rapporto tra la sposa e lo sposo come metafora del rapporto tra l’uomo e Dio, non intende affatto evocare l’amore erotico, affetto che implica un contatto carnale tra gli amanti, bensì l’amore in quanto affetto non patologico, ovvero causato non da un ente sensibile che condizioni l’uomo, ma da un essere puramente ideale che lo rende attivo: è tuttavia tale “amore religioso” a produrre non solo l’unità di ciascun essere umano come essere psico-fisico, ma anche relazioni sociali disinteressate. Esso spinge l’uomo a vivere nella socie11 Cf. ibid., parte seconda, cap. XXXVII. 12 Cf. Religion der Vernunft aus den Quellen

des Judentums (1919), 19292, rist.

Köln 1959, Introduzione e capp. I-VII.

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tà e nel mondo come se in questi vi fossero i segni di ciò che è eterno: il Cantico dei cantici esprime tale punto:

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«Non dramma, neanche lirica nel senso dell’erotica, nessuna connessione dello spirituale con l’eros – il Cantico dei cantici come idillio è per Grätz nello stesso tempo una satira della satrapia – soprattutto collegamento della poesia con i problemi dell’etica, soprattutto dunque direzione e limitazione dell’umano al legame degli uomini, rifiuto però dell’egoistico. Così la poesia stessa conduce al messianesimo» 13.

A causa di tale interpretazione etica di questo libro del Tanach Cohen dà particolare rilievo, nel capitolo conclusivo della sua opera postuma, dedicato a “La pace”, alla figura femminile, portatrice di quell’atteggiamento che costituisce il centro della vita ebraica e umana avente in Dio il suo termine correlativo. Nel suo nome – Shulamit – appare quella radice ebraica che indica la pienezza, il culmine, la fine dei tempi: ella è la “pacifica”, colei che è in pace con se stessa, e la “pacificatrice”, colei che dà o realizza la pace. Così Cohen scrive: «Il messianesimo è e rimane la forza fondamentale della coscienza ebraica. E il messia è l’araldo della pace. E il Cantico dei cantici celebra già anche nel nome l’eroina dell’amore come la giovane donna della pace, la Sulamita. E allo stesso modo la poesia dei Salmi non è poesia di pastori, ma poesia degli eroi della pace per l’uomo e nell’uomo. Che cos’è il tutto della vita umana nello spirito della Bibbia? È la pace. Ogni senso, ogni valore della vita risiede nella pace. […] La pace è il coronamento della vita» 14.

Quando dunque nel poema si menziona l’amore, che è “forte come la morte”, non si fa altro che alludere alla pace. Anzi, la pace è sinonimo dell’amore, poiché in questo caso essa indica non l’assenza di guerra, ma una forza positiva e indistruttibile dell’anima. Così Cohen vede nel Cantico dei cantici un inno alla vita. Franz Rosenzweig ci offre nella Stella della redenzione una sottile esegesi di questo testo biblico, che egli vede come il canto della rivelazione di Dio all’uomo del Suo amore come spirito su cui si fondano i Suoi comandamenti, e della risposta che l’uomo Gli rivolge contraccambiando tale amore: l’amore equivale nel primo caso alla liberazione dell’uomo dai vincoli che lo legano al suo “ego” limitato 13 Ibid., p. 299 (in questo passo si ricorda il giudizio dello storico Heinrich Grätz a proposito del Cantico dei cantici nella sua Geschichte der Juden [1853-76]). 14 Ibid., p. 531.

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e condizionato in nome dell’infinito dell’eticità, e nel secondo caso alla libertà come rispetto degli imperativi etici 15. Se il linguaggio della creazione è quello dell’epica, che descrive oggettivamente gli eventi e le cose, usando i verbi al modo indicativo e al tempo passato o nel presente storico, il linguaggio della rivelazione è quello della lirica, che presuppone un “io” e un “tu”, usa i verbi nel modo imperativo, ed esprime pensieri e affetti. Il linguaggio dell’esortazione, del canto corale, dell’invito all’azione comune, è invece il linguaggio della redenzione che si fonda sul “noi”. E proprio perché la rivelazione è intermedia tra creazione e redenzione – il libro dedicato alla rivelazione, scriverà Rosenzweig in Il nuovo pensiero offrendo ai potenziali lettori della sua opera maggiore un filo conduttore, rappresenta il “cuore” di quest’ultima 16 –, il linguaggio lirico del Cantico dei cantici rinvia da un lato al linguaggio epico oggettivo («forte come la morte è amore»), dall’altro al linguaggio esortativo che delinea un futuro diverso, migliore del presente («oh, se tu fossi mio fratello […]»). Ma la parola divina, secondo Rosenzweig, non fa che esprimere in modo concentrato e pregnante la parola umana: il Cantico dei cantici è sempre di nuovo riscoperto da ogni generazione come sublime poesia, perché esso usa le parole del linguaggio d’amore quotidiano, pur presentandosi come ispirato da Dio. Tra l’amore che unisce due esseri umani e l’amore tra Dio e un essere umano vi è un’affinità profonda, poiché l’esperienza non è mai formata solo da un ordine sensibile o solo da un ordine morale e intellettuale, ma da ambedue gli ordini. Così Rosenzweig non separa ciò che noi – eredi di una cultura che ha distinto in settori l’esperienza umana – chiamiamo religione e ciò che noi chiamiamo vivere nel tempo 17. *** Si possono considerare le diverse interpretazioni ebraiche del Cantico dei cantici prese in esame – quella rabbinica, incentrata sull’idea della comunità; quella di Jehudah Ha-Levi, che si richiama allo spirito ebraico di fedeltà e speranza; quella profetica di Maimonide; quella etica di Cohen; quella di Rosenzweig inserita nell’ambito 15 Cf. La stella della redenzione, Marietti, Genova 1985, rist. 1992 (ed. orig., 1921), parte seconda, secondo libro. 16 Cf. Das neue Denken (1925), in Gesammelte Schriften, Den Haag 1976-84, vol. 3, p. 151. 17 Cf. ibid., p. 140.

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di una riflessione sulla rivelazione – come forme diverse di un solo orientamento? O è forse difficile trovare in esse aspetti comuni? Vi sono per lo meno due momenti che esse condividono e che le rendono variazioni da inserire in uno stesso contesto: il primo, di carattere formale, consiste nella consapevolezza che è impossibile separare nel vivente linguaggio umano il sensibile dallo spirituale, dunque rendere pienamente trasparente una metafora, distinguere nettamente segno e significato; il secondo, che pertiene al contenuto, riguarda l’idea della necessaria connessione tra l’amore rivolto agli esseri umani, al prossimo e al distante, a un “tu” vicino e a un “tu” lontano, e l’amore rivolto a Dio, sebbene i primi cadano sotto i sensi e il secondo sia percepito solo intellettualmente. È interessante osservare come in alcuni aforismi di Franz Kafka, ebreo lontano dalla tradizione e tuttavia ancora collocabile nel suo ambito, compaiano questi due momenti, sebbene il Cantico dei cantici non sia esplicitamente menzionato, ma forse solo evocato 18. Così si dice in una delle sue riflessioni: «Per tutto ciò che trascende il momento sensibile noi non possiamo servirci del linguaggio che in forma puramente allusiva, mai anche solo approssimativamente comparativa, dato che esso, come si conviene al mondo dei sensi, non tratta che del possesso e dei suoi rapporti» 19.

E in altre due: «L’amore sensuale riesce a farci dimenticare quello celeste. Da solo non potrebbe farlo, ma poiché ha inconsciamente in sé l’elemento dell’amore celeste, ci riesce» 20. «L’umiltà dona a ciascuno, anche al disperato solitario, uno strettissimo contatto con gli altri uomini, e lo dà subito, a patto, s’intende, che l’umiltà sia assoluta e continua. Essa può farlo perché è la vera lingua della preghiera, insieme adorazione e fortissimo legame. […] I nostri rapporti con il prossimo sono quelli della preghiera, i nostri rapporti con noi stessi quelli dell’azione; alla preghiera attingiamo le energie necessarie per l’azione» 21. 18 Cf. F. Kafka, Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via, in Id., Lettera al padre. Gli otto quaderni in ottavo, Mondadori, Milano 1988 (ed. orig., 1953). Sul rapporto tra questo autore e l’ebraismo cf., di chi scrive, l’introduzione a F. Kafka, Cinque storie di animali, Donzelli, Roma 2000. 19 Ibid., p. 163. 20 Ibid., p. 165. 21 Ibid., p. 170.

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Kafka sa che soltanto su tali due momenti si potrebbe fondare tanto un linguaggio ricco, pieno di sfumature, comunicativo, caratteristico perciò di esseri umani viventi in un mondo non consegnato all’assurdo, quanto un’esistenza umana non votata alla morte o alla sconfitta, ma mossa dal desiderio di comprendere ciò che è davanti e intorno ad essa, abbandonando il timore, e proprio perciò in grado di dare un senso alle cose, nonostante l’alone enigmatico che queste mantengono. I suoi racconti e romanzi mostrano come la perdita di tali due momenti produca una realtà negativa.

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Gianni Barbiero

L’amore, “fiamma di Jah”. Una lettura contestuale di Ct 8, 5-7.13-14 1 di

Gianni Barbiero

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Introduzione Il Cantico dei cantici appartiene alla letteratura sapienziale di Israele, quindi, come è proprio di questa parte della Bibbia, non si occupa di Dio, ma delle realtà della vita. Dio non è nominato nel Cantico, se non una sola volta, in 8, 6, in cui dell’amore è detto che esso è ßalhebetjåh, “fiamma di Jah”, dove Jah è abbreviazione per JHWH, il Dio di Israele. Il passo quindi è particolarmente indicato per cogliere il rapporto tra corpo e religione. È opinione comune che 8, 6-7 sia il cuore, l’apice del Cantico, là dove l’autore raccoglie il messaggio che egli vuole trasmettere con il suo libro. Il brano però non è isolato. Per comprenderlo appieno bisogna collocarlo nel suo contesto letterario, che è il libro intero 2, ma più direttamente l’epilogo del libro, i vv. 5-14. Dice Cheril Exum: «Parte della ragione per cui la genialità del Cantico non è stata percepita può essere il fatto che una parte dei commentatori vede il Cantico come una collezione di poemi indipendenti» 3. Con Exum anch’io sono persuaso che il Cantico sia l’opera di una forte personalità poetica, che ha voluto concludere il suo libro con una finale degna di un grande maestro.

1 Questa relazione è una versione completamente riveduta di un mio precedente intervento: “Leg mich wie ein Siegel auf dein Herz – Fliehe, mein Geliebter”: Die Spannung in der Liebesbeziehung nach dem Epilog des Hohenliedes, in L. Bily - K. Bopp - N. Wolff (edd.), Ein Gott für die Menschen, FS O. Wahl, München 2002, pp. 17-30 (ripreso in G. Barbiero, Studien zu alttestamentlichen Texten [SBAB 34], Stuttgart 2002, pp. 185-198). 2 «The significance of these verses in the context of the Song of Songs, the Bible’s only love poem, far exceeds any meaning they have on their own, for they hold the key to the poem’s raison d’être» (J.C. Exum, The poetic genius of the Song of Songs, in A.C. Hagedorn [ed.], Perspectives on the Song of Songs [BZAW 346], Berlin-New York 2005, pp. 78-95, qui 79). 3 Ibid.

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L’amore, “fiamma di Jah”. Una lettura contestuale di Ct 8, 5-7.13-14

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All’interno dell’epilogo (8, 5-14) si distinguono quattro strofe, caratterizzate da una struttura dialogica: le prime tre sono un dialogo tra il “coro” e la donna (I = 5-7; II = 8-10; III = 11-12), la quarta tra la donna e il suo diletto (IV = 13-14) (cf. tabella 1). La risposta è sempre messa in bocca alla donna, la quale reagisce alle domande, prima del coro e alla fine del suo uomo. Il mio contributo prenderà in esame la prima e la quarta strofa, unite tra loro per il fatto che, mentre nelle altre due strofe si parla della dimensione sociale dell’amore 4, in queste è tematizzato l’amore in se stesso, il rapporto tra i due amanti 5.

«Mettimi come sigillo sul tuo cuore» (vv. 5-7) All’inizio dell’epilogo i due amanti sono presentati uniti nell’abbraccio mentre vengono verso la città (v. 5ab). Vengono, anzi salgono, perché Gerusalemme è in alto, e il deserto, il deserto di Giuda, che giunge fino al Monte degli Ulivi, è più in basso. Che si tratti di Gerusalemme, è insinuato dal verso immediatamente precedente: «Vi scongiuro, figlie di Gerusalemme: perché volete svegliare, perché ridestare l’amore prima che a lui sia gradito?». A parlare sono dunque, verosimilmente, queste stesse “figlie di Gerusalemme”. Tabella 1 Prima strofa: Rapporto degli amanti

Coro Lei

5 «Chi

è costei che sale dal deserto, appoggiata al suo diletto?» «Sotto il melo ti ho svegliato, là gemette tua madre, là gemette e t’ha dato alla luce. 6Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio, perché forte come la morte è Amore, implacabile come gli inferi Gelosia.

4 Per i fondamenti strutturali di questa divisione rimando a G. Barbiero, Il Cantico dei cantici (I libri biblici), Milano 2004, pp. 361-365. 5 L’inclusione tra prima e quarta strofa dell’epilogo è abbastanza evidente per la ripresa del termine dôdî (vv. 5 e 14) e della tematica del giardino (“melo”, v. 5; “giardini”, v. 13).

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Gianni Barbiero

I suoi dardi sono dardi di fuoco, una fiamma di Jah. 7Le grandi acque non bastano a spegnere l’amore, né i fiumi lo travolgono. Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa in cambio dell’amore, non ne otterrebbe che disprezzo».

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Seconda strofa: Critica della famiglia

Terza strofa: Critica della società

Coro 8 «Una sorella, piccola, abbiamo, Lei e seni ancora non ha. Che ne faremo, di nostra sorella, il giorno che se ne parlerà? 9Se è un muro, sopra gli costruiremo merli d’argento. Se è una porta, la sbarreremo con una tavola di cedro». 10 «Io sono un muro, e i miei seni son come le torri: ma sono divenuta ai suoi occhi come una che ha trovato la pace».

Coro Lei

11«Una

vigna aveva Salomone, a Baal Hamon, questa vigna egli diede ai custodi, ciascuno gli reca, per il frutto, mille sicli d’argento». 12 «La mia vigna, quella mia, m’è davanti: a te i mille sicli, Salomone – e duecento per i custodi del suo frutto!».

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L’amore, “fiamma di Jah”. Una lettura contestuale di Ct 8, 5-7.13-14

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Quarta strofa: Rapporto degli amanti

Lui Lei

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13 «Tu

che abiti i giardini, i compagni sono attenti alla tua voce, fa’ ch’io l’ascolti!». 14 «Fuggi, mio diletto, somiglia a una gazzella o a un piccolo di cervo, sui monti dei balsami».

Il paesaggio, dunque, è concreto, storico, ma aperto a significati simbolici. Gerusalemme è cifra della società, che non ha inventato l’amore, e che non deve dettargli le leggi, ma accoglierlo e proteggerlo. L’amore non viene dalla città, esso viene dal deserto, luogo delle forze primitive della natura, dimora degli animali selvaggi, per cui giura la donna del Cantico (cf. 2, 7; 3, 5), come per i rappresentanti delle forze della vita e dell’amore 6. Vengono in mente motivi mitologici, come quello della povtnia qerw`n greca e della b™lit s™rit mesopotamica 7. Ma il deserto è anche simbolo di morte e di pericoli 8, perciò l’amore nasce nel deserto, ma non rimane lì. L’amore ha bisogno della società, e i due amanti lasciano il deserto e procedono verso la città. Il Cantico non propone un idillio a due, una fuga dalla società, ma di affrontare la città e di portarvi la forza vitale dell’amore 9, trasformando i muri freddi della città in un albero accogliente. 6 Sulla contrapposizione fra “città” e “natura” nel Cantico, cf. H.-J. Heinevetter, “Komm nun, mein Liebster, Dein Garten ruft Dich!” Das Hohelied als programmatische Komposition (BBB 69), Frankfurt 1988, pp. 179-190. A mio avviso, ma l’idea è oggi abbastanza diffusa, il Cantico si colloca in epoca ellenistica (fine del III secolo a.C.), come risposta ebraica alla concezione dell’amore nella civiltà greca. La contrapposizione tra natura e città è tipica della poesia bucolica, per esempio di Teocrito. Per una datazione ellenistica del Cantico si pronunciano anche, tra gli altri, G. Garbini, La datazione del Cantico dei Cantici, in RSO 56 (1982), pp. 39-46; Heinevetter, sopra citato, che a sua volta sviluppa le osservazioni di H. Graetz, Schir Ha-Scirim oder das salomonische Hohelied, Wien 1871; e H.-P. Müller, Das Hohelied, in H.-P. Müller et alii, Das Hohelied, Klagelieder, Das Buch Ester (ATD 16/2), Göttingen 1992, pp. 1-90. 7 Cf. M.H. Pope, Song of Songs. A New Translation with Introduction and Commentary (AB 7C), New York 1977, p. 426. Ad Ugarit sˇahru e sˇalimu, gli dèi dell’aurora, hanno nel deserto la loro dimora. «Il deserto è tutto il territorio non coltivato, luogo sacro e puro (mdbr qdsˇ), dove operano divinità e forze che trascendono l’uomo» (P. Xella, Il mito di sˇhr e sˇlm, Roma 1973, pp. 105-106). 8 Cf. Ct 3, 7-8, dove la lettiga che trasporta la sposa nel suo viaggio attraverso il deserto è protetta da una scorta di sessanta guerrieri, armati di tutto punto «contro il terrore nelle notti». 9 Cf. H.-J. Heinevetter, “Komm nun, mein Liebster”, cit., pp. 188-189.

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È ciò che esprime la risposta dell’amata: «Sotto il melo ti ho svegliato» (v. 5c). Qui la metafora ha il sopravvento sulla concretezza storica. La donna parla della “stanza della madre”, come le parole che seguono mettono in chiaro: «Là gemette tua madre, là gemette e ti ha dato alla luce» (v. 5de). Ma, nella visione del poeta, l’amore ha trasformato le pareti della casa in un luogo di vita. Il poeta sente una continuità tra le forze dell’amore e quelle della natura: l’amore umano fa parte del miracolo della vita che si manifesta nel ciclo del nascere, crescere e morire. E c’è un ritrovare le radici profonde del proprio essere, un riconciliarsi con il passato. Là, nel luogo stesso dove sua madre lo ha generato, la donna genera nuovamente l’uomo svegliandolo all’amore: «Io ti ho svegliato». A parlare è la donna: è lei che suscita l’amore nell’uomo, lei che prende l’iniziativa. Un’interpretazione allegorica di questo passo, secondo cui dietro alla donna ci sarebbe il popolo di Israele oppure l’anima umana, e dietro all’uomo Dio, è impossibile, sia perché secondo la Bibbia l’iniziativa dell’amore è sempre di Dio (è impensabile che sia l’uomo a suscitare l’amore in Dio!), sia perché si supporrebbe che Dio abbia una madre da cui sia stato generato 10. Perciò l’amore di cui qui si parla è l’amore tra uomo e donna, connesso con la generazione e la sessualità. È da notare che già le antiche versioni hanno cambiato il genere dell’oggetto, mettendo l’affermazione “ti ho svegliato” in bocca all’uomo 11. Questo cambiamento obbedisce a un’interpretazione allegorica di un testo che originariamente allegorico non è. L’osservazione mi sembra fondamentale: la lettura allegorica del Cantico, pur essendo antichissima, non è quella intesa nella lettera del poema. L’autore sta parlando non del rapporto tra Dio e l’uomo, ma di quello tra l’uomo e la sua donna.

10 Nel NT questo fatto inaudito si realizza nell’incarnazione del Figlio di Dio, ma questo pensiero esula dalla mente dell’autore del Cantico. 11 La Bibbia di Gerusalemme segue la versione siriaca, come la maggior parte dei commentatori fino a qualche anno fa. Ultimamente questa lettura è difesa da J. Luzarraga, Cantar de los cantares. Sendas del amor, Estella 2005, pp. 564-565. Ma generalmente i commentatori attuali ritornano al testo ebraico; cf. tra gli altri M.H. Pope, Song of Songs, cit., p. 663; O. Keel, Das Hohelied (ZBAT), Zürich 1986, pp. 243-244; G. Ravasi, Il Cantico dei cantici. Commento e attualizzazione, Bologna 1992, pp. 639-645; A. Lacocque, Romance, She Wrote. A Hermeneutical Essay on the Song of Songs, Harrisburg 1998, p. 166; T. Longman III, Song of Songs (NICOT), Grand Rapids (MI) 2004, p. 207; Y. Zakovitch, Das Hohelied (HThK), Freiburg 2004, p. 268; J.C. Exum, Song of Songs (OTL), Louisville (KY) 2005, pp. 249-250.

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L’amore, “fiamma di Jah”. Una lettura contestuale di Ct 8, 5-7.13-14

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L’albero del melo non è scelto a caso. Esso viene nominato nel prologo del Cantico, in un passo altamente significativo: «Come un melo tra gli alberi della selva, così il mio diletto tra i giovani. Alla sua ombra, che ho bramato, io siedo, e il suo frutto è dolce al mio palato» (2, 3). Il melo è sacro alla dea dell’amore in Mesopotamia 12 e in Grecia 13. Ma nel Cantico, accanto a questi paralleli, risuona quello con il racconto del paradiso terrestre, Gn 2-3 14. Anche là era la donna a porgere il frutto dell’albero all’uomo (anche se non si dice, nella Genesi, che quest’albero fosse il melo), e, dice il testo biblico, «si aprirono gli occhi, e si accorsero di essere nudi» (Gn 3, 7). L’“aprire gli occhi” è semanticamente vicino allo “svegliare” del Cantico. Il mangiare del frutto era presentato nella Genesi come un peccato, perché contravveniva all’ordine divino. Nel Cantico non c’è ombra di riprovazione. L’aprirsi all’amore viene descritto come un’esperienza gratificante. Si direbbe che il Cantico si pone come correzione, o meglio come complemento del racconto della Genesi, riportando l’amore come era prima del peccato. Nel poema mesopotamico Gilgamesh, la prostituta, unendosi a Enkidu, ne causa la morte 15. Nel Cantico invece la donna, 12 Nei testi sumerici sul matrimonio sacro, Dumuzi, l’amante di Inanna, la dea dell’amore, è chiamato da costei: «Il mio melo, che reca frutto al colmo» (D. Wolkstein S.N. Kramer, Il mito sumero della vita e dell’immortalità, Milano 1985, p. 45). La mela era considerata un afrodisiaco e usata negli incantesimi amatori: «Scongiuro: la bella donna porta amore. Inanna, la dea dell’amore, a cui piacciono le mele e le melegrane, ha portato forza d’amore […]. A lei appartiene il rito dello scongiuro: tu reciti su una mela o su una melagrana lo scongiuro tre volte. Tu dai il frutto alla donna e ne fai succhiare il succo. Questa donna verrà da te. Tu la puoi amare» (O. Keel, Das Hohelied, cit., p. 86, traduzione mia). 13 Secondo il grammatico romano Servio, l’albero del melo era sacro ad Afrodite Cipria (cf. H.-P. Müller, Das Hohelied, cit., p. 24). Sul doppio senso erotico della mela, comune anche nel nostro linguaggio, si veda il celebre frammento 116 di Saffo: «Come quel dolce pomo rosseggia, in cima al ramo più alto […]» (cf. Saffo, Poesie [introduzione di F. Benedetto, traduzione e note di F. Ferrari, BUR L623], Milano 2003, pp. 200-201). 14 Sul rapporto tra Es 2-3 e il Cantico si veda l’affermazione di Lys: «Il Cantico non è nient’altro che un commento a Gn 2» (D. Lys, Le plus beau chant de la création. Commentaire du Cantique des Cantiques [LD 51], Paris 1968, p. 52). Il parallelo è sviluppato mirabilmente da K. Barth (cf. Die kirchliche Dogmatik, vol. III/1, Zürich 1947, pp. 329-362; vol. III/2, Zürich 1948, pp. 344-360), e, ultimamente, da autori come Ph. Trible, Love’s Lyric Redeemed, in A. Brenner (ed.), A Feminist Companion to the Song of Songs, Sheffield 1993, pp. 100-120; F. Landy, Paradoxes of Paradise. Identity and Difference in the Song of Songs (BLS 7), Sheffield 1983; R.M. Davidson, Theology of the Sexuality in the Song of Songs: Return to Eden, in AUSS, 27 (1989), pp. 1-19. 15 Nella tav. VII, ll. 99-128, Enkidu maledice la prostituta, che, unendosi a lui, ne aveva causato la morte. Nello stesso senso si esprime Gilgamesh, quando rigetta l’offerta di Ishtar (tav. VI, 22-79). Cf. G. Pettinato (ed.), La saga di Gilgamesh, Milano 2004, pp. 76-78 e 63-66.

