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Italian Pages 281 [287] Year 2010
Economica Laterza 542
Dello stesso autore nella «Economica Laterza»:
Contro l’identità Dello stesso autore in altre nostre collane:
L’ossessione identitaria «Anticorpi»
Prima lezione di antropologia «Universale Laterza»
Francesco Remotti
Contro natura Una lettera al Papa
Editori Laterza
© 2008, Gius. Laterza & Figli Nella «Economica Laterza» Prima edizione 2010 Edizioni precedenti: «i Robinson/Letture» 2008 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council
Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel giugno 2010 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9402-9
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Contro natura Una lettera al Papa
Lettera al Papa (parte prima)
Santità, come molti altri cittadini italiani e del mondo, seguo con attenzione le manifestazioni del Suo pensiero – né del resto si può dire che i mezzi di comunicazione siano mai stati avari nel diffondere le Sue idee e far conoscere le Sue opinioni in merito ai molti problemi che caratterizzano il nostro tempo. Di questi tempi, in Italia, è stato aperto un dibattito culturale, politico e parlamentare sulla possibilità di riconoscimento civile delle unioni o delle forme di convivenza che per un qualche aspetto non coincidono con la famiglia normalmente intesa, e Lei è intervenuta, e di continuo interviene, su questo tema con argomenti, principi e concetti, che a mio modo di vedere meritano – prima di essere accettati o rifiutati – una riflessione adeguata e possibilmente approfondita. Mi rendo conto che ben difficilmente le considerazioni contenute in queste pagine giungeranno direttamente fino a Lei. Confido però che alcuni uomini di Chiesa, interessati alla problematica citata, avvertano un qualche interesse per quanto potranno o vorranno leggere in questo scritto, anche se si tratta di idee e di riflessioni contrarie, per la loro maggior parte, a quanto la Chiesa Cattolica Romana va predicando in questo periodo. Il primo tema di riflessione riguarda la mia posizione e i motivi che mi inducono a scriverLe superando un comprensibile ritegno iniziale: è la prima volta (e suppongo anche l’ultima) che mi decido a indirizzare un mio scritto direttamente a un Papa. Mi succede di pensare che anch’io occupo una cattedra, una cattedra universitaria, dalla quale cerco di trasmettere ai miei studenti una serie di concetti e di nozioni, di dati e di problemi, di 3
teorie e di prospettive, che presumo siano loro di qualche utilità e che, di questi tempi, si incrociano però in maniera conflittuale con quanto Lei va diffondendo, insieme ad altri uomini di Chiesa. La materia che insegno si chiama Antropologia culturale, e devo dire che gli studenti seguono tale insegnamento con interesse ed entusiasmo. È forse proprio questo entusiasmo ciò che mi spinge a scriverLe, giacché – ripeto – i contenuti del mio insegnamento rischiano troppe volte, di questi tempi, di porsi in contrasto con l’insegnamento della Chiesa. Non solo, ma il mio turbamento si estende anche al tipo di sapere scientifico nel cui ambito compio le mie ricerche e in cui – sia pure in maniera critica – mi identifico. Ne faccio, insomma, una questione di responsabilità didattica e scientifica. A sentire le Sue parole (come, suppongo, possono fare molti miei studenti), il mio insegnamento dovrebbe risultare non solo sgradito, ma neppure accettabile, e questo perché sarebbe esempio di un’ideologia che, a Suo parere, domina il mondo europeo e in generale occidentale, un’ideologia ai Suoi occhi molto pericolosa e che Lei (insieme ad altri) identifica nel ‘relativismo’. Sono convinto che non solo il mio modestissimo insegnamento, ma soprattutto – ed è ciò che più conta – il tipo di sapere scientifico che cerco di diffondere e a cui mi sforzo di contribuire (ovvero l’antropologia culturale) rappresentino ai Suoi occhi una prospettiva che occorre combattere e possibilmente debellare. Le Sue parole, Santità, vanno a colpire alcune tesi basilari di questo tipo di sapere, alcuni suoi presupposti di fondo; le Sue parole, per chi le voglia prendere in seria considerazione, hanno un effetto profondamente destabilizzante: tolgono credibilità alle prospettive generali che caratterizzano l’antropologia culturale e alle ricerche che in tale ambito vengono condotte. Personalmente, mi sento sconcertato, e proprio per questo mi trovo costretto a riflettere, in modo parallelo, sulle Sue idee e sul mio insegnamento, cercando di porli a confronto. Beninteso, non vi è nulla di disdicevole nel fatto che un certo tipo di sapere venga messo in discussione, ma ciò non basta; penso anche infatti che sarebbe poco opportuno – da parte degli antropologi – fare finta di niente. In fondo, le Sue opinioni, con la vasta 4
influenza che esercitano, rappresentano una grande sfida di ordine epistemologico e culturale: sottrarvisi sarebbe una grave mancanza di responsabilità nei confronti della ricerca e dell’insegnamento in campo antropologico. Non dunque per amore di polemica, ma per senso di responsabilità scientifica, proverò a riflettere pubblicamente sulle Sue posizioni. Lo farò partendo da alcuni presupposti che per onestà intellettuale intendo ora esporre in via del tutto preliminare: a) tesi e prospettive dell’antropologia culturale sono null’altro che tentativi – spero abbastanza consolidati – di dare senso a una serie di fenomeni che appartengono alla sfera delle culture umane; b) questi tentativi sono compiuti da ricercatori che hanno avuto e tuttora coltivano l’ambizione di conoscere da vicino – e il più possibile dall’interno – diversi mondi culturali; c) si tratta di tentativi, di operazioni ipotetiche, ragionevolmente fondate sull’esperienza di campo per un verso e su analisi di natura teorica e comparativa per l’altro; d) per quanto consolidate, tesi e prospettive antropologiche sono di continuo sottoposte a critiche, contestazioni, revisioni: esse non godono di un fondamento di ordine superiore rispetto alle culture umane che cercano di indagare. Questo per quanto riguarda l’antropologia culturale. Ma che dire delle idee che un Papa esprime in campo antropologico? Possono essere trattate alla stessa stregua? Possono essere considerate come appartenenti anch’esse a una cultura umana? Oppure c’è chi ritiene che quanto il sommo pontefice ha esposto, per esempio, sulla famiglia umana sia fondato su un sapere in qualche modo extra-culturale o extra-umano? Noi antropologi non possiamo avere una pretesa siffatta, e proprio per questo accettiamo, almeno in linea di principio, critiche e contestazioni; proprio per questo, siamo pronti (o dovremmo esserlo) a vedere il nostro sapere sottoposto a crisi, modifiche, rivolgimenti. Per noi, almeno, è così: umilmente così – anche se ben sappiamo che è una faccenda di non poco conto sentire vacillare presupposti ritenuti saldi e, a seguito di ciò, mettersi in ginocchio per ricostruire le basi di un sapere più condivisibile. Gli antropologi sanno – come ci ha insegnato Thomas S. Kuhn (1969) – che anche gli scienziati (non solo i teologi e gli 5
uomini di Chiesa) sono dei conservatori e fanno di tutto per difendere le loro convinzioni; ma sanno pure che il loro lavoro è di continuo esposto ai rischi sia delle contestazioni teoriche, sia delle contestazioni che provengono dall’esperienza, quell’esperienza che gli antropologi affrontano andando sul campo e che spesso è – anzi, ha da essere – sconvolgente. Lo dico spesso ai miei studenti che si incamminano per una ricerca sul campo: sarebbe un guaio se dal terreno essi ritornassero esattamente con le stesse idee con cui sono partiti. Il campo deve sconvolgere, almeno in parte, i nostri apparati concettuali; se questo non dovesse succedere, vuol dire che l’esperienza è stata inutile, e dunque fallimentare. Ben prima di me, lo affermava un grande dell’antropologia, Bronis¢aw Malinowski: «avere una buona formazione teorica [...] non vuol dire essere carichi di ‘idee preconcette’»; e pure Malinowski individuava nei cambiamenti e nei perturbamenti teorici provocati dal ‘campo’ un test decisivo per saggiare la validità di un’esperienza antropologica (Malinowski 2004: 18). Gli antropologi sanno che il loro cammino è sempre accidentato, che le loro idee rischiano a ogni momento di essere invalidate dall’esperienza. Proprio per questo, forse più di altri tipi di sapere, l’antropologia ha dovuto affrontare il problema di «scoprire come sopravvivere senza le certezze che originariamente» sostenevano le sue prospettive (Geertz 2001: 82). Del resto – come ancora afferma Clifford Geertz (2001: 83) – «se volevamo verità familiari, dovevamo starcene a casa». Allontanandoci da casa, addio stabilità. Ma allontanandoci da casa, pur con tutti i nostri dubbi e le nostre incertezze, qualcosa di più dovremmo sapere su faccende che riguardano gli esseri umani, il loro vivere in società tanto diverse, le loro spesso strane, curiose, talvolta bizzarre costruzioni culturali, quali sono i vari tipi di famiglia che si incontrano nel mondo. Convivere con l’incertezza e con il senso di precarietà delle nostre teorie ci induce anche a cercare di comprendere come e quanto gli esseri umani (compresi gli antropologi, ovviamente) agognino la stabilità, si sforzino di solidificare in vari modi le proprie costruzioni, andando oltre il piano dell’esperienza. Sarà proprio questo, in effetti, il tema che tratteremo nella Parte prima di questo scritto. 6
Santità, prima di iniziare questa sorta di dibattito indiretto tra le Sue idee (le quali esprimono una lunga tradizione di pensiero) e le mie (quali penso di poter trarre da un sapere senza dubbio assai meno consacrato), ho voluto – come si usa dire – mettere le carte in tavola. Può darsi che questa premessa sia già sufficiente per far interrompere, a Lei (se del caso) e ai Suoi sostenitori, la lettura di questo scritto, che probabilmente trasuda ‘relativismo’ da tutti i pori. Ma se anche così fosse, ritengo di dover proseguire nel mio percorso, perlomeno a causa di quel senso di responsabilità scientifica e didattica a cui non intendo sottrarmi e che mi obbliga – se non altro nei confronti dei miei studenti – a uno sforzo di chiarificazione continuo relativo a presupposti, obiettivi, metodi di un sapere che suscita in loro passione e interesse. Le analisi e le riflessioni che verranno esposte nelle diverse parti di questo libro cercano infatti di rispondere alla ‘sfida’ che Lei, Santità, ha lanciato con i suoi attacchi contro il relativismo culturale, le unioni gay e tutto ciò che Lei ritiene essere ‘contro natura’. Se anche la lettura degli uomini di Chiesa dovesse terminare qui, analisi e riflessioni contenute in questo libro avranno se non altro il merito di porre alla prova – agli occhi dei suoi stessi rappresentanti – la proponibilità di un sapere che fa della molteplicità irriducibile delle soluzioni umane il suo interesse principale e il suo punto di forza. Torino, 24 luglio 2007
F.R.
Parte prima
Stabilità
1
Un’aspirazione condivisa
Non so se Blaise Pascal possa essere maggiormente considerato un uomo di fede (fede in un assoluto) o possa essere annoverato tra i relativisti: forse è stato propriamente l’uno e l’altro. Sta di fatto che, in pieno Seicento, Pascal sosteneva che, per quanto riguarda lo studio dell’uomo, non si può cercare in esso «né sicurezza, né stabilità» (Pascal 1962: 103). Su questo, come su altri punti, Pascal presenta una visione opposta a quella di René Descartes, per il quale dopo il viaggio tra i costumi si può raggiungere la natura umana, lo strato della «roccia» sotto la sabbia, il luogo della «sicurezza» e della stabilità (Descartes 1969: 152). Per Pascal l’esito del viaggio è diametralmente opposto: Ho veduto tutti i paesi e gli uomini cambiare; e così, dopo molti cambiamenti di giudizio nei confronti della vera giustizia, mi sono convinto che la nostra natura non è se non continuo mutamento, e da allora non ho più mutato (Pascal 1962: 132).
Sostenitore del vuoto in fisica, Pascal è anche sostenitore del vuoto in antropologia: per Pascal non c’è la natura umana, intesa come roccia da Descartes, una roccia su cui costruire finalmente in modo stabile e sicuro. Pascal esprime un dubbio che caratterizza tutta la sua antropologia: «Ho una gran paura che questa natura [la natura umana] sia anch’essa un primo costume, così come il costume è una seconda natura... Il costume è la nostra natura» (Pascal 1962: 116). In questa faccenda della natura umana, Benedetto XVI sta senza dubbio dalla parte di Descartes. In un discorso del 25 marzo 2007, pronunciato durante l’udienza concessa ai parteci11
panti al convegno della Commissione degli episcopati della Comunità europea e pubblicato integralmente dal quotidiano Avvenire, troviamo scritto: Nell’attuale momento storico e di fronte alle molte sfide che lo segnano, l’Unione Europea per essere valida garante dello Stato di diritto ed efficace promotrice di valori universali, non può non riconoscere con chiarezza l’esistenza certa di una natura umana stabile e permanente, fonte di diritti comuni a tutti gli individui, compresi coloro stessi che li negano (Benedetto XVI 2007: 3, corsivo nostro).
All’inizio del nostro discorso ci troviamo già di fronte a un bivio: c’è chi sostiene l’esistenza certa della natura umana, stabile e permanente (Descartes e Benedetto XVI) e chi invece ritiene che la natura umana sia fatta di costumi, quindi di cose fluttuanti, mutevoli, contraddittorie (Pascal e prima di lui, ovviamente, Michel de Montaigne e tutta la genia dei relativisti, antichi e moderni). Chiamiamo queste concezioni opposte ‘prospettiva 1’ (quella di Descartes) e ‘prospettiva 2’ (quella di Pascal). Chi ha ragione? Chi ha torto? Il nostro discorso avrebbe l’ambizione di dimostrare la plausibilità della prospettiva 2, come si vedrà e valuterà meglio strada facendo. Per ora sono già possibili tuttavia alcune argomentazioni, che vanno a favore – ci pare – della seconda via, quella di Pascal. Queste argomentazioni sono del resto contenute nel suo stesso pensiero. La prima argomentazione può essere formulata nel modo seguente: se esiste davvero una natura umana, stabile e permanente come la roccia, come mai gli esseri umani non l’hanno ancora scoperta? «Questa bella filosofia», la cui ricerca si è protratta ormai per millenni, ha forse chiarito in maniera definitiva la natura dell’anima o della realtà? La ragione – sostiene Pascal – è abbastanza ragionevole «da confessare che non ha ancora trovato nulla di sicuro» (Pascal 1962: 173-74). Questo nel Seicento. E noi possiamo aggiungere: chi invece è sicuro di avere trovato la natura umana, è in grado di farsi avanti e di esporla con qualche formula sintetica? Inoltre, c’è forse accordo su come è fatta la natura umana fra tutti coloro che pretendono di averla scoper12
ta? È la stessa natura umana quella dei pensatori del Seicento e quella che hanno in mente i suoi sostenitori del 2007? Pare che ciò che li unisce sia non l’idea di come è fatta (per esempio, fatta di ragione o di istinto, di aggressività o di amore?), ma la convinzione della sua «esistenza certa» (Benedetto XVI). Su questo punto, i sostenitori della seconda via (quella di Pascal) hanno il vantaggio di poter spiegare il disorientamento, la diversità delle concezioni e delle scelte: se la natura umana è effettivamente qualcosa di fluido e mutevole (come lo sono i costumi, o la cultura), si comprende assai meglio perché gli uomini brancolino nel buio e non siano in grado di pervenire in antropologia a una verità certa. Diamo ancora una volta la parola a Pascal: Noi voghiamo in un vasto mare, sospinti da un estremo all’altro, sempre incerti e fluttuanti. Ogni termine al quale pensiamo di ormeggiarci e di fissarci vacilla e ci lascia; e, se lo seguiamo, ci si sottrae, scorre via e fugge in un’eterna fuga. Nulla si ferma per noi. È questo lo stato che ci è naturale e che, tuttavia, è più contrario alle nostre inclinazioni (Pascal 1962: 102, corsivo nostro).
Come si vede, la prospettiva di Pascal fa assurgere l’incertezza a una condizione ‘naturale’ dell’uomo: ‘per natura’ gli esseri umani brancolano nel buio, perché non dispongono di una natura umana stabile, certa, permanente. La prospettiva 1 (quella di Descartes) spiega invece il brancolamento nel buio come causato da ignoranza, da superstizione, dal prevalere dei costumi sull’uso della ragione. I costumi sono fattori di cecità; però non si capisce bene perché siano tanto persistenti, in presenza dell’«esistenza certa» di una natura umana stabile e permanente. In altre parole, se esiste davvero questa natura umana, perché mai i costumi? Essi non possono essere generati dalla natura umana, visto che sono fattori di cecità e la coprono con una coltre quasi impenetrabile. Ma se non sono generati dalla natura umana, qual è la loro scaturigine? Accanto oppure oltre la natura umana (fattore di stabilità e di ordine), ci deve essere allora qualche altro fattore, che spieghi come mai gli esseri umani abbiano così a lungo brancolato nel buio, si siano lasciati domi13
nare, per quasi tutta la loro storia, dai loro costumi strani e bizzarri, un fattore da cui soltanto alcuni privilegiati (alcuni uomini, alcune società o alcune religioni) sarebbero stati in grado di liberarsi. La prospettiva di Descartes (e di Benedetto XVI) compie infatti una separazione di non poco conto nell’umanità: da una parte gli illuminati, coloro che affermano di aver finalmente scoperto la natura umana (non importa se grazie alla religione o alla scienza), dall’altra coloro che ancora brancolano nel buio e che inevitabilmente hanno bisogno dell’aiuto dei primi. Vengono fuori – come si vede – due forme di umanità (in corrispondenza del resto con i due fattori di cui abbiamo parlato prima), con diversi meriti, privilegi, destini e ruoli gerarchici: gli illuminati possono vantare la loro verità e dunque la loro superiorità a cospetto dell’ignoranza dei non illuminati, la quale inevitabilmente richiede non di essere mantenuta, ma soltanto eliminata. La prospettiva di Pascal riconosce invece nell’incertezza e nel brancolamento la condizione generale dell’umanità: non solo gli altri, ma anche ‘noi’ – come abbiamo già letto in Pascal – «voghiamo in un vasto mare [...] sempre incerti e fluttuanti». Non ci sono forme diverse e separate di umanità: tutti tentano disperatamente di ormeggiare da qualche parte, di fissarsi su qualche punto; e tutti vedono i loro appigli sfuggire di mano, «in un’eterna fuga». Non vi è la verità di alcuni e l’ignoranza degli altri, la superiorità dei primi e l’inferiorità dei secondi, il destino di leader degli illuminati e il destino di seguaci dei non illuminati: vi è invece una comune e condivisa condizione di miseria e di precarietà. È la pietà e la reciproca comprensione l’atteggiamento che più si addice alla prospettiva di Pascal: in quel «vasto mare» siamo nella stessa barca, o in barche molto simili. Il vantaggio della prospettiva 2 (Pascal) è nettamente visibile sul piano antropologico e sul piano dei rapporti interculturali: ciò che emerge è infatti un atteggiamento di comunicazione, di reciproco interesse, rispetto e comprensione. La prospettiva 1 (Descartes) impone invece una netta separazione tra forme di umanità diverse e opposte, secondo uno schema gerarchico fondato su una pretesa di verità e di pienezza da un lato (gli illumi14
nati) e un’ammissione di indigenza e di bisogno dall’altro (i non illuminati), rendendo quindi impossibile o senza senso un percorso antropologico che si inoltri nel mare dell’ignoranza: l’unico discorso antropologico di cui la prospettiva 1 sarebbe capace coincide esattamente ed esclusivamente con lo schema di divisione gerarchica dell’umanità. Questa posizione si aggrava ulteriormente se si richiamano le argomentazioni precedenti: la verità della natura umana è mai davvero stata scoperta? Chi ritiene davvero di essere depositario della verità, di trovarsi ormai sul terreno solido e roccioso della natura umana, e di essere in grado di spiegarla finalmente a tutti gli altri? E se anche così fosse, se davvero qualcuno (società, civiltà, tradizione, forma di pensiero) avesse capito come stanno le cose, come davvero è fatta la natura umana, perché mai gli altri stentano tanto a riconoscerla? È sempre soltanto una questione di ignoranza o, come abbiamo accennato prima, accanto alla natura umana dobbiamo ammettere qualche altro fattore, altrettanto e forse più potente della stessa natura, visto che l’umanità nella maggior parte della sua storia e delle sue manifestazioni culturali non ha seguito i dettami della natura, bensì le vie tortuose e devianti dei costumi? C’è un ulteriore vantaggio, forse decisivo, della prospettiva di Pascal: quello di poter spiegare e rendere conto dell’atteggiamento dei sostenitori della prospettiva opposta, mentre non avviene il contrario (o non avviene in eguale misura). Ce lo fa capire ancora una volta Pascal. Dopo avere sostenuto che lo sbandamento è tipico degli esseri umani («è questo lo stato che ci è naturale»), aveva poi messo un «tuttavia»: questo stato «è il più contrario alle nostre inclinazioni». Stato di incertezza e di instabilità dunque; ma le nostre aspirazioni più profonde vanno in direzione opposta, verso la sicurezza e la stabilità. Infatti, «noi bruciamo dal desiderio di trovare un assetto stabile e un’ultima base sicura per edificarci una torre che s’innalzi all’infinito; ma ogni nostro fondamento scricchiola, e la terra si apre sino agli abissi» (Pascal 1962: 103, corsivo nostro). Il vantaggio di Pascal è di essere in grado di dimostrare il fallimento di Descartes e nel contempo il senso della sua profonda aspirazione, che è beninteso quella di tutti gli uomini: Des15
cartes non raggiunge la roccia (perché non c’è), ma «brucia dal desiderio» di trovarla, di disporre finalmente di un assetto stabile. Non la troverà mai, per cui la sua affermazione di stabilità non coincide con una stabilità effettivamente raggiunta, bensì esprime un desiderio, un’aspirazione, uno sforzo (oggettivo) di stabilizzazione, nonché l’illusione (soggettiva) di avere ormai messo piede sulla roccia. Il desiderio di stabilità è così forte proprio perché – ci fa capire Pascal – non disponiamo di un «assetto stabile» e di una «base sicura»; ovvero, se poggiassimo davvero sulla roccia cartesiana non proveremmo una brama di stabilità così bruciante. Con la sua teoria della mancanza di una natura stabile, Pascal riesce a ‘comprendere’ l’atteggiamento di Descartes: il suo desiderio di stabilità, i suoi sforzi di stabilizzazione, finanche la sua illusione di raggiunta stabilità. Ma se ora rovesciamo la prospettiva e ci poniamo dal punto di vista di Descartes, è facile constatare come Descartes non potrebbe capire le ragioni di Pascal: come fa a intestardirsi con la sua teoria dei vuoti, delle manchevolezze, visto che la roccia è lì con la sua stabilità? Agli occhi di Descartes ci sarebbe della perversione nell’atteggiamento di Pascal: egli non vuole riconoscere e accettare la verità. La condanna di Pascal da parte di Descartes può essere un esito dotato di forte consequenzialità. Descartes, forte della sua verità e della sua natura umana, potrebbe giungere a condannare Pascal, senza comprenderlo. Pascal, al contrario, fruisce di strumenti che gli consentono di comprendere Descartes, senza condannarlo. Tradotto tutto questo in termini di ricerca antropologica, la prospettiva 1 (Descartes) ci bloccherebbe di fronte al compito non più eludibile di illustrare finalmente e in maniera definitiva quella struttura ‘stabile e permanente’ che è la natura umana: questo sarebbe il compito dell’antropologia, da assolvere una volta per tutte. Dopo avere spiegato come essa è fatta, l’antropologia avrebbe esaurito il suo compito e il suo destino: consegnata la verità fondamentale, la sua ricerca sarebbe finita (finalmente scoperta la natura umana, avrebbe ancora senso andare dietro ai costumi?). La prospettiva 1 rischia di porre l’antropologo in un forte imbarazzo, perché i seguaci di Descartes e di 16
Benedetto XVI potrebbero motivatamente chiedere all’antropologo: se rinunci alla scoperta della natura umana (della cui esistenza siamo ‘certi’), di che cosa vai alla ricerca? L’antropologo potrebbe però uscire dall’imbarazzo trasformandolo in una bella provocazione: chi se la sente di individuare e spiegare con ‘certezza’ la struttura stabile e permanente della natura umana? E se dovessero accorrere filosofi di varie ideologie, teologi di differenti tendenze e religioni, scienziati delle più diverse discipline (genetisti, sociobiologi, etologi, neuroscienziati, paleoantropologi e così via), a chi dovremmo credere? In un clima tutto improntato alla ‘sicurezza’ vedremmo riaffiorare divisioni, spaccature, dubbi, incertezze, brancolamenti piuttosto paralizzanti. Al confronto, la via di Pascal (la prospettiva 2) si rivela assai più promettente: essa ci fa capire quanto sia importante studiare nelle culture umane non la ‘certezza’, ma – se così possiamo esprimerci – i tentativi di ‘certificazione’; non la ‘stabilità’, ma i processi di ‘stabilizzazione’; non l’‘umanità’, ma le prove di ‘umanizzazione’. Ma poiché certezza, stabilità, umanità rimangono mete mai del tutto raggiunte e qualunque soluzione adottata non può nascondere all’udito gli ‘scricchiolii’ dei suoi presupposti, un’altra linea di ricerca – estremamente fruttuosa sul piano antropologico – è quella che riguarda le modalità di manifestazione del dubbio e della perplessità, le quali accompagnano, talvolta in maniera esplicita, talvolta in maniera sotterranea, molte imprese culturali. In questo capitolo abbiamo trattato Descartes e Pascal come rappresentanti di due prospettive differenti e opposte: il nostro obiettivo – come è del tutto chiaro – non era affatto di natura storica (una ricostruzione del pensiero di questi due filosofi del Seicento francese); sfruttando invece i temi della stabilità, e del desiderio di stabilità, così caratteristici del loro pensiero, abbiamo voluto dar luogo a una specie di rappresentazione drammatica, al fine di illustrare presupposti e implicazioni della prospettiva 1 (quella della natura umana) e della prospettiva 2 (quella dei costumi o della cultura). Ne è venuto fuori una sorta di elogio di Pascal antropologo: una perorazione per un’antropologia pascaliana. Avversari e alleati potrebbero tuttavia ri17
chiamare l’attenzione sul carattere alquanto unilaterale e un po’ arbitrario di questa operazione: come già abbiamo accennato altrove (Remotti 1990: 162), Pascal non è tutto qui; Pascal è anche stato un uomo di fede, e soprattutto l’esito finale del percorso di Pascal consiste in un’uscita dall’antropologia fin qui considerata. Anche Pascal in effetti si pone alla ricerca di punti stabili. Perduto l’ancoraggio offerto da una natura umana che solo illusoriamente potremmo considerare stabile e permanente, il punto d’appoggio è soltanto religioso (non naturale): la figura di Gesù diviene il punto di riferimento che consente di comprendere a fondo noi stessi, e il Cristianesimo si configura come l’unica religione che conosce davvero la realtà umana, nella sua miseria, oltre che nella sua grandezza. Per altra via, anche Pascal giunge a staccare il Cristianesimo da tutte le altre religioni (Pascal 1962: 193). Ma questo approdo alla stabilità – che definiremmo ‘mistico’ (Remotti 1990) – non può far dimenticare il lungo tratto di riflessione che Pascal ci ha fornito sull’instabilità da un lato e sui processi di stabilizzazione dall’altro. Al termine di questo percorso, in definitiva Pascal compie un vero e proprio salto (la ‘scommessa’, se vogliamo), che lo porta fuori dall’antropologia. Anche questo salto è significativo per chi decide di rimanere invece tra le incertezze antropologiche e, salutato il compagno di viaggio Pascal, continuare a osservare (ancora con spirito pascaliano, se si vuole) i processi di stabilizzazione che operano costantemente nelle culture: quei processi che si limitano a introdurre in dosi più o meno massicce elementi di stabilità, pur riconoscendo la insopprimibile fluidità del reale, e quelli che invece compiono il salto verso la trascendenza, verso una stabilità ritenuta più totale e definitiva.
2
Il potere dei costumi
Ancora un’indicazione possiamo trarre da Pascal, al fine di proseguire nel nostro percorso. Come si è già visto, egli non si limita a sostituire la natura con i costumi («ho una gran paura che questa natura sia anch’essa un primo costume»), ma provvede anche a mettere la natura nel posto dei costumi («così come il costume è una seconda natura»). In maniera lapidaria – e riproducendo Michel de Montaigne – giunge infatti a intrecciare e quasi a identificare i due termini: «il costume è la nostra natura» (Pascal 1962: 116). In Pascal, come già in Montaigne, costume e natura non costituiscono due strati sovrapposti (la roccia della natura umana e, sopra, la sabbia dei costumi, per usare l’immagine di Descartes), qualitativamente diversi e separati, cosicché l’ordine della natura umana venga salvaguardato dai costumi. Al contrario, natura e costumi intrecciandosi subiscono una contaminazione reciproca: se da un lato la natura viene concepita come fatta in gran parte di costumi (o di cultura), dall’altro i costumi danno luogo a una sorta di naturalizzazione. In questo modo, la natura affiora non già come uno strato autonomo e a sé stante, ma come l’esito di un processo di naturalizzazione, e dunque di stabilizzazione, a cui vengono sottoposti i costumi. Quanto più i costumi prendono il posto – per così dire – della natura umana, quanto più essi vengono ‘fatti propri’ e ‘incorporati’ dagli individui, tanto più essi si stabilizzano, assumendo così una parvenza di naturalità e persino una consistenza seminaturale. Pierre Bourdieu, il quale si è riferito molto esplicitamente all’insegnamento di Pascal e alla sua attualità per le scienze umane (1998), ha riproposto l’uso del concetto di habitus (2003), che – come è noto – gode di grande considerazio19
ne nelle analisi delle scienze sociali e umane. Su questi temi Bourdieu è grande debitore di Pascal; e a sua volta, Pascal si era rifatto molto a Montaigne. Ci sembra quindi giusto a questo punto dare voce a Montaigne per le sue profonde riflessioni sui temi della naturalizzazione e delle sue conseguenze: Le leggi della coscienza, che noi diciamo nascere dalla natura, nascono dalla consuetudine [coustume]; ciascuno, infatti, venerando intimamente le opinioni e gli usi approvati e accolti intorno a lui, non può disfarsene senza rimorso né conformarvisi senza soddisfazione [...]. Ma il principale effetto della sua potenza è che essa [la consuetudine, il costume, dunque la cultura] ci afferra e ci stringe in modo che a malapena possiamo riaverci dalla sua stretta e rientrare in noi stessi per discorrere e ragionare dei suoi comandi. In verità, poiché li succhiamo col latte fin dalla nascita e il volto del mondo si presenta siffatto al nostro primo sguardo, sembra che noi siamo nati a condizione di seguire quel cammino. E le idee comuni che vediamo aver credito intorno a noi e che ci sono infuse nell’anima dal seme dei nostri padri, sembra siano quelle generali e naturali. Per cui accade che quello che è fuori dei cardini della consuetudine [costume, cultura particolare], lo si giudica fuori dei cardini della ragione; Dio sa quanto irragionevolmente, perlopiù (Montaigne 1982: 150).
Un brano di questo genere (e siamo nella seconda metà del Cinquecento, in piena «crisi della coscienza europea» [Hazard 1968]), è senza alcun dubbio fumo negli occhi per gli antirelativisti dei nostri giorni. Ne elenchiamo solo alcuni, scelti tra religiosi e laici, credenti e atei, di destra e di sinistra. Oltre a Benedetto XVI, il quale aveva iniziato il suo pontificato con la condanna della ‘dittatura del relativismo’, è quasi d’obbligo riferirsi da un lato al laico di destra Marcello Pera (2004) e dall’altro al laico di sinistra Giovanni Jervis (2005). A far valere le ragioni antropologiche ‘in difesa del relativismo’ è già intervenuto Marco Aime (2006); e questo ci consente di ritornare a Montaigne, perché i suoi suggerimenti sono davvero preziosi. Montaigne per intanto rileva l’esistenza di un insieme di idee e di pratiche (opinioni e costumi) socialmente diffuse e condivise: questa è la condizione in cui di norma gli individui nascono 20
e crescono. Poi egli sostiene che tali idee e pratiche (la cultura, direbbero oggi gli antropologi) sono di solito oggetto non solo di condivisione, ma anche di approvazione e di consenso. Se così non fosse, verrebbero in effetti abbandonate. Patrimonio di un gruppo o di una comunità, e dunque preesistenti alla nascita stessa dei singoli individui, esse sono oggetto non solo di un’‘intima venerazione’, ma di una vera e propria ‘incorporazione’ precoce: le succhiamo con il latte materno fin dalla nascita e addirittura vengono infuse dal seme paterno (idee forse non condivisibili, se intendono descrivere i reali meccanismi di trasmissione, ma comunque metafore molto significative). Montaigne è molto acuto circa gli effetti di questa incorporazione: idee, pratiche, costumi incorporati condizionano o modellano la nostra visione delle cose, della realtà, del mondo («il volto del mondo si presenta siffatto al nostro primo sguardo»). Questa incorporazione e conseguente visione del mondo acquistano immediatamente un significato di naturalizzazione: è naturale ‘per noi’ – vissuti e cresciuti in un determinato ambiente – che le cose siano ‘così’, organizzate e strutturate in quel modo, così come sembra del tutto naturale che noi la pensiamo in quel modo («sembra che noi siamo nati a condizione di seguire quel cammino»). A questo punto, si registra però un effetto ulteriore, una sorta di balzo su un altro piano. Per Montaigne non si tratta soltanto di un’incorporazione di idee e pratiche e di un effetto di naturalizzazione, tale per cui si acquisiscono habitus mentali e comportamentali dotati di relativa inerzia e automatismo. Gli esseri umani non sono semplici automi. Scatta invece qui un atteggiamento interpretativo. Infatti, non ci si limita ad attivare in maniera pressoché automatica e naturale idee e pratiche incorporate, ma si attribuisce loro un significato più ampio: «le idee comuni», socialmente condivise, «che vediamo aver credito intorno a noi» e che abbiamo ormai incorporate, non sono più semplicemente ‘nostre’ idee, di ‘noi’ che viviamo in questo specifico e particolare angolo di mondo, ma le trasformiamo in idee «generali e naturali». Montaigne mette così a punto un’altra operazione, diversa e ideologicamente più impegnativa rispetto all’incorporazione. Se 21
questa avviene a causa di meccanismi di ordine psicologico (e, più alla base, di ordine fisiologico e neurologico), la generalizzazione è invece un’operazione concettuale, la quale consiste in un’estensione della validità delle idee incorporate. Queste non sono più soltanto elementi operativi, ma divengono oggetto di coscienza; non ci limitiamo più a utilizzarle e ad attivarle funzionalmente nel nostro comportamento, ma le trasformiamo in oggetto di ‘culto’ e di ‘venerazione’. Inoltre, mentre l’incorporazione porta le idee dal mondo esterno (quello della società) al mondo interno del nostro corpo e della nostra mente, la generalizzazione dà luogo invece a un movimento opposto, a una sorta di proiezione che di solito va ben oltre la nostra società, dunque verso il mondo degli altri e dell’alterità. Fin dove le ‘nostre’ idee possono essere proiettate? Fino a che punto possono essere generalizzate? Tra poco vedremo che questa sarà una questione assai rilevante. Ma per ora, proviamo ancora a seguire Montaigne, il quale abbina la generalizzazione all’idea di natura: idee particolari – quelle del nostro gruppo – vengono trasformate in «idee generali e naturali», e le leggi che governano la nostra coscienza, formulate dalla nostra cultura (coustume), si ritiene che nascano invece «dalla natura». Non c’è dubbio che, se per queste operazioni di generalizzazione si fa ricorso alla natura, se alla base della generalizzazione poniamo il concetto di natura, otteniamo – sul piano ideologico – il massimo di generalità: le nostre idee ci appaiono allora generali tanto quanto generale è la natura (o, più specificamente, la natura umana). Montaigne aggiunge un ulteriore elemento nel quadro di questa generalizzazione che fa leva sul concetto di natura, ossia il tema della ragione. Qui scatta un altro abbinamento, quello di ‘natura’ e di ‘ragione’; ovvero, le idee comuni e culturali vengono generalizzate non solo in quanto naturali, derivanti dalla natura, ma anche in quanto razionali, prodotte dalla ragione, e da una ragione che non ha niente a che fare con la cultura, ma al contrario condivide con la natura un tratto importante e decisivo, ossia la totale estraneità ai costumi. Di più, se la natura è di per sé estranea ai costumi, una struttura stabile e permanente 22
che esiste e resiste come una roccia alle variazioni e all’arbitrarietà dei costumi, la ragione si configura quasi inevitabilmente come uno strumento che agisce in conflitto con i costumi, anzi come lo strumento, o organo naturale, che ci consente di spazzare via i costumi e raggiungere in questo modo la stabilità della natura umana. La ragione è la garanzia non solo della generalità, ma addirittura dell’universalità. E se le ‘nostre’ idee incorporate sono ritenute essere generali quanto la natura e universali quanto la ragione, esse acquisiscono una ‘potenza’ inaudita. Montaigne ha in effetti il grande merito di introdurre anche il tema del potere delle ‘nostre’ idee e delle ‘nostre’ pratiche. Il fatto stesso dell’accoglimento e del consenso sociale genera una situazione di forte dipendenza dell’individuo dalla sua cultura, il quale «non può disfarsene senza rimorso né conformarvisi senza soddisfazione». Ma non è soltanto una questione di ‘conformismo’, pur rilevante. Riesaminando il pensiero di Montaigne e ripercorrendo le analisi fin qui svolte, appare chiaro che il ‘potere’ delle idee acquisite è ulteriormente accentuato dalle operazioni sopra esaminate: l’incorporazione fa sì che le idee si radichino in comportamenti abitualizzati, che ci ‘afferrano’ e ci ‘stringono’ «in modo che a malapena possiamo riaverci» dalla loro presa; e la generalizzazione a sua volta – specialmente se praticata sulla base dei principi di natura e di ragione – aggiunge un potere di convincimento incontestabile, un ‘super-potere’, così che chi ne fruisce diviene una ‘super-potenza’. Il potere delle idee individuato da Montaigne riguarda infatti per un verso gli individui che all’interno di una determinata società si sentono avvolti e costretti dai loro stessi costumi, ma riguarda anche, per un altro verso, coloro che si trovano al di là dei confini di questa stessa società. Andiamo con ordine e consideriamo per ora il potere interno. Qui occorre rilevare che Montaigne usa termini e immagini che, oltre a illustrare il ‘potere’ delle idee e dei costumi, sottolineano anche la ‘sofferenza’ di chi subisce tale potere: il potere «ci afferra e ci stringe», a tal punto che «a malapena possiamo riaverci dalla sua stretta». È un potere che – per quanto ammantato di naturalità e di razionalità – opprime e fa male, creando disagio e sofferenza nell’in23
dividuo, il quale vede ridursi drasticamente la propria libertà. Su questo tema – quello della sofferenza o del disagio dell’individuo nella società – chissà quanti riferimenti ulteriori potrebbero venire in mente. Qui ci limiteremo a due antropologi: Franz Boas, il quale alla fine dell’Ottocento evocava i «ceppi delle convenzioni» a cui gli individui si sentono legati (Boas 1940: 638), e Claude Lévi-Strauss, per il quale l’individuo nel processo di socializzazione subisce sempre una perdita di possibilità e dunque, in non importa quale società, «racchiude nella sua intimità più profonda una ferita ignota e sempre aperta», ovvero «la frustrazione della sua sensibilità infantile» (Lévi-Strauss 1946: 646). La generalizzazione ottenuta mediante il ricorso alla natura e alla ragione presenta inevitabilmente un risvolto esterno: essa concerne non soltanto ‘noi’, ma anche gli ‘altri’, e nei confronti degli altri sviluppa un atteggiamento di inevitabile assimilazione oppure di separazione e di rigetto. I criteri della naturalità e della razionalità conferiscono una forza invincibile alla cultura che li proclama per se stessa: ne fanno – come abbiamo detto – una super-potenza, la quale esige che le altre culture cessino di rimanere tali, cioè mondi diversi invischiati nei loro costumi e nelle loro tradizioni, con i loro poteri locali, circoscritti e confinati alle comunità di cui sono espressione. Se le nostre idee e i nostri costumi sono stati stabilizzati in modo tanto potente e generale, così da acquisire lo statuto di leggi naturali e di strutture razionali, è inevitabile – come sostiene Montaigne – che «quello che è fuori dei cardini della [nostra] consuetudine [ovvero della nostra cultura], lo si giudichi fuori dei cardini della ragione». Il commento di Montaigne è noto e inequivocabile: «Dio sa quanto irragionevolmente, perlopiù» (corsivo nostro). Stabilizzare in questo modo la propria cultura significa infatti produrre montagne di ‘scarti di umanità’: in questo sta l’irragionevolezza denunciata da Montaigne. ‘Noi razionali e naturali’ ci presentiamo come il concentrato più nobile dell’umanità: ‘noi’ siamo i rappresentanti dell’umanità piena e autentica. Gli altri sono ‘fuori’ della ragione e persino ‘fuori’ della natura, anzi ‘contro natura’, un ammasso di culture e di costumi senza sen24
so, rappresentanti di un’umanità inferiore, che occorre educare (se siamo buoni e tolleranti), allontanare o sterminare (se siamo meno buoni e intolleranti). Montaigne sapeva tutto questo, avendo denunciato i massacri delle Americhe: e con Montaigne siamo solo nella seconda metà del Cinquecento! Quanti crimini contro l’umanità e contro la ragionevolezza dovranno essere compiuti perché anche altri si rendano conto che una stabilizzazione dei propri costumi mediante la rivendicazione per sé della natura e della ragione universale è un’operazione esecrabile e iniqua? Montaigne descrive un percorso di stabilizzazione che dall’incorporazione dei propri costumi giunge alla loro trasformazione in leggi naturali e in strutture razionali. Ma non è un percorso obbligato. Non è necessario e inevitabile che tutte le culture procedano a una stabilizzazione così massiccia, a una generalizzazione così estesa, tanto da coinvolgere la natura e l’intera umanità. Come avremo modo di vedere tra poco, vi sono forme di stabilizzazione e di generalizzazione che pur facendo anch’esse ricorso alla natura, sono assai più contenute e meno pericolose. Abbiamo visto che per Montaigne il potere delle idee acquisite, incorporate e generalizzate, fa soffrire: opprime all’interno, così come discrimina verso l’esterno. Ma c’è una via di uscita, che passa appunto attraverso la sofferenza (vi è una sofferenza dell’oppressione e vi è una sofferenza della liberazione dai costumi). Questa via coincide con la capacità dell’individuo di sottrarsi in qualche modo al potere dei costumi e, sia pure «a malapena», di liberarsi dalla loro presa. Per Montaigne, esiste questo spiraglio di libertà, una via stretta, la quale consente però all’individuo di rientrare in se stesso «per discorrere e ragionare dei [...] comandi» a cui è normalmente sottoposto, per riflettere dunque sul potere della sua stessa cultura. Significativamente anche Boas sottolineerà la «lotta» che gli individui conducono «contro i costumi tribali» e la loro capacità di «liberarsi dai ceppi delle convenzioni». Questa capacità di ‘liberarsi’ – sia pure parzialmente e con difficoltà («a malapena») – è veramente un’indicazione preziosa, più in Montaigne che in Boas, dal mo25
mento che in Montaigne la liberazione dai costumi si traduce in un fenomeno importante per il nostro discorso e che ci sta molto a cuore: ossia la formazione, nelle diverse culture, di una sorta di piano metaculturale, disponendosi sul quale gli individui, prendendo le distanze dai propri costumi, si dotano di una capacità di riflessione su se stessi e sulla propria cultura, e dunque sulle possibilità adottate e su quelle scartate. Con l’aiuto di Montaigne la prospettiva 2, intitolata a Pascal, si arricchisce di una serie di temi, che vanno dall’instabilità originaria all’inevitabilità dei processi di stabilizzazione dei costumi, dall’incorporazione e dalla generalizzazione al potere che i costumi vengono in tal modo ad acquisire, dalla sofferenza dell’individuo alla sua capacità di sottrarsi alla presa dei costumi. Montaigne ci indica così la formazione di un piano metaculturale: un piano di relativa libertà, di riflessività, di presa di distanza critica, di conoscenza di possibilità alternative. A tutto ciò intendiamo ora aggiungere che vi sono modalità di stabilizzazione e di generalizzazione alternative; ed è a queste che rivolgeremo la nostra attenzione.
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Chi si accontenta del relativo...
I processi di stabilizzazione sono senza dubbio necessari e inevitabili, se non si vuole cadere nel baratro. Ma – come abbiamo precisato già alla fine del capitolo 1 – c’è stabilizzazione e stabilizzazione. In questo capitolo, vorremmo illustrare modalità di stabilizzazione che implicano un ricorso alla natura e che tuttavia non trasformano i ‘nostri’ costumi particolari in un modello universale, valido per tutti, secondo una prospettiva di prevaricazione; al contrario, il criterio prevalente è quello del riconoscimento delle differenze e quindi del rispetto e dell’apprezzamento dell’alterità. I casi a cui intendiamo riferirci sono quelli che un tempo etnologi e antropologi raccoglievano nella categoria del totemismo. Non è certo qui necessario ricostruire la storia di questa categoria; ma, tenendo conto dell’analisi critica svolta da Claude Lévi-Strauss (1964a; 1964b) e più di recente da Philippe Descola (2005), possiamo facilmente sostenere che la problematica più ampia – in cui si collocano anche i casi del totemismo – coincide con il quadro delle relazioni che gli esseri umani pongono tra sé e l’ambiente naturale che li circonda, allo scopo di meglio definire il loro assetto sociale. Molti gruppi infatti fanno esplicito ricorso alla natura (o, meglio, a parti di essa) per organizzare in maniera più stabile e concettualizzare in maniera più intelligibile la loro società. Clan dell’orso, clan dell’aquila, clan della tartaruga (per fare un esempio banale) possono essere segmenti di una determinata società, ciascuno dei quali trova nella natura (in questo caso nel mondo animale) un proprio corrispettivo. A uno sguardo comparativo, risulta che i rapporti che si vengono a istituire tra il gruppo umano x (per esempio, il clan 27
dell’orso) e la specie animale (l’orso) sono molto diversi: sul piano mitologico, possono essere immaginati rapporti di discendenza degli uomini dall’animale antenato o invece un patto tra gli antenati del clan e gli orsi; sul piano rituale, possono esistere oppure no forme di culto rivolte alla specie animale in questione; sul piano alimentare può esserci oppure no un divieto per gli esseri umani di cibarsi del loro animale e così via. I rapporti possono essere dunque profondi e articolati oppure superficiali e del tutto nominali (‘noi’ semplicemente ci chiamiamo ‘orsi’). Ciò che importa è l’istituzione di un qualche legame socialmente riconosciuto tra il gruppo umano x e una parte di natura (specie animale, specie vegetale, fenomeno o oggetto naturale) in analogia e in parallelo con i rapporti tra altri gruppi (y, z) e altri elementi naturali. Detto in altri termini, non vi è soltanto un gruppo x, il quale si pone in collegamento per esempio con una specie animale; vi sono invece diversi gruppi (x, y, z: una società insomma), ciascuno dei quali intrattiene una relazione privilegiata con una parte della natura. Lévi-Strauss, il quale – come si è detto – ha dedicato un momento fondamentale della sua ricerca all’analisi di questi fenomeni, è giunto alla conclusione che ciò che conta non è l’istituzione di un legame singolo tra un gruppo sociale x e una determinata specie (o fenomeno) naturale; contano di più invece le differenze tra i vari gruppi (x, y, z) che compongono una società, le differenze che contraddistinguono i fenomeni naturali prescelti, e l’istituzione di un rapporto di somiglianze tra il sistema di differenze sociali (a) e il sistema di differenze naturali (b). Lo schema che LéviStrauss (1964b: 130) ci propone è dunque il seguente: Natura:
specie 1 specie 2 specie 3 ... specie n
Cultura:
gruppo 1 gruppo 2 gruppo 3 ... gruppo n
Qui si vede bene come la preoccupazione fondamentale sia quella di istituire una somiglianza o una corrispondenza tra l’organizzazione della ‘nostra’ società – divisa in una serie di gruppi (gruppo 1, 2, 3, n) – e l’insieme delle divisioni tra fenomeni o 28
specie caratterizzanti il nostro ambiente naturale (specie 1, 2, 3, n). Lévi-Strauss ha dimostrato con successo che alla base di questa visione del mondo non c’è una motivazione alimentare (molte sono infatti le specie coinvolte che non presentano alcun interesse in questo senso); ci sarebbe invece una motivazione intellettuale: «le specie naturali non vengono scelte perché ‘buone da mangiare’, ma perché ‘buone da pensare’» (1964a: 126). Gli esseri umani trovano infatti nelle differenze presenti nel mondo naturale criteri, e addirittura modelli, per pensare e quindi organizzare le differenze sociali, in vista di rapporti di complementarità e di cooperazione (1964b: 139). Sintetizzando le varie ricerche condotte su questa tematica, si può forse asserire che ciò che si determina tra il mondo sociale umano e il mondo naturale è, attraverso il legame di somiglianza o di corrispondenza tra i due, uno scambio di proprietà: per un verso, il mondo naturale è pensato sulla base della società umana (vi sarebbe insomma una proiezione della società sulla natura, una sorta di ‘socializzazione’ del mondo naturale); ma per l’altro verso, il mondo sociale è pensato sulla base dell’ordine naturale (vi sarebbe quindi una ‘naturalizzazione’ della società). Fin qui abbiamo seguito a grandi linee l’impostazione di Lévi-Strauss, il quale – come si è visto – tende a dare un’interpretazione intellettualistica della faccenda. Le specie naturali sarebbero «buone da pensare», perché esercitando su di esse le sue capacità di osservazione e di analisi l’intelletto umano avrebbe modo di elaborare rapporti di coordinazione, subordinazione, sovraordinazione, suscettibili di essere applicati anche al mondo sociale. Si tratterebbe quindi di una «logica elementare [...], espressione diretta della struttura dello spirito (e dietro lo spirito, indubbiamente del cervello)» (Lévi-Strauss 1964a: 127). D’ora in avanti intendiamo invece utilizzare le categorie euristiche che abbiamo discusso nelle pagine precedenti, a cominciare dalla categoria della stabilizzazione, e quindi dimostrare che le specie naturali sono non soltanto buone da pensare (talvolta pure buone da mangiare), ma anche ‘buone per stabilizzare’. Ricercare delle corrispondenze tra il mondo sociale e il mondo naturale non è soltanto un esercizio intellettuale: è invece un’ope29
razione che consente di agganciare la struttura del mondo sociale all’ordine – supposto o intravisto – del mondo naturale. La natura è infatti un potente fattore di stabilizzazione, in quanto – comunque essa venga intesa – designa un ordine di realtà autonomo e senza dubbio più permanente rispetto al mondo delle azioni umane, con i suoi progetti, i suoi desideri, i suoi conflitti, le sue lacerazioni, le sue fluttuazioni. Agganciare parti del mondo sociale o l’intera struttura della società alla natura significa attribuire anche al ‘nostro’ mondo quella stabilità e permanenza che osserviamo più facilmente in quello naturale. Sotto questo profilo, divengono recuperabili dettagli di non poco conto che Lévi-Strauss aveva trascurato. Non è una questione indifferente se tra ‘noi’, gente dell’orso, e gli orsi vi è soltanto un rapporto nominale (noi ci chiamiamo gli ‘orsi’, come gli altri si chiamano le ‘aquile’) oppure se, invece, tra gli orsi e noi vi è un rapporto di discendenza (noi discendiamo dagli orsi) o di condivisione di qualche sostanza o attributo (noi siamo come gli orsi, ci comportiamo come gli orsi e così via). Se nel primo caso la stabilizzazione è per così dire soltanto di tipo logico e intellettuale, nel secondo caso essa raggiunge livelli assai più profondi. Philippe Descola parla a questo proposito di «un modo di identificazione fondato sulla continuità interspecifica» di certi aspetti comuni: ovvero «umani e non-umani di diversi tipi condividono insiemi di proprietà tanto materiali quanto comportamentali» (2005: 225). Lo stesso Lévi-Strauss ci fornisce degli esempi che vanno in questa direzione. Tra gli abitanti delle isole dello Stretto di Torres si era potuto constatare «un sentimento vivissimo di una affinità fisica e psicologica tra gli uomini e i loro totem», e da questo intimo rapporto di affinità (qualcosa di più, evidentemente, di una semplice corrispondenza di categorie) si producevano una tipizzazione e una stabilizzazione comportamentale molto utili sul piano delle aspettative e dell’ordine sociale. Infatti si determinava anche [il] corrispondente obbligo, per ogni gruppo, di perpetuare un tipo di condotta: i clan del casuario, del coccodrillo, del serpente, del pescecane e del pesce martello, avevano una natura bellicosa, invece quelli 30
della razza, della razza a spatola e del pesce remora, si diceva fossero pacifici. Del clan del cane non si poteva assicurare nulla, perché i cani hanno un carattere instabile. Le genti del coccodrillo erano ritenute forti e spietate, e si presumeva che quelli del casuario avessero gambe lunghe e eccellessero nella corsa (Lévi-Strauss 1964b: 131, corsivo nostro).
Gli esempi, tratti da molte parti del mondo, potrebbero continuare a lungo: Nelle rievocazioni del passato fatte dagli indigeni, ritornano costantemente, come un Leitmotiv, queste formule che venivano applicate ad ogni clan o frazione di clan: «erano gente molto speciale... non assomigliavano agli altri... avevano usanze e costumi propri» (LéviStrauss 1964b: 133).
Interessato com’è a cogliere la struttura logica generale, LéviStrauss tende a svalutare i contenuti particolari di queste stabilizzazioni e di queste tipizzazioni, fino al punto di affermare: «ed è chiaro che, almeno in parte, sono racconti da donnette» (Lévi-Strauss 1964b: 134). Sono racconti, invece, che illustrano alcune operazioni e implicazioni fondamentali: a) la prima è quella di stabilizzare il comportamento di un gruppo di persone, «perpetuando» un certo «tipo di condotta»; b) questa stabilizzazione è ottenuta costruendo un modello di comportamento riconoscibile e individuabile, come specifico di un determinato gruppo; c) tale modello di comportamento viene attribuito tuttavia non soltanto a un gruppo umano, ma a una specie naturale, a cui il gruppo viene fatto corrispondere; d) si prevede persino un tipo di comportamento instabile e imprevedibile, spiegato anch’esso mediante il ricorso a una specie animale (quella dei cani, nell’esempio di cui sopra). Chiameremo questo ricorso a specie o fenomeni naturali ‘generalizzazione’ (categoria che abbiamo già discusso nelle pagine precedenti), perché si tratta di generalizzare usanze e costumi propri, attribuendoli però in questo caso non ad altri esseri umani, ma ad altri esseri (o entità) naturali: ‘noi’ del clan del coccodrillo condividiamo con il coccodrillo la sua bellicosità, mentre 31
‘noi’ del clan della razza vediamo rispecchiato in questo pesce il nostro carattere pacifico. Saranno discorsi da donnette, ma decisamente solo «in parte», perché – come lo stesso Lévi-Strauss si è accorto in qualche modo poco dopo – ciò che qui è in questione è l’individuazione di caratteri e tipi di umanità, la loro stabilizzazione e la loro distribuzione sociale. Se in una determinata società S1 non vi è un unico clan, ma diversi clan, ciascuno dei quali ha un proprio ‘analogo’ naturale, ciò significa che S1 non è definita da un’unica forma di umanità, bensì da un pluralità di tipi umani, in corrispondenza delle usanze e dei costumi propri di ciascun gruppo. La generalizzazione delle proprie usanze e costumi c’è, ma è una generalizzazione che non si estende a tutta la natura (noi siamo simili ai coccodrilli, i nostri vicini sono invece pacifici come i pesci razza) e tanto meno a tutta l’umanità. Noi ci identifichiamo con il nostro tipo di umanità (e lo stabilizziamo mediante il ricorso a referenti naturali), e tuttavia siamo ben consapevoli della pluralità irriducibile di modi di realizzare l’umanità, di dare forma all’umanità, visto che la nostra stessa società è fatta di una molteplicità assai ampia di tipi umani. Generalizzando i nostri usi e costumi al di là dei confini della nostra società e attribuendoli a una qualche specie o elemento naturale, si ottengono alcuni importanti effetti: a) il primo – come si è visto – è quello della stabilizzazione della nostra forma di umanità; b) il secondo è quello di una sua giustificazione, essendo questa forma di umanità esemplificata da specie naturali; c) il terzo è quello di una sua netta relativizzazione, dal momento che la nostra stessa società è la dimostrazione vivente di una pluralità di modi diversi di intendere e realizzare l’umanità (gente bellicosa accanto a gente pacifica, gente coraggiosa e chiara accanto a gente inaffidabile e così via). Lungi dal separarsi e allontanarsi tra loro come isole solitarie e autarchiche di umanità, questi modi convivono all’interno di ciò che Lévi-Strauss chiamerebbe un «sistema di differenze culturali», sulla base di «rapporti di complementarità e di cooperazione» (1964b: 130 e 139). Si tratta non semplicemente di una complementarità ‘logica’ (come riteneva Lévi-Strauss), ma di un’autentica e consapevole complementarità ‘antropologica’: trovata la loro legittima32
zione naturale, i tipi di umanità sono tenuti a coesistere e a integrarsi a vicenda; su questa base di differenziazione concordata, prevista e persino auspicata è possibile realizzare la cooperazione sociale. In effetti, i vari tipi di umanità, che si ispirano alla natura (gli orsi, le aquile, le tartarughe e così via), non si limitano a occupare un posto o una categoria in un sistema di differenze puramente logico e statico; essi cooperano tra loro, e il massimo della cooperazione consiste in un reciproco coinvolgimento ‘antropo-poietico’, oltre che antropologico. Grazie alla regola dell’esogamia di clan così diffusa, gli ‘orsi’ per esempio si sposano con le ‘aquile’, ovvero ogni tipo di umanità riconosce di avere bisogno della cooperazione dell’altro per provvedere alla propria riproduzione: c’è bisogno dell’alterità – un’alterità magari disprezzata su certi piani – per fabbricare nuovi esseri umani. Detto in altri termini, ogni ‘noi’, ogni tipo di umanità, pur socialmente riconosciuto e stabilizzato mediante il ricorso alla natura (coccodrilli o canguri, serpenti o cani che ‘noi’ siamo), non è sufficiente a se stesso. Siamo però solo noi ‘coccodrilli’ (bellicosi, forti e spietati come i coccodrilli)? Non ci saranno forse altri ‘coccodrilli’ nel mondo che ci circonda? La generalizzazione naturale dei tipi di umanità ottiene infatti un ulteriore effetto. Ancorando il nostro tipo di umanità a qualche elemento naturale, trovando in qualche parte della natura radici, origini, modelli o semplicemente spunti e tracce della nostra umanità, è facile intuire che anche altrove, al di là cioè di S1, al di là dei confini della nostra società, troveremo dei nostri simili: è assai probabile che anche in S2, in S3 o in Sn vi siano dei ‘coccodrilli’ o dei ‘pesci razza’ come noi, gente con cui condividiamo certi tratti della nostra umanità, con cui sarà possibile trovare delle intese, stipulare degli accordi, realizzare scambi e alleanze. Insomma, l’umanità non finisce ai confini del nostro clan, e neppure della nostra società: proprio perché ancorata a certe parti della natura, essa è ben più estesa del nostro mondo particolare, ed è fatta – lo scopriamo pure nella nostra società – non in un unico modo, ma secondo una molteplicità di tipi e modelli, anche contrastanti tra loro. È un luogo comune sostenere che in queste società un tempo definite 33
‘primitive’ «le frontiere dell’umanità» vengono fissate «ai limiti del gruppo tribale» (Lévi-Strauss 1964b: 184). Molte analisi dell’antropologia più recente hanno tuttavia messo in discussione questa tesi; siamo quindi più propensi a valorizzare il significato ‘internazionale’ dei sistemi di tipo totemico (su cui già alcuni autori classici, come per esempio Alfred R. RadcliffeBrown, avevano insistito). Secondo quanto sostiene Lévi-Strauss (1964b: 184), «le classificazioni totemiche permettono contemporaneamente di definire lo statuto delle persone nell’ambito del gruppo e di dilatare il gruppo oltre il suo schema tradizionale». Infatti, «una delle funzioni essenziali delle classificazioni totemiche è quella di spezzare [la] chiusura del gruppo su se stesso, e di promuovere la nozione ravvicinata di un’umanità senza frontiere». Lévi-Strauss riporta queste testimonianze tratte dall’etnologia degli Indiani del Nord America. I Menomini, per esempio, ritengono che esista una relazione di parentela comune non soltanto tra gli individui che, all’interno di una stessa tribù (S1), dipendono dallo stesso totem, «ma anche tra tutte le persone il cui nome derivi dallo stesso totem, anche se sono membri di tribù diverse» (S2, S3, Sn), e anche se queste ultime appartengono a famiglie linguistiche differenti, con lingue reciprocamente incomprensibili. I Chippewa, a loro volta, affermano l’esistenza di un legame di parentela inestinguibile tra tutti coloro che hanno lo stesso totem, pur appartenendo a tribù o villaggi differenti, a tal punto che il legame tra di loro risulta più forte del legame con membri della stessa tribù, ma di totem differente (Lévi-Strauss 1964b: 185). Che cos’è questa ‘parentela’ con stranieri, se non il frutto di una generalizzazione che trova il proprio fondamento in qualche aspetto particolare della natura, e dunque la condivisione non di una generica umanità, bensì di un tipo riconosciuto di umanità, più esteso però dei confini della propria tribù? Lévi-Strauss parla a questo proposito dell’«embrione di una società internazionale», ma aggiunge una notazione importante, e cioè che queste estensioni, o generalizzazioni (come noi le abbiamo chiamate), possono travalicare persino i limiti dell’umanità, nella misura in cui i sentimenti di parentela si estendo34
no anche alle specie animali. Descola parla a questo proposito di un’ontologia del totemismo, vale a dire «l’idea che esiste una continuità morale e fisica tra gruppi di umani e gruppi di non umani» (2005: 232). Non ci siamo quindi solo ‘noi’, rappresentanti di un certo tipo di umanità; e non c’è soltanto l’umanità, con la pluralità delle sue forme: esistono anche altri esseri viventi, con cui condividiamo aspetti del carattere o del comportamento, momenti importanti della vita o certi tratti del destino, oltre che un mondo comune, che tutti ci comprende. Un’ultima riflessione prima di chiudere questo capitolo dedicato alle stabilizzazioni relative. Avevamo concluso il capitolo 1 affermando che occorre tener conto dell’esistenza di processi diversi di stabilizzazione, ovvero processi che, oltre a introdurre dosi più o meno massicce di stabilità, riconoscono l’insopprimibile fluidità del reale, e processi che invece fanno di tutto per negare il flusso a tutto vantaggio di una stabilità totale e definitiva. Ebbene, i casi di stabilizzazione che qui abbiamo discusso non sono esenti dalla consapevolezza del flusso e quindi in qualche modo della provvisorietà delle stabilizzazioni. Ci avvaliamo delle parole di un saggio dakota, raccolte nell’Ottocento in un testo trascritto e poi pubblicato da James Owen Dorsey. Il testo, riprodotto da Lévi-Strauss, esprime – come egli afferma – un pensiero metafisico comune a tutto il mondo sioux, dagli Osage a sud fino ai Dakota a nord, secondo il quale «le cose e gli esseri non sono che le forme irrigidite della continuità creatrice» (Lévi-Strauss 1964a: 137-38), noi diremmo di un flusso. Ogni cosa muovendosi, in un momento o in un altro, qui e là, segna un tempo di sosta. L’uccello che vola si ferma in un luogo per fare il suo nido, in un altro per riposarsi. L’uomo in cammino si ferma quando vuole. Così, il dio si è fermato. Il sole, così brillante e magnifico, è un luogo dove lui si è fermato. La luna, le stelle, i venti, è lì che lui è stato. Gli alberi, gli animali, sono tutti i suoi punti di sosta, e l’indiano pensa a questi luoghi e a essi rivolge le preghiere, affinché esse raggiungano il posto dove il dio si è fermato, e per ottenere aiuto e benedizione.
Stabilizzazione sì, ma relativa: le stabilizzazioni – a cominciare da quelle divine – non sono altro che ‘soste’ di un flusso 35
continuo. Abbiamo anche sostenuto, nel capitolo 2, che nelle culture, per quanto stabilizzate e irrigidite, esistono spiragli di libertà, che consentono agli individui di riflettere sul potere della loro stessa cultura. Come non sono mondi impenetrabili, così le culture possono offrire spazi per un pensiero non assoluto, ma meno vincolato, un pensiero che svincolandosi sa cogliere la molteplicità sotto l’apparente unità, le possibilità invece della necessità, il flusso inarrestabile come sottofondo dell’apparente stabilità delle nostre costruzioni.
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...e chi vuole l’assoluto
C’è chi (persone, gruppi, culture, civiltà) non si accontenta di stabilizzazioni relative. C’è chi usa diversi ingredienti di stabilizzazione al fine di raggiungere una stabilità che vuole essere definitiva. È legittimo proporre una distinzione tra questi due tipi di stabilizzazione: una relativa (provvisoria e parziale) e una assoluta (definitiva e completa)? Riteniamo di sì, anche se avremmo qualche esitazione a trasformarla in una tipologia troppo rigida e, per l’appunto, assoluta. Diciamo allora che ci sono società che maggiormente inclinano verso le stabilizzazioni relative, e se ne fanno anche una ragione, e società che preferiscono invece le stabilizzazioni assolute, almeno su alcuni piani e in rapporto a determinati temi. Nel capitolo 3 abbiamo fornito esempi del primo tipo, ricavati soprattutto dalla letteratura etnologica. Ora che dobbiamo trattare delle stabilizzazioni assolute, non è necessario andare troppo lontano: le abbiamo proprio sotto gli occhi e ci vengono sbandierate in parecchie occasioni della nostra vita quotidiana e politica, così come hanno segnato – e in modo molto incisivo – diversi momenti della storia della nostra civiltà e di civiltà a noi molto vicine. Per quanto riguarda la natura, è lecito sostenere che le stabilizzazioni relative fanno ricorso a elementi particolari del mondo naturale (l’abbiamo visto con le società di tipo totemico), mentre è proprio delle stabilizzazioni assolute intendere la natura come mondo unitario, di cui si può parlare secondo una categoria totale. Dal punto di vista delle stabilizzazioni assolute, la natura viene infatti concepita come un mondo a sé stante, fornito di leggi stabili e di strutture permanenti: la stabilità viene quindi raggiunta adeguando il mondo umano alle leggi naturali, ancorando le 37
società ai pilastri della natura, organizzando gli universi culturali sulla base di un ordine pre- o extra-umano, quello vigente nella natura o – se altra è la fonte – quello che appare e si realizza nella natura. Si dirà molto giustamente che in questo modo finiamo per mettere insieme, alla rinfusa, molti concetti di natura, eterogenei tra loro; ed è vero. Ma proprio questo intendiamo dimostrare, ossia che – specialmente nelle stabilizzazioni assolute – non vi è un concetto unico e uniforme di natura, dato che questo è soltanto un espediente, un mezzo culturalmente inventato per provvedere a una stabilizzazione definitiva. Un unico tratto accomuna le diverse nozioni di natura qui considerate: la presupposizione di una realtà in qualche modo esterna ai costumi umani, un universo più stabile e uniforme, un ordine più certo a cui le culture possono/debbono aggrapparsi nei loro processi di stabilizzazione. Ma gli ingredienti di stabilizzazione definitiva sono più di uno, e non si riducono tutti alla natura. Qui ne proponiamo tre: natura, ragione, rivelazione divina. I primi due sono stati già evocati nei capitoli precedenti; il terzo sarà considerato soprattutto in questo capitolo. Vedremo però che, pur essendo diversi, questi tre fattori non si escludono affatto tra loro: sono infatti molti i modi con cui possono essere combinati al fine di produrre una più rassicurante stabilizzazione culturale. A quanto pare, noi viviamo in una civiltà che da tempo ha voluto denominarsi ‘moderna’, e per confermare questa categoria oggi preferiamo definirci postmoderni. Nella sua origine etimologica, modernità designa una condizione ancorata a un presente, come suggerisce l’avverbio latino modo (‘ora’, ‘adesso’, ‘in questo momento’), una condizione dunque che muta incessantemente, esattamente come si susseguono gli istanti del presente. Una condizione ‘moderna’ è destinata inesorabilmente e velocemente a essere superata da una condizione successiva; ciò che è moderno (attuale) oggi, non lo è più domani. Tutto ciò è molto ben visibile nella moda e nella tecnologia, dove il fenomeno dell’obsolescenza è particolarmente accentuato. Il mutamento incessante – non solo tecnologico e non solo di moda, ma anche sociale e culturale – viene colto come 38
una caratteristica tipica della società moderna, come un tratto che la contraddistingue e la separa da tutte le altre società, definite proprio per questo ‘tradizionali’ o ‘pre-moderne’. La modernità dunque implica due tipi di mutamento: a) un mutamento per così dire originario e fondativo, quello che apre la modernità, che la ‘separa’ e la ‘costituisce’ come società a sé, diversa da tutte le altre; b) un mutamento normale e incessante, che continua a differenziarla dalle società tradizionali. Dal punto di vista della modernità, queste ultime società farebbero di tutto per espungere il tempo, privilegiando la stabilità e la permanenza delle tradizioni, mentre la società moderna sarebbe tale proprio in quanto incorpora in sé il tempo e il mutamento, facendo del mutamento, del progresso, della trasformazione la ragione stessa del suo essere. Sono numerosissimi gli autori che hanno avallato e fatto propria questa dicotomia, proponendo una serie nutrita di tipi di società contrapposti: per esempio, ‘piccole società’ e ‘grandi società’ di Bernard de Mandeville, società stazionarie e società progressiste di Henry S. Maine e di Lewis Henry Morgan, società a solidarietà meccanica e società a solidarietà organica di Émile Durkheim, comunità (Gemeinschaft) e società (Gesellschaft) di Ferdinand Tönnies, società chiuse e società aperte di Karl R. Popper, società fredde e società calde di Lévi-Strauss. L’elenco potrebbe continuare, ma noi non seguiamo questa strada. Interessati ai processi di stabilizzazione, intendiamo dimostrare che, nonostante tutti i suoi mutamenti, con cui intende contrapporsi alle società ‘tradizionali’, la modernità (la civiltà moderna, ovvero la cultura della modernità) offre esempi ragguardevoli di stabilizzazione: vedremo anzi che essa è tutta percorsa da aneliti di stabilizzazione e che i suoi momenti più significativi coincidono con processi di stabilizzazione assoluta (anziché relativa), a tal punto che potremmo persino avanzare l’ipotesi che la modernità si prefigga di differenziarsi dalle altre società (le società pre-moderne o tradizionali) non tanto perché conosce di più il mutamento, ma piuttosto perché essa, grazie al tipo di mutamento che ha innescato, pretende di approdare a qualcosa di assai più stabile e sicuro, un terreno solido, una 39
prospettiva certa, che le altre società non hanno mai intravisto e di cui forse non hanno nemmeno mai supposto l’esistenza. La scienza, come specchio della natura, è stata per la modernità il più importante e decisivo fattore di stabilizzazione, sia sul piano intellettuale, sia sul piano sociale. Secondo Francis Bacon, solo nell’«epoca moderna» (così egli scrive nel 1620) è finalmente consentito l’ingresso nel «regno dell’uomo», un regno che coincide con la costituzione di un sapere stabile, fondato solidamente sull’esplorazione della realtà, un sapere «certo e evidente», che si pone a contatto diretto della natura e trae la propria certezza dal riuscire ad afferrare le idee autentiche, ossia le «tracce veraci» impresse da Dio nelle cose (Bacon 1968: 47, 42, 7, 16). Ma l’ingresso nel regno dell’uomo e quindi la costituzione di un sapere certo, la cui solidità proviene dal fare proprie le idee con cui Dio ha costruito la natura, implicano un mutamento originario e fondativo della modernità, che si configura come uno strappo, una lacerazione, una violenta distruzione. Per Bacon questa frattura rispetto al passato consiste nella individuazione di tutti gli idola, che non sono idee, ma «opinioni fallaci», le quali si generano soprattutto nella società, negli individui, nei loro modi di pensare comuni, nel linguaggio volgare, nel «commercio» e nel «consorzio degli uomini» (1968: 16 e 43). Ebbene, nei confronti degli idola (che sono poi i ‘costumi’) occorre procedere mediante una sorta di asportazione chirurgica: per entrare definitivamente e trionfalmente nel «regno dell’uomo», è necessario «rinnegare e spazzar via tutti questi idoli, dai quali l’intelletto deve essere completamente liberato e purificato» (1968: 42). Pochi anni dopo (1632), Galileo Galilei divideva con grande nettezza gli «studi umani», dove prevalgono non i criteri della verità, ma la preoccupazione di «far apparire» e di imporre con argomentazioni retoriche le proprie opinioni, dalle «scienze naturali», dove invece ciò che prevale è la capacità di «apprendersi al vero» (Galilei 1968b: 78). Anche per Galilei l’«apprendersi al vero» presuppone la liberazione dai costumi; anche in Galilei agisce una sorta di diffidenza verso la società, tutta dominata da un linguaggio fluido e inaffidabile. Contro la società, 40
viene fatta valere la natura; al ‘linguaggio’ inafferrabile della società viene opposta la ‘scrittura’, non però la scrittura degli uomini, che sempre trascina con sé le mutevolezze e le finzioni del linguaggio umano, ma la scrittura di Dio, una scrittura matematica con cui è scritto l’intero libro della natura. Che cosa di più stabile di questo sapere che ‘si apprende’ alla natura e, per suo mezzo, alla stessa divinità? La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intender se prima non s’impara a intender la lingua e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche (Galilei 1968a: 232).
La liberazione dai costumi per la conquista di un terreno solido, su cui finalmente costruire in maniera duratura, è una formula che troviamo in molti esponenti della modernità, i quali scelgono la natura come ancoraggio solido e indiscutibile. I costumi sono un terreno molle e infido; la natura è un terreno roccioso e sicuro. Tra i costumi e la natura in Descartes si fa strada un altro elemento, la ragione: è questa lo strumento che ci consente di sfrondare i costumi e di raggiungere la natura, in quanto «la ragione non si trova ‘nei’ costumi e neppure (come suggeriva Montaigne) ‘tra’ i costumi (nella capacità di attraversamento dei costumi)» (Remotti 1995: 278). Il luogo della ragione non è nella società e neppure nei rapporti intersociali (o interculturali). Per Descartes c’è un luogo privilegiato della ragione, e questo è l’‘io’, inteso come una realtà naturale, non intaccata dalla società. Lungi dal ritenere che l’io sia una categoria sociale – un costrutto sociale, direbbero oggi gli antropologi, sulla scia di Marcel Mauss (1965) –, Descartes individua nell’io il luogo in cui natura e ragione si congiungono, formando così quel terreno sicuro di cui la modernità si era posta alla ricerca: purificato e liberato dai costumi, l’io è infatti portatore di un pensiero naturale, grazie al quale è in grado di formulare giudizi «puri» e «solidi» (Descartes 1969: 50). Se in un modo o nell’altro comincia a venire meno, nei seco41
li della modernità, l’idea di una natura come mondo fisso, ordinato e stabile, se la natura appare sempre più come una realtà in continuo divenire e finanche imprevedibile (nessuno può dirci con sicurezza che domani il sole sorgerà, come sosteneva David Hume), il processo di stabilizzazione definitiva e assoluta si rivolge allora alla realtà in apparenza più cangiante, fragile e inaffidabile: l’io (l’io ‘puro’, l’io ‘assoluto’ sono espressioni che cominciano a prendere senso) trasformato in una realtà del tutto indipendente dai costumi e finanche dalle vicissitudini individuali. Immanuel Kant prende decisamente questa strada, al punto da affermare che la ragione e il suo «pensiero puro» (fonte di ordine e di sicurezza) «li incontro entrambi dentro di me» (Kant 1967: 66). Per Kant, non c’è bisogno di «allontanarmi da me», di inoltrarmi nella realtà che circonda l’io, ovvero la società, i costumi o la natura esterna. Nell’io la filosofia trova «il territorio dell’intelletto puro», e questo territorio è raffigurabile come «un’isola che la natura ha racchiuso in confini immutabili»: si tratta del «territorio della verità», sul quale soltanto è davvero «concesso edificare» (Kant 1967: 264). Isola della verità, isola della salvezza: già Francis Bacon usava l’espressione «via della salvezza» (1968: 4) per indicare la missione della modernità, il suo obiettivo irrinunciabile, ovvero ciò che differenzia la modernità da tutte le altre società che l’hanno preceduta. Le società tradizionali si perdono nei loro costumi strani e bizzarri, nelle loro tradizioni oscure e inconcludenti, dovute a ignoranza e superstizioni; la società moderna è tale invece in quanto, disancorandosi dai costumi e approdando a un terreno solido, è in grado di indicare la «via della salvezza» non soltanto per sé, ma per tutti gli uomini. Il terreno solido di cui è alla ricerca non appartiene infatti in esclusiva a ‘noi moderni’: in quanto naturale, è proprietà dell’umanità intera, anche se la modernità ha il merito indiscutibile di averlo scoperto a vantaggio di tutti. Il terreno solido ora è la natura esterna, ora è l’io puro (per usare l’espressione di Kant). Ma a proposito dell’isola della salvezza, a cui infine approdare, la modernità ha conosciuto dibattiti, tormenti e incertezze di non poco conto. Se la natura esterna – con la sua eterogeneità, molteplicità, imprevedibilità – 42
non va più bene, ci si sposta (con Kant) verso la natura interna dell’io, là dove con l’«architettonica della ragion pura» si dovrebbe poter costruire un sistema «immutabile», quindi non solo duraturo, ma perenne, ovvero una città dei dotti che non sia più un «campo di battaglia», un «teatro di lotte», con sistemi caduti in rovina: ciò che Kant pretende di costruire è una repubblica scientifica, dove «l’ordine e la concordia» sarebbero garantiti da un ancoraggio sicuro e solido degli edifici alla pura razionalità naturale (Kant 1967: 632, 636, 656, 635). Nei primi decenni dell’Ottocento, nel cuore storico della modernità, Georg Wilhelm Friedrich Hegel è stato uno dei più implacabili demolitori dei miti della stabilità moderna, ponendo in luce il carattere astratto e velleitario dei processi di stabilizzazione che assumevano l’aspetto di costruzioni architettoniche. Per Hegel non vi è un terreno solido, l’isola rocciosa della verità, su cui pensare di poter costruire finalmente in maniera stabile, duratura, perenne. A questi tentativi di stabilizzazione definitiva Hegel getta in faccia la coscienza acutissima della trasformazione, della morte, della distruzione incessante: lo spirito, per Hegel, «guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare sé nell’assoluta devastazione» (1967: 26). Hegel smaschera la naturalità dell’io puro (l’isola della verità di Kant): «il saldo terreno che il raziocinare ha nel soggetto quiescente, vacilla dunque» (1967: 50). Con Hegel l’attenzione si sposta dall’io (l’io puro, l’io naturale) alla società, ai sistemi storici, i quali si dissolvono a mano a mano che dalle loro macerie altri sistemi emergono. Hegel svela che alla base degli edifici apparentemente stabili dei filosofi della modernità non vi è una natura umana rocciosa, bensì la credenza, la presunzione o l’illusione che vi sia: per questo essi crollano inesorabilmente. Le loro fondamenta sono precarie, in quanto gettate non nella roccia (come essi credevano), ma nel fiume della storia. Non solo, ma Hegel coglie nettamente il senso della purificazione dell’intelletto (purificazione dai costumi, dalla società, dai condizionamenti storici), che per molti pensatori della modernità era la condizione per raggiungere la stabilità (Remotti 1995: 282-83). Per Hegel «il compito non consiste tanto nel purificare» l’intelletto, quanto 43
piuttosto nel togliere «i pensieri determinati e solidificati», nel «rendere fluidi i pensieri solidificati» (Hegel 1967: 27). Riteniamo che questo invito alla ‘fluidificazione dei pensieri’, che ci proviene da un filosofo piuttosto lontano nel tempo, sia un punto estremamente importante nel nostro discorso, ed estremamente attuale. Hegel ci avverte che i nostri pensieri tendono a solidificarsi, tanto più quando mettiamo in atto quei processi di stabilizzazione che abbiamo definito assoluti, e nel contempo ci suggerisce di fluidificarli (invece che di purificarli), in modo da non rimanere intrappolati nella loro apparente fissità e nel crollo inesorabile che prima o poi li riporterà nel flusso storico da cui erano emersi. Hegel ci fa anche capire l’inevitabilità dei processi di stabilizzazione: è infatti impossibile per noi vivere, pensare e agire, se non entro schemi sufficientemente stabili. Ma un conto è la stabilizzazione relativa (quella di cui abbiamo parlato nel capitolo 3), inevitabile e necessaria; altro conto è la stabilizzazione assoluta, quella che pretende di costruire in maniera definitiva. La prima ammette il flusso e nel contempo la necessità di una sufficiente stabilizzazione; la seconda vuole raggiungere un grado talmente elevato di stabilità da negare l’esistenza del flusso o quanto meno la sua incidenza. La prima è disposta a riconoscere il flusso e accettare l’inevitabilità delle trasformazioni; la seconda, non riconoscendo il flusso, si trova impreparata di fronte al mutamento: il rischio è proprio quello di rimanere imprigionati in un edificio che crolla. Hegel, dunque, critico prezioso delle stabilizzazioni assolute. Ma neppure Hegel sfugge alla missione di grande stabilizzazione della modernità: egli sposta il progetto della stabilizzazione assoluta dalla natura alla storia; da destabilizzatore dei progetti che hanno di mira la natura, egli si fa stabilizzatore della storia. In questo modo, occorre tralasciare l’immagine dell’edificio, il sistema statico, per considerare invece il fiume, inteso come un sistema dinamico. Spostandosi dalla natura alla storia, la stabilizzazione prende certamente un’altra forma. È la stabilizzazione di un sapere che pretende di conoscere l’intero corso del fiume, la sua ampiezza, la sua direzione finale. Anche qui c’è un approdo, «una meta», quella in base alla quale la filosofia 44
giunge al suo compimento: non più una filosofia che cerca, che agogna, che sa di non sapere, ma una filosofia «in grado di deporre il nome di amore del sapere per essere vero sapere» (Hegel 1967: 4). Si tratta di un sapere totale, assoluto, che conosce il procedere storico dell’umanità, il «progresso» di ciò che Hegel ha voluto chiamare Weltgeist, lo «spirito del mondo» (1963: 55). Con Hegel la modernità si presenta al mondo con un sapere ‘compiuto’ e ‘certo’: non più specchio della natura, ma specchio della storia, e non della storia di questo o quel popolo, di questa o quella parte di mondo, ma della storia universale, quella che riguarda l’umanità intera. ‘Noi moderni’, depositari di questo sapere compiuto e stabilizzato, siamo anche coloro che al momento attuale incarnano lo ‘spirito del mondo’: sappiamo come va il mondo, conosciamo quale direzione esso prende, e lo possiamo fare perché siamo lì, esattamente dove sta passando lo spirito del mondo, dove si sta realizzando il progresso dell’umanità. L’abbiamo già visto questo punto: la stabilizzazione assoluta pone coloro che ne fruiscono e la rappresentano decisamente su un altro piano rispetto a tutti gli altri, a tutti coloro che si accontentano di stabilizzazioni parziali e relative, chini sui loro destini locali, limitati dal loro ‘non sapere’. O meglio, questo è ciò che pensano gli inventori delle stabilizzazioni assolute, sicuri delle loro certezze, del loro sapere stabile e compiuto: questa è in effetti la loro visione del mondo. E per rendersi conto di come questa visione ci presenti il mondo, Hegel (l’ultimo Hegel, quello delle lezioni sulla filosofia della storia) ci viene ancora meravigliosamente in aiuto. Cominciando dal Mediterraneo, considerato «senz’altro» come «il punto centrale della storia del mondo», ovvero come «l’asse della storia del mondo», l’Europa appare a Hegel come «il continente dello spirito unificato in sé», come «il continente che si è dato a percorrere l’infinito processo della civiltà» (1963: 234-36). All’opposto, l’Africa appare come il continente dell’immobilismo più totale, là dove «l’uomo resta fermo» alla sua sensibilità naturale, del tutto incapace di evolversi (1963: 236). Selvatichezza e barbarie sono nozioni ampiamente usate per descrivere questo «paese infantile, avviluppato nel nero colore del45
la notte», mentre altrove, e soprattutto in Europa, si è completamente dispiegato il «giorno della storia» finalmente «consapevole di sé» (1963: 239). Disumanità, distruttività, schiavitù, cannibalismo, stregoneria, dispotismo, fanatismo, feticismo (e anche poligamia, su cui avremo modo di soffermarci) sono i fenomeni del tutto negativi che compongono il terribile quadro che Hegel, sulla scorta delle relazioni di missionari dell’epoca, propone ai suoi studenti e ai suoi lettori: ne viene fuori una realtà di «difficile comprensione, perché differisce completamente dal nostro mondo culturale [...], qualcosa di affatto estraneo e remoto dalla nostra coscienza» (1963: 242). Per Hegel, grande stabilizzatore della storia (fautore di una stabilizzazione assoluta, come vedremo ancora meglio tra poco), inevitabilmente l’Africa appare come una realtà in cui «la coscienza non è giunta ancora alla contemplazione di qualcosa di saldamente oggettivo»; e «salda oggettività» – secondo la precisazione di Hegel – «vuol dire Dio, l’eterno, il giusto, la natura». Senza alcun appiglio di «salda oggettività», l’uomo in Africa è al grado zero del suo sviluppo: consegnato alla sua «immediatezza», egli è totalmente «dominato da passioni, orgoglio e povertà». Perché allora dedicare molte pagine all’Africa (nella traduzione italiana da p. 237 a p. 262)? Perché l’Africa offre l’occasione di osservare «l’uomo naturale nella sua totale barbarie e sfrenatezza», uno stato naturale che Hegel non ha esitazione a definire «animale», una condizione inoltre che «non è suscettibile di alcuno sviluppo o educazione» (1963: 243-44). L’unico interesse che può suscitare questo continente agli occhi di Hegel è di tipo strettamente antropologico, nel senso che l’Africa, con il suo immobilismo, con il suo «essere non storico», con il suo essersi fermata al grado zero dell’umanità, consente di constatare cosa sia l’uomo nel suo stato «naturale». Per Hegel era obbligatorio sostare su questo continente, prima di iniziare il percorso della «storia del mondo», proprio per descrivere gli inizi, per far vedere come è fatto l’uomo nella sua condizione di ‘naturalità’, prima cioè che prenda avvio l’avventura dello spirito umano. E lo spettacolo che l’Africa offre – con la sceneggiatura e la regia di Hegel – è quello di una mancanza totale di uma46
nità. Per rincarare la dose, «i negri hanno [un] totale disprezzo per l’uomo»; in Africa, «la svalutazione dell’uomo è spinta fino all’incredibile» (1963: 251). E questo non perché siano intervenuti eventi culturalmente distruttivi (la schiavitù, per esempio, che Hegel attribuisce totalmente agli Africani, non certo agli Europei, e che ha sconvolto per secoli un intero continente), ma perché in Africa l’uomo è, e rimane, nel suo stato naturale. Sia pure da lontano, l’Europa può spingere il suo sguardo sull’Africa come chi sia interessato a valutare l’enorme ‘progresso’ che ha condotto l’umanità dal suo stato di ferinità originaria alle più elevate conquiste dello spirito, quelle che soprattutto caratterizzano la cultura e la storia europea, ospite attuale (fin che non sopraggiunga l’America) di quell’«Uno», di quell’individuo universale, di quel «Dio» che per Hegel è lo «spirito del mondo» (1963: 44). In Africa, terra senza spirito e senza storia, l’essere umano è solo, naturalmente solo, alle prese soltanto con la sua natura, una natura sfrenata, senza regole, senza controlli, senza moralità. Che cosa è capace di fare la natura umana in condizioni di deprivazione culturale? L’Africa offre all’Europa l’opportunità non soltanto di valutare il ‘suo’ progresso (quello dell’Europa e quello dello spirito del mondo), ma di comprendere meglio la natura dell’uomo: «chi vuol conoscere manifestazioni spaventose della natura umana, può trovarle in Africa» (1963: 262). Ma, oltre a ciò, l’Africa non ha altro da insegnarci: «perciò» – conclude Hegel – «noi lasciamo qui l’Africa, per non più menzionarla in seguito»; non essendo infatti un continente storico, «non ha alcun movimento e sviluppo da mostrare». E invece, noi di Africa parleremo ancora, perché con le sue stabilizzazioni relative (cap. 3) ha molto da mostrarci e da insegnarci, specialmente sui temi di famiglia e matrimoni di cui ci occuperemo tra poco. Ma non possiamo chiudere in questo modo il discorso su Hegel. Le Lezioni sulla filosofia della storia riproducono in buona parte gli argomenti trattati, da colui che fu considerato il filosofo ufficiale dello Stato prussiano all’Università di Berlino, nel corso del semestre invernale 183031 e di altri corsi precedenti. Sono passati quindi molti anni (quasi 180). Perché dunque riesumare un testo cronologica47
mente così lontano? Karl Marx – come si ricorderà – escludeva che si potesse trattare Hegel alla stregua di un «cane morto», e lo diceva a proposito delle «forme generali del movimento della dialettica» (Marx 1964: 45). Pur con tutti i rovesciamenti materialistici a cui occorrerebbe provvedere (dalla realtà materiale al pensiero e all’idea, e non viceversa), la stabilizzazione della direzione del movimento storico è perfettamente condivisa da Marx. Anche grazie al ribaltamento materialistico, Marx sottolinea con forza la distruttività del capitalismo, il quale «viene al mondo grondante sangue e sporcizia dalla testa ai piedi» (Marx 1964: I, 823), e già fin dal Manifesto del Partito comunista del 1848 Marx ed Engels avevano posto in luce la distruzione delle condizioni di vita precedenti da parte della borghesia e come essa «costringe tutte le nazioni a adottare le forme della produzione borghese», senza badare ai loro costumi e alle loro tradizioni locali (Marx, Engels 1966: 295-96). C’è violenza in questa costrizione: una violenza fisica e militare, economica e politica, sociale e culturale. Ma quando Marx ed Engels sostengono che la borghesia «costringe a capitolare il più testardo odio dei barbari per lo straniero [...] trascina nella civiltà anche le nazioni più barbare [...] le costringe a introdurre nei loro paesi la cosiddetta civiltà», si intravede, dietro la denuncia della violenza, la necessità della direzione storica. Tutto sommato, Marx ha formulato a proposito della colonizzazione europea un «giudizio storico positivo» (Rossi 1988: 76), in quanto, pur con la violenza e la distruzione, ha costretto le altre società a uscire dai loro stagnanti angoli di mondo e a immettersi nel fiume della «storia universale», di cui noi, moderni ed europei, grondanti sangue e contraddizioni, rappresentiamo il punto più avanzato (Remotti 1990: 234-38; Said 1998: 177 e 194-95). Anche senza Dio, c’è nel marxismo una stabilizzazione assoluta in senso storico, l’indicazione di una «via della salvezza» universale, il cui approdo non è la natura, ma il comunismo, una società pienamente storica, verso cui occorre spingere l’intera umanità, la nostra, come le altre società. Non c’è Dio, ma c’è l’indicazione di un’unica via, e questo 48
aspetto ‘monistico’ contraddistingue nettamente le stabilizzazioni assolute, siano esse di tipo naturalistico o di tipo storicistico, siano esse di tipo teistico o di tipo ateistico. Hegel sosteneva che «dobbiamo ricercare nella storia un fine universale, il fine ultimo del mondo», ovvero è indispensabile presupporre che «nella storia universale vi sia una ragione – e non la ragione di un soggetto particolare, ma la ragione divina, assoluta», giacché «una volontà divina domina poderosa nel mondo» e «nostro scopo dev’essere il riconoscimento di questa realtà sostanziale» (1963: 8-9 e 11). Per Hegel, il vero gesto di umiltà da parte dell’uomo consiste nel «riconoscere Iddio in tutto, nel tributargli onore dappertutto, e principalmente nel teatro della storia universale», non soltanto dunque nella natura (come fino ad allora era stato fatto), ma anche e soprattutto nella storia del mondo: è nella storia, ben più che nella natura, che «Iddio si rivela all’uomo» (1963: 22-24). In questo modo, Hegel recupera il Cristianesimo, essendo la religione mediante cui Dio «ha concesso agli uomini di conoscere la sua natura»; e questa rivelazione «segna il più importante punto di svolta» nella storia del mondo e fa del Cristianesimo una religione del tutto eccezionale: «nella religione cristiana si sa che cosa sia Iddio»; «la religione cristiana è quella che ha manifestato agli uomini la natura e l’essenza di Dio»; «i cristiani sono, così, iniziati ai misteri di Dio; e in tal modo ci è data la chiave per intendere la storia del mondo» (1963: 26-27). Perché ci siamo soffermati tanto su Hegel? Proviamo a elencare alcuni motivi, che dovrebbero costituire altrettanti temi che alimentano il nostro discorso. 1. Hegel è stato senza dubbio un grande destabilizzatore: ha posto in discussione molti sistemi che si erano poggiati sul concetto di natura, e per noi questo passo è stato molto utile, in quanto ci ha fatto vedere come nella modernità ci siano stati anche coloro che hanno diffidato dei processi di stabilizzazione di tipo naturalistico. 2. Hegel è stato però anche un grande stabilizzatore: tutto il suo pensiero converge verso la determinazione del senso unico della storia del mondo, verso l’acquisizione di un sapere certo e 49
definitivo concernente la ragione universale che si dispiega nella storia e che egli non ha esitazione a far coincidere con Dio, il Dio dei Cristiani. 3. Esaminando questo enorme progetto di stabilizzazione, che coinvolge la storia dell’umanità intera, si ha anche modo di vedere come questo tipo di concezioni non possa fare a meno di un’impostazione rigorosamente monistica. Monismo significa un’unica via, un unico Dio, un’unica religione, un’unica verità. Le stabilizzazioni assolute e definitive non possono accogliere la molteplicità, se non come strato superficiale, che occorre superare e travalicare per accedere al terreno solido, all’isola della verità, al piano della provvidenza, al disegno della storia del mondo, alla direzione della storia universale. Monismo significa riduzione drastica della molteplicità, riconduzione della molteplicità alla ragione che tutto comprende. 4. Ma in Hegel è chiarissimo come la visione e il possesso dell’unità della ragione siano una faccenda che ci riguarda da vicino, intimamente e anzi in maniera sostanziale: siamo noi, moderni ed europei, coloro che detengono con la filosofia la verità ormai dispiegata, quella verità che era stata rivelata da Dio con il Cristianesimo. 5. Hegel presenta il vantaggio di non camuffare e ammorbidire troppo gli argomenti. Vogliamo difendere l’Europa di fronte al mondo, di fronte alla molteplicità delle culture che la assediano e verso cui l’Europa pretende di essere faro di civiltà, rappresentante dello ‘spirito del mondo’? Hegel offre non soltanto un programma di stabilizzazione definitiva, ma lascia vedere assai bene le implicazioni di questa visione assoluta e totalitaria. 6. L’occasione di ciò ci è stata data dalle sue considerazioni sull’Africa e – anche se non ne abbiamo parlato – sul resto del mondo. C’è da scommettere che molti autori contemporanei sarebbero disposti ad attenuare, ammorbidire e persino cancellare diverse tesi hegeliane, considerate come eccessive, rozze, irritanti, ingiuste (in ogni caso, politicamente scorrette). Ma proprio nella loro eccessività le tesi di Hegel mostrano un effetto importante e di cui occorre essere consapevoli: i programmi di stabilizzazione assoluta, allestiti a favore delle ‘nostre’ scelte e 50
della ‘nostra’ cultura (chiunque sia il ‘noi’ di cui stiamo parlando), creano inesorabilmente un effetto di disparità tra ‘noi’ e gli ‘altri’. Poi, ovviamente, ci sono altri e altri: altri a noi più vicini e altri più lontani. L’Africa di Hegel è il massimo dell’alterità, in quanto occupa il punto più lontano ed estremo dello spettro dell’umanità: un’umanità non ancora umana, tanto primordiale da essere ancora a uno stadio animale, uno stato di natura, senza spirito, senza cultura. Ma questa – beninteso – non è l’Africa; è la visione di Hegel sull’Africa, una visione che scaturisce dalla sua furibonda stabilizzazione eurocentrica. 7. Con l’immagine dell’Africa incapace di uscire da uno stato di natura, Hegel ci è utile anche per un altro verso. Ci fa capire l’inaffidabilità del concetto di natura o, meglio, il suo carattere ideologicamente strumentale nell’ambito dei programmi di stabilizzazione assoluta. Ci sono infatti coloro che, nella cultura della modernità, indicano la natura come lo strato roccioso e solido, l’isola della verità e della salvezza, rispetto alla molteplicità dei costumi, delle tradizioni: l’approdo alla verità e all’universalità, verso cui tutti dovrebbero convergere. E ci sono invece coloro (Hegel, tra questi) che invece indicano nella natura lo stato da cui occorre allontanarsi, da lasciare alle spalle: lo spirito prende corpo nel momento in cui si libera dalla natura per produrre una sua propria realtà, con le sue leggi, ovvero – se si vuole – una seconda natura, che si sovrappone alla prima. Questa oscillazione, o meglio questo contrasto, non riguarda semplicemente due modi diversi di intendere la natura. Indica invece due strategie diverse di stabilizzazione, due modi diversi e persino opposti di cercare una stabilità assoluta e definitiva: nell’ordine naturale, su cui tutte le società dovrebbero alla fine fondarsi, oppure nell’unica direzione seguita dalla storia del mondo, entro la quale tutte le società sono in qualche modo incatenate. Strategie di stabilizzazione diverse e opposte: questo introduce nel campo delle stabilizzazioni assolute una dimensione che esse – così ossessionate dal monismo – non vorrebbero ammettere, quella della molteplicità, e persino del contrasto, del conflitto, delle lacerazioni. Molti si rivolgono alla natura, ma quanti sono i modi di intenderla e sfruttarla; molti si appellano 51
alla natura umana, ma le immagini che ne vengono fuori sono tra le più divergenti; molti pretendono di sapere come va il mondo, quale sia il senso direttivo della storia universale, ma diverse sono le direzioni prospettate o che politicamente si vogliono imprimere; molti (quasi tutti) interpellano persino la divinità per dare un fondamento definitivo e ultimo alle loro stabilizzazioni, ma quanto diverse sono le idee di Dio che circolano nel mondo. È inevitabile che le stabilizzazioni assolute bisticcino tra loro: il loro monismo non consente di ammettere tanto facilmente concezioni alternative. Tutte però condividono l’atteggiamento di differenziazione antropologica, che è emerso in maniera così vistosa nel caso di Hegel a proposito dell’Africa. ‘Stabilendo’ in modo definitivo in che cosa consista più propriamente l’umanità – il massimo di umanità non solo per noi, ma per tutti – inevitabilmente finiscono per formare categorie di umanità inferiore e di disumanità. Le stabilizzazioni naturalistiche procedono a creare categorie di ‘fuori natura’ o addirittura di ‘contro natura’, da applicare a società o istituzioni in cui prevalgono ‘costumi’ strani, bizzarri, aberranti, anziché le regole essenziali del comportamento naturale. Le stabilizzazioni storicistiche danno luogo, invece, a categorie di ‘senza storia’, in cui si trovano tutte quei popoli che nell’Ottocento venivano così disinvoltamente definiti come Naturvölker, immersi nella natura, incapaci di progresso e di storia. Un’ultima considerazione riguarda in generale le stabilizzazioni assolute. Proprio perché tali, esse difficilmente ammettono i processi che le costituiscono; difficilmente coltivano la consapevolezza dei processi mediante cui si perviene a stabilizzare i propri principi. Le stabilizzazioni assolute fanno dipendere la stabilità da principi e fattori che non coincidono con la volontà degli esseri umani, con i loro desideri o i loro programmi di stabilizzazione, ma da principi e fattori in qualche modo extraumani e extra-culturali: la natura, Dio, la ragione, la storia universale. Se ammettessero i processi di stabilizzazione, si darebbero la zappa sui piedi: non sarebbero più stabilizzazioni assolute, e le loro stabilità apparirebbero relative, dipendenti da processi e da strategie, ovvero da scelte operative e teoriche che, 52
come tutte le scelte, sono sempre un po’ arbitrarie, e comunque discutibili, contestabili, revocabili. Assai più facilmente, le stabilizzazioni relative danno invece spazio alla consapevolezza dei processi di stabilizzazione: proprio perché relative, e non assolute, esse non hanno bisogno di nascondere i processi di stabilizzazione; esse ammettono umanamente l’esigenza della stabilizzazione, e si nutrono della consapevolezza degli sforzi mediante cui ricercano una relativa stabilità.