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aprendo l’uomo all’amore, lo apre alla vita («ti ha dato alla luce»). Morte e vita sono a ogni modo strettamente connesse nel mistero dell’amore, come ciò che segue metterà in rilievo. Il v. 6 va inteso come una continuazione del discorso fatto finora. La metafora del sigillo sul cuore e sul braccio è la rappresentazione iconografica dell’abbraccio, descritto nel v. 3 e ripreso nel v. 5: «La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia» (8, 3). Nell’abbraccio, la donna è veramente sul cuore e sul braccio dell’uomo. Il “sigillo” esprime l’indissolubilità dell’unione. Se l’unione si scioglie, il sigillo si rompe. La metafora del sigillo è la richiesta di non sciogliere mai l’unione finalmente raggiunta: all’origine, l’amore è eterno. Quando una ragazza dice al suo ragazzo: ti amo, vuol dire “per sempre”. Ma il sigillo sul cuore ha anche il valore di un amuleto contro la morte, soprattutto alla luce di quel che segue. Ed è interessante notare che in 2, 13 era il diletto ad essere un amuleto per lei: «Un sacchetto di mirra è il mio diletto per me, tra i miei seni trascorre la notte». Qui è lei ad essere un amuleto sul cuore del suo amato. Gli amanti, dice Alberoni, non hanno paura della morte 16. Ad orecchi ebrei, familiari con l’Antico Testamento, l’immagine del sigillo sul braccio e sul cuore non può non ricordare le parole dello Shemà: «Queste parole […] stiano sul tuo cuore, […] te le legherai sul braccio come un segno» (Dt 6, 6.8). Il Cantico dunque volutamente traspone all’amore umano espressioni usuali per parlare dell’amore di Dio. Ritroveremo ancora questo fenomeno. Tra amore umano e amore divino il Cantico scorge una continuità profonda, ed è qui anche la verità della lettura allegorica. A differenza dalla lingua greca, la lingua ebraica, come quella italiana, conosce un solo termine per parlare di amore: ’ahabåh. L’’ahabåh ebraica comprende i tre tipi greci di amore: ajgavph, e[roı e filiva. I profeti avevano usato i termini dell’amore umano per parlare di Dio. Il Cantico riporta questi termini al rapporto tra uomo e donna, ma nel frattempo essi si erano caricati di una valenza divina. L’amore umano diviene eterno, come quello di Dio 17. Il discorso ora si fa alto, filosofico. «Poiché forte come la morte è Amore, implacabile come gli inferi Gelosia» (v. 6c). Anche qui, la 16 In «Corriere della sera», 20 agosto 2001, prima pagina (Gli innamorati hanno paura della solitudine, non della morte, a commento di un fatto di cronaca). 17 «For the Torah and the Prophets, God’s love was to be described in terms of human love. The Canticle now models human love on God’s love. Love between a man and a woman is “a flame of Yah”» (A. Lacocque, Romance, She Wrote, cit., p. 176).

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L’amore, “fiamma di Jah”. Una lettura contestuale di Ct 8, 5-7.13-14

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frase va contestualizzata: il “poiché” iniziale lega l’affermazione su amore e morte a quella del sigillo. L’unione non tollera separazione, poiché l’amore è forte come la morte, la gelosia implacabile come gli inferi. L’evocazione della gelosia, con il suo lato oscuro, il suo potere distruttivo (“implacabile come gli inferi”) riporta al carattere di esclusività dell’amore. L’amore del Cantico è totalizzante, non tollera rivali. Di nuovo, viene spontaneo il richiamo all’amore divino. Il Dio della Bibbia si fa chiamare “Geloso”, perché non tollera altri dèi accanto a sé (cf. Es 34, 14; 20, 5). Tra monoteismo e monogamia esiste una profonda relazione. L’amore “forte”, “implacabile” è un tema che percorre il Cantico e trova corrispondenza nella cultura dell’oriente antico, dove la dea dell’amore era anche la dea della guerra. Per il mondo greco ricordiamo il verso dell’Antigone: Amore, invitto in battaglia 18. Effettivamente il diletto percepisce la sua amata come una forza irresistibile, «terribile come un esercito schierato in campo» (6, 4). Cos’è la forza di un esercito di fronte a quella dell’amore? Non a caso G. Garbini accosta il messaggio del Cantico a quello di Gesù di Nazaret 19. Per molti aspetti io prendo le distanze da Garbini, ma penso che questa intuizione sia corretta. Il messaggio di amore di Gesù è per tanti aspetti vicino a quello del Cantico. Gesù ha creduto nella forza dell’amore, più efficace e potente delle armi. C’è, secondo il Cantico, una sola realtà che può lottare con l’amore ad armi pari, ed è la morte. Amore e morte: anche questo è un tema eterno come l’uomo. Il nostro testo dice: «forte come la morte», non, come vorrebbe Garbini: «più forte della morte» 20. C’è anzitutto una somiglianza tra i due, perché entrambi chiedono tutto 21. Chi ama perde la sua libertà e, in fondo, perde la sua vita per la persona amata, non vive più per se stesso, ma per l’altro. L’atto stesso dell’amore, l’orgasmo, è una “piccola morte”, un uscire da se stessi, un perdersi nell’altro 22. Come con la morte, così con l’amore non si scherza. Perciò l’amore fa paura, come fa paura la morte. Questo aspetto terribile dell’amore, forza di vita e di morte, viene 18 Sofocle, Antigone, 781. 19 Cf. G. Garbini, Cantico dei cantici (Biblica 2), Brescia 1992, pp. 328-333. 20 Ibid., p. 278. 21 Cf. F. Landy, Paradoxes of Paradise, cit., p. 123. 22 Cf. J.C. Exum, The poetic genius of the Song of Songs, cit., p. 251. In un

altro senso (ma le due cose non sono così lontane come sembra), dice il Vangelo: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 13).

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sottolineato sia nel discorso sulla gelosia, sia in quello dei “dardi di fuoco”. Il termine ebraico per dire “dardo”, resˇep, è il nome di una divinità orientale. Si tratta di una divinità ctonica, che apportava peste e malattie allo stesso tempo che amore e fecondità, un po’ come il dio Apollo (cf. figura 1) 23. Le frecce dell’amore portano morte e vita, come quelle di resˇep. Ma amore e morte sono anche antitetici, in lotta tra loro. Se la lotta viene vinta dalla morte, l’unione si scioglie, il sigillo si rompe. Il Cantico è cosciente di questo e, nel versetto 7, giunge a dire che l’amore ha vinto la lotta con la morte. Però prima, e a fondamento di questa affermazione, ne fa un’altra, a prima vista sconcertante. I dardi di amore sono «una fiamma di Jah». Sconcertante è questa affermazione, perché nel Cantico non si nomina mai Dio. Il Cantico è un libro sapienziale, laico diremmo oggi, non direttamente teologico, anche se nel mondo biblico non c’è separazione tra teologia e filosofia. Non fa meraviglia che diversi autori o cambino il testo, o lo spieghino come un modo per indicare il “fulmine”. D. Lys traduce: «Un sacré coup de foudre» 24. A mio avviso invece quest’espressione è di capitale importanza per comprendere la visione dell’amore del Cantico. Si noti che non si parla genericamente di “fuoco di Dio”, ma specificamente di “fuoco di Jah”, cioè del Dio di Israele, quasi in contrapposizione alla menzione di resˇep nello stico precedente. Cioè l’amore non è una forza di morte, ma di vita, la forza del Dio che ha dato vita a Israele, che l’ha liberato dall’Egitto. In essa non c’è il volto di un demone malefico, ma il volto buono del Dio dell’Esodo, il fuoco che arde e non consuma (cf. Es 3, 2-3). Si comprende che ogni volta che nel Cantico si parla di amore, e di amore umano, sessuato, questo sia circondato di un’aura religiosa 25. 23 Per questa figura cf. O. Keel, Die Welt der altorientalischen Bildsymbolik un das Alte Testament. Am Beispiel der Psalmen, Zürich/Neukirchen-Vluyn 1984, p. 200, fig. 302; J.B. Pritchard, The Ancient Near East in Pictures, Princeton 1969, p. 164, fig. 476; G. Barbiero, Il Cantico dei cantici, cit., p. 530, fig. 108. 24 D. Lys, Le plus beau chant de la création, cit., p. 282. Gerleman ha «eine gewaltige Flamme» (G. Gerleman, Ruth, Das Hohelied [BK 18], Neukirchen-Vluyn 1965, p. 216). 25 Paradigmatica al riguardo è la domanda «Chi è costei?», mî zø’t, che suona all’inizio dell’epilogo (8, 6), e che costituisce un ritornello nel poema (cf. ancora 3, 6; 6, 10), esprimendo ogni volta lo stupore di fronte a un’apparizione teomorfica: la donna avvolta di nubi d’incenso come l’arca dell’alleanza (3, 6), splendida, bella e terribile più che gli astri del cielo, che nel mondo antico erano considerati divinità (6, 10), miracolo di vita che vince il deserto e la morte (8, 6). Cf. H.-P. Müller, Begriffe menschlicher Theomorphie. Zu einigen cruces interpretum in Hld 6, 10, in ZAH, 1 (1988), pp. 112-121.

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Tabella 2

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v. 5b v. 6a v. 6b-7

Rappresentazione dell’unione finalmente raggiunta Richiesta: quest’unione non sia mai sciolta (sigillo) Motivazione: l’amore è più forte della morte

Le affermazioni del versetto 7 sono una conseguenza del carattere divino dell’amore, messo in luce nell’ultimo stico del v. 6 26. La prima frase («Le grandi acque non bastano a spegnere l’amore, né i fiumi lo travolgono») continua e porta a conclusione il discorso sul rapporto tra amore e morte, che è il Leitmotiv del Cantico. Infatti “le grandi acque” sono una metafora per indicare la morte, e lo stesso sono “i fiumi”. Anche qui echeggiano motivi mitici della lotta del dio creatore contro il mostro del caos 27. Perciò l’affermazione: «le grandi acque non bastano a spegnere l’amore», equivale a dire che la morte non basta a distruggere l’amore. Il ragionamento è conseguente. L’unione non si può sciogliere, il sigillo non si può rompere perché l’unico avversario che potrebbe romperlo ha perso la lotta. L’amore ha vinto la lotta con la morte (cf. Tabella 2). Dicevamo delle risonanze di questa concezione con la mitologia antica. In tutto il mondo antico è diffuso un mito stagionale. Il dio dell’amore e della vita alla fine dell’estate viene inghiottito dal regno dei morti, ma la sua sposa si reca nel mondo sotterraneo e lo riporta alla vita. Il ritorno della primavera era visto come il ritorno alla vita del dio defunto, la vittoria dell’amore sulla morte. C’è, in Egitto, una rappresentazione particolarmente espressiva di questo mito (cf. figura 2) 28. Il defunto Osiride viene rappresentato in una bara, e la sua sorella e sposa Iside gli è messa accanto, una prima volta con sembianze umane, una seconda volta sotto le sembianze di falco femmina che viene fecondata dal membro eretto dello sposo defun-

26 E quindi non ha ragione Heinevetter di ritenere che con 8, 6 il Cantico sia finito (cf. H.-J. Heinevetter, “Komm nun, mein Liebster”, cit., p. 166). Egli cita a sua volta Landy: «After the credo, the Song has nothing more to say. There are only few difficult fragments» (Paradoxes, 133). C’è una tendenza diffusa a sottovalutare i vv. 7-14. La Bibbia di Gerusalemme, ad esempio, fa terminare il Cantico in 8, 7, qualificando i vv. 8-14 come “Appendici”. 27 Cf. H.G. May, Some cosmic connotations of mayim rabbîm, “many waters”, in JBL, 74 (1955), pp. 9-21. 28 Per questa figura cf. O. Keel, Das Hohelied, cit., p. 249, fig. 143; G. Barbiero, Il Cantico dei cantici, cit., p. 504, fig. 46.

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to. Il frutto di questo amore viene rappresentato ai piedi di Osiride, è il figlio Horus, che vincerà la lotta con il dio Set, il dio del deserto e della morte. Penso che questa sia un’intuizione molto concreta di come l’amore vinca la lotta contro la morte. Attraverso la generazione di una nuova vita. Ma il testo del Cantico ha una sua originalità. Infatti il v. 7 sembra l’eco di un passo di Isaia, in cui Dio assicura il suo popolo che non l’abbandonerà mai: «Se dovrai attraversare le acque sarò con te, i fiumi non ti travolgeranno, se dovrai passare in mezzo al fuoco non ti scotterai, e la fiamma non ti potrà bruciare, perché io sono JHWH, tuo Dio» (Is 43, 2). Non solo le immagini, ma le parole decisive sono comuni ai due brani. Considerata la continua intertestualità del Cantico, il richiamo sembra molto probabile. Cioè il Cantico, parlando della vittoria dell’amore sulla morte, non mette l’accento sulla procreazione, ma sul rapporto personale. Se comprendiamo bene, egli traspone, nuovamente, al rapporto tra gli amanti quella che è la sua esperienza del rapporto con Dio. Poiché la morte non può mettere fine al rapporto di Dio con il suo popolo 29, essa non può mettere fine al rapporto che unisce l’uomo alla sua donna. Per il fatto che l’amore è una “fiamma di Jah”, esso partecipa degli attributi divini. E infine, poiché l’amore è una fiamma di Jah, esso non è acquistabile con i soldi: «Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa in cambio dell’amore, non ne otterrebbe che disprezzo» (v. 7cd). C’è qui una protesta accorata contro il costume, diffuso nel mondo orientale, del mohar, per cui generalmente il matrimonio, nel mondo ebraico, si risolveva in un contratto economico tra due famiglie 30. Il Cantico applica all’amore ciò che Giobbe dice della Sapienza. Secondo Giobbe la Sapienza è fuori della portata dell’uomo: «Non si scambia con l’oro 29 Questa convinzione, che il brano di Isaia abbia un carattere collettivo, riguardante cioè il popolo di Israele, viene individualizzata nei Salmi, dove l’orante esprime la sua convinzione che Dio non può abbandonare il suo fedele neanche nella morte (cf. Sal 16, 9-11; 49, 16; 73, 23-24). A differenza dalle religioni naturistiche, che cercavano la possibilità di una vita dopo la morte nell’immersione nel ciclo della natura, per Israele la speranza di una vita oltre la morte ha un carattere eminentemente personale. 30 Così A. Robert - R. Tournay, Le Cantique des Cantiques. Traduction et commentaire (EtB), Paris 1963, pp. 305-306; G. Krinetzki, Kommentar zum Hohenlied. Bildsprache und theologische Botschaft (BET 16), Frankfurt 1981, pp. 221-222. Sull’importanza di quest’affermazione si veda Graetz: «(Il versetto 7b) è la verità più importante che l’autore vuole imprimere nel cuore dei suoi auditori» (H. Graetz, Schir Ha-Scirim oder das salomonische Hohelied Schir Ha-Scirim, cit., p. 209). Non concordiamo quindi con Ravasi, che parla, a rispetto di questo versetto, di uno scadere della qualità poetica (cf. Il Cantico dei cantici, cit., p. 633).

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L’amore, “fiamma di Jah”. Una lettura contestuale di Ct 8, 5-7.13-14

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più scelto, e per comprarla non si pesa l’argento […]. Dio solo ne conosce la via, lui solo sa dove si trovi» (Gb 28, 15.23). Ciò che Giobbe dice della Sapienza, il Cantico lo dice dell’Amore. Sapienza e Amore sono due “fiamme divine”. Non sono a disposizione dell’uomo, si possono ottenere solo come dono. Aristotele parla, a rispetto di amore, di “casualità” del rapporto amoroso. L’uomo biblico lo vede come un dono di Dio: «Tre cose mi sono difficili, anzi quattro, che io non comprendo: Il sentiero dell’aquila nell’aria, il sentiero del serpente sulla roccia, il sentiero della nave in alto mare, il sentiero dell’uomo in una giovane» (Prv 30, 19).

«Fuggi, mio diletto» (8, 13-14) La polemica contro la società, introdotta nel verso 7cd, continua nelle due strofe seguenti, che sono un’illustrazione di come la donna prenda bellamente in giro chi vuole offrirle soldi in cambio dell’amore 31. Il tema sarebbe oggi, in una così diffusa “commercializzazione” dell’amore, quanto mai attuale, ma esula dall’argomento della nostra relazione. Ci eravamo proposti di soffermarci sulla quarta e ultima strofa, i vv. 13-14, uniti alla prima strofa perché di nuovo pongono al centro dell’attenzione il rapporto tra i due amanti. Si tratta di un brano enigmatico, liquidato dalla Bibbia di Gerusalemme sbrigativamente con il titolo: «Ultime aggiunte». Come essa poi spiega nella nota, il v. 13 sarebbe l’inizio di un poema andato perduto, a cui sarebbe stato aggiunto, per concludere, il ritornello del v. 14. A mio avviso, il testo si inserisce invece mirabilmente sia nell’epilogo, sia nel Cantico, di cui è degna conclusione 32. Anzitutto, alla luce delle due strofe precedenti, si comprende il senso del v. 13: «I compagni sono attenti alla tua voce». Il verbo qui impiegato esclude un’interpretazione negativa della frase, come quella di chi pensa si stia parlando di malintenzionati “guardoni” 33. 31 Si noti la significativa ripetizione della parola kesep, “argento, denaro”, ai vv. 9 e 11 (cf. sopra, tabella 1). 32 Si veda in questo senso T. Elliott, The Literary Unity of the Canticle (EHS), Frankfurt 1989, p. 210; N. Poulssen, Vluchtwegen in Hooglied 8, 14. Over de meerzinnigheid van een slotvers, in «Bijdr», 50 (1989), pp. 72-82, 75; J.-J. Lavoie, Festin érotique et tendresse cannibalique dans le Cantique des Cantiques, in SR, 24 (1995), pp. 131146, 145; J.C. Exum, Song of Songs, cit., pp. 261-263. 33 «Cosa avessero a che fare gli anziani sacerdoti con i “compagni” che stavano ad ascoltare le effusioni dei due giovani innamorati diventa pienamente evidente quando

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Il verbo “essere attento, ascoltare” (qsˇb) qui impiegato, è usato nella Bibbia ebraica per esprimere l’ascolto della parola di Dio, o l’ascolto che Dio presta alle parole dell’uomo. È dunque un verbo altamente positivo dal punto di vista teologico. Io vorrei comprenderlo come l’atteggiamento della società, di fronte alle parole che la donna del Cantico le ha rivolto nelle strofe precedenti. I “compagni” sarebbero il “coro”, cioè le figlie di Gerusalemme (v. 5), i fratelli (vv. 8-9), i guardiani della vigna (v. 11), in una parola la famiglia e la società civile, oggetto della critica dei versetti precedenti. La società avrebbe riconosciuto nelle parole della donna la parola di Dio. Così ha fatto realmente Israele, e poi la Chiesa, che ci hanno consegnato il Cantico, la parola dell’amata, come Parola di Dio. Dopo le parole rivolte alla società, il diletto chiede un’ultima parola per se stesso: «Fa’ ch’io l’ascolti». Il poema ritorna così al rapporto tra i due amanti, che aveva caratterizzato la prima strofa, e che è il tema di fondo del Cantico. L’immagine della gazzella sui “monti dei balsami” è uno dei ritornelli del Cantico, che appare ancora, con leggere varianti, in 2, 17 e 4, 6. In 2, 17 si parla di “monti divisi”, alludendo ai seni della donna, e lo stesso significato ha l’espressione di 4, 6: «monte della mirra e collina dell’incenso». Nel parlare immaginoso del Cantico, si tratta di metafore del corpo femminile, espressione dell’identificazione archetipica della donna con la terra, la “madre terra”. In 2, 17 la donna invitava l’uomo a tornare da lei, e gli fissava un appuntamento per la sera («Quando il giorno respira e le ombre si allungano, vieni, mio diletto, somigli a un capriolo o a un piccolo di cervo sui monti divisi»). In 4, 6 l’uomo accoglieva l’invito dell’amata, dichiarando il suo proposito: «Quando il giorno respira e si allungano le ombre, me ne andrò al monte della mirra e alla collina dell’incenso». Ma in 8, 14 le parole usate dalla donna sono diverse. Il testo suona: «Fuggi, mio diletto». Apparentemente c’è una contraddizione tra il verbo “fuggire” e la direzione della fuga. Il testo non permettere di intendere “fuggire” come un sinonimo di “venire” 34. si rammenta la storia di Susanna, la casta sposa di Ioakim, e dei due anziani […]. L’autore del Cantico ha voluto lanciare un’altra freccia velenosa contro quei sacerdoti che si erigevano a custodi e propugnatori di una morale che essi per primi violavano» (G. Garbini, Cantico dei cantici, cit., pp. 287-288). Ma il testo non dice che i “compagni” stanno ascoltando “le effusioni dei due giovani innamorati”. Essi stanno ascoltando soltanto “la tua voce”! 34 Si vedano in questo senso le traduzioni di H.-P. Müller, Das Hohelied, cit., p. 90 («Komm schnell»); J. Luzarraga, Cantar de los cantares, cit., p. 601 («Corre»).

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L’amore, “fiamma di Jah”. Una lettura contestuale di Ct 8, 5-7.13-14

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Cioè non si chiede di venir via dalla società e di scappare dall’amata. Infatti i due amanti sono già uniti: come tali sono stati presentati, abbracciati, all’inizio dell’epilogo, e lei chiedeva che quest’unione non venisse mai sciolta. Il verbo “fuggire” va inteso, dunque, letteralmente, come una presa di distanza. E va accettata anche la paradossalità che questa presa di distanza non sia finalizzata a una rottura del rapporto, ma a un approfondimento dello stesso; che la “fuga”, cioè, sia diretta ai “monti dei balsami”, che sappiamo essere designazione poetica del corpo della donna. Si tratta di vera fuga, e vera unione, dunque. Un simile paradosso propone il Cantico nel capitolo 6, quando il diletto si allontana dalla sua donna, e le “figlie di Gerusalemme” la prendono in giro: «Dov’è andato il tuo diletto, tu, la più bella fra le donne? Dove si è volto il tuo diletto, perché con te lo cerchiamo?» (6, 1). Lei risponde: «Il mio diletto è sceso nel suo giardino» (6, 2), il che è un paradosso, perché il “giardino”, come la “vigna” e i “monti dei balsami”, è immagine del corpo della donna. Il diletto era veramente fuggito, e lei ne era rimasta terrorizzata, aveva percorso di notte le strade della città in una spasmodica ricerca. Ma alla fine era giunta alla convinzione che la “fuga” era finalizzata all’unione: «Il mio diletto è sceso nel suo giardino». Il versetto che segue spiega come lei sia arrivata a questa convinzione: «Io appartengo al mio diletto, e il mio diletto mi appartiene» (6, 3). La certezza dell’appartenenza reciproca le aveva fatto superare l’angoscia della separazione. Quando si è certi di appartenere l’uno all’altra, la distanza non è la morte dell’amore, ma condizione vitale del suo rinnovarsi. Quindi tra la prima e l’ultima strofa dell’epilogo c’è una tensione come tra vicinanza e lontananza, unione e separazione. L’amore tende all’unione, come è detto mirabilmente nel secondo capitolo della Genesi: «Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna, e i due saranno una carne sola» (Gn 2, 24). La donna è questo pezzo di carne che è stato tolto dall’uomo e che tende a ricongiungersi con lui per ricomporre l’unità. L’amplesso, quando i corpi vibrano all’unisono, è ritrovare l’unità primordiale, perdersi nell’altro. È questo il tema della prima strofa dell’epilogo: «Mettimi come un sigillo sul tuo cuore, come un sigillo sul tuo braccio» (8, 6). Ma l’unione non è tutto. L’amore ha bisogno anche di distanza, per permettere ai due amanti di essere se stessi. L’unione può portare alla fusione, alla cancellazione della persona propria o della persona amata. Perciò l’invito iniziale: «Mettimi come un sigillo sul tuo cuo-

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re», va completato con l’altro: «Fuggi, mio diletto». L’altro deve rimanere altro, e in fondo è così, anche nel momento dell’unione più intima. A. Abécassis notava: «Quando faccio l’amore posso pensare a che cosa pensi mia moglie, ma non penso ciò che lei pensa» 35. L’amore vive di questa tensione tra unione e distanza, immanenza e trascendenza, perdersi nell’altro ed essere, nello stesso tempo, se stessi. La conclusione del Cantico, genialmente, non chiude il cerchio dell’amore, sarebbe la sua morte. Essa lo apre a un nuovo inizio: dopo ogni unione c’è un nuovo itinerario che va dalla separazione al desiderio, alla ricerca e a una nuova unione. L’amore non è stasi, ma movimento. La fine del Cantico rimanda così al principio, come in un rondò rinascimentale. Tornando al tema d’inizio, mi sembra che si compia così quell’analogia tra amore umano e amore divino che è implicita nella prima pagina della Genesi: «Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò» (Gn 1, 27). Il Dio della Bibbia ebraica e cristiana non è un solitario, è comunione di amore (per questo l’immagine di Dio non è l’uomo solo, ma la coppia, uomo e donna). Il Dio-Trinità del Nuovo Testamento è il compimento dell’intuizione di Gn 1. Per quanto le tre persone divine siano unite e inseparabili, non si confondono, sono a un tempo uno e tre, per l’eternità. L’amore umano si rivela la metafora più compiuta per comprendere l’essere di Dio, e Dio la misura più vera dell’amore umano.

35 Espressione colta a viva voce dall’autore. Il testo della conferenza è apparso poi, con parole simili, cf A. Abécassis, Espaces de lecture du Cantique des Cantiques en contexte juif, in J. Debergé - P. Nieuviarts (edd.), Les nouvelles voies de l’Exégese, en lisant le Cantique des Cantiques. XIX congrès de l’ACFEB, Toulouse 2001 (LD 190), «La relation sexuelle est constitutive de l’identité humaine parce qu’elle est l’épreuve par excellence de la découverte de la relation à la trascendence. Parce que c’est dans la plus grande proximité entre l’époux et l’épouse, au moment où la nature s’exprime à travers leur relation, que, par la sexualité qui vise la jouissance, ils reprennent place dans l’ordre de la nature et dans l’immanence et qu’ils doivent préserver leur trascendence mutuelle en en devenant responsables».

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L’amore, “fiamma di Jah”. Una lettura contestuale di Ct 8, 5-7.13-14

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Fig. 1. Il dio Reshep

Fig. 2. Su una bara giace Osiride, ucciso dal suo rivale Set. Egli tiene il membro eretto (si nota ancora, nonostante le successive raschiature). Su questo si trova il falco femmina Iside, moglie e sorella di Osiride: essa viene resa gravida dal già defunto marito e genera il figlio e vendicatore Horo (raffigurato ai piedi del defunto).

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L’amore, L’amore, “fiamma “fiamma di di Jah”. Jah”. Una Una lettura lettura contestuale contestuale di di CT Ct 8, 8, 5-7.13-14 5-7.13-14

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Il corpo come contrario: mistica, ascetica ed escatologia

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Il corpo come contrario: mistica, ascetica ed escatologia

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Il corpo come contrario: mistica, ascetica ed escatologia 1 di

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Il corpo come contrario Il paragrafo terzo dell’enciclica Deus caritas est evoca il saluto scherzoso che l’epicureo Gassendi rivolgeva a Cartesio ogni volta che l’incontrava: «O Anima!». E Cartesio replicava: «O carne!» 2. La celia è rivelativa e rinvia alla classica formula cartesiana della Sesta Meditazione filosofica: «E sebbene, forse (o piuttosto certamente, come dirò subito), io abbia un corpo, al quale sono assai strettamente congiunto, tuttavia poiché da un lato ho una chiara e distinta idea di me stesso, in quanto sono solamente una cosa pensante e inestesa, e da un altro lato ho un’idea distinta del corpo, in quanto esso è solamente una cosa estesa e non pensante, è certo che quest’io, cioè la mia anima, per la quale sono ciò che sono, è interamente e veramente distinta dal mio corpo, e può essere o esistere senza il corpo» 3.

Il dualismo cartesiano, che segna dolorosamente la cultura moderna nella figura della scissione, suona come eco estrema – in altra temperie, certo – di accenti agostiniani, verso i quali Cartesio contrae debiti spesso sottolineati dalla storiografia. Nel libro decimo delle Confessioni di sant’Agostino, nel passaggio cruciale che traccia

1 Relazione al convegno internazionale su «Corpo e religione», organizzato dalle Università degli Studi di Roma «La Sapienza» e di Roma Tre, col patrocinio del Dipartimento di Scienze filosofiche di Roma Tor Vergata (Roma 5-7 ottobre 2006). Il tema, scelto dagli organizzatori, intendeva mettere a confronto due posizioni interne alla dimensione religiosa e polarizzate per un verso sul biblico Cantico dei cantici e, per altro verso, «sugli esiti di una visione del corpo come contrario declinata in ambito mistico, ascetico ed escatologico», come recita la presentazione del convegno. 2 Benedetto XVI, Lettera Enciclica Deus caritas est, § 3, dove in nota si rinvia all’edizione di V. Cousin, R. Descartes, Oeuvres, vol. 12, Paris 1824, pp. 95ss. 3 Cartesio, Sesta meditazione, in Oeuvres, VII, Adam et Tannery, Paris 1891-1912, p. 86 (tr. it. di A. Tilgher, Discorso sul metodo. Meditazioni filosofiche, E. Garin [ed.], Laterza, Roma-Bari 1978, pp. 126s.; corsivo mio).

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l’itinerario dell’uomo a Dio, ricorre almeno tre volte e con insolita enfasi la medesima espressione: ego animus, «io sono l’anima» 4. Agostino si libera del materialismo manicheo, si sa, proprio meditando su testi neoplatonici e da essi assorbe quel dualismo che, certamente mitigato e armonizzato coi dati della fede biblica 5, resiste come tenace tonalità spirituale dell’antropologia agostiniana. L’anima è sostanza, ossia il principio per cui l’uomo vive, conosce e vuole. Certo, e qui appunto si mitiga il dualismo neoplatonico, la Provvidenza ha unito questa sostanza spirituale a un corpo perché lo regga e lo governi, e dunque essa mantiene intatta la sua sovranità e la sua indipendenza o, meglio, la sua autonoma sussistenza indipendentemente dal corpo. La definizione agostiniana di anima suona così: «L’anima è una sostanza dotata di ragione, adatta a guidare, a condurre, ad amministrare un corpo» 6.

Il verbo agostiniano regere, qui tradotto con tre verbi (guidare, condurre, amministrare), evoca l’immagine platonica del timoniere nella barca (sicut nauta in navi), così idonea a spiegare il dogma cristiano della vita futura, oltre quella terrena: la verità profonda dell’uomo si decide in base a ciò che sfida vittoriosamente la morte e le sopravvive, e dunque l’uomo è e si esprime essenzialmente nell’anima: ego animus, «io sono l’anima». E il corpo è il contrario 7. 4 Agostino, Confessioni, X, 6, 9: «Ecco qui: corpo e anima, l’uno esterno e l’altra interiore. Quale fra queste due cose è quella con cui avrei dovuto cercare il mio Dio? […] Io l’anima (ego animus) lo so mediante il mio corpo sensibile». Cf. ibid. 7, 11; 16, 25. 5 Anche qui vale la regola ermeneutica secondo la quale Agostino dipende dal neoplatonismo per quel tanto che la fede cattolica consente. La riflessione agostiniana sul corpo meriterebbe analisi attente e delicate. Se ne avrebbero, credo, risultati sorprendenti e comunque diversi dalla receptio corrente. Cf. De Trinitate 15, 7, 11; De civitate Dei 13, 24, 2; De anima et eius origine 4, 2, 3; e soprattutto il Sermo 154, 10, 15. 6 Agostino, De quantitate animae XIII, 22: «Si autem definiri tibi animus vis, et ideo quaeris quid sit animus; facile respondeo. Nam mihi videtur esse substantia quaedam rationis particeps, regendo corpori accomodata» (corsivo mio). 7 Il dossier agostiniano include pure il trattamento della immagine platonica del corpus-carcer (cf. Fedone 62b): Contra Academicos 1, 3, 9 (V. Tarulli [ed.], Città Nuova, Roma 1970, p. 37); Enarratio in psalmum 141, 17 (D. Gentili [ed.], Città Nuova, Roma 1977, pp. 613-615); Sermo 256, 1-2 (P. Bellini - F. Cruciani - V. Tarulli [edd.], Città Nuova, Roma 1984, p. 815). La stessa immagine torna negli autori cristiani che conoscono i medesimi libri neoplatonici su cui meditò Agostino: Ambrogio (Exameron IX, 9, 55; De paradiso 12, 54), Girolamo (In Esaiam XI, 28, 4-8), Boezio (Philosophiae consolatio II, 7, 23), Gregorio Magno (Moralia in Iob IV, 34, 68; VIII, 23, 39). Cf. il vecchio ma sempre godibile P. Courcelle, Tradition platonicienne et traditions chrétiennes du corps-prison (Phédon 62b; Cratyle 400c), in «Revue des Etudes Latines» 43 (1965), pp. 406-443.

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Il corpo come contrario: mistica, ascetica ed escatologia

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Il corpo come prossimo, e come amico Eppure l’esperienza cristiana muove da ben altre coordinate e, si direbbe, letteralmente rovescia il paradigma del corpo come contrario. Gregorio di Nissa non vede nel corpo l’eterno nemico ma il «buon compagno» dell’anima 8, anch’esso salvato e redento da Cristo. Ma ancor prima, già nel secondo secolo dell’era cristiana, l’apologista Tertulliano individua il punto cruciale e interroga:

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«Perché, o anima, senti astio per la carne? Dopo Dio, niente come la carne ti è tanto prossimo che tu debba amare di più; nessuno ti è più fratello della carne, perché anch’essa nasce con te in Dio» 9.

All’inizio dello stesso De resurrectione si trova la formula riassuntiva, vero emblema della fede cristiana: «La carne è il cardine della salvezza» 10. Lo storico delle dottrine rileva che il paradigma del corpo come contrario è il bersaglio della teologia cristiana che, nel suo stato nascente e incandescente, affronta la sfida della gnosi, la più sottile e insieme la più grave minaccia che incombe permanente sullo spirito cristiano appunto per il suo camuffamento spiritualista. Contro la gnosi Ireneo di Lione scrive i cinque libri dell’Adversus haereses dedicando il quinto alla bontà della carne. Secondo la gnosi, il corpo umano è destinato irrimediabilmente alla perdizione: esso, il corpo, proviene dal mondo materiale, ne condivide opacità e pesantezza e dunque non può elevarsi alla sfera del divino, che è invece spirito, libero dalla schiavitù della materia. L’efficace risposta di Ireneo celebra la positività della carne e puntualmente ne illustra i motivi: la carne è creata 8 Gregorio di Nissa, In Christi resurrectionem 3; PG 46, 677 A. 9 Tertulliano, De resurrectione carnis 63: «Quid, anima, invides carni?

Nemo tam proximus tibi, quem post Dominum diligas; nemo magis frater tuus, quae tecum etiam in Deo nascitur» (PL, 934 A). 10 Tertulliano, De resurrectione carnis 8: «Caro salutis est cardo» (PL, 852 A). Mette conto notare, per dire la delicata complessità di intrecci e contesti, che Cassiodoro riprende sì il tema neoplatonico del corpus-carcer, ma gli riserva un trattamento singolare, molto vicino al testo di Tertulliano citato alla nota precedente, dove si comanda all’anima di amare il corpo in quanto suo prossimo. Per Cassiodoro, l’anima supera “in modo ineffabile” l’ostilità con il corpo e finisce per amarlo: «L’anima, non appena viene immessa nel corpo, subito ama il proprio carcere in modo ineffabile, ama di non esserne libera» (De anima IV, 39-45, in L’anima dell’uomo. Trattati sull’anima dal V al IX secolo, I, Tolomio [ed.], Rusconi, Milano 1979, p. 150). La fonte neotestamentaria, da cui dipendono tanto Tertulliano quanto Cassiodoro, sull’amore al proprio corpo, si deve identificare nel brano paolino di Ef 5, 28-29.

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da Dio con le sue due Mani, il Figlio Unigenito e lo Spirito Santo; è fatta propria da Cristo nell’incarnazione; è destinata alla gloria della risurrezione. Creazione, incarnazione, risurrezione costituiscono la costellazione storica e salvifica entro cui prende rilievo la verità della carne, la sua bellezza e il suo valore intrinseco. Se a questo punto gli si domanda perché mai Dio crea e glorifica proprio la carne, Ireneo risponde che proprio qui sta la prova più alta della divina potenza: Dio può dare e, di fatto, dona la vita divina e perenne proprio alla realtà più fragile e precaria che ci sia, alla carne. Se poi lo si incalza affermando che la carne non ha alcun rilievo perché il valore dell’uomo dipende esclusivamente dall’elemento spirituale, Ireneo ribatte che l’anima non è l’uomo, ma una parte dell’uomo allo stesso modo della carne, e che la carne ne è elemento essenziale, né più né meno dell’anima. Non elemento accessorio, con cui l’anima si trova occasionalmente a contatto, ma componente essenziale dell’uomo è dunque la carne. Vale la pena rileggere un testo famoso e inequivocabile: «Dalle mani del Padre, ossia dal Figlio e dallo Spirito, l’uomo, e non una parte dell’uomo, è fatto a immagine e somiglianza di Dio. Ora l’anima e lo Spirito possono essere una parte dell’uomo, ma in nessun modo l’uomo: l’uomo perfetto è la mescolanza e l’unione dell’anima, che ha ricevuto lo Spirito del Padre e che si è mescolata alla carne plasmata a immagine di Dio […]. Se infatti si elimina la sostanza della carne, cioè dell’opera plasmata, e si considera semplicemente ciò che è propriamente spirito, una tal cosa non è più un uomo spirituale, ma lo spirito dell’uomo o lo Spirito di Dio […]. Infatti né la carne plasmata è in se stessa uomo perfetto, ma corpo dell’uomo e parte dell’uomo (neque enim plasmatio carnis ipsa secundum se homo perfectus est, sed corpus hominis et pars hominis); né l’anima è in se stessa uomo, ma anima dell’uomo e parte dell’uomo (neque enim et anima ipsa secundum se homo, sed anima hominis et pars hominis); né lo Spirito è uomo, perché si chiama Spirito e non uomo» 11. 11 Ireneo di Lione, Contro le eresie e altri scritti, E. Bellini (ed.), Jaca Book, Milano 1981, pp. 419-420: «Per manus enim Patris, hoc est per Filium et per Spiritum, fit homo secundum similitudinem Dei, sed non pars hominis. Anima autem et Spiritus pars hominis esse possunt, homo autem nequaquam: perfectus autem homo commixtio et adunitio est animae assumentis Spiritum Patris et admixtae ei carni quae est plasmata secundum imaginem Dei […]. Si autem substantiam tollat aliquis carnis, id est plasmatis, et nude ipsum solum spiritum intellegat, jam non spiritalis homo est quod est tale, sed spiritus hominis aut Spiritus Dei […]. Neque enim plasmatio carnis ipsa secundum se homo perfe-

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Il corpo come contrario: mistica, ascetica ed escatologia

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La risurrezione della carne, che non si deve confondere con la reincarnazione 12, conclude il Simbolo apostolico, è l’“ultimo” articolo della fede cristiana nel senso che tutta la riassume e la adempie. La carne dice infatti sia la parentela e l’affinità nostra col mondo materiale, ma insieme anche la trama delle nostre relazioni e dunque la storia delle nostre libertà. L’audace promessa cristiana della risurrezione riguarda appunto la nostra carne, natura e storia, e il suo destino di gloria o, a parlare dantescamente, il suo “indiamento”. La promessa inaudita è incoativamente già adempiuta nel Corpo del Signore risorto e nella carne di Maria “assunta”, ossia glorificata in Dio.

Il corpo come “se stesso” La celebrazione cristiana del corpo non accade solo su un registro polemico per rompere l’assedio della gnosi. Il corpo sprigiona tanta forza simbolica da segnare per sempre il linguaggio cristiano su Dio e con Dio, teologia e preghiera. Territori immensi sarebbero qui da esplorare, tra esperienze mistiche e storia della pietà. Tratteniamo l’attenzione su un mistico, solitamente misconosciuto come mistico, e sulla sua visione pacata entro cui freme tuttavia la passione per il mistero e che sorprende per più aspetti. Nella Sorbona del tredicesimo secolo i grandi dibattiti intellettuali si accendono sul De anima di Aristotele e rivolvono precisamente attorno al rapporto tra anima e corpo. Agostiniani di stretta osservanza e aristotelici seguaci di Averroè si fronteggiano irriducibili e però concordano su un punto: l’intelligenza (la mens nel significato agostiniano di “spirito”) e la forma del corpo sono tra loro incompatibili: o si attenua il concetto di forma del corpo per farne una mens, ed è la soluzione degli agostiniani, o si nega all’intelligenza il carattere di forma del corpo, tenendo ben fermo aristotelicamente che l’anima individuale è solo forma e non intelligenza, ed è la soluzione degli averroisti. L’antropologia di Tommaso d’Aquino nega rectus est, sed corpus hominis et pars hominis; neque enim et anima ipsa secundum se homo, sed anima hominis et pars hominis; neque Spiritus homo, Spiritus enim et non homo vocatur» (Adversus hereses V, 6, 1, A. Rousseau - L. Doutreleau - C. Mercier [edd.], coll. «Sources chrétiennes», n. 153, Cerf, Paris 1969, pp. 72-78). 12 Reincarnazione, tecnicamente, significa che l’anima o l’elemento psichico (o quello che una corrente induista chiama il “corpo sottile”) si fornisce da sé un corpo differente per ogni successiva esistenza.

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cisamente l’incompatibilità e afferma che l’anima è insieme e inseparabilmente forma e mens, una forma sui generis (unica forma del corpo) e una sostanza sui generis 13. Una prima sorpresa sta nel fatto che Tommaso non deduce la sua posizione da un sistema, ma la desume da quella che oggi si direbbe un’analisi fenomenologica. Due brevi testi lo documentano. Il primo è della Contra Gentiles, là dove discute la dottrina platonica del corpo e la trova inconveniens: «Sebbene l’anima abbia operazioni tutte sue, come il pensare, nelle quali il corpo non entra, ci sono tuttavia altre operazioni comuni all’anima e al corpo, come il temere, l’adirarsi, il sentire e simili; queste avvengono con una certa trasmutazione di una determinata parte del corpo, da cui risulta che sono insieme operazioni dell’anima e del corpo. Occorre (oportet) pertanto ammettere che l’anima e il corpo fanno una cosa sola (ex anima et corpore unum fieri) e che non sono diversi quanto all’essere» 14.

“Occorre ammettere”. Gli strumenti concettuali hanno il dovere non di imprigionare il reale ma di aderirvi cordialmente e totalmente. La medesima adesione spregiudicata alla realtà delle cose si ritrova ancora più radicale nella Summa Theologiae: «È il medesimo uomo quello che (ipse idem homo est qui) ha coscienza (percipit se) sia di conoscere intellettivamente (et intelligere) sia di sentire (et sentire); ora il sentire implica il corpo» 15.

Nel sentire mi sento corporeo 16. Traduco in formule comprensibili: io faccio filosofia e penso concetti ma sono lo stesso uomo che 13 Cf. A. Kenny, Aquinas on Mind, London-New York 1993, pp. 148ss.; B. Nardi, Anima e corpo nel pensiero di S. Tommaso, in Studi di filosofia medioevale, Edizioni di Storia e letteratura, Roma 1979, pp. 163-191; K. Bernath, Anima forma corporis. Eine Untersuchung über die ontologischen Grundlagen der Anthropologie des Thomas von Aquin, Bonn 1969. 14 Contra Gentiles 2, 57: «Quamvis autem animae sit aliqua operatio propria, in qua non communicat corpus, sicut intelligere; sunt autem aliquae operationes communes sibi et corpori, ut timere et irasci et sentire et huismodi: haec enim accidunt secundum aliquam transmutationem alicuius determinatae partis corporis, ex quo patet quod simul sunt animae et corporis operationes. Oportet igitur ex anima et corpore unum fieri, et quod non sint secundum esse diversa». 15 Summa Theologiae I, q. 76, a. 1, “Respondeo” in fine cpv. 2: «ipse idem homo est qui percipit se et intelligere et sentire: sentire autem non est sine corpore». 16 Analoga veduta si rintraccia molti secoli più tardi in Antonio Rosmini: «Quando percepiamo il nostro corpo con la “percezione soggettiva”, con il sentimento fonda-

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Il corpo come contrario: mistica, ascetica ed escatologia

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ha caldo e freddo, che ha fame e sete, ossia io sono tutt’uno con la mia corporeità. Tommaso non dice ego animus, io sono l’anima, alla maniera di Agostino. Non lo direbbe mai. Anzi per Tommaso il dato immediato è che io sono un corpo, perché ho coscienza di sentire, di sentire caldo o freddo, mentre lo spirito non sente né caldo né freddo. Con questa analisi fenomenologica Tommaso mantiene l’affermazione di Agostino secondo cui ci sono aspetti della vita umana che non si possono spiegare riducendo l’uomo a pura corporeità. Ma l’uomo si coglie come corpo e non immediatamente come spirito: per conoscersi come spirito, l’uomo ha bisogno di ragionamenti, di una diligens et subtilis inquisitio 17, insomma deve riflettere su tutte le sue attività per concludere che c’è in lui qualcosa che va oltre le esigenze e le risorse della vita animale, qualcosa che trascende la corporeità. L’uomo non ha l’intuizione dello spirituale, ma ne inferisce l’esistenza considerando il mondo sensibile e il proprio atteggiamento in questo mondo. La posizione di Tommaso è antitetica rispetto a quella cartesiana: per Cartesio mi colgo immediatamente come res cogitans e devo fare molta fatica per dimostrare che sono anche corporeo; per Tommaso so che sono corporeo, mi sperimento corpo, e devo fare una ricerca diligente e sottile per scoprirmi come spirito. Il corpo appartiene dunque essenzialmente alla persona. Al punto che non si può chiamare persona un uomo privo del corpo, come afferma categoricamente un testo classico: «La mano o il piede non possono dirsi ipostasi o persona. Così neppure l’anima, che è solo parte della specie umana» 18.

Tommaso addirittura s’interroga su come, tra la morte individuale e la risurrezione finale, l’anima potrà vivere, ossia su come potrà svolgere l’attività conoscitiva ch’è la sua vita. L’anima intellettiva umana questo ha di proprio tra le sostanze intellettuali, che conosce la verità a partire dalle cose materiali e dai sensi; e quindi può intelligere solo a condizione di sentire. Ma in che modo l’anima potrà mentale del proprio sé, ossia per quel sentimento fondamentale cui dà a noi l’essere vivi, noi percepiamo il nostro corpo come una cosa con noi; egli diventa in tal modo, per l’unione individua con lo spirito nostro, soggetto anch’egli senziente; e con verità si può dire ch’egli è da noi sentito come cosenziente» (Nuovo saggio sull’origine delle idee [1830], in Opere di Antonio Rosmini, Edizione nazionale, IV, pp. 211s.). 17 Summa Theologiae I, q. 87, a. 1. 18 Summa Theologiae 1, 75, 4 ad 2: «Manus vel pes non potest dici hypostasis vel persona. Et similiter nec anima, cum sit pars speciei humanae».

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“conoscere” senza un corpo che abbia i sensi, senza la sensibilità che offre materia ai concetti umani? La questione, confessa Tommaso, non è facile da vedere e si può solo tentare di risolverla 19.

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Il corpo come provincia libertatis Un’ultima esplorazione tomista illumina il senso cristiano dell’ascetica e della disciplina del corpo. La straordinaria metafora dell’uomo quasi horizon et confinium proviene dalla tradizione neoplatonica e rifluisce in vario modo nell’Occidente medioevale latino. Tommaso la recepisce e, come sempre gli capita, ne incrementa il significato rispetto alla fonte greca. Nel celebre cap. 68 del secondo libro della Contra Gentiles, Tommaso invita il lettore a meravigliarsi insieme con lui davanti all’uomo che è «orizzonte e confine (quasi horizon et confinium) tra gli esseri corporei e incorporei » 20. Né totalmente spirituale né totalmente corporeo, la creatura umana è allo stesso tempo l’uno e l’altro: «dotato di una natura corporea e di una natura spirituale, l’uomo occupa per così dire i confini dell’una e dell’altra natura», ripete Tommaso nel libro quarto della stessa Contra Gentiles, là dove formula i motivi dell’incarnazione del Verbo in una natura non angelica ma umana 21. 19 Contra 20 Contra

Gentiles 2, 81: «tentandum est solvere». Gentiles 2, 68: «mirabilis rerum connexio. […] Invenitur infimum supremi generis contingere supremum inferioris generis, sicut quaedam infima in genere animalium parum excedunt vitam plantarum, sicut ostrea, quae sunt immobilia et solum tactum habent, et terrae in modum plantarum adstringuntur. […] Aliquid supremum in genere corporum, scilicet corpus humanum aequaliter complexionatus, attingit ad infimum superioris generis, scilicet ad animam humanam, quae tenet ultimum gradum in genere intellectualium substantiarum, ut ex modo intelligendi percipi potest. Et inde est quod anima intellectualis dicitur esse quasi quidam horizon et confinium corporeorum et incorporeorum, in quantum est substantia incorporea, corporis tamen forma (l’ammirabile connessione delle cose. […] Il soggetto più basso del genere superiore viene a toccare quello supremo del genere inferiore. Così per esempio, gli animali meno sviluppati, quali le ostriche che sono immobili e provviste solo di tatto, stando fisse alla terra come le piante, superano di poco la vita delle piante. […] Il supremo nel genere dei corpi, ossia il corpo umano dalla complessione equilibrata, viene a toccare l’infimo nel genere delle sostanze intellettive, come si può scoprire dal modo di conoscere intellettualmente. Ecco perché si dice che l’anima intellettiva è come orizzonte e confine tra gli esseri corporei e incorporei, in quanto è una sostanza incorporea che però è forma del corpo)». 21 Contra Gentiles 4, 55: «Homo enim, cum sit constitutus ex spirituali et corporali natura, quasi quoddam confinium tenens utriusque naturae, ad totam creaturam pertinere videtur quod fit pro hominis salute. […] Et sic conveniens videtur ut universalis

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Il corpo come contrario: mistica, ascetica ed escatologia

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Quasi horizon et confinium, orizzonte e frontiera. Nella linea dell’orizzonte mare e cielo in realtà, certo, si distinguono ma nella prospettiva di chi guarda mare e cielo s’unificano anche e quasi si fondono. Così analogicamente è dell’anima e del corpo nell’uomo, “cerniera tra due mondi”, tra spirito e materia, tra libertà e necessità. Le due dimensioni non si fronteggiano statiche ma rifluiscono l’una nell’altra in osmosi incessante. Così il prendere cibo da mera operazione biologica nutritiva si trasfigura anche, senza dismettere la sua consistenza materiale, in esperienza spirituale; e l’esperienza spirituale guadagna riscontro realistico e nuova intensità. La stessa unione corporea tra uomo e donna è “mistero”: come dire che già in se stessa, non per spiritualizzazioni posticce e sovrapposte, allude a eventi divini. Parafrasando nostalgie nient’affatto impertinenti, si direbbe che la fede cristiana adempie l’antico sogno di umanizzare la natura e naturalizzare lo spirito. Qui si dischiude infine il senso e il compito morale e ascetico della libertà, al di là di sempre possibili patologie masochiste: la disciplina del corpo è la potatura dell’albero perché porti più frutto, l’allenamento dell’atleta che signoreggia spazio e tempo, l’esercizio quotidiano della danzatrice che scioglie le ossa secondando i ritmi liberi della melodia, il solfeggio noioso che tuttavia prepara e prelude le invenzioni dell’artista. Qui si potrebbe innestare una metafisica del corpo 22, e poi anche una teologia del corpo. Invece si deve concludere. Basti perciò evocare una parola profonda dell’enciclica Deus caritas est che definisce il corpo come provincia libertatis, campo e dominio della libertà 23. Come dire: la risurrezione della carne è dono divino custodito, come seme fecondo, nei solchi della vita umana; essa ha inizio e già fiorisce nella fatica quotidiana ma esaltante della libertà.

omnium causa illam creaturam in unitate personae assumeret in qua magis communicat cum omnibus creaturis (Siccome è dotato di una natura corporea e di una natura spirituale, l’uomo occupa per così dire i confini dell’una e dell’altra natura, e così ciò che è compiuto per la salvezza dell’uomo concerne tutta la creazione. […] Era conveniente dunque che la causa universale di tutte le cose assumesse nell’unità della persona [del Verbo] questa creatura in cui essa è in più stretta comunione con tutte le creature)». 22 Una metafisica del corpo dovrebbe anzitutto discutere le vedute fenomenologiche di Gabriel Marcel, di Edmund Husserl, di Jean Paul Sartre, di Maurice MerleauPonty sul corpo. Una prospettiva propriamente metafisica prenderebbe inizio, per chi scrive, là dove sono approdati Gustave Siewert (Der Mensch und sein Leib, Johannes Verlag, Einsiedeln 1953 (tr. it. a cura di M. Carpitella, L’uomo e il suo corpo, Paoline, Roma 1959) e Claude Bruaire (Philosophie du corps, Le Seuil, Paris 1968). 23 Cf. Deus caritas est, cit., § 5. La stessa formula ricorre nel § 15.