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In nome della naturalità
Nei programmi di stabilizzazione assoluta, natura Dio ragione – ma anche storia Dio ragione – sono nozioni che si combinano tra loro con notevole facilità: simpatizzano, vanno d’amore e d’accordo, spesso si sostengono e si richiamano a vicenda. Nella modernità, i grandi stabilizzatori che hanno puntato sul carattere permanente della natura, sulla certezza dell’ordine naturale, hanno trovato in Dio (comunque venisse poi concepito, vicino e identico alla natura o lontano da essa) il garante finale di questo ordine: descrivere la natura, o meglio ancora dimostrare la necessità intrinseca del suo ordine, significava inevitabilmente parlare anche di Dio. «Galileo e Descartes, Leibniz e Newton, Hobbes e Vico [...] non erano teologi di professione, eppure trattarono ampiamente problemi di natura teologica»; «le loro teorie erano teologiche» e produssero – sostiene Amos Funkenstein (1996: 3) – «una teologia laica, secolare». La cultura della modernità aveva bisogno di Dio per consolidare in maniera definitiva sia un ordine naturale, architettonico e sincronico, sia un ordine diacronico, che si dispiega nel tempo e nella storia. Per quanto riguarda questa seconda prospettiva, l’«astuzia della ragione» (List der Vernunft) di cui parla Hegel equivale alla «provvidenza» divina di Vico, in quanto entrambe esprimono «il senso dell’assoluta autonomia della storia umana e dei suoi meccanismi autoregolativi», al di là dei progetti di singoli individui e di società particolari (Funkenstein 1996: 277). Ma, a dimostrazione della simpatia (o dell’attrazione) che queste nozioni manifestano reciprocamente, possiamo spostarci sul versante religioso e constatare come sia nel Cristianesimo sia nell’Islam – religioni indubbiamente rivelate – la rivelazione di54
vina sia in quanto tale insufficiente, ovvero come il ricorso alla natura (o alla natura umana, più specificamente) intervenga a completare la verità che esse intendono trasmettere. Se la natura e la storia, nella modernità, hanno bisogno di Dio per imporsi come sistemi unitari, anche Dio – in un certo senso – ha bisogno della natura (e della storia) affinché il suo messaggio possa attecchire e propagarsi in maniera universale. Proprio questa è la faccenda: la verità che apprendiamo da Dio, dal ‘nostro’ Dio, è qualcosa che riguarda soltanto ‘noi’ o riguarda tutti gli esseri umani? È chiaro che se riguardasse soltanto noi, la stabilizzazione di questo messaggio avrebbe non poche difficoltà a proporsi come definitiva e come assoluta: sarebbe relativa a noi, alla nostra storia, al nostro destino, in definitiva alla nostra cultura. L’Ebraismo si è trovato in questa posizione, definendosi come popolo a parte, anche se, beninteso, il suo essere popolo ‘eletto’, scelto dall’unico Dio, ne faceva non una religione tra le altre, ma una realtà del tutto eccezionale. Il profetismo di Isaia apre infatti una prospettiva di ordine universale, in cui il Signore, pur continuando a considerare Israele il prediletto, diventerà il Signore di tutte le nazioni: «tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio»; «molte nazioni resteranno attonite [...], perché vedranno ciò che non era stato loro narrato, e comprenderanno ciò che non avevano udito», e nel fare questo – rivolgendosi cioè al vero e unico Dio – abbandoneranno finalmente i loro «incantesimi» e i loro «sortilegi» (Isaia 52, 9-10; 52, 15; 47, 12). Israele diviene così, per volontà del suo Dio, «testimone» di un messaggio di salvezza universale: «Io, il Signore [...] ti ho formato e ti ho stabilito alleanza di popolo e luce delle nazioni, per aprire gli occhi dei ciechi, far uscire dal carcere i prigionieri e dalla prigione gli abitatori delle tenebre», affinché «la mia salvezza raggiunga l’estremità della terra» (Isaia 42, 5-7 e 49, 6). Ma Israele – come sostiene efficacemente Ugo Bonanate (1997: 135) – rimane nulla più che ‘testimone’ di questa espansione della rivelazione a tutte le genti. È il Signore – non Israele – che si appella direttamente agli altri: «volgetevi a me e sarete salvi, voi tutti confini della terra! Perché io sono Dio e non ve n’è altri!» (Isaia 45, 22). In questa 55
prospettiva universalistica Israele fa da «spettatore», e «la realizzazione di un futuro di unità religiosa rimane affidata esclusivamente a Dio»; è insomma «un universalismo che scende dall’alto»: «sarà Dio a far sì che, alla fine della storia, quando giungerà il messia, egli diventi il Dio di tutti» (Bonanate 1997: 135-36). Qui la stabilizzazione è tutta giocata sull’unicità di Dio (monoteismo) e sulla sua più o meno imperscrutabile volontà: qui di mezzo non c’è la natura umana; c’è invece un popolo, scelto dall’unico Dio, e ci sono tanti altri popoli, nazioni, genti con i loro dèi (anzi, con i loro idoli), con i loro «incantesimi» e i loro «sortilegi». Non è questione di natura umana, ma – potremmo dire – di costumi (di cultura): i costumi di un popolo che vede legittimate le proprie usanze dai comandi di Dio e i costumi degli altri popoli, degradati a usanze senza senso. Non è questione di natura umana, ma di storia: la storia di un popolo che è stato eletto e la storia di tutti gli altri popoli (la storia del mondo), i quali «attoniti» vedranno alla fine la verità, ascolteranno alla fine ciò che era già stato rivelato a Israele. Si comprende come in questo quadro «all’ebraismo biblico (ed extrabiblico) continuerà a rimanere estranea l’idea della missione a favore delle genti» (Bonanate 1997: 136). Fin dalle origini, Cristianesimo e Islam si contraddistinguono, rispetto all’Ebraismo, per la loro netta vocazione al proselitismo. A Gesù, dopo essere morto e risorto, vengono attribuite le seguenti parole con cui si rivolge ai propri discepoli: «Andate, dunque, ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho ordinato» (Matteo 28, 19-20). Come è noto, è stato soprattutto Paolo di Tarso a elaborare una strategia di universalizzazione, nella quale non si trattava più di attendere che Dio si rivelasse anche agli altri, ma di andare personalmente ad ammaestrare le genti, senza limiti culturali ed etnici. Paolo sostiene di aver ricevuto «la grazia e la missione apostolica, per portare all’obbedienza della fede tutti i gentili» (Romani 1, 5). In vista di ciò, egli compie alcune operazioni di fondamentale importanza. La prima è un’operazione teologica e consiste nel generalizzare la nozione di Dio fin da subito, senza 56
attendere che Dio si riveli a tutti gli uomini: «poiché vi è un solo Dio», Dio non è solo il Dio dei Giudei, ma lo è, «certamente, anche dei pagani» (Romani 3, 29-30). La seconda è un’operazione antropologica e consiste nello stabilire una nozione di natura umana universale in accordo con la legge ebraica e con Dio. Per Paolo vi è una natura che accomuna tutti gli esseri umani e nella quale sono scritti i principi fondamentali dell’agire umano, quei principi che la legge ebraica ha reso oggetto di culto (e di cultura, potremmo anche dire) e che tuttavia sono già custoditi nel cuore degli uomini. Sulla base di ciò, Paolo può permettersi di affermare che anche i pagani, pur ignari della legge (fatto di cultura) e che però hanno seguito i principi della comune umanità (garantiti dalla natura umana), possono essere considerati giusti e salvi: essi infatti «praticano le azioni prescritte dalla legge, seguendo il dettame della natura», e così facendo «mostrano che l’opera voluta dalla legge è scritta nei loro cuori» (Romani 2, 14-15). In questa prospettiva, diviene significativo l’attacco di Paolo alla circoncisione ebraica. O meglio, più che di attacco si tratta di un’interpretazione innovativa e inedita. Fino a quel punto, per essere considerati parte del popolo della salvezza, occorreva essere circoncisi, avere quindi su di sé, sul proprio corpo, il segno dell’alleanza che Dio aveva imposto ad Abramo (Genesi 17, 9-14), e le prime comunità cristiane, in quanto composte da ebrei fedeli esecutori della legge, aderivano all’imposizione della circoncisione. Paolo stabilisce una distinzione: la circoncisione che «appare esternamente, nella carne», e la circoncisione che si realizza invece «internamente», nel «cuore», «secondo lo spirito e non secondo la lettera» (Romani 2, 28-29). La circoncisione esterna è un fatto per così dire ‘culturale’, che riguarda l’appartenenza a un determinato popolo, ai suoi costumi, alle sue leggi particolari: essere fisicamente circoncisi denota l’essere Ebrei, che in questo si distinguono dai Romani, dai Greci e da altri popoli. La circoncisione interna riguarda invece lo spirito e la natura intima degli esseri umani, non i loro costumi (Remotti 2000: 151). Per trovarsi sulla ‘via della salvezza’ non occorre seguire i costumi di un determinato popolo particolare, 57
per quanto essi siano stati imposti dalla divinità (la circoncisione imposta da Dio ad Abramo come segno dell’alleanza); occorre invece seguire la parte più intima della natura umana, quella dove Dio ha deposto i principi che il suo insegnamento – la legge ebraica in un primo tempo e la rivelazione del Messia in un secondo tempo – ha reso del tutto espliciti. Se la legge ebraica è soprattutto un fatto che riguarda un popolo particolare, la sua storia e il suo destino di popolo eletto, l’insegnamento di Gesù è invece rivolto – secondo Paolo – a tutti i popoli, e gli apostoli hanno il dovere non già di attendere una più estesa e universale rivelazione, ma di attivarsi per portare questo insegnamento a tutti gli uomini, senza più alcuna distinzione etnica o culturale. Ma se l’avvento di Gesù – questa rivelazione ormai piena e definitiva – rende obbligatoria la «missione apostolica» (apostolatum), è indubbio che la nozione di natura umana, che accomuna tutti gli uomini, è ciò che rende possibile e praticabile la missione. Infatti non si andrebbe in altri paesi per diffondere la nuova verità e tanto meno per richiedere «l’obbedienza della fede», se la nuova verità coincidesse soltanto con un annuncio circoscritto a un tempo storico e a un contesto geografico particolare e con una rivelazione rivolta a un gruppo specifico e culturalmente definito. Se Paolo può sostenere, in maniera innovativa e rivoluzionaria, che «il muro divisorio» tra i popoli è stato abbattuto (Efesini 2, 14), ciò è indubbiamente dovuto al messaggio universale di Gesù, ma tale universalità trova nella comune natura umana – del resto voluta e forgiata dallo stesso Dio – il suo fondamento più solido. Certo, non si tratta di far diventare Paolo una sorta di umanista o di illuminista ante litteram; ma è difficile pensare che il grande impulso universalistico, il quale ha contraddistinto il Cristianesimo fin dalle sue origini, non sia connesso all’idea di una realtà che accomuna tutti gli esseri umani, al di là dei loro diversi costumi e delle loro diverse culture. Ugo Bonanate sostiene a questo proposito che «il cristianesimo neotestamentario stava elaborando una teoria dell’unità del genere umano, non ignota nelle sue linee generali anche alla cultura greco-romana dell’epoca» (Bonanate 1997: 148). Ma forse qui è bene precisa58
re che ciò a cui stiamo assistendo non è tanto l’elaborazione di una teoria, quanto il ricorso all’idea di natura umana. Siamo infatti di fronte a due termini: da una parte i contenuti di una rivelazione divina e dall’altra la struttura della natura umana. Che cosa fa il Cristianesimo neotestamentario? Si dedica all’elaborazione di una teoria della natura umana per poi vedere se i suoi principi coincidano con quelli della rivelazione divina o non piuttosto coltiva l’idea che i principi della rivelazione divina trovino fondamento nella natura umana? La prima è un’indagine, un’operazione di scoperta e di esplorazione; la seconda è un’affermazione di principio. La prima si chiede come sia fatta la natura umana; la seconda sostiene che come è fatta corrisponde ai principi fondamentali della religione cristiana. Nel suo Apologeticum (17, 6), scritto nel 197, Quinto Settimio Tertulliano sostiene che l’anima dell’uomo è naturaliter christiana («Oh testimonianza dell’anima naturalmente cristiana!», Tertulliano 1984: 160-61) e questa espressione ha avuto molto successo nella trattatistica successiva. Anche Papa Benedetto XVI, nell’udienza generale di mercoledì 30 maggio 2007, ha ricordato questo passo celebre dell’Apologeticum, «dove Tertulliano evoca la perenne continuità tra gli autentici valori umani e quelli cristiani». Il breve commento del Papa lascia intravedere due elementi che vale la pena sottolineare: da un lato, la «perenne continuità» e dall’altro, la selezione; da un lato si afferma la coincidenza tra i contenuti del Cristianesimo e ciò che – tramite il concetto di anima – può essere inteso come il nucleo più prezioso della natura umana e dall’altro si provvede a compiere un’implicita selezione, come appare dall’espressione «gli autentici valori umani». Sarebbe in effetti un po’ troppo arrischiato far coincidere il Cristianesimo con l’intera natura umana, non sapendo nemmeno esattamente come sia fatta. Molto più agevole stabilizzare il Cristianesimo – come già avevano fatto Paolo e Tertulliano – asserendo la sua «perenne continuità» con qualcosa che si decide essere autenticamente umano. Del resto, questa proiezione di una religione sulla natura umana – cosicché la natura umana risulta quasi impregnata dei caratteri di una determinata religione – non è affatto esclusiva 59
del Cristianesimo. Come abbiamo già preannunciato, questa operazione si coglie molto bene – e forse in maniera persino più nitida – anche nell’Islam. L’Islam viene spesso definito dai suoi seguaci come Din-ul-Fitra, ovvero come un ‘modo di vita’ o come una ‘religione’ (din) della ‘natura umana’ (fitra), e quindi anche come un ‘modo naturale di vivere’, visto che la religione non è affatto una dimensione separata dal normale modo di vivere, individuale e collettivo, ma lo condiziona in maniera molto pervasiva. Tra la vera religione (islam) e la vera natura umana (fitra) c’è coincidenza perfetta, e l’Islam è la vera religione perché – ben più dell’Ebraismo e ben più del Cristianesimo – fa corpo con la stessa natura umana, quale è stata creata dalla divinità. Su questo punto, Ugo Bonanate ha scritto parole molto chiare (1997: 152). Dopo avere citato il Corano (30, 30): «Drizza quindi il tuo volto alla vera Religione, in purità di fede, Natura prima [fitra] in cui Dio ha naturato gli uomini» (corsivo nostro), Bonanate così commenta: La verità comunicata da Maometto equivale cioè alla fitra, ovvero a uno stato innato, connaturato a tutti gli uomini, basato sulla pura fede, una concezione originaria, primitiva, essenza immutabile del vero spirito religioso. Maometto, in un detto attestato con la massima sicurezza, precisò cosa intendeva: «Ogni bambino nasce secondo la fitra. Sono i suoi genitori, in seguito, che ne fanno un ebreo, un cristiano o uno zoroastriano, allo stesso modo che, tra gli animali che nascono, non uno se ne può trovare mutilato se qualcuno non proceda a mutilarlo». Venendo al mondo, ogni essere è dunque musulmano, e soltanto i casi della vita lo allontanano dalla perfetta religione originaria nella quale, senza saperlo, è nato, rendendolo membro di questa o quella fede.
Per il profeta, ogni bambino nasce musulmano, e ogni conversione all’Islam sarà dunque un ‘ritorno’ alla natura originaria. Per Tertulliano, invece, al quale pure abbiamo sentito affermare che l’anima è naturaliter cristiana, «si diviene, non si nasce cristiani» (18, 4; Tertulliano 1984: 162-63). Più che nel Cristianesimo (almeno quello di Paolo e di Tertulliano, a cui ci siamo riferiti), nell’Islam assistiamo a una totale compenetrazione tra 60
religione vera e natura umana. Se negli autori cristiani citati prima la natura umana contiene soprattutto principi di ordine morale (seguendo i quali anche i ‘pagani’, ignari della legge e della rivelazione del Messia, sono in qualche modo ammessi alla salvezza), nell’Islam la natura umana è essa stessa e in primo luogo religione. Grazie a questa compenetrazione di natura e di religione, l’Islam riesce a mettere sul conto della natura anche quegli aspetti che al Cristianesimo risultavano invece legati alle tradizioni storiche di un popolo particolare. È il caso della circoncisione, che il Cristianesimo con Paolo ritiene un’usanza senza dubbio importantissima per l’Ebraismo (segno dell’alleanza con Dio) e tuttavia superabile nella nuova prospettiva universalistica. Per l’Islam la circoncisione – da ricondurre senz’altro ad Abramo, «antenato sia degli Ebrei sia degli Arabi» – è una pratica rituale, che però lo stesso Abramo trasforma «in una fitra che durerà per sempre tra i suoi discendenti» (Kister 1994: 10 e 20). Il Cristianesimo si libera della circoncisione come di un ‘costume’ particolare, che fa da inciampo alla sua concezione universalistica; l’Islam invece ingloba la circoncisione, trasformandola da elemento particolare e culturale in elemento naturale. Essa non è ‘costume’; è fitra. Essa è «uno dei segni del popolo che già credeva in Dio nei periodi dell’ignoranza», ma questo popolo è conosciuto come «il ‘Popolo della fitra’» (Kister 1994: 20). Ed essendo la circoncisione «la purificazione dell’Islam», si comprende anche come questa possa venire estesa – sotto forma di circoncisione del prepuzio del clitoride – anche alle donne, e come in generale la circoncisione venga concepita come «una condizione necessaria» per la conversione all’Islam (Kister 1994: 22-24 e 26). Sotto questo profilo, possiamo anche cogliere il significato della credenza, secondo la quale il profeta Maometto (Muhammad) – come del resto anche altri profeti – fosse nato ‘già circonciso’: se davvero si nasce musulmani e se la circoncisione (kithan) fa parte della ‘natura’ (fitra) dell’essere umano, si comprende come questo evento così significativo ed emblematico della ‘purezza’ umana e religiosa abbia segnato la nascita del profeta (Kister 1994: 12-16). 61
Del resto, la stessa operazione di assorbimento dei costumi della propria religione in una natura umana universale – e universale in quanto creata da Dio – è ben visibile nella questione della lingua. La verità viene rivelata (e il Corano viene scritto) in lingua araba, dunque una lingua particolare, diversa da altre lingue. Ma la nuova religione rivelata sostiene che questa è la lingua di Dio, la lingua in cui si esprime tanto la verità quanto la natura umana. Non si tratta dunque di rinunciare, come avevano fatto i primi Cristiani, alla propria lingua originaria e di trasferire (di tradurre) i contenuti della propria verità in una lingua internazionale (il greco, nel caso specifico), ma di conservare e di diffondere la lingua in cui è avvenuta la rivelazione divina: non è questione quindi di tradurre, ma di fare in modo che gli altri imparino con la lingua degli Arabi la lingua di Dio. In fondo, è la stessa strategia adottata con la circoncisione: non occorre rinunciare a una lingua o un costume particolare; si tratta invece di incorporarli (naturalizzarli) in questa nuova e definitiva religione universale. Dio infatti «ha inviato il Suo Messaggero con la retta guida e la Religione della Verità perché prevalga sulle religioni tutte, anche a dispetto degli idolatri» (Corano 9, 33), e Muhammad in una sua dichiarazione afferma: «Sono stato inviato alla totalità del genere umano» (Bonanate 1997: 159); ma la verità deve essere colta nella lingua in cui Dio ha voluto rivelarla. Rispetto all’Ebraismo, Cristianesimo e Islam rivendicano progetti di stabilizzazione molto più definitiva e immediata, dove non c’è attesa di tempi nuovi. I tempi sono ormai maturi (come sostiene Paolo, il quale parla di pléroma tou chronou, di «pienezza del tempo», Galati 4, 4). E in vista dei loro progetti di universalizzazione, Cristianesimo e Islam procedono entrambi – sia pure in modi e forse anche in gradi diversi – a potenti operazioni di naturalizzazione. Vediamo in quale modo. L’idea di una natura umana apre la strada all’universalismo e giustifica la spinta al proselitismo che sia il Cristianesimo sia l’Islam hanno immediatamente conosciuto. Immediatamente si pone anche il problema di come intendere e trattare i costumi (nostri e altrui), in quanto i costumi sono inevitabilmente un elemento di di62
sturbo e di inciampo sulla strada della naturalizzazione e della universalizzazione. Cristianesimo e Islam ci hanno fatto vedere due diverse modalità di approccio ai costumi: da un lato quella della rinuncia e della liberazione dai costumi (Cristianesimo), dall’altro quella del loro assorbimento nella natura umana (Islam). Ci rendiamo conto di come questa distinzione sia piuttosto netta e di come nella realtà storica le due operazioni (liberazione e assorbimento) possano intrecciarsi e sovrapporsi. Tuttavia, per quanto riguarda il Cristianesimo, forse non è da sottovalutare il fatto che – come abbiamo potuto rilevare in Tommaso d’Aquino, e quindi in uno dei momenti di più elevata e consapevole sistematizzazione del pensiero cristiano – si proceda senza fare intervenire la dimensione della cultura (sia pure sotto forma di mores, di costumi): Dio e la natura sono, e debbono essere, sufficienti come criteri guida delle azioni umane. «In un mondo retto da Dio, la cultura umana», cioè i costumi variabili, particolari, spesso assurdi e corrotti, «rischia di essere una coltre, uno schermo che offusca e genera oscurità» (Remotti 2005b: 212). Abbiamo anche interpretato questa liberazione e purificazione della religione dai costumi come un modo di segnare una netta discontinuità tra Ebraismo e Cristianesimo: per Tommaso la ‘vecchia’ religione, imperfetta e incompleta, risulta appesantita da gravami culturali e da rituali assai poco comprensibili, mentre la nuova religione, nel segno della perfezione e della completezza, fa valere i principi della natura umana, «a cui aggiunge» – afferma Tommaso – «ben poche cose» (Remotti 2005b: 213-14). Ciò che ora intendiamo sostenere è che vi è una forte analogia tra questa impostazione del Cristianesimo e l’ideologia o la cultura della modernità. Li accomuna l’idea di aver raggiunto lo strato della natura umana (vuoi attraverso la rivelazione divina, vuoi attraverso la rivelazione scientifica della natura). Li accomuna quindi inevitabilmente una polemica contro i costumi, che si esprime in una loro degradazione (la coltre che oscura e che offusca la verità, sia essa religiosa o scientifica) e in un atteggiamento di distruzione delle singole tradizioni, come è avvenuto specialmente con il colonialismo, e anche dopo, nei pae63
si extra-europei. In un certo senso, possiamo dire che vi è una parentela tra Cristianesimo e modernità più stretta di quanto l’antimodernismo della Chiesa Cattolica per un verso e l’anticlericalismo e persino l’ateismo di certi esponenti della modernità non facciano supporre. Forse possiamo anche dire che spesso la modernità si presenta come la realizzazione più piena di un movimento, di una tendenza o di un progetto che vede nel Cristianesimo il suo predecessore: il progetto del raggiungimento di uno stato di verità universale, di un «regno dell’uomo» (Francis Bacon), sbandierato come qualcosa di inedito nella storia dell’umanità (Remotti 2000: 148). Anche la modernità individua spesso un evento o una serie di eventi che segnano uno spartiacque storico e antropologico nella storia dell’uomo. Vi è un ‘ora’, un ‘adesso’ (l’avverbio latino modo) anche per la modernità, la quale parla esplicitamente di se stessa come di una società mai vista prima sulla faccia della terra e colloca tutte le altre nella categoria delle società tradizionali o pre-moderne. Se nella modernità Cristianesimo e cultura laica della modernità si sono combattuti, ciò è avvenuto perché la cultura della modernità ha avuto spesso la pretesa di offrire, con la scienza, un terreno più solido di quello che poteva offrire la religione. Ma cultura della modernità e Cristianesimo si sono trovati alleati nei rapporti con le altre culture. Forti delle loro stabilizzazioni, convinti di disporre di una verità (laica l’una, religiosa l’altra) di valore universale, persuasi di fondarsi saldamente sulla natura umana, non hanno avuto esitazione nel procedere alla distruzione delle altre culture: che cosa possono le culture particolari, consapevoli dei loro limiti e del loro carattere ‘culturale’, di fronte a quella ‘super-potenza’ che è una stabilizzazione fatta passare come Verità universale? In un libro intitolato significativamente Naturalizing Power, due antropologhe, Sylvia J. Yanagisako e Carol Delaney, hanno posto in luce il nesso tra potere e processi di naturalizzazione, in quanto è mossa intrinseca del potere quella di far di tutto per apparire «naturale, inevitabile, persino dato-da-dio» (Yanagisako, Delaney 1995: 1). Se la modernità si contrassegna come una società ‘naturale’, lo fa perché è in gioco il suo potere, quel64
lo che ha acquisito al suo interno nei confronti di forme sociali che ha combattuto e quello che ha acquisito al suo esterno nei confronti delle società che appartengono a tradizioni diverse o che esibiscono culture differenti. Per la modernità non si tratta di imporre una cultura su un’altra, ma di far prevalere una verità universale e naturale sulla miriade di società, caratterizzate e condizionate dai loro costumi particolari, spesso considerati non solo strani e bizzarri, ma assurdi e senza senso. Anche l’antropologia – e specificamente l’antropologia culturale e sociale – ha partecipato a questa operazione di presentazione della società occidentale come di una società ‘naturale’, libera o liberata dai condizionamenti dei costumi e quindi in un certo senso ‘senza cultura’. Lewis H. Morgan, l’avvocato americano dell’Ottocento, esperto di Irochesi, considerato come l’iniziatore degli studi sulla parentela, riteneva che il nostro modo di organizzare i parenti, dividendoli senza possibilità di confusione tra parenti lineari (per esempio, padre, figlio, nipote) e parenti collaterali (come potrebbero essere il fratello del padre o la sorella della madre), fosse caratterizzato da una «fedele aderenza alla natura», e per questo viene anche definito «sistema naturale» (Morgan 1871: 27 e 142). Ma in effetti non è così che deve essere? Non è questo l’unico modo di classificare i parenti consanguinei, dividendoli appunto tra parenti a discendenza lineare e parenti a discendenza collaterale (tale per cui, per esempio, il padre non potrà mai essere confuso con il fratello del padre)? Morgan aveva scoperto tra gli Irochesi un altro modo di classificare i parenti: lì, per esempio, il fratello del padre veniva chiamato con lo stesso termine di ‘padre’ (hanih’), ponendo quindi in una stessa categoria (hanih’, per l’appunto) tanto un parente in linea diretta (il padre) quanto un parente in linea collaterale (il fratello del padre). Ma questa ‘con-fusione’ tra parenti diretti e parenti collaterali è un tratto distintivo – sostiene Morgan – di moltissimi sistemi di parentela, in molte parti del mondo, così da costituire ai suoi occhi un sistema del tutto diverso e anzi opposto al nostro. Insomma, noi siamo detentori di un sistema di parentela «naturale», in quanto «fondato su un corretto riconoscimento della distinzione tra la linea diretta e le 65
linee collaterali», mentre gli ‘altri’ – le società primitive, in genere – dispongono di un sistema «in contraddizione» con la natura (Morgan 1871: 142-44). Il primo, essendo naturale, è essenziale, scarno, lineare; il secondo, dipendendo dai costumi, appare complicato, «arbitrario», «artificiale», anche se non immotivato. Il primo ha come modello la natura, cioè la biologia dei fatti della procreazione umana; il secondo è invece il rispecchiamento di condizioni sociali ormai superate (come la promiscuità). Morgan non è stato il solo a ‘salvare’, per così dire, la nostra società da un approccio antropologico, ovvero a sottrarla a un’analisi culturale, a una considerazione cioè delle ‘scelte’ che sono alla base delle sue istituzioni. Si potrebbero citare per esempio Émile Durkheim e Marcel Mauss, i quali all’inizio del Novecento, dopo avere indagato i fattori sociali dei sistemi di classificazione del mondo operanti nelle altre società (inevitabilmente definite primitive), interpretano le classificazioni della scienza moderna come del tutto aderenti alle divisioni della natura (Durkheim, Mauss 1974). Anche per Durkheim, come per Morgan, il passaggio dalle società primitive alla società moderna e civilizzata consiste in un progressivo avvicinamento alla natura: perlomeno su alcuni piani – e vedremo tra poco quali – la modernità si configura dunque come qualcosa di assai più ‘stabile’ di tutte le società che l’hanno preceduta, e questa stabilità sarebbe garantita dal fondamento naturale che la modernità riesce a raggiungere (Remotti 1986: 180). La naturalità – sia quella della scienza (Durkheim), sia quella della parentela (Morgan) – è il criterio di una stabilità definitiva, contro la quale le altre soluzioni, gli altri modi di classificare il mondo o la società, inevitabilmente appaiono arbitrari sul piano logico, anche se non immotivati sul piano sociale. Complicati, arzigogolati e particolarmente ricchi sul piano culturale, e perciò molto adatti a sollecitare i raffinamenti delle analisi antropologiche, essi sono tuttavia ‘fragili’ nella loro artificiosità, destinati quindi a sparire di fronte all’avanzata della modernità nel mondo. Che invochi Dio o no, la modernità si presenta nel mondo come l’unica, credibile, sostenibile, incontestabile ‘via della sal66
vezza’ e della liberazione. In quanto società ‘naturale’ (Pletsch 1981), che è stata in grado di liberarsi dai costumi, dalle pastoie delle tradizioni locali, dall’arbitrarietà delle scelte particolari e sempre devianti, la modernità non si presenta come una società tra le altre, così come Cristianesimo e Islam non consentono che si possa pensare ad essi come religioni tra le altre. La loro ‘naturalità’, laica o religiosa che sia, li colloca su un piano diverso: quello di una raggiunta e definitiva stabilità, in grado di proporre o di imporre anche agli altri un ‘modo di vita’ universale e quindi immodificabile e incontestabile. Beninteso, è inevitabile che su molte questioni questi progetti di stabilizzazione secolari o millenari entrino in rotta di collisione. Ma su un punto, oltremodo significativo, intendiamo illustrare una convergenza che si è venuta a determinare tra modernità e Cristianesimo, cioè la naturalità della famiglia, e in particolare della famiglia nucleare e monogamica. Su questa, come su altre questioni, l’Islam è a parte: non nel senso che sia assente dallo scenario in cui la modernità occidentale e le Chiese cristiane propongono il loro tema familiare, ma nel senso che l’Islam non partecipa a questa convergenza. Non assenza, dunque, bensì non partecipazione da parte dell’Islam, il quale in effetti ha un altro modo di intendere la famiglia. Può essere allora che la convergenza tra modernità occidentale e Cristianesimo sul punto della famiglia risenta anche dell’esigenza di una comune differenziazione dall’Islam, grande concorrente sul terreno della stabilizzazione e grande competitore per quanto riguarda i progetti di universalizzazione?
Parte seconda
Forme di famiglia
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Avrai un’unica famiglia
Vogliamo essere diversi dagli altri, ma non sempre ci riusciamo. Anche noi, per esempio, nonostante tutti gli insegnamenti che ci provengono dalla Bibbia, dove il Signore condanna l’incisione di segni sul corpo (Levitico 19, 27-28; Deuteronomio 14, 1-2), non siamo da meno di molte altre società per quanto riguarda le modifiche del nostro fisico a scopo estetico. Non disdegniamo nemmeno interventi pesanti e invasivi, come quelli della chirurgia estetica, pur di realizzare determinati ideali di bellezza: anche altre società ricorrono alla chirurgia (alle loro ‘primitive’ tecniche chirurgiche) per produrre scarificazioni sulla superficie del corpo, per asportare parti di organi genitali, per perforare nasi, orecchie, lingue e quant’altro. Ma una differenza c’è. Se per esempio consideriamo la nostra chirurgia estetica, ci rendiamo conto che il tema della naturalità persiste in maniera decisiva. È criterio fondamentale del successo di un intervento di chirurgia estetica riuscire a occultare il ‘fare’ del chirurgo, in modo che il prodotto sembri il più ‘naturale’ possibile. Altrove, si pone in evidenza proprio l’intervento culturale, in quanto l’obiettivo è quello di ‘culturalizzare’ il corpo, sottraendolo a uno stato di naturalità (Remotti 2000: 135). Ebbene, per la famiglia – per il nostro tipo di famiglia – avviene qualcosa di analogo. Anche la famiglia (qualunque tipo di famiglia) è il prodotto di interventi, dunque di scelte; ma noi facciamo di tutto per mascherare gli interventi e occultare le scelte. La nostra non ha da essere una famiglia ‘costruita’, come tutte le altre famiglie, frutto di scelte e di compromessi; è invece un dato ‘naturale’, qualcosa che ci è stato dato o abbiamo appreso dalla natura. Anche qui, come nel caso della chirurgia estetica, 71
operiamo una doppia finzione: noi ‘fingiamo’ la nostra famiglia, nel senso che la modelliamo con le nostre scelte (o la lasciamo modellare da schemi culturali, da eventi storici, da circostanze sociali), e ‘fingiamo’ che il modellamento non vi sia stato. Perché mai? La risposta è ormai nota (se il discorso che abbiamo svolto nella Parte prima è in qualche modo riuscito): per una faccenda di stabilità. Naturalizzare la nostra famiglia è una modalità di stabilizzazione del nostro vivere sociale, ed è anche un sottrarre un momento decisivo del nostro ‘essere’ o meglio ‘divenire umani’ da confronti più o meno fastidiosi, da contestazioni pericolose e inquietanti, che possono mettere in discussione le nostre scelte. John Dewey ha fatto vedere come la scelta in quanto tale venga spesso «tenuta nascosta, camuffata, negata», e ciò allo scopo di attenuare il senso di «precarietà» che inevitabilmente inerisce ai fenomeni culturali (Dewey 1929: 29). Scopo degli antropologi culturali è fare il gioco inverso: se i ‘noi’ si ingegnano a ‘naturalizzare’, a far apparire come naturale ciò che invece è culturale, a celare dunque le scelte che sono state fatte, gli antropologi provvedono invece a denaturalizzare, a far emergere le scelte, e dunque la cultura, in ciò che viene presentato come ‘naturale’, necessario, inevitabile, suggerito dalla natura, se non addirittura imposto da Dio. Sylvia J. Yanagisako e Carol Delaney, le quali illustrano assai bene questo compito di denaturalizzazione dell’antropologia rivolto anche alla nostra società (alla nostra scienza come alle nostre concezioni religiose), fanno capire come, a proposito di famiglia, matrimonio, aborto, omosessualità, siano in gioco scelte che ineriscono a un «intero ordine cosmologico», a «sistemi socio-religiosi», mediante cui si determinano questioni di ‘genere’ e, per questa via (potremmo aggiungere), particolari forme di umanità (Yanagisako, Delaney 1995: 9). Sarà per questo coinvolgimento culturale molto profondo che anche la Chiesa Cattolica interviene in maniera così insistita su questioni che, nell’immediato, non dovrebbero riguardarla più che tanto (visto che i preti non si sposano, non mettono al mondo dei figli e dovrebbero anche astenersi dal sesso). Ma andiamo con ordine, affrontando in primo luogo la visione di naturalità della nostra famiglia e, nel capitolo successi72
vo, casi evidenti e significativi di naturalizzazione dell’istituto familiare. Per noi Italiani, che la famiglia sia una realtà «naturale» è addirittura scritto nella Costituzione. L’articolo 29 infatti recita: La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare.
Il testo presentato dalla Commissione dei 75 alla presidenza dell’Assemblea costituente il 31 gennaio 1947 era, sul punto della naturalità, ancora più netto. L’articolo 23 iniziava infatti in questo modo: «La famiglia è una società naturale», mentre l’art. 24 parlava inequivocabilmente, oltre che di «unità della famiglia», di «indissolubilità del matrimonio». Il passaggio dal testo della Commissione a quello poi approvato dall’Assemblea costituente (22 dicembre 1947) registra dunque un’attenuazione di certi caratteri: scompare – con un emendamento votato con una maggioranza di soli tre voti (Terracini 1978: 57) – l’indissolubilità del matrimonio, e il concetto di naturalità della famiglia, pur mantenuto, non è più così evidenziato come nel testo originario. Dall’esame degli emendamenti non approvati, decaduti o ritirati (Cerizza [a cura di] 1979: 86-87), si rileva pure come alcuni avessero voluto eliminare la caratteristica della naturalità, proponendo di iniziare l’articolo in questo modo: «La famiglia è un’istituzione morale» (non una società naturale). Ma tant’è: l’idea della famiglia come società naturale è rimasta, ed è ora ripresa e fatta valere con particolare vigore soprattutto da parte cattolica. In uno striscione innalzato tra la folla accorsa al Family Day del 12 maggio 2007 a Roma si leggeva: «La famiglia solo secondo natura». Come è noto, la data del 12 maggio 2007 fu scelta a mo’ di risposta, dopo trentatré anni, al referendum (12 maggio 1974) che aveva confermato l’introduzione del divorzio in Italia. «Tutto, o molto, ebbe origine da quel 12 maggio 1974», co73
sì scrive Roberto de Mattei in un editoriale di Radici cristiane (de Mattei 2007c), dove egli riporta brani tratti da discorsi di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI: il primo sottolineava «le conseguenze devastanti del divorzio», mentre il secondo lamenta che «viene attaccata impunemente la santità del matrimonio e della famiglia» e che «si diffonde la ferita del divorzio e delle libere unioni». Come si ricorderà, nel testo della Commissione dei 75 l’affermazione che «La famiglia è una società naturale» (espressione più netta e incisiva di quella del testo definitivo) si combinava con il principio dell’«indissolubilità del matrimonio». Da parte cattolica – o perlomeno da parte delle massime autorità cattoliche (come i due papi citati prima) e dei movimenti confluiti nel Family Day – si ritiene di dover ripristinare nella sua pienezza il senso della naturalità della famiglia, eliminando «la ferita del divorzio e delle libere unioni». Il divorzio e le libere unioni non si configurano infatti come modificazioni di un istituto storico, formatosi socialmente (la famiglia – ci avverte de Mattei [2007a: 2] – «non è una costruzione storica o sociologica»), ma come lesioni di una struttura naturale, che – come afferma Benedetto XVI – «ha la sua stabilità per l’ordinamento divino» (de Mattei 2007b: 2). Scardinare la famiglia mediante il divorzio e le unioni libere significa attentare più generalmente a tutto un ordine sociale, fondato sulla natura e che però viene disvelato soltanto dall’insegnamento della Chiesa: scardinare la famiglia naturale significa andare verso «una società infernale» (de Mattei 2007a: 3). C’è da chiedersi se una società infernale non sia quella che, facendo leva sulla naturalità o – forse sarebbe meglio dire, a questo punto – sulla sacralità della famiglia e sull’indissolubilità del matrimonio, vincola per sempre due individui, del tutto a prescindere dalle loro vicende personali e terrene. C’è da chiedersi infatti quale tipo di riflessione antropologica possa mai sostenere la tesi che si legge in un recente documento della Chiesa Cattolica. Al paragrafo 28, Eucaristia e unicità del matrimonio, dell’esortazione apostolica postsinodale Sacramentum caritatis (13 marzo 2007), troviamo scritto: 74
Il legame fedele, indissolubile ed esclusivo che unisce Cristo e la Chiesa, e che trova espressione sacramentale nell’Eucaristia, si incontra con il dato antropologico originario per cui l’uomo deve essere unito in modo definitivo ad una sola donna e viceversa (cfr. Gn 2, 24; Mt 19, 5) (corsivo nostro).
È davvero un «dato antropologico originario» quello secondo cui l’unione matrimoniale esprime un legame «definitivo» con una sola donna o con un solo uomo? Se è un «dato», perché mai vi è un «deve»? Il paragrafo 28 prosegue evocando la poligamia, dove in effetti abbiamo l’unione di un uomo con più donne (poliginia) o di una donna con più uomini (poliandria). Che cosa è più originario: il dato antropologico per cui si «deve» avere un legame monogamico oppure la pratica, molto diffusa nelle società umane, di matrimoni poligamici? E poi, perché sostenere che l’uomo deve essere unito «in modo definitivo» a una sola donna (e viceversa): fanno persino paura i matrimoni plurimi in successione temporale (quelli di un vedovo o di una vedova, per intenderci), tanto è forte l’idea dell’unicità, dell’esclusività, dell’indissolubilità? In effetti, o la morte di un coniuge dissolve per sempre un matrimonio (una faccenda dunque molto terrena, ma allora dove va la sua sacralità?), oppure dovremmo pensare che un vedovo o una vedova, che nella loro esistenza abbiano avuto la ventura di risposarsi, si trovino nell’aldilà, al cospetto del Signore e per l’eternità, insieme alle loro rispettive mogli e ai loro rispettivi mariti, in una situazione che evoca in qualche modo la poligamia. Condannata, ripudiata e scacciata da questa terra, la poligamia rispunterebbe desessualizzata, rigenerata e persino eternizzata nell’altro mondo. E ovviamente la cosa si complicherebbe, se su questa terra il vedovo sposasse una vedova: ne verrebbe fuori un matrimonio di gruppo, la variante estrema della poligamia, cioè né poliginia, né poliandria, ma un’unione poliginico-poliandrica. Su questa terra, tra qualche strana società – come avremo modo di vedere più avanti – anche questa soluzione è possibile. E in cielo? Nel cielo dei Cristiani? Certo, nel cielo dei Cristiani non si fa sesso: ci mancherebbe altro. Nel De civitate Dei Agostino afferma che ci si troverà in 75
una «quiete contemplativa», anche se «a dire il vero io [Agostino] non so con certezza come sarà quel comportamento»: infatti «non l’ho mai visto con gli occhi del corpo» (22, 29, Agostino 1984: 1182). Sostiene anche che «non vi sarà più la passione», la concupiscenza, il desiderio l’uno dell’altro e che «il corpo della donna non sarà più disponibile alle unioni di un tempo», quello terreno (22, 17, Agostino 1984: 1158). Agostino richiama anche esplicitamente il passo di Matteo 22, 23-30, in cui Gesù rispose per le rime ai Sadducei, che volevano metterlo in difficoltà a proposito della resurrezione. Vale la pena leggere per esteso il brano in questione: In quel giorno si avvicinarono a lui dei Sadducei, quelli che affermano non esserci resurrezione, e lo interrogarono dicendo: «Maestro, Mosè ha ordinato: ‘Se uno muore senza figli, suo fratello ne sposerà la vedova e così darà a suo fratello una discendenza’. Ora c’erano fra noi sette fratelli. Il primo appena sposato, morì e, non avendo discendenza, lasciò la moglie a suo fratello. La stessa cosa accadde al secondo e al terzo, fino al settimo. Dopo di tutti, morì anche la donna. Ora, nella resurrezione, di chi fra i sette sarà moglie? Infatti appartenne a tutti». Gesù rispose: «Siete in errore, poiché non conoscete le Scritture, né la potenza di Dio. Infatti nella resurrezione non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli di Dio in cielo».
E Agostino, a sua volta, aggiunge: Il Signore dunque ha detto che nella risurrezione non ci si sposerà più, ma non che non vi saranno più donne [...]. Esisteranno dunque quanti ora continuano a prendere moglie e a prendere marito, ma non lo faranno più! (22, 17, Agostino 1984: 1159).
I Sadducei, che nel passo citato evocano il costume ebraico del levirato (un individuo sposa la vedova del fratello per garantirne la discendenza), saranno anche stati in errore, per Gesù. Ma il problema posto non è di poco conto: esso riguarda in generale il nesso di continuità/discontinuità tra il mondo terreno e il mondo ultraterreno (che cosa rimane e che cosa scompare nel passaggio tra i due?), e più in particolare la continuità 76
o meno dell’essere individuale, cioè della persona, e delle sue relazioni. A seguire Agostino, noi capiamo che «esisteranno» – ovvero continueranno a esistere – quelle persone che nella vita terrena si sono sposate, anche se non praticheranno più il loro matrimonio (nemmeno, a quanto pare, un matrimonio casto, del tutto spirituale). Ma il legame che qui, sulla terra, è stato dichiarato ‘definitivo’ e ‘indissolubile’, esiste ancora nell’aldilà? Se sì, si rischia di cadere in una situazione troppo simile alla poligamia. Se no, se esso non esiste più, se è stato annullato, ciò vuol dire che per i Cristiani la morte è più forte dell’amore, anche di quell’amore che Dio ha consacrato e che l’uomo non dovrebbe sciogliere; che l’indissolubilità è a termine; che l’essere «una sola carne», non più due, ma uno (Matteo 19, 5-6), vale soltanto qui sulla terra, nel breve arco dell’esistenza umana, e ‘finché morte non vi separi’; che la morte è in definitiva più potente dell’atto di congiunzione sancito da Dio. Se così fosse, la faccenda sarebbe molto grave: per quanto sacralizzato, il vincolo matrimoniale non solo non sarebbe eterno, ma verrebbe condannato ogni volta a dissolversi di fronte alla morte: una morte appunto più potente di qualsiasi amore coniugale, nonostante tutta la sua sacralizzazione. Nell’aldilà Agostino vede la realizzazione definitiva ed eterna dell’«uomo perfetto» (22, 18), di un uomo e di una donna, il cui corpo sarà «liberato dall’unione sessuale e dalla procreazione», uomo e donna resi liberi anche da ogni loro vincolo matrimoniale (Agostino 1984: 1158-59, corsivo nostro). Una chiarificazione a questo punto si impone, al di là delle certezze di coloro che sostengono la naturalità della famiglia e l’indiscutibilità di dati antropologici più o meno originari, anche perché – a proposito di Matteo 19, 5 sgg. e con tutto il rispetto per i testi sacri – non possiamo non registrare una svolta assai inquietante, che genera una zona d’ombra nell’antropologia della famiglia che la Chiesa Cattolica intende imporre. In Matteo 19, 3-8 vediamo infatti Gesù esporre brevemente alcune linee guida, che potremmo tentare di riassumere in questo modo: a) il Signore crea il maschio e la femmina «fin da principio»: la divisione nei due ‘generi’, maschile e femminile, è scritta 77
nell’atto creativo originario; b) questa divisione in maschio e femmina prelude a una loro unione: è strumentale all’accoppiamento; c) Gesù però pone un’altra condizione, ossia l’abbandono della famiglia d’origine: l’uomo «lascerà il padre e la madre e si unirà alla propria moglie e così i due diventeranno una sola carne». Questo non essere più due, ma uno, è reso possibile dal taglio – affettivo, fisico, esistenziale – con i propri genitori, con la famiglia in cui si è nati e cresciuti. Fin qui tutto bene; anzi le parole di Gesù riportate in Matteo possono persino essere utilizzate, insieme ad altre sparse nelle Scritture, per illustrare uno dei punti fondamentali della teoria antropologica sulla famiglia. L’ha fatto per esempio Claude Lévi-Strauss, quando ha affermato che «le parole della Scrittura, ‘Tu lascerai tuo padre e tua madre’», costituiscono una sorta di «regola d’oro» per il funzionamento di ogni società (1984: 74). Avremo modo di ritornare, anche criticamente, su questo punto. Ciò che qui interessa dimostrare è però che, dopo queste concise indicazioni di Gesù, il discorso si fa più misterioso: è la svolta di cui si diceva e da cui scaturiscono le ultime linee guida. d) Provocato dai Farisei, Gesù espone le condizioni secondo cui è possibile ripudiare la propria moglie: non certo per qualsiasi motivo, ma solo per un comportamento di «impudicizia» da parte della donna (adulterio o legame incestuoso, secondo le interpretazioni). A questo punto sono i discepoli a intervenire, facendo notare che, con queste condizioni piuttosto restrittive del potere di ripudio da parte del marito, all’uomo «non conviene sposarsi» (Matteo 19, 10). E qui Gesù espone la sua ultima indicazione (e) con la teoria degli eunuchi. Vi sono infatti tre tipi di eunuchi: quelli resi tali da madre natura (diciamo così); quelli che invece hanno subito un intervento di mutilazione da parte di altri uomini (si pensi a certe forme di schiavitù); quelli che invece «si resero tali da sé per il Regno dei cieli» (Matteo 19, 12). È lo stesso Gesù ad ammettere sia all’inizio sia alla fine della sua esposizione che il discorso è di difficile comprensione, non è da tutti e non è per tutti: «Non tutti comprendono questo discorso, ma soltanto coloro ai quali è dato», e, infine, «Chi può comprendere, comprenda». Proviamo a met78
terci nei poveri panni di chi ascoltava Gesù in quel frangente. Pare palpabile un certo disorientamento (la zona d’ombra di cui si è detto): si parlava infatti di matrimonio tra uomo e donna e delle condizioni di scioglimento della loro unione. I discepoli pongono un problema di ordine sociologico (conviene allora sposarsi?) e Gesù, facendosi misterioso, o trincerandosi dietro alle difficoltà di comprensione della maggior parte della gente, devia in qualche modo il discorso, quasi a dire che c’è ben altro oltre i problemi della famiglia normale. C’è infatti una via che porta decisamente al di là delle questioni delle famiglie normali e dei problemi di convivenza domestica della gente comune, una via che non è dato a tutti comprendere e percorrere. È quella di farsi da sé eunuchi (rinunciare al sesso e alla procreazione, dunque anche al matrimonio con una donna) «per il Regno dei cieli». Subito dopo vengono presentati a Gesù dei bambini, affinché pregando imponesse loro le mani. I discepoli cercano di allontanare i bambini, sgridandoli perché non importunino il maestro, «ma Gesù disse: ‘Lasciate stare, non impedite che i bambini vengano a me; di tali, infatti, è il Regno dei cieli’» (Matteo 19, 14). C’è dunque una gerarchia di situazioni e di valori nel discorso, per quanto misterioso, di Gesù: da un lato il livello delle questioni familiari (sposarsi, non sposarsi, ripudiare la moglie), dall’altro c’è un livello superiore, che attiene niente di meno che al «Regno dei cieli». A questo livello non si incontrano famiglie; si incontrano frammenti di famiglie, gente che ha abbandonato i propri nuclei familiari per creare rapporti nuovi e di altro genere (di quale ‘genere’ non a tutti è dato comprendere). Il messaggio di Gesù si fa piuttosto inquietante per i difensori della famiglia ‘normale’ (esprimiamoci per ora in questo modo). Sempre nel capitolo 19 di Matteo troviamo infatti questa ulteriore indicazione. Rispondendo a Pietro, il quale chiede a Gesù: «noi [che] abbiamo lasciato ogni cosa e ti abbiamo seguito, che cosa dunque avremo?», Gesù promette ai suoi discepoli un futuro ultraterreno di grande gloria e potere: «sederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele» (19, 28). Ma più inquietante di questa promessa un po’ da megalomane è quanto dice in chiusura del suo discorso: «E chiun79
que ha lasciato case o fratelli o sorelle o padre o madre o moglie o figli o campi per il mio nome, riceverà il centuplo ed erediterà la vita eterna» (Matteo 19, 29). Il discorso sulla famiglia di Gesù è disorientante: prima si parla di indissolubilità dell’unione coniugale – una sola carne –; poi (e siamo nello stesso contesto narrativo) si fa capire quanto importante sia la via che porta al Regno dei cieli, rinunciando al sesso, alla procreazione, al matrimonio (il terzo tipo di eunuchi); infine vi è l’incoraggiamento – rivolto non solo a pochi eletti, ai discepoli, ma a «chiunque» – ad abbandonare, insieme alle ricchezze, anche la propria moglie e i propri figli, distruggendo dunque la propria famiglia. Costoro infatti erediteranno la vita eterna: un premio che presuppone la distruzione della famiglia che si è voluto creare. Ma ciò significa allora che per raggiungere la vita eterna occorre abbandonare e distruggere i propri legami familiari e coniugali? Se così non fosse (se cioè la vita eterna fosse raggiungibile anche attraverso una quieta e consolidata vita matrimoniale), perché generare confusione, facendo l’elogio di «chiunque» – beninteso, in nome di Gesù – abbia lasciato moglie e figli? Perché distruggere famiglie, se la salvezza è anche di chi se ne sta nella propria casa? Lo sconcerto e il disorientamento non annullano tuttavia un’indicazione di fondo, che proviene da questi e da altri brani del Nuovo Testamento, ossia la svalutazione della famiglia nelle parole e nelle azioni di Gesù, quali ci sono state tramandate dai Vangeli, nei confronti di una via della salvezza che va ben oltre le faccende e i vincoli domestici. In Marco (3, 31) Gesù oppone alla sua famiglia d’origine (quella in cui era nato e cresciuto) la famiglia rappresentata invece dai suoi seguaci, e lo fa con un tono chiaramente polemico nei confronti della prima: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?», i quali erano venuti a cercarlo; «Ecco mia madre e i miei fratelli!», indicando la folla di chi gli stava attorno. In Luca (14, 26) ritorna la contrapposizione tra la folla dei seguaci in vista di una salvezza promessa e la famiglia individuale, ma questa volta – come già nel testo di Matteo (19, 29) esaminato prima – il punto di vista si sposta da quello di Gesù a quello dei seguaci: chi segue Gesù deve imi80
tarlo in questa scelta di svalutazione e di abbandono della famiglia. Non solo, ma l’abbandono – che è l’abbandono sia della famiglia di origine, sia della famiglia di procreazione – qui si carica di un sentimento che è ben più che rinuncia: è «odio». E ancora una volta, l’insegnamento, l’indicazione di politica familiare (o meglio antifamiliare) non è rivolto da Gesù a pochi eletti, ma a masse intere: Grandi folle andavano con lui. Egli si rivolse loro e disse: «Se uno viene a me e non odia [latino odit, greco miseî] suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e anche la propria vita [latino animam, greco psychén], non può essere mio discepolo» [...] «Chiunque di voi non rinuncia a tutti i propri beni, non può essere mio discepolo» (Luca 14, 25-26 e 33).
Mauro Pesce ha parlato a questo proposito di «una radicale contrapposizione fra il movimento di Gesù e le famiglie», individuando nel carattere fortemente rivoluzionario di tale movimento il motivo per cui Gesù ha combattuto «la logica normale della famiglia» (Augias, Pesce 2006: 121-22). Allo stesso modo, nel commentare gli slogan del Family Day, tutti inneggianti alla famiglia naturale, e «solo naturale», quale sarebbe rivelata e consacrata dall’insegnamento cristiano, Barbara Spinelli (2007: 1) iniziava il suo editoriale sulla Stampa con le seguenti parole: Quel che toglie il respiro, nelle parole che Gesù pronuncia nei Vangeli, è il precipizio drammatico in cui getta la famiglia [...] ogni cosa trema a cominciare dalla famiglia, vista come tormento sempre imminente: al pari dell’appartenenza etnica, delle tradizioni, dei riti canonici, l’istituto famigliare può trasformarsi in gabbia che incatena l’uomo alla natura, alla carne.
Anche nelle parole di Barbara Spinelli si coglie l’esigenza ‘trasgressiva’ o ‘rivoluzionaria’ già segnalata da Pesce, la quale si manifesta nel denunciare e contrastare gabbie e irrigidimenti, insomma quelle stabilizzazioni di cui abbiamo parlato nella Parte prima di questo libro. Si coglie anche l’idea, che in questo momento a noi sta maggiormente a cuore, della naturalizza81
zione: ovvero, la famiglia ha da essere intesa non già come una realtà naturale (idea del tutto assente – ci pare di poter affermare – nei testi evangelici finora esaminati), bensì come il prodotto di una naturalizzazione. I discorsi e gli atteggiamenti di Gesù, così come almeno sono stati esposti nei Vangeli qui considerati, ci aiutano non già a confermare l’idea della ‘naturalità’ della famiglia e della sua ‘unità’, ma a porre in luce – in una maniera persino esasperata, come vedremo meglio tra un istante – l’esigenza di uscire dalla cerchia ristretta della famiglia e di contrastare con violenza il suo potere costrittivo. È d’obbligo, a questo punto, riportare le citazioni dal Vangelo di Luca e dal Vangelo di Matteo: Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e vorrei davvero che fosse già acceso! [...] Pensate che io sia venuto per portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione [latino separationem, greco diamerismón]. D’ora in poi, se in una famiglia ci sono cinque persone, si divideranno tre contro due e due contro tre: il padre contro il figlio e il figlio contro il padre, la madre contro la figlia e la figlia contro la madre, la suocera contro la nuora e la nuora contro la suocera (Luca 12, 49-53). Non crediate che io sia venuto a portare la pace sulla terra; non sono venuto a portare la pace, ma la spada. Sono venuto a separare l’uomo da suo padre, la figlia da sua madre, la nuora da sua suocera; sì, nemici dell’uomo saranno quelli di casa sua. Chi ama il padre o la madre più di me, non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me, non è degno di me (Matteo 10, 34-37, corsivo nostro).
Dovremo ricordarci di questa frase: «sì, nemici dell’uomo saranno quelli di casa sua» (et inimici hominis, domestici eius), anche se Gesù motiva la contrapposizione di un individuo alla famiglia con il diventare suo seguace e quindi intraprendere la strada della salvezza eterna. Noi lasceremo cadere l’alternativa (amore per la famiglia vs. amore per il maestro) e non seguiremo il percorso proposto da Gesù ai suoi discepoli: abbandonare la famiglia per seguire il Signore. Ma l’affermazione contenu82
ta in Matteo 10, 36, secondo cui nemici dell’uomo (echthroì tou anthrópou) sono proprio quelli con cui l’individuo vive e con cui coabita in un gruppo domestico, contiene un nucleo riflessivo che ben si adatterà alle considerazioni che faremo circa l’esigenza, che molte società avvertono, di andare ‘oltre’ la famiglia, di rinnegare in qualche modo il suo peso e il suo eccessivo condizionamento sui processi di formazione dell’uomo (ánthropos), della persona, comunque poi questa venga intesa e realizzata. È ora però di chiudere questo capitolo. L’abbiamo iniziato con un titolo, che ora vorremmo richiamare per tirare le fila del nostro discorso. Avrai un’unica famiglia suona in effetti come un’espressione che raccoglie diversi spunti emersi nel nostro discorso. 1. Il primo coincide con un’affermazione tipologica. Tutti coloro che sostengono la naturalità della famiglia, quasi inevitabilmente ritengono che esista un unico tipo di famiglia (per lo più quello presente nella propria società). Il ricorso alla natura – come vedremo ancora meglio nel prossimo capitolo – ha il significato di privilegiare un tipo di famiglia a scapito di tutti gli altri: e questo avviene o ignorando l’esistenza di altri tipi, o degradandoli a forme spurie, inautentiche, innaturali. 2. Una variante del primo tema è quella di affermare che nella nostra società non possono essere concepite e ammesse altre soluzioni familiari, oltre a quelle della famiglia monogamica ed eterosessuale (è la polemica del Family Day a proposito delle proposte di regolarizzazione di unioni di fatto avanzate dal governo Prodi). 3. Un terzo significato è emerso a proposito dell’unicità del vincolo coniugale e quindi del rifiuto di ogni forma di poligamia: avrai un’unica famiglia significa che contemporaneamente Ego non potrà disporre di altre unioni familiari, come invece avviene nelle configurazioni di tipo poligamico (un uomo con più mogli, una donna con più mariti). 4. Il principio dell’unità (unica famiglia) attrae tutti coloro che vogliono ergersi come difensori accaniti dell’istituto familiare, soprattutto se alla base dei loro discorsi pongono il tema dell’indissolubilità del vincolo coniugale e se intendono tale in83
dissolubilità come un effetto non della volontà o di un impegno degli individui, ma come un prodotto dell’intervento divino («quello che Dio ha congiunto l’uomo non separi», Matteo 19, 6). Questa attrazione dell’unicità può prendere una piega per così dire diacronica, oltre che sincronica. Sul piano della sincronia, il principio dell’unità si traduce – come abbiamo appena visto – in una condanna senza scampo della poligamia; sul piano della diacronia (matrimoni in successione da parte di un medesimo individuo), il principio dell’unità, che significa anche indissolubilità, esclusività, definitività, va incontro ad aporie di non poco conto. È stato un divertissement critico-antropologico quello di far vedere come in un’ottica cristiana e cattolica, ossessionata dall’unità, si rischia fortemente o di svalutare i matrimoni che un povero vedovo o una povera vedova possono contrarre dopo il primo (matrimoni di serie B, non particolarmente ben visti, come in effetti è successo nella tradizione cattolica) o di vedersi riprodotta nell’aldilà (perlomeno in potenza o come una specie di résumé sincronico della vita passata) una poligamia aspramente condannata nell’al di qua. 5. Chissà se queste difficoltà non siano alla base di quella deviazione del discorso che abbiamo visto compiere a Gesù, allorché, invece di soffermarsi ancora sulle faccende del ripudio e quindi della possibile dissoluzione della famiglia, prende la strada un po’ oscura e misteriosa (ai più) dell’essere eunuchi per propria volontà e quindi del rinunciare a formare una propria famiglia. Anche a questo proposito vale comunque l’espressione che abbiamo scelto: avrai un’unica famiglia. Tale rinuncia al sesso e alla procreazione comporta infatti che per Ego non ci sia che la propria famiglia di origine, quella in cui gli è capitato di nascere. Non solo Gesù, ma anche Paolo pare abbia seguito questa via, e infatti non soltanto raccomanda alle vedove, che hanno visto distrutta la loro famiglia di procreazione, di accettare la loro condizione (e quindi di non risposarsi), ma anche ai celibi consiglia di rimanere nel loro stato. «Vorrei che tutti fossero come me», afferma (1 Corinzi 7, 7), cioè non sposati. Ma la rinuncia ad avere una famiglia di procreazione è subordinata a una rinuncia ancora più di base, la rinuncia al sesso: «è cosa buo84
na per l’uomo non avere contatti con donna» (1 Corinzi 7, 1). È bene rinunciare alla procreazione perché è bene rinunciare al sesso (fare di se stessi eunuchi), anche se Paolo – come già Gesù nel passo citato (Matteo 19, 12) – si rende conto che questa norma non può essere tanto generalizzata, e allora ripiega su una soluzione di compromesso: «se non sanno contenersi, si sposino; è meglio sposarsi che ardere!» (1 Corinzi 7, 9). Un compromesso, come si vede, che degrada la famiglia a una condizione inferiore rispetto al celibato. Se proprio non si è in grado di rendere se stessi eunuchi (in vista, beninteso, del Regno dei cieli), la famiglia di procreazione si configura come un ripiego a cui normalmente accedere. 6. Nelle parole di Gesù, questa degradazione della famiglia (verrebbe da dire ‘famiglia naturale’, per usare la categoria dei sostenitori del Family Day) raggiunge un livello ancora più preoccupante. Non soltanto assistiamo infatti, con la teoria degli eunuchi (se si vuole, con l’elogio paolino del celibato), alla riduzione da due famiglie (quella di origine e quella di procreazione) a una sola (quella in cui si è nati), ma con Gesù assistiamo alla distruzione della famiglia in quanto tale. Non si tratta semplicemente di dire ‘avrai un’unica famiglia’; si tratta piuttosto, e più radicalmente, di affermare: ‘non avrai nemmeno una famiglia’... eccetto che se ne formi un’altra, di tutt’altro ‘genere’, e questa volta non certo naturale, bensì di ordine soprannaturale. Ma di questo parleremo nella Parte terza.