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Marta Cristiani

Il corpo divino. Platonismo e antiplatonismo nel pensiero teologico cristiano

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Marta Cristiani

Se alla tradizione cristiana si attribuiscono i valori di un generico “spiritualismo”, può sembrare paradossale che fin dalle origini una puntuale e acuta polemica in difesa della religione classica attribuisca al cristianesimo una sorta di idolatria della corporeità, nella sua realtà più ripugnante, la realtà del cadavere: «Altra loro stolta credenza è che, quando Dio, quasi fosse un cuoco, avrà acceso il fuoco, tutto il resto dell’umana stirpe sarà abbrustolita, e loro soli resteranno, e non solo i vivi, ma anche i risorti con quelle loro stesse carni dalla terra, quelli che nei tempi andati, quando che fu, morirono. Solo i vermi potrebbero nutrire tale speranza! Infatti quale anima umana potrebbe desiderare ancora un corpo putrefatto? Del resto questa dottrina non è accolta nemmeno da alcuni di voi né da certi cristiani: la grande empietà ad essa connessa non solo infatti è ripugnante, ma è anche impossibile a dimostrarsi. Non è in effetti possibile che un corpo completamente corrotto ritorni alla natura originaria e proprio a quella primitiva costituzione dalla quale si è dissolto. Non potendo dare alcuna risposta, essi ricorrono all’assurdo sotterfugio che, cioè, a Dio tutto è possibile. Ma la turpitudine, almeno, non è possibile a Dio, né Dio può volere ciò che è contrario alla natura… Perché Dio è causa prima della retta e giusta natura, non del desiderio sconveniente, né della traviata licenza. Egli potrebbe sì fornire all’anima una vita eterna, ma “i cadaveri”, dice Eraclito, “sono da gettar via più che lo sterco” (frag. XCVI, DielsKranz). Ma rendere irragionevolmente eterna la carne, piena di cose che il tacere è bello, Dio certo né lo vorrà, né lo potrà. Egli è infatti la ragione di tutti gli esseri (o pánton tôn ónton lógos) e quindi non è in grado di operare contro la ragione e contro se stesso» 1. 1 Celsus, Alethés Lógos, III, 5, 14, R. Bader (ed.), Der Alethes Logos des Kelsos, Stuttgart-Berlin 1940; tr. it., Celso, Contro i Cristiani, S. Rizzo (ed.), Milano 1989 (testo greco dell’ed. Bader), pp. 176-179 (sullo stesso tema, cf. ibid., VI, 7, 32-39, pp. 246251).

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Il corpo divino. Platonismo e antiplatonismo nel pensiero teologico cristiano

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Se Celso può agevolmente indicare in Platone la vera guida che conduce alla visione del divino con lo sguardo dell’anima, mentre è fallace la speranza di vedere Dio con gli occhi del corpo, della quale si alimenta la dottrina della risurrezione 2, gli Atti degli Apostoli avevano peraltro già registrato la reazione sprezzante degli Ateniesi alla stessa dottrina nella predicazione di Paolo 3. Uno degli autori più rigorosamente platonici di tutta la tradizione cristiana descrive gli angelici turbamenti della gerarchia celeste di fronte all’evento che costituisce il centro della rivelazione, l’incarnazione del Verbo: «I sacri autori… ci rivelano infatti che alcuni angeli vengono santamente a sapere da quelli superiori che Gesù è il signore delle potenze celesti e re della gloria (cf. Sal 24 [23], 10) assunto nei cieli sotto forma umana. Altri poi, che non sanno cosa pensare (diaporoúsas) di Gesù stesso, e desiderano conoscere la natura del suo operato divino a nostro favore, sono istruiti direttamente da Gesù che manifesta a loro il suo amore benefico per gli uomini con un dono primordiale… Mi meraviglio del fatto che le prime delle sostanze sovracelesti, che sono situate così tanto sopra le altre, desiderano solo timidamente le illuminazioni divine, come gli ordini che stanno a metà. Infatti non gli domandano spontaneamente: Perché le tue vesti sono rosse? (Is 63, 2), ma prima esitano parlando tra loro e dimostrando che desiderano sapere e tendono verso la conoscenza dell’azione divina senza precipitarsi in avanti di fronte all’illuminazione, che deve giungere ad essi come dono divino» 4. Per un autore fondamentale nello sviluppo della cristologia latina, Platone è piuttosto lo «speziale degli eretici» 5, che fornisce le droghe adatte ad alimentare i pallidi fantasmi della gnosi, a cui approdano le teorie di Marcione sull’assenza di corporeità del Cristo: «Dobbiamo dire che Paolo ha mentito, allorché tra di noi stabilì di non sapere altro che Gesù crocifisso? È falso il suo racconto della se2 Ibid., VI, 7, 40-45, pp. 250-253. 3 Acta XVII, 32: lo stesso Paolo rimprovera

ad alcuni cristiani di non credere alla risurrezione dei corpi (cf. 1 Cor, 15, 12). 4 Dionysius Areopagita, De celesti Hierarchia, VII, 3; PG, III, col. 209AB; tr. it. (leggermente modificata): Dionigi Areopagita, Tutte le Opere, E. Bellini (ed.), Milano 1981, pp. 102-103. Per i numerosi problemi di interpretazione che pone il testo, cf. Denys L’Aréopagite, La Hiérarchie céleste, in SCh LVIII, Paris 1958, pp. 113-115. 5 Cf. Q.S.F. Tertullianus, De anima, XXIII, 5, in J.H. Waszink (ed.), «Corpus Christianorum», S.L., II, p. 815: «Doleo bona fide Platonem omnium haereticorum condimentarium factum».

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poltura? È falso il suo insegnamento circa la risurrezione? In tal caso è falsa anche la nostra fede, e tutto ciò che speriamo da Cristo si riduce a un miraggio» 6. In realtà, fin dalle origini della tradizione teologica cristiana, la riflessione cristologica si presenta intimamente e proficuamente dialettica: le premesse degli sviluppi speculativi intorno al fondamento stesso della rivelazione, l’incarnazione del Figlio del Padre nel Cristo dei Vangeli, sono poste, in Oriente e in Occidente, nel decisivo passaggio fra il II e il III secolo 7, dal platonismo di un autore come Origene, che nella perfetta e pur infinitamente problematica struttura trinitaria introduce l’elemento di mediazione costituito dall’anima di Cristo, e dallo stoicismo di Tertulliano, che evoca la realtà vivente e vitale della corporeità divina per fugare le illusioni del mondo fantasmatico, della “realtà virtuale” dei miti gnostici 8. Vanificare la meravigliosa immediatezza della presenza evangelica 9 nella seducente e luminosa evanescenza delle numerose figure di salvezza evocate dalla gnosi 10 è il rischio costantemente percepito 6 Q.S.F. Tertullianus, De carne Christi, V, 3, in A. Kroymann (ed.), «Corpus Christianorum», S.L., II, p. 880: «Falso statuit inter nos scire Paulus tantum Iesum crucifixum, falso sepulcrum ingessit, falso resuscitatum inculcavit? Falsa est igitur et fides nostra, et phantasma erit totum quod speramus a Christo» (tr. it., Apologia del Cristianesimo. La carne di Cristo, C. Moreschini [ed.], Milano 1984, pp. 366-367). 7 Cf. A. Grillmeier, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa, I, vol. 1, cap. III: Da Ippolito a Origene. La fondazione della cristologia come teologia speculativa e il problema della sua ellenizzazione, Brescia 1982, pp. 290-361. Cf. anche J.N.D. Kelly, Early Christian Doctrines, London 19684, chap. VI: The Beginnings of Christology, pp. 138-162. 8 Una ricerca lessicografica sulle ricorrenze del termine phantasma nelle opere antignostiche, ad esempio nel Contra Faustum di Agostino, fornirebbe i dati di un uso massiccio del termine in senso negativo. Sul vocabolario di Tertulliano, cf. un’opera che sarà costantemente tenuta presente nei riferimenti all’autore: R. Braun, “Deus Christianorum”. Recherches sur le vocabulaire doctrinal de Tertullien, Paris 1962 (in cui il termine phantasma, nei suoi valori negativi, resta al di fuori di un’analisi dedicata alla terminologia positiva della creazione e della salvezza). 9 Sui fondamenti scritturali della cristologia delle origini, cf. A. Grillmeier, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa, I, vol. 1, cit., pp. 38-181. Non è questo il contesto per affrontare il tema della discussione sul Cristo storico fra XIX e XX secolo, fra storiografia cattolica e riformata: per una storia della ricerca, cf. R. Slenczka, Geschichtlichkeit und Personsein Jesu Christi. Studien zur christologischen Problematik der historischen Jesusfrage, Göttingen 1967. 10 Cf. un testo appartenente alla tradizione giudeo-cristiana ma vicino, sotto questo punto di vista, alla tradizione gnostica, Homiliae Pseudoclementinae, III, 20, 2; B. Rehm, Die Pseudoklementinen, I, Homilien, Berlin 1953, p. XXX (Il Cristo, I, pp. 28-29): «Sarà invece il culmine della pietà il rifiutare il possesso di questo Spirito a chiunque altro per darlo a colui che, dall’inizio del mondo, è il solo che attraversa tutti i tempi, cambiando ogni volta di forma e di nome fin quando, una volta giunto al suo tempo e

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Il corpo divino. Platonismo e antiplatonismo nel pensiero teologico cristiano

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dalla tradizione che costituisce la cristologia della Grande Chiesa, cui la spiritualità gnostica fornisce tuttavia un nutrimento più profondo di quanto comunemente si riconosca 11. Il De carne Christi di Tertulliano può dividersi in due parti, di cui la prima è indirizzata contro Marcione, che nega la corporeità di Cristo, e di conseguenza la sua storicità attraverso la nascita 12; la seconda parte contro uno dei discepoli, un certo Apelle, che delle tesi gnostiche presenta una più elaborata versione, ispirata alle visioni della vergine Filomene, attribuendo al Cristo natura corporea, ma negando l’ingresso temporale nella corporeità, il passaggio attraverso la nascita biologica e storica, con il risultato, come sottolinea Tertulliano, di “cadere dalla padella nella brace”: «“Abbia pure avuto… una carne, purché sia chiaro che non è in alcun modo nata”» 13. Origene, avversario del rifiuto gnostico del Dio dell’Antico Testamento, il Dio giusto contrapposto al Dio buono, giunge per altre vie a risultati in una certa misura equivalenti. Il contrasto si fonda, in primo luogo, sul riconoscimento della verità rivelativa dei testi scritturali, come generalmente avviene nella polemica contro la gnosi. Marcione, infatti, riconosce unicamente

unto della misericordia di Dio in ricompensa per le sue fatiche, godrà per sempre del riposo». Su questi temi cf. A. Orbe, Cristología Gnóstica: Introducción a la soteriología de los siglos II y III, Madrid 1976; Id., “Introduzione”, in Il Cristo, I, pp. XV-XLVII. 11 Cf. A. Orbe, Introduzione, in Cristología Gnóstica, cit., pp. LXXII-LXXIII: «Ho presentato con simpatia le variazioni della cristologia eterodossa. In fondo, l’errore, per poter sussistere, deve appoggiarsi alla verità. D’altronde, le variazioni fondamentali sono poche e girano attorno a pochissimi temi… L’analisi dei grandi errori illumina e mette in rilievo la verità. Vale la pena di assistere alla nascita della riflessione cristologica. Non mancano i casi, come quello dei valentiniani, di sistemi complessi che emergono pienamente maturi, suscitando peraltro reazioni altrettanto mature, anche se meno complesse, come quella di Ireneo». 12 Cf. De carne Christi, I-V, ed. cit., pp. 873-883. «Marcion, ut carnem Christi negaret, negauit etiam natiuitatem, aut ut natiuitatem negaret, negauit et carnem, scilicet ne inuicem sibi responderent natiuitas et caro, quia nec natiuitas sine carne sec caro sine natiuitate… Scilicet qui carnem Christi putatiuam introduxit, aeque potuit natiuitatem quoque phantasma confingere, ut et conceptus et praegnatus et partus uirginis et ipsius exinde infantis ordo…haberentur» (I, 2-4, pp. 873-874). 13 Ibid., VI, 1, p. 883: «Sed quidam iam discentes Pontici illius, supra magistrum sapere compulsi, concedunt Christo carnis ueritatem, sine praeiudicio tamen restruendae natiuitatis. “Habuerit”, inquiunt, “carnem dominus, dum non natam”. Peruenimus igitur de calcaria, quod dici solet, in carbonariam, a Marcione ad Apellen, qui, posteaquam a disciplina Marcionis in mulierem carne lapsus est, dehinc in uirginem Philumenen spiritu, uerum et solidum Christi corpus, sed sine natiuitate, suscepit ab ea praedicare» (pp. 372-373).

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il Vangelo di Luca, ma privato della sua parte iniziale 14, che riguarda appunto la nascita di Cristo e ci priverebbe, come enuncia Tertulliano, di quella che sarebbe divenuta l’iconologia natalizia, sopravvissuta ai millenni e trionfalmente approdata ai nostri circuiti commerciali: «Non sopporta le attese, poiché il suo Cristo discende in un attimo dal cielo. “Togliamo di mezzo” – dice – “questi censimenti di Cesare che tanto disturbano, questi alloggi angusti, i panni sporchi e le mangiatoie inconfortevoli. La schiera degli angeli renda pure di notte onore al suo dio. I pastori sarebbero più utili a occuparsi delle pecore e i Magi possono risparmiarsi il lungo viaggio: si tengano pure il dono dell’oro! Anche Erode può diventare più buono, perché Geremia non abbia gloria dalle sue profezie. Il bambino è meglio che non sia circonciso: fa tanto male, ed è meglio non portarlo al tempio, per non imporre ai genitori la spesa dell’offerta. Non sia dato in braccio a Simeone, per non affliggere il vecchio consapevole di morire subito dopo. Anche quella vecchia se ne stia in silenzio, per non dare il malocchio al bambino”» 15. 14 Di Marcione, originario del Ponto e presente a Roma intorno al 136-140 d.C., le Antitheseis sono perdute e le sue dottrine sono ricostruibili attraverso Tertulliano e Ireneo. Rifiutando all’Antico Testamento ogni ispirazione divina, riconosce, del Nuovo, alcune lettere paoline e una selezione di testi del Vangelo di Luca, da cui elimina ogni riferimento alla generazione e nascita di Cristo, ma anche ogni riferimento alla paternità del Dio creatore del mondo: «Marcion Ponticus… eum qui a lege et prophetis adnuntiatus est deus, malorum factorem et bellorum concupiscentem et inconstantem quoque sententia et contrarium sibi ipsum dicens. Iesum autem ab eo patre qui est super mundi fabricatorem deum, venientem in Iudaeam temporibus Pontii Pilati praesidis… in hominis forma manifestatum his qui in Iudaeam erant, dissolventem prophetas et legem et omnia opera eius dei qui mundum fecit, quem et cosmocratorem dicit. Et super haec, id quod est secundum Lucam evangelium circumcidens et omnia quae sunt de generatione domini conscripta auferens et de doctrina sermonum domini multum auferens, in quibus manifestissime conditorem huius universitatis suum patrem confitens dominus conscriptus est, semetipsum veraciorem esse quam sunt hi qui evangelium tradiderunt apostoli suasit discipulis suis, non evangelium, sed particulam evangelii tradens eis. Similiter autem et apostoli Pauli epistolas abscidit, auferens quaecumque manifeste dicta sunt ab apostolo de eo deo qui mundum fecit, quoniam hic pater domini nostri Iesu Christi, et quaecumque ex propheticis memorans apostolus docuit praenuntiantibus adventum domini» (L. Irenaeus, Adversus haereses, I, 27, 2, in SCh, CCLXIV, p. XXXX). Cf. A. Von Harnack, Marcion: das Evangelium vom fremden Gott, Leipzig 1924; E.C. Blackman, Marcion and his Influence, London 1949. 15 De carne Christi, II, 1-2, ed. cit., pp. 874-875: «Odit moras, qui subito de caelis Christum deferebat. “Aufer hinc”, inquit “molestos semper Caesaris census (cf. Lc 2, 15) et diuersoria angusta et sordidos pannos et dura praesepia (cf. Lc 2, 7). Viderit angelica multitudo dominum suum noctibus honorans (cf. Lc 2, 13). Seruent potius pecora pastores; et magi ne fatigentur de longiquo; dono illis aurum suum (cf. Mt 2, 11). Melior sit et Herodes, ne Ieremias glorietur (cf. Mt 2, 17; Ger 31, 15). Sed nec circumcidatur infans (cf. Lc 2, 21), ne doleat, nec ad templum deferatur, ne parentes suos oneret

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Nella prospettiva di Tertulliano, negare quello che è divenuto per noi l’idillio, l’“oleografia” della nascita, significa negare la follia divina della croce, la stoltezza di fronte al mondo, che costituisce l’unica vera sapienza, come afferma il suo testo forse più celebre, di cui si è generalmente forzato il senso irrazionalistico: «Vi sono, senza dubbio, altre simili stoltezze, riguardanti gli oltraggi e le sofferenze di Dio, a meno che non vogliamo definire come cosa saggia un Dio crocifisso. Devi eliminare anche questo, o Marcione, anzi, soprattutto questo. Che cosa, infatti, è più indegno e vergognoso per Dio? Nascere o morire? Portare la carne o la croce?… Esser deposto nella mangiatoia o rinchiuso nel sepolcro? Ti dimostrerai ancor più saggio, non credendo a queste follie, ma non potrai essere sapiente se non apparirai stolto agli occhi del mondo, credendo alla follia di Dio» 16. In realtà, come Tertulliano si esprime in un testo che mette a fuoco lucidamente le nevrosi del rifiuto della corporeità, avere orrore del corpo della partoriente, negare il passaggio attraverso gli organi della generazione 17, designati con la crudezza di termini di chi ha utilizzato, a preferenza dei sospetti filosofi, i trattati ginecologici del medisumptu oblationis (cf. Lc 2, 22-24), nec in manu tradatur Simeoni, ne senem moriturum exinde contristet (cf. Lc 2, 25-27). Taceat et anus illa, ne fascinet puerum (cf. Lc 2, 3638)”» (pp. 350-353). 16 Ibid., V, 1, p. 880: «Sunt plane et alia, tam stulta, quae pertinent ad contumelias et passiones dei. Aut prudentiam dic deum crucifixum aut aufer hoc quoque, Marcion, immo hoc potius. Quid enim indignius deo, quid magis erubescendum, nasci an mori? Carnem gestare an crucem?… In praesepe deponi an in monimento recondi? Sapientior eris, si nec ista credideris. Sed non eris sapiens, nisi stultus in saeculo fueris, dei stulta credendo» (pp. 364-367). 17 Cf. ibid., IV, 1-2, p. 878: «Igitur si neque ut impossibilem neque ut periculosam deo repudias corporationem, superest, ut quasi indignam reicias et accuses. Ab ipsa iam exorsus odio habita nativitate, perora, age, iam spurcitias genitalium in utero elementorum, humoris et sanguinis, foeda coagula carnis ex eodem caeno alendae per nouem menses. Describe uterum de die insolescentem, grauem, anxium, nec somno tutum, incertum libidinibus fastidii et gulae. Inuehere iam et in ipsum mulieris enitentis pudorem, uel pro periculo honorandum uel pro natura religiosum. Horres utique et infantem cum suis impedimentis profusum» (pp. 360-363: «Tu, dunque, respingi l’incarnazione, non perché sia impossibile o rischiosa per Dio, ma per altro motivo. Non può essere che il seguente: tu rifiuti e biasimi l’incarnazione come qualcosa di indegno per Dio. Coraggio, dunque svolgi con ordine la tua requisitoria, visto che hai in odio la nascita: sfogati contro gli organi genitali che insozzano l’utero, contro i fetidi impasti di acqua e sangue, contro la carne, che, per nove mesi, si deve nutrire del medesimo fango. Descrivi l’utero, di giorno in giorno più pesante ed abnorme, che non trova riposo neppure nel sonno, tormentato ora dalla nausea, ora dal desiderio di cibo. E adesso dirigi il tuo sdegno contro i vergognosi organi della donna partoriente, che la rendono, al contrario, degna di rispetto, perché rischia la vita, e che sono per natura qualcosa di sacro. Avrai certamente ribrezzo anche del bambino, dato alla luce con i resti del suo involucro»).

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co Sorano per indagare la natura e le funzioni biologiche dell’anima 18, significa negare la promessa di salvezza biologica che il cristianesimo promette con la risurrezione dei corpi, negare quelle che si definiscono “aspirazioni della corporeità”, carnis vota 19, realizzabili unicamente attraverso la trasmutazione biologica che l’incarnazione ha realizzato e che il Cristo dei vangeli non può aver annunciato come un illusionista e un saltimbanco ingannatore, lasciando credere di essere l’uomo di ossa, carne e sangue che non era: «Non è dal cielo, dunque, che dovevi far discendere il tuo Cristo, ma da qualche compagnia di ciarlatani. Non è, infatti, Dio unito all’umanità, ma soltanto un uomo dedito alla magia; non è un mediatore di salvezza, ma un teatrante; non è la risurrezione dei morti, ma l’illusione dei vivi. A meno che, pur con tutte le sue magie, non sia nato davvero» 20. Contro l’insegnamento di Apelle, che la natura angelica e “pneumatica” di Cristo non ha bisogno di passare attraverso la vicenda biologica del nascere, del trascorrere dell’età 21, Tertulliano evoca un tema che sarà ampiamente sviluppato nel secolo IX, nel grande Commentario a Matteo di Pascasio Radberto 22: l’ordine della genealogia di Cristo, nella stirpe di David, che costituisce appunto l’inizio del Vangelo di Matteo 23. Il nascere di Cristo è infatti un nascere per morire, perché questo è l’unico modo di assicurare la salvezza alla cor18 Cf., De anima, VI, 6, ed. cit., p. 789. 19 Cf. De carne Christi, I, 1, ed. cit., p. 873 (pp. 348-349). 20 Ibid., V, 10, pp. 882-883: «Ergo iam Christum non de

caelo deferre debueras sed de aliquo circulatorio coetu, nec deum praeter hominem sed magum hominem, nec salutis pontificem sed spectaculi artificem, nec mortuorum resuscitatorem sed uiuorum auocatorem. Nisi quod et si magus fuit natus est» (pp. 370-371). 21 Cf. su questo tema, in polemica contro il docetismo, contro l’“apparire” del Cristo nella forma perfetta del maestro, Irenaeus, Adversus haereses, II, 22, 4, in SCh CCLXIV, p. XXXX: «Triginta quidem annorum exsistens cum veniret ad baptismum, deinde, magistri aetatem perfectam habens, venit in Hierusalem, ita ut ab omnibus iuste audiret magister: non enim aliud videbatur et aliud erat, sicut inquiunt qui putativum introducunt, sed quod erat, hoc et videbatur. Magister ergo exsistens, magistri quoque habebat aetatem, non reprobans neque supergrediens hominem neque solvens legem in se humani generis, sed omnem aetatem sanctificans per illam quae ad ipsum erat similitudinem. Omnes enim venit per semetipsum salvare: omnes, inquam, qui per eum renascuntur in deum, infantes et parvulos et pueros et iuvenes et seniores. Ideo per omnem venit aetatem». 22 Questi temi sono stati ampiamente sviluppati in altri studi: cf., con riferimento alla bibliografia precedente, M. Cristiani, Il tempo nell’alto Medioevo, in Il tempo nel Medioevo. Rappresentazioni storiche e concezioni filosofiche, R. Capasso - P. Piccari (ed.), Roma 2000, pp. 111-132. 23 Cf. De carne Christi, XXII, 1, ed. cit., p. 912: «Deleant igitur et testimonia daemonum “filium Dauid” proclamantium ad Iesum, sed testimonia apostolorum delere

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poreità mortale dell’umano: «Se Cristo è morto per salvare ciò che muore, se ciò che muore è anche ciò che nasce, si deve coerentemente concludere, anzi presupporre, che Cristo sia nato per salvare ciò che nasce, perché doveva morire per la salvezza di ciò che muore proprio perché nasce» 24. La consapevolezza dell’essere di Cristo nel tempo, nella biologia e nella storia, che la cristologia latina dell’Alto Medioevo saprà esprimere con accenti forti, consente a Tertulliano di affrontare arditamente, senza lasciarsi paralizzare dalle difficoltà che impegneranno all’estremo il pensiero teologico dei secoli successivi, i problemi complessi del rapporto trinitario. Nell’unità della persona del Cristo lo Spiritus, la natura divina, e la carne, la natura umana, operano infatti secondo il proprio modo di operare, come Tertulliano afferma in una delle opere più mature, in polemica con il così detto “monarchismo” di Prassea, che riconduce la natura del Figlio all’unica natura del Padre 25: sull’unione di carne e spirito nell’unità della persona 26 si fonda non poterunt, si damonum indigna sunt. Ipse inprimis Mathaeus, fidelissimus euangelii commentator, ut comes domini, non aliam ob causam, quam ut nos originis Christi carnalis compotes faceret, ita exorsus est: Liber generaturae Iesu Christi, filii Dauid, filii Abrahae (Mt 1, 1)». Cf. Pascasius Radbertus, Expositio in Matthaeum, in B. Paulus (ed.), «Corpus Christianorum», S.L., c.m., LVI, 3 voll., 1984. Il commentario inizia con la polemica Contra eos qui dicunt genealogiam Christi ad euangelium non pertinere, nella quale il Contra Faustum agostiniano è utilizzato per contestare in realtà lo spiritualismo platonizzante di molta tradizione esegetica, perché l’evangelium, l’annuncio rivolto dall’angelo ai pastori è annuncio di nascita nella carne (vol. I, pp. 9-19). Cf. p. 11: «Propriae… profecto hoc uocabulum (scil. euangelium) tenere debuit illa adnuntiatio saluatoris (con riferimento ad Aug., Contra Faustum, II, 2, CSEL, p. 255) in carne quae nobis omne bonum contulit… Nam et in ortu saluatoris angelum ad pastores cecinisse legimus: Ecce… euangelizo uobis gaudium magnum quod erit omni populo quia natus est uobis hodie saluator (Lc 2, 10-11). Quod autem euangelizat quid est? Nisi quia secundum proprietatem linguae Latinae bonum nobis nuntium uidelicet Christum natum adnuntiat». La genealogia di Cristo, a partire da Abramo e Isacco, “ab initio fidei… subputatur”: «Recte itaque ab initio fidei genealogia Christi subputatur ut in quo primum de eo facta legitur repromissio fieret et exordium successionis donec uentum esset ad eum qui de coelo huic diuinitus fuerit repromissus» (ibid., I, p. 30). 24 De carne Christi, VI, 7, pp. 884-885: «Si propter id quod moritur mortuus est Christus, id autem moritur quod et nascitur, consequens erat, immo praecedens, ut aeque nasceretur propter id quod nascitur, quia propter idipsum mori habebat quod, quia nascitur, moritur». 25 Sulla nozione di monarchismo trinitario, cf. E. Evans, Tertulliani Adversus Praxean liber. The Text edited with an Introduction, Translation and Commentary, London 1948, pp. 6-18; M. Simonetti, Due note su Ippolito, in AA.VV., Ricerche su Ippolito, Roma 1977, pp. 121-136 (in cui è in discussione il periodo in cui il termine entra in circolazione). 26 Della cristologia di Tertulliano sono stati esaurientemente ricostruiti i complessi sviluppi trinitari: cf. R. Cantalamessa, La cristologia di Tertulliano, Fribourg S. 1962, sostanzialmente seguito dalla storiografia successiva (cf. soprattutto A. Grillmeier, Ge-

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la distinzione all’interno dell’unità della substantia divina 27, concepita secondo le categorie della filosofia stoica, non priva di una sottile, ardente materialità 28. A partire da questi presupposti Tertulliano può formulare con chiarezza quel paradigma linguistico della generazione trinitaria, che svilupperà splendidamente Agostino e che attraversa comunque tutta la teologia latina. Prima di tutti i tempi il Padre è nella sua unità, luogo di se stesso, in una divina solitudine, che è in realtà intimo dialogo con la propria ratio, lógos e sermo: «Prima di tutte le cose Dio infatti era solo, egli era a se stesso mondo e luogo e totalità. Solo in realtà perché niente altro era al di fuori di lui. Peraltro non era veramente solo; aveva presso di sé quanto aveva in se stesso, cioè la sua ragione. Perché Dio è razionale e la razionalità è in lui prima di tutto e così da lui seguono tutte le cose: razionalità che è il suo sentire. I Greci la definiscono logos, parola con la quale chiamiamo anche il discorso, e per questo è ormai nel nostro uso, per semplicità di interpretazione, dire che in principio, presso Dio, fu il sermo, mentre sarebbe più esatto dire che anteriore è la razionalità, perché dal principio non è il Dio che parla (sermonalis) ma ancor prima del principio il Dio razionale (rationalis Deus)» 29. sù il Cristo nella fede della Chiesa, cit., I, vol. 1, pp. 312-332; cf. R. Braun, “Deus Christianorum”…, cit., pp. 207-242). 27 Cf. Adversus Praxean, XXVII, 14, in A. Kroymann - E. Evans (ed.), «Corpus Christianorum», S.L., II, p. 1200: «Disce igitur cum Nicodemo quia quod in carne natum est caro est et quod de Spiritu spiritus est (Gv 3, 6). Neque caro Spiritus fit neque Spiritus caro. In uno plane esse possunt. Ex his Iesus consistit, ex carne homo, ex Spiritu Deus. Quem tunc angelus ex ea parte qua Spiritus erat, Dei Filium pronuntiavit, seruans carni Filium hominis dici». Così infatti è stato commentato il testo: «La congiunzione tra le due sostanze, tra le due realtà permanenti, la divinità e l’uomo Gesù, si realizza in una persona. Quando si pensa agli sforzi e alle lotte che la teologia greca sostenne in seguito intorno a questo problema, non si può non restare meravigliati della facilità e della spontaneità con cui Tertulliano ha trovato una formula che, evidentemente, appariva lampante agli occidentali» (A. Grillmeier, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa, cit., I, vol. 1, p. 323). 28 Su questa nozione, si rinvia a R. Braun, “Deus Christianorum”…, cit., pp. 167-199. 29 Adversus Praxean, V, 2-4, in «Corpus Christianorum», S.L., II, pp. 1163-1164: «Ante omnia enim Deus erat solus, ipse sibi et mundus et locus et omnia. Solus autem quia nihil aliud extrinsecus praeter illum. Ceterum ne tunc quidem solus; habebat enim secum quam habebat in semetipso, rationem suam scilicet. Rationalis enim Deus et ratio in ipsum prius et ita ab ipso omnia. Quae ratio sensus ipsius est. Hanc Graeci lovgon dicunt, quo uocabulo etiam sermonem appellamus ideoque iam in usu est nostrorum per simplicitatem interpretationis sermonem dicere in primordio apud Deum fuisse, cum magis rationem competat antiquiorem haberi, quia non sermonalis a principio sed rationalis Deus etiam ante principium». Sulle nozioni-chiave di ratio, lógos e sermo, cf. R. Braun, “Deus Christianorum”, cit., pp. 256-272 (sulle difficoltà di traduzione del greco lovgoı, cf. S. Lundström, Übersetzungstechnische Untersuchungen auf dem Gebiete der christlichen Latinität, Lund 1956, pp. 114ss.).

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Sviluppando il tema del rapporto dinamico fra l’interiorità della ratio e l’esteriorità del sermo, fra il cogitare e il loquere, di cui un’elaborata filosofia del linguaggio di tradizione prevalentemente stoica aveva acquistato la consapevolezza, Tertulliano può formulare quel modello di comprensione analogica della dinamica trinitaria, che troverà nell’opera agostiniana i più fecondi sviluppi: «Perché tu comprenda più facilmente, riconosci prima di tutto, a partire da te stesso, come dall’immagine e similitudine divina, in quanto anche tu hai in te stesso la ragione, perché sei animale razionale, cioè non solo fatto da un artefice razionale, ma animato dalla sostanza di lui. Vedi, come ad opera della ragione tu puoi incontrarti in silenzio con te stesso… Qualunque cosa avrai pensato è discorso, qualunque cosa avrai percepito è razionalità… Per questa ragione in un certo modo è un altro te stesso in te il discorso mediante il quale parli pensando e mediante il quale pensi parlando, il discorso stesso è alterità» 30. Se l’annuncio del Lógos nel Prologo del IV Evangelo costituisce il fondamento di ogni cristologia platonica e platonizzante, è del tutto inatteso che Origene, nel primo libro del commentario a Giovanni, critichi l’abuso del termine lógos da parte dei molti, perché non è fra gli attributi che il Cristo ha ricevuto nella tradizione profetica o si è dato egli stesso 31. In ogni caso non appartiene a Origene la nozione pregnante di Lógos/Verbum che attraversa la “teologia del linguaggio” agostiniana, di cui Tertulliano peraltro ha annunciato i fondamenti: Lógos è prima di tutto e fondamentalmente «ciò che elimina da noi quanto è irrazionale e ci costituisce secondo verità capaci di ra30 Adversus Praxean, V, 5-6, in «Corpus Christianorum», S.L., II, p. 1164: «Id quo facilius intellegas, ex te ipso ante recognosce ut ex imagine et similitudine Dei, quo habeas et tu in temetipso rationem qui es animal rationale, a rationali scilicet artifice non tantum factus sed etiam ex substantia ipsius animatus. Vide, cum tacitus tecum ipse congrederis ratione… Quodcunque cogitaueris sermo est, quodcumque senseris, ratio est… Ita secundus quodammodo in te est sermo per quem loqueris cogitando et per quem cogitas loquendo, ipse sermo alius est». 31 Cf. In Johannem, I, 21 (23), 125, in E. Preuschen (ed.), GCS VI, Origenes Werke, III, Berlin 1903, p. 25; I, 36 (41), 266, p. 47; I, 38 (42), 280-283, pp. 49-50 (per la traduzione italiana cf. Commento al Vangelo di Giovanni di Origene, E. Corsini [ed.], Torino 1968). Cf. M. Harl, Origène et la fonction révélatrice du Verbe incarné, Paris 1958, p. 124, n. 13 (sulla teologia del Lógos cf. anche A. Lieske, Die Theologie des Logosmystik bei Origenes, Münster 1938). Per la bibliografia origeniana, cf. H. Crouzel, Bibliographie critique d’Origène, Steenbruhis 1971; R. Farina, Bibliografia origeniana 1960-1970, Torino 1971. Si rinvia soprattutto a J. Daniélou, Origène, Paris 1948; H. de Lubac, Histoire et Esprit. L’intelligence de l’Écriture d’après Origène, Paris 1950 (tr. it., Storia e Spirito, Roma 1971); P. Nautin, Origène. Sa vie et son oeuvre, Paris 1977.

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gione» 32, il che avviene perché l’uomo creato a immagine divina partecipa della virtù divina 33, ne conserva i semi e può svilupparli per divenire loghikóteros, sempre più razionale e divino. Se riassumiamo nello schema più semplice la complessità di Origene, il nostro essere immagine divina è mediato dall’essere il Figlio immagine del Padre, archetipo e fondamento della iconicità, della potenzialità di rappresentare l’assoluto che appartiene in misura diversa a tutta la realtà creata. Nel capitolo secondo del I libro del De principiis Origene afferma che nulla è ingenerato al di fuori del Padre 34, anche se la generazione del Figlio non può essere compresa a partire da un processo generativo che introduca un mutamento nella realtà divina 35, bensì a partire dalla simultaneità della generazione della volontà dalla mente 36, o della generazione di splendore dalla luce: «Est namque ita aeterna ac sempiterna generatio sicut splendor generatur ex luce» 37. La natura dello splendore generato dalla luce è peraltro affine alla natura dei raggi, metafora della natura creata secondo un ordine provvidenziale, che consente di risalire alla fonte luminosa inattingibile alle possibilità dello sguardo 38. 32 In Johannem, I, 37 (42), 267, p. 47. 33 Cf., sul tema dell’immagine, H. Crouzel,

Théologie de l’image de Dieu chez Origène, Paris 1956. 34 De principiis, I, 2, 6, in P. Koetschau (ed.), GCS XXII, Origenes Werke, V, Berlin, 1913, p. XXX: «Quod necesse est in primis suscipi ab his qui nihil ingenitum, id est innatum praeter solum Deum patrem fatentur». Per la traduzione italiana cf. I Principi di Origene, M. Simonetti (ed.), Torino 1968. Per l’analisi della struttura dell’opera cf. M. Harl, Structure et cohérence du Peri Archôn, in «Origeniana», Ier Colloque international des études origéniennes, H. Crouzel - G. Lomiento - J. Rius-Camps, Bari 1975, pp. 11-32. 35 Il che avverrebbe nell’ipotesi che Dio non avesse potuto, fino a un certo momento, generare la Sapienza/Figlio, o secondo un’ipotesi ancora più assurda, che avesse potuto e non avesse voluto: «Quomodo autem extra huius sapientiae generationem fuisse aliquando Deum Patrem vel ad punctum momenti alicuius, quis potest sentire vel credere, qui tamen pium aliquid de Deo intelligere noverit, vel sentire? Aut enim non potuisse dicet generare sapientiam antequam generaret, ut eam quae ante non erat, postea genuerit ut esset; aut potuisse quidem et, quod dici de Deo nefas est, noluisse generare: quod utrumque et absurdum esse et impium omnibus patet; id est ut aut ex eo quod non potuit Deus proficeret ut posset, aut cum posset, dissimularet ac differret generare sapientiam» (De principiis, I, 2, 2, p. XXX). 36 Ibid., I, 2, 5, p. XXX: «Imago Patris in Filio reformatur, qui utique natus ex eo est velut quaedam voluntas eius ex mente procedens». 37 Ibid., I, 2, 4, p. XXX; 2, 7, p. xxx: «“Deus lux est” (I Joh., 1, 5), secundum Joannem. Splendor ergo huius lucis est unigenitus Filius, ex ipso inseparabiliter velut splendor ex luce procedens, et illuminans universam creaturam». 38 Ibid., I, 1, 6, p. XXX: «Interdum oculi nostri ipsam naturam lucis, id est substantiam solis, intueri non possunt; splendorem vero eius, vel radios fenestris forte… intuentes, considerare possumus fomes ipse ac fons quantus sit corporei luminis. Ita er-

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L’essere il Figlio «figura expressa substantiae vel subsistentiae» del Padre è giustificato dal fatto che nulla, se non la stessa “Dei substantia”, può essere in senso adeguato “figura” di se stessa 39, che può trasmettere e mediare la conoscenza di sé, cioè del Padre, attraverso l’incarnazione, per effetto di exinanitio della originaria forma Dei, la kénosis che tanto affascina la teologia contemporanea 40. Origene stesso riconosce che l’exemplum cui è costretto a ricorrere non è del tutto adeguato, anche se chiarisce l’idea di exinanitio: il Figlio incarnato è simile a una statua a dimensioni accessibili alla nostra percezione, che riproduce una forma immensa, a dimensioni dell’universo, «aliqua statua talis quae magnitudine sui universum orbem terrae teneret, et pro sui immensitate considerari a nullo posset» 41. Il rapporto dialettico che possiamo cogliere fra la cristologia di Tertulliano e quella di Origene può anche configurarsi come dialettica aperta fra teologie della Chiesa d’Occidente e d’Oriente, fra stoicismo e platonismo teologico: tuttavia, a un’indagine più approfondita degli autori e dei testi, che purtroppo filtrano scarsamente, a gocce parsimoniose, nel dialogo filosofico non strettamente specialistico, si potrà constatare che la teologia d’Oriente, a causa dell’intensità – possiamo anche dire, della ferocia politica – delle controversie sull’ortodossia, può arrivare a un ripensamento paradossale del platonismo all’interno di quella che definirei una logica dell’incarnazione. Il Concilio di Efeso, nell’anno 430, segna il trionfo politico della cristologia alessandrina, che attribuisce all’unico Lógos, omooúsios al Padre, la vita divina, l’incarnazione e la discesa sulla terra, in nome della quale Nestorio, che difende la distinzione delle due nature di Cristo, è condannato e deposto 42. Dal Concilio di Efeso al Concigo quasi radii quidam sunt Dei naturae, opera divinae providentiae et ars universitatis huius, ad comparationem ipsius substantiae ac naturae». 39 Ibid., I, 1, 8, p. XXX: «Verum quoniam non solum splendor gloriae esse dicitur… sed et figura expressa substantiae vel subsistentiae eius, non mihi videtur otiosi esse intellectus advertere quomodo alia praeter ipsam Dei substantiam, quaecumque illa substantia et subsistentia dicitur, figura substantiae eius esse dicatur». 40 Ibid., I, 1, 8, p. XXX: «Ut autem plenius… intelligatur quomodo Salvator figura est substantiae vel subsistentiae Dei, utamur etiam exemplo… quod exinaniens se Filius qui erat in forma Dei, per ipsam sui inanitionem studet nobis deitatis plenitudinem demonstrare». 41 Ibid. 42 Cf. A. Grillmeier, Gesù il Cristo, cit., vol. I, 2, pp. 815-881; per il resoconto degli avvenimenti e l’intreccio di conflitti personali, cf. Ch. Fraisse-Coué, Il dibattito nell’età di Teodosio II: Nestorio, in Storia del Cristianesimo. Religione-Politica-Cultura, vol. II, cit., pp. 468-518. Su Nestorio, cf. L.I. Scipioni, Ricerche sulla cristologia del “Libro

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lio di Calcedonia nel 451, al secondo e terzo Concilio di Costantinopoli, rispettivamente nel 553 e nel 680-681, il conflitto aperto a Efeso da una dimostrazione di potere non cesserà di produrre le sue vittime, fra le quali uno dei teologi più profondi della tradizione di Bisanzio, l’autore che si trova ad affrontare al tempo stesso la condanna di Origene e dell’origenismo e la controversia monotelita, suscitata cioè dall’affermazione di un’unica volontà, la volontà divina, nel Cristo incarnato, per essere infine vittima della drammatica dialettica di una politica teologica. Nato probabilmente a Bisanzio nel 580, da una famiglia della nobiltà vicina alla corte imperiale, Massimo il Confessore 43 è senza dubbio, in tutta la tradizione patristica, fra i più difficili da definire e sintetizzare nelle sue linee speculative, perché la sua formazione è radicata nell’estrema complessità della cultura monastica del sec. VII, che non ha conosciuto le fratture delle invasioni barbariche, l’impoverimento, ma anche il rinnovamento della cultura latina, e procede in una continuità di sviluppo temporale sconosciuta all’Occidente. Per quanto riguarda l’opera più importante, gli Ambigua, (Ambigua ad Thomam e Ambigua ad Johannem, due opere unite nell’edizione della Patrologia 44), la difficoltà di lettura nasce dai diversi livelli testuali ed ermeneutici, dai diversi livelli della scrittura, perché si tratta di un commentario a una serie di passaggi oscuri di Dionigi o Gregorio di Nazianzo, che in genere commentano a loro volta uno

di Eraclide” di Nestorio. La formulazione teologica e il suo contesto filosofico, Fribourg 1956; Id., Nestorio e il concilio di Efeso, Milano 1974; L. Abramowski, Untersuchungen zum Liber Heraclidis des Nestorius, Louvain 1963; A. Grillmeier, Das Scandalum oecumenicum des Nestorius in kirchlich-dogmatiker und theologiegeschichtlicher Sicht, in Mit ihm und in ihm. Christologische Forschungen und Perspektiven, Freiburg-Basel-Wien 1975, pp. 245-282 (molto evidentemente favorevole all’ortodossia di Nestorio). Su Cirillo di Alessandria, cf. H. du Manoir, Dogme et spiritualité chez saint Cyrille d’Alexandrie, Paris 1944; H.M. Diepen, Aux origines de l’anthropologie de saint Cyrille d’Alexandrie, Bruges 1957; J.A. McGuckin, St. Cyril of Alexandria. The Christological Controversy, Leiden-New York-Köln 1994; B. Meunier, Le Christ de Cyrille d’Alexandrie. L’humanité, le salut et la question monophysite, Paris 1997; A. Fernández Abel, La cristología en los comentarios de Cirilo de Alexandría, Roma 1998. Sul Concilio di Efeso, cf. A. d’Alès, Le dogme d’Éphèse, Paris 1931; R. Teja, La “tragedia” de Efeso (431): Herejía y poder en la antigüedad tardía, Universidad de Cantabria 1995. 43 Cf. PG XC, coll. 68-109: cf. R. Devresse, La vie de Saint Maxime le Confesseur et ses recensions, in «Analecta Bollandiana», LIII (1935), pp. 49-80. 44 Ambigua ad Thomam, PG XCI, coll. 1031-1060; Ambigua ad Johannem, ibid., coll. 1061-1418 (per la traduzione latina di questo secondo testo v. Maximi Confessoris Ambigua ad Johannem iuxta Iohannis Scotti Eriugenae latinam interpretationem, E. Jeauneau [ed.], in «Corpus Christianorum», S.G., XVIII).

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o più testi della Scrittura sacra. L’opera, indirizzata al vescovo del suo monastero 45, si propone il delicato compito di sottrarre a un’interpretazione origenista i testi più “ambigui” appunto dei maestri della vita spirituale, Dionigi e soprattutto Gregorio di Nazianzo: compito difficile, perché la trama del linguaggio conserva l’impronta profonda di una cosmologia e di una escatologia più volte condannate: in particolare, nel 543, l’editto dell’imperatore Giustiniano, e nel 553, il secondo Concilio ecumenico di Costantinopoli, avevano solennemente condannato le dottrine di Origene, ma anche di Didimo e di Evagrio il Pontico 46. Sono necessari, in effetti, tesori di tecnica ermeneutica per depurare di ogni sospetto di panteismo, o di credenza nella preesistenza delle anime, un testo come l’Oratio XIV di Gregorio di Nazianzo, ove è questione, per quanto riguarda gli uomini, di essere parte di Dio, ove si parla ugualmente di un fluire dall’alto 47, perché in un contesto percorso da grandi inquietudini teologiche appariva essenziale ritrovare nella tradizione più venerata i fondamenti di un’antropologia monastica, i grandi modelli della vita spirituale. L’itinerario di conoscenza delineato dagli Ambigua è fondato sulla nozione di physikè theoría, derivata in larga misura da Evagrio il Pontico: in sintesi, una ermeneutica universale che permette di interpretare e “leggere” le “nature”, cioè tutto quello che è stato definito dal linguaggio divino, seguendo un’articolazione in cinque momenti 48 o modalità della contemplazione, perché l’intelletto orientato alla contemplazione arriva con questi mezzi alla prima, fondamentale riduzione dei lógoi della natura: sostanza (ousía), movimen-

45 Amb. ad Johannem, «Prol.», coll. 1061A-1064A. Per la datazione delle opere di Massimo, lo studio fondamentale resta ancora P. Sherwood, An Annotated Date-list of the Works of Maximus the Confessor, in «Studia Anselmiana», XXX, Roma 1952. 46 Cf. P. Sherwood, The Earlier Ambigua of St. Maximus the Confessor, in «Studia Anselmiana», XXXVI, Roma, 1955, pp.71-92; M. Harl, Origène et la fonction révélatrice du Verbe Incarné, cit., pp. 103-120 (le tesi condannate); J. Meyendorff, Le Christ dans la théologie byzantine, Paris 1969, pp. 59-89. 47 Cf. Ambigua, III, coll. 1068D-1069A, in cui si enuncia il testo oggetto di un complesso commentario (cf. P. Sherwood, The Earlier Ambigua, cit., pp. 21-29): Gregorius Nazianzenus, Oratio XIV, 7; PG, XXXV, col. 865C (sull’autore, cf. P. Gallay, La vie de Saint Grégoire de Nazianze; J. Bernardi, Saint Grégoire de Nazianze. Le théologien et son temps, Paris 1995; C. Moreschini, Filosofia e letteratura in Gregorio di Nazianzo, Milano 1997). 48 Il cinque è il numero che rappresenta la phy´sis, «in ragione della distribuzione in numero di cinque della percezione sensibile»: cf. Capita theologica et oeconomica, cent. I; PG, XC, coll. 1112-1113.