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Tante famiglie, ma una soprattutto
Gli antropologi hanno da sempre dovuto fare i conti con la molteplicità: se la negassero, avrebbero semplicemente da chiudere bottega. Essi non possono permettersi, come certi strombazzatori del Family Day, di affermare che c’è un unico tipo di famiglia. Fin dalle origini della loro disciplina non hanno potuto fare altro che constatare che nel mondo ci sono – o ci sono stati – tanti modi diversi di organizzare i rapporti familiari. Come si ricorderà (cap. 5), Lewis Henry Morgan aveva dato inizio agli studi sulla parentela riconoscendo che non vi era un unico sistema di consanguineità, quello che noi pratichiamo, ma almeno due: il nostro, da civilizzati (fondato sulla distinzione tra parenti in linea diretta e parenti collaterali), e un altro, da primitivi (caratterizzato dalla ‘fusione’ tra parenti diretti e parenti collaterali). Da un punto di vista antropologico, due è un po’ poco, ma è sempre meglio di uno. Se si riconoscesse soltanto un sistema, non si farebbe alcun passo in avanti. Con due si esplorano quanto meno le differenze, come in effetti lo stesso Morgan aveva ammesso parlando dei due sistemi di parentela. Anzi, soltanto considerando «una qualche forma opposta» il nostro stesso sistema esce per così dire da una condizione di ovvietà epistemologica per divenire un oggetto di interesse scientifico (Morgan 1871: 39). Perché rifarci al buon vecchio Morgan a proposito della famiglia? Per almeno due ragioni: in primo luogo, perché agli inizi dell’antropologia sociale (o culturale) egli afferma esplicitamente la pluralità delle forme familiari; in secondo luogo, perché proprio esaminando il modo in cui egli affronta questo tema potremo vedere come pure Morgan si lasci attrarre dall’idea che, tra le tante famiglie di cui l’etnologia può rendere con86
to, ce n’è una sopra le altre. Ovvero, molteplicità di famiglie sì, ma non tutte sullo stesso piano: una di queste si colloca su un piano diverso. Indoviniamo un po’ di quale famiglia si tratta: è la ‘nostra’ famiglia, la famiglia della civiltà moderna occidentale. Non è il caso di soffermarsi in maniera analitica su ognuna delle cinque forme di famiglia che Morgan dispone in una serie evolutiva: è sufficiente sottolineare che l’avvicinamento alla famiglia moderna è caratterizzato da un progressivo abbandono del carattere di gruppo e di promiscuità delle forme di famiglia più primitive (Morgan 1970: 297-380). In questa successione di stadi la famiglia poliginica, composta da un uomo e da più mogli, che Morgan identifica con la famiglia patriarcale, occupa il quarto posto. Il quinto, e provvisoriamente definitivo, è quello della famiglia monogamica, un tipo di famiglia che, secondo Morgan, «è stata insegnata dalla natura attraverso il lento sviluppo dell’esperienza delle varie epoche» che si sono succedute (1871: 469, corsivo nostro). Per questo suo carattere di ‘naturalità’, che la contraddistingue da tutte le forme precedenti, la famiglia monogamica svolge nella visione di Morgan un ruolo di grande e insostituibile stabilizzazione sociale. Secondo Morgan, lo sviluppo incontrollato della proprietà privata nella società moderna (questa «terribile passione») contiene in sé «elementi di autodistruzione», generando così uno stato di «dissoluzione della società» (Morgan 1970: 397 e 403). In questo quadro particolarmente drammatico, la famiglia monogamica è una delle poche istituzioni che fornisce garanzie di ordine, di stabilità, di solidarietà. Si comprende allora come per Morgan la famiglia monogamica rappresenti un «culmine», un «risultato terminale», verso cui l’intera umanità «ha costantemente teso», un’istituzione «unica» – pur nella molteplicità delle forme di famiglia –, che Morgan interpreta come la «cristallizzazione» del progresso e delle esperienze precedenti e su cui «la società moderna civilizzata è organizzata e riposa» (Morgan 1871: 493). Anche attraverso Morgan registriamo il fascino dell’unità sulla molteplicità, e ciò in un duplice senso: nel senso che ‘una’ famiglia svetta su tutte le altre (culmine, risultato terminale) e nel senso che questa famiglia svettante si basa, al suo interno, su un 87
rigoroso criterio di unità (a un marito corrisponde una sola moglie e viceversa: matrimonio monogamico). E dopo? In una visione di tipo stadiale (per non dire evolutivo), si pone il problema di eventuali forme successive. Se la monogamia è da intendersi come una sorta di conquista dell’umanità, è inevitabile chiedersi se essa rappresenti un risultato definitivo o se invece sia ipotizzabile qualche forma ulteriore. È interessante constatare come anche Friedrich Engels, il quale aveva utilizzato a piene mani il lavoro di Morgan, si ponga questo problema e offra lo stesso tipo di risposta: sia per Morgan sia per Engels, il futuro vedrà infatti un «ulteriore miglioramento» della monogamia, nel senso di una sempre più pronunciata «eguaglianza tra i sessi» (Morgan 1970: 370), ovvero un perfezionamento che sarà dato dal «far divenire effettivamente monogami gli uomini, piuttosto che nel far divenire poliandriche le donne» (Engels 1963: 109). Anche per Engels il progresso consiste in un aumento di ‘unità’, invece che in una concessione di ‘pluralità’: la monogamia, sorta secondo Engels non in base a schemi naturali, ma da condizioni storico-economiche, quelle del capitalismo, aveva visto infatti lo sfruttamento e il predominio dell’uomo sulla donna e, a vantaggio del marito, l’indissolubilità del matrimonio. «Spazzata via la produzione capitalistica», si potrà realizzare una più perfetta, coerente e rigorosa monogamia da parte di entrambi i coniugi. Sia Morgan sia Engels non escludono che in un futuro indefinibile possano emergere forme ancora diverse di famiglia; ma fin dove è possibile spingere lo sguardo del sapere antropologico, l’orizzonte che si prospetta è quello della famiglia monogamica, con tutti i suoi possibili e auspicati perfezionamenti. A parte la questione dell’indissolubilità del matrimonio, la cui abolizione Engels poneva tra i miglioramenti necessari e improcrastinabili della politica familiare, anche il gemello di Marx sembra dare, insieme a Morgan, una mano molto generosa a coloro che difendono questo ‘nostro’ tipo di famiglia, una forma che l’umanità, dopo lunghe vicissitudini, ha infine ‘scoperto’ come condizione naturale (Morgan) o che invece l’umanità, nella sua parte attualmente più avanzata – il capitalismo, la società 88
moderna –, ha infine ‘inventato’ (Engels). Ma l’antropologia non ha persistito nel voler perlustrare il futuro; si è limitata a guardare il presente. Solo che il presente dell’antropologia non è fatto soltanto dalla parte ‘più avanzata’ dell’umanità: le società che etnografi ed etnologi hanno studiato dal vivo e che una visione evolutivo-lineare alla Morgan si sarebbe ostinata a porre in un qualche stadio più o meno primitivo e quindi in un passato di arretratezza, entrano invece a comporre e articolare il ‘presente’. Gli etnografi mettono quindi in luce un presente estremamente vario e molteplice. L’idea dell’unità del presente (noi, moderni e civilizzati) cade a pezzi, così come va in rovina la concezione di un progresso unilineare dell’umanità (come è evidente anche qui l’ossessione unitaria: un’unica strada del progresso!). E la famiglia monogamica? Viene meno anche a questo proposito l’idea di un’esclusività: la monogamia non è più soltanto una faccenda di ‘noi, moderni e civilizzati’, una nostra conquista peculiare ed esclusiva. Nel presente che l’etnografia ci squaderna davanti agli occhi si vedono tante famiglie monogamiche distribuite un po’ in tutte le parti del mondo e presso molti tipi di società. Più particolarmente, la famiglia monogamica sembra emergere proprio in quei tipi di società dove la teoria stadiale di Morgan meno avrebbe potuto prevederne la ricorrenza, ossia nelle società di cacciatori e raccoglitori, da sempre considerate come le società più primitive e arretrate, più vicine ai primordi dell’umanità. Insomma, la famiglia monogamica non è soltanto nostra, non è una faccenda esclusiva della civiltà: la condividiamo persino con i più ‘primitivi’. Partiti dall’idea che la monogamia contribuisca a definire la nostra esclusività e la nostra superiorità, ci troviamo in qualche modo buttati a terra, sullo stesso piano di gente che non sa neanche coltivare i campi e allevare animali, che si sposta in continuazione alla ricerca di cibo in foresta o nei deserti, negli angoli più sperduti della terra. Almeno per quanto riguarda la famiglia, l’antropologia pare non offrire un bel servizio alla società che l’ha prodotta e finanziata. All’inizio, sembrava che l’antropologia avesse sostituito la filosofia della storia nella sua funzione di stabilizzazione della civiltà: noi, 89
posti al vertice di tutta una serie di stadi che conducono verso la modernità e la civiltà. Poco dopo l’antropologia, studiando un po’ più da vicino, e nel presente, i suoi (i nostri) primitivi (Our Primitive Contemporaries era uno dei primi libri di George Peter Murdock [1934]), ci fa ruzzolare da questa sommità, proprio su un tema a cui tenevamo tanto, quello della famiglia, e in particolare della famiglia monogamica. Lo stesso Murdock giunse però in soccorso ai difensori della famiglia, con un’operazione senza dubbio più raffinata di quella ottocentesca di Morgan o di Engels. L’operazione di Murdock si può descrivere come articolata in tre mosse. La prima è di natura terminologica: egli propone di utilizzare, come espressione di base, ‘famiglia nucleare’, piuttosto che famiglia monogamica. Come vedremo, la sostituzione dei termini ha una sua conseguenza concettuale e semantica di non poco conto: dire ‘famiglia monogamica’ significa evocare un’opposizione tipologica (oltre che ideologica) rispetto alla poligamia; usare invece il termine ‘nucleare’ ha il vantaggio di fare ricorso a un linguaggio più neutro e soprattutto di riferirsi ad aspetti strutturali. La seconda mossa consiste nella rinuncia all’esclusività: non possiamo più dire che la monogamia è una nostra conquista da civilizzati e da civilizzatori. La terza mossa – quella finale – è il guadagno dell’universalità: non della monogamia, ma della famiglia nucleare. Niente male per i difensori della famiglia, anche della ‘nostra’ famiglia, visto che, in quanto nucleare, è universale. Ma andiamo con ordine. Che cos’è una famiglia nucleare? Essa è un nucleo composto da marito, moglie e figli (o, se si vuole, da padre, madre e figli). È un’unità minima che, tuttavia, sotto il profilo strutturale, raggruppa tutti gli otto rapporti parentali di base: padre, madre, figlio, figlia, fratello, sorella, marito, moglie (Murdock 1971: 11). Per essere più precisi e, nello stesso tempo, più sintetici, questi otto rapporti di base possono essere raccolti entro le seguenti categorie, che si configurano come le dimensioni necessarie e indispensabili del nucleo: a) un rapporto orizzontale, di natura coniugale, e ovviamente eterosessuale; b) un rapporto verticale di filiazione (a prescindere dal sesso dei figli e dal loro numero); c) 90
un rapporto orizzontale di fratellanza (siblingship, per gli antropologi di lingua inglese) tra i figli, a prescindere dal loro sesso. Il nucleo si presenta quindi secondo questa forma tipica: G1
G0
dove indica il maschio, la femmina, un individuo ‘neutro’ (di cui non si intende precisare il sesso), il rapporto coniugale, | il rapporto di filiazione, il rapporto di fratellanza o siblingship, mentre G1 e G0 le due generazioni considerate. A ben vedere, solo le prime due dimensioni (coniugalità e filiazione) sono davvero indispensabili, poiché i figli possono anche ridursi a uno solo, il quale non avrebbe ovviamente rapporto di siblingship con alcun fratello. Ridotto all’osso, il nucleo più elementare è quindi il seguente: G1
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con l’avvertenza che, mentre il rapporto coniugale è fisso e non espandibile, il rapporto di filiazione può moltiplicarsi e quindi dilatare da zero a n i rapporti di fratellanza. In ogni società, tale nucleo assolve inoltre a quattro funzioni basilari e irrinunciabili: sessuale, riproduttiva, economica, educativa. Questo duplice carattere strutturale e funzionale della famiglia nucleare spiegherebbe la sua universalità: nessuna società – sostiene Murdock (1971: 17) – è mai riuscita a trovare un sostituto della famiglia nucleare, un nucleo così economico sotto il profilo sociale e così efficace quanto a funzionalità. Eppure, sono una minoranza le società che riconoscono in maniera e91
sclusiva (tale cioè da escludere altre forme) la famiglia nucleare; nella maggior parte delle società umane noi troviamo altri tipi di famiglia, come le famiglie poligamiche o le famiglie estese (Murdock 1971: 9-10). Come asserire allora l’universalità della famiglia nucleare? Qui viene fuori l’utilità del concetto di nuclearità. Se Murdock avesse parlato di famiglia monogamica, come famiglia di base, non avrebbe potuto spingersi ad affermare la sua universalità: sarebbe stato smentito dai fatti. Impostando invece la questione sul concetto di famiglia nucleare, egli individua un nucleo (composto – come si è visto – dagli otto rapporti di parentela basilari, riconducibili a tre o due categorie), il quale interviene in maniera costitutiva e riconoscibile in ogni altro tipo di famiglia più ampio e composito. La famiglia nucleare è così per Murdock un «atomo» sociale, il quale può presentarsi come «un’unità separata» (e questo avviene tipicamente nella nostra società) oppure può formare delle «molecole», allorché entra in aggregazione con altri atomi dello stesso genere (Murdock 1971: 23). E queste molecole coincidono con le due grandi categorie di famiglie ‘composite’, ossia da un lato le famiglie poligamiche e dall’altro le famiglie estese. In sostanza, che cos’è per Murdock una famiglia poliginica, dove troviamo un uomo come marito condiviso da una pluralità di mogli, ciascuna con i propri figli? Sotto il profilo strutturale e compositivo, non è altro che l’aggregazione di diverse famiglie nucleari, ognuna delle quali è riconoscibile sia sotto il profilo sociale (ogni moglie con i suoi figli), sia sotto il profilo abitativo (ogni nucleo ha per lo più la propria abitazione separata), e ogni nucleo è completato dalla presenza, per quanto temporanea, del marito-padre. Detto in altri termini, ogni nucleo conserva in sé i rapporti parentali di base, soltanto che i rapporti di padre e di marito sono intermittenti, dovendo essere distribuiti anche negli altri nuclei. Allo stesso modo, che cos’è per Murdock una famiglia patriarcale (tipico esempio di famiglia estesa)? È l’aggregazione, a livello molecolare, delle famiglie nucleari di vari fratelli, i quali sposandosi non costituiscono un nucleo familiare a sé, ma permangono, per così dire, sotto il tetto e l’autorità del padre, se non addirittura del nonno. 92
In tutte queste molecole è ben visibile – secondo Murdock – l’atomo della famiglia nucleare: un atomo indistruttibile, che non si spezza allorché entra in queste aggregazioni molecolari (qui non ci sono fenomeni di fusione o di fissione dell’atomo), di cui costituisce anzi l’elemento stabile, fondante, basilare. Murdock si è dimostrato uno strenuo difensore della famiglia, ma soprattutto della famiglia nucleare. Le famiglie composite infatti sorgono là dove si determinano particolari condizioni economiche e sociali, e certamente – sostiene Murdock – queste società sono la maggioranza. Ma le famiglie composite, sia quelle poligamiche, sia quelle estese, possono essere abbandonate e distrutte, allorché vengono meno i fattori che hanno spinto alla loro formazione. Questo non avviene per la famiglia nucleare: nonostante tutti «i tentativi utopistici di abolizione della famiglia», nessuna società sarà mai in grado di fare a meno della famiglia nucleare (Murdock 1971: 17). Pur presentandosi nella maggioranza delle società umane, le famiglie composite sono dunque storicamente revocabili, mentre la famiglia nucleare è strutturalmente irrinunciabile. È sufficiente mutare certe condizioni perché si rinunci a una famiglia composita; ma le condizioni che esigono o che impongono la famiglia nucleare sono permanenti, in quanto hanno a che fare con la strutturazione di qualsivoglia società umana. Ad averlo saputo, forse qualcuno al Family Day avrebbe potuto innalzare, tra gli altri, uno striscione inneggiante a Murdock o riportante alcune sue tesi. Ma, per onestà intellettuale, dobbiamo ammettere che non è solo Murdock a venire in soccorso o a dare man forte ai difensori nostrani della famiglia. I maggiori rappresentanti dell’antropologia culturale e sociale della prima metà del Novecento potrebbero essere convocati su questa linea di difesa. In fondo, Murdock ha avuto il grande merito di sistematizzare e stabilizzare, con il suo testo del 1949 (Social Structure), una tendenza assai pronunciata nell’antropologia a lui contemporanea, vale a dire l’affermazione dell’universalità della famiglia nucleare. Sono diverse le espressioni usate per designare questo tipo di famiglia: ‘individuale’, ‘coniugale’, ‘elementare’, ‘bilaterale’, prima che Murdock facesse valere la sua 93
scelta terminologica (‘nucleare’). Ma comunque venisse designata, per molti antropologi la famiglia nucleare occupava una posizione del tutto eccezionale rispetto agli altri tipi di famiglia. Robert H. Lowie, per esempio, pur appartenendo a un indirizzo antropologico che esaltava le differenze culturali sulle uniformità, affermava che «la famiglia individuale» risulta essere «un’unità sociale distinta dal resto della comunità» e che come tale essa è «onnipresente» (Lowie 1948: 67). Bronis¢aw Malinowski, a sua volta, non si limitava ad affermare che «l’indivisibile famiglia individuale spicca, in modo evidente, come un’unità sociale ben definita», ma si spingeva fino al punto di sostenere che la monogamia (e la famiglia individuale è necessariamente monogamica) è «il modello e il prototipo del matrimonio», che essa «è, è stata e rimarrà l’unico vero tipo di matrimonio» e che perciò «ovunque noi andiamo, troveremo sempre il nostro tipo di famiglia» (Malinowski 1929a: 404; 1929b: 950). A differenza di Morgan e di Engels, Lowie, Malinowski e Murdock non concepiscono la famiglia nucleare (e quindi monogamica) come una conquista storica, mediante cui la civiltà moderna e occidentale si distinguerebbe da tutte le altre società o culture, e quindi evitano di ingabbiare la molteplicità delle forme di famiglia in una serie di stadi, al culmine della quale vi sarebbe la ‘nostra’ famiglia. Compiono però anche loro un’operazione tale da rendere la famiglia nucleare diversa da tutte le altre: non una costruzione sociale da collegare a questo o quel periodo storico, a questa o quella cultura (come sarebbe il caso, per esempio, della poligamia), ma la base imprescindibile di qualsivoglia società. Questa impostazione è piuttosto tenace in antropologia: essa appare ancora in un testo importante di una trentina di anni fa (1976), in cui Jack Goody poneva a confronto le società africane, caratterizzate dalla poliginia e dalla cosiddetta ‘ricchezza della sposa’ (bridewealth), cioè i doni – spesso in bestiame – che vengono dati dalla famiglia dello sposo alla famiglia della sposa, e le società eurasiatiche, caratterizzate invece dalla monogamia e dall’uso della dote. Come Sylvia J. Yanagisako ha messo in luce molto bene nella sua critica a Goody, nel passaggio dal sistema ‘ricchezza della sposa’ al sistema ‘do94
te’ intervengono tutta una serie di trasformazioni radicali, di tipo economico, politico, sociale, domestico, e tuttavia per Goody «una cosa rimane costante: la famiglia nucleare è l’unità produttiva e riproduttiva di base della società» (Yanagisako 1979: 172; cfr. Goody 1979: 38). La critica della Yanagisako è molto illuminante e si attaglia molto bene al nostro discorso: dal momento che Goody scorge nella famiglia nucleare «l’unità di base» e «l’unità naturale» di qualsivoglia società, in ogni luogo e in ogni tempo, egli non avverte il problema di spiegarne l’emergenza storica come «unità socialmente e culturalmente significativa» (1979: 172-73). La famiglia nucleare viene quindi presupposta come un dato indiscutibile, come qualcosa che non esige di essere spiegato, ma come un fattore permanente che contribuisce semmai a spiegare altre formazioni domestiche. Questo ci consente di ritornare a Murdock e al suo privilegiamento della famiglia nucleare. Egli non si era infatti limitato a ribadire l’universalità della famiglia nucleare; aveva pure cercato di dimostrare come tutti gli altri tipi di famiglia (le famiglie poligamiche per un verso e le famiglie estese per l’altro) siano in realtà riconducibili alla famiglia nucleare e alle sue possibilità di combinazione. Nel combinarsi tra loro, questi atomi sociali – sostiene Murdock – seguono «proprie leggi naturali con una precisione poco meno stupefacente» di quella che possiamo riscontrare nella chimica o nella biologia (1971: 158). Grazie alla famiglia nucleare, Murdock ritiene quindi di poter proporre tutto un mondo ordinato e in fondo chiuso, dove non v’è posto per stranezze e anomalie e dove tutte le possibili configurazioni familiari riscontrabili dall’etnografia risultano risolvibili in una qualche combinazione del nucleo originario. Il risultato che ne scaturisce è una gabbia assai più ferrea e miope di quella predisposta dagli antropologi dell’Ottocento. Gli uni e gli altri (gli antropologi dell’Ottocento e gli antropologi alla Murdock) hanno cercato di ingabbiare la molteplicità delle forme di famiglia; ma la gabbia di Murdock è senza tempo, mentre quella di Morgan ed Engels è costruita sul tempo (sia pure su un’unica direzione temporale). Questo produce una bella differenza: mentre per Murdock la famiglia nucleare è presente ovunque e con le sue 95
combinazioni si dimostra in grado di spiegare qualsiasi forma ulteriore di famiglia, per Morgan ed Engels i vari tipi di famiglia vanno concepiti come il prodotto di diverse formazioni sociali e, in particolare, «la famiglia nel senso moderno del termine [...] è qualcosa che emerge non nelle caverne dell’Età della Pietra, ma in formazioni sociali complesse, governate dallo Stato» (Collier, Rosaldo, Yanagisako 1997: 76). Ma c’è di più. Proprio perché costruita sul tempo (sia pure – lo ripetiamo – un tempo unilineare), la gabbia di Morgan ed Engels presenta un’apertura sul lato del futuro (dopo la famiglia monogamica, non è affatto escluso che altri tipi di famiglia possano sorgere, anche se non possiamo prevederli), mentre quella di Murdock e dei sostenitori dell’universalità strutturale della famiglia nucleare è una gabbia chiusa su ogni lato. Invocando la famiglia nucleare, Murdock appare quindi come un grande stabilizzatore, e ciò in un duplice senso: stabilizzatore sul piano sociale, avendo trovato il nucleo irrinunciabile e duraturo di ogni organizzazione sociale, e stabilizzatore del sapere antropologico, avendo pensato che con l’analisi delle combinazioni e delle permutazioni di quel nucleo l’antropologia raggiunge una solidità epistemologica paragonabile a quella delle scienze naturali. Curiosamente, con il suo scientismo, positivismo, strutturalismo, l’antropologia di Murdock avrebbe potuto dare un sostegno vigoroso ai difensori della famiglia, dimostrando che ciò che essi difendono è davvero universale, in quanto è alla base di ogni società. In cambio, avrebbe forse chiesto di estendere un po’ di più il sapere antropologico relativo alle famiglie. Ce ne sono diverse, diversamente congegnate e non sono – questo no! – contro natura: sono semplicemente combinazioni diverse dell’intramontabile famiglia nucleare. Peccato che questo programma scientifico così rassicurante sia invece tramontato (come lo stesso Murdock ammise verso la fine della sua carriera [Murdock 1972; Remotti 1986: 270-73]), e nessun antropologo oggi se la sentirebbe di ripresentarlo alla comunità scientifica, se non a insaputa (il che è sempre possibile) di chi scrive.
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Somiglianze di famiglia
La difesa della famiglia (monogamica, nucleare, quella composta da un uomo, da una donna e dai loro figli) non è una questione solo italiana e vaticana. Anche dall’altra parte dell’Atlantico si avverte l’esigenza di correre in difesa di ciò che viene considerato come un nucleo intoccabile. George W. Bush, l’attuale presidente degli Stati Uniti d’America, impegnato nella sua seconda campagna elettorale, il 24 febbraio 2004 propone niente di meno che un emendamento della Costituzione – procedura tutt’altro che semplice – in modo da restringere in maniera inequivocabile la nozione di matrimonio all’«unione di un uomo e di una donna come marito e moglie» e così impedire che si possa arrivare al riconoscimento di matrimoni tra persone dello stesso sesso. Per Bush, la famiglia composta da un uomo come marito, da una donna come moglie e dai loro figli (cioè la tipica famiglia nucleare, quale abbiamo raffigurata con un diagramma nel cap. 7), rappresenta «la più durevole istituzione umana», un’istituzione che ha «radici culturali, religiose e naturali», «onorata e incoraggiata in tutte le culture e da tutte le fedi religiose». Si tratta per Bush di «definire e proteggere» questa famiglia – anche a livello di Costituzione – contro gli attacchi che alcuni giudici e certe autorità locali hanno la temerarietà di portare, nella misura in cui legalizzano forme di matrimonio, in particolare le unioni omosessuali, che costituiscono una vera e propria «minaccia per la civiltà». Le dichiarazioni di Bush sono facilmente rintracciabili sul seguente sito di Internet: Bush calls for ban on same-sex marriages, http://www.cnn.com/2004/ALLPOLITICS/02/24/elec04.prez.bush.marriage/. Altrettanto facile è reperire la pronta risposta dell’American Anthropological 97
Association (Statement on marriage and the family from the American Anthropological Association, http://www.aaanet.org/ press/ma_stmt_marriage.htm.) del 25 febbraio 2004, dove si legge che «i risultati di oltre un secolo di ricerca antropologica su gruppi domestici, relazioni di parentela e famiglie» non forniscono alcun sostegno all’idea che la civiltà o l’ordine sociale dipendano dal matrimonio come istituzione esclusivamente eterosessuale, ma portano invece a concludere che «una vasta gamma di tipi di famiglia, comprese famiglie basate su unioni omosessuali, possono contribuire a società stabili e umane». Come si vede, la più grande associazione di antropologi al mondo ha espresso una presa di posizione immediata in cui sono individuabili almeno i seguenti aspetti: a) la rivendicazione di un sapere antropologico, costruito su «oltre un secolo di ricerche», contro le certezze sbandierate da autorità politiche o religiose; b) la sottolineatura dell’esistenza di una molteplicità di «tipi di famiglia», senza che si individui in essa una famiglia più elementare (o nucleare) e per ciò stesso universale; c) l’affermazione che anche tipi di famiglie diversi da quelle che si intendono difendere – e in particolare le unioni omosessuali – possono contribuire a rendere più «stabili e umane» le società di appartenenza. Noi qui, però, non possiamo limitarci a una dichiarazione, e dobbiamo quindi riprendere il nostro discorso, quale è stato avviato nei capitoli 6 e 7, cercando – ed è l’obiettivo di questo capitolo 8 – di comporre un quadro tematico in cui raccogliere le indicazioni più importanti che ci sembrano provenire dalle ricerche e dalle analisi antropologiche. Abbiamo già svolto, almeno in parte, questo compito in una recente pubblicazione (Viazzo, Remotti 2007); qui cercheremo di indirizzare più chiaramente il nostro pensiero verso il dibattito assunto come oggetto delle nostre riflessioni critiche. Per fare questo, cerchiamo di recuperare gli esiti dei capitoli precedenti e di riavviare il discorso con una proposta argomentativa dotata di un suo specifico valore epistemologico. Il punto da cui ripartire è la critica antropologica dell’universalità della famiglia nucleare. Dubbiosi che la famiglia nucleare sia davvero universale e quindi reperibile e riconoscibile 98
in ogni tipo di formazione familiare o di gruppo domestico, alcuni antropologi hanno provato a elementarizzare ancor più il nucleo di Murdock, sfrondandolo del rapporto coniugale ( ). Diverse testimonianze etnografiche hanno infatti posto in luce formazioni familiari in cui il marito/padre è del tutto o quasi assente. Il nucleo risulta in tal modo ridotto alla dimensione procreativa (|), cioè al rapporto di filiazione intercorrente tra madre e figli (eventualmente accompagnato da un rapporto di fratellanza, ): G1
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Spesso queste formazioni vengono concepite come dovute a processi di disgregazione sociale (tipici delle baraccopoli latinoamericane o africane), e per questo motivo vengono chiamate da alcuni ‘famiglie imperfette’, oltre che ‘matrifocali’ (Arioti 2006: 146). Ma per altri proprio il degrado sociale presenta il vantaggio epistemologico di fare emergere il nucleo più elementare, la struttura davvero irrinunciabile e dunque permanente. È il caso di Ward H. Goodenough (1970) e di Robin Fox (1973), i quali concepiscono la famiglia nucleare così ridotta, ovvero costituita da una donna e dai suoi figli, come un gruppo presente in tutte le società umane: Il gruppo sociale irriducibile ed elementare è sicuramente rappresentato dalla madre e dai suoi figli. Qualunque cosa accada, questa unità deve sopravvivere perché la specie sopravviva. [...] L’unità basilare è la madre e il suo figlio, in qualunque modo ella sia stata fecondata. Che un uomo si associ alla madre su una base più o meno permanente è un aspetto variabile (Fox 1973: 45 e 47).
Fox considera «un aspetto variabile» la presenza di un uomo come marito, e Goodenough (1970) dal canto suo aumenta questo senso di variabilità, facendo presente un’ulteriore possibilità 99
di aggregazione: non soltanto quella di un eventuale coniuge, ma in alternativa l’aggregazione di fratelli e sorelle, da cui si originerebbero le cosiddette ‘famiglie consanguinee’. Che il nucleo nella sua forma più elementare venga concepito come necessariamente dotato del rapporto coniugale (Murdock) o che invece il rapporto coniugale sia considerato come aggiuntivo e aleatorio, per quanto importante esso possa essere (Fox, Goodenough), l’impostazione rimane però la stessa: quella cioè che sostiene la presenza di un nucleo irrinunciabile, di un atomo costitutivo, insostituibile, onnipresente, il quale consente in definitiva di fissare confini chiari e inequivocabili, di stabilire che cosa è e non è una famiglia, qualunque forma essa assuma, dalla più elementare, e naturale (quella coincidente con i legami di procreazione), alla più composita e culturalmente costruita. L’antropologia più recente ha però rinunciato alla definizione della famiglia sulla base di un nucleo universale. Nel 1979 Sylvia J. Yanagisako sosteneva infatti che era ormai tempo di «abbandonare la nostra ricerca di un nocciolo irriducibile della famiglia e di una sua definizione universale» (1979: 200). Perché mai? Perché l’individuazione di un nocciolo irriducibile è un’operazione pur sempre arbitraria e – come avremo modo di vedere più avanti – presenta l’enorme svantaggio epistemologico di ‘sbattere fuori’ dal recinto ‘famiglia’ una serie di soluzioni, trattate come ‘anomalie’, ‘errori’, ‘eccezioni’, e che invece esigono di essere prese in considerazione, perlomeno sotto il profilo antropologico. Riconoscere un principio di base, come il principio 1 di Fox, secondo cui «le donne generano i figli» (1973: 39), e ammettere che i nuclei matrifocali siano applicazioni ed estensioni di questo principio, può essere utile, forse, per illustrare il grado di riduzione e di impoverimento tipico delle situazioni di degrado a cui si è fatto cenno, ma non ci fa compiere passi decisivi per comprendere la molteplicità di forme e l’articolazione di significati che l’universo delle famiglie è in grado di offrirci. In vista dell’intreccio di forme e di significati, è un altro l’approccio che l’antropologia oggi ritiene di dover perseguire. Come avremo modo di vedere, è impossibile 100
considerare i vari tipi di famiglie come la mera combinazione di nuclei, comunque essi vengano intesi. Tuttavia, si fa presto a dire: rinunciamo alla ricerca di un nucleo universale. Quali sono infatti le conseguenze sul piano antropologico? Il rischio è che la molteplicità (in questo caso, delle forme di famiglia) diventi anarchia e che le competenze antropologiche nel campo considerato si riducano a essere uno smontaggio delle categorie usate sia dal senso comune, sia da autorità politiche e religiose, sia infine dagli stessi antropologi. Il rischio – diciamo subito – è quello di incappare in quella sorta di ‘nichilismo’ che Benedetto XVI e tutti i suoi seguaci considerano come la deriva inevitabile di un’impostazione relativistica. Che cosa sono capaci di fare gli antropologi, a proposito della famiglia? Semplicemente di distruggere l’idea dell’universalità e della naturalità della famiglia nucleare (tanto nella versione Murdock quanto in quella Fox)? Di dimostrare per un verso come l’idea stessa della ‘famiglia’ sia un prodotto storico, collegato al nostro tipo di società, ovvero la costruzione di un ambito privato in opposizione alla sfera del mercato e dello Stato, e come, per un altro verso, vi siano società che non dispongono di una categoria corrispondente a ‘famiglia’ (Collier, Rosaldo, Yanagisako 1997: 73)? Ribadiamo qui quanto già sostenuto di recente, e cioè che se si dovesse chiamare a una tavola rotonda di esperti sulla famiglia anche un antropologo, probabilmente questi sarebbe l’esperto con maggiori dubbi e incertezze: il rischio di fare una figura di scarsa competenza, di fronte alle certezze di alcuni e ai risultati di altri (demografi, sociologi, psicologi, giuristi, storici e così via), è piuttosto elevato (Viazzo, Remotti 2007: 45). Messo di fronte alla necessità di proporre una qualche definizione di famiglia, l’antropologo che rinunci all’idea di un nucleo sostanziale e universale che cosa fa, che cosa si riduce a fare? Rispetto a tutti gli altri esperti, che in qualche modo scelgono e delimitano un ambito sociale o un periodo storico, l’antropologo ha l’incombenza – questa sì, irrinunciabile – di praticare un ‘giro più lungo’ (Kluckhohn 1979; Remotti 1990), di imbattersi in una molteplicità che occorre in una certa misura padroneggiare o in cui occorre orientarsi, se non si 101
vuole che il discorso termini fin dall’inizio e si perda in un’accozzaglia di casi strani e senza senso. Che cosa fa, dunque, l’antropologo, a cui si richieda di dire qualcosa di sensato sul tema ‘famiglia’, specialmente se messo di fronte a coloro che non hanno esitazione a definire la famiglia in maniera sicura, su basi naturali e con pretese universali? A rischio di ripeterci (un rischio che corriamo solo nei confronti di coloro che abbiano già letto pubblicazioni precedenti a cura di chi scrive), noi pensiamo che, sollecitato a dare un’idea di famiglia, l’antropologo farebbe bene a cominciare a snocciolare vari esempi e a dire: «questa, e simili cose, si chiamano ‘famiglie’». Come diversi lettori avranno subito intuito, l’impostazione che qui si vuole adottare per descrivere antropologicamente le famiglie (per dare un’idea antropologica della famiglia), è quella che Ludwig Wittgenstein aveva proposto per illustrare il concetto di numero e, in maniera più esemplificativa, quello di gioco. L’impostazione – si sa – è quella delle ‘somiglianze di famiglia’; e noi utilizzeremo questa impostazione proprio per spiegare che cosa si intenda, o si possa intendere, per ‘famiglia’. Come faremo allora a spiegare a qualcuno che cos’è un giuoco [una famiglia]? Io credo che gli descriveremo alcuni giuochi, e poi potremmo aggiungere: «questa, e simili cose, si chiamano ‘giuochi’». E noi stessi, ne sappiamo di più? Forse soltanto all’altro non siamo in grado di dire esattamente che cos’è un giuoco? – Ma questa non è ignoranza. Non conosciamo i confini perché non sono tracciati (Wittgenstein 1980: 48).
Wittgenstein dà una mano davvero preziosa all’antropologo. Pur senza riferirsi alla ricerca dell’antropologo, egli da filosofo capisce lo sgomento iniziale di chi, diffidando delle definizioni altrui, si trova costretto a sua volta a dare una definizione accettabile di famiglia. L’antropologo non se la sente di condividere la sicurezza di coloro che, senza pensarci troppo, generalizzano il proprio tipo di famiglia (quello presente di solito nella propria società): «Tutti sanno – o credono di sapere – cos’è la famiglia», e questa certezza – ci spiega Françoise Héritier con un’argomentazione che rievoca il nostro Montaigne (cfr. cap. 2) – pro102
viene dal fatto che la famiglia «è iscritta in modo talmente forte nella nostra pratica quotidiana da apparire a ciascuno di noi come un fatto naturale e, per estensione, universale» (Héritier 1979: 3). L’antropologo si trova pure nella condizione di dover rinunciare all’impostazione di Murdock (come pure di Fox o di Goodenough), quella cioè di disporre di un nucleo universale, di un quid sostanziale che avrebbe la capacità di ‘definire’ preventivamente e in maniera inequivocabile che cosa sia e che cosa non sia ‘famiglia’. L’antropologo si trova nella situazione descritta da Wittgenstein (1980: 46): Non dire: «Deve esserci qualcosa di comune a tutti, altrimenti non si chiamerebbero ‘giuochi’ [famiglie]» – ma guarda se ci sia qualcosa di comune a tutti. Infatti, se li osservi, non vedrai certamente qualche cosa che sia comune a tutti, ma vedrai somiglianze, parentele, e anzi ne vedrai tutta una serie. Come ho detto: non pensare, ma osserva!
L’invito a osservare, piuttosto che a elaborare in anticipo un concetto da proiettare sull’esperienza, va molto d’accordo con il lavoro dell’antropologo, il quale antepone la ricerca sul campo e persino l’esperienza vissuta all’elaborazione teorica. Beninteso, l’antropologo sa che non si parte mai del tutto sprovveduti; sa anche però che l’esperienza etnografica ha la capacità di indurre modificazioni negli apparati concettuali di partenza e persino negli schemi base di cui è impregnata la sua esistenza (Piasere 2002). Il lavoro dell’antropologo è quindi lungo e anzi interminabile, così come interminabile è l’esperienza su cui si fonda. Se davvero egli disponesse di un nucleo universale mediante cui definire la famiglia – ogni tipo di famiglia –, l’esperienza etnografica potrebbe concludersi in breve tempo. In mancanza di questo quid sostanziale, l’antropologo si mette a tessere dei fili, che lo conducono da caso a caso: costruisce non una tipologia di famiglie, ma una rete di connessioni, mediante cui forme diverse di famiglia si collegano sotto molteplici punti di vista. L’esperienza non si limita affatto a portare altri materiali di conferma, con cui illustrare i tipi di famiglie; al contrario, ogni nuova esperienza induce modifiche nella rete di con103
nessioni, facendo balenare nuovi aspetti, nuovi temi, nuove possibilità di collegamento. Una teoria della famiglia che attraversa lentamente, persino con fatica, l’esperienza; una teoria inoltre che non sovrasta l’esperienza, e che invece si lascia modificare dalle nuove osservazioni, dall’analisi dei casi che via via vengono presi in considerazione: questa è l’impostazione che ci pare possa essere accreditata all’antropologia della famiglia. Non c’è sicurezza; non ci sono certezze; c’è invece un prolungato lavorio di raccordo, di annodamento dei fili, un costante fare e rifare. Veder somiglianze emergere e sparire. E il risultato di questo esame suona: Vediamo una rete complicata di somiglianze che si sovrappongono e si incrociano a vicenda. Somiglianze in grande e in piccolo. [...] Non posso caratterizzare queste somiglianze meglio che con l’espressione ‘somiglianze di famiglia’; infatti le varie somiglianze che sussistono tra i membri di una famiglia si sovrappongono e si incrociano nello stesso modo [...] – E dirò: i ‘giuochi’ [per noi, le famiglie] formano una famiglia (Wittgenstein 1980: 47).
In questo insieme non c’è la certezza che verrebbe data dalla presenza rassicurante di un quid sostanziale (il nucleo di Murdock o quello di Fox e di Goodenough), il quale avrebbe il merito di decidere ciò che appartiene e ciò che non appartiene al concetto di famiglia. La rete che faticosamente si viene a costruire non vanta una stabilità inoppugnabile e assoluta; conosce però le sue stabilizzazioni. Con la rete di connessioni si forma un concetto di famiglia, fatto di casi o di forme molteplici, i quali si richiamano gli uni gli altri e possono essere variamente collegati tra loro: un concetto i cui confini non sono stabiliti per natura, ma sono dilatabili e perciò stesso sfumati. Due dimensioni sono presenti in questa epistemologia di Wittgenstein: la prima riguarda i collegamenti tra i casi, ovvero i fili della rete; la seconda concerne invece i suoi confini. Non potendosi ridurre a un ruolo meramente passivo di fornitrice di materiali etnografici, l’esperienza fa sì che l’intreccio sia continuo e che dunque 104
il concetto di famiglia subisca dilatazioni più o meno importanti e significative. Perché chiamiamo una certa cosa ‘numero’ [famiglia]? Forse perché ha una – diretta – parentela con qualcosa che finora si è chiamato numero [famiglia]; e in questo modo, possiamo dire, acquisisce una parentela indiretta con altre cose che chiamiamo anche così. Ed estendiamo il nostro concetto di numero [famiglia] così come, nel tessere un filo, intrecciamo fibra con fibra. E la robustezza del filo non è data dal fatto che una fibra corre per tutta la sua lunghezza, ma dal sovrapporsi di molte fibre l’una all’altra. Se però qualcuno dicesse: «Dunque c’è qualcosa di comune a tutte queste formazioni [...]» – io risponderei [...]: un qualcosa percorre tutto il filo – cioè l’ininterrotto sovrapporsi di queste fibre (Wittgenstein 1980: 47).
La mano preziosa di Wittgenstein consiste nel farci capire che, in assenza della certezza fornita dal quid sostanziale, non c’è il baratro (il nichilismo paventato dai detrattori del relativismo e del ‘giro più lungo’): non c’è certezza, ma c’è una possibile ‘robustezza’, che è data dall’intrecciarsi delle fibre; e non ‘una’ fibra che percorre tutto il filo (la famiglia nucleare o la famiglia matrifocale), bensì una molteplicità di fibre, che pur non essendo lunghe quanto il filo, pur interrompendosi, si intrecciano di continuo tra loro. Dove portano queste fibre? Vi è un confine oltre il quale non è più lecito o non è più possibile intrecciare fibre? Wittgenstein ci dice che in fondo dipende da noi. Siamo noi che possiamo decidere che ‘questa’ è la famiglia (e per giunta la famiglia naturale) e che tutte le altre forme non sono famiglia, oppure sono famiglie di altro ordine, ‘imperfette’ o ‘snaturate’. Siamo noi che decidiamo se trattare la famiglia (il gioco, il numero) come un concetto aperto, a cui si possono aggiungere ulteriori esemplificazioni, o come un concetto chiuso, tale da comprendere alcuni casi ‘leciti’ (se non addirittura uno soltanto), abbandonando fuori dal recinto un numero indeterminato di ‘errori’, ‘eccezioni’, ‘deviazioni’. 105
È vero che posso imporre rigidi confini al concetto ‘numero’ [famiglia], posso cioè usare la parola ‘numero’ per designare un concetto rigidamente delimitato; ma posso anche usarla in modo che l’estensione del concetto non sia racchiusa da alcun confine. E proprio così usiamo la parola ‘giuoco’ [famiglia]. Infatti, in che modo si delimita il concetto di giuoco [famiglia]? Che cosa è ancora un giuoco [famiglia] e che cosa non lo è più? Puoi indicare i confini? No. Puoi tracciarne qualcuno, perché non ce ne sono di già tracciati (Wittgenstein 1980: 47-48).
Wittgenstein ci fa capire che con la faccenda dei confini ci assumiamo sempre una grossa responsabilità: sul piano epistemologico e antropologico, e sul piano morale. Siamo ‘liberi’ di decidere dove porre i confini dei nostri concetti, e in questo modo decidere come trattare noi e gli altri, le nostre scelte e le scelte altrui. Se decidiamo che i confini del concetto di ‘famiglia’ corrono lungo il perimetro della ‘nostra’ famiglia (quella prevalente nella nostra società), le conseguenze sul piano epistemologico, antropologico e morale sono più che evidenti: le ‘altre’ famiglie cadono in un vuoto concettuale, in un ambito oscuro, fatto di errori e di superstizioni o – per essere un po’ più tolleranti – di stranezze e di bizzarrie senza troppo senso. Ha senso però un concetto ‘aperto’, un concetto di famiglia in cui non è ben chiaro che cosa sia e che cosa non sia famiglia? Per Wittgenstein ha senso; e riteniamo che abbia senso anche per l’antropologia che, in modo esplicito o implicito, si ispira alle sue riflessioni. Anche concetti dai confini così sfumati possono funzionare in antropologia; anzi, hanno il pregio di farci capire meglio il senso della complessità del reale per un verso e, per l’altro, la convenzionalità e l’arbitrarietà delle decisioni che assumiamo in merito ai confini. Il grande pregio di questi concetti in antropologia è dunque non soltanto quello di orientarci in qualche modo nel reale, ma di portare l’attenzione anche verso le scelte che compiamo per costruirli: essi ci trasmettono informazioni sulla realtà (informazioni parziali e relative) e, nello stesso tempo, sui presupposti che ispirano le nostre rappresentazioni. Da un lato, Wittgenstein infatti si chiede: «spesso non è proprio l’immagine sfocata ciò di cui abbiamo bisogno?» 106
per trasmettere l’idea della complessità del reale (1980: 49). Dall’altro, egli sfrutta il punto di vista di Gottlob Frege, secondo cui un concetto (per esempio il concetto di famiglia) è paragonabile a un’area, ma sostiene – contro Frege – che anche un’area non chiaramente delimitata può esserci utile. L’importante è rendersi conto del confine più o meno provvisorio che intendiamo tracciare, del punto fino a cui riteniamo che l’areaconcetto (quella di famiglia, nel nostro caso) possa dilatarsi: Frege paragona il concetto con un’area e dice: un’area non chiaramente delimitata non può neppure chiamarsi un’area. Questo vuol dire, forse, che non possiamo farne nulla. – Ma è privo di senso il dire: «Fermati più o meno lì!»? Immagina che io mi fermi con un’altra persona in un certo posto e lo dica. Dicendolo non traccerò nessun confine, ma forse farò un movimento indicatore con la mano – come per indicargli un punto determinato. E proprio così si può spiegare che cosa sia un gioco [una famiglia] (Wittgenstein 1980: 49).
Wittgenstein ci spiega dunque cosa può fare un antropologo alle prese con il concetto di famiglia: le sue incertezze, il senso della molteplicità e della complessità, le sfumature dei confini e, nello stesso tempo, la provvisorietà del suo indicare fin dove ci si può spingere nel definire l’area concettuale che ci interessa. Wittgenstein dà una mano preziosissima nel togliere l’antropologo dal suo imbarazzo iniziale: l’esperto più insicuro e incerto tra tutti gli esperti di famiglia è infatti colui che non soltanto dice agli altri che le forme di famiglia sono tante, e che è difficile raccapezzarsi in questa molteplicità, ma – in più – sostiene che è importante rendersi conto delle scelte mediante cui delimitiamo l’area delle famiglie, dei motivi che ci spingono a dire che questa è ancora una famiglia, mentre «la tal cosa difficilmente si potrebbe chiamare giuoco [famiglia]» (Wittgenstein 1980: 51). «Che cosa vuol dire: sapere che cos’è un giuoco [una famiglia]?». Vuol dire non soltanto avere un’idea dei molteplici giochi possibili, delle possibili conformazioni di famiglie, ma avere anche un’idea dei motivi (culturali, ideologici, epistemologici) per cui riteniamo che queste sono famiglie a pieno titolo, queste altre lo sono assai di meno e queste non lo sono affatto. Sul107
la famiglia (come su tanti altri argomenti), l’antropologo è l’esperto che interviene per ultimo, consapevole che il suo sapere relativo alla famiglia deve comprendere non solo le famiglie, ma anche i modi mediante cui noi e gli altri ‘decidiamo’ che cosa esse siano.
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Quanti coniugi?