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to (kínesis), differenza (diaforá), miscuglio (krâsis), posizione (thésis). Il rapporto fra l’assoluto divino e il sensibile, a partire dal quale ci è data una possibilità di conoscenza dell’assoluto, ove il sensibile è definito e circoscritto dalle categorie dello spazio-tempo, si inserisce in un quadro di teologia cristologica, di ricerca della perfezione spirituale. Si può osservare che Massimo il Confessore sottolinea il rapporto spazio-tempo con un accento nuovo, perché l’universo della creazione biblica è un universo finito nel tempo, e non solo unicamente nello spazio, come l’universo aristotelico 49. C’è un momento nella vita del Cristo in cui la realtà ontologica coincide con il suo apparire fenomenico, in cui il significante, la rappresentazione e la forma simbolica coincidono con il significato originario e ultimo al tempo stesso: è il momento della trasfigurazione del Tabor, che nella sua perfezione riassume tutte le figure di passaggio, passaggio dalla carne allo spirito, dall’Antico al Nuovo Testamento, e che fonda al tempo stesso l’armonia della legge naturale e della legge scritta 50. La luce abbagliante della persona del Cristo, della corporeità risorta, conduce direttamente alla verità dell’essere del Verbo in principio 51, il che attribuisce una perfetta trasparenza al vestimento candido della Scrittura, la cui funzione sarebbe quella di occultare nel momento stesso in cui rivela: «per l’amore infinito degli uomini, il Cristo si fa simbolo (ty´pos) di se stesso e a partire da se stesso si manifesta nell’ordine simbolico» («per immensurabilem humanitatem accipiens suimet fieri formam et symbolum, et approbare ex seipso significative seipsum», traduce il geniale traduttore dell’età carolingia, Giovanni Eriugena 52). In questa prospettiva, percepibile unicamente nella logica della tradizione platonica, la “razionalità” ultima del processo di significazione mediato dal mondo sensibile risiede nella corporeità del Cristo, perché la corporeità trasfigurata dimostra infine l’adesione perfetta del simbolico e del reale e giustifica il modo platonico di conoscenza, fondato sul rapporto fra l’immagine e il modello, il che avviene, e non potrebbe essere più paradossale, perché ogni frattura fra sensibile e intelligibile è stata annullata dalla coincidenza fra l’assolutezza ontologica del Verbo e la sua concretezza spazio-temporale. Sotto questo

49 Cf. ibid., VI, 36-39, coll. 1175-1185; pp. 91-96. 50 Ambigua, VI, 17, coll. 1126-1128; pp. 57-58. 51 Ibid., col. 1128A; p. 58. 52 Ibid., VI, 31, col. 1165D; p. 85.

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punto di vista il pensiero di Massimo il Confessore è forse pervenuto al limite estremo di consapevolezza di un platonismo cristiano che vive nella logica del paradosso, in cui unicamente può sviluppare secondo coerenza le conseguenze logico-antropologiche dell’affermazione della duplice natura di Cristo del Concilio di Calcedonia 53. Se vogliamo riassumere schematicamente la dialettica di cui Tertulliano e Origene possono considerarsi all’origine, si può dire che l’effetto salvifico dell’incarnazione dell’assoluto divino nella corporeità e nella storia può considerarsi dal punto di vista prevalente della biologia, perché assicura la vittoria sulla morte e la risurrezione dei corpi, anche attraverso l’assimilazione sacramentale del corpo divino, come sostiene con risolutiva efficacia Pascasio Radberto nel De corpore et sanguine Domini 54, oppure l’incarnazione può considerar53 Oltre a J. Meyendorff, Le Christ dans la théologie byzantine, cit. (sul quale cf. J.M. Garrigues, Réflexions sur un ouvrage du P. Meyendorff, in «Istina», III, 1970, pp. 357-358), sulla tradizione cristologica greca, in particolare sul Concilio di Calcedonia, cf. P.-Th. Camelot, Éphèse et Chalcédoine, Paris 1962 («Histoire des conciles œcuméniques», 2); C. Moeller, Le Chalcédonisme et le néochalcédonisme en Orient de 451 à la fin du VIe siècle, in A. Grillmeier - H. Bacht, Das Konzil von Chalkedon. Geschichte und Gegenwart, 3.B., I., Wurzburg 1951, pp. 637-720; R.V. Sellers, The Council of Chalcedon. A historical and doctrinal survey, London 1953; J. Liebaert, L’Incarnation, I. Des origines au concile de Chalcédoine, Paris 1965; A. de Halleux, La définition christologique de Chalcédoine, in Patrologie et Oecuménisme. Recueil d’études, Louvain 1990, pp. 445-480. Per mettere a fuoco la posizione di Massimo in questo orizzonte teologico di estrema complessità, sia l’affermazione dell’unità di natura del Cristo (monofisismo), dell’unità di energia (monoenergismo), o dell’unità di volontà (monotelismo), ogni dottrina che impoverisce l’umanità del Cristo contrasta profondamente con la visione del mondo di Massimo, con il suo progetto di spiritualità. 54 Pascasius Radbertus, De corpore et sanguine Domini, in B. Paulus (ed.), «Corpus Christianorum», S.L., c.m., XVI, 1969. Nel secolo IX, l’opera di Pascasio Radberto, di cui l’edizione ormai imponente del Corpus Christianorum sottolinea infine la rilevanza storica e spirituale, percorre con una radicalità estrema la concezione dell’incarnazione di Cristo come evento biologico-storico, inserito in un preciso momento nell’ordine delle generazioni, nel procedere irripetibile dei tempi. Il grande Commentario a Matteo, una delle opere più rilevanti dell’esegesi altomedievale, può anche considerarsi come punto di riferimento dialettico rispetto alla grande esegesi giovannea dell’Eriugena, rivolta alla luce folgorante e intemporale del Cristo-Logos, infinitamente al di sopra delle ombre della “valle della storia”. Il testo di Pascasio esordisce infatti con una prefazione Contra eos qui dicunt genealogiam Christi ad euangelium non pertinere, che utilizza il Contra Faustum agostiniano per contestare in realtà lo spiritualismo platonizzante di molta tradizione esegetica, perché l’evangelium, l’annuncio rivolto dall’angelo ai pastori, è annuncio di nascita nella carne: cf. Expositio in Matthaeum, in B. Paulus (ed.), «Corpus Christianorum», S.L., c.m., LVI, 3 voll., 1984: vol. I, pp. 9-19. Per gli studi sull’autore si ricorderanno K.F. Kohler, Rhabanus Streit mit Paschasius Radbertus über die Abendmahlslehre, in «Zeitschrift für wissenschaftliche Theologie», XXII, Lipsia 1879; J. Ernest, Die Lehre des hl. Paschasius Radbertus von der Eucharistie. Mit besonderer Berücksichtigung der Stellung des hl. Rhabanus Maurus und des Ratramnus zu

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si salvifica in primo luogo perché è rivelazione dell’inconoscibile divino, che apre la via della conoscenza salvifica, del ritorno alla perfezione dell’Adamo primordiale, nel momento stesso in cui il divino assume in sé l’uomo-microcosmo, sintesi di tutta la natura creata e assicura l’unica mediazione che consente di ricondurre all’unità del fondamento razionale la dispersione delle naturae nel molteplice, secondo la concezione che Massimo il Confessore e poi Giovanni Scoto illustrano con particolare ricchezza. Nel secolo IX, Pascasio, che considera la genealogia di Cristo parte integrante della rivelazione evangelica, e considera il Fausto manicheo, contro il quale Agostino aveva indirizzato un corposo trattato 55, come avversario emblematico, al tempo stesso contesta direttamente il carattere “ineffabile” della generazione del Verbo, pur giustificato dal testo di Isaia (53, 8):

derselben, Freiburg 1896; M. Jacquin, Le De corpore et sanguine Domini de Paschase Radbert, in «Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques», VIII (1914), pp. 81103; S. Bonano, The Divine Maternity and the Eucharistic Body in the Doctrine of Paschasius Radbertus, in «Ephemerides Mariologicae», I (1951), pp. 379-384; G. Mathon, Pascase Radbert et l’évolution de l’humanisme carolingien, in Corbie abbaye royale, Lille 1963, pp. 135-155 (nello stesso volume, cf. anche R. Beraudy, Les catégories de la pensée de Ratramne dans son enseignement eucharistique, pp. 157-180); L. Lies, Origenes und die Eucharistiekontroverse zwischen Paschasius Radbertus und Ratramnus, in «Zeitschrift für katholische Theologie», CI (1979), pp. 414-426; G. Macy, The Theologies of the Eucharist in the Early Scholastic Period. A Study of the Salvific Function of the Sacrament according to the Theologians, Oxford 1984. 55 Cf. Expositio in Matthaeum, I, p. 30: «Recte itaque ab initio fidei genealogia Christi subputatur ut in quo primum de eo facta legitur repromissio fieret et exordium successionis donec uentum esset ad eum qui de coelo huic diuinitus fuerit repromissus». Se l’Antico e il Nuovo Testamento sono inscindibilmente uniti nella verità del loro annuncio, l’evangelista Matteo, anche in previsione di un possibile Fausto che avrebbe rifiutato il testo al cui inizio è una Genesis, esordisce con l’annuncio strettamente parallelo, per sottolineare che lo scriba evangelico, nella distanza del tempo, è interprete dello stesso divino auctor: «Nam liber principii Veteris Testamenti Geneseos denique ex initio uoluminis appellatur quia in eo secundum nostram interpretationem scriptum legimus: Hic est liber generationis Adae. Et illud: Iste generationes caeli ac terrae quando creatae sunt (Gn 2, 4). Ex quo constat quocunque tamen modo ex eo quod in primordio ibidem generatio caeli ac terrae inscribitur quia inde Genesis appellatur. Et ideo dignum profecto fuit Noui Testamenti initium quantum possibile erat simili modo praesignari ut eiusdem Noui ac Veteris Testamenti unum Deum auctorem taliter promulgando euangelista monstraret» (ibid., I, p. 20). Che la genealogia inizi da Abramo e Isacco, a cui il Padre divino ha manifestato ogni predilezione, dovrebbe costituire, secondo Pascasio, un invito rivolto a tutte le genti, piuttosto che agli Ebrei, a riconoscere la luce promessa dalle Scritture in forma di oracolo: «Abraham inquit genuit Isaac (Mt 1, 2). Quis enim in genealogia Christi aptius in principio poni posset quam is de cuius semine benedictio omnium gentium propagatur? Quod factum itaque credimus ut ad eum currerent non tam Iudaei quam omnes gentes cuius origo ex eo repromissa luce clarius diuinarum Scripturarum oraculis declaratur» (ibid., I, p. 30).

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generationem eius quis enarrabit? 56, avendo forse presente un primo diffondersi della teologia dionisiana dell’ineffabile, che ispirerà Giovanni Scoto, di cui si può evocare l’Omelia sul Prologo e l’immagine folgorante della discesa dell’aquila, dai vertici della intemporale contemplazione teologica, alla “valle della storia” 57, che è piuttosto la valle della contemplatio naturalis o physikè theoría di Massimo il Confessore, l’equivalenza fra mondo e Scrittura. Il tema dell’incarnazione nella dimensione temporale irreversibile della storia, come supremo intervento della volontà eterna nel tempo, al di là di ogni libero arbitrio individuale, ispira in profondità quell’opera controversa nel suo proprio contesto ma fondamentale nello sviluppo della teologia sacramentale a partire dall’XI secolo, che è il De corpore et sanguine Domini. Non posso che riassumere qui le conclusioni faticosamente raggiunte in un trentennio di studi e affidate al volume Tempo rituale e tempo storico 58. Il carattere storicotemporale, cioè sottratto alla infinita ripetibilità rituale e simbolica, dell’evento salvifico della morte di Cristo, rende necessario il miracolo quotidiano del suo “reale” riprodursi, al di là dell’apparenza delle specie eucaristiche. D’altra parte la promessa di trasmutazione biologica, che è la promessa della risurrezione, rende necessaria quell’assimilazione al corpo glorioso di Cristo che è garantita dall’azione di 56 Ibid., I, p. 22: «Si enim quis pro impossibilitate ibi accipitur quomod hic iste generationem eius narrare sibi possibile iudicavit? Nisi quia ibi de generationem quae secundum diuinitatem est dictum putamus. Hic autem de generationem quam pro nobis secundum hominem suscepit quamquam et ista magna ex parte inenarrabilis esse credatur. Verum tamen illa per quam genitus est ab aeterno tota ineffabilis et incomprehensibilis esse probatur». Le assonanze testuali rinviano a un testo largamente utilizzato: Hieronymus, In Mathaeum, I, in «Corpus Christianorum», S.L., LXXVII, p. 7. Il fatto stesso che l’evangelista Giovanni abbia annunciato il suo in principio equivale evidentemente a un dire: «Ergo dum ait: In principio erat Verbum narravit aliquid et cum addidit quid hoc Verbum esset et quod apud Deum (Ioh. 1, 1) Patrem esset iam non solum aliquid de eo sed multa dixit. Unde non inconuenienter sane quaeritur quomodo ineffabilis si effari possit recte dicatur. Aut si non possit quomodo ut probamus quippiam de eo narratur?» (ibid., I, p. 22). Il testo di Isaia indica quindi la “rarità”, il carattere eccezionale del narrare, non la sua “impossibilità” (ibid., pp. 22-23). 57 Cf. Omelia Iohannis Scoti translatoris Ierarchiae Dionisii, 14, in E. Jeauneau (ed.), «Sources Chrétiennes», CLI, Paris 1969, p. XXX (M. Cristiani [ed.], Milano 1987, pp. 40-42): «Fuit homo missus a deo, cui nomen erat Iohannes (Ioh. 1, 6). Ecce aquilam de sublimissimo vertice montis theologiae leni volatu descendentem in profundissimam vallem historiae, de caelo in terram spiritualis mundi pennas altissimae contemplationis relaxantem. Divina siquidem scriptura mundus quidam est intelligibilis, suis quattuor partibus, veluti quattuor elementis constitutus». 58 M. Cristiani, Tempo rituale e tempo storico. Comunione cristiana e sacrificio. Le controversie eucaristiche nell’alto Medioevo, Spoleto 1997 (cf. cap. III).

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mangiare “realmente” il suo corpo, azione che profondamente inquieta lo spiritualismo intellettuale, il platonismo agostiniano e dionisiano della cultura contemporanea. Il miracolo di trasformazione delle specie eucaristiche è in realtà soprattutto miracolo dell’onnipotenza divina, amministrata dal sacerdote nella legalità ecclesiale e rituale, che agisce direttamente sull’ordine del tempo, fino a rendere quotidianamente presente e reale ciò che una volta sola è avvenuto. La struttura del miracolo quotidiano, com’è concepita da Pascasio, è sostanzialmente affine e speculare al paradosso enunciato da Pier Damiani nel De divina omnipotentia: non si tratta infatti di far sì che il già avvenuto non sia nella traiettoria temporale, ma che il già avvenuto sia nel momento diverso e presente di questa traiettoria. Nell’XI secolo, in piena riforma gregoriana, attraverso le condanne di Berengario di Tours, che contesta, in nome di uno spiritualismo già predominante due secoli prima, le dottrine di Pascasio, queste ultime costituiranno il fondamento della dogmatica in materia eucaristica, definita nel XIII secolo con gli strumenti concettuali dell’aristotelismo (teoria della transustanziazione). Attraverso questo rapido e necessariamente semplificato excursus storico, vorrei sottolineare fino a che punto la logica dell’incarnazione costituisca il fondamento dell’ordine rituale, ma anche, soprattutto in Occidente, la premessa di un futuro escatologico, la speranza di risurrezione dei corpi, che solo la consumazione “reale” del corpo di Cristo, di un corpo che ha vinto la morte, può garantire sul piano biologico. Una indagine serena sull’ascetismo cristiano, che attribuisce alla corporeità una voce possente, soprattutto attraverso i testi della spiritualità monastica, che registrano le dolorose difficoltà dell’anima nell’affermare il suo dominio sui sensi, dovrebbe porsi un problema che per la tradizione cattolica può considerarsi di stretta attualità: fino a che punto la “transvalutazione” della corporeità, realizzata dall’incarnazione di Cristo, indica sul piano dei valori, nell’ambito dell’umano, una prospettiva di superamento, di un “al di là” della natura, mentre un nucleo forte di razionalità aristotelica riconduce, attraverso la grande mediazione tomista, a un’idea di natura come legge dei corpi, se non delle anime?!

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BARBIERO GIANNI Dottore in Scienze bibliche, ha studiato a Roma (Pontificio Istituto Biblico), a Gerusalemme (École Biblique) e in Germania (Frankfurt, St. Georgen), dove è stato allievo di N. Lohfink. Ha insegnato a Messina, in Germania (Ph.Th. Hochschule Benediktbeuern) ed è attualmente professore ordinario di Esegesi dell’Antico Testamento nel Pontificio Istituto Biblico di Roma. Tra i suoi testi principali ricordiamo: L’asino del nemico. Rinuncia alla vendetta e amore al nemico (1988); Cantico dei Cantici (2004); Non svegliate l’amore. Una lettura del Cantico dei Cantici (2007). BREZZI FRANCESCA Professore ordinario di Filosofia morale presso l’Università di Roma Tre, è direttore del Dipartimento di Filosofia nella Facoltà di Lettere della medesima università. Dal maggio 2000 è delegata del rettore per le Pari opportunità - Studi di genere. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Donne eppur futuriste, in Pagliano G. (a cura di), Le presenze dimenticate (2002); Amore e Empatia (2003); Antigone e la philia. Le passioni tra etica e politica (2004). CANEVA CLAUDIA È docente incaricata del corso «L’attualità del Bello: Bellezza e Verità» presso l’Istituto di Scienze Religiose «Ecclesia Mater» della Pontificia Università Lateranense. Musicista e studiosa delle forme più estreme dell’arte contemporanea, è membro della Commissione di Revisione Cinematografica al Dipartimento Cinema del Ministero dei Beni Culturali. Tra i suoi scritti: L’arte del post umano (2005); La musica di Nietzsche (2006); Bellezza e persona: l’esperienza estetica come epifania dell’umano in Luigi Pareyson (2008).

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CASALE VITTORIO Professore ordinario di Storia della Critica d’Arte presso il Dipartimento di Studi Storico-artistici, Archeologici e sulla Conservazione dell’Università Roma Tre. Tra i suoi scritti: Il museo del Barocco Romano (2007). CIPRIANI ROBERTO Professore ordinario di Sociologia nella Facoltà di Scienze della Formazione e direttore del Dipartimento di Scienze dell’Educazione nell’Università Roma Tre. Ha condotto indagini in Grecia e Messico ed ha realizzato alcuni film di ricerca. È past president dell’Associazione Italiana di Sociologia. Le sue pubblicazioni, tradotte anche all’estero, riguardano problematiche teorico-metodologiche e fenomeni culturali con particolare attenzione a quelli religiosi. Tra i suoi numerosi scritti: La religione diffusa. Teoria e prassi (1988); Sud e religione. Dal magico al politico (1990); Sociologia del tempo. Tra crónos e kairós (1997); Manuale di sociologia della religione (1997); Il pueblo solidale (2005); Dai dati alla teoria sociale (2008); L’analisi qualitativa. Teorie, metodi, applicazioni (2008). CONCI DOMENICO ANTONINO († 2008) È stato professore ordinario di Filosofia Teoretica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Arezzo. Tra i suoi numerosi scritti: Tempo e spazio del sacro: un’analisi fenomenologica (1988); Fenomenologia della metamorfosi (1991); Tra apparire ed essere. Fenomenologia della natura come segno culturale occidentale (1993); Fenomenologia del miracolo (1998); Il Drago di San Michele. Fenomenologia dei vissuti originari del male (1999); La guerra degli angeli. Contributo ad una fenomenologia dei vissuti bellici (1999); Tempi sacri e tempi profani nelle culture a fondamento rivelativo. Analisi fenomenologiche (2001). CRISTIANI MARTA Professore ordinario di Storia della Filosofia medievale presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Roma Tor Vergata; è stata direttore del Dipartimento di Ricerche Filosofiche a partire dal 199596, e dal 1997 è titolare della cattedra di Storia della Filosofia. Ha tenuto corsi presso l’École Pratique des Hautes Etudes di Parigi e l’Istituto Italiano degli Studi Filosofici di Napoli. Dal 1989 di-

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rige, insieme con Alain de Libera e Jean Jolivet, la collana «Études de Philosophie Médièvale» presso l’editore Vrin. Tra i suoi scritti: Tempo rituale tempo storico. Comunione cristiana e sacrificio (1997).

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DE ROSSI FILIBECK ELENA Docente di Tibetologia all’Università di Roma «La Sapienza». Autrice di numerosi saggi e articoli sulla storia e cultura del Tibet. DE VITIIS PIETRO Dal 1981 è professore ordinario di Filosofia della storia (Università di Lecce), di Filosofia della religione (Università di Chieti), quindi di Filosofia morale (Università di Roma Tor Vergata). Ha ricoperto varie cariche accademiche tra cui quella di preside nell’Università di Chieti. Ha dedicato le sue ricerche al pensiero di Heidegger, al teismo speculativo nell’’800 tedesco e all’ermeneutica filosofica, con particolare attenzione alle problematiche di filosofia della religione e di filosofia morale. Tra i suoi scritti: Heidegger e la fine della filosofia (1974); Ermeneutica e sapere assoluto (1984); Il problema religioso in Heidegger (1995); Prospettive heideggeriane (2006). DELLA ROCCA ROBERTO Laureato rabbino presso il Collegio Rabbinico Italiano e laureato in Giurisprudenza presso l’Università «La Sapienza» di Roma. Già rabbino capo ad Ancona e Venezia, è dal 2001 direttore del Dipartimento Educazione e Cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Docente di Pensiero ebraico presso il corso di laurea in studi ebraici dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI) e di Ebraismo post biblico presso l’Università Pontificia Lateranense di Roma. È autore di vari saggi e articoli nel campo della divulgazione della cultura ebraica. Tra i suoi scritti: Ebraismo e sionismo tra universale e particolare: saggi dai convegni del Moked offerti a Berti Eckert (2005); Le judaisme (2008). DHAVAMONY MARIASUSAI, SJ Nato a Kuthalur (India), è uno dei maggiori esperti del dialogo interreligioso, ed è docente di Induismo presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma. Tra i suoi numerosi scritti: Hindù Spirituality (1999); Pluralismo religioso e missione della Chiesa

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(2001); Ecumenical theology of world religions (2003); Il dialogo indù-cristiano e missione della Chiesa (2004).

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DI NICOLA GIULIA PAOLA È docente di Sociologia della famiglia presso l’Università di Chieti. Dirige assieme ad Attilio Danese la rivista trimestrale di cultura, etica e politica «Prospettiva Persona» e il Centro di Ricerche Personaliste di Teramo. Ha pubblicato numerosi studi sulla questione femminile e su temi di antropologia e di politica. Tra le numerose sue pubblicazioni: Antigone. Figura femminile della trasgressione (1991); Perdono… per dono (2005); Giovani di spirito. A ciascuno il suo carisma (2008). FERRAROTTI FRANCO È il più noto dei sociologi italiani all’estero e i suoi libri sono tradotti in francese, inglese, spagnolo, russo e giapponese. Ha collaborato con le maggiori riviste scientifiche statunitensi, oltre che europee ed è autore di numerosi volumi apprezzati da scrittori, artisti e scienziati sociali. Si è interessato dei problemi del mondo del lavoro e della società industriale e postindustriale, dei temi del potere e della sua gestione, della tematica dei giovani, della marginalità urbana e sociale, delle credenze religiose, delle migrazioni, privilegiando un approccio interdisciplinare e insistendo sull’importanza di uno stretto nesso tra impostazione teorica e ricerca sul campo. Una particolare attenzione è stata dedicata nelle sue ricerche alla città di Roma. Tra i suoi numerosi scritti ricordiamo tra i più recenti: L’arte nella società (2005); Capitalismo: lusso o risparmio? (2008); Il silenzio della parola (2008); Il ’68 quarant’anni dopo (2008); Il senso della sociologia ed altri saggi (2008). JAE-SUK LEE Coreana, docente di Storia delle Religioni Orientali presso le Università Gregoriana e Lateranense. KAJON LEVI IRENE Professore ordinario di Antropologia filosofica presso la Facoltà di Filosofia dell’Università di Roma «La Sapienza». Il suo campo di studi è il pensiero ebraico, soprattutto quello dell’età moderna e contemporanea, inteso non tanto come corrente particolare entro

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la storia della filosofia quanto come via o metodo per riflettere sul problema dell’uomo. Tra le sue pubblicazioni: La storia della filosofia ebraica (a cura di), (1993); Il pensiero ebraico nel Novecento. Una introduzione (2002); Homo homini magister. Educazione e politica nel pensiero dialogico del Novecento (a cura di I. Kajon e N. Siciliani de Cumis) (2006); Emmanuel Lévinas. Prophetic Inspiration and Philosophy, Atti del Convegno per il Centenario della nascita (Roma, 24-27 maggio 2006), a cura di I. Kajon, E. Baccarini, F. Brezzi, J. Hansel (2008). MARCHIANÒ GRAZIA Già docente di Estetica nelle Università di Cosenza e Genova, di Lettere, Religioni e Filosofie dell’Asia Orientale nella Scuola di Perfezionamento in Filosofia dell’Università di Roma «La Sapienza», dal 1993 è professore ordinario di Estetica nel corso di laurea in Filosofia, e supplente di Storia e Civiltà dell’Estremo Oriente nel corso di laurea in Beni Artistici e Culturali. È stata rappresentante della facoltà nella Commissione Relazioni Internazionali dell’Ateneo dal 1996 al 2000. Ha coordinato per le scienze umane il Progetto bilaterale di ricerca Kyoto-Siena ed ha diretto progetti di ricerca CNR. Segretario dell’Associazione Italiana per gli Studi di Estetica (AISE), di cui è presidente dal 1993, e dal 2002 presidente onorario. Nel 1993 ha fondato l’International Study Group for Comparative Aesthetics (LORO). Tra i suoi scritti: Sugli Orienti del pensiero (1984); La parola e la forma (1993); Il conoscitore di segreti (con Elemire Zolla 2006). MAZZOTTA MONS. GUIDO Professore ordinario di Metafisica nella Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Urbaniana di Roma, dove ha già ricoperto il ruolo di decano; è anche docente presso la LUMSA. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Stupore della ragione (1986); La modernità compiuta (1988); La scienza dell’amore (1999); Audacia della ragione inculturazione della fede (2002). MOTTA ROBERTO Professore ordinario all’Università federale di Pernambuco (Recife) e membro del Gruppo di Sociologia delle religioni e della laicità. Autore di numerosi scritti sulle religioni presenti in Brasile.

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MURA GASPARE Professore ordinario emerito di Filosofia, è docente di «Ermeneutica filosofica» presso le Pontificie Università Lateranense e della Santa Croce di Roma. È stato direttore dell’«Istituto Superiore per lo studio dell’ateismo», dell’Urbaniana University Press, e della rivista «Euntes Docete», della Pontificia Università Urbaniana; per l’attività editoriale svolta, gli è stata conferita nel 2007 l’onorificenza di «Commendatore dell’Ordine di S. Silvestro». È attualmente presidente dell’«Accademia di Scienze Umane e Sociali» (A.S.U.S.) di Roma, ed è consultore del Pontificio Consiglio della Cultura. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni ed è conosciuto a livello internazionale come un accreditato esponente dell’ermeneutica filosofica contemporanea. Tra i suoi scritti: Ermeneutica e verità. Storia e problemi della filosofia dell’interpretazione (1990, 19972); Pensare la parola. Per una filosofia dell’incontro (2001); Introduzione all’ermeneutica veritativa (2005). Testo sacro e religioni. Ermeneutiche a confronto (2006). www.urbaniana.edu/uup/autori/mura/ index.htm OLIVIERI PENNESI D. ALESSANDRO Ordinato sacerdote per la diocesi di Roma nel 1994 , è dottore in Filosofia (1983, Università «La Sapienza» di Roma) e dottore in Teologia (1996, Pontificia Università Gregoriana); è attualmente docente presso la Pontificia Università Urbaniana e insegnante di Religione al Liceo scientifico statale «C. Cavour» di Roma; si occupa prevalentemente del “sacro” postmoderno. Tra i suoi scritti: Il Cristo del New Age. Indagine critica (1999). PALUMBIERI D. SABINO Salesiano, professore ordinario di Antropologia filosofica presso l’Università Pontificia Salesiana (UPS), è dal 2004 professore emerito della stessa disciplina e nella stessa Università. Saggista e pubblicista, è autore di numerosi studi sulle radici di fenomeni rilevanti del nostro tempo, visti in chiave antropologica. Fondatore del movimento «Testimoni della risurrezione verso il Duemila», svolge attività di animazione a livello nazionale in movimenti di confronto interculturale e di impegno umanistico-cristiano, ed è promotore di una nuova forma di pietà popolare relativa alla risurrezione di Cristo, la Via lucis, che si va diffondendo in tutto il mondo. Tra i suoi numerosi scritti: L’uomo e il futuro (1991); La

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via lucis. Luce nella notte (2004); Antropologia filosofica (I e II) (2006); Negli occhi e nel cuore la speranza. Testimoni di Gesù Risorto (2006); Il dolore e la fede: viaggio nel mistero (2006). PETRINI MASSIMO Professore straordinario al Camillianum, è coordinatore del Gruppo di Studio sulla Cura alla fine della vita della Società Italiana di Gerontologia e Geriatria; è anche docente di Salute e spiritualità della persona anziana, Assistenza al morente, Il processo del lutto, La persona anziana nelle culture religiose, presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. Tra i suoi scritti: Il valore di una presenza. Educarsi all’anzianità (2002); La cura alla fine della vita. Linee assistenziali - etiche - pastorali (2003); Il dialogo religioso al letto del paziente (2007). POUPARD CARD. PAUL Presidente emerito del Pontificio Consiglio della Cultura, e del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso; è stato vice-presidente della Società di Storia della Chiesa di Francia, membro del Consiglio Superiore della Scuola pratica degli Alti Studi e dell’Alto Comitato di lingua francese e dell’Accademia delle Belle Lettere, Scienze e Arti di Angers. È membro delle Congregazioni per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti; per l’Evangelizzazione dei Popoli; per l’Educazione Cattolica; dei Pontifici Consigli per i Laici; per la promozione dell’Unità dei Cristiani. Tra i suoi molteplici scritti ricordiamo tra gli ultimi: Il cristianesimo all’alba del terzo millennio (2000); O Cristo tu ci sei necessario (2001); Santi d’oggi. Sei testimoni per il terzo millennio (2003); Scoprire il Concilio Vaticano II (2006); Populorum Progressio. Tra ricordi e speranze (2007). PRINZIVALLI EMANUELA Già professore ordinario di Materie Letterarie, Latino e Greco nei Licei, ricercatore presso le Università di Cassino e Tor Vergata, e professore associato presso l’Università di Perugia, dal 2000 è professore ordinario di Storia del Cristianesimo e delle Chiese presso l’Università «La Sapienza» di Roma. Si occupa prevalentemente di storia di esegesi patristica, di agiografia antica e medievale, delle dottrine antropologiche ed escatologiche nel cristia-

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nesimo delle origini. Attualmente studia i testi cristiani di origine romana del I e II secolo. Tra i suoi scritti: Storia della Letteratura cristiana antica (1999); Letteratura cristiana antica (2003). ROCCATI ALESSANDRO È uno dei più noti egittologi a livello internazionale. Dal 1973 è stato ispettore alla Soprintendenza del Museo delle Antichità egizie e dal 1972 docente universitario presso le Università di Genova, Torino e Milano; dal 1988 al 2005 è stato professore ordinario di Egittologia presso l’Università «La Sapienza» di Roma, e dal 2005 professore ordinario di Egittologia presso l’Università degli Studi di Torino e direttore della Scuola di specializzazione in Archeologia dello stesso ateneo. Dal 2000 è direttore della rivista scientifica on-line Archaeogate - Il portale italiano di archeologia; è presidente dell’Istituto Italiano per la Civiltà Egizia e fa parte del Comitato scientifico della Fondazione del Museo Egizio di Torino. Tra i suoi scritti: Nefertari. Regina d’Egitto (1999); Museo egizio di Torino (1999); I templi di File (2003); L’area tebana (2003); Introduzione allo studio dell’Egiziano (2008). ROLDÁN VERÓNICA Nata ad Azul (Argentina), dopo avere completato un dottorato di ricerca presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, tiene corsi di Sociologia delle religioni presso l’Università di Buenos Aires e collabora con l’Università di Roma Tre. Le sue pubblicazioni in lingua italiana e spagnola riguardano soprattutto i movimenti religiosi contemporanei. Ha partecipato alla stesura dell’Enciclopedia delle religioni in Italia. SACHA MALGORZATA È docente all’Università di Cracovia, esperta in culture e religioni orientali. SANNA MONS. IGNAZIO È stato dal 1990 professore ordinario di Antropologia teologica presso la Pontificia Università Lateranense e dal 1998 vice rettore della stessa Università; è membro della Pontificia Accademia di Teologia, della Commissione Teologica Internazionale e del Comitato per il Progetto Culturale Italiano. È stato consacrato arcivescovo di Oristano nel 2005. Autore di numerosi scritti, ri-

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cordiamo tra gli ultimi: Le mani dell’uomo. Quali frontiere per la biotecnologia? (2005); L’identità aperta. Il cristiano e la questione antropologica (2006); Chiamati per nome. Antropologia teologica (2007); Emergenze umanistiche e fondamentalismi religiosi. Con quale dialogo? (2008). SAVI JULIO Ginecologo, si occupa di studi religiosi, spiritualità, sviluppo spirituale e aspetti teologici, mistici e filosofici delle scritture bahá’í; su questi temi ha tenuto conferenze in Europa, Nord America, Africa e Asia. È membro della facoltà dell’Università Internazionale di Landegg (Svizzera) e fa parte di un team che tiene un corso di «Economia per un nuovo ordine mondiale» presso l’Università di Bari. Tra i suoi scritti: Per un solo Dio. Appunti di filosofia della religione (2000); Lontananza (2001); Remoteness. Selected Poems (2002). SCOGNAMIGLIO EDOARDO, OFM È docente di teologia dogmatica presso la Facoltà teologica dell’Italia meridionale e presso la Facoltà teologica San Bonaventura in Roma e la Pontificia Università Urbaniana. È direttore del Centro liturgico francescano di Napoli e del Centro regionale campano M.I. Tra i suoi scritti: Koinonía e diakonía. Il volto della Chiesa. Percorsi di ecclesiologia contemporanea (2000); Pellegrini nella storia (in collaborazione 2000); Ecco, io faccio nuove tutte le cose. Avvento di Dio, futuro dell’uomo e destino del mondo (2002); Catholica. Cum ecclesia et cum mundo (2004). TORTOLICI BEATRICE È docente di Antropologia Culturale nella Facoltà di Scienze della Formazione di Roma Tre. Ha scritto vari saggi su argomenti di carattere antropologico pubblicati in riviste specializzate e in volumi collettanei. Tra le sue pubblicazioni: Verso il sentimento. Itinerari antropologici (1998); Appartenenza, paura, vergogna. L’Io e l’Altro antropologico (2003); Violenza e dintorni (2005); Antropologia e nursing (con A. Stievano 2006).

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‘Abdu’l-Bahá: 158, 160, 161, 162, 163, 164, 166, 167, 168 ‘Alı¯ A.Y.: 99 Abécassis A.: 456 Abramo: 486 Abramovich M.: 278 Abramowski L.: 482 Achille: 39 Acquaviva S.: 421 Adamo: 100, 103, 104, 106, 107, 308, 330, 360 Adorno: 347 Adriano, imperatore: 27 Afrodite: 322 Agamennone: 39 Agostino d’Ippona: 14, 71, 72, 245, 246, 316, 324, 390, 461, 462, 467, 472, 478, 486 Ahmed L.: 124 Alain Corbin Al-Badydåwı¯: 115 Alberoni F.: 448 Alcibiade: 26 Ales Bello A.: 12, 341 Alessio Maria della Passione: 254 Alfano Miglietti F.: 266, 272, 277 Al-Gazålı¯: 114, 116, 117, 121 Al-Hallåı¯: 112 Al-Hallåj: 109 Al-Junayd: 109

Al-Kindı¯: 115 Allåh: 99, 105, 106, 287 Allegra A.: 275 Ambrogio: 310, 462 Ames R.T.: 138 Anderson G.H.: 421 Angelini G.: 382 Angeloni R.: 391 Angot M.: 197 Anstein di Basilea: 86 Anstein H.: 86 Anthony D.: 421 Antigone: 393 Antoni J.: 262 Anzieu D.: 275 Apelle: 473, 476 Arberry A.J.: 111 Arendt H.: 350 Ariès Ph.: 46, 307 Aristofane: 323 Aristotele: 361, 453, 465 Armogathe J.-R.: 31 Arnaldez R.: 121 Aronne: 350 Asimov I.: 266 Assagioli R.: 217, 218 Assayag J.: 197 Athey R.: 274 Augias C.: 357 Averroè: 75, 116, 465 Avicenna: 75, 116

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Bacht H.: 485 Bacon F.: 269 Bader R.: 470 Badinter E.: 373 Baffioni C.: 114 Bahá’u’lláh: 160, 161, 162, 163, 164, 167, 169 Bailey A.A.: 218 Balandier G.: 34 Baldi L.: 253 Balletti A.: 279 Balzac H., de: 20 Bandler R.: 222 Barbiero G.: 11, 442, 443, 450, 451, 489 Barnett S.: 198 Barrett D.B.: 421 Barruffo A.: 409, 421 Barth K.: 80, 348 Basombrío E.: 411, 422 Bastare J.: 312 Bastiaensen A.A.R.: 400 Bastide R.: 204, 205, 213 Bataille G.: 35, 36, 46 Bausani A.: 22, 98, 99, 111 Beer R.: 177 Béguin A.: Beinlich H.: 184, 187 Bèjin A.: 307 Belgioioso G.: 31 Bellandi G.: 92 Bellini E.: 471 Bellini P.: 462, 464 Bello I.A.: 116 Belpoliti M.: 274, 275 Beltrutti D.: 289 Benedetto F.: 447 Benedetto XVI: 24, 213, 319, 321, 333, 363, 461 Benefial M.: 258

Benjamin W.: 228 Benzine R.: 118 Beraudy R.: 486 Berengario di Tours: 488 Bergson H.: 44 Berkson M.: 299 Bernardi J.: 483 Bernath K.: 466 Bernini G.L.: 252, 256 Berti E.: 376 Betancourt D.: 414, 422 Betti E.: 263 Beyer S.V.: 175 Biale D.: 302 Biancaneve: 385 Bianchi E.: 173 Biardeau M.: 197 Bily L.: 442 Blacking J.: 197 Blackman E.C.: 474 Blandina: 400 Blasone P.: 99 Blavatsky E.P.: 218 Blondeau A.M.: 180 Blumhofer E.L.: 422 Boccioni U.: 262, 269 Bodei R.: 380 Boesch Gasano S.: 253 Boezio: 462 Bolli M.: 350 Bollini P.: 185 Bonano S.: 486 Bonaventura: 71 Bonito Oliva A.: 261 Bopp K.: 442 Bordini G.F.: 255, 257 Borges J.L.: 93, 95, 96 Børresen K.E.: 398, 401, 402 Bouchrara T.Z.: 123 Boudon R.: 423

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Boudot-Lamotte A.: 101 Bouhdiba A.: 124, 287 Bouillier V.: 197, 198 Boukhari: 286 Bourdieu P.: 416, 422 Bourgeois P.: 408 Bowker J.: 122 Braidotti R.: 279, 340 Braun R.: 472, 478 Brena F.S.: 289 Brenner A.: 447 Brezzi F.: 11, 339, 341, 342, 489 Briseide: 39 Brown P.: 307, 308, 309, 310, 399 Browning S.D.: 295, 299 Bruaire C.: 99, 469 Brueggemann W.: 344 Bruner F.A.: 405, 422 Brunner H.: 187 Buddha: 91, 94, 95, 178, 182, 293, 294, 296 Bujo B.: 300 Bultmann R.: 203, 205, 214 Buonaiuti E.: 13 Buoyer L.: 118 Burgalassi S.: 422 Burnet M.: 46 Bussagli M.: 268 Byamungu T.M.G.: 301 Bynum C.: 311 Cabezòn J.I.: 177 Caird E.: 13 Calame C.: 322, 323 Calvino G.: 206, 214 Camelot P.-Th.: 485 Camera d’Afflitto I.: 123 Campanini G.: 376, 387 Camporesi P.: 234

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Camus A.: 32 Candy Stanton E.: 343, 344 Caneva C.: 11, 260, 265, 489 Cantalamessa R.: 422, 477 Capasso R.: 476 Capra F.: 219, 220 Carpitella M.: 469 Carrara P.: 27 Carrillo Alday S.: 411, 422 Casale V.: 11, 251, 253, 490 Caspar R.: 110 Cassiodoro: 463 Cassirer E.: 318 Castaneda C.: 218 Caterina de’ Ricci: 254, 255, 257 Cavarero A.: 341 Cazeneuve J.: 118 Celso: 397, 398, 470, 471 Cericola P.: 223 Cernetti G.: 26 Cesare: 474 Cesareo V.: 422 Ch’ang-Tsai: 132 Ch’eng Hao: 133 Ch’eng Yi: 133 Chebel M.: 101, 102 Chelhod J.: 101 Chen Shou: 157 Chogyal Namkhai: 173 Chuang-Tzu: 129, 141, 143, 144, 145, 146, 147 Chu-Hsi: 133 Ciattini A.: 356 Cimosa M.: 328, 329 Cipriani R.: 11, 227, 342, 490 Cirillo di Alessandria: 482 Clark S.: 408 Clemente di Alessandria: 173 Coakley S.: 297 Codrignani G.: 347

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Cohen H.: 437, 438, 439 Cole A.: 295 Colleart A.: 253, 254 Collins S.: 297, 345 Colonna A.: 397 Comenio: 370 Conci D.A.: 10, 50, 490 Confucio: 127, 135, 136, 137, 139 Coote R.T.: 421 Corbin H.: 101, 113, 229 Corsi D.: 402 Corsini E.: 479 Courcelle P.: 462 Courtine J.-J.: 229 Cousin V.: 461 Creonte: 393 Cristiani M.: 11, 470, 476, 487, 490 Cronenberg D.: 266 Crouzel H.: 479, 480 Cruciani F.: 462 d’Alès A.: 482 Dalai Lama: 183 Dall’Asta A.: 272, 273, 277, 278, 280 Danese A.: 369, 390 Daniel J.: 32 Daniélou J.: 479 Dante Alighieri: 429 Danzhu Angben: 174 Das V.: 197 Davidson R.M.: 447 de Beauvoir S.: 27, 346 de Halleux A.: 485 de Lauretis T.: 340 de Lubac H.: 479 De Maistre J.: 26 De Rossi Filibeck E.: 11, 173, 491 de Souzenelle A.: 101

De Vitiis P.: 11, 236, 491 de Vitray-Meyerovitch E.: 102 Debergé J.: 456 Deitch J.: 265, 279 del Prado C.: 349 Del Santo L.: 335 Della Rocca R.: 11, 67, 491 Descartes R.: 31, 240 241, 243, 461, 467 Destro A.: 304 Devresse R.: 482 Dhavamony M.: 11, 82, 491 Dhorme E.: 99 Di Maria Jayendranata F.: 290, 292 Di Nepi S.: 302, 303, 305 Di Nicola G.P.: 11, 369, 376, 377, 492 Di Nola A.M.: 24, 118 Dick P.: 266 Didimo: 483 Diepen H.M.: 482 Dionigi l’Areopagita: 471, 482, 483 Dioniso: 248, 320 Disegni D.: 430 Dodin T.: 174 Donatello: 234 Donden Y.: 176 Doriforo di Policleto: 268 Dostoevskij F.: 335 Douglas M.: 354, 356 Doutreleau L.: 465 Droogers A.: 209, 214 du Manoir H.: 482 Dubuffet J.: 269 Duby G.: 357 Duchamp M.: 269 Dumoulié C.: 326 Durer A.: 268

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Duret P.: 403, 416, 420, 422 Durkheim E.: 47, 269, 403, 422 Ebrey P.: 299 Edou J.: 181 Efraim F.R.: 412, 424 Egeria: 401 Eliade M.: 13, 63 Elliott J.P.: 314 Elliott T.: 453 El-Saleh S.: 116 Engels F.: 213, 214 Eraclito: 470 Ernest J.: 485 Erode: 474 Esin E.: 286 Esiodo: 319, 321 Euripide: 203, 204, 212 Eva: 309, 360 Evagrio il Pontico: 483 Evans E.: 477, 478 Exum J.C.: 442, 446, 449, 453 Fadini E.: 63 Fan Ye: 157 Fang Xuanling: 150 Fanuli A.: 390 Farina R.: 10 Fasce S.: 321, 322 Fatima: 288 Fausto: 486 Fellini F.: 228 Fénelon F.: 369, 370 Ferguson M.: 217 Fernández Abel A.: 482 Ferrari F.: 447 Ferrarotti F.: 10, 19, 37, 492 Feuer L.S.: 213, 214 Fieschi Adorno C.: 255 Filomene: 473

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Filoramo G.: 178 Finke R.: 423 Fleischer R.: 266 Foglio D.: 409, 423 Fonagy I.: 185, 187 Ford H.: 37 Forni S.: 356 Foster G.: 207, 214 Foucault M.: 44, 325 Fraisse-Coué Ch.: 481 Franco B: 274 Franco F.: 231 Frankl V.-E.: 318 Franklin J.H.: 205, 213 Frazer J.G.: 19 Freyre G.: 207, 214 Fries H.: 72 Fruzzetti L.: 198 Frymer-Kensky T.: 302 Fuchs J.: 314 Fu-hsi: 129 Gabrieli F.: 22 Gadamer H.-G.: 14 Gadjin M. Nagao Gaiotti De Biase P.: 377 Galileo: 35 Galimberti U.: 261 Gallagher Mansfield P.: 409, 423 Gallay P.: 483 Galle C.: 254 Gandhi: 86, 87 Garbini G.: 445, 449, 454 Gardet L.: 116 Garin E.: 461 Garrigues J.-M.: 485 Garutti Bellenzier M.T.: 308 Gassendi P.: 461 Gautama Siddharta Shâkyamuni: 93, 95, 96

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Indice dei nomi

Ge Hong: 149, 150, 153, 155, 157 Geertz C.: 365 Gelpi D.: 404, 405, 423 Gentili A.: 223 Gentili D.: 462 Geremia: 474 Gerleman G.: 450 Gerstenberger Erhard S.: 341 Ghiandelli G.: 304 Giacomo, re: 205 Gialål ad-Dı¯n R‰mı¯: 98 Gianfranceschi F.: 373 Gianini-Belotti E.: 377 Gianotti C.: 177, 178 Gibellini R.: 342 Gibson W.: 266 Gide A.: 20 Giordano Bruno: 29 Giorgi F.: 268 Giotto: 79 Giovanni Eriugena: 484, 485 Giovanni Paolo II: 76, 274, 306, 340, 341 Giovanni Scoto: 486, 487 Giovanni XXIII: 408 Giovanni, evangelista: 487 Giove: 319 Giovetti P.: 222, 223 Girard R.: 118, 173, 174, 182, 354 Girolamo: 310 Giuliana di Norwich: 401 Giustiniano: 483 Givone S.: 322, 324 Glock C.: 423 Glucksmann A.: 10 Goethe J.W.: 30 Goldin N.: 266 Goudriaan T.: 197 Graetz H.: 445, 452 Grandis G.: 306, 312, 313

Grasso D.: 419, 423 Grätz H.: 438 Green C.M.: 295, 299 Greenfield S.M.: 209, 214 Gregorio di Nazianzo: 482, 483 Gregorio di Nissa: 308, 463 Gregorio Magno: 462 Greshake G.: 348, 349 Grillmeier A.: 472, 477, 481, 482, 485 Grinder J.: 222 Grof S.: 218, 222 gTsang smyon Heruka: 177 Guardini R.: 77 Guénon R.: 101 Guerre C.: 291 Guessous S.N.: 123 Guimard J.: 31 Gurdjieff G.I.: 221, 222 Guzzetti C.M.: 99, 102, 107, 109, 120 Guzzi M.: 218 Gyatso J.: 180 Haarh E. : 177 Habermas J.: 203, 214 Haddad Y.Y.: 116 Håfez: 110 Hagedorn A.C.: 442 Han Wudi: 148 Haraway D.: 340 Harding S.: 175 Hardon J.: 423 Harl M.: 479, 480, 483 Hatoum M.: 262 Hegel G.W.F.: 31, 202, 214, 243, 393 Heidegger M.: 12, 47, 48, 239, 240, 241, 242, 243, 244, 245, 345, 349

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Indice dei nomi

Heiler F.: 13, 86 Heinevetter H.-J.: 451 Heissig W.: 173, 176 Hemmerle K.: 348 Herbert Spencer H.: Herder J.-G.: 14 Héritier F.: 284, 361 Hernández M.C.: 114 Hervieu-Leger D.: 423 Heyward C.: 348 Hieronymus: 487 Hölderlin F.: 47, 48 Hollenwer W.: 423 Horkheimer M.: 318 Hsun-Tzu: 136, 140 Huang-Ti: 148 Hubert H.: 354 Husserl E.: 35, 57, 234, 235, 270, 339, 469 Huyghe R.: 263 Ibañez Padilla A.: 416, 423 Ibn ‘Arabı¯: 114, 117 Ibn Qayyim al-Djawziyya: 115 Ibsen H.: 41 Il Báb: 169 Ildegarda di Bingen: 77, 401 Introvigne M.: 405, 407, 408, 424 Ippolito Macrina N.: 405, 407, 408, 424 Ireneo di Lione: 400, 463, 464, 474, 476 Irigaray L.: 344, 345, 346, 350, 351 Isacco: 486 Islam K.M.: 122 Jackson R.R.: 177 Jacquin M.: 486 Jambet C.: 33 James H.: 363

505

James W.: 13 Jasmuheen: 223 Jeauneau E.: 482, 487 Jehudah Ha-Levi: 435, 439 Jonas H.: 10 Juana Inés de la Cruz: 401 Jung C.G.: 217 Jurado A.: 93 Jurjåni¯: 102 Juvin H.: 232, 264 Kafka F.: 440 Kajon I.: 11, 429, 492 Kant I.: 31, 238 Kantowa H.: 266 Kardec A.: 208 Karmay S.G.: 180 Kaufman W.: 204, 215 Keel O.: 446, 447, 450, 451 Keifer R.: 408 Kelly J.N.D.: 472 Kelsang J.: 176 Kenny A.: 466 Khanna M.: 291 Khun T.: 217 Kierkegaard S.: 236 Kinsey A.: 42 Købø Daishi¯ K‰kai: 92, 93, 94, 96, 97 Koetschau P.: 480 Kohler K.F.: 485 Kollmar-Paulenz K.: 182 Koons J.: 265 Kramer S.N.: 447 Krinetzki G.: 452 Krishna: 88, 90 Kroymann A.: 472, 478 Kuschel K.J.: 424 Kvaerne P.: 173