1. La poliginia, che cos’è? E adesso inoltriamoci nel territorio delle famiglie, senza chiederci per ora quali siano – o meglio, quali intendiamo che siano – i confini di questo territorio (come avremo modo di constatare, questo avvertimento ci tornerà utile e ci riserverà qualche sorpresa). Ci inoltreremo in quest’area, provando a tessere dei fili, a costruire una rete di connessioni, ben consapevoli della sua provvisorietà e aleatorietà. Cominceremo questo cammino, scegliendo per ora un tema che ci consentirà di intrecciare molti fili e di transitare quindi attraverso molti tipi di famiglie. Il tema che scegliamo è un criterio quantitativo: da quanti coniugi una famiglia può essere composta? Abbiamo già visto che – a prescindere dalle opzioni epistemologiche di Fox e di Goodenough a favore della nozione di ‘nucleo’ – vi possono essere ‘famiglie’ anche dove non sono presenti ‘coniugi’. Ce la sentiamo di definire famiglie questi gruppi, alla cui base non c’è un matrimonio o, se pure vi è stato, esso non ha retto alle pressioni sociali ed economiche (il marito se n’è andato, ‘liberando’ – è proprio il caso di dire – la donna dal peso di un’altra bocca da sfamare)? Gli antropologi a questo proposito parlano di ‘famiglie matrifocali’, suggerendo così di dilatare i confini della famiglia fino a comprendere quelle situazioni in cui è assente il rapporto coniugale ( ), mentre rimane invece il rapporto di filiazione (|). Qui, come si vede, non ci sono coniugi, forse neppure un matrimonio; eppure c’è una famiglia. Abituati come siamo a considerare soltanto le famiglie nucleari, occorre fare un certo sforzo per rendersi conto che il rap109
porto coniugale, se da un lato può ridursi a zero, dall’altro può aumentare di molto, sia sul versante maschile, sia su quello femminile. Famiglie con tanti coniugi si chiamano ‘poligamiche’, intendendo che un Ego maschile può avere contemporaneamente più mogli (poliginia) e un Ego femminile può avere allo stesso modo più mariti (poliandria). Un qualsiasi manuale di antropologia, pressoché obbligato a illustrare questi diversi tipi di famiglia, è pure portato ad affermare che «la maggioranza delle società al mondo ammette la poliginia» (Schultz, Lavenda 1999: 252); e questa è in effetti l’opinione più consolidata tra gli antropologi: «nelle culture umane, è la monogamia che è rara, mentre è comune la poliginia» (Goody 1979: 81). Talvolta, si ha quasi l’impressione che si tratti di un ritornello, di una sorta di luogo comune che rimbalza da un manuale all’altro. E invece, pare proprio di poter affermare che la poligamia (soprattutto nella versione della poliginia) conosca una grande diffusione sotto il profilo antropologico. Se si considerano le mappe di distribuzione della poliginia a livello mondiale (White 1988: 553), vediamo che sia nel Vecchio Mondo sia nel Nuovo Mondo la poliginia è ampiamente rappresentata e che essa riguarda non soltanto società sufficientemente stratificate sotto il profilo economico e sociale (come è il caso di molte società africane), ma persino società di cacciatoriraccoglitori (come avviene tra gli Aborigeni australiani). Per cominciare a orientarci nel mondo assai variegato della poliginia, White propone due modelli, nel primo dei quali – tipico del Vecchio Mondo – l’aumento del numero delle mogli è, nello stesso tempo, segno e fattore di ricchezza, mentre il secondo – tipico del Nuovo Mondo – vede prevalere la poliginia sororale. Il primo modello è soprattutto caratterizzato da una consistente autonomia da parte di ognuna delle mogli, dotata di un proprio nucleo abitativo insieme ai figli, mentre il secondo modello conosce una maggiore collaborazione all’interno del gruppo delle sorelle raccolte in un’unica abitazione. Nel primo modello emerge quindi una rilevante competizione tra le mogli, mentre il secondo sarebbe contrassegnato da una significativa solidarietà interna. E tuttavia anche nel caso del primo modello – prevalente in 110
Africa – è abbastanza facile notare che pure le donne traggono beneficio da una maggiore ricchezza del marito, nonché dalla collaborazione e dall’aiuto reciproco che possono scaturire dai rapporti tra le co-mogli tanto nei lavori domestici e nell’educazione dei figli, quanto negli affari economici e commerciali in cui risultano spesso impegnate. A questi fattori occorre aggiungere la partecipazione delle donne (con la possibilità persino di opporre dei veti) alle scelte coniugali dei mariti e quindi la possibilità di ottenere collaboratrici più giovani, sulle quali esercitare una considerevole autorità. Tutto ciò spiega perché una netta maggioranza di donne yoruba intervistate negli anni Settanta del Novecento avesse espresso un atteggiamento positivo nei confronti della poliginia (Meekers, Franklin 1995: 315). Certo, la poliginia dà luogo a gruppi domestici dove la gelosia può essere di casa, riducendo quindi la collaborazione e aumentando la competizione. Significativamente, i termini con cui vengono designate le co-mogli traducono spesso questa situazione di disagio: tra i Luo del Kenya una co-moglie è designata con il termine nyieka (mia partner in gelosia), tra gli Hausa della Nigeria kishiya (gelosia), tra gli Yoruba orogun (rivale, competitrice) e così via (Meekers, Franklin 1995: 316). Lo stesso significato di ‘rivali’ ha il termine per le co-mogli (tsarot) in ebraico, aramaico e arabo (Friedman 1982: 54). Occorre pure ammettere che le interviste condotte tra le donne kaguru nei primi anni Novanta del Novecento, a cui fanno riferimento Dominique Meekers e Nadra Franklin, trasmettono un atteggiamento negativo delle donne nei confronti della poliginia. Ma è importante rendersi conto che nel contesto specifico dei Kaguru della Tanzania, caratterizzato da una rilevante scarsità di risorse, ogni nuovo matrimonio da parte del marito (dalle cui scelte e decisioni le mogli sono escluse) si traduce inevitabilmente in una riduzione di disponibilità e di ricchezza e dunque in un aumento di competizione tra le co-mogli, senza contare l’opposizione alla poliginia esercitata dalla Chiesa cristiana e dallo Stato (Meekers, Franklin 1995: 316 e 326). In effetti, come qualsiasi altra configurazione familiare, la poliginia è fortemente condizionata da tutto un complesso di fattori, una parte dei quali gioca a favore (e spiega la sua grande 111
diffusione a livello mondiale), mentre un’altra parte spinge verso il suo declino nel mondo contemporaneo. Tra i fattori che possono indurre forme di poliginia occorre registrare in primo luogo l’emergere di certe differenze sia di ordine sociale ed economico, sia di ordine demografico: leader, sciamani, cacciatori, uomini ricchi e di status più elevati dispongono in genere di maggiori risorse per ottenere più mogli; nello stesso tempo, una maggiore mortalità maschile (per guerre o tipi di lavoro pericolosi) o l’assenza prolungata per lavoro possono generare squilibri nel rapporto demografico tra maschi e femmine, tale da suggerire come soluzione la poliginia. Ma la poliginia non è soltanto segno di differenze o una risposta a situazioni di squilibrio preesistenti; la poliginia agisce essa stessa sul corpo sociale, accrescendo – là dove vi è disponibilità di terra, di bestiame e in generale un più ampio accesso alle risorse – ricchezza, prestigio sociale, e dunque differenze. Jack Goody (1979) e Ester Boserup (1982) hanno dimostrato la connessione tra la poliginia, la valorizzazione del contributo alla sussistenza da parte femminile e l’apporto che la donna può offrire in termini di espansione economica del gruppo domestico (White, Burton 1988: 87273). Con la poliginia – questo va da sé – si hanno molti più figli (braccia lavoro e futuro) che con la monogamia: i motivi di crescita economica (mogli e figli in più che contribuiscono alla ricchezza del gruppo domestico) si intrecciano con i motivi demografici (una progenie più vasta, una maggiore sicurezza per il futuro). Inoltre, la poliginia offre all’uomo, specialmente se ha una qualche funzione di capo, la possibilità di intrattenere rapporti di ‘alleanza’ – come gli antropologi usano dire – con un numero maggiore di famiglie, da cui provengono le sue mogli e a cui si dà la cosiddetta ‘ricchezza della sposa’ (bridewealth). Un capo gisu (Uganda orientale), convertito al Cristianesimo, si lamentava di non poter svolgere in maniera adeguata le sue funzioni politiche: la monogamia è sotto questo profilo limitante, poiché si instaurano rapporti di alleanza matrimoniale soltanto con una famiglia; «egli avrebbe dovuto sposare diverse mogli, e così avere degli amici per poter governare il popolo» (Mair 1976: 174). 112
Certo, la poliginia non è ‘da tutti’: è difficile incontrare una società in cui il divario maschi/femmine sia tale che tutti gli uomini possano disporre di più mogli; pur diffusa tra le società di tutti i continenti, essa riguarda di norma una minoranza di persone nelle società che la praticano. E neppure è pensabile che alla base della poliginia vi sia una motivazione di ordine sessuale: «la varietà sessuale è la minore fra le ragioni per cui si ricorre ai matrimoni poliginici nelle società che li permettono» (Mair 1976: 174). Motivazioni produttive e riproduttive, ricerca della ricchezza, del prestigio, del potere e di una più vasta discendenza da parte degli uomini e, da parte delle donne, partecipazione a una sorta di impresa familiare e parentale, in cui un maggiore benessere – rispetto a una soluzione monogamica – e una preziosa collaborazione domestica ed economica con le co-mogli compensano attriti, gelosie e competizione, ispirano strategie maschili e strategie femminili, entrambi presenti nella soluzione poliginica. Anche tenendo conto dell’incrocio tra questi due tipi di strategie – non necessariamente equipollenti, come è ovvio – la poliginia si presenta come un insieme di forme e modelli diversi, e soprattutto come un fenomeno articolato, dal «carattere multidimensionale», determinato da una varietà di fattori che riguardano l’accesso alle risorse e la possibilità di scambiare da un gruppo all’altro le capacità riproduttive delle donne (Bretschneider 1995: 183-84).
2. La minaccia poliginica Di fronte alla complessità e alla ricchezza di motivazioni di questo fenomeno, alla sua diffusione e alla molteplicità di forme e di significati che può assumere, colpiscono la povertà di idee e la sbrigatività con cui di solito la poliginia viene condannata. Retaggio di paganesimo o di condizioni di barbarie, la poligamia – per usare la categoria più ampia – è vista di solito come una minaccia rispetto al carattere ‘unico’, sacro o naturale che sia, della monogamia. Eppure – come si è visto – anche nelle società in cui la poliginia è permessa, essa riguarda sempre, e inevita113
bilmente, una porzione assai ridotta della società: «la maggioranza degli uomini, in qualsiasi società di questo tipo, ha soltanto una moglie, e [...] una percentuale piccolissima ne ha più di due» (Mair 1976: 176). ‘Per noi’ è dunque chiaramente una questione di principio, e di grande principio: in questo come in altri campi, temiamo molto che la molteplicità scalzi l’unità. Ci fa orrore l’idea che nella nostra stessa società possano convivere famiglie monogamiche e famiglie poligamiche, anche se le prime dovessero essere la grande maggioranza e le seconde una minoranza. A tal punto rifiutiamo la possibilità logica della poligamia che nel nostro codice penale non viene preso in considerazione un reato che porti questo nome: ci limitiamo infatti a ipotizzare e ovviamente sanzionare un reato di bigamia (Arioti 2006: 119). Anche per una cultura laica e persino opposta alla Chiesa Cattolica, la poligamia (e soprattutto la poliginia) suona come un affronto insopportabile alla parità di uomo e donna, come se essa fosse sempre e comunque una manifestazione della supremazia maschile e quindi uno sfruttamento oppressivo delle prestazioni femminili e come se la monogamia fosse sempre da intendere come una sorta di applicazione dei principi di parità tra gli uomini e le donne. L’antica Sparta era una società rigorosamente monogamica e nello stesso tempo dominata in maniera estrema dal potere maschile (MacDonald 2001: 345), mentre le società africane della cosiddetta ‘fascia matrilineare’ presentano casi di poliginia nei quali spicca la solidarietà di gruppi di donne co-residenti e imparentate tra loro (Lancaster, Beckman Lancaster 1978: 116). Tutto questo per dire che la poliginia – e più in generale la poligamia –, proprio per la sua rilevanza antropologica, esige di essere trattata con minore sbrigatività e con maggiore equilibrio, anche da parte di coloro che non condividono l’impostazione della Chiesa Cattolica in tema di modelli matrimoniali. Forse la poligamia fa paura, perché è lì, accanto a ‘noi’: una possibilità non voluta, oscurata e tuttavia a portata di mano. Ci vuole poco, veramente poco, perché la poligamia faccia capolino nelle nostre scelte e si insinui tacitamente nelle nostre pratiche matrimoniali. Forse è per questo, per questa sorta di asse114
dio della poligamia nei confronti della cittadella monogamica, che Papa Giovanni Paolo II, nel suo discorso ai membri del tribunale della Rota romana del 28 gennaio 2001, evoca per ben tre volte la poligamia. Il matrimonio – afferma il pontefice – «è un’istituzione di diritto naturale», e il matrimonio monogamico (ça va sans dire), quello cioè che vincola indissolubilmente un uomo e una donna, facendone «una sola carne (Gen 2, 24)», è una «realtà profondamente radicata nella stessa natura umana». Ma il matrimonio è pure «segnato dalle condizioni culturali e storiche di ogni popolo». L’intervento della cultura, secondo Giovanni Paolo II, è inevitabile; e tuttavia non sempre la cultura interviene nel verso giusto: poligamia e divorzio sono casi in cui «la cultura ha segnato [...] negativamente l’istituzione matrimoniale, imprimendovi deviazioni contrarie al progetto divino» (parr. 2-3). Sono parole forti e impegnative, le quali possono essere meglio comprese, a modesto avviso di chi scrive, se si tiene conto dell’‘assedio’ da parte della poligamia, a cui si è alluso poco fa: un assedio storico, antropologico, persino teologico.
3. Ebrei poliginici Se ci poniamo dal punto di vista del Cristianesimo, la poligamia non può essere trattata soltanto come una faccenda di popoli barbari e selvaggi, quei popoli lontani che la Chiesa ha conosciuto nella sua opera di evangelizzazione planetaria, qualcosa che si possa quindi addebitare alla loro ignoranza e alla loro grossolanità. La poligamia è una faccenda biblica, e come tale ‘fa parte’ in maniera un po’ imbarazzante della storia del Cristianesimo o, se si vuole, della sua preistoria. Giovanni Paolo II si guarda bene dall’evocare la poliginia dei grandi patriarchi: semplicemente addebita alla ‘cultura’ questa ‘deviazione’ che va contro il progetto divino, così come andrebbe contro la stessa natura umana. Eppure, la poliginia ebraica non è una questione di poco conto. Parecchi dei più famosi personaggi della Bibbia – Abramo, Giacobbe, Elcana, Davide, Salomone e altri ancora – erano poligami; e troviamo persino una situazione di poli115
ginia sororale attribuita a Dio o – se si vuole – che Dio attribuisce a se stesso. Dio infatti afferma: «si chiamavano Oolà, la maggiore, e Oolibà, sua sorella. Divennero mie, mi generarono figli e figlie. Quanto ai loro nomi: Samaria è Oolà e Gerusalemme è Oolibà» (Ezechiele 23, 4). Nella Bibbia non vi è una regola che proibisca il matrimonio con più di una moglie, e anzi questa possibilità viene esplicitamente ammessa, come si legge in Deuteronomio 21, 15: «Quando un uomo ha due mogli» (Schremer 1997-2001: 187). Secondo Schremer, anche all’epoca del Secondo Tempio (dal 515 a.C. al 70 d.C.) non vi sono proibizioni contro la poliginia nella tradizione giuridica dell’Ebraismo, e inoltre «numerose fonti tannaitiche» – dunque fino al 220 d.C. – «trattano la poliginia come un fenomeno comune e prevalente». Secondo lo storico Cesare Colafemmina, la poliginia ebraica viene sempre più riservata col tempo «al soddisfacimento della legge del levirato e alla soluzione del problema della mancanza di figli nel matrimonio» (Colafemmina 1992: 116). Vi erano – egli afferma – tendenze antipoliginiche (come nel pensiero dei settari di Qumran e in Gesù di Nazaret); ma Giuseppe Flavio (I secolo d.C.), che egli cita, sostiene che «il costume patrio consente ai Giudei di avere più mogli, e al re [Erode] piaceva averne tante». A ulteriore conferma di ciò esiste la legislazione romana che, come nel caso di una legge emanata nel 393 d.C. dall’imperatore Teodosio, proibisce esplicitamente agli Ebrei di seguire i propri costumi in campo matrimoniale e, in particolare, di avere «più matrimoni nello stesso tempo» (Schremer 1997-2001: 209). Dopo aver esaminato le rare fonti rabbiniche che contengono alcune prese di posizione antipoliginiche (dettate più da considerazioni pratiche che non da questioni di principio), Schremer si sente in grado di concludere che la società ebraica dell’era del Secondo Tempio, così come dei periodi mishnaico e talmudico, «può essere designata come una società poliginica» (1997-2001: 219). Se poi volessimo spingere lo sguardo oltre, Mordechai Friedman non ha esitazione a sostenere che «la poliginia è uno dei fenomeni sociali e giuridici più rilevanti, che abbiano distinto attraverso i secoli l’ebraismo sefardita dall’ebraismo aschenazita», 116
nel senso che «la prima società rimase, di principio, poliginica, mentre la seconda divenne monogamica» (1982: 33). Fino all’epoca moderna, diverse comunità sefardite continuarono a praticare matrimoni poliginici: in particolare, le comunità che vivevano in paesi dominati dall’Islam non accettarono mai la proibizione della poliginia, nota come il kherem (‘divieto’) del rabbino Gershom di Magonza attorno all’anno 1000, il quale, oltre a proibire la poliginia, impediva anche il divorzio unilaterale da parte del marito, senza cioè il consenso della moglie. È facilmente intuibile che la differenza tra Sefarditi (gli Ebrei della penisola iberica e delle sponde del Mediterraneo) e Aschenaziti (gli Ebrei della Germania e dell’Europa continentale) traduce una distinzione tra aree di civiltà contrapposte nel Medioevo: l’Islam da una parte e il Cristianesimo dall’altra. Gli Ebrei che vennero a trovarsi in contesti islamizzati non ebbero difficoltà a mantenere la ‘loro’ poliginia. Al contrario, gli Ebrei che si insediarono in territori cristianizzati, e dove il ricorso al diritto romano era una costante, fu quasi giocoforza adattarsi all’impostazione rigorosamente monogamica del Cristianesimo. Tuttavia, molti casi riportati nello studio di Colafemmina ci fanno vedere come «nel Medioevo le autorità cristiane e la stessa Chiesa non vietarono agli Ebrei la pratica della poligamia, pur essendo stridentemente in contrasto con i principii cristiani» (1992: 118). La licenza concessa nel 1416 dall’infante Giovanni d’Aragona a Ruben Marsala di prendersi a Malta una moglie pur avendone già una a Gerusalemme fa leva sul principio che «è permesso dalla legge mosaica a ciascun giudeo di prendere più mogli, specialmente in diverse città e regni, purché le possa mantenere e dare loro il necessario». Da notare che «la richiesta» avanzata da Ruben Marsala «non ha nessuna motivazione particolare se non l’esigenza per l’uomo di avere accanto a sé una donna con cui legittimamente convivere». Nel 1578, dunque in piena Controriforma, persino un’autorità ecclesiastica, il vescovo di Feltre, ebbe a rilasciare a un ebreo abitante nella sua diocesi il permesso di avere una seconda moglie. Leggiamo i contenuti di questa licenza:
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Per mezzo di queste nostre lettere patenti con la nostra autorità ordinaria dichiariamo che è lecito al suddetto signor Beniamino, secondo la forma del sacrosanto Antico Testamento, prendere una moglie, tenendosi anche la prima, in vista della prole; allo stesso signor Beniamino con la medesima nostra autorità diamo licenza piena e totale di prendere un’altra moglie e con essa contrarre legittimo matrimonio, tenendosi anche la prima, secondo la forma e il rito degli Ebrei in vista della prole, secondo la forma e la legge predetta del sacrosanto Antico Testamento, con il quale si concede agli Ebrei di poterlo fare con tutta sicurezza e impunità (in Colafemmina 1992: 120).
Abbiamo visto che fin dall’anno 1000 gli Aschenaziti stessi hanno rinunciato alla poliginia con il kherem del rabbino Gershom. Ma per cogliere bene il significato dell’adattamento storico e culturale alla monogamia (romana e cristiana) da parte degli Aschenaziti, non va dimenticato quanto diversi autori hanno inteso sottolineare, ossia che il kherem è soltanto una proibizione, e proibire non è la stessa cosa che abolire (Rayner 1998: 13). È ben vero che la migrazione dei Sefarditi verso lo Stato di Israele nel Novecento ha effettivamente significato una generalizzazione del divieto sulla poligamia (Berger 1998: 192) e che nel 1950 il rabbinato di Israele ha esteso il divieto a tutti gli Ebrei, provenienti da non importa quale comunità. Tuttavia la precisazione rimane, contribuendo a evocare il concetto su cui stiamo lavorando, ossia la persistenza, anche se nascosta e mediata, della poliginia, almeno come possibilità teorica. Molte società – come abbiamo già accennato – sono state indotte o costrette a bandire la poligamia (lo Zaïre di Mobutu, per esempio, addivenne a questa decisione nel corso degli anni Settanta per accondiscendere a un’esplicita imposizione della Chiesa Cattolica). Ma in molti paesi, specialmente africani, la poliginia, pur ufficialmente bandita, risulta praticata; e non sono pochi i vescovi africani che hanno richiamato l’attenzione sull’importanza che questa istituzione ha avuto e continua ad avere in Africa. Nonostante tutto, la poligamia continua il suo assedio.
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4. Islam: imposizioni e tolleranza Come l’Ebraismo per molta parte della sua storia, anche l’Islam è certamente poliginico: Sposate di fra le donne che vi piacciono, due o tre o quattro, e se temete di non essere giusti con loro, una sola, o le ancelle in vostro possesso; questo sarà più atto a non farvi deviare (Corano 4, 3).
Come sappiamo, questa è per gli Islamici la voce diretta di Dio, quello stesso Dio che è il Dio di Abramo e di Giacobbe, i patriarchi che praticavano senza problemi la poliginia. Se nella Bibbia la poliginia è una pratica quasi data per scontata, nel Corano è lo stesso Dio che si incarica di giustificarla. Una società (o una religione) è poliginica, non in quanto tutti o la maggior parte praticano la poliginia (abbiamo già detto: la poliginia non è ‘da tutti’), ma in quanto la poliginia è ammessa come possibilità. Si usa infatti talvolta distinguere – come già aveva proposto Murdock – tra società ‘a poliginia limitata’ e società ‘a poliginia generalizzata’ (Clignet 1970: 21) proprio per sottolineare questo aspetto di possibilità che, a certe condizioni, viene concessa. L’Islam spesso viene presentato come una religione a poliginia limitata, anche se non è male notare che a Muhammad era stato concesso di superare il limite delle quattro mogli, realizzando così una sorta di poliginia ad ampio raggio: O Profeta! Noi ti dichiariam lecite le tue spose, cui hai pagato la dote dovuta, e le schiave che possiedi concesse a te da Dio come preda di guerra, e le figlie di tuo zio paterno e le figlie delle tue zie paterne e le figlie di tuo zio materno e le figlie delle tue zie materne che emigrarono con te, ed ogni donna credente che si conceda al Profeta, se il Profeta voglia sposarla, privilegio questo a te concesso ad esclusione degli altri credenti (ai quali ben sappiamo quel che abbiamo già ordinato a proposito delle loro spose e delle loro schiave) affinché non gravi su di te alcun peccato; ché Dio è indulgente clemente (Corano 33, 50).
E tuttavia, anche per il profeta c’è un limite, che coincide con il momento stesso in cui Allah ratifica tutte le sue precedenti 119
unioni. Infatti, dopo aver concesso a Muhammad di sposare chi vuole e di comportarsi a suo piacimento per quanto riguarda i turni erotici con le mogli, Allah avverte: «Non t’è lecito ora prendere ancora altre spose, né di cambiare quelle che hai con altre, anche se ti piacesse la loro bellezza, eccettuate le schiave; e Dio osserva attento ogni cosa!» (Corano 33, 52). Insomma, sia per il Cristianesimo sia per l’Islam c’è un Dio che osserva e che controlla quanto fanno gli uomini in tema di matrimoni: è lo stesso Dio, se si tiene conto delle ascendenze bibliche di una religione e dell’altra. Ma pur essendo lo stesso Dio, il Dio dei Cristiani e il Dio degli Islamici impartiscono ordini diversi. E la differenza consiste non tanto nel fatto che uno è per la monogamia e l’altro per la poliginia, quanto piuttosto nel fatto che per il primo gli uomini non possono sgarrare per quanto riguarda la monogamia, mentre per il secondo c’è più tolleranza in materia. La monogamia è un’imposizione: una società rigorosamente monogamica non tollera che si moltiplichino i rapporti coniugali. La poliginia, invece, non è, non può essere imposta: essa convive, se del caso, con un’infinità di unioni monogamiche. Anzi, a ben vedere – e anche a prescindere dai tassi più o meno elevati di poligamia in una determinata società – le unioni poligamiche passano quasi inevitabilmente attraverso situazioni di fatto monogamiche: si pensi a quanto avviene all’inizio di una famiglia poligamica, quando un uomo comincia a sposare una sola donna, o alle vicende della vita che dopo un po’ di anni possono ridurre una famiglia poligamica a una situazione monogamica. Anche sotto il profilo strutturale, insomma, la poligamia ospita e conosce entro di sé la monogamia, e certamente essa si inquadra in società in cui è prevista una pluralità di soluzioni matrimoniali. È pur sempre significativo che l’Islam, più tollerante su questo punto specifico, ammetta anche il divorzio, e molti sanno che c’è connessione tra le due cose: A coloro che giurano di separarsi dalle loro donne è imposta un’attesa di quattro mesi. Se ritornano sul loro proposito, ebbene Dio è indulgente e perdona, e se poi saran confermati nella loro decisione di divorziarle, Iddio ascolta e conosce (Corano 2, 226). 120
C’è dunque asimmetria tra un’impostazione poligamica, che accoglie entro di sé la monogamia, e un’impostazione monogamica, la quale invece non può che escludere la prima. Visto sotto un altro aspetto, una società poligamica non teme soluzioni monogamiche: non si sente assediata dalla monogamia. Una società rigorosamente monogamica teme invece che si possa cadere in situazioni di poligamia, che cerca di combattere in tutti i modi, anche attraverso il principio dell’indissolubilità del matrimonio. In fondo, possiamo dire che una società poligamica può anche essere monogamica, e se insorge la monogamia non mette certo a soqquadro l’ordine familiare: in molti casi, è una fase necessaria e inevitabile. In una società rigorosamente monogamica, la poligamia si presenta invece come un’insorgenza rischiosa, temuta, combattuta e tuttavia sempre in agguato.
5. Insorgenze poligamiche In effetti, nella storia del Cristianesimo si sono verificate e si verificano tuttora insorgenze di poliginia o commistioni poligamiche, a tal punto che si può parlare anche di una ‘poligamia cristiana’ (Cairncross 1974). Nel clima della Riforma protestante, nel quale il matrimonio viene considerato come una faccenda mondana e non sacramentale, sullo stesso piano – diceva Lutero – dei vestiti e del cibo, della casa e della proprietà, nel 1534 gli anabattisti fondano a Münster una sorta di Stato comunista, dove la poliginia è permessa e persino incoraggiata (Cairncross 1974: 1-30; Goody 1984: 200 e 194-95). È vero che qui le donne erano quattro volte più numerose degli uomini, ma è anche vero che il modello biblico (la poliginia dei patriarchi) si presentava come un precedente a cui era legittimo ispirarsi: se era permesso ai patriarchi, perché non dovrebbe essere permesso anche a noi (Cairncross 1974: 21)? L’esperienza di Münster fu molto breve: l’anno seguente le forze congiunte dei principi cattolici e dei principi protestanti costrinsero alla resa gli anabattisti e i loro capi furono giustiziati. Ma il riferimento alla Bibbia e l’esigenza di una continuità rispetto ai suoi modelli sono una co121
stante nel Protestantesimo: «i riformatori protestanti raffiguravano se stessi come prigionieri della Bibbia» e una volta posto in discussione il carattere sacramentale del matrimonio era inevitabile che i dubbi si estendessero – almeno per le menti più radicali – anche al principio cristiano della monogamia (Thompson 1994: 4-5). Che cosa avrebbero fatto di immorale o di illecito i patriarchi con la loro poliginia? Forse che Dio li ha mai rimproverati per questo? Persino il domenicano Tommaso de Vio, detto cardinal Caetano, inviato in Germania ad arginare il movimento protestante, è disposto ad ammettere che la pratica della poliginia, da parte dei patriarchi, si basa su una legge di natura o perlomeno non è ad essa contraria: tant’è vero – egli argomentava – che Abramo non ebbe da richiedere una speciale dispensa divina (Cairncross 1974: 58-59; Thompson 1994: 8). Erano in questione in quegli anni i casi somiglianti di Enrico VIII d’Inghilterra e di Filippo I di Assia, oltre che gli anabattisti di Münster, e la poliginia poteva apparire come una soluzione persino preferibile al divorzio, visto che i patriarchi non fecero nulla di immorale con la loro poligamia, e Gesù non abrogò alcunché della legge precedente (Thompson 1994: 10). Con l’affermazione di una maggiore continuità rispetto alla Bibbia e ai suoi modelli, l’assedio della poligamia si sposta all’interno del Cristianesimo. Nell’Ottocento la Chiesa dei Santi dell’Ultimo Giorno, i cosiddetti Mormoni, si richiamano anch’essi esplicitamente all’insegnamento biblico e fanno della questione della moralità e della naturalità un pilastro della loro scelta a favore della poliginia: il tema della procreazione (la poliginia intesa come il metodo di favorire al massimo la capacità procreativa degli esseri umani: «crescete e moltiplicatevi», secondo lo stesso insegnamento di Dio, Genesi 1, 28) è ciò che consente ai Mormoni di unificare gli insegnamenti della Scrittura e le leggi della natura (Hardy, Erikson 2001: 47). Anche qui, anzi soprattutto qui, vengono tirati in ballo Dio e la natura – i comandamenti di Dio e le leggi della natura – per stabilire come uomini e donne debbano sposarsi e comportarsi. C’era persino chi aveva voluto sostenere che per natura le donne hanno tendenze monogamiche e gli uomini tendenze poligamiche e che dunque la 122
poliginia è il sistema che consente di armonizzare le propensioni naturali dei due sessi (Hardy, Erikson 2001: 51); ma soprattutto il richiamo a Dio e al Vecchio Testamento fa sì che «il nostro matrimonio promuove la vita, la purezza, l’innocenza, la vitalità, la salute, la crescita, la longevità» (Hardy, Erikson 2001: 55). Beninteso, anche i Mormoni – nonostante il maggiore panegirico della poliginia che forse sia mai stato fatto (solo con la poliginia può iniziare il millennio e il rinnovamento dell’umanità in attesa del ritorno di Cristo) – hanno dovuto accontentarsi del fatto che la poliginia non è ‘da tutti’ (solo il 20 per cento delle famiglie erano poliginiche). E anche i Mormoni, dopo il loro braccio di ferro con le autorità degli Stati Uniti d’America, hanno dovuto chinare il capo e nel 1890 accettare di abbandonare, almeno ufficialmente, la poliginia: un ulteriore caso dell’avanzata della monogamia nel mondo. Come afferma Elizabeth Harmer-Dionne, con il passare del tempo la poliginia è divenuta per i Mormoni un fenomeno storico e culturale, piuttosto che una questione teologica attuale, spiegando che essa non rientra più tra le richieste del Signore (1998: 1318). Ma la poliginia dei Mormoni è significativa per il nostro discorso non solo perché costituisce il più rilevante distacco istituzionalizzato dalla monogamia che si sia mai verificato dal Medioevo a oggi nella civiltà occidentale e nel Cristianesimo (Hardy, Erikson 2001: 40), bensì perché pone in evidenza il carattere del tutto strumentale del ricorso a Dio e alla natura per giustificare i propri modelli di matrimonio e di famiglia. In questo i Mormoni sono molto simili ai Cattolici: in entrambi i casi è Dio che dice come si debbano costruire famiglie e matrimoni (poliginia in un caso, monogamia nell’altro), e in entrambi i casi si sostiene che quanto viene comandato da Dio corrisponde alle leggi della natura.
6. Passaggi, trasformazioni, scivolamenti E se invece (come avevano del resto sostenuto Lutero e Calvino) il matrimonio fosse una faccenda puramente umana? Se, come appare chiaro in quasi tutte le società in cui si pratica la po123
liginia, la teologia non c’entrasse proprio nulla, essendo una questione che si decide tenendo conto di una molteplicità di fattori: dall’esaltazione della procreatività e della discendenza all’incremento del benessere materiale, della ricchezza e del prestigio, dalla solidarietà e dalla collaborazione tra donne alla costruzione di un gruppo domestico e parentale in cui gli individui possono vedere attutiti i traumi della morte e ovviati gli esiti della solitudine? Se tra poliginia e monogamia evitassimo di mettere in mezzo Dio, con le sue imperscrutabili preferenze, troveremmo anche modo di capire di più – senza spaventarci troppo – come ci siano forme intermedie tra l’una e l’altra. Dio posto ‘in mezzo’ rende le due categorie teo-logicamente troppo ben definite. Se invece lasciassimo Dio alle sue faccende e nelle sue sedi, più facilmente e più umanamente potremmo vedere le due categorie trasformarsi o sfumare l’una nell’altra. Prendiamo una società poliginica, per esempio i Peul Bandé del Senegal orientale. A tutta prima, potrebbe sembrare che in questa società, come beninteso in molte altre, il carattere plurale del matrimonio riguardi soltanto l’uomo: è lui che ha molte mogli, mentre ciascuna di queste mogli ha un solo marito; il contesto è poligamico, ma le mogli sono rappresentanti di nuclei di per sé monogamici. Come ha dimostrato il demografo Gilles Pison (1986), le donne non rimangono però sposate a un solo uomo per tutta la loro vita: dato che si sposano molto giovani con un uomo decisamente più avanti negli anni, vedovanza e divorzio fanno sì che esse si ritrovino disponibili sul ‘mercato matrimoniale’ e, secondo quanto imposto dall’Islam come dalle consuetudini locali, molto presto esse si risposano con altri uomini. Raggiunti i 50 anni, le donne possono avere avuto due o più mariti, e dunque, se è vero che l’uomo in un dato momento della sua esistenza ha più mogli (poliginia), mentre ciascuna di esse ha un solo coniuge (‘monoandria’, si potrebbe dire), succede che nel tempo anche le donne possono avere più mariti (poliandria). «Il ri-matrimonio delle donne fa in qualche modo da pendant alle unioni multiple degli uomini» (Pison 1986: 102). Cosa significa tutto questo? Significa che occorre vedere poligamia e monogamia non come due modelli atemporali, ma co124
me due situazioni che nel tempo possono mutare e intrecciarsi tra loro. Proprio come – e lo si è visto prima – la poliginia contiene entro di sé, come momento o fase della vita, la monogamia (si è monogami prima di diventare poligami), così la monogamia può nel tempo prendere la forma di matrimoni plurimi. Questo è quanto avviene anche ‘da noi’, che non vogliamo sentire parlare di poligamia, che ci siamo sforzati di cacciarla dalla porta e che tuttavia la vediamo riemergere dalla finestra (Ballabio 1997: 85). In che modo? Luciano Ballabio, il quale ha pubblicato un libro dedicato appunto all’emergere della poligamia ‘tra noi’, scorge nella prostituzione una poligamia sotterranea, complementare alla monogamia: una sorta di ombra che accompagna inevitabilmente la scelta monogamica (Ballabio 1997: 83). Pur condividendo appieno l’idea che la poligamia abbia sempre fatto capolino anche da noi, e che la tentazione poligamica abbia «ripetutamente ed insistentemente bussato alle porte della cultura occidentale» – come dimostra in effetti la storia delle concezioni di tipo utopistico, da Tommaso Campanella a Charles Fourier (Ballabio 1997: 71; cfr. anche Cairncross 1974: 204-10; Colombo, Quarta 1991) –, qui intendiamo prendere un’altra strada, di ordine più istituzionale e strutturale. E alla domanda come sia possibile che la poligamia affiori nei matrimoni monogamici rispondiamo in questo modo: con lo scioglimento dei vincoli matrimoniali e con i ‘ri-matrimoni’. Sono due gli eventi che possono sciogliere i vincoli matrimoniali: la morte e i divorzi. A quanto pare, sulla morte ci sarebbe poco da fare, almeno nel senso che non si può impedire che, prima o poi, essa si verifichi, mentre il divorzio è una decisione prettamente umana e sociale, un evento del tutto culturale. La Chiesa ha a lungo scoraggiato il ‘ri-matrimonio’ dei vedovi (Goody 1984: 226), e se ne ha testimonianza in diverse aree rurali italiane, dove il secondo matrimonio, in specie delle vedove, è pubblicamente disapprovato (Arioti 1988). Sul divorzio invece – visto che dipende interamente da noi – non si transige. Perché questo scoraggiamento e perché questo divieto? Perché si intravede, sullo sfondo, affiorare la poligamia; perché si teme che si possa scivolare nella 125
poligamia: il divorzio non è infatti il primo passo verso una poligamia ‘seriale’? Sulla possibilità che la poligamia si vada a impiantare nell’aldilà – e dunque a eternizzare – mediante il matrimonio dei vedovi abbiamo già discusso nel capitolo 6. Qui rimaniamo con i piedi sulla terra. Come le vedove peul, le quali risposandosi più volte finiscono con l’aver avuto nella loro vita più mariti, così una serie di matrimoni da parte di vedovi o vedove anche da noi determina una situazione di ‘matrimoni plurimi’. Il principio dell’indissolubilità del vincolo coniugale viene fortemente compromesso, sia pure per causa di forza maggiore (la morte), e la poligamia comincia perciò a fare capolino. Se poi, anziché aspettare la morte, si scioglie il vincolo coniugale con il divorzio e ci si risposa, a maggior ragione possiamo parlare – dal punto di vista di un Ego qualsiasi – di matrimoni plurimi. Certo, c’è differenza tra a) un Ego che, a un dato momento della sua vita, ha più coniugi (più mariti o più mogli: poliginia o poliandria) e b) un Ego che invece nella sua vita ha avuto in successione più mariti o più mogli: la differenza però è, per così dire, soltanto una questione di tempo. La differenza più netta è invece quella che separa a e b da un lato e c dall’altro: a e b conoscono, sia pure in tempi diversi, una pluralità di matrimoni (anche soltanto due); c, invece, corrisponde a una situazione in cui Ego non solo non può divorziare, ma neppure può risposarsi dopo la morte del coniuge. Aiutiamoci con lo schema della pagina accanto per osservare meglio queste differenze. Abbiamo già visto (cap. 6) che nel documento denominato Sacramentum Caritatis, del 13 marzo 2007, la Chiesa si avvicina molto alla soluzione c. Rileggiamo il paragrafo 28: Il legame fedele, indissolubile ed esclusivo che unisce Cristo e la Chiesa, e che trova espressione sacramentale nell’Eucaristia, si incontra con il dato antropologico originario per cui l’uomo deve essere unito in modo definitivo ad una sola donna e viceversa (cfr. Gn 2, 24; Mt 19, 5) (corsivo nostro). 126
Situazione a (poligamia) Momento 0
Ego
1
2
3
Situazione b (poligamia/monogamia) 1
Ego Momento 1
2 Momento 2
3
Momento 3
Situazione c (monogamia) Ego
1
Per sempre
Sappiamo che la Chiesa non è mai giunta al punto di proibire tassativamente il ri-matrimonio dei vedovi: l’ha soltanto scoraggiato. Ha invece proibito, e continua a proibire, il ri-matrimonio dei divorziati, proibendo il divorzio in quanto tale. Dal punto di vista della Chiesa, un Ego credente, cattolico e rigorosamente aderente alle norme da essa emanate dovrebbe posizionarsi nella situazione c: ubbidiente al principio dell’indissolubilità del matrimonio, non dovrebbe avere matrimoni plurimi; dovrebbe dire certamente no al divorzio e possibilmente no al rimatrimonio dopo la morte del coniuge. Ma quest’ultima rimane pur sempre una possibilità, a cui ricorrono anche i Cattolici. Come vogliamo chiamare questo pluralismo? Il pluralismo della situazione a è senz’altro ‘poligamia’, mentre la situazione c corrisponde alla monogamia più stretta e rigorosa. Ma allora il pluralismo della situazione b – quello dei matrimoni in successione (ripetiamo: anche soltanto due) – che cos’è? Lucy Mair 127
non avrebbe esitazione a denominare il pluralismo b «monogamia in serie»: persino Enrico VIII, deciso a divorziare via via dalle sue mogli se queste non gli davano l’erede maschio voluto, era «rigorosamente monogamo» (Mair 1976: 173-74); insomma, non tanti coniugi assieme, ma uno per volta. Utilizziamo Wittgenstein per illuminare questi passaggi. Mair prende la categoria c (la monogamia pura e assoluta) e la dilata fino a comprendere la situazione descritta come b: è pur sempre monogamia (non ci si può sposare contemporaneamente con più mogli o con più mariti), ma è una monogamia che non esclude del tutto il pluralismo, che fa un compromesso con il pluralismo. È una monogamia che imbarca un po’ di pluralismo: un pluralismo attenuato, stemperato nel tempo; e tuttavia, si tratta pur sempre di una pluralità di coniugi e di matrimoni. Si capisce allora come altri parlino per la situazione b non di una monogamia in serie, ma – all’opposto – di una poligamia «seriale» (MacDonald 2001: 345) o di una poligamia «successiva» (Arioti 2006: 119), cioè di una poligamia che non si realizza in un momento dato (situazione a), ma prende forma nel tempo (come appunto per le vedove o le divorziate peul). Non vogliamo chiamarla poligamia, perché con la poligamia non vogliamo avere nulla a che fare? Sarà difficile però evitare di chiamare la situazione b (ancorché ristretta – se si vuole – ai casi di vedovanza) come ‘matrimoni plurimi’. E sotto questa categoria (matrimoni plurimi) noi vediamo la situazione b avvicinarsi alla situazione a, imparentarsi – per dirla con Wittgenstein – con la poligamia più conclamata. A malincuore, la Chiesa Cattolica consente ai vedovi (non certo ai divorziati!) di transitare dalla situazione c alla situazione b, di passare da una monogamia assoluta a una monogamia relativa e compromissoria, se non addirittura a una poligamia tacita, nascosta, attenuata. Con questo passaggio, e senza ammetterlo troppo esplicitamente, nella Chiesa Cattolica il principio dell’indissolubilità del vincolo matrimoniale subisce un’incrinatura, quasi una smentita: a quanto pare, anche i Cattolici sono costretti a scendere a patti con le situazioni di pluralità, che contraddistinguono tanti aspetti della vita degli esseri umani. 128
7. L’indissolubilità degli altri In ogni caso, su questa faccenda del principio dell’indissolubilità del vincolo matrimoniale non si possono non notare due aspetti. In primo luogo, il Cristianesimo non ha affatto l’esclusiva di questo principio. Non sono molte le società che lo adottano; ma il Cristianesimo non è comunque il solo. In secondo luogo, vi sono società che hanno fatto proprio questo principio non soltanto in maniera del tutto indipendente dal Cristianesimo, ma soprattutto in maniera assai più rigorosa. Sotto questo profilo, si potrebbe dire agli strenui difensori ‘nostrani’ del principio dell’indissolubilità del matrimonio: i Cristiani (o i Cattolici) non se la sono sentita di andare fino in fondo, di rendere quel principio davvero assoluto, tale da non poter essere intaccato nemmeno dalla morte. È quanto invece hanno fatto altri, come nell’India hindu e nella Cina pre-rivoluzionaria, dove la proibizione del ri-matrimonio, soprattutto da parte delle vedove, riguardava gli strati più elevati della popolazione (Goody 1984: 226). Nella concezione hindu una donna, una volta sposata, è sposata per sempre; e non esiste la possibilità di un divorzio, come invece avviene nelle società in cui vige la ricchezza della sposa (in Africa, per esempio, dove la possibilità del divorzio da parte della donna è garantita dalla restituzione dei beni ricevuti dalla sua famiglia). Secondo Lucy Mair, il tipo di rapporto che si viene a instaurare con il matrimonio hindu «può essere espresso molto bene dal famoso verso di Milton: He for God only, she for God in him» (Mair 1976: 204). Qui, il principio dell’indissolubilità fa sì che «la donna deve fondere la propria identità con quella del marito», a tal punto che nemmeno la morte potrà distruggere questo vincolo. Il costume del sati, secondo cui una vedova si immola sulla pira del marito, attestato molto anticamente in India, proibito da una legge inglese del 1829 e di cui tuttavia sono reperibili casi anche molto recenti, è l’espressione estrema e disperata di un principio che intende affermare la continuità dell’unione anche al di là della morte. Esso non è un suicidio, quanto piuttosto la riaffermazione dell’unione matrimoniale originaria, tant’è vero che la sati (la vedova che si sarebbe 129
immolata) era vestita con l’abito e con l’acconciatura del suo matrimonio, e l’idea di fondo è che con questo gesto ella avrebbe assicurato la riunione con lo sposo nell’aldilà. Nella Cina imperiale non vi era un vero e proprio divieto legale per il ri-matrimonio delle vedove; ma se ci spostiamo sul piano culturale, è evidente la pressione sociale contro il ri-matrimonio. Anche in Cina, dunque, nel periodo pre-rivoluzionario «una donna deve essere la moglie di un solo uomo»; ma qui il principio dell’indissolubilità si traduce soprattutto in un legame molto forte con il lignaggio del marito; ed è in virtù di questa aderenza e anzi identificazione con il gruppo del marito che la vedova, la quale per principio non dovrebbe risposarsi, non può nemmeno risposarsi al suo interno, perché sarebbe incesto (Mair 1976: 205). Come vedova, dovrà invece dedicarsi esclusivamente alla gestione dei beni e delle proprietà del marito, oltre che all’allevamento dei figli. Sembra quasi di poter affermare che indissolubilità e monogamia vadano necessariamente insieme, ovvero che là dove si afferma il principio dell’indissolubilità nella maniera più rigorosa e coerente, inevitabilmente abbiamo a che fare con la monogamia. In effetti, «presso i Brahmani il matrimonio tende a essere unico (monogamia) e indissolubile» (Dumont 1991: 223). Come spiega Louis Dumont, la monogamia è però solo tendenziale, in quanto, se la donna non gli dà figli, il marito è autorizzato a prendere una seconda moglie. Non solo, ma lo stesso Dumont invita a tenere conto del «partner inferiore del matrimonio» – in questo caso la donna – su cui ricade «tutto il peso della sua indissolubilità». Infine, nelle caste reali dell’India, dove «alle vedove è egualmente proibito risposarsi», il principio dell’indissolubilità si combina perfettamente con una poliginia gerarchizzata. E qui ritorniamo all’idea secondo cui la donna sposa un solo uomo (monoandria), il quale invece sposa più donne (poliginia). L’indissolubilità – come dice Dumont – cade interamente sulle spalle femminili. Essa quindi è presente in un quadro di poliginia, ma si combinerebbe in realtà solo con la monoandria da parte delle donne; e questo potrebbe essere inteso 130
come una riprova del nesso strutturale tra indissolubilità e monogamia (in questo caso, la monoandria delle donne). Noi però vogliamo far vedere che l’indissolubilità (a cui la Chiesa Cattolica sembra tenere tanto) è un principio che si può combinare anche con i matrimoni plurimi, sia da parte maschile, sia da parte femminile. Sono gli Inuit dell’Alaska settentrionale che si incaricano di dimostrare come questo sia possibile. Tanto per cominciare, colpisce che in una società, in cui quasi tutti gli aspetti e momenti della vita quotidiana sono contrassegnati da rituali e cerimonie, non esista alcuna cerimonia matrimoniale: è sufficiente che un uomo e una donna decidano di vivere insieme e di avere rapporti sessuali, sia pure per un breve periodo di tempo, per far sì che il loro rapporto venga «stabilito» ed essi siano, l’uno rispetto all’altra, ui e nuliaq, ovvero, nei nostri termini, ‘marito’ e ‘moglie’ (Burch 1970: 155). In modo analogo e simmetrico, il divorzio consiste in una semplice interruzione della coabitazione e dei rapporti sessuali: come già per il matrimonio, non esiste infatti alcuna procedura formalizzata, né giuridica né rituale, per porre fine al matrimonio, essendo sufficiente che uno dei due lasci l’altro o faccia in modo che l’altro se ne vada, per esempio mettendo fuori della porta le sue cose (Burch 1970: 165). I motivi per cui si divorzia tra gli Inuit dell’Alaska settentrionale possono essere molti: dall’infedeltà all’incapacità di provvedere agli obblighi economici, dai problemi concernenti l’allevamento e l’educazione dei figli all’incompatibilità psicologica (motivi che ovviamente ricorrono anche tra ‘noi’). A differenza che tra ‘noi’, però, per gli Inuit il divorzio ben difficilmente è una catastrofe, un trauma che (da noi) apre molte ferite e lascia non poche cicatrici (Burch 1970: 177 e 180). Non solo, ma tra gli Inuit dell’Alaska il divorzio era una pratica estremamente diffusa: qualcosa come il 100 per cento dei matrimoni veniva interrotto; il che vuol dire che praticamente ogni individuo nella sua vita aveva vissuto almeno una volta l’esperienza del divorzio, se non di più (Burch 1970: 167). Fin qui abbiamo descritto una società estremamente fluida, nella quale alla facilità di formare unioni coniugali (il rapporto ui/nuliaq) viene fatta corrispondere un’altrettanta facilità di li131
berarsene. Dove sta allora il principio dell’indissolubilità? Esso consiste semplicemente nel fatto che il rapporto ui/nuliaq tra due individui, una volta ‘stabilizzato’ – anche per un breve periodo (come si è visto) –, «viene fatto durare per tutta la vita dei suoi membri, indipendentemente dal fatto che i rapporti sessuali e di coresidenza siano protratti o no» (Burch 1970: 165). Il che vuol dire che il divorzio, tra gli Inuit dell’Alaska settentrionale, pur così facile e diffuso, non ha l’effetto di porre termine del tutto a un rapporto matrimoniale. Come sostiene Burch, il divorzio – così facile e frequente – ha soltanto l’effetto di «disattivare il rapporto», non di scioglierlo completamente; sotto questo profilo, abbiamo a che fare con un meccanismo assai più simile alla «nostra separazione, che non al nostro ‘divorzio’» (1970: 165-66). Con la loro separazione (per non dire divorzio), i due coniugi (ui e nuliaq) rendono inattivo il loro rapporto, come succede da noi quando, per esempio, perdiamo ogni contatto con i nostri cugini, magari per tutta la vita: il rapporto di parentela (nel nostro caso) o di matrimonio (nel caso degli Inuit) può rimanere inattivo a lungo e forse per sempre, e tuttavia è sempre potenzialmente riattivabile. Due coniugi, che si sono lasciati, continuano in effetti a pensare e a parlare l’uno dell’altro in termini di ui e nuliaq, e possono benissimo riprendere il loro rapporto, decidendo di nuovo di stare insieme. Essi non hanno mai cessato di essere ui e nuliaq, per cui, qualsiasi cosa sia successa dopo la loro separazione, il loro rapporto può essere riattivato, anche occasionalmente. Niente di più facile che, dopo la loro separazione, A (l’uomo) e b (la donna) si siano sposati con altri individui, rispettivamente con d e con C. Supponiamo – come capiremo meglio fra poco – che C e d siano tra loro sposati. Il punto importante da tenere presente è che il ‘ri-matrimonio’ non è sostitutivo e non richiede la fine del matrimonio precedente; ovvero, i nuovi rapporti ui/nuliaq che si vengono a ‘stabilizzare’ (A con d e C con b) non prendono il posto dei precedenti (A con b e C con d), ma vi si aggiungono: A è ui rispetto alla sua nuova moglie d, ma conserva un rapporto ui con chi è stata la sua prima nuliaq (b), e la stessa cosa vale ovviamente per tutti gli altri componenti del quartetto. Chiamiamo R1 il rapporto in cui A era impegna132
to in precedenza e R2 il nuovo rapporto matrimoniale: R1 rimane e R2 si aggiunge; A si trova quindi ad avere a disposizione una pluralità di legami. Qui l’indissolubilità, invece di legarsi alla monogamia, genera una situazione di matrimoni plurimi, in qualche modo coesistenti. Questo raddoppio del rapporto ui/nuliaq fa sì che tra gli Inuit il ri-matrimonio abbia un impatto considerevole anche sui due uomini (A e C) e sulle due donne (b e d). Secondo la ricostruzione di Burch, gli Inuit prevedono con il ri-matrimonio due possibilità: o ci si evita (e il rapporto continua a rimanere disattivato) oppure le due nuove coppie entrano in un rapporto positivo, da cui antagonismi e gelosie sono banditi. A può non avere più niente a che fare con b e il suo nuovo marito C; oppure, i rapporti tra i due uomini di b saranno improntati a uno spirito di «reciproca amicizia e sostegno», e la stessa cosa si verificherà per le due donne (Burch 1970: 171). Del resto, gli Inuit dell’Alaska hanno un modello forte a cui ispirarsi per organizzare questo tipo di rapporti che si vengono a generare con il ri-matrimonio: è il ‘co-matrimonio’, ovvero ciò che un tempo viaggiatori ed etnografi un po’ sprovveduti e prevenuti chiamavano ‘scambio delle mogli’ (wife-exchange). Immaginiamo due coppie (A e b, C e d), le quali decidono, pur mantenendo separate le loro abitazioni, di scambiare per brevi periodi i propri partner sessuali. L’aspetto più importante e significativo è che lo scambio sessuale è, per così dire, soltanto l’avvio di una relazione tra le due coppie: lo scambio può anche non essere ripetuto, ma ciò che si ottiene è – anche qui – una forma di stabilizzazione del rapporto tra le due coppie. Gli uomini entrano infatti in un relazione di ‘co-mariti’ (nuliaqan) e le donne in una relazione di ‘co-mogli’ (aipaq), formando quindi «forti legami di amicizia, di reciproco aiuto e di protezione» (Burch 1970: 160). Molto spesso le coppie tra cui si forma questo rapporto di co-matrimonio abitavano in villaggi diversi, talvolta anche assai lontani tra loro, per cui poteva succedere che lo scambio dei partner sessuali si verificasse una volta soltanto. Il sesso era null’altro che il momento iniziale: segno, simbolo o fattore di stabilizzazione di un rapporto che, così ‘stabilizzato’, diventava «permanente» (Burch 1970: 161). 133
Insomma, per gli Inuit l’indissolubilità si applicava non soltanto alla coppia ui/nuliaq, ma anche ai legami tra le coppie che si univano grazie all’istituzione del co-matrimonio. Del resto, questo principio riguardava anche i matrimoni poliginici e i matrimoni poliandrici, che, pur essendo per ragioni demografiche assai rari (specialmente i secondi), erano anch’essi improntati all’idea di veder aumentare i rapporti di collaborazione e di solidarietà. Messi a confronto, non c’è dubbio però che poliginia e poliandria rappresentano soluzioni non molto praticabili, rispetto al co-matrimonio, che invece tra gli Inuit dell’Alaska settentrionale conobbe un’ampia diffusione e un alto grado di istituzionalizzazione, al punto da riguardare la maggioranza della popolazione adulta. Ma «sfortunatamente» insegnanti e missionari americani che si inoltrarono nella regione, ossessionati dall’idea della promiscuità e dello scambio sessuale, non capirono l’importanza e il significato di quella istituzione, e in modo estremamente rapido l’atteggiamento di «estrema disapprovazione» con cui fu considerato condusse alla sparizione del ‘comatrimonio’ (Burch 1970: 161). Tanto meno capirono la combinazione raffinata, culturalmente profonda e meditata, tra la libertà e la pluralità dei matrimoni da una parte e il principio dell’indissolubilità del rapporto coniugale dall’altra: una combinazione ardita, ma sapiente, perché se da un lato non vincola la coppia con un legame unico che rischia di tradursi in una prigione insopportabile, dall’altro consente di moltiplicare i legami di solidarietà nel tempo e nello spazio. Sotto questo profilo, è notevole la voluta ‘assenza’ di cultura (una vera e propria auto-sospensione della cultura) nel momento del matrimonio e nel momento del divorzio: assenza di rituali, di culti, di cerimonie, di procedure formali, per lasciare del tutto all’iniziativa dei soggetti, alla loro scelta, alla loro responsabilità, alle loro decisioni, in definitiva alla loro agency (per usare una categoria oggi di moda), i passi più significativi della loro vita individuale. Così come è sorprendente questa insistenza di ‘stabilizzazione’ che, con il principio dell’indissolubilità e della permanenza (almeno in questa vita) dei legami coniugali e interfamiliari, viene a equilibrare la fluidità della vita sociale e nello stesso tempo a offrire 134
una pluralità di rapporti su cui nella vita potere fare ricorso. ‘Stabilizzazione’, dunque: nel senso di tentativi umani, e ovviamente rivedibili, di stabilizzazione per orientarsi nel mondo fluido e imprevedibile della società e della natura, non ‘stabilità’ imposta e assicurata da qualche dio, a cui sacrificare la propria libertà o la ricerca di una qualche forma di benessere (per non dire della felicità).
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Ma la famiglia dov’è?
1. Tanti mariti Tra gli Abisi, gli Irigwe e i Birom dell’altopiano di Jos (Nigeria), così come in certe società del Camerun, ritroviamo l’idea dell’indissolubilità del matrimonio, su cui abbiamo ragionato alla fine del capitolo precedente (par. 7). Non solo tra gli Inuit, ma anche in diverse popolazioni di questa parte dell’Africa occidentale, se ci si sposa, si istituisce – si ‘stabilizza’ – un legame che vale per tutta la vita. Anche qui, però, si evita di far coincidere l’indissolubilità con la monogamia: l’indissolubilità può riguardare diversi legami, sia da parte maschile sia da parte femminile. Tutto sommato, è come se queste popolazioni ci avvertissero circa la ‘confusione’ che noi rischiamo di compiere tra monogamia e indissolubilità. Per ‘noi’ sono la stessa cosa, nel senso che i due concetti si implicano vicendevolmente: non si può dare indissolubilità senza monogamia e viceversa. A pensarci bene, per ‘noi’ – o meglio, per la Chiesa Cattolica, che considera questo principio come del tutto irrinunciabile – l’indissolubilità riguarda le persone, più ancora e prima ancora che il legame matrimoniale in quanto tale: per ‘noi’ le persone si identificano con un legame, mentre per altre società le persone sono agenti di più legami matrimoniali, ciascuno dei quali può essere di per sé indissolubile. Come si ricorderà, per la Chiesa «l’uomo deve essere unito in modo definitivo ad una sola donna e viceversa» (capp. 6 e 9), con tutte le difficoltà che abbiamo visto emergere da questa posizione, alcune delle quali la Sacra Rota cerca di risolvere con la finzione giuridica dell’annullamento del vincolo matrimoniale. Per gli Inuit dell’Alaska e per parecchie società in 136
Nigeria e in Camerun non c’è bisogno di annullare. Ciò a cui si ricorre è il cosiddetto ‘matrimonio secondario’, mediante cui per esempio la donna si unisce a uno o più mariti in successione, pur rimanendo sposata a tutti i mariti precedenti (Levine, Sangree [a cura di] 1980: 400). Qualcosa di analogo troviamo anche nella Nigeria settentrionale, tra i Kadara e i Kagoro, dove una donna può scegliersi un secondo marito senza interrompere del tutto i legami con il primo: «la donna poteva tornare a far visita al suo primo marito, e mentre era lì si comportava in tutto come una moglie»; la cosa importante però era che «il secondo marito deve essere trovato fuori della comunità locale che aveva fornito il primo» (Mair 1976: 167-68). Anche qui, come già abbiamo visto tra gli Inuit, il fatto che il vincolo R1 sia indissolubile non significa affatto che sia esclusivo. Ciò che si ottiene con il principio dell’indissolubilità è dunque una moltiplicazione dei rapporti coniugali, non una loro sostituzione. Beninteso, in questa regione dell’Africa occidentale la donna vive con un solo marito per volta (possiamo chiamare questa soluzione una ‘monoandria temporanea’); ma l’indissolubilità del legame matrimoniale fa sì che essa conservi il diritto di riattivare i legami precedentemente istituiti (‘stabilizzati’) e quindi di ritornare, se vuole, da un precedente marito e averne dei figli ‘legittimi’. Insomma, abbiamo una donna con più mariti, anche se non se li trova tutti contemporaneamente nella stessa casa. Proseguendo lunga la strada dell’indissolubilità, siamo andati così a finire in una situazione che di solito gli antropologi chiamano ‘poliandria’. Il lettore s’era senz’altro accorto che nel capitolo appena chiuso avevamo parlato soprattutto di poliginia, riservando alla poliandria soltanto alcuni fuggevoli accenni. Il motivo è che per ‘noi’ (‘civiltà occidentale’, Cristianesimo, Ebraismo, ma anche Islam) il tema della poligamia – approvata o disapprovata che sia – prende la forma quasi del tutto esclusivamente della poliginia: sono gli uomini che possono o non possono avere più donne, e il fenomeno del concubinato, come forma sostitutiva della poliginia, ne è una conferma (Goody 1984: 90 sgg.). La possibilità che sia la donna, invece, ad avere più mariti è per ‘noi’ 137
decisamente più remota, quasi da non prendere neanche in considerazione: cose da antropologi che si dedicano al ‘giro più lungo’. Beninteso, il testo che stiamo scrivendo non è, e non vuole essere (anche se ce ne sarebbe bisogno), un trattato antropologico sulla famiglia, per cui quello che ora faremo, cominciando con la poliandria, sarà un tentativo di far emergere una serie di temi in connessione con diverse forme di famiglia (anche le più strane e inaspettate). Lo scopo è di ottenere una visione un po’ meno angusta, storicamente e ideologicamente un po’ meno condizionata, di ciò che gli uomini hanno costruito o hanno ‘combinato’ in quella sfera sociale che di solito chiamiamo ‘famiglia’. Si usa dire che, rispetto alla poliginia, la poliandria è piuttosto rara. Ma se si guarda con una certa attenzione, molti casi affiorano in diverse parti del mondo (dall’Asia all’Africa, dalla Polinesia alle Americhe del Sud e del Nord). Per rimanere in Africa, i Lele del Kasai (Repubblica Democratica del Congo), studiati da Mary Douglas, conoscevano un’istituzione di tipo poliandrico, chiamata hohombe, la ‘moglie del villaggio’ (Douglas 1963: 128). Ovviamente, autorità coloniali e missionari si precipitarono subito a proibire questo costume, avendo pensato che la moglie del villaggio non fosse altro che una prostituta. Ma – altrettanto ovviamente – non era questo il senso dell’istituzione. Il villaggio era infatti diviso in classi di età e le giovani andavano in sposa a uomini più avanti negli anni. Era dunque normale che la classe dei giovani scapoli chiedesse che fosse loro assegnata una moglie comune, per la quale tutti insieme provvedevano al cosiddetto ‘compenso matrimoniale’ e alle prestazioni di lavoro per i genitori di lei. La moglie del villaggio non era affatto una malhereuse (come la chiamavano i missionari); godeva invece di grande prestigio sociale. Assimilata a un capo, la moglie del villaggio poteva essere inviata come ambasciatrice di pace nei villaggi nemici, dove veniva accolta con favore e omaggiata e dove si adoperava per creare le premesse di un accordo (Douglas 1963: 129-30). Era la hohombe che in un secondo tempo sceglieva un gruppo più ristretto di uomini (cinque o sei), che avrebbero vissuto effettivamente nella sua casa, e per i quali sa138
rebbe «andata a prendere l’acqua, zappato, cucinato e tenuto pulita la casa, proprio come una moglie normale» (Douglas 1963: 133). Certo, col passare del tempo succedeva che alcuni dei suoi mariti si trasferissero altrove, sposandosi con altre mogli. Ma ciò che è importante sottolineare è il legame con il villaggio. I figli che la moglie del villaggio metteva al mondo erano ‘figli del villaggio’: essi cioè non appartenevano a un gruppo di parentela specifico (i Lele sono matrilineari), ma «l’intero villaggio aveva la funzione di padre nei loro confronti», anche se i mariti conviventi con la loro madre avevano responsabilità più particolari (Mair 1976: 172). Ed è importante rilevare che, quando il villaggio «agiva come padre, la sua unità», dopo eventuali dispute e divisioni, «veniva ricostituita» (Douglas 1963: 138). Il luogo di elezione della poliandria – almeno per la tradizione antropologica – è però altrove. Occorre per questo andare in Asia, e in particolare – seguendo quella che è stata una ricerca sistematica sulla poliandria, condotta dal principe Pietro di Grecia e Danimarca (Peter 1963) – in India (nel Kerala, nel Malabar, tra i Toda del distretto Nilgiris dello Stato di Madras), nello Shri Lanka e soprattutto in Tibet. Ponendo a confronto le diverse soluzioni, gli antropologi sono giunti a stabilire fondamentalmente due tipi di poliandria, ossia una poliandria fraterna, dove un gruppo di fratelli sposa insieme un’unica donna, e una poliandria associata, dove invece – come per esempio succede nello Shri Lanka – a un matrimonio inizialmente monogamico si aggiunge un secondo marito, che viene incorporato nell’unione precedente (Levine, Sangree [a cura di] 1980: 39698). Poiché questo – come si è detto – non è un trattato generale sul matrimonio, qui ci concentreremo soltanto più su un caso particolare, quello dei Nyinba, una popolazione di origine tibetana, ma stanziata nel Nepal, oggetto di uno studio approfondito da parte di Nancy E. Levine (1988). Saranno i Nyinba a lanciare un tema particolarmente importante per il nostro discorso. I Nyinba sono un caso molto chiaro e coerente di poliandria fraterna, e anche se nella loro società esistono altre soluzioni matrimoniali, l’unione di un gruppo di fratelli con una sola moglie costituisce il modello matrimoniale per eccellenza. Come so139
stiene Nancy Levine (1988: 170), «ragazzi e ragazze crescono in una società in cui la poliandria si pone come la soluzione matrimoniale più comune» e più normale, in cui il fatto di vedere un gruppo di fratelli convivere nella stessa grande casa con una moglie rientra nell’ordine naturale delle cose. Eppure i Nyinba sono circondati da altre popolazioni, in cui invece non viene praticata la poliandria. I Nyinba sono consapevoli di questa loro particolarità (di origine tibetana) rispetto al contesto nepalese in cui si trovano a vivere, e rivendicano la poliandria come un loro tratto distintivo e come un elemento che li collega al loro passato ancestrale: anche i loro antenati praticavano infatti la poliandria fraterna e i Nyinba sottolineano l’armonia familiare che questa soluzione ha sempre comportato (Levine 1988: 159). La Levine insiste su questo aspetto ‘culturale’ della poliandria nyinba, convinta che essa non possa essere ricondotta soltanto a ragioni esterne, di tipo ecologico ed economico. Questa era in effetti l’opinione di Pietro di Grecia, poi ripresa e aggiornata da studiosi più recenti (Goldstein 1976, 1978). L’idea di fondo è che la poliandria, facendo convergere la potenzialità procreativa di più maschi su una sola donna, sortisce un effetto di riduzione delle nascite ed è quindi un meccanismo inibitore dell’aumento della popolazione, oltre che un modo per mantenere intatta la proprietà; e tutto ciò, in un ambiente di elevata altitudine, in cui il terreno è arido e la terra arabile molto scarsa, si configura come una risposta profondamente razionale in termini adattivi. Perfino alcuni missionari cristiani, per i quali la poliandria – manco a dirlo – appariva come un peccato intollerabile e disgustoso, si spingevano ad ammettere tuttavia la sua funzionalità in regioni così aride, come per esempio il Ladakh: contenendo la popolazione, si evitava di finire in una guerra continua per la terra (Peter 1963: 379). Anche per i Nyinba queste motivazioni sono reali; ma la Levine ha buon gioco nel dimostrare che la poliandria, per quanto possa essere motivata da ragioni ecologiche ed economiche, non è l’unica soluzione possibile: i vicini dei Nyinba, pur condividendo lo stesso ambiente, non praticano la poliandria, e al problema della scarsità di risorse si può rispondere anche in altri modi. La poliandria nyin140
ba è dunque frutto di una scelta, da cui non sono assenti – sia chiaro – motivazioni di ordine ecologico ed economico (ammesse dagli stessi interessati), ma nella quale si esprime «un valore culturale speciale» (Levine 1988: 159). Esso può essere rintracciato nella «solidarietà tra fratelli», considerato come «uno degli ideali di base della parentela» nyinba, paragonabile all’obbligo di sostenere i propri genitori anziani. E sono i figli, non le figlie, che si assumono il compito di provvedere alla vecchiaia dei genitori. Nancy Levine ci descrive la composizione di una ‘casa’ poliandrica, l’unità più vasta in cui si fosse imbattuta nel 1983. Con i simboli che abbiamo già utilizzato nei capitoli precedenti, possiamo proporre il seguente diagramma:
G1
G2
G3
nel quale vediamo una famiglia assai composita e indubbiamente numerosa, strutturata su tre livelli generazionali (G 1, G 2, G 3). A livello G 1 compaiono tre fratelli sposati a un’unica donna (la loro età oscilla dai 52 anni del fratello più giovane ai 60 anni del fratello più anziano, mentre la donna ha 59 anni). A livello G 2 141
vi sono invece cinque fratelli (dai 20 ai 40 anni) uniti in matrimonio a una donna di 35 anni, e una loro sorella non ancora sposata (altre sorelle sono già sposate e abitano in altre case). A livello G 3 troviamo infine i figli nati dal matrimonio di G 2. Come è possibile in una famiglia così composita l’armonia che i Nyinba rivendicano per il loro sistema poliandrico? Partiamo dal valore che, secondo quanto riferisce la Levine, è centrale in questa cultura: la solidarietà fraterna. Esso si esprime nella convinzione, da parte dei Nyinba, che i fratelli sono tali in quanto hanno da condividere un po’ tutto nella loro vita. I fratelli costituiscono il nucleo più interno della cerchia parentale, e possono quindi «mescolare le bocche», ovvero condividere gli utensili con cui si mangia (Levine 1988: 42). Da giovani, prima del matrimonio, possono condividere amanti, e da sposati condividono una moglie. È lecito attendersi che il gruppo dei fratelli non sia affatto lacerato da moti di gelosia, e le osservazioni della Levine confermano questo punto essenziale: il senso della solidarietà fraterna prevale nettamente su possibili motivi di attrito; ovvero l’assenza di gelosia fa parte del ‘valore’ della solidarietà. Vi è insomma tra i Nyinba una cultura che interviene a far convergere gli interessi sessuali e procreativi dei fratelli, in perfetta corrispondenza con la convergenza dei loro interessi economici. Una grande casa poliandrica è segno di ricchezza e di prestigio sociale. Non solo, ma il valore della solidarietà fraterna si esprime anche in un netto privilegiamento da parte dei genitori per i loro figli maschi: nell’infanzia essi sono trattati molto meglio delle femmine, le quali infatti hanno minori possibilità di sopravvivenza. Si determina così un certo squilibrio demografico tra maschi e femmine, su cui si regge, almeno in parte, la poliandria. Secondo i calcoli della Levine (1988: 74) negli anni Ottanta vi erano 116 uomini su 100 donne nell’intera popolazione dei Nyimba (circa 1.300 individui), e 118 uomini su 100 donne negli strati più elevati. La poliandria come modello di famiglia ideale e la solidarietà fraterna come valore culturale sono infatti tipici dei proprietari terrieri, di coloro cioè che con una politica di contenimento demografico riescono a mantenere integre le loro proprietà e a sta142
bilizzare le loro famiglie. È importante tenere presente, sotto questo profilo, che tra i Nyimba non tutte le famiglie sono poliandriche: non lo possono essere, così come non possono essere tutte poliginiche (come abbiamo già visto nel capitolo 9) le famiglie di una società in cui prevale il modello delle tante mogli. Tra i Nyinba esiste la monogamia, ma essa è, per così dire, una soluzione «per difetto» (by default), che si presenta quando, per esempio, vi è soltanto un figlio maschio, senza fratelli con cui condividere una moglie, o quando una famiglia poliandrica si approssima alla fine e la morte riduce fino all’ultimo sopravissuto i fratelli co-mariti (Levine 1988: 147). Ma la monogamia è una soluzione «per difetto» anche in un più ampio senso sociale, in quanto è il modello familiare tipico di chi non dispone di terreni, e in particolare degli ‘schiavi’ (resi liberi nel 1926), un gruppo, etnicamente distinto, di individui che lavorano nelle case dei loro padroni poliandrici (Levine 1988: 69). Per i Nyinba vi è una netta contrapposizione tra la situazione familiare degli schiavi e quella dei padroni. Questi ultimi dispongono di una «grande casa (grong-chen)», dietro la quale sono poste le «piccole case (khang-chung)» degli schiavi (1988: 73). La grande casa è tale perché si fonda su una proprietà terriera che si intende mantenere intatta, perché è fatta di tanti fratelli solidali tra loro e perché comprende più generazioni. La grande casa è fatta in gran parte di uomini i quali, rimanendo nella loro casa di origine, accudendo ai loro genitori e trattenendo i loro figli maschi con la loro unica moglie, si impegnano a ‘stabilizzare’ la loro famiglia, a perpetuarla – con il suo nome e la sua proprietà – nel tempo. Al contrario, la piccola casa consiste soltanto in «una piccola famiglia nucleare», composta da una donna, da suo marito e dai loro figli, una famiglia destinata a essere spazzata via, a scomparire nel nulla, alla morte dei genitori. Il tema dello «scomparire (yal-ba)» è molto avvertito in effetti da parte dei Nyinba: se talvolta sono le stesse case poliandriche dei proprietari a scomparire, ed è allora «una grande tragedia» (Levine 1988: 111), il destino della scomparsa è del tutto normale per le piccole famiglie nucleari. 143
2. Con i coniugi o con i fratelli? C’è da scommettere che alcuni lettori, tra quelli almeno che hanno avuto la pazienza di arrivare fino a questo punto, siano irritati da questa ‘aristocratica’ solidarietà fraterna dei Nyinba e trovino motivo ulteriore per schierarsi a favore della famiglia nucleare e monogamica nel fatto che essa sia manifestamente più ‘democratica’. Qui vorremmo dire che non è questione di schierarsi. Il senso del nostro discorso non consiste nel sostenere che un tipo di famiglia è ‘migliore’ dell’altro, ma nel far vedere quanti tipi di modelli e di soluzioni familiari esistono nel mondo. Non dimentichiamo che siamo partiti dalla contestazione della tesi dell’universalità e, ancor più, della naturalità della famiglia nucleare. Se ci siamo soffermati sui Nyinba, non è perché preferiamo una società stratificata, fatta di proprietari di terre e di piccoli schiavi, ma perché essi ci offrono lo spunto per riflettere su alcune questioni, che possono risultare importanti nel nostro tentativo di tessere le fila della famiglia: come diceva Wittgenstein, vedremo certi aspetti affiorare, altri scomparire, altri ancora riemergere. Quali questioni emergono dalla nostra analisi dei Nyinba? Almeno due. La prima, se vogliamo, è di ordine epistemologico. Ci siamo occupati di poliandria. Ma esiste la poliandria (e la stessa cosa, ovviamente, si può dire della poliginia e anche, perché no?, della monogamia)? È forse sufficiente raccogliere insieme una molteplicità di casi, spesso assai eterogenei tra loro, e designarli tutti come poliandria? È forse lecito disquisire sulla poliandria, come se fosse una categoria in sé coerente, autonoma, compatta, contrapponendola sotto il profilo tipologico alla poliginia? Wittgenstein da un lato e l’analisi etnografica dall’altro ci suggeriscono di no. Come facciamo a mettere insieme la poliandria della donna kagoro e quella dei Nyinba, solo per il fatto che in un caso e nell’altro una donna ‘ha’ più mariti? Wittgenstein e l’etnografia ci insegnano che dobbiamo andare oltre le forme esteriori, cercando di cogliere i significati; e questi, di solito, sono assai più profondi, molteplici e ramificati delle poche forme rigide con cui noi cerchiamo di ingabbiare la realtà. 144
Ma, attenti come siamo ai rischi del ‘nichilismo’ (ci sentiamo sempre addosso gli occhi di chi paventa ogni deriva relativistica), cerchiamo anche una via di uscita dall’impasse di un pluralismo troppo spinto. Nella nostra perlustrazione sulle famiglie ci sforziamo infatti di cogliere dei ‘temi’, e sono questi che ci consentono di passare da un caso all’altro, di transitare tra le più diverse forme di famiglia, di connettere anche i significati – perlomeno alcuni significati – che pensiamo di intravedere in essi. No, non si tratta proprio di schierarsi, anche se nella nostra vita alla fin fine scegliamo; si tratta invece di comprendere, di capire le ragioni che possono ispirare scelte difformi e persino contrastanti, tra loro e con le nostre. E questo ci aiuta a scegliere in maniera più avveduta; ci aiuta molto di più che non l’atteggiamento di ostinazione con cui si continua a sostenere che la nostra famiglia è proprio quella ‘giusta’, in quanto universale e naturale. La seconda questione che ci suggeriscono i Nyinba riguarda i criteri con cui in generale si costruiscono le famiglie. E anche a questo livello abbiamo a che fare con una scelta: una scelta di ordine strutturale, di non poco conto. Su quali tipi di rapporti si costruisce una famiglia? Per noi, abituati come siamo alla famiglia nucleare, spesso definita anche coniugale, la risposta più ovvia e immediata alla domanda è che il rapporto di base e fondante è quello matrimoniale, il rapporto cioè che unisce ‘legittimamente’ i coniugi tra loro. Certo, anche tra i Nyinba ci si sposa (è il primogenito che prende l’iniziativa, trascinando con sé i propri fratelli), e dunque esiste un rapporto coniugale. Ma con la loro solidarietà fraterna, i Nyinba ci fanno vedere che ciò che più conta per loro è l’unità del gruppo dei fratelli (pun), tutti eredi della stessa sostanza (ru, letteralmente l’osso) che viene trasmessa per via paterna, assai più che il legame coniugale. Se una moglie è sterile, o non è sufficiente per il gruppo dei fratelli, si provvede ad acquisire una seconda moglie (passando così da un modello poliandrico a un modello poliandrico-poliginico). La stessa tolleranza che i fratelli manifestano verso le scappatelle extra-coniugali della loro moglie, piuttosto frequenti, a quanto ci viene riferito (Levine 1988: 148), è indice del fatto che 145
il rapporto coniugale riveste un’importanza minore rispetto al rapporto che li unisce in un gruppo solidale. Nancy Levine sostiene che una solidarietà fraterna così forte non trova eguali in altre società (Levine 1988: 143). Ma in altre società possiamo trovare di nuovo applicato questo principio della solidarietà tra fratelli, secondo forme e modi che ci consentono di esplorarne ulteriori sviluppi. Tra i Nyinba, patrilineari, sono i fratelli maschi che fanno gruppo (una sola donna per tanti fratelli). Proviamo ora però a immaginare che non siano soltanto i maschi a stare insieme, ovvero che si determini un gruppo solidale il quale comprende tanto i fratelli quanto le sorelle. In antropologia vi sono almeno due casi – i Nayar del Malabar dell’India meridionale e i Na dello Yunnan della Cina meridionale – che illustrano molto bene questa possibilità. Si tratta in entrambi i casi di società matrilineari, fondate su gruppi coesi di fratelli e sorelle, i quali convivono nella stessa casa e cooperano in maniera permanente – ovvero per tutta la vita – sia in campo economico sia nell’allevamento e nell’educazione dei figli. Ma figli di chi? E, in primo luogo, come si fanno i figli? Come dappertutto nel mondo, sono ovviamente le donne che, una volta incinte, ‘fanno’ i figli; ma chi le mette incinte? Sia nel caso dei Nayar, sia in quello dei Na, la norma della proibizione dell’incesto è assai rigorosa: per esempio, come sostiene Cai Hua, l’etnografo cinese dei Na, è proibita ogni evocazione del sesso all’interno dei loro gruppi domestici e la convivenza tra fratelli e sorelle è segnata da una sorta di barriera insormontabile per quanto riguarda le loro faccende sentimentali ed erotiche (Cai 1997: 101-102). Fratelli e sorelle sia tra i Nayar sia tra i Na formano gruppi domestici di convivenza, dove la più stretta collaborazione si esplica in una molteplicità di settori, con esclusione rigorosa del sesso. Come dicono i Na, «quelli che mangiano nella stessa scodella e nello stesso piatto non possono accoppiarsi tra loro» (Cai 1997: 101). Nayar e Na distinguono accuratamente la convivenza fraterna da un lato (qui simboleggiata dal mangiare insieme) e l’attività sessuale dall’altro. Si consuma il cibo con i fratelli, mentre il sesso si fa con gli ‘estranei’; o meglio, l’attività procreativa prevede l’intervento soltanto de146
gli ‘altri’, di coloro che sono estranei al ‘nostro’ gruppo domestico: i ‘nostri’ maschi vanno a ingravidare le femmine altrui, e le nostre femmine vengono messe incinte dai maschi che vengono da fuori. C’è una notevole somiglianza tra il comportamento dei Na e quello dei Nayar sotto il profilo dell’attività sessuale: un’attività che, proprio perché è esterna al gruppo domestico, è molto libera e del tutto dipendente dalle preferenze individuali. Tra i Na prevale la cosiddetta ‘visita furtiva’, la nana sésé: sono gli uomini che fanno visita alle donne, di notte, nella loro camera, facendo in modo che i loro fratelli non si accorgano di nulla; ma l’iniziativa può essere sia degli uomini sia delle donne (Cai 1997: 143-49). È importante rendersi conto che la scelta del partner, del tutto sganciata da considerazioni di opportunità da parte del gruppo, è legata ad apprezzamenti individuali, che vanno dalla bellezza fisica al coraggio, alla generosità, alla tenerezza, al saper conversare e comportarsi gradevolmente con le persone (Cai 1997: 151). Ciò che emerge in questo tipo di rapporti – che sono i rapporti açia, ‘amante’ – è il loro carattere squisitamente sentimentale e sessuale, dove prevale il piacere di stare insieme, di godere della presenza momentanea e fuggevole dell’altra persona, senza alcun impegno di ordine domestico, economico e personale. Non c’è l’idea del possesso: ogni partner ha infatti diritto di spezzare quando vuole il rapporto açia. «Io non ti appartengo, tu non mi appartieni», così dicono tra loro gli amanti, e quando l’uomo porta qualche dono, la donna sottolinea il carattere del tutto provvisorio e non impegnativo del rapporto, dicendo: «Divertiamoci, se ci piacciamo l’un l’altra. Non darti pensiero di portare dei doni» (Cai 1997: 155). La relazione açia è del tutto libera e dura lo spazio di una notte, o meglio di quella parte di notte in cui gli amanti si incontrano: essa esiste solo nel presente dell’atto sessuale (Cai 1997: 156). Essa non è concepita come una relazione durevole, anche se gli amanti possono decidere di vedersi più volte: la relazione açia non prevede infatti alcuna stabilizzazione, perché gli individui vivono – come vedremo meglio tra poco – in strutture fortemente stabilizzate, quelle cioè dei loro gruppi consanguinei. C’è una contrap147
posizione fortissima tra la vita nel gruppo domestico, la vita diurna, quella del lavoro e dell’allevamento dei figli, insieme ai fratelli e alle sorelle, e la vita notturna, del tutto libera, assolutamente privata, dove l’individuo (maschio e femmina) sceglie l’amante che vuole per il proprio piacere, un piacere – come si è visto – che non è soltanto sessuale, ma fatto anche di amore, di sentimenti, di tenerezza (Cai 1997: 176). Anche tra i Nayar, alla donna – una volta superato il rito tali, che è un rito di deflorazione, un rito di pubertà femminile, e non una parvenza o abbozzo di matrimonio, come purtroppo è stato talvolta interpretato – è concesso avere rapporti sambandham, che corrispondono quasi perfettamente alle relazioni açia dei Na esaminate prima. Anche qui, il carattere notturno e libero della visita si contrappone alla vita domestica diurna: al carattere stabile e permanente dei gruppi domestici contrastano le relazioni sambandham con la loro intrinseca fragilità, precarietà e – cosa da non sottovalutare – libertà, sia da parte maschile sia da parte femminile (Cuturi 1988: 103). Ogni accenno di stabilizzazione di un rapporto sambandham veniva disapprovato dal gruppo domestico: è qui che si realizza la solidarietà, è a questo che occorre offrire la propria fedeltà, tanto da parte degli uomini quanto da parte delle donne. Ogni tentativo di costituire con una donna un rapporto più solido e continuativo era negativamente sanzionato dal gruppo: «i Nayar potranno iniziare un procedimento legale contro il fratello che avesse passato troppo tempo» presso una donna di un altro gruppo (Cuturi 1988: 56). E anche quando un amante dichiara o rivendica la propria paternità nei confronti di un figlio, il tutto si risolve nelle spese del parto: nessun obbligo e nessun diritto egli poteva rivendicare nei confronti del figlio, così come quest’ultimo non era tenuto ad alcun dovere filiale (Cuturi 1988: 106). Anche tra i Na non è prevista una figura paterna, che possa rivendicare diritti sui figli generati dalla sua amante (Cai 1997: 193).
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3. Provvisorietà, permanenza, temporaneità Guardiamo ora un po’ più da vicino i Na, per quanto riguarda le unità in cui vivono. Essi vivono normalmente in gruppi domestici, chiamati lhe, che noi potremmo tradurre con ‘case’: i lhe sono case dove abitano solo consanguinei, solo ong hing, ossia ‘gente dell’osso’, coloro che condividono la stessa sostanza ‘osso’ (ong) ereditata per via materna. Fratelli, sorelle e i figli di queste «risiedono insieme per tutta la vita», e si fa di tutto perché tale casa (lhe) rimanga compatta senza subire fratture o scissioni: ci sono esempi di case che si sono conservate addirittura per dodici generazioni (Cai 1997: 97). Quando qui diciamo ‘casa’ dobbiamo intendere non soltanto l’abitazione in senso fisico, ma anche e soprattutto l’unità parentale che in essa abita e che, dotata di un nome e di proprietà collettive di terra, si protrae nel tempo, pur variando di continuo, ovviamente, il materiale umano di cui è composta. La parentela na è fatta soltanto di consanguinei (coloro, a rigore, che condividono lo stesso osso, più che il sangue): tra i Na non esistono parenti affini. E, tra i Na, il legame di parentela «è eterno»: presso i Na, gli ong hing, la gente dell’osso, «rimangono insieme per sempre» (Cai 1997: 119). Anche tra i Na vi è un senso fortissimo di solidarietà; ma qui, diversamente che tra i Nyinba del Nepal (e analogamente ai Nayar del Kerala), «la solidarietà poggia sulla relazione tra fratello e sorella, non sulla relazione tra fratelli». Facciamo subito la domanda che forse comincia a serpeggiare tra i lettori ancora interessati ai Na: si può costruire una famiglia soltanto sulla base della solidarietà tra fratelli? Finché si trattava esclusivamente di fratelli maschi, come tra i Nyinba, i quali spingono la loro solidarietà fino al punto di condividere una stessa e unica moglie, la famiglia era comunque ‘visibile’, sia pure in una versione (poliandria) poco gradita ai maschi occidentali. Ma qui, tra i Na, la famiglia dov’è? Possiamo pensare che le loro case, i loro lhe, siano delle famiglie? Per ‘noi’, le famiglie sono fatte normalmente da diversi tipi di rapporti, il primo dei quali è di natura sessuale: il rapporto tra i coniugi. Non solo, ma per noi tale rapporto sessuale è positivamente sanzio149
nato dal matrimonio, per cui una famiglia ‘vera’, autentica, normale, è quella in cui due individui di sesso opposto sono legittimati a unirsi sessualmente a fini procreativi (oltre che per il loro legittimo piacere). Per noi, dire ‘famiglia’ vuol dire in primo luogo ‘matrimonio’, rapporto coniugale socialmente riconosciuto: per noi – come David M. Schneider ha posto in luce a proposito della società americana – la famiglia è una «unità ‘naturale’ [...] basata sui fatti di natura», e tra questi il rapporto coniugale, e dunque sessuale, è fondamentale e prioritario (Schneider 1968: 33). Nel lhe dei Na non c’è e, per loro, non può esserci alcun rapporto sessuale, così come non esiste alcun legame coniugale. Nel lhe c’è però tutto il resto che fa famiglia: le donne mettono al mondo i figli; questi sono allevati e cresciuti in un ambiente domestico dove ci sono uomini e donne; si lavora, si consuma e si coopera in base a una forte solidarietà domestica. Manca il rapporto coniugale, ma in compenso c’è una dimensione che il nostro tipo di famiglia non conosce: la durata nel tempo, anzi una potenziale perennità. Non solo, ma quella solidarietà più vasta che contraddistingue il lhe, dove coesistono più generazioni insieme a numerosi individui tutti imparentati, fa sì che i Na possano prendere in giro su questo punto gli Han con la loro piccola, minuscola e misera famiglia nucleare: nei lhe c’è sempre qualcuno che può darti una mano, mentre nelle famiglie nucleari le coppie, solitarie, debbono provvedere a tutto (Cai 1997: 125). Se decidiamo di chiamare i lhe ‘famiglie’, dobbiamo allora ammettere che possono esserci famiglie non fondate sul matrimonio, famiglie dove non ci sono coniugi, e dunque – come dice Cai Hua nel titolo del suo libro – ‘senza padre e senza marito’. Cai Hua ha ragione nel sostenere che occorre tenere concettualmente ben distinti famiglia e matrimonio, così come ha ragione nel rimproverare all’antropologia di aver troppo spesso confuso i due termini (1997: 342). Ma già nel 1936 Ralph Linton aveva saputo distinguere con grande lucidità le ‘famiglie coniugali’, che pongono alla loro base il matrimonio, e le ‘famiglie consanguinee’, che invece si fondano sul legame tra fratelli e so150
relle. In effetti, per Linton sono due le vie che le società possono percorrere per costruire i propri modelli familiari: o quella del rapporto coniugale o quella del rapporto di consanguineità (Linton 1973: 176). Purtroppo, con la teoria di Murdock, secondo cui qualsiasi configurazione familiare è costruita sempre a partire dalla famiglia nucleare – dunque dalla famiglia coniugale –, l’antropologia ha a lungo emarginato queste altre soluzioni, come i Nayar e i Na, stentando ad attribuire lo statuto di famiglie ai loro rispettivi gruppi domestici. Eppure Linton, già nel 1936, aveva sostenuto che «esiste persino una società che ha completamente escluso la soddisfazione dei bisogni sessuali dalle funzioni delle proprie unità familiari. Questa popolazione, i Nayar, non hanno posto per i padri e per i mariti nel loro sistema sociale» (Linton 1973: 171). ‘Né padri, né mariti’: come si è visto, è la formula adottata da Cai Hua nella titolazione del suo libro. Ma con una chiarezza maggiore di quella di Cai Hua, già nel 1936 Linton ci diceva che ci sono famiglie costruite su «base coniugale», dove il nucleo, formato dai coniugi e dalla loro prole, è «circondato da una frangia di parenti», e ci sono famiglie costruite sulla «base della consanguineità», dove la famiglia coincide con «un nucleo di parenti di sangue circondati da una frangia di coppie» (Linton 1973: 177). Siamo voluti ritornare a Linton, in quanto egli ha saputo farci vedere che: a) famiglia e matrimonio non coincidono; b) esistono modi diversi di costruire le famiglie; c) questi modi sono almeno due: quello della coniugalità e quello della consanguineità; d) di conseguenza, esistono famiglie coniugali (quelle a cui siamo abituati) e famiglie consanguinee; e) nelle loro forme estreme, le famiglie consanguinee fanno a meno dei rapporti sessuali (coniugali) al loro interno e quindi non conoscono né padre, né marito. Senza dubbio, Linton non avrebbe avuto esitazione a denominare ‘famiglia’ il lhe dei Na e a eleggere il caso dei Na, insieme a quello dei Nayar, come esempio emblematico e indiscutibile di ‘famiglia consanguinea’. E Wittgenstein che cosa avrebbe detto? Vi è da supporre che il filosofo austriaco avrebbe visto di buon occhio questa estensione del concetto di famiglia: non ci sono soltanto famiglie fondate sul matrimonio (di due coniugi o anche 151
di un numero maggiore, come abbiamo visto a proposito di poliginia, poliandria e soluzioni poliginico-poliandriche); si possono costruire famiglie utilizzando un altro tipo di rapporti, quelli che intercorrono tra fratelli e sorelle, cioè rapporti tra consanguinei. Al lhe dei Na si può fare corrispondere il taravad dei Nayar: anche qui abbiamo a che fare con un gruppo domestico, composto di fratelli, di sorelle e dei figli di queste, i quali condividono un’unità abitativa e terriera, oltre che una comune discendenza matrilineare. Come il lhe dei Na, il taravad dei Nayar è contraddistinto da una forte solidarietà fraterna (cioè di fratelli e sorelle, siblings, per usare un termine inglese), che si esplica nella cooperazione economica, nell’educazione dei figli (dal punto di vista delle donne) e dei nipoti (dal punto di vista degli uomini), e da cui sono esclusi i rapporti sessuali e dunque coniugali. Flavia Cuturi, la quale ha dedicato un suo studio al caso dei Nayar, non ha esitazione a impiegare il termine ‘famiglia’ e più in particolare l’espressione ‘famiglia congiunta natolocale’ per designare il taravad dei Nayar, una famiglia che, come il lhe dei Na, comporta il rifiuto o la negazione del matrimonio (Cuturi 1988: 30-33 e 56). Non lasciamoci spaventare da certi termini tecnici. Il termine ‘natolocale’ indica semplicemente la norma residenziale mediante cui si costituisce una famiglia consanguinea: gli individui continuano a ‘risiedere’ nella casa in cui sono nati. Tra i Nyinba, la residenza natolocale riguarda soltanto i maschi: i fratelli rimangono nella casa avita (nella ‘grande casa’), mentre le sorelle vanno in spose altrove; tra i Nayar e i Na, invece, la residenza natolocale riguarda tutti, fratelli e sorelle, e quindi questo tipo di famiglia entra in forte contrasto con il matrimonio, fino al punto di abolirlo. Lo studio della Cuturi ha però l’ulteriore merito di non isolare il caso dei Nayar, come se fosse un unicum o un’anomalia inspiegabile (1988: 7), ma al contrario di inserirlo in una serie di casi, in cui la regola di residenza natolocale provoca da una parte la stabilizzazione di gruppi domestici consanguinei (con l’intento molto spesso di conservare la proprietà collettiva) e dall’altra la svalutazione dei legami matrimoniali. Il caso dei bramini Nambutiri (patrilineari) del 152
Kerala, quello degli abitanti dell’isola celtica di Tory, quello della provincia di Orense in Galizia (Spagna), pongono in luce come la natolocalità – ovvero il principio che fa rimanere nella propria casa d’origine i consanguinei – gioca inevitabilmente a sfavore del matrimonio (Cuturi 1988: 64) o delle famiglie costruite su legami coniugali. Non possiamo addentrarci ora nell’esame dei singoli casi. Qui è sufficiente rilevare come le situazioni indicate – o altre che si potrebbero aggiungere – tendono a disporsi lungo linee graduate, dove talvolta i confini si fanno incerti e sfumati e i modelli dimostrano una certa propensione a trasformarsi, a sovrapporsi e a intrecciarsi con altri. Che cosa intendiamo dire con questo (oltre a evocare ancora una volta il filosofo che, in questi frangenti, forse si è dimostrato il più vicino agli antropologi, cioè Ludwig Wittgenstein)? Intendiamo proporre certi ‘temi’ (cfr. cap. 9) che servono a connettere i casi tra loro. Un tema importante, che ha cominciato a serpeggiare in maniera sempre più evidente in questo capitolo, è quello della ‘permanenza’, in contrasto con la ‘temporaneità’ e addirittura la ‘provvisorietà’ (quella dei rapporti açia dei Na e dei rapporti sambandham dei Nayar). Il lhe dei Na e il taravad dei Nayar sono strutture permanenti. In generale, la scelta di costruire famiglie su legami di consanguineità (in particolare sui legami di siblingship, ), anziché su legami coniugali ( ), così come il privilegiamento della natolocalità, lasciano trasparire una forte esigenza di permanenza, in quanto contribuiscono a formare famiglie ‘stabili’, strutturalmente diverse dalla famiglia nucleare. Se vogliamo allontanarci un po’ dai casi estremi dei Na e dei Nayar per avvicinarci di più a realtà presenti nella storia delle società europee, possiamo incontrare tra le famiglie ‘permanenti’ la zadruga slava, il bratsvo russo, la maisnie francese, la famiglia mezzadrile toscana. Certo, queste famiglie, spesso chiamate estese o congiunte, non sono la stessa cosa del taravad dei Nayar o del lhe dei Na: queste ultime non contemplano vincoli coniugali, mentre le famiglie di cui sopra prevedono il matrimonio dei loro componenti e – specialmente se si tratta di maschi – li trattengono al loro interno (regola di residenza natolo153
cale), obbligando il coniuge a entrare nella famiglia estesa. C’è dunque una notevole distanza tipologica tra i casi ora considerati. E tuttavia pare proprio di poter sottolineare il peso dei legami di consanguineità e l’incidenza della natolocalità in tutti questi tipi di famiglia che, per il loro carattere permanente, si distinguono nettamente dalla famiglia coniugale. Pier Giorgio Solinas nei suoi studi ha potuto mettere a confronto da un lato la famiglia mezzadrile toscana, dove i nuovi matrimoni non fanno altro che aggiungere «nuovi strati» a una struttura permanente, e dall’altro la famiglia nucleare sarda, nella quale invece «il gruppo si forma ogni volta producendo ex novo il personale consanguineo che lo compone» (Solinas 2004: 38-39). Anche così, ciò che risalta è una divaricazione netta tra tipi di famiglie che, pur nella loro eterogeneità, sono comunque costruite per durare a lungo nel tempo e quel tipo di famiglia – variamente definita come coniugale, elementare, nucleare o addirittura ‘naturale’ – che invece si contraddistingue per la brevità del suo ciclo di sviluppo e per la sua intrinseca vulnerabilità. Ralph Linton, che aveva appunto proposto la distinzione tra famiglie coniugali (temporanee) e famiglie consanguinee (durature), aveva in effetti messo in evidenza «gli svantaggi» sul piano sociale della famiglia coniugale, data la fragilità della sua composizione: «le famiglie coniugali sono strettamente limitate nelle dimensioni e finiscono con la morte dei partner originari», e sono quindi incapaci di provvedere adeguatamente, per esempio, alla cura degli anziani e alla protezione degli interessi dei suoi membri (Linton 1973: 178). La famiglia coniugale è «un gruppo che si auto-liquida», sostiene il sociologo Talcott Parsons (1974: 16), e lo storico Peter Laslett, a sua volta, in diversi suoi studi ha messo in evidenza la fragilità di questo tipo di famiglia a confronto della ben più solida famiglia estesa mediterranea (Laslett 1972 e 1988). Del resto, già nel 1855 Frédéric Le Play, ingegnere e osservatore della condizione degli operai in una società sempre più industrializzata, autore di un’opera intitolata Ouvriers européens, aveva utilizzato l’instabilità come criterio tipologico per individuare la famiglia della società industriale e moderna. L’instabilità veniva infatti assunta da Le Play 154
non tanto come un attributo o una qualificazione, bensì come un elemento definitorio: la famiglia ‘instabile’ veniva così contrapposta, in quanto categoria tipologica, alla famiglia patriarcale e alla famiglia-ceppo (1877-79: I, 457). La famiglia nucleare è la famiglia instabile per eccellenza, che rispetto ad altri tipi di strutture familiari svela tutta la sua limitatezza. Si comprende allora perché i Nyinba la considerino come una forma inferiore di famiglia, tipica degli schiavi e di certi gruppi tribali tibetani (Levine 1988: 140), e perché i Na prendano in giro proprio per questo gli Han. Sorprende invece che la Chiesa – così protesa alla stabilità (Parte prima) – faccia leva su questa famiglia tanto fragile, instabile, inaffidabile.
4. Gruppo domestico, piuttosto che ‘la’ famiglia Cercheremo di dare una risposta al problema con cui abbiamo terminato il paragrafo precedente nella Parte terza di questo scritto. Qui ci limiteremo ad alcune considerazioni conclusive, di ordine teorico. Tutta questa seconda parte è stata dedicata alla famiglia: avremmo potuto intitolarla Una ricerca di famiglie, Un viaggio antropologico tra le famiglie. Siamo partiti in effetti dalla critica dell’idea che vi sia o che vi possa essere un unico tipo di famiglia, misconoscendo la grande varietà di soluzioni familiari che le società umane offrono da un punto di vista storico ed etnologico (cap. 6). Più in particolare, ci siamo concentrati sulla critica dell’idea che – una volta riconosciuta la molteplicità dei tipi di famiglia – esista comunque una famiglia più importante delle altre, vuoi perché considerata come ‘naturale’, come più aderente alle caratteristiche e ai bisogni della natura umana, vuoi perché concepita come ‘nucleare’, cioè come una sorta di atomo sociale onnipresente nella composizione di famiglie più ampie, vuoi perché immaginata come una sorta di conquista a cui la storia dell’umanità perviene nel corso del suo progresso, nello stadio culminante della civiltà, comunque poi questa venga intesa (cap. 7). Abbiamo visto che anche l’antropologia del Novecento, in diversi e importanti suoi esponenti, aveva 155
fatto propria l’idea che nella definizione della famiglia si potesse individuare una sorta di quid sostanziale, un nucleo appunto (fatto di rapporti e di funzioni elementari), la cui presenza fornisce in modo inequivocabile la ‘definizione’ della famiglia: dove c’è tale nucleo (in posizione singola e individuale oppure in combinazione con altri), lì c’è famiglia. Abbiamo visto però che l’antropologia – soprattutto negli anni Settanta del Novecento – ha rinunciato alla «ricerca di un nocciolo irriducibile della famiglia» (Yanagisako 1979: 200), facendo sì che nel campo di studio della famiglia emergesse una molteplicità non facilmente controllabile. Ci è sembrato allora che il ricorso alla prospettiva di Ludwig Wittgenstein – quella prospettiva che lui stesso ha chiamato ‘somiglianze di famiglia’ – fosse un modo appropriato e convincente per affrontare la sfida della molteplicità anche in campo ‘familiare’ (cap. 8). Ci è sembrato cioè che in un modo o nell’altro i diversi tipi di famiglia si richiamassero tra loro e che – proprio come nelle somiglianze di famiglia – vi fossero dei tratti di somiglianza che non compaiono tutti e nella stessa misura nei tipi considerati, ma vi compaiono per così dire in ordine sparso, quasi random. Nell’impossibilità – almeno agli occhi degli antropologi attuali – di trovare un nucleo duro e permanente, che consenta di asserire in modo incontestabile ‘questa è una famiglia, e quest’altra cosa no’, agli antropologi che non vogliano affogare nella molteplicità non rimane altro che individuare quei tratti, ricercare quei fili, i quali consentono di transitare da una situazione all’altra e quindi di comporre un quadro frastagliato e composito di tanti tipi di famiglie. L’abbiamo messa sul piano della rinuncia; ma il punto di vista che da questa rinuncia emerge non è, non ha da essere rinunciatario. C’è tutto da guadagnare nell’adottare una prospettiva secondo la quale non ci si pone a cercare un nucleo, ma invece ci si impegna a costruire, con pazienza e con sagacia (se possibile), una rete di connessioni. Certo, si paga il prezzo di un maggiore tasso di indeterminatezza e di indecisione: l’ordine classificatorio dei ricercatori di nuclei stabili va a farsi benedire. Ciò che si ottiene sono abbozzi di tipologia, proposte di messa in ordine parziali e sempre revocabi156
li. Ma si ottiene un senso, assai più sviluppato, della complessità delle cose. Ci si rende conto, a proposito delle famiglie, che gli esseri umani non hanno avuto a disposizione un modello, ma hanno inventato soluzioni molto diverse, per certi versi nettamente contrastanti e per altri versi sfumate, intrecciate, parzialmente sovrapponibili. Soprattutto, ciò che si ottiene con la costruzione di reti di connessione è l’individuazione di ‘temi’: così noi abbiamo voluto chiamare i fili, che appaiono e che scompaiono, e che comunque connettono. Mediante questi temi non soltanto ci si orienta nella molteplicità, ma soprattutto grazie ad essi il quadro che ne risulta, pur sempre un po’ disordinato, offre ricchezze insospettabili. Nell’antropologia delle famiglie non è soltanto questione di studiare un’ingegneria sociale, ossia i modi con cui questa o quella società è stata in grado di mettere insieme modelli diversi e per noi impensabili. Beninteso, anche questo tema – la sapienza strutturale, la sagacia funzionale – è un ottimo spunto nello studio antropologico della famiglia o della parentela (lo strutturalismo si era in parte dedicato a questo versante di problemi). Ma oltre all’ingegneria, o meglio prima, c’è la vita: ci sono bisogni, problemi, desideri, aspettative, aspirazioni; e ci sono presupposti di ordine culturale, che guidano e ‘informano’ bisogni e problemi. Le forme della famiglia vanno possibilmente riportate qui, perché è da qui che gli esseri umani partono nelle loro invenzioni ed è da qui che traggono spunti nelle loro riflessioni. Alcuni temi sono già emersi negli ultimi capitoli (9 e 10): dalle motivazioni produttive e riproduttive che possono ispirare molte forme di poliginia al principio dell’indissolubilità del vincolo coniugale e al suo combinarsi, per esempio, con la poliandria; dal carattere permanente di famiglie consanguinee all’instabilità strutturale della famiglia nucleare. Altri temi saranno invece affrontati all’inizio della Parte terza: saranno i temi della costruzione e della ‘finzione’, che ci consentiranno di sviluppare la parte conclusiva del nostro discorso. È ora però di terminare con una proposta. In omaggio a Wittgenstein, abbiamo voluto intitolare questa Parte seconda Forme di famiglia, ovvero una ‘famiglia di famiglie’: una famiglia 157
vasta e variegata, dai confini incerti. Se dentro a questa ‘famiglia’ troviamo una molteplicità non facilmente ordinabile e classificabile di soluzioni diverse ed eterogenee, i suoi confini appaiono comunque sfumati. Perduto l’elemento nucleare, il quid sostanziale della famiglia, diventa difficile dire che cosa è famiglia e che cosa non lo è più. Abbiamo provato a dilatare – reputiamo con successo – la nozione di famiglia anche a quei gruppi in cui sono del tutto assenti i vincoli coniugali, in cui non ci sono né mariti né padri, quei gruppi in cui esistono soltanto legami di consanguineità (i lhe dei Na e i taravad dei Nayar). Ce la sentiamo però di applicare la nozione di famiglia alle unioni di nonni e nipoti, quali riscontriamo, per esempio, tra i Wahehe della Tanzania (Fisher Brown 1935)? Qui, dopo lo svezzamento, si assiste a un distacco del bambino o della bambina dalla loro famiglia d’origine, come se la madre avesse ormai terminato il suo compito. Il bambino viene quindi preso in custodia dalla nonna materna, la quale nel frattempo ha lasciato la famiglia poliginica in cui era vissuta come co-moglie fino a quel momento. Si viene quindi a formare un’unione dotata di notevole durata: se si tratta di un maschietto almeno fino ai 6-7 anni, mentre se si tratta di una ragazza addirittura fino al matrimonio. L’unione è formata da individui che appartengono a generazioni non contigue (G1 e G3, per intenderci), tra i quali si sviluppa tuttavia un forte attaccamento, e in un’atmosfera serena, giocosa e di grande intimità familiare la nonna svolge funzioni formative, che normalmente noi pensiamo siano proprie dei genitori. Sia chiaro, la famiglia dei genitori continua a sussistere e a procreare; la nonna quindi subentra non già in assenza dei genitori, ma in alternativa, come se tra i Wahehe si fosse convenuto che ai genitori spetta procreare e allevare fino allo svezzamento, mentre spetta alla nonna provvedere alle ulteriori fasi dell’allevamento e dell’educazione. Non ci va di chiamare famiglia – una famiglia aggiuntiva o secondaria, se vogliamo – questa unione durevole di nonna-nipote tra i Wahehe? Se non ci va, è perché il nostro concetto di famiglia si trascina dietro, inevitabilmente, un condizionamento storico e culturale di cui è difficile liberarci: ed è normale che sia così. Se ‘famiglia’ non va bene, proponiamo al158
lora un’espressione culturalmente più neutra, che diventerebbe a questo punto difficile rifiutare: ‘gruppo domestico’. Questa è in effetti la proposta con cui intendiamo concludere questa seconda parte, tutta dedicata alla famiglia. Quell’area vasta e variegata, internamente eterogenea e dai confini sfumati, che abbiamo concepito come una ‘famiglia di famiglie’, può forse essere opportunamente etichettata con l’espressione di ‘gruppi domestici’, che gli antropologi hanno da sempre usato insieme al termine ‘famiglia’. Sono infatti gruppi domestici tutti i tipi di famiglia che abbiamo fin qui considerato (dalle famiglie monogamiche a quelle poligamiche, dalle famiglie coniugali a quelle consanguinee e così via), ma sono gruppi domestici anche le unioni, culturalmente programmate, di nonne e nipoti dei Wahehe e altre che prenderemo in esame all’inizio della terza parte. Provando a utilizzare ‘gruppi domestici’ per designare l’intera area in cui abbiamo esplorato forme di famiglia diverse, otteniamo l’effetto di liberarci sul piano analitico dalle questioni di delimitazione delle famiglie: questa è una famiglia e quest’altra situazione non lo è. Con la scelta di ‘gruppo domestico’ – come abbiamo già argomentato in altra sede (Viazzo, Remotti 2007) – prendiamo una strada assai meno viscida e concettualmente più proficua. Dire ‘gruppo domestico’ significa infatti introdurre due questioni, che sono entrambe presenti nelle componenti semantiche dell’espressione prescelta: una questione ‘residenziale’ (suggerita dall’attributo ‘domestico’) e una questione ‘comunitaria’ o ‘sociale’ (evocata dal termine ‘gruppo’). ‘Gruppo domestico’ apre dunque la problematica di come le diverse società immaginano, inventano o costruiscono le soluzioni dello ‘stare insieme’, ovvero i modelli di convivenza domestica: chi sta con chi, a quale titolo e con quale grado di riconoscimento sociale; con chi è consentito condividere spazi e risorse, con chi è lecito coabitare e in quali forme, realizzando quali aspetti e modalità di collaborazione, di solidarietà e di intimità. Questa proposta non comporta affatto l’abbandono della nozione di famiglia. La proposta insomma non consiste nel dire: non usiamo più il concetto di famiglia e al suo posto impie159
ghiamo l’espressione di gruppo domestico. Possiamo benissimo continuare a usare il concetto di famiglia, ma a questo punto con alcune precisazioni. 1. La prima è che, nel nostro uso, la nozione di famiglia può arrestarsi di fronte a certi casi: sono i casi rispetto ai quali avvertiamo un impedimento a dilatare troppo il ‘nostro’ concetto di famiglia. 2. Proprio questi impedimenti debbono indurci a riflettere sui condizionamenti storici e culturali del ‘nostro’ concetto di famiglia. Parlare di famiglia, prendere delle decisioni sulla famiglia, sono tutte operazioni che dovrebbero comportare un approfondimento di questo concetto, delle sue implicazioni e dei suoi presupposti culturali. Non si tratta dunque di buttare via il concetto di famiglia; si tratta al contrario di sottoporlo a un’analisi culturale appropriata, al fine di operare scelte più meditate e forse più sagge. 3. Il concetto di gruppo domestico ingloba dunque la nozione di famiglia, ma essendo più vasto, più duttile e culturalmente più neutro suggerisce di tenere distinte anche le nozioni di matrimonio e di famiglia. Per ‘noi’ matrimonio e famiglia praticamente coincidono: non si dà famiglia se alla base non vi è un matrimonio. Come abbiamo visto, le forme estreme di famiglie consanguinee (Nayar e Na) fanno a meno del matrimonio: qui c’è solo famiglia, senza matrimonio. Tra ‘noi’ a un estremo e i Na e Nayar all’altro, potremmo inserire un caso intermedio, che ci convince ancor più sull’opportunità di tenere concettualmente distinti i due termini. I Senufo della Costa d’Avorio praticano la poliginia: un uomo sposa dunque più mogli. Ma, secondo la regola ‘natolocale’, che abbiamo già visto a proposito dei Nayar, tutti i coniugi – sia il marito sia le sue mogli – continuano a rimanere nella propria famiglia d’origine, salvo il fatto che alla sera il marito fa visita a turno alle sue mogli, una per ogni giorno. È la soluzione del cosiddetto visiting husband, del ‘marito visitatore’, ovvero di un matrimonio, socialmente riconosciuto, che però non si traduce in una convivenza domestica: qui – a differenza che tra i Nayar e i Na – la famiglia matricentrica 160
consente il matrimonio al suo esterno, e tuttavia essa è e rimane «la vera unità domestica» (Héritier 1979: 7). Prima di chiudere questa Parte seconda, ancora un’avvertenza è opportuna per il nostro discorso. Proprio perché più duttile e neutro, il concetto di gruppo domestico ci invita non soltanto a considerare la molteplicità delle soluzioni domestiche in generale, su un piano interculturale, ma anche a soffermarci sulla molteplicità di possibili soluzioni che possono essere date, ammesse e congegnate all’interno di singole società. Riprenderemo questo punto all’inizio della Parte terza, ma è un tema già affiorato in alcuni capitoli precedenti, dove abbiamo visto, per esempio, la compresenza di soluzioni domestiche tra gli Inuit o tra i Nyinba. Proprio quest’ultimo caso introduce, oltre al tema della compresenza di modelli familiari diversi, anche quello della loro gerarchizzazione, nel senso che un certo modello (quello poliandrico per i Nyinba) può godere di un maggiore prestigio rispetto agli altri. E allora, possiamo forse concludere in questo modo: a) ci sono società che ammettono (staremmo per dire, ‘naturalmente’) una molteplicità di modelli familiari al loro interno; b) ci sono società che ammettono una pluralità e tuttavia stabiliscono una gerarchia tra i modelli; c) ci sono società infine in cui si ammette un unico modello. ‘Noi’ a quale di queste categorie apparteniamo, o decidiamo di appartenere? No, non è finita. Esiste, a rigore, una quarta categoria (d), quella delle società che non soltanto ammettono un unico modello, ma fanno di tutto per imporlo alle altre. C’è anche un imperialismo di ‘famiglia’: è bene saperlo.
Parte terza
Chi contro natura?
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Una saggezza perduta
1. Scempi di famiglie Una moglie e un marito (ossia la monogamia) è la caratteristica degli Han; noi, i Na, non viviamo in questa maniera. Andare a fare visita alle donne (la ‘visita furtiva’ [cfr. par. 10.2]) senza mettersi insieme in coppia è la nostra caratteristica. Se tutti insieme dobbiamo praticare ‘una moglie e un marito’, noi diventeremo gli Han e i Na spariranno. Nella campagna di ‘una moglie e un marito’, essi (i membri del gruppo di lavoro) hanno disfatto a forza, una dopo l’altra, le stirpi che erano in buona salute [...]. Per il momento ci siamo messi insieme [a coppie], ma è soltanto per applicare la politica del governo. Noi speriamo di poter ritornare ciascuno alla propria casa natale, più tardi, quando la politica ce lo permetterà. Purché la politica ci lasci vivere secondo la maniera della visita [furtiva] (Cai 1997: 298). La politica di questa riforma è di lasciare cadere gli ascendenti più anziani. Essa smembra la stirpe e distrugge la solidarietà dei suoi membri (Cai 1997: 297).
Fin dal 1956 e poi via via con le riforme del 1958, del 1966, del 1971, del 1974, la Repubblica Popolare della Cina cerca di sradicare – attraverso la politica del governo locale, in mano agli Han – il sistema na, giudicato arretrato e primitivo, sostituendovi la famiglia nucleare (Cai 1997: 290). Lo scopo delle riforme era quello di ‘stabilizzare’ le relazioni amorose trasformandole in matrimonio monogamico. Famiglia nucleare e monogamia erano infatti concepite come lo stadio più avanzato della storia della famiglia umana, e anzi si parlava della ‘superiorità 165
della monogamia socialista’, e per il gruppo di lavoro che doveva attuare la riforma, la resistenza alla storia del sistema na era un vero e proprio rompicapo: come era possibile che il sistema dei Na avesse potuto persistere tanto a lungo, nonostante i «diversi stadi dell’evoluzione della società umana» e nonostante che la Cina avesse raggiunto «lo stadio del socialismo» (Cai 1997: 290 e 299)? A giudizio di Cai Hua, la riforma matrimoniale fu per i Na un vero e proprio «sisma sociale»: «nessun’altra etnia in Cina ha subito una lacerazione così profonda durante la Rivoluzione culturale» (1997: 297). Per comprendere lo sconvolgimento di questa riforma – prosegue Cai Hua – provate a immaginare che cosa potrebbe succedere nella vostra società se, da un momento all’altro, un potere esterno imponesse una riforma in senso inverso, cioè l’obbligo di passare dal sistema dei matrimoni monogamici e della famiglia nucleare a un sistema in cui la famiglia consiste in un gruppo residenziale di soli consanguinei, e al posto del matrimonio si dovessero praticare le relazioni açia, le relazioni amorose libere, multiple, provvisorie. L’argomento di Cai Hua si basa su un presupposto implicito: tanto la famiglia nucleare e la monogamia, quanto il sistema delle famiglie consanguinee na sono costruzioni sociali, a cui gruppi umani diversi hanno posto mano a partire da scelte culturali proprie. Di solito, le società sono attaccate alle proprie scelte, specialmente se queste sono state collaudate nel tempo e nella propria storia, e i modelli familiari che ne scaturiscono si trovano incastonati in insiemi culturali che hanno le loro ragioni, che altri – altre società o un potere esterno – di solito non conoscono. Se invece si ritiene che famiglia nucleare e monogamia siano conquiste storiche, tipiche dello stadio più avanzato della storia dell’umanità, e anzi come la ‘tappa finale’ delle varie forme di famiglia (come nella Cina di Mao Tse Tung e della Rivoluzione culturale, cfr. Cai 1997: 308), o che esse siano iscritte nella ‘natura umana’ (come invece sostiene la Chiesa Cattolica), lo scempio dei poveri Na si configura come un’operazione chirurgica senza dubbio dolorosa, e pur tuttavia necessaria e benefica. Nella Parte prima di questo scritto abbiamo visto che, alla fin fine, non c’è molta differenza tra le ‘stabilizzazioni’ assolute cer166
cate attraverso l’imbrigliamento della storia (Hegel o Marx, per esempio) e le ‘stabilizzazioni’ altrettanto assolute perseguite mediante un fondamento nella natura. Sotto questo profilo c’è anzi convergenza, e non stupisce il fatto che il Partito comunista cinese da un lato e, dall’altro, i colonizzatori europei, tra cui soprattutto i missionari cristiani, abbiano voluto intervenire così pesantemente e pervicacemente nelle strutture familiari delle società che intendevano inglobare sotto il loro potere o nella loro sfera di influenza. Ma perché imporre la famiglia nucleare? Queste potenze dicono che la famiglia nucleare è il portato definitivo della storia o, il che è più o meno lo stesso, è il modello dettato dalla natura. Ma se su queste convinzioni nutriamo, giustamente, qualche dubbio, rimane il problema del perché si voglia preferire la famiglia nucleare su tutte le altre possibili forme di famiglia. Tenteremo di rispondere un po’ più avanti a questo tipo di problema. Per ora, ci limitiamo a notare un aspetto e a porre una domanda: c’è forse una qualche strana e segreta connessione tra la fragilità, l’inconsistenza, la temporaneità, l’‘instabilità’ della famiglia nucleare e i poteri soverchianti, e totalizzanti, che la vogliono imporre? Forse sì. In ogni caso, viene voglia di notare che si sta verificando, anche a proposito delle famiglie, un processo di omogeneizzazione generale: poteri diversi – ideologicamente non solo diversi, ma persino contrastanti – convergono nell’uniformare il pianeta anche sotto il profilo dell’organizzazione familiare, come se – dalla taiga siberiana alla foresta del Congo, dai deserti australiani alle praterie sud-americane e alle città di ogni continente – si volesse far vivere tutti gli uomini negli stessi identici gruppi domestici. Anche a proposito della famiglia, potremmo ripetere una delle frasi più incisive di Claude Lévi-Strauss nel suo Tristes Tropiques del 1955: «L’umanità si cristallizza nella monocultura, si prepara a produrre la civiltà in massa, come la barbabietola. La sua mensa non offrirà ormai più che questa vivanda» (Lévi-Strauss 1960: 36).
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2. L’apprezzamento della diversità In attesa di poter consultare un manuale o un’enciclopedia che un gruppo di antropologi potrebbe (o dovrebbe) scrivere sugli scempi che i diversi tipi di famiglie umane hanno subito per dare spazio alla famiglia nucleare, imposta dalle superpotenze mondiali, ci rivolgiamo ora a un altro caso. Qui, oltre allo scempio inferto, potremo vedere come in diverse società vi fosse un apprezzamento della diversità che andava ben oltre la tolleranza. Intendiamo parlare del berdache, una brutta parola, che ha ormai preso piede in antropologia e di cui sarebbe davvero ora di liberarsi. Derivata dal persiano bardaj e diffusasi tramite gli Arabi in diverse lingue europee (in italiano bardasso, in spagnolo bardaxa, in francese bardache o berdache), essa indica in una coppia omosessuale il giovane sottoposto ai desideri e alle pratiche erotiche dell’adulto (Williams 1992: 9; Roscoe 2007: 41). Con questo termine spregiativo, esploratori e conquistatori europei hanno voluto designare una figura che nelle culture degli Indiani del Nord America era estremamente diffusa: la documentazione etnologica attesta infatti la presenza di berdache maschili in quasi 150 società nord-americane (Roscoe 2007: 40). Ma soprattutto, questa figura godeva, nelle società tradizionali, di un grande prestigio. Se gli antropologi non si sono ancora liberati del tutto di questo termine, con cui i loro antenati europei hanno provveduto a svilire e a condannare un modello di comportamento che – come vedremo tra poco – aveva profondi significati culturali, è invece comprensibile che parecchie comunità di Indiani del Nord America abbiano inteso sostituirlo con l’espressione, assai più adeguata, di Two-spirit (Jacobs, Thomas, Lang [a cura di] 1997). Nella lingua degli Ojibwa, le parole niizh manidoowag (‘due spiriti’) erano infatti usate per indicare una persona nel cui corpo coabitano due spiriti, uno maschile e uno femminile. Tra gli Indiani delle Pianure era previsto che non tutti gli individui di sesso maschile aderissero al modello di virilità proposto, coincidente in larga parte con il ruolo del guerriero, e si provvedeva quindi a costruire un ‘terzo genere’, rispetto a quello maschile e a quello femminile. 168
Un dato che appare costantemente nella documentazione etnologica nord-americana è che questo terzo genere non rappresentava una categoria residuale. I ‘due-spiriti’ – per usare ora in maniera generale la denominazione ojibwa –, lungi dall’essere oggetto di derisione e di disprezzo, venivano rispettati e valorizzati come persone in grado di mediare tra il genere maschile e quello femminile. Secondo Walter Williams, essi accorpavano «le caratteristiche tanto degli uomini, quanto delle donne», e proprio per questo potevano vantare – rispetto alla gente comune – una «visione doppia», un modo di vedere le cose che superava la prospettiva limitata di un unico genere (Williams 1992: 41). Ma non si trattava soltanto di un riconoscimento teorico delle qualità o prerogative ‘in più’ di due-spiriti: le società infatti assegnavano spesso a questi personaggi funzioni specifiche e particolarmente prestigiose, come quella di ‘veggente’, di cui la gente normale poteva avvalersi. Tra gli Hidatsa nelle Pianure del Nord, questi individui costituivano una speciale classe di capi religiosi e, nelle tribù di lingua algonchina, nulla poteva essere deciso senza il loro parere (Roscoe 2007: 54). È interessante osservare che tra i Navajo questo tipo di personaggio godeva di un prestigio davvero straordinario. Quando un bambino manifestava tendenze di ‘terzo genere’, lungi dall’essere represso o corretto, era reso oggetto di cure speciali e di incoraggiamenti. Da adulto, gli veniva infatti affidato il controllo delle proprietà di famiglia, fino ad assumere egli stesso il ruolo di capofamiglia con la funzione di supervisore dei lavori agricoli e domestici (Roscoe 2007: 62). Anche qui noi vediamo assommarsi nella figura del nádleehé (così veniva chiamato dai Navajo) tratti del ruolo femminile e tratti del ruolo maschile. Il nádleehé era colui che, come le donne, tesseva, fabbricava vasellame, conciava pelli, intrecciava cestini, e nello stesso tempo poteva svolgere il compito di sacerdote, mansione invece tipicamente maschile. Data la centralità della figura del nádleehé nella società navajo, si comprende quanto sostenevano gli anziani in una testimonianza raccolta da Willard W. Hill (1935: 274) e riportata da Will Roscoe (2007: 62-63): 169
Se non ci fossero nadle, il paese cambierebbe. Essi sono responsabili di tutta la ricchezza del paese. Se non ne rimanesse nessuno, i cavalli, le pecore e i Navaho se ne andrebbero tutti. Essi sono dei capi, come il presidente Roosevelt. Un nadle nella tenda, porterà buona fortuna e ricchezze. Un nadle, devi rispettarlo. In qualche modo loro sono sacri.
Per i Navajo, dunque, i loro nádleehé (o nadle) erano valorizzati a tal punto da essere considerati indispensabili alla sopravvivenza economica e culturale della loro società. Non solo, ma il significato del termine nádleehé, ‘uno che cambia di continuo’, apre uno spiraglio di grande interesse sulla concezione cosmologica e persino metafisica dei Navajo. Per i Navajo, l’universo è composto non tanto di fatti e cose, ma di processi ed eventi, e il nádleehé è esattamente colui che ha la capacità di ‘fluttuare’ tra il genere maschile e il genere femminile (Witherspoon 1977; Roscoe 2007: 63). È interessante ricordare quanto Lévi-Strauss diceva (nella citazione riportata alla fine del nostro capitolo 3) a proposito del pensiero metafisico sioux, secondo il quale «le cose e gli esseri non sono che le forme irrigidite della continuità creatrice» (Lévi-Strauss 1964a: 137-38). Possiamo forse prendere spunto da qui e sostenere che il grande valore metafisico del nádleehé dei Navajo consiste in questa capacità di decostruzione della rigidità dei generi, nel far vedere e apprezzare la fluidità dietro alle categorizzazioni sociali. La grande importanza attribuita a questi personaggi non li poneva però a parte rispetto alla vita della gente normale. Come abbiamo visto, partecipavano per esempio alle attività economiche di entrambi i generi, e anche sotto il profilo matrimoniale l’etnografia riporta molti casi di due-spiriti che si univano in matrimonio con uomini ‘normali’, non con altri due-spiriti. Che cosa significa questo? Probabilmente, questa unione di due-spiriti, il quale assumeva il ruolo di moglie, con un uomo normale, che invece era il marito, comporta un inserimento ‘normale’ di due-spiriti nella vita familiare della società, a ulteriore conferma della non marginalizzazione di questa figura e anzi della sua valorizzazione sociale. Questo risultato non sarebbe stato raggiun170
gibile se due-spiriti si fosse unito con un altro rappresentante del ‘terzo genere’, secondo la soluzione prevalente nella nostra società. Ma anche questa normalizzazione matrimoniale si colora talvolta di aspetti inquietanti, che rinviano a temi che poi riprenderemo più avanti. Tra i Mohave della California, un alyha si univa a un marito, rispetto a cui assumeva il ruolo di ‘moglie’, e il suo comportamento si spingeva molto verso una evidente femminilizzazione, a tal punto da ‘simulare’ dolorose gravidanze e mestruazioni (Roscoe 2007: 68). Ma nonostante tutti i suoi sforzi gineco-mimetici – per usare l’espressione di Roscoe – secondo i Mohave è chiaro che l’alyha conserva qualità del suo genere originario e che ciò che egli fa è soltanto una combinazione di elementi di un genere con gli elementi dell’altro, così da ottenere un ‘terzo genere’: tutti sono consapevoli di questa simulazione, di questa sorta di messinscena che rappresenta la possibilità di transitare da un genere all’altro. Di fronte alla complessità e alla profondità dei personaggi che qui chiamiamo globalmente ‘due-spiriti’, non può non colpire la rozzezza con cui gli Europei li hanno immediatamente degradati: ai loro occhi, i berdache erano esseri immondi e spregevoli, dediti unicamente alla sodomia, «l’abominevole peccato contro natura», secondo una formula che ritorna costantemente negli scritti degli Spagnoli e di altri conquistatori europei (Williams 1992: 135). Gli Europei, ossessionati dal sesso, non hanno saputo vedere altro nel comportamento dei personaggi che essi avevano deciso di chiamare spregiativamente berdache: non sapendo scorgere il carattere propriamente ‘spirituale’ (o quanto meno culturale) del berdache, «la fissazione occidentale sul sesso ha esercitato, dal XVI al XX secolo, un tremendo impatto» su una figura che, come abbiamo visto, è così caratteristica delle culture degli Indiani d’America e così rivelativa della profondità del loro pensiero (Williams 1992: 127). In effetti, perché due-spiriti è stato così valorizzato da queste culture? Come abbiamo già fatto intendere, non si trattava affatto di un atteggiamento di tolleranza, né soltanto della predisposizione o dell’assegnazione di un posto a parte per chi nella società era o si sentiva ‘diverso’. La ‘diversità’ di due-spiriti è 171
palese. Egli non appartiene al genere maschile, né al genere femminile; egli è qualcosa di diverso rispetto a entrambi: un ‘terzo genere’ che mette insieme le caratteristiche dei primi due. Ma non sembra che ci si possa limitare all’idea di una categoria che si viene ad aggiungere e a inserire tra quella dei maschi e quella delle femmine. C’è qualcosa di più, che spiega l’importanza straordinaria conferita a due-spiriti: ed è il fatto che con la sua diversità, con la sua capacità di ‘fluttuare’ (per i Navajo) da un genere all’altro, due-spiriti svela – per così dire – l’illusione della rigidità dei generi; fa capire quanto essi siano costruiti, culturalmente ‘finti’; fa aprire gli occhi sul carattere sempre un po’ arbitrario e convenzionale dei criteri mediante cui stabiliamo che questo è maschile e quest’altro femminile; introduce il senso della possibilità là dove le società tendono a ‘naturalizzare’ le proprie categorie. La diversità di due-spiriti è insomma qualcosa di più di una semplice diversità di inclinazioni sessuali: è una diversità che rinvia a un discorso metaculturale. Due-spiriti è colui che, nelle 150 società nord-americane in cui la sua presenza è stata attestata, contribuisce a sviluppare una capacità di riflessione sulla propria cultura. Per questo è stato così valorizzato, fino a essere considerato come qualcosa di sacro. Infatti, Dio solo sa quanto importante sia per ogni cultura disporre di un livello metaculturale; quanto indispensabile sia per ogni cultura essere anche una ‘metacultura’ (cfr. cap. 2). E le donne? Pure alle donne era consentito diventare duespiriti, anche se le testimonianze etnologiche sono un po’ meno frequenti: a quanto pare, circa la metà dei gruppi in cui è attestata la presenza di due-spiriti maschili (150), prevedevano uno status sociale riservato alle «femmine che assumevano uno stile di vita da uomo» (Roscoe 2007: 40). In particolare, tra i Mohave agli alyha, maschi che si femminilizzavano, corrispondevano le hwame, femmine che si mascolinizzavano e che cercavano un legame di coppia con una donna normale, rispetto alla quale esse si comportavano come mariti. Il «paradigma a generi multipli», proposto da Roscoe, prevede dunque non tre, ma addirittura quattro generi (M, F, MF, FM), a dimostrazione ulteriore dell’‘instabilità’ e della ‘fluidità’ che si trovano al172
la radice di ogni categorizzazione di ordine sessuale (Roscoe 2007: 77 e 79).
3. Contro natura o secondo natura? La raffinatezza delle perversioni: questa potrebbe essere la conclusione di chi – pur non condividendo la rozzezza sessuofobica degli Spagnoli e degli Europei dei secoli passati e pur apprezzando (forse) le sorprendenti implicazioni metafisiche degli Indiani del Nord America – non può non ritenere che l’omosessualità sia comunque una deviazione, e per giunta una deviazione che si verifica quando le società perdono il senso reale della vita e il corrispondente nerbo morale, quando le loro culture, stanche ed estenuate, si avvitano su se stesse in un processo involutivo, smarrendo l’obiettivo alla fine più importante, quello della procreazione. Come si ricorderà, dopo aver creato gli esseri umani, Dio (il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, ossia il Dio degli Ebrei, dei Cristiani e dei Musulmani, quindi di una parte consistente dell’umanità attuale) disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi» (Genesi 1, 28). Agli occhi di molti l’omosessualità si configura come una deviazione non solo rispetto alle direttive divine, ma allo stesso corso naturale delle cose, alla direzione giusta e corretta della vita: una deviazione per la quale si può anche nutrire – a seconda dei sentimenti e delle convinzioni – un moto di comprensione, di pietà e di tolleranza (volendo mettere in un canto gli atteggiamenti di ripulsa, di condanna e di disprezzo), ma di deviazione pur sempre si tratta. Per gli Indiani del Nord America i due-spiriti (per non chiamarli berdache) non saranno stati dei devianti; ma per ‘noi’ europei, moderni e occidentali, nutriti di ragione, di Cristianesimo e di scienza (la nostra scienza, che sarebbe poi l’‘unica’ vera scienza), l’omosessualità difficilmente può essere intesa altro che come una devianza, verso la quale, oltre tutto, dimostriamo di essere in grado di esercitare un atteggiamento illuministico (e cristiano) di tolleranza. Talvolta, le dichiarazioni di tolleranza e perfino di rispetto prevalgono, ponendo così a tacere il giudizio 173
di devianza. Ma per quanto riconosciuta, tollerata e rispettata, l’omosessualità quale posto occupa per ‘noi’, nella nostra antropologia indigena (se così possiamo esprimerci), se non una posizione di marginalità, e quindi in definitiva di devianza, rispetto al modello normale e fondamentale dell’essere umano? La biologia – oltre tutto – non ci darebbe forse ragione sotto questo profilo? Sono tempi in cui gli Europei sono chiamati a ridefinire – come molti (ahimè) usano dire – la propria ‘identità’ e a richiamare le proprie radici. Sono tempi in cui alcuni si incaricano comunque di chiarire quali siano le radici della nostra umanità. Di solito, quando si prende questa strada – tutta rivolta a un passato che si presume costituisca la base irrinunciabile del nostro presente e della progettazione del nostro futuro –, si perviene alla formulazione di un binomio: la razionalità greca per un verso e la fede cristiana (con o senza i suoi antecedenti ebraici) per l’altro; lo sviluppo della filosofia e del sapere scientifico per un verso e la religione (una religione che dialoga con la ragione e lo Stato moderno, beninteso) per l’altro. In questo quadro, il riferimento alla civiltà classica, nella duplice versione di fondo greco-romana, è considerato quasi inevitabile e irrinunciabile. Stiamo parlando dell’omosessualità e del posto che essa può assumere nella ‘nostra’ antropologia. Cercando di guardare là dove secondo alcuni (e sono però la maggioranza degli intellettuali) la ‘nostra’ concezione dell’uomo affonda le proprie radici, scopriamo che vi è un contrasto notevole: da una parte la civiltà greca e quella romana, le quali a lungo hanno inteso l’omosessualità come un comportamento ‘secondo natura’, e dall’altra Ebraismo e Cristianesimo, che invece hanno concepito il comportamento omosessuale come ‘abominio’ e come peccato ‘contro natura’. Eva Cantarella ha scritto un libro, intitolato appunto Secondo natura, che si addentra nelle varie concezioni e significati che l’omosessualità, o meglio la bisessualità, ha assunto nel corso dei secoli sia in Grecia sia a Roma. Il punto fondamentale – ai nostri fini – pare riassumibile nella tesi secondo cui l’omosessualità maschile «non era una scelta esclusiva. Amare un altro uo174
mo non era un’opzione fuori della norma, diversa, in qualche modo deviante», anche se veniamo subito a scoprire che vi era una notevole differenza tra Greci e Romani: mentre ad Atene l’omosessualità «occupava un posto di rilievo nella formazione morale e politica dei giovani», a Roma invece essa era la manifestazione di una volontà di dominio e di assoggettamento (Cantarella 1995: 7-8 e 10). Non possiamo certo seguire qui le trasformazioni che i costumi sessuali hanno subito nella storia delle due civiltà antiche; ciò che ci interessa è notare invece quanto a lungo l’omosessualità – in specie maschile – sia stata ammessa come comportamento normale e atteso: ancora nel II secolo d.C. Artemidoro collocava nella categoria dei sogni ‘secondo natura’ quelli di contenuto omosessuale (Cantarella 1995: 261). Il Cristianesimo è invece portatore di una concezione opposta. Eredita dall’Ebraismo la condanna inequivocabile dell’omosessualità, quale viene espressa in primo luogo nel Levitico 18, 22 («con un uomo non giacerai come si giace con una donna: è un abominio!»), e introduce «il principio della ‘naturalità’ dei soli rapporti eterosessuali» (Cantarella 1995: 280). Troviamo tutto ciò espresso molto bene da Paolo di Tarso, là dove nella Lettera ai Romani (1, 26-27) descrive l’omosessualità, sia femminile sia maschile, come un comportamento «contro natura» (parà physin), che prende il posto del «rapporto sessuale naturale». D’ora in poi l’espressione ‘contro natura’ diviene la pesante accusa rivolta all’omosessualità. Al tempo dell’imperatore Giustiniano la patristica aveva ormai elaborato un’etica dichiaratamente antiomosessuale, ed è riferendosi all’insegnamento del Cristianesimo che Giustiniano nel 559 bolla gli omosessuali come luxuriantes contra naturam, aggiungendo: «tutti debbono astenersi dall’empia e nefanda azione che neppure gli animali commettono» (Cantarella 1995: 233-34). È questo il punto che a noi interessa. L’omosessualità è definita come un comportamento contra naturam, in quanto non è riscontrabile nel mondo animale, o per lo meno la riprova che sia ‘innaturale’ è data dal fatto che non viene praticata dagli altri animali. Si ritiene che nel regno animale il sesso sia diretto soltanto a fini procreativi. Vi era stato anche chi in effetti – co175
me Platone nelle Leggi –, prendendo le distanze dai ‘costumi’ omosessuali della propria società, aveva identificato come propriamente «secondo natura» i rapporti eterosessuali diretti «al solo fine della procreazione» (8, 7, 839a) e per converso aveva definito esplicitamente «le unioni di maschi con maschi e di femmine con femmine [...] spinti da intemperanza di piacere» come «contro natura» (2, 8, 636c-d). A proposito di ‘secondo natura’ (katà physin) e di ‘contro natura’ (parà physin), si assiste quindi a una convergenza tra il pensiero fortemente antirelativista (antisofista) di Platone e, alcuni secoli dopo, il pensiero cristiano, quale è stato formulato da san Paolo: una sorta di cementificazione tra Ebraismo, platonismo e Cristianesimo, che – sulla questione di non poco conto dell’omosessualità – potrebbe essere considerata come base e sostrato della nostra antropologia da parte di coloro che sono interessati a rivendicare, di questi tempi, le radici più profonde e autentiche di ‘noi europei’. Ma, a parte le nobili origini platoniche, come stiamo, oggi, con le categorie del ‘secondo natura’ e del ‘contro natura’? È proprio vero che il comportamento sessuale ‘secondo natura’ è invariabilmente diretto a fini procreativi e che rapporti manifestamente sganciati dalla procreazione e dunque soprattutto i rapporti omosessuali siano definibili come ‘contro natura’? Ai tempi di Platone, ai tempi di san Paolo, come ai nostri, per saggiare la validità di queste categorie il confronto con il comportamento degli altri animali diviene indispensabile. Più in particolare, bollare come ‘contro natura’ le unioni omosessuali, come così palesemente viene fatto nel dibattito attuale, significa ritenere che, in natura, gli animali non conoscano l’omosessualità: questa sarebbe purtroppo una pratica tipicamente o esclusivamente umana, dovuta probabilmente alla possibilità dell’uomo di farsi del male (una possibilità originaria, secondo la Bibbia di Ebrei e Cristiani), di allontanarsi dai dettami della natura, di deviare rispetto alle sue leggi e ai suoi fini (quelli della procreazione), che per i Cristiani sono anche le leggi e i fini di Dio. Cosa dicono a questo proposito etologi e biologi? «L’omosessualità non è, come è stato da molti creduto, un fenomeno tipicamente umano»: questo troviamo scritto in un libro di Gior176
gio Celli del 1972, un libro pionieristico, nel quale una serie di casi tratti dall’esame comportamentale di mammiferi, di uccelli, di pesci ecc. portava a sottolineare l’ambivalenza sessuale degli animali, con capovolgimenti di ruolo (da quello maschile a quello femminile e viceversa) talvolta «notevolmente protratti nel tempo» (Celli 1972: 16 e 122). Celli si spingeva anche a tentare una spiegazione. Il comportamento omosessuale – in apparenza così ‘innaturale’, in quanto contrario alla riproduzione – potrebbe essere interpretato come «un meccanismo-tampone atto a frenare l’aumento di densità delle popolazioni animali» (1972: 150). Dopo avere ricordato la leggenda greca, secondo cui Minosse avrebbe favorito l’omosessualità a Creta per limitarne l’incremento demografico, si chiedeva inoltre se l’ipotesi del meccanismo-tampone non fosse estensibile anche al mondo umano, oggi drammaticamente così affollato: insomma, l’omosessualità, comportamento tutt’altro che ‘innaturale’, non potrebbe essere intesa come un tentativo di tamponare con l’affollamento anche i rischi di guerre generalizzate? «L’omosessualità non sarebbe una dichiarazione implicita di pacifismo» (Celli 1972: 151 e 153)? Condivisibili o meno che siano le ipotesi di Celli, di certo il principio dell’innaturalità del comportamento omosessuale ne risultava profondamente scosso. Oggi abbiamo a disposizione i prodotti di una ricerca più estesa e sistematica. Il biologo Bruce Bagemihl ha pubblicato alcuni anni fa un libro di 751 pagine fittissime, frutto di un lavoro decennale di raccolta, valutazione e comparazione di dati osservativi, scientificamente controllati. Il risultato è che per almeno 450 specie di animali (soprattutto mammiferi e uccelli) si può parlare sicuramente di comportamento omosessuale, in una molteplicità impressionante di forme. Volendo sintetizzare al massimo il risultato di questa ricerca, e di altre che nel frattempo si sono aggiunte, ci si può chiedere: ha ancora senso parlare di ‘contro natura’ a proposito del comportamento omosessuale? È questa in effetti la domanda che dà il titolo a una mostra (Against Nature? An Exhibit on Animal Homosexuality), organizzata dal Museo di Storia Naturale dell’Università di Oslo (Norvegia) tra l’ottobre 2006 e l’agosto 2007, allo scopo dichia177
rato di invalidare la concezione secondo cui «il comportamento omosessuale è un crimine contro natura». Sono ovviamente moltissimi i casi che si potrebbero riportare: c’è solo l’imbarazzo della scelta, a seconda che il lettore sia incuriosito da gorilla, orang-utan, delfini, balene, cervi, orsi, oppure giraffe, pinguini, pappagalli (scelti del tutto a caso) e così via, e se si è persa la mostra e non si vuole leggere il libro di Bagemihl, vi è un documentario di 52 minuti: Out in Nature: Homosexual Behaviour in the Animal Kingdom (regia di Stéphane Alexandresco, Bertrand Loyer, Jessica Menendez, Regno Unito, 2001). Ciò che impressiona a una consultazione sia pure rapida di questo enorme materiale è in primo luogo la varietà di modi e tecniche in cui si esprime il comportamento sessuale; in secondo luogo le preferenze di partner che spesso affiorano; in terzo luogo gli attaccamenti sentimentali e affettivi generati da queste preferenze; in quarto luogo le convivenze ‘familiari’, protratte nel tempo, che talvolta ne derivano. Bagemihl in effetti invita il lettore a cogliere, oltre che i fatti del comportamento omosessuale, anche «qualcosa della loro ‘poesia’», perché – egli aggiunge – vi è «bellezza e mistero» nella natura, e una delle forme mediante cui si esprime la bellezza della natura consiste nella «diversità» del comportamento sessuale e di genere nel mondo animale (1999: 6). Dichiarazioni di questo tipo potrebbero suscitare la perplessità di chi volesse attenersi a un discorso strettamente scientifico. Ma occorre probabilmente tenere conto di due considerazioni. La prima è quella di evitare che, non potendo più sostenere l’innaturalità del comportamento omosessuale (vista la sua spettacolare diffusione nel mondo animale), si finisca col dichiarare la sua ‘bestialità’: se anche gli animali adottano comportamenti omosessuali, allora gli omosessuali umani si comportano come le ‘bestie’ (Bagemihl 1999: 77). Il confronto con gli animali giocherebbe sempre a sfavore: nel primo caso gli omosessuali sarebbero ‘contro natura’, nel secondo caso il loro comportamento si rivelerebbe troppo naturale, anzi ‘bestiale’. La seconda considerazione è invece di tipo epistemologico. Bagemihl si rende conto assai bene che il materiale raccolto pone in crisi non soltanto i detrattori dell’omosessualità 178
umana (‘contro natura’), ma anche il paradigma dominante della nostra biologia, che nel comportamento animale non ha visto altro che sesso e, soprattutto, un’attività sessuale rivolta esclusivamente alla riproduzione (Bagemihl 1999: 106-21 e 168-213). È importante a questo punto sottolineare un’operazione che orienta tutta la ricerca di Bagemihl: l’omosessualità è posta in connessione con un concetto più vasto, quello dell’attività sessuale non riproduttiva, che può essere sia etero sia omosessuale. Questo, in effetti, sembra essere il punto cruciale: il significato di comportamenti (sessuali ed erotici) non diretti alla procreazione, la loro incidenza, la loro estensione nell’organizzazione del comportamento animale. Bagemihl non ha esitazione a intitolare il cap. 5 della prima parte Non per procreare soltanto: la riproduzione alla periferia della vita (1999: 168-213). Bagemihl si rende conto, e sottolinea con molta chiarezza, che la riproduzione, pur essendo un obiettivo irrinunciabile, non è l’unico criterio di orientamento. Nella vita sessuale animale esistono altre dimensioni che non possono essere ridotte, o ricondotte, ai fini della procreazione: c’è qualcosa che va decisamente oltre. Al riduzionismo riproduttivo egli oppone quindi «un nuovo paradigma: l’esuberanza biologica» (titolo del sesto capitolo): «la riproduzione non è lo ‘scopo’ ultimo o l’esito inevitabile della biologia. È semplicemente una conseguenza di un modello assai più ampio di ‘dispendio’ di energia» (Bagemihl 1999: 255). Per illustrare questo paradigma Bagemihl ricorre a Georges Bataille, con le sue nozioni di eccesso e di dispendio, così come si avvale di nuove teorie scientifiche, come la teoria del caos e della complessità, l’evoluzione post-darwiniana e le teorie di Gaia e della biodiversità. Ma ciò che più colpisce in questo tentativo teorico è l’ampio spazio che Bagemihl conferisce a ciò che egli chiama le «cosmologie indigene». La chiave per spiegare le attività apparentemente «improduttive» – tra cui l’omosessualità – è da rintracciare in ciò che «a tutta prima può sembrare un’improbabile fonte di ispirazione: il sapere tradizionale di culture indigene e tribali» (Bagemihl 1999: 214). In che cosa consiste questa chiave? Nel considerare «genere e sessualità (sia negli animali sia nelle persone umane) come intrinsecamente mol179
teplici e mutevoli». Nelle non poche pagine che Bagemihl dedica al pensiero delle culture indigene (1999: 214-42), significativamente riaffiora un personaggio a cui ci eravamo già rivolti: due-spiriti, il berdache tanto disprezzato dai rozzi conquistatori europei. Due-spiriti, insieme ai suoi colleghi che Bagemihl ritrova tra Indiani del Nord America, tribù della Nuova Guinea e popolazioni della Siberia e dell’Artico, diviene così il rappresentante di una «saggezza aborigena», costruita mediante secoli o millenni di osservazioni e riflessioni sulla vita umana e sulla vita animale, di un sapere che converge significativamente con le nuove forme di pensiero scientifico e che tuttavia più di queste e prima di queste pone al centro delle proprie considerazioni cosmologiche e antropologiche il ruolo dell’omosessualità e delle trasformazioni di genere (Bagemihl 1999: 257-58). Abbiamo intitolato questo capitolo 11 Una saggezza perduta. Fa un enorme piacere professionale che un biologo, per spiegare l’omosessualità animale, consideri importante il recupero di una saggezza aborigena che la nostra civiltà quasi mai ha riconosciuto, che per lo più ha calpestato e distrutto e che, di questi tempi, gli stessi antropologi stentano a far rivivere.
4. Amori impossibili? Arrivati a questo punto del nostro discorso, converrebbe chiedersi se abbia senso aprire nuovi casi, che potrebbero suscitare ulteriori reazioni di rigetto in chi non si voglia schiodare dall’idea della famiglia ‘naturale’, un’idea fatta di rapporti eterosessuali tra due coniugi in vista della procreazione. Nei paragrafi precedenti (11.2 e 11.3) abbiamo cercato di dimostrare come, per quanto riguarda le unioni omosessuali, altre società abbiano riflettuto, inventato, sperimentato modelli, il cui significato può essere intravisto in una disposizione a creare spazi sociali e a offrire soluzioni che vanno ben al di là della tolleranza. Il principio di base, che vediamo operare in molte società, è che c’è posto per modelli plurimi e alternativi, specialmente quando questi rispondono a bisogni e a circostanze particolari. La 180
saggezza aborigena (Bagemihl) consiste anche in questo. L’antropologia dovrebbe dunque fornire un ‘servizio’, allorché si pone alla ricerca di soluzioni, che non necessariamente dobbiamo copiare, ma da cui possiamo estrarre temi che alla fin fine ci riguardano e ci consentono di vedere con occhi diversi i modelli in cui ci identifichiamo. Perché tutto ciò possa avvenire, perché il servizio antropologico abbia effetto e raggiunga il suo scopo ‘moderatore’, occorre compiere un esercizio non certo facile, ma salutare: provare a sospendere per qualche istante le nostre decisioni e i presupposti che le ispirano e disporsi a considerare la logica di altri presupposti e di altre soluzioni, anche se queste (soprattutto se queste) sono ardite, non solo strane e bizzarre, ma addirittura per noi improponibili, e anche se alcuni tra noi si permettono di definirle ancora ‘contro natura’. La scommessa è che pure in queste soluzioni alternative, combinazioni matrimoniali e familiari ai limiti delle possibilità individuali, vi siano temi e spunti su cui umanamente riflettere. Le unioni omosessuali – qualunque configurazione giuridica e strutturale esse assumano nei diversi contesti – non sono, per definizione, procreative (anche se le tecniche moderne, oltre all’adozione, consentirebbero di superare in parte questo limite). In questo paragrafo intendiamo esplorare altre soluzioni matrimoniali e domestiche, o se si vuole ‘famiglie’, in cui pur realizzandosi un vincolo matrimoniale eterosessuale è assente l’aspetto procreativo. Si tratta di soluzioni in cui la procreazione è resa impossibile non dall’identità del sesso, ma dall’età: di entrambi i coniugi o di almeno uno di essi. Tra i Chukchi della Siberia nord-orientale non erano infrequenti le unioni matrimoniali tra bambini, anche molto piccoli. Protagonisti di questi matrimoni evidentemente combinati erano le rispettive famiglie, che in tal modo allacciavano o confermavano rapporti di alleanza e di amicizia. A noi tutto ciò suonerà come qualcosa di riprovevole, autoritario e retrogrado, di cui non meriterebbe neanche parlare. Ma avviciniamoci senza troppa supponenza, leggendo con attenzione quanto scrive Waldemar Bogoras, l’etnografo russo che studiò i Chukchi e altre popolazioni della Siberia tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento: 181
La maggior parte dei matrimoni tra parenti [cioè tra cugini, secondo un costume diffuso in molte società] vengono conclusi a un’età molto tenera, talvolta quando sposa e sposo sono ancora nella prima infanzia. Una volta che il rito del matrimonio sia stato compiuto, i due bambini crescono giocando insieme. Un po’ più avanti negli anni, essi badano insieme al loro armento [di renne]. Naturalmente, i legami che si sviluppano tra di loro divengono molto forti, spesso più forti persino della morte: quando uno di loro muore, l’altro pure muore dal dolore o compie suicidio (Bogoras 1904-1909: 577).
Ciò che occorre sottolineare, in questa scarna ma precisa testimonianza, è il fatto che i due bambini convivono subito dopo il rito matrimoniale: essi sono già marito e moglie, quando ancora debbono essere nutriti, allevati ed educati e quando ancora sono nell’età dei giochi. Essi stanno fin da subito insieme: vengono accuditi insieme, giocano insieme e poi insieme, da ragazzini, badano ai loro armenti di renne. L’aspetto importante è che la loro condizione di coniugi si inserisce in un processo formativo che evidentemente li riguarda entrambi: da coniugi, essi condividono una crescita comune, e le loro vite si intrecciano così fin dall’infanzia. Anche per ‘noi’ il matrimonio è in qualche modo un intreccio di vite: anzi, per il Cristianesimo si tratta di una fusione tra due persone, le quali dovrebbero diventare «una sola carne» (Matteo 19, 5-6). Ma questo intreccio o fusione avviene quando ormai il processo formativo si è già concluso: prima si cresce, si diventa adulti, si raggiunge la maggiore età (i 18 anni, secondo il nostro codice di diritto civile, art. 84), poi ci si unisce in un vincolo matrimoniale. Pure tra i Chukchi ci si sposa, di solito, in età non così tenera; ma essi non trascurano anche l’altra possibilità, ossia che in determinate condizioni sociali (l’amicizia tra famiglie) si provveda a far sì che l’unione coniugale, così precocemente stabilita, faccia parte integrante della crescita fisica, psichica e sociale dei due bambini. Il risultato qual è? È questo vincolo fortissimo tra i due individui, i quali vedono le loro vite intrecciate dall’infanzia fino alla morte. Ciò è tanto più rilevante se teniamo conto di quanto succede nei matrimoni ‘normali’. Nonostante il rito matrimoniale (unzione degli sposi con il sangue di una renna sacrificata), avente lo scopo evidente di 182
rafforzare i vincoli coniugali, «i matrimoni chukchi non sono affatto permanenti» e possono sciogliersi con estrema facilità (Bogoras 1904-1909: 596). Alla luce di questa opposizione tra stabilità e instabilità, tra permanenza e precarietà – tema che abbiamo già visto affiorare più volte a proposito delle famiglie e che, avendo segnato il nostro discorso sin dall’inizio, lo accompagnerà sino alla fine –, possiamo affrontare gli altri casi che intendiamo esaminare in questo paragrafo. Siamo partiti dal matrimonio tra bambini: la loro tenera età impedisce che l’unione abbia un immediato effetto procreativo, mentre consente di intrecciare da subito le vite dei due sposi. I Chukchi ci presentano ora un’altra situazione, quella del matrimonio in cui uno dei coniugi è adulto e l’altro bambino. Bogoras riferisce infatti due casi: quello di una donna di vent’anni con un marito di cinque e quello di una donna «matura» sposata a un bambino di due anni. Nel primo caso, si legge che «la moglie del bambino si comportava come la sua nurse: gli dava da mangiare con le sue mani e lo metteva a letto» (Bogoras 1904-1909: 578). Nel secondo caso, veniamo a sapere che il bambino di due anni, il quale doveva ancora essere allattato, aveva perso la mamma (morta di influenza) e che la famiglia aveva cercato una donna che aiutasse nei lavori di casa: «quasi immediatamente il bambino venne fatto sposare a una ragazza ormai adulta». Per capire il comportamento e la decisione delle due donne occorre conoscere un’istituzione diffusa tra i Chukchi, quella dei ‘compagni di matrimonio’. Come già abbiamo visto a proposito del ‘co-matrimonio’ degli Inuit dell’Alaska (cfr. par. 9.7), anche tra i Chukchi si realizzavano legami tra famiglie diverse e questi rapporti, considerati come «uguali a un legame di sangue», costituivano una rete importante, e persino indispensabile, di «amici» e di gente che potevano dare aiuto e protezione al bisogno, compresa la disponibilità delle mogli (Bogoras 19041909: 604-605). «Al giorno d’oggi», sosteneva Bogoras, «praticamente tutte le famiglie chukchi» risultano collegate a qualche altra famiglia (anche di stranieri) attraverso l’istituzione dei ‘compagni di matrimonio’. Entrambe le donne di cui stiamo 183
parlando avevano un loro «compagno di matrimonio», da cui potevano avere dei figli. I compagni di matrimonio sono dunque, per così dire, una rete di salvataggio, a cui si può ricorrere anche quando vi è una sproporzione di età così evidente tra i due coniugi. È questa rete che consente alle due donne di dedicarsi – in modo quasi materno – ai loro piccoli mariti, e alla seconda di esse di allattare al seno sia il figlio ottenuto da un ‘compagno di matrimonio’ sia suo marito («quando allattava suo figlio, allattava pure il suo marito bambino»); e tra i Chukchi – sottolinea maliziosamente Bogoras – i bambini vengono allattati fino ai cinque-sei anni (Bogoras 1904-1909: 578). Ma perché una donna ‘matura’ – sia pure sostenuta, per così dire, dalla rete dei compagni di matrimonio – mette su casa, anzi si sposa, con un bambino di due anni? Bogoras rivolse questa domanda ai Chukchi e la risposta che ottenne fu la seguente: «Chi lo sa? Forse è una specie di incantesimo per assicurarsi l’amore del giovane marito nel futuro». È un bisogno profondo di amore – e di amore «romantico» Bogoras parla diverse volte nel caso dei Chukchi (1904-1909: 583) –, di attaccamento a una persona, che non passa attraverso il sesso, ma piuttosto attraverso il cibo, il nutrimento, la cura infantile: un amore che viene, per così dire, ‘allevato’ e ‘nutrito’, mentre si alleva e nutre un coniuge bambino. In una società dove l’instabilità matrimoniale è altissima, anche questi «matrimoni tra persone di età sproporzionate» (Bogoras 1904-1909: 578), alla stessa stregua dei matrimoni tra bambini, costituiscono un modo per ‘stabilizzare’ un rapporto affettivo profondo. Quando uno di questi bambini sarà diventato adulto – ci dice l’etnografo russo – sua moglie sarà ormai «sfiorita»; ma l’attaccamento, ottenuto con le cure quasi materne di cui la moglie è stata prodiga, rimarrà, e garantirà quell’«armonia» che, secondo Bogoras, contraddistingue queste unioni, consentendo loro di sfidare in qualche modo il tempo. Solo i Chukchi mettono in piedi queste strane situazioni, sia pure per motivi sentimentalmente così importanti? Secondo quanto scrive Lévi-Strauss, «numerose società, proprio in occasione del matrimonio, praticano la confusione delle generazioni, la mescolanza delle età, il capovolgimento dei ruoli, e l’iden184
tificazione di relazioni ai nostri occhi incompatibili» (1969: 623). E dopo avere illustrato il caso dei Chukchi, ci ricorda che esso non è unico e che possiamo trovare casi analoghi tanto in Nuova Guinea quanto nell’America del Sud. Degli Arapesh della Nuova Guinea ci parla Margaret Mead, la quale riferisce che il fidanzamento avviene tra un giovane di 13-14 anni e una bambina di non più di 6-7 anni (Mead 1967: 105). È normale che un giovane parli con entusiasmo di una bambina di cinque anni, poiché la scelta della fidanzata avviene appunto più o meno a quell’età; «ma la scelta non ha il minimo contenuto sessuale» (1967: 106). Il fidanzamento comporta che la bambina vada a vivere nella casa del futuro sposo; qui ella dovrà crescere, avere le sue prime mestruazioni, svilupparsi fino al punto di potersi sposare. Qui, nella casa del futuro marito, in un’atmosfera calda, accogliente e premurosa, la fidanzata bambina viene propriamente allevata. Da chi? Leggiamo quanto scrive la Mead (1967: 105, corsivo nostro): Il giovane arapesh alleva la propria moglie. Come il padre fonda la sua autorità nei confronti del figlio sul fatto non di averlo messo al mondo, ma di averlo nutrito, così l’uomo fonda il suo diritto alla devozione e alle cure della moglie non sul prezzo che egli ha pagato all’atto del fidanzamento o sull’idea di esserne il padrone legale, bensì sul fatto di averle procurato materialmente il cibo, diventato poi carne e ossa di lei [...]. Al fidanzato adolescente incombe in particolare l’obbligo di coltivare l’igname, di curare il sago, di cacciare la carne di cui nutrire la fanciulla. A queste cose soprattutto si richiamerà più tardi per affermare il suo diritto. Se essa è lenta, svogliata, se fa il broncio, egli le ricorderà: «Ho curato il sago, ho coltivato l’igname, ho ucciso il canguro di cui è fatto il tuo corpo. Perché non porti a casa la legna?».
Ma è soltanto una questione di cibo o non piuttosto il nutrimento rappresenta in maniera tangibile un processo di plasmazione e di formazione a cui inevitabilmente la bambina viene sottoposta? Passano – afferma la Mead (1967: 113) – lunghi anni in cui i due fidanzati «vivono assieme come fratello e sorella», e di sesso ancora non si parla: 185
Gli Arapesh non sanno concepire il sesso al di fuori del vincolo matrimoniale [...]. Il sesso è una cosa sicura e valida soltanto nell’ambito del matrimonio, di un matrimonio preparato da tempo, basato su sentimenti di amicizia e in cui gli individui hanno visto che si trovano a proprio agio (1967: 123, traduzione modificata).
Prima del sesso c’è altro: c’è la crescita, la formazione, la convivenza; e tutto ciò per gli Arapesh deve essere iniziato presto, da bambini. Solo quando la fanciulla «sarà perfettamente matura» e il giovane «alto e ben sviluppato», sarà consentito agli sposi di «andare insieme, da soli, nella boscaglia», dove consumeranno il loro matrimonio senza fretta, «portando semplicemente al suo naturale sbocco una situazione nella quale hanno vissuto bene per anni» (1967: 122, corsivo nostro). Per ottenere questo risultato, gli Arapesh adottano un metodo che a noi pare ‘innaturale’: il fidanzamento precoce, la convivenza di fidanzati bambini. «Gli Arapesh vogliono che i loro matrimoni durino» (ecco di nuovo l’idea della stabilità e della permanenza), e in vista di ciò non si sentono legati da norme che vietino matrimoni «fra persone di età sbagliata» (Mead 1967: 106-107, corsivo nostro). E ora, per concludere, lasciamo la parola a Lévi-Strauss, per un caso di cui è stato diretto testimone nelle sue ricerche nell’America del Sud: Abbiamo assistito noi stessi, presso i Tupi-Kawahib dell’Alto Madeira, nel Brasile centrale, al fidanzamento di un uomo di una trentina di anni con una bambina di appena due anni che la madre portava ancora in braccia. Niente di più toccante della commozione con cui il futuro marito seguiva i giuochi puerili della sua piccola fidanzata; non smetteva di ammirarla e di partecipare i suoi sentimenti agli spettatori. Per anni il suo pensiero sarebbe stato occupato dalla prospettiva di metter su casa; si sarebbe sentito confortato dalla certezza, che gli cresceva al fianco in forza e bellezza, di sfuggire al celibato. E fin da allora la sua nascente tenerezza si esprimeva con doni innocenti. Questo amore – che secondo i nostri criteri sarebbe dilaniato tra tre ordini irriducibili di sentimenti, quello paterno, quello materno e quello maritale – nel suo contesto appropriato non presentava alcun elemento torbido, e nulla lasciava supporre in esso una qualsiasi tara che potesse 186
mettere in pericolo la futura felicità della coppia, e ancor meno l’intero ordine sociale (1969: 625, corsivi nostri).
Molti – come è giusto – continueranno ad avvertire una dissonanza morale rispetto ai casi che abbiamo illustrato in queste pagine. È giusto avvertire dissonanza, in quanto sono in gioco scelte, criteri e presupposti diversi. L’antropologia non ha lo scopo di appiattire i criteri, di eliminare le dissonanze, ma di far capire perché le dissonanze esistono e si avvertono. Si vorrebbe tuttavia compiere un passo ulteriore: un avvicinamento a ciò che ci sembra tanto strano e incompatibile per capirne le esigenze di fondo. Abbiamo riservato per ultima la citazione del brano di Lévi-Strauss perché ci sembra che in esso si possa cogliere un elemento ispiratore unificante: matrimoni ‘bambini’ – se così possiamo esprimerci – dove prevalgono la tenerezza, gli affetti, la dedizione, sia pure in modi che noi non condividiamo. Amori impossibili? Così abbiamo voluto intitolare questo nostro paragrafo per suscitare un dubbio almeno sulla loro impossibilità e, con questo dubbio, provare a fermare il gesto con cui qualcuno, spazientito, vorrebbe forse scaraventare nella pattumiera delle cose ‘contro natura’ anche questi ‘matrimoni bambini’, in cui al sesso si sostituisce il nutrimento e alla procreazione un amore profondo e duraturo.
5. Finzioni procreative Eppure la procreazione è importante: per tutti? No, non per tutti: per tutte le società. Se nel capitolo precedente abbiamo visto come vi siano casi in cui procreazione e famiglia sono faccende piuttosto distinte e separate (i soliti Nayar e Na), i primi paragrafi di questo capitolo ci hanno mostrato in effetti come in diverse società vi siano strutture predisposte a favore di chi, per un motivo o per un altro, non può o non vuole procreare. Sotto questo profilo, sarebbe interessante svolgere una ricerca antropologica sulle modalità e sulle motivazioni culturali della ‘non procreazione’: nel capitolo conclusivo di questo libro incontre187
remo un caso in effetti assai imponente. In questo paragrafo però ci concentriamo sui meccanismi contrari: non su modalità e modelli che consentono e giustificano la non procreazione, bensì su espedienti mediante cui si cerca di ovviare al problema dell’impossibilità della procreazione, ovvero sulle soluzioni che a questo proposito possono essere culturalmente inventate. La nostra società ne sa qualcosa. Basti pensare a che cosa non si fa, di questi tempi, per ottenere un figlio: non un figlio di altri (mediante l’adozione), bensì un figlio proprio, fatto con il proprio corpo. Come dimostra per esempio Margaret Lock, a proposito del Giappone, il ricorso alle tecnologie riproduttive viene giustificato come «il mezzo più appropriato per ottenere una famiglia ‘naturale’»: è giusto, è corretto ed è naturale che la donna faccia dei figli (e possibilmente ‘perfetti’, senza difetti e senza tare) e la tecnologia medica è vista «come un rafforzamento della ‘naturalità’ del concepimento e della nascita» (Forni 2006: 177; Lock 2006). Noi ci rivolgiamo alla tecnologia medica per risolvere i nostri problemi procreativi (Strathern 1992a, 1992b). Ma altrove? Altrove capita che ci si rivolga a una sorta di micro-ingegneria sociale. I Nuer del Sudan offrono un ottimo esempio di questo tipo di interventi. Prendiamo una donna che non riesca ad avere dei figli, e per i Nuer – come per molte società africane – si tratta di una faccenda alquanto seria. Ma tra i Nuer c’è una scappatoia assai interessante, che consente alla donna di sfuggire a un triste destino di marginalità e di inutilità sociale. Tanto per cominciare, una donna sterile assume spesso il ruolo di mago o di divinatore, e in questo modo – anziché essere marginalizzata – guadagna prestigio sociale e beni economici, ovvero bestiame (Evans-Pritchard 1951: 108-109). Inoltre (e questo è per noi l’aspetto più curioso e interessante), non potendo avere figli la donna sterile non è una vera donna. La sua condizione di sterilità l’allontana infatti dalla condizione femminile e la rende disponibile a essere assimilata alla condizione maschile. Certo, tutti sanno che essa non è un uomo, ma viene trattata ‘come se’ fosse un uomo. Guardiamo infatti il suo rapporto con il lignaggio paterno (i Nuer sono una società patrilineare): se fosse una 188
vera donna, essa andrebbe in sposa presso un altro lignaggio (quello del marito), il quale in cambio darebbe del bestiame al lignaggio da cui proviene. Essendo sterile, essa non lascia il suo lignaggio, ma neppure viene messa in un canto. Dal punto di vista del suo lignaggio, questa donna viene considerata come se fosse un suo componente maschile, e in questa veste essa partecipa – come i suoi fratelli, per esempio – alla distribuzione del bestiame che si ottiene con i matrimoni delle sue nipoti (le figlie dei suoi fratelli). In questo modo, la donna sterile è in grado di accumulare del bestiame, che si va ad aggiungere a quello da lei guadagnato come maga e come divinatrice. E con tutto questo bestiame cosa può fare? Può utilizzarlo per avere, a sua volta, una moglie, proprio ‘come se’ fosse un uomo. Ripetiamo: non è un uomo (nemmeno sotto il profilo dell’omosessualità), ma è come se lo fosse; e a questo titolo «il marito-donna sposa sua moglie esattamente nello stesso modo in cui un uomo sposa una donna» (Evans-Pritchard 1951: 108). Si dirà: casi rari; e invece – come riferisce Edward E. Evans-Pritchard (l’eccellente studioso dei Nuer) – «questi matrimoni non sono affatto insoliti nella regione dei Nuer». La finzione non si ferma qui, perché il problema non è sposarsi, ma avere figli. A questo punto, la donna sterile procura non soltanto una casa alla moglie che ha sposato, ma anche un uomo (che può essere un parente, un vicino, un amico e talvolta «un povero Dinka», popolazione attigua ai Nuer), il quale avrà la funzione di mettere incinta la ‘moglie’, dunque di farle fare dei figli e di accudire in qualche modo alla casa, quando c’è bisogno di braccia maschili. Quando poi in un domani succederà che le figlie nate in questa famiglia andranno in spose, egli sarà ricompensato con un capo di bestiame: la ‘mucca della procreazione’. Ma pur avendo questo riconoscimento, egli non è affatto il padre dei figli che ha contribuito a far nascere: il padre è propriamente la donna sterile, il maritodonna, la quale infatti sarà chiamata propriamente ‘padre’ da questi figli e, proprio ‘come se’ fosse un uomo, i suoi figli porteranno il suo nome (Evans-Pritchard 1951: 109). I Nuer sono davvero specialisti di ‘finzioni’ familiari: riescono a costruire famiglie anche quando sembrerebbero mancare 189
certi requisiti indispensabili, e soprattutto riescono a far avere dei figli a chi, per ragioni biologiche, non potrebbe averne. Con le loro ‘finzioni’, con i loro ‘come se’, riescono a superare ostacoli in apparenza insormontabili. Se una donna è sterile, è sterile: non c’è il minimo dubbio; ma ingegnandosi socialmente si può trovare una soluzione al suo problema, soluzione del resto che va a vantaggio di tutti, non solo dell’interessata. Anziché abbandonarla in un angolo, ci si inventa la soluzione del suo ruolo di pater (questo è il termine usato da Evans-Pritchard): genitor, colui che fa procreare, è invece quell’altro uomo che infatti riceve la ‘mucca della procreazione’. Visto che distinguono assai bene tra pater e genitor, i Nuer non possono essere tacciati di ignoranza o di confusionismo primitivo. Semplicemente, non si rassegnano di fronte all’ineluttabilità del destino (se vogliamo esprimerci in questi termini), ma mettono a frutto un loro ‘sapere’ su come sono costruite le famiglie per approntare soluzioni che molti di ‘noi’ giudicherebbero insensate e ‘contro natura’. Quali sono i fondamenti di questo sapere? Forse possono essere individuati nella consapevolezza che le famiglie non sono scritte nella natura (o imposte da Dio), ma sono costruzioni sociali e che, in quanto tali, possono assumere configurazioni diverse. Potremmo dire che i Nuer sono anche consapevoli del carattere convenzionale – per l’appunto, finto e costruito – dei ‘generi’, distinguendo anche qui accuratamente tra ‘genere’ e ‘sesso’: quella donna sterile è pur sempre donna sotto il profilo sessuale, ma assume ruoli da genere maschile nei confronti del suo lignaggio d’origine e della sua famiglia ‘finta’, cioè di sua moglie e dei suoi figli. Spesso succede in antropologia che siano le società da noi studiate quelle che ci insegnano i fondamenti del nostro sapere. Tutto sta a riconoscere a queste società una loro cultura, che vuol dire pensiero, immaginazione, cura, ma anche consapevolezza delle ‘finzioni’ con cui decidono di affrontare certi problemi. Vogliamo terminare queste pagine con un ultimo esempio di ‘finzione procreativa’ ricavato dai Nuer. Il problema della procreazione non riguarda infatti soltanto le donne; può riguardare anche gli uomini; e questo succede quando un uomo muore sen190
za lasciare eredi maschi che possano perpetuare il suo nome all’interno del lignaggio. La soluzione inventata è stata chiamata da Evans-Pritchard con un’espressione che è rimasta nel gergo degli antropologi: ghost-marriage, il matrimonio con il ‘fantasma’, il matrimonio con lo ‘spirito del morto’. Proviamo a immaginare che A sia un uomo deceduto senza figli. Un suo parente B utilizza il bestiame di A per sposare una moglie ‘a nome’ dell’uomo deceduto, rimanendo inteso che il ‘marito legale’ è il morto, non colui che si è sposato a suo nome (Evans-Pritchard 1951: 109). Si tratta – come sostiene Evans-Pritchard – di un «matrimonio vicario», nel quale il «marito vicario» agisce «come se egli fosse il vero marito: mogli e figli dovranno portargli rispetto e riconoscere la sua autorità». Nelle faccende della vita quotidiana, e comunque fino a quando i figli sono piccoli, non è facile accorgersi di questa doppia situazione: un marito-padre presente nella vita di tutti i giorni, che è un genitor, e un pater che invece è defunto. A mano a mano che i figli crescono, però, il nome del loro pater si presenta in maniera sempre più insistente: essi si considerano figli di A, del loro pater (anche se il genitor è un altro). Alla fine è il nome del pater che sopravvivrà nella genealogia del lignaggio, e «un figlio conosce sempre il nome del suo pater» (Evans-Pritchard 1951: 110). Del resto, anche sotto il profilo giuridico, «il marito legale è lo ‘spirito’ in nome del quale la ricchezza della sposa è stata pagata e il rituale del matrimonio è stato compiuto»: la moglie viene infatti chiamata «ciekjooka, la moglie di uno spirito, e i suoi figli sono gaatjooka, i figli di uno spirito». In fondo, questa famiglia è composta da una donna, dai suoi figli, dall’uomo che ha fatto procreare questi figli e dallo ‘spirito’ del morto, in nome del quale e per conto del quale questa famiglia è stata costruita. Sarebbe veramente una gran brutta cosa se non si provvedesse, con questa finzione procreativa, a far sì che un uomo (A) non venisse «ricordato nei suoi figli»: «questo è il più elementare obbligo di parentela, e se non venisse rispettato, lo spirito del morto potrebbe mettersi a perseguitare i suoi parenti» (Evans-Pritchard 1951: 109). I Nuer riconoscono e rispettano questo desiderio profondo di sopravvivere in qualche modo alla morte attraverso i figli: la 191
discendenza è ciò che assicura – come ha osservato il demografo Nathan Keyfitz (1986: 149) – una sorta di «immortalità sostitutiva». E quando uno muore senza figli, non potendo utilizzare il suo sperma conservato in qualche banca apposita, tra i Nuer si provvede a utilizzare il suo bestiame, con cui un sostituto otterrà una moglie e genererà i ‘suoi’ figli, i figli dello ‘spirito’. Tutti sanno che questi figli non sono stati ‘generati’ dal morto; ma è come se lo fossero. ‘Come se’ non è la stessa cosa di ‘è’: i figli ‘non sono’ figli del morto. ‘Noi’ Nuer ‘fingiamo’ però che lo siano. Che cosa significa tutto ciò? Significa che c’è tra ‘noi’ un accordo, una convenzione, in base alla quale consideriamo quei figli come se fossero la reale discendenza del nostro parente o del nostro concittadino deceduto; e facciamo tutto questo, perché sappiamo quanto sia importante non sparire con la morte nel nulla, bensì essere ricordati nel tempo attraverso i propri figli. Anche ‘noi’ Europei non siamo esenti da questi tipi di finzione, come per esempio il matrimonio in articulo mortis, previsto dal diritto canonico. Tutto sta a vedere quanto le società attribuiscano una dimensione di consapevolezza alle loro finzioni e quanto invece vogliano celare la loro base convenzionale, umana e sociale. In fondo, la ‘saggezza’ di cui abbiamo voluto parlare in questo capitolo consiste proprio in ciò: nel sapere che le nostre famiglie non sono inchiodate nella ‘natura’; nell’immaginare soluzioni alternative e ospitarle tra noi; nell’essere consapevoli della relatività e convenzionalità delle nostre finzioni, oltre che della loro temporanea sensatezza.
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Un’altra natura
1. L’incertezza al posto della stabilità Tra le sfide che la Chiesa Cattolica di questi tempi dovrebbe saper raccogliere, Giovanni Filoramo sostiene che vi è la crisi del «sistema natura»: Questa natura, infatti, non è più un ordine, né conosce più leggi, almeno nel senso tradizionale. Lo sviluppo attuale delle scienze e del dibattito scientifico, infatti, ha messo in crisi, in modo irreversibile, i presupposti e le modalità stesse di concepire quella ‘legge naturale’ che sta alla base in generale delle prese di posizione del magistero sui vari problemi concernenti la sfera della vita e, in particolare, la sfera della sessualità. Quel che è più, questa ‘legge naturale’, posta di fronte ai mutamenti radicali della biologia e della genetica, svela sempre più chiaramente la sua dimensione di costrutto ideologico (Filoramo 2007: 35).
Ma non è soltanto la natura della biologia e della genetica; è anche la natura della fisica e della chimica che è mutata, ed è mutata nel senso indicato da Filoramo. Come si è argomentato nella Parte prima di questo scritto, il ricorso alla natura è stato fatto per motivi di stabilizzazione, ma le immagini della natura sono diverse: la natura per la fisica di Isaac Newton non è la stessa natura della fisica di Niels Bohr o di Werner Heisenberg. Diamo la parola su questo punto a scienziati come Ilya Prigogine e Isabelle Stengers, che hanno molto meditato sui diversi modelli di natura: Ogni grande era della scienza ha avuto un modello della natura. Per la scienza classica fu l’orologio; per la scienza del XIX secolo, l’era della rivoluzione industriale, fu un meccanismo in via di esaurimento. Che 193
simbolo potrebbe andar bene per noi? Forse, l’immagine che usava Platone: la natura come un’opera d’arte (Prigogine, Stengers 1981: 23).
Si potrebbe forse ritornare su certe implicazioni di questa concezione della natura come opera d’arte, quando parleremo del significato antropo-poietico della cultura e degli interventi estetici sul corpo che così spesso la contraddistinguono (cfr. parr. 12.3 e 13.4). Per ora, cominciamo con il rilevare come questa immagine si accompagni facilmente all’idea che la natura presenta una ricchezza esorbitante di fenomeni e di aspetti (l’«esuberanza biologica» di Bruce Bagemihl, cfr. par. 11.3), e che proprio per questo essa non può essere racchiusa e dominata da un solo «punto di vista dal quale, come un dio potrebbe fare, sia visibile simultaneamente la realtà nella sua interezza» (Prigogine, Stengers 1981: 228). Quando quindi si dice ‘natura’, ci si dimentica troppo spesso della «ricchezza della realtà, che straripa da ogni possibile linguaggio», così come si dimentica che ogni punto di vista e ogni linguaggio non sono altro che frutto di «una scelta», di «un’esplorazione elettiva» che voglia addentrarsi nella complessità del reale. Ilya Prigogine e Isabelle Stengers hanno molto contribuito a costruire un’immagine della natura che tenga conto della sua complessità, e quindi degli aspetti di irreversibilità, di instabilità e di imprevedibilità che contraddistinguono i sistemi naturali, aspetti che sono emersi quanto più la conoscenza della natura si è estesa verso i confini dell’universo, sia in senso microscopico sia macroscopico. Ma forse più importante che questa estensione dei limiti dell’Universo, è la morte dell’idea della sua immutabilità. Dove la scienza classica aveva amato sottolineare la permanenza, noi vediamo ora mutamento ed evoluzione; troviamo particelle elementari che si mutano l’una nell’altra, che collidono, si decompongono e nascono; non vediamo più i cieli pieni di traiettorie periodiche – il cielo stellato che faceva traboccare di ammirazione il cuore di Kant allo stesso titolo della legge morale che sentiva abitare in lui –: vediamo strani oggetti: quasar, pulsar, vediamo esplodere e scindersi le galassie; le stelle, ci raccontano, collassano in buchi neri che divorano irreversibilmente tutto ciò che cade nella loro trappola (Prigogine, Stengers 1981: 214). 194
La teoria della complessità, a cui Prigogine e Stengers hanno fornito un importante contributo, non si limita tuttavia a sottolineare come «la stabilità e la semplicità sono eccezioni» nel mondo naturale (1981: 215), ma pone anche in evidenza la ‘relatività’ del punto di vista a partire dal quale la natura viene osservata. Del concetto di natura fanno parte i mezzi teorici con cui viene indagata; per cui la pretesa di universalità della fisica newtoniana viene sostituita dalla consapevolezza della relatività dell’osservatore, che è «collocato nel mondo», e non solo il mondo fisico, ma anche il mondo sociale e culturale (Prigogine, Stengers 1981: 218). Ciò che si ottiene non è una «fisica dell’assoluto», ma «una fisica umana», fatta di tentativi ed errori, di scelte e di incompletezze, non di affermazioni sulla stabilità, ma di indagini sui «sistemi instabili», di cui è fatta la natura. «Il mondo della scienza classica era dominato da leggi eterne [...] un mondo ordinato, in cui gli unici eventi che potevano accadere erano quelli da sempre deducibili dallo stato istantaneo del sistema» (Prigogine, Stengers 1981: 266). Ma oggi il mondo fisico si presenta come profondamente instabile, caratterizzato da irregolarità, molteplicità, casualità e persino da violenza: un mondo stranamente simile a quello degli esseri umani che lo abitano e lo osservano, e che da sempre lo esplorano. Non si tratta infatti di dominare una natura a cui è stata tolta la sua complessità, una natura vista nella sua struttura permanente, fatta di poche leggi eterne; si tratta invece di esplorare, con attenzione e con rispetto, una realtà di cui si riconosce la ricchezza e insieme la radicale complessità e imprevedibilità. Su questa base, Ilya Prigogine e Isabelle Stengers propongono ‘alleanze’ scientifiche irrinunciabili per un antropologo: da un lato, l’avvicinamento alle scienze sociali, provocato in primo luogo dal tema della complessità, e dall’altro l’interesse per «forme di sapere, di pratica e di cultura prodotte dalle società umane» (Prigogine, Stengers 1981: 286). È lo stesso atteggiamento che avevamo già scoperto nel biologo Bagemihl a proposito del comportamento degli animali. Fisici, chimici e biologi si trovano così a essere compagni di strada non solo di storici, sociologi, antropologi e filosofi, ma anche di quella varietà di culture che nella loro storia 195
non possono non avere meditato sulla natura, sul suo fascino, sui suoi misteri, sui suoi processi, come del resto una tradizione di studi (che nel capitolo 3 abbiamo richiamato attraverso i nomi di Claude Lévi-Strauss e di Philippe Descola) ha ampiamente dimostrato. Complessità, difficoltà di penetrazione in un mondo reso «pericoloso ed incerto» dalla sua radicale imprevedibilità, è il tema che Prigogine e Stengers rintracciano in alcuni testi talmudici (1981: 287) e che propongono per questo dialogo, nello stesso tempo inedito e antico, tra coloro che osservano la natura. Vale la pena leggere il brano che essi traggono da un testo di André Neher (1975: 179): Ventisei tentativi hanno preceduto la genesi attuale e tutti erano destinati a fallire. Il mondo dell’uomo è uscito dal grembo caotico di questi detriti anteriori, ma nemmeno esso ha un certificato di garanzia: anche esso è esposto al rischio del fallimento e del ritorno al nulla. «Speriamo che questo funzioni» [Halway Sheyaamod], esclamò Dio creando il mondo, e questa speranza che ha accompagnato tutta l’ulteriore storia del mondo e dell’umanità ha sottolineato fin dall’inizio come questa storia è segnata col marchio della radicale incertezza.
Sono per noi parole preziose quelle con cui Prigogine e Stengers, commentando questo testo, vanno verso la conclusione del loro libro. La fisica classica appare come una scienza che ha eccessivamente impoverito la natura, riducendo la sua complessità, cercando di fornirle un ordine stabile e sicuro: una scienza che ha provveduto – per così dire – a una ‘stabilizzazione’ forzata, dialogando soltanto con la natura e con Dio, e con nessun’altra cultura (cfr. la Parte prima). Le parole che ora troviamo in questa ulteriore citazione di Prigogine e Stengers (1981: 287-88) richiamano infatti il tema di una ‘stabilizzazione assoluta’ della natura, che oggi risulta difficilmente proponibile: «Là dove la scienza ci aveva mostrato una stabilità immutabile e pacificata, comprendiamo invece che nessuna organizzazione, nessuna stabilità è, in quanto tale, legittima o garantita». Siamo noi che, in determinate circostanze storiche e culturali, abbiamo costruito questa stabilità, abbiamo voluto vedere nella natura una 196
stabilità che garantisse il nostro dominio su di essa. Ma «la natura non è fatta per noi, essa non è abbandonata alla nostra volontà», ai nostri progetti di dominio e di sfruttamento. Ciò che si può fare è organizzare – non diversamente da tante altre società – un’«avventura esploratrice della natura», consapevole che il percorso può partire da un punto e seguire un tracciato tra molti altri, senza avere la pretesa che questa sia la strada maestra e che tutte le altre avventure siano letteralmente ‘errori’ e deviazioni. Grazie a questa profonda consapevolezza Prigogine e Stengers concludono il loro libro con la necessità di «nuove alleanze, alleanze da sempre annodate», ma «per tanto tempo misconosciute», alleanze con i «saperi» che altri uomini, in altri tempi e «badando ad altre pecore in altre vallate» (per dirla con Geertz 1987: 70), hanno sviluppato sulla natura, senza lasciarsi troppo ossessionare dal principio di una stabilità assoluta.
2. Dubbi sulla natura umana Nel quadro di una natura così incerta, instabile e imprevedibile, quale emerge dalle considerazioni di scienziati attenti alla complessità del reale, che ne è della natura umana, a cui così volentieri e con tanta fiducia fanno ricorso i sostenitori della famiglia ‘naturale’? Quando si parla di ‘natura umana’, è inevitabile immaginare un insieme di caratteri costanti, di elementi biologici e psicologici che – almeno da una certa epoca in poi – si auto-riproducono in ogni essere umano, una struttura dunque sufficientemente stabile, autonoma e permanente, come Benedetto XVI ha chiaramente sostenuto nel suo discorso del 25 marzo 2007 (cap. 1). Autonoma rispetto a che? Rispetto alle variazioni individuali, alle scelte personali e collettive, alle vicissitudini storiche, alle diversità di usanze e di costumi, a tutto ciò, in altre parole, che permanente non è e che anzi è causa di difformità nel comportamento degli esseri umani. Ma queste difformità ci sono e costituiscono senza dubbio una dimensione che entra in apparente contrasto con l’uniformità della natura umana. Tutto sta a vedere se queste difformità sono comunque compatibili 197
con la natura umana (in qualche modo assorbibili da essa) o se, invece, il contrasto – quello che oppone la difformità dei costumi e delle scelte all’uniformità della natura umana – sia tale da richiedere l’intervento di un altro fattore causale, accanto o oltre la natura umana. In effetti, se esiste la natura umana, e se noi dobbiamo procedere – come ci invita a fare Benedetto XVI – al riconoscimento, senza esitazione e «con chiarezza», della sua «esistenza certa», perché mai difformità così vistose tra gli uomini e tra le società umane, su questioni così importanti e decisive come, per esempio, la sessualità e la famiglia? Si comprende facilmente che approntare la categoria del ‘contro natura’ sia un espediente per liberarsi dalle difformità più fastidiose e più contrastanti con i principi (di solito i propri) ritenuti peculiari e costitutivi della natura umana. Ma è un espediente dal respiro breve, perché il problema si ripresenta e in maniera ancora più grave, essendo costretti a rispondere alla seguente domanda: come mai tanti esseri umani e tante società non seguono la natura umana, a tal punto da comportarsi ‘contro natura’? Quali sono i fattori che li spingono a deviare fino ad andare ‘contro’ la natura umana? Come può essere che gli esseri umani, i quali si portano dentro la loro natura non per scelta, ma per un’eredità biologica inalienabile, adottino un comportamento tanto contrastante con i suoi principi? Come può essere, inoltre, che essi non si accorgano del loro deviare e del loro andare ‘contro’ e non si rendano conto di un conflitto interno così lacerante e insopportabile tra comportamento e natura? Infine, perché mai noi dovremmo – secondo l’insegnamento di Benedetto XVI – «riconoscere l’esistenza certa» della natura umana? Se c’è bisogno di tale riconoscimento – un riconoscimento che dovrebbe preludere (se comprendiamo bene) a un adeguamento del nostro agire morale ai principi naturali –, ciò non significa forse che, oltre alla natura umana, c’è qualche altro fattore, o quanto meno qualche altra dimensione, superata la quale si perviene appunto al riconoscimento e all’adeguamento? Tutto questo per dire che, forse, la natura umana – anche per i suoi sostenitori – non basta, non è sufficiente per chiarire la questione del comportamento umano, considerato specialmente 198
sotto il profilo della sua diversità e della sua deviazione rispetto ai principi e ai modelli iscritti nella natura. In effetti, i discorsi sulla natura umana prima o poi tirano in ballo un’altra dimensione, e quindi si procede di solito alla descrizione della ‘condizione umana’ rifacendosi a un binomio assai collaudato nel pensiero occidentale: natura (umana) e costumi, physis e nomos, natura e mores. Sulla faccenda dei costumi in relazione alla natura, molti filosofi – tra Seicento e Settecento – hanno riflettuto e scritto trattati impegnativi, soprattutto da quando Blaise Pascal, in pieno Seicento, ereditando il pensiero di Montaigne, ebbe il coraggio di sostenere una sorta di culturalizzazione della natura e di naturalizzazione dei costumi. Citiamo di nuovo il suo pensiero: «Ho una gran paura che questa natura [la natura umana] sia anch’essa un primo costume, così come il costume è una seconda natura... Il costume è la nostra natura» (Pascal 1962: 116). In pochissime parole, Pascal compie una rivoluzione di grande importanza nel modo di intendere i rapporti tra natura (N) e costumi (c). Per essere molto sintetici, possiamo illustrare a questo proposito tre paradigmi, che chiameremo rispettivamente ‘ornamentale’, ‘funzionale’, ‘formativo’. 1. Il primo potrebbe essere chiamato il paradigma dell’ornamento e del nascondimento. I costumi (c) sono qualcosa di ornamentale: non è detto che essi abbelliscono, ma come ogni ornamento rivestono e occultano ciò che sta sotto. La natura umana, permanente e universale, viene coperta, e quindi in qualche modo e misura celata, dai costumi che sono propri di questa o quella società, di questo o quel periodo storico. Per questo paradigma è significativa la scelta del termine ‘costume’, come anche ‘abito’, così diffusi nelle lingue europee: essi indicano elementi di superficie, che si vengono a depositare su strutture sottostanti. Sono elementi di superficie persistenti, ma anche variabili e tutto sommato superflui. Spesso fa parte di questo paradigma ornamentale l’idea (o il progetto) di disfarsi in qualche modo dei costumi, di ‘liberarsi’ del loro peso e della loro esistenza. In questo paradigma è infatti essenziale intendere il rapporto tra N e c come il rapporto tra una struttura universale e 199
fondante dell’umanità (N) e invece fenomeni superficiali che impediscono la visione della prima e ne intralciano persino il retto funzionamento (c), e quindi potremmo raffigurare il paradigma in questione con questo tipo di rapporto: N > c (dove N maiuscolo indica il carattere fondante della natura umana, mentre c minuscolo il carattere di superficie della molteplicità dei costumi). Fa però parte di questo paradigma constatare come gli uomini siano stranamente attratti dai loro costumi e come il loro modo di ragionare troppo spesso sia condizionato da immagini, presupposti, preferenze del tutto particolari. I costumi strani, bizzarri, assurdi sono il mondo variabile delle credenze più arbitrarie, mentre la natura umana contiene i principi essenziali e le leggi universali del comportamento che dovrebbe valere per tutti gli uomini. I costumi sono fattori di ottundimento, di oscuramento e di particolarizzazione, mentre la natura umana è il fondamento delle verità antropologiche più autentiche e generali, la garanzia quindi di un’intesa universale. Se non ci fossero i costumi, questi ornamenti fastidiosi, inutili e superflui, sarebbe garantito l’accordo tra tutti gli esseri umani. Perché allora non provare a sfoltire la coltre pesante dei costumi, questa vegetazione che copre e impedisce la vista di ciò che vi è di universale negli uomini, per lasciare affiorare la natura umana? Come si è già detto nel capitolo 1, un buon esempio di questo paradigma è ravvisabile nel pensiero di René Descartes, ma può essere rintracciato anche nelle dichiarazioni, più sopra riportate, di Benedetto XVI. 2. I dubbi sul paradigma 1 riguardano in primo luogo la consistenza dello strato dei costumi. Si dà quasi per scontato che vi sia una natura umana generale, ma ci si chiede se davvero e come mai gli esseri umani si siano quasi ovunque lasciati irretire da queste escrescenze inutili e persino dannose. Un nuovo paradigma sorge, allorché si provvede a una sostituzione semanticamente importante: sullo strato della natura umana (N) vengono ora a depositarsi non più i costumi (c), ma la cultura (C). La cultura è fatta di costumi: c’è senza dubbio continuità tra i due concetti; ma si registra anche una trasformazione. Nella cultura 200
c’è qualcosa di più rispetto ai costumi: c’è la ‘funzionalità’ di questa nuova dimensione. Solo in apparenza i costumi possono sembrarci bizzarri e assurdi; a un’indagine più ravvicinata e interna essi svelano le loro ragioni, le loro motivazioni profonde, di ordine psicologico, economico, ecologico, religioso, politico e così via, ovvero di ordine culturale. Sono stati gli antropologi tra Ottocento e Novecento a sostituire ‘cultura’ a ‘costumi’ e a far vedere come anche nei costumi più strani sia rintracciabile non una mera fantasia senza senso, ma un pensiero che riflette e una capacità di invenzione e di progettazione che si dispiega su vari piani. Il paradigma 1 lascia i costumi in una dimensione senza senso; il paradigma 2 induce invece ad approfondire le ‘scelte’ culturali che contraddistinguono questa o quella società, questo o quel contesto storico: la cultura non è mai senza senso, anche se a tutta prima questa è la sensazione che si prova di fronte a soluzioni per ‘noi’ inusitate. E la natura umana? In questa nuova visione – quella inaugurata dagli antropologi culturali – la natura umana in qualche modo rimane intatta, come strato indispensabile della realtà umana: uno strato venutosi a formare nell’evoluzione biologica che si è snodata fino a homo sapiens, dotato di un cervello ormai in grado di produrre non i costumi senza senso del paradigma 1, ma la cultura ‘sensata’ che pone l’umanità attuale in una situazione a parte e che fa di homo sapiens l’unico vero ‘animale culturale’. La natura umana non viene messa in discussione, ma si vede affiancare da un fattore di importanza quasi pari, la cultura. La formula potrebbe essere la seguente: N + C, dove C indica un elemento altrettanto indispensabile che N per descrivere la ‘condizione umana’. Sia sotto il profilo dei rapporti con l’ambiente esterno, sia sotto quello dei rapporti sociali, la cultura appare come un fattore che organizza questi rapporti: un fattore quindi di funzionalità irrinunciabile. È la cultura che consente agli esseri umani di adattarsi a qualsivoglia tipo di habitat, ed è grazie alla cultura che gli uomini inventano e collaudano le loro forme sociali. Che cosa contraddistingue alla radice la cultura? La scelta. C’è cultura là dove gli esseri umani, provando e sperimentando, 201
scelgono determinate soluzioni e le tramandano alle generazioni future, ovvero là dove la natura umana non impone vincoli insuperabili, ma lascia margini di selezione più o meno ampi. L’antropologia culturale si rende conto che nell’ambito della condizione umana gli spazi delle scelte, e quindi della cultura, sono decisamente ampi. Natura umana e cultura, intrinsecamente e qualitativamente diverse secondo il paradigma 2, si spartiscono, per così dire, la realtà dell’uomo, il quale risulta così composto di due sfere o di due dimensioni, assai poco interagenti tra loro, bensì sovrapponibili come due strati. I dubbi sulla consistenza dei costumi, e che hanno trasformato i costumi in cultura, cominciano ora a rivolgersi alla natura umana: non ancora sulla sua consistenza e sulla sua autonomia, bensì sulla sua sfera d’azione. Per descrivere la condizione umana si ricorre ancora a un binomio, ma non più a un binomio dove la natura umana (N) occupa lo spazio maggiore e, al limite, totale con l’auspicabile estirpazione dei costumi (c), bensì a un binomio in cui la natura umana (N) vede arretrare il suo dominio a favore di una componente non più estirpabile come i costumi, rivelandosi ormai la cultura (C) del tutto coessenziale con la natura. 3. Nel paradigma 2 la componente N rinuncia (o è costretta a rinunciare) a una parte consistente dello spazio concettuale mediante cui si definisce l’essere umano, a tutto favore della componente C; ma la natura umana mantiene la propria autonomia e la propria integrità. Con il paradigma 3 avviene qualcosa di molto più drammatico, per così dire, che non una riduzione di spazio: i dubbi non riguardano più soltanto i confini della componente naturale (N), bensì vanno a intaccare l’autonomia e l’integrità di questa dimensione. Ciò che si verifica è esattamente ciò di cui Pascal aveva «una gran paura» nel Seicento, ossia una compenetrazione tra le due componenti e soprattutto una sorta di invasione di campo: la natura umana si rivela fatta in gran parte di costumi; essa perde la sua integrità e la sua autonomia, in quanto la componente culturale (C) entra a far parte delle strutture e del funzionamento di N. Se il paradigma 2 – quello della coesistenza e della coessenzialità delle due componenti – era tipico della fase iniziale dell’antropologia 202
culturale e ha dominato quasi tutta la prima metà del Novecento (esponente rappresentativo è senz’altro l’antropologo Alfred Louis Kroeber), il paradigma 3 affiora invece nella seconda metà del Novecento e anziché essere il prodotto di una disciplina soltanto (l’antropologia culturale), esso si configura come il frutto di una convergenza di diversi approcci disciplinari: dalla paleoantropologia alla neurobiologia, dalle neuroscienze alla linguistica, all’antropologia culturale. Una delle prime avvisaglie di questo mutamento di paradigma consiste nella tesi secondo cui la cultura (la componente C) non è un fatto esclusivamente umano e tanto meno il prodotto precipuo di homo sapiens: studi di paleoantropologia da un lato e di etologia dall’altro ci convincono sempre più che molte altre specie animali fanno ricorso alla dimensione culturale per organizzare il loro comportamento, ovvero che esse, lungi dal seguire un comportamento rigorosamente determinato dal loro patrimonio genetico, operano delle scelte comportamentali, le quali vengono consolidate mediante l’imitazione e ‘stabilizzate’ mediante l’apprendimento e la trasmissione da generazione a generazione (Bonner 1983: 191-92). Proprio in quanto fatto zoologico, è lecito pensare che la cultura esistesse ben prima di homo sapiens, e molte testimonianze di ordine paleoantropologico ci inducono a pensare che anche specie come gli Australopitechi, con i loro 500 centimetri cubi di volume cerebrale (qualcosa come gli scimpanzè attuali), disponessero di cultura. La cultura quindi è una dimensione presente e attiva ben prima che homo sapiens la inventasse o la producesse; anzi homo sapiens appare come l’erede, oltre che di un’evoluzione biologica alquanto tortuosa e assai poco lineare, anche di tradizioni culturali, che certamente egli ha reinventato e innovato, e che tuttavia gli preesistevano da milioni di anni. Insomma, ciò che appare sempre più chiaro è l’improponibilità di un paradigma secondo cui prima si formerebbe la natura umana, quale sarebbe per noi rappresentata da homo sapiens, e poi verrebbe prodotta la cultura. Il paradigma sostitutivo (3) è quello invece secondo cui vi è stata una sovrapposizione o, per meglio dire, un intreccio, nelle trasformazioni evolutive di diversi milioni di anni, tra 203
la cultura e la componente biologica, a tal punto che, per dirla con Geertz (1987: 91), «non esiste una cosa come una natura umana indipendente dalla cultura». Noi uomini attuali, rappresentanti di homo sapiens sapiens (se proprio ci teniamo), siamo quelli che siamo grazie non solo alla compresenza, ma anche all’interazione tra la componente biologica e quella culturale. Ovviamente, c’è da chiedersi perché mai si sarebbe formata la cultura, specialmente se intesa non più come un prodotto esclusivo di homo sapiens, ma come un fatto zoologico, di cui anche homo sapiens si sarebbe avvantaggiato. Sotto il profilo evolutivo, la cultura presenta indubbiamente dei vantaggi considerevoli, non appena si pensi alla velocità di soluzioni adattative che possono essere inventate con la cultura rispetto alla lentezza con cui opera invece la selezione biologica: come diceva Kroeber, facciamo prima a indossare indumenti pesanti, fatti con le pelli di foca o di orso, per adattarci all’Artico (C), piuttosto che attendere che il nostro corpo si rivesta di un fitto pelame (N). Non solo, ma le soluzioni culturali non inchiodano gli esseri umani a determinati schemi, se non con la forza assai relativa delle tradizioni; e queste velocità di invenzione e di adozione e corrispondente capacità di svincolamento forniscono alla specie interessata una flessibilità davvero invidiabile. L’enorme successo adattativo che la specie umana ha conseguito mediante l’occupazione di quasi tutti i tipi di habitat è senza dubbio dovuto a un ampio ricorso alle sue risorse culturali. La specie umana non è la sola a disporre di cultura, ma è la specie che maggiormente ha puntato sulle sue capacità culturali per organizzare la propria esistenza e la propria sopravvivenza. È impossibile immaginare o descrivere gli esseri umani senza cultura. Questo è quanto già suggeriva, o imponeva, il paradigma 2, il quale offriva un quadro della condizione umana come composto da due parti o settori diversamente colorati e anzi con colori nettamente distinti: una parte nera e una parte bianca, o un settore rosso e un settore verde. Il paradigma 3 va decisamente oltre: non si limita a dire che è impossibile descrivere gli esseri umani senza il settore o il colore della cultura; arriva al punto di affermare – per usare ancora le efficaci espressioni di Geertz (1987: 114) – che «come il ca204
volo a cui tanto somiglia, il cervello dell’Homo sapiens, essendo sorto nel contesto organizzato della cultura umana, non sarebbe efficiente al di fuori di essa». Cosa significa tutto ciò? Significa in primo luogo che nel paradigma 3 assistiamo a un’indubbia dilatazione della componente culturale. Gli antropologi oggi vedono e ricercano cultura ovunque, anche nelle manifestazioni biologiche e psicologiche un tempo ritenute esenti da condizionamenti culturali (come, per esempio, emozioni e malattie), cosicché per certi versi il paradigma 3 potrebbe essere descritto secondo una formula rovesciata rispetto al paradigma 1: non più N > c, bensì n < C. Ma il paradigma 3 comporta certe implicazioni più sottili che non una dilatazione di aree disciplinari. Esso implica – per usare l’immagine di prima – una compenetrazione di settori e un mescolamento di colori. In maniera sempre più convinta, le neuroscienze fanno capire che il cervello umano, il quale raggiunge il suo sviluppo solo in ambiente post-fetale, dopo l’uscita dell’individuo dal grembo materno, e dunque in un ambiente intriso di cultura, ha letteralmente bisogno di cultura e di interazioni sociali per funzionare (Changeux 1983; Dreifuss 1987). La cultura non è spettatrice di sviluppi endogeni; la cultura – com’è il suo solito – interviene, e i suoi interventi possono essere intesi come ‘completamenti’ per un verso (la cultura fornisce ‘informazioni’ là dove il nostro patrimonio genetico latita) e come ‘sfrondamenti’ per l’altro (selezione e riduzione di connessioni neuronali rispetto al numero sovrabbondante offerto dal cervello): sono queste le due modalità principali mediante cui vediamo intervenire la cultura nella formazione dell’essere umano. Ma comunque noi intendiamo l’operato della cultura – completamento (per esempio Geertz 1987) o sfrondamento (per esempio Changeux 1983) – è difficile sottrarsi alla tesi esposta da Matt Ridley (2005: 307), secondo cui «più di quanto accada in qualsiasi altra specie, le menti umane nuotano in un mare chiamato cultura» e hanno bisogno della cultura per ‘formarsi’. Ridley si dimostra alquanto ostile all’impostazione di Geertz, specialmente là dove l’antropologo americano insiste sull’idea della plasmazione del cervello da parte della cultura. Ma non 205
può fare a meno di ammettere che «più scopriamo nuovi geni capaci di influenzare il comportamento, più ci rendiamo conto che essi funzionano attraverso l’ambiente» (Ridley 2005: 405406), in primo luogo attraverso l’ambiente culturale e sociale. Nella condizione umana, a quanto pare, anche i geni richiedono gli stimoli ambientali per attivarsi e contribuire a ‘fare’ la nostra umanità. Contro l’invasione della cultura, contro l’idea di una plasticità indefinita, senza incontrare resistenze – idea che gli antropologi culturali hanno troppo disinvoltamente adottato –, Ridley fa valere l’importanza della componente N. Ma questa rivendicazione e questa dialettica avvengono entro ciò che abbiamo chiamato paradigma 3, dove i colori si mescolano, i confini tra N e C sfumano, natura e cultura si combinano tra loro. Il concetto centrale pare essere in effetti quello di ‘plasticità’: è lì il punto di incontro tra la componente N e la componente C, che contraddistingue in maniera emblematica il paradigma 3 (Favole, Allovio 2002; Dupré 2007; Marchesini, Tonutti 2007). In virtù di questo paradigma, Ridley può affermare che «la contrapposizione nature versus nurture ha fatto il suo tempo» e che, in sostituzione, emerge il concetto di una natura umana la quale, lungi dall’essere una struttura autonoma, si realizza solo mediante la cultura: «lunga vita, dunque, a nature via nurture» (Ridley 2005: 408).
3. Finzioni di umanità Come definire, inquadrare o descrivere ciò che avviene ai confini, là dove natura e cultura si impastano, dove le componenti N e C si intrecciano, dando luogo a qualcosa che probabilmente richiederebbe un’altra denominazione, è problema per il quale chi scrive non dispone di attrezzature analitiche e concettuali appropriate. Ma l’avere smantellato – almeno così ci pare – l’idea di una natura umana come struttura stabile e autonoma apre la strada a un altro tipo di considerazioni, per le quali l’antropologia culturale può venire in soccorso. Se la ‘paura’ o il ‘sospetto’ di Pascal sono stati ampiamente confermati dagli svilup206
pi sia delle scienze naturali, sia delle scienze sociali del Novecento, non per questo ci troviamo in un mare di guai, in un disorientamento totale. Ci soccorre un concetto che ha preso piede tanto nelle scienze sociali quanto in biologia: il concetto di ‘fare’. La nozione di natura umana come struttura stabile e autonoma incorpora l’idea del ‘fatto’, di un qualcosa cioè che è già stato ‘costruito’, di un prodotto ‘finito’ e ‘compiuto’, e per questo stabile e autonomo rispetto al fluire degli eventi, inscalfibile e immodificabile da parte di decisioni o volontà di trasformazioni. Nel sottotitolo del libro di Ridley (Nature via Nurture) si legge: Genes, Experience and What Makes Us Human, ovvero ‘ciò che ci fa’, non ‘ciò che ci ha fatto umani’; non dunque una natura umana fatta e compiuta, ma un processo (bioculturale) mediante cui l’umanità si ‘fa’. In un libro assai criticato per la sua audacia, il neurobiologo Steven Rose, il genetista Richard Lewontin e lo psicologo Leon Kamin ebbero a scrivere: «l’unica cosa ragionevole che si possa dire sulla natura umana è che è ‘insito’ in essa costruire la propria storia» (Rose, Lewontin, Kamin 1983: 51), il che ovviamente equivale a negare l’idea di una struttura permanente e a far valere invece il concetto di un fare: ciò che è permanente è un processo, non la struttura, un costruire, non il costrutto. Da idee come queste chi scrive e un gruppo di suoi collaboratori hanno pensato che una prospettiva valida di indagine propriamente antropologica potrebbe chiamarsi ‘antropo-poiesi’. Gli esseri umani si danno sempre da fare: fanno ovviamente tante cose, che sarebbe inutile elencare, ma mentre fanno e costruiscono, mentre disfanno e distruggono, provvedono anche a ‘fare’ se stessi. Può sembrare un’idea peregrina e un po’ strampalata o lambiccata, secondo i punti di vista. Non tanto, però, se è vero che questa idea del fare (o costruire) non solo è diffusa nelle scienze umane, sociali e biologiche, ma è pure rintracciabile in molte culture, di cui di solito ci si occupa in antropologia. La prima idea dell’antropo-poiesi, in effetti, è venuta alla mente di chi scrive, allorché si trovò ad analizzare l’olusumba, un rituale di iniziazione maschile tra i BaNande del Nord Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo. Proprio all’inizio di 207
questo rituale, i circoncisori recitano – o meglio recitavano (perché il rituale è ovviamente scomparso, fatto fuori da missionari e autorità coloniali) – un canto, in cui rivolgendosi alla divinità imploravano: «che il nostro viaggio [il viaggio-esperienza dell’olusumba] generi degli uomini» (Remotti 1996: 186). In modo quasi naturale, i collaboratori si sono poi divisi in due gruppi: vi furono alcuni che si occuparono di rituali antropopoietici maschili (Allovio, Favole [a cura di] 1996; Remotti [a cura di] 2002) e altri, o meglio altre, che invece si occuparono di antropo-poiesi femminile (Forni, Pennacini, Pussetti [a cura di] 2006). Da queste esperienze abbiamo ricavato alcune conclusioni, che consideriamo rilevanti per proseguire nel nostro discorso. 1. La prima si potrebbe definire l’inevitabilità o l’imprescindibilità dell’antropo-poiesi. Che lo si voglia o no, la stessa plasticità degli individui fa sì che le esperienze in cui vivono intervengano a modellare di continuo il loro essere, dal loro corpo alla loro mente: l’abbiamo chiamata un’antropo-poiesi anonima, quotidiana, non programmata, per lo più inconsapevole. 2. Vi sono però società che assumono in maniera programmatica il compito di forgiare esseri umani, maschili o femminili, delimitando a tal fine un particolare periodo dell’esistenza individuale e della vita sociale. Abbiamo a che fare in questi casi con specifici rituali di iniziazione, in cui la componente antropo-poietica è del tutto esplicita e in cui il ‘fare umanità’ si ispira deliberatamente a determinati modelli antropologici. 3. Ogni società infatti elabora o adotta una propria antropologia indigena, un proprio modo di concepire gli esseri umani, a seconda del sesso, dell’età, degli status sociali, delle circostanze di vita (Remotti [a cura di] 1997b). Sarebbe ingenuo però ritenere che a ogni società corrisponda un’unica antropologia: in realtà, l’antropologia indigena designa un’area in cui si registrano dissensi quanto consensi, opposizioni quanto convergenze, differenziazioni quanto uniformità. Nell’area antropologica, quella dei modelli di umanità, vi è sempre una pluralità di voci e di opinioni, spesso in disaccordo e in competizione tra loro. 4. Tutto ciò ci porta a considerare una dimensione che con208
cerne da vicino e dall’interno la questione dell’antropo-poiesi, ovvero il potere. Chi plasma chi, e in quali maniere, con quali mezzi e in vista di quali obiettivi? A ben vedere, ogni potere ha una sua componente antropo-poietica. È indubbio però che vi siano tipi di potere i quali perseguono lo scopo di dare una forma determinata agli esseri umani in maniera del tutto esplicita e programmatica. È sufficiente pensare, sotto questo profilo, ai regimi totalitari del Novecento e ai loro deliranti programmi di costruzione dell’‘uomo nuovo’. 5. Perché mai deliranti e perché mai tanto disumani, se in fondo non hanno fatto altro che prendere sul serio e realizzare nella maniera più efficace possibile un determinato programma antropo-poietico? Che cosa si può mai obiettare a questi regimi da un punto di vista – come quello dell’antropologia qui professata – che relativizza i modelli di umanità? Non è forse a questo tipo di regimi che conduce il relativismo? Questa è in effetti l’obiezione più forte che Benedetto XVI sembra muovere al relativismo. Dal punto di vista di un’antropologia relativista (e molta antropologia è in effetti su queste posizioni), che differenza c’è tra i dittatori più esecrabili del Novecento e, per esempio, i responsabili dell’olusumba nande? Gli uni e gli altri non pretendono forse di mettere le mani su corpi e menti dei loro soggetti? Non si arrogano forse il diritto di manipolare i loro giovani, così da farne soggetti adatti a una determinata forma di società, secondo un determinato modello di umanità? 6. Eppure c’è un’enorme differenza. Ma sia chiaro: la differenza di cui ora parleremo non sarà necessariamente una differenza ‘noi’/‘loro’, creando così categorie dove mettiamo da una parte ciò che facciamo ‘noi’ e dall’altra ciò che fanno ‘loro’. Sarà invece una differenza che va colta di caso in caso, valutando gradi, misure e soprattutto prospettive diverse, e non decidendo a priori da che parte stanno i buoni e da che parte i cattivi. In altre parole, si intende sostenere che le malefatte dell’antropopoiesi – o meglio i misfatti antropo-poietici – sono di per sé reperibili ovunque, in qualsiasi angolo della terra. In che cosa consiste allora la differenza? Consiste – guarda caso – proprio nel relativismo (non quello degli antropologi, ma quello delle cul209
ture), nel dubbio, nel senso delle possibilità, nel principio dell’arbitrarietà delle scelte e nella consapevolezza della finzione. La differenza è tutta qui; ma è appunto enorme. Un conto è tentare di produrre uomini, chiedendosi – come succedeva tra i BaNande – «un uomo, che cos’è?» (omundu, niki?); un altro conto è imporre il proprio modello di umanità da parte di un potere che non conosce esitazioni e perplessità, che al contrario ostenta il massimo della sicurezza e che dispone di mezzi occulti di persuasione e di mezzi palesi di coercizione. Il ‘dubbio antropologico’ – un dubbio che nasce dal confronto con altri modelli di umanità, che si nutre di incertezza da un lato e di speranza dall’altro – frena la protervia e trasforma la prova in un momento di riflessione. «Spezza la crosta del costume», come diceva Victor Turner (1976: 138), e «dà via libera» al senso delle possibilità. Questo è ciò che il mukanda degli Ndembu studiati da Turner si poneva come obiettivo: non manichini irreggimentati nella loro cultura, nelle caselle della loro società, ma uomini che attraverso la sofferenza e l’esperienza della liminarità raggiungevano la consapevolezza della relatività della loro forma di umanità: siamo così, ma potremmo essere diversamente (Turner 1976: 127). 7. E anche questa è ‘saggezza’, quella saggezza in gran parte perduta (e forse un po’ ritrovata) di cui abbiamo parlato nel capitolo 11. Una saggezza che in primo luogo si alimenta di un sapere: il sapere relativo all’ineludibilità del compito antropopoietico. Con le loro culture ‘tradizionali’, molte società ‘sapevano’ che occorre in qualche modo darsi da fare per fabbricare esseri umani; erano consapevoli che non è sufficiente mettere al mondo dei nuovi esseri e che non ci si può limitare alla loro nascita biologica. Molte società hanno elaborato perciò la teoria della ‘seconda nascita’, ovvero una nascita sociale, che viene inevitabilmente dopo quella biologica. Ma come si procede a questa fabbricazione di umanità? Diverse società si sono concentrate esattamente su tale questione, ben sapendo che la famiglia non basta, che occorre procedere oltre la parentela e coinvolgere altri settori della società. È saggezza riconoscere