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506

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Labidi-Maiza M.: 289 Lacau P.: 188 Lacocque A.: 446, 448 Landy F.: 447, 449, 451 Lane Fox R.: 307 Lanternari V.: 353 Lao-Tzu: 141, 143, 144, 145, 147, 148 Lassèrre F.: 323 Laurentin R.: 407, 409 Lauro A.: 353 Lavoie J.-J.: 453 Lawrence D.H.: 41 Lazarsfeld F.: 423 Le Goff J.: 234, 269, 274, 280 Leahy Shlemon B.: 415 Lee Jae-Suk: 11, 126, 141, 492 Leenhardt M.: 52 Lefebvre G.: 188 Leibniz G.: 31 Leiris M.: 212, 213, 214 Leonardo da Vinci: 262, 268, 361 Leporello: 40 Lequeret E.: 373 Levi P.: 229 Lévinas E.: 433 Lévi-Strauss C.: 211, 214, 361 Liala: 42 Lì Antunez Roca M.: 266 Liebaert J.: 485 Lies L.: 486 Lieske A.: 479 Liu an: 148 Lo Bue E.: 175 Locke J.: 44, 370 Lodetti R.: 380 Lomiento G.: 480 Longman T.: 446 Longo Di Cristoforo G.: 371 Loomis C.P.: 201

Lorenzo Da Ponte: 40 Louis G.: 107 Lowen A.: 99 Luca: 397 Lucrezio: 326 Lundström S.: 478 Lutero: 78 Lutz M.: 313 Luzarraga J.: 446, 454 Lys D.: 447, 450 MacLaine S.: 219 MacLuhan M.: 20 Macrì T.: 266, 276 Macy G.: 486 Madonna A.: 173 Madre P.: 412 Maffesoli M.: 29 Maggiani S.: 118 Magli I.: 373 Magonet J.: 302 Maimonide: 435, 436, 437, 439 Malamoud C.: 193, 197 Mandel G.: 113 Manson M.: 266 Maometto: 114, 119 Marcel A.M.: 107 Marcel G.: 234, 235, 469 Marchesini R.: 261, 262, 276 Marchianò G.: 11, 91, 493 Marcione: 471, 473, 475 Marcuse H.: 37 Marett R.R.: 173 Marion J. L.: 346 Marlia A.M.: 283 Marquet Y.: 101 Martelli S.: 422, 424 Martin D.: 181, 424 Martin M.N.: 285, 299 Martin R.: 408

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Marx K.: 211, 213, 214 Marzabotto G.: 256 Masini L.: 271 Maslow A.: 217 Massignon L.: 101, 108 Massimo il Confessore: 482, 483, 484, 485, 486, 487 Massingberd Ford J.: 409, 424 Masucci A.: 257 Mathon G.: 486 Matsunaga Y‰kei: 92 Matteo, evangelista: 38, 476, 486 Mauss M.: 354 May H.G.: 451 Mazzotta G.: 11, 461, 493 McGuckin J.A.: 482 McKay A.: 174, 180 Mencio: 128, 129, 133, 134, 135, 136, 137, 138 Mercandelli M.: 279 Mercier C.: 465 Merleau-Ponty M.: 31, 32, 270, 469 Métraux A.: 213, 214 Metz J.B.: 72, 75 Meunier B.: 482 Meyendorff J.: 483, 485 Michelangelo: 234, 262, 268 Milarepa: 176, 178 Miriam: 350 Mitscherlich A.: 20 Moeller C.: 485 Mohagheghi H.: 288 Moingt J.: 346 Moltmann J.: 348 Moltmann-Wendel E.: 270, 306 Monius E.A.: 291 Montagne M., de: 30 Montenegro M.: 221 Moore H.: 269

507

Moravec H.: 279 Morello G.: 251 Moreschini C.: 472, 483 Mortari L.: 385 Mosè: 350 Mosse G.L.: 230 Motta R.: 11, 201, 209, 214, 493 Mounier E.: 372, 373, 386, 388, 391 Mowry La Cugna C.: 349 Muhammad: 285, 286, 288 Müller H.-P.: 445, 447, 450, 454 Müller W.: 327 Mura G.: 9, 342, 494 Musi E.: 384 Musso F.: 32 Mutahharı¯ S.A.: 105 Naaman B.: 121 Nadali G.: 362 Namai Chishø: 92 Nardi B.: 466 Nasimiyu-Wasike A.: 301 Nautin P.: 479 Navarra E.: 403, 422 Neel A.D.: 181 Néher A.: 26 Nestorio: 481, 482 Netton I.R.: 117 Neves T.: 231 Nichol J.: 424 Nicodemo: 395 Nietzsche F.: 12, 30, 43, 44, 46, 78, 201, 204, 205, 212, 215, 236, 237, 238, 239, 240, 241, 242, 243, 244, 245, 247, 248, 320, 321, 367, 380 Nieuviarts P.: 456 Nirenstein S.: 379 Nitsch H.: 273

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508

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Noccelli M.G.: 379 Noriega J.: 46 Nusaybah: 285 Nutrimento L.: 370 Nygren A.: 321 Nyitray V.L.: 299 O’Connor C.S.: 409, 424 Oguibenine B.: 198 Olivieri Pennesi A.: 11, 216, 494 Ontani L.: 279 Orbe A.: 473 Origene: 33, 71, 310, 397, 472, 473, 479, 480, 481, 482, 483, 485 Orione D.L.: 372 Orlan: 266, 278 Orr L.: 222 Ortiz R.: 209, 215 Östör A.: 198 Otto R.: 13, 47 Ozman A.: 405 Pace E.: 407, 421, 424 Padoux A.: 197 Palumbieri S.: 11, 315, 329, 334, 494 Panciera M.: 409, 415, 417, 424 Pane G.: 272 Pansera M.T.: 352 Paolo, apostolo: 201, 205, 398, 400, 471 Parente A.: 263 Pareyson L.: 264 Parham C. F.: 404, 405 Parmenide: 58, 59 Parsons T.: 202, 203, 215 Pascasio Radberto: 476, 477, 485, 486, 488 Passmore G.: 271

Paulus B.: 477, 485 Pausania: 323 Peirone F.: 99 Pellegrino U.: 13 Penacini C.: 356 Perniola M.: 39, 280 Petrini M.: 11, 283, 495 Pettinato G.: 447 Peverelli L.: 42 Phillips J.M.: 421 Piantelli M.: 178 Picasso P.: 269 Piccardo H.R.: 99 Piccari P.: 476 Pier Damiani: 488 Pinder W.: 260 Pirani B.M.: 215 Pitigrilli (Dino Segre): 42 Platone: 33, 67, 76, 236, 237, 243, 245, 246, 320, 323, 325, 327, 395, 397, 471 Plinio il Giovane: 27 Plotino: 326, 333 Plutarco: 357 Policleto: 268 Pompas M.: 223 Pope M.H.: 445, 446 Poulssen N.: 453 Poupard P.: 7, 10, 495 Prandi C.: 422 Pratesi M.: 278 Prats R.: 179 Praz M.: 42 Preuschen E.: 479 Prigogine I.: 43 Prinzivalli E.: 11, 397, 398, 495 Pritchard J.B.: 450 Proesch G.: 271 Prometeo: 319, 320 Protagora: 241

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Proust M.: 326 Providenti G.: 342 Pussetti C.: 356

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Quack F.J.: 188 Queguiner M.: 292 Quinzio S.: 47 Qusar N.: 294 Rabbi Akivah: 432, 433 Radford Ruether R.: 309, 343 Rahner K.: 348 Rainer A.: 277 Rambaldi E.I.: 26 Ranaghan K.: 409, 425 Ranke-Heinemann U.: 310, 445 Rather H.: 174 Ratzinger J.: 213 Ravasi G.: 446, 452 Ravier A.: 121 Razzi S.: 255, 257 Reale G.: 322, 324, 325 Redfield J.: 220 Rehm B.: 472 Reich W.: 41, 42, 312 Reik T.: 118 Renna L.: 328 Restaino F.: 341 Riccardo di San Vittore: 347 Richardson H.E.: 178 Ricoeur P.: 375, 390 Riesman D.: 37, 40 Rimbaud A.: 30 Rius-Camps J.: 480 Riva F.: 235 Rizzi A.: 326 Rizzo S.: 470 Robbins A.: 222 Robbins T.: 421 Robert A.: 452

509

Roccati A.: 11, 184, 496 Rocchetta C.: 306 Roldán V.: Roldán V.: 11, 405, 407, 408, 410, 424, 425, 496 Rolla A.: 390 Rosenzweig F.: 438, 439 Rosmini A.: 234, 235, 466 Rosu A.: 175, 177 Roswita: 401 Roth G.: 202 Rouget G.: 205, 215 Rousseau A.: 465 Rousseau J.-J.: 30 Roussel P.: 403, 416, 420, 422 Roy Andrée M.: 344, 345 R‰mı¯: 109 Runzo J.: 285, 299 Russo G.: 284 Russo M.T.: 421, 425 Ryotaro Shiba: 94 Sacha M.: 11, 189, 496 Saffo: 447 Salamov V.: 229 Salla J.B.: 301 Salvoni F.: 328 Sanna I.: 11, 71, 270, 265, 275, 496 Sarri F.: 397 Sartore D.: 118 Sartori G.: 39 Sartre J.-P.: 27, 31, 32, 52, 211, 469 Sarvepalli Radakrishnan: 48 Savi J.: 11, 158, 497 Scattolin G.: 108 Scheler M.: 13, 352 Schimmel A.: 288 Schinella I.: 284, 286, 290

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510

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Schipper K.: 152 Schopenhauer A.: 21, 30 Schultz J.H.: 222 Schüssler Fiorenza E.: 341, 344, 347 Schwartz P.: 421 Schwarzkogler R.: 273 Schweiker W.: 291, 299, 300 Scipioni L.I.: 481 Scognamiglio E.: 11, 98, 103, 113, 121, 497 Scorsese M.: 178 Scott R.: 266 Sebastiani L.: 253 Sebastiano, san: 272, 274 Sedlmayr H.: 263, 276 Sellers R.V.: 485 Semen Y.: 306 Sergent J.C.: 294 Sernesi M.: 179 Servio: 447 Setzer C.: 397 Seubert H.: 244 Sfameni Gasparro G.: 399 Shakespeare W.: 429 Sharma A.: 285 Sharma P.V.: 176 Shermann C.: 277 Sherrill J.: 408, 425 Sherwood P.: 483 Shoghi Effendi: 158, 165 Siewert G.: 469 Silburn L.: 198 Simeone: 474 Simonetti M.: 10, 477, 480 Skorupski T.: 175 Slenczka R.: 472 Smith B.K.: 190, 198 Smith J.I.: 116

Socrate: 26, 28, 29, 76, 203, 204, 212, 321, 323 Sofocle: 319, 322, 449 Sombart N.: 203, 215 Sorrentino S.: 248 Spano H.: 248 Spencer H.: 43, 356 Spinoza: 432 Staal F.: 198 Stark R.: 423 Stein E.: 339 Stein R.A.: 179, 182 Steiner R.: 218, 221 Steinkellner E.: 180 Stengers I.: 43 Stepanyants M.: 108 Sterlac: 272, 278 Sullivan F.A.: 409, 425 Swami Shankarananda: 94 Swedenborg E.: 218 Tacito: 27 Tang Gaozong: 154 Tang Taizong: 154 Tang Wuzong: 154 Tarabout G.: 197, 198 Tarulli V.: 462 Tashi Dawa: 174 Taylor C.: 275 Taziano: 309 Teilhard de Chardin: 267 Teja R.: 482 Tenzin rgya mtsho: 178 Teocrito: 445 Tepedino A.M.: 349 Teresa d’Avila: 252, 253, 254, 255 Terrin A.N.: 118, 219 Tertulliano: 72, 309, 463, 471, 472, 473, 474, 475, 476, 477, 478, 479, 481, 485

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Theobald C.: 347, 348 Thomas L.-V.: 46 Thurman R.A.F.: 176 Tiengo M.: 289 Tilgher A.: 461 Tillich P.: 315 Tognonato C.: 32 Tolone O.: 364 Tommaso d’Aquino: 75, 310, 347, 465, 467, 468 Tönnies F.: 201, 203, 213, 215 Toppi F.: 425 Toraldo M. di Francia: 339 Torjesen K.J.: 311 Torres Alonso J.: 422 Tortolici B.: 11, 352, 361, 497 Totaro S.: 353 Tournay R.: 452 Triacca A.M.: 118 Trible Ph.: 447 Truong N.: 234 Tsukamoto S.: 266 Tucci G.: 22, 173, 176 Turenne (Henri de la Tour d’Auvergne-Bouillon), visconte di: 20 Turner V.: 118, 206, 211, 215 Tworuschka M.: 107 Tylor A.P.: 356 Ubbiali S.: 118 Uribe A.J.: 414, 425 Valsecchi A.: 317, 318 van der Leeuw G.: 13 Van Gennep A.: 193, 352 Vanzan P.: 379 Varala F.J.: 176 Varga I.: 215 Vattimo G.: 14

511

Vedder B.: 244 Verpoorten J.M.: 190 Verra V.: 14 Vesalio A.: 262 Vettese A.: 266 Vico G.: 14 Vigarello G.: 229 Villard de Honnecourt: 268 Virgilio: 319 Virno M.: 377 Vishnu: 90 Visonà G.: 399 Voltaire: 44 von Balthasar H. U.: 246, 348 Von Braun C.: 304, 305, 307 Von Harnack A.: 474 Wainwright E.: 347, 349, 350 Waldenfels H.: 118 Wang Ming: 156 Wang Shou-Ren: 128, 129, 133, 134 Warhol A.: 276 Waszink J.H.: 471 Weber M.: 22, 25, 48, 201, 202, 203, 207, 208, 211, 212, 213, 215 Weil S.: 22, 29, 45, 375, 393 Weiss B.: 216, 223 Welte B.: 247, 248, 364 White D.G.: 198 Widengren G.: 13 Wilkerson D.: 408, 425 Withman W.: 5 Witte J.Jr.: 295, 299 Wittich C.: 202 Wojtyla K.: 274 Wolff H.W.: 114 Wolff N.: 442

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512

Wolkstein D.: 447 Womack D.A.: 425 Wosien B.: 222 Wujastyk D.: 198 Xella P.: 445 Yahya Haqqi: 123 Young-Mi K.: 296

Zakovitch Y.: 446 Zannad T.: 101 Zarathustra: 46, 238 Zarri A.: 349 Zaynab: 288 Zedda S.: 310 Zhang Lu Zhu Hsi: 127 Zoccatelli P.: 405, 407, 408, 424 Zoffoli E.: 409, 425 Zonta M.: 435 Zumthor P.: 187, 188

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Zaenher R.C.: 87 Zafarullah Khan M.: 99

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513

Indice Indice generale

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Indice generale

PRESENTAZIONE (Paul Card. Poupard) . . . . . . . . . . pag.

5

INTRODUZIONE (Gaspare Mura) . . . . . . . . . . . . .

»

9

. . . . . . . .

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19 19 23 29 32 36 39 43

LA CARNE DIVINA (Domenico Antonio Conci) . . . . . .

»

50

LA CORPOREITÀ NELL’EBRAISMO (Rav Roberto Della Rocca) »

67

CORPO E RELIGIONE (Ignazio Sanna) . . . . . . . . . . Il corpo umano e la salvezza cristiana . . . . . . . . Per una teologia del corpo . . . . . . . . . . . . . .

» » »

71 71 76

L’INDUISMO (Mariasusai Dhavamony s.j.) La concezione induista dell’uomo . . L’idea induista di Dio. . . . . . . . . La nozione induista di “creazione” .

» » » »

82 82 84 88

PROSPETTIVE ANTROPOLOGICHE CORPO, SENSI E RELIGIONI (Franco Ferrarotti) Il corpo: segno e campo di contraddizioni La preghiera ecumenica del profondo . . . L’istante fatale. . . . . . . . . . . . . . . . Il linguaggio del corpo . . . . . . . . . . . Al di là del dualismo anima-corpo . . . . . Eros senza Imeros . . . . . . . . . . . . . La riscoperta del corpo e del sacro . . . .

. . . . . . . .

. . . . . . . .

. . . . . . . .

. . . . . . . .

LA CONCEZIONE DEL CORPO NELLE RELIGIONI UNIVERSALI

. . . .

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Indice generale

IL CORPO-DEL-BUDDHA NEL BUDDHISMO MAHÅYÅNA (Grazia Marchianò). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.

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IMMAGINI DEL CORPO NELL’ISLAM (Edoardo Scognamiglio) Oltre l’aspetto semantico: il “corpo metaforico” . . Il corpo nella creazione . . . . . . . . . . . . . . . Il meta-corpo: l’aspetto mistico . . . . . . . . . . . Il corpo spirituale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il “corpo simbolico” o ritualizzato. . . . . . . . . . Il “corpo sessuato” . . . . . . . . . . . . . . . . . . IL CORPO SECONDO IL CONFUCIANESIMO: LUOGO DI REA(CIELO) (Jae-Suk Lee) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La concezione del corpo nel confucianesimo . . . . 1. Il corpo è una condensazione del Ch’i (energia vitale cosmica) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. Il corpo è composto da Yin e Yang e dai Cinque Elementi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3. Il corpo proviene dai genitori: “pietà filiale” (metafisica del corpo) . . . . . . . . . . . . . . . 4. Il corpo è luogo della realizzazione del Ren (amore) della Realtà ultima (Cielo) . . . . . . . . Via della purificazione e santificazione del corpo . . 1. Controllare le “sette passioni” e praticare la carità verso gli altri. . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. Santificazione del corpo attraverso la pratica del Li. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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LIZZAZIONE DELL’AMORE DELLA REALTÀ ULTIMA

IL CORPO NEL TAOISMO. TEMPIO DEL MISTERO (TAO) (Jae-Suk Lee) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La definizione di vita: Virtù (Te) come qualità ottenuta dal Tao. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La concezione del corpo nella filosofia taoista: LaoTzu e Chuang-Tzu . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il concetto del corpo nel taoismo religioso: nel corpo si realizza il Mistero (Tao) . . . . . . . . . . . . Metodo di immortalità e di lunga vita . . . . . . . .

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Indice generale

LA

CONCEZIONE DEL CORPO NELLE RELIGIONI UNIVER-

(Julio Savi) . . . . . . . . . . . Il rapporto fra l’anima e il corpo. . . . . . . . Il corpo e l’io natale . . . . . . . . . . . . . . La cura del corpo. . . . . . . . . . . . . . . . La “sacralità del corpo”: uno dei diritti umani Il corpo dopo la morte fisica . . . . . . . . . . Conclusione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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SALI: IL BAHAISMO

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CORPO E RELIGIONE NEL MONDO ANTICO E ORIENTALE TI. . . . . . . .

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IL “SOMATOCENTRISMO” DELL’ANTICO EGITTO (Alessandro Roccati) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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LA

CONCEZIONE DEL CORPO NELLE RELIGIONI DEL

(Elena De Rossi Filibeck) Il corpo nel mito . . . . . Il corpo nel rito . . . . . . Conclusioni . . . . . . . .

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CORPO ARTIFICIALE E CORPO NATURALE: DALLA VISIONE (Malgorzata Sacha) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Fondamenti vedici e tantrici per i rispettivi concetti di corpo: somiglianza gerarchica contro equivalenza Corpo contrattuale vedico e corpo divinizzato tantrico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . VEDICA ALLA VISIONE TANTRICA INDUISTA

CORPO E RELIGIONI NEI SINCRETISMI IL

CORPO E L’ESPERIENZA RELIGIOSA: ALCUNE QUESTIO-

NI PRELIMINARI, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AI CUL-

BRASILE (Roberto Motta) . . . . . . . . Tönnies, Weber, Nietzsche e il corpo . . . . . . . .

TI POPOLARI IN

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Indice generale

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Paolo e il “culto spirituale” Complessità brasiliane . . . La Santa Alleanza. . . . . . Considerazioni finali . . . . Testi di consultazione. . . .

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CORPO E RELIGIONE NEI SINCRETISMI: IL NEW AGE (Alessandro Olivieri Pennesi). . . . . . . . . . . . Per una definizione del New Age . . . . . . . . . I precursori del New Age . . . . . . . . . . . . . Aspetti della galassia New Age. . . . . . . . . . . La via della salute e della salvezza . . . . . . . . . L’esperienza del sacro in una religiosità sincretista

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CORPO, RELIGIONE E SOCIETÀ CORPO, RELIGIONE E SOCIETÀ (Roberto Cipriani) Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La religione del corpo . . . . . . . . . . . . . Per un approccio storico-sociologico al corpo La negazione del corpo. . . . . . . . . . . . . Le nuove dinamiche del corpo. . . . . . . . . Da Rosmini a Marcel: la coscienza del corpo .

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LA MORTE DI DIO E LA SOGGETTIVITÀ COME CORPO (Pietro De Vitiis) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La morte di Dio fra secolarizzazione e fine della metafisica. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Nietzsche nella storia della metafisica secondo Heidegger . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’ambiguità di Nietzsche . . . . . . . . . . . . . . . CORPO E RELIGIONE NELL’ARTE CORPO E RELIGIONE NELL’ARTE ROMANA DEL SEICENTO SETTECENTO (Vittorio Casale). . . . . . . . . . .

E DEL

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Indice generale

CORPO E IDENTITÀ NELL’ARTE DEL POST-HUMAN dia Caneva) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . L’arte del post-human. . . . . . . . . . . . . Il corpo nell’arte del post-human . . . . . . Corpo e identità . . . . . . . . . . . . . . . Conclusione. . . . . . . . . . . . . . . . . .

(Clau. . . . pag. . . . . » . . . . » . . . . » . . . . » . . . . »

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CORPO, RELIGIONE E IDENTITÀ CORPO, RELIGIONE E SESSUALITÀ (Massimo Petrini) Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Islam . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Hinduismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Buddhismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Confucianesimo. . . . . . . . . . . . . . . . . . Tradizioni religiose africane . . . . . . . . . . . Ebraismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cristianesimo . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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SESSUALITÀ E DIMENSIONE RELIGIOSA (Sabino Palumbieri, s.d.b. ) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il sacro e il mistero . . . . . . . . . . . . . . . . . . Sessualità e contemplazione . . . . . . . . . . . . . Éros, autotrascendimento e sacro . . . . . . . . . . L’Éros nella poesia e cultura popolare . . . . . . . . L’Éros nella sua avventura filosofica . . . . . . . . . Platone, un approdo fondamentale . . . . . . . . . 1. L’Éros, il paradosso . . . . . . . . . . . . . . . 2. Éros, spazio religioso . . . . . . . . . . . . . . 3. Rischio di dissaldatura . . . . . . . . . . . . . La proposta biblica nel panorama religioso . . . . . 1. Una svolta originale. . . . . . . . . . . . . . . 2. Unità nella diversità . . . . . . . . . . . . . . 3. Nudità: ambivalenza e distanza . . . . . . . . . 4. L’Éros, tensione e partecipazione all’agápe . . 5. L’ascesa verso la bellezza . . . . . . . . . . . .

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Indice generale

DONNE, FEMMINISMO E RELIGIONE CORPO, DONNE, RELIGIONE: UN TERRENO DA ESPLORARE, UNA MATASSA DA DIPANARE (Francesca Brezzi) . . . pag. L’ermeneutica femminista del sospetto . . . . . . . » La danza di interrelazione ovvero il Dio relazionale » IL

CORPO FEMMINILE COME LUOGO ANTROPOLOGICO E

(Beatrice Tortolici) Il corpo femminile . . . . . . . . . . . . . . Ordine e disordine . . . . . . . . . . . . . . Corpo religioso collettivo . . . . . . . . . . La relazione . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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IL LINGUAGGIO DEL CORPO FEMMINILE COME PARADIGMA ETICO (Giulia Paola Di Nicola) . . . . . . . . . . . Il terremoto delle identità di genere . . . . . . . . . Oltre le identità idem. . . . . . . . . . . . . . . . . Quali modelli per le donne d’oggi . . . . . . . . . . Per un’ermeneutica del corpo femminile . . . . . . La relazionalità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La coscienza del limite . . . . . . . . . . . . . . . . Cura del fragile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Quale trasgressione . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il volto positivo del dolore . . . . . . . . . . . . . .

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CORPO, DONNE, FEMMINISMO E RELIGIONE (Emanuela Prinzivalli) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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STRUMENTO DI MEDIAZIONE

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IL CORPO NELLA RELIGIOSITÀ CARISMATICA CATTOLICA (Verónica Roldán) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il pentecostalismo. Una breve introduzione storica. 1. Il pentacostalismo cattolico . . . . . . . . . . . Il corpo nella religiosità carismatica . . . . . . . . . 1. L’effusione dello Spirito Santo e le sue manifestazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. L’idea di miracolo e di guarigione. . . . . . . . 3. La pratica religiosa . . . . . . . . . . . . . . . 4. L’appartenenza. L’interscambio comunitario . .

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Indice generale

Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »

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CORPO E RELIGIONE NEL «CANTICO DEI CANTICI» CORPO E RELIGIONE NEL CANTICO DEI CANTICI: LA PROSPETTIVA EBRAICA (Irene Kajon) . . . . . . . . . . . . .

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L’AMORE, “FIAMMA DI JAH”. UNA LETTURA CONTESTUALE DI CT 8, 5-7.13-14 (Gianni Barbiero) . . . . . . . . Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . «Mettimi come sigillo sul tuo cuore» (vv. 5-7) . . . «Fuggi, mio diletto» (8, 13-14). . . . . . . . . . . .

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PENSIERO TEOLOGICO CRISTIANO

IL CORPO DIVINO. PLATONISMO E ANTIPLATONISMO NEL (Marta Cristiani) . . .

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AUTORI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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INDICE DEI NOMI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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IL CORPO COME CONTRARIO: MISTICA, ASCETICA ED ESCATOLOGIA IL

CORPO COME CONTRARIO : MISTICA , ASCETICA ED

(Guido Mazzotta) . . . . . . Il corpo come contrario . . . . . . . . Il corpo come prossimo, e come amico Il corpo come “se stesso” . . . . . . . Il corpo come provincia libertatis . . .

ESCATOLOGIA

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Indice Indice generale

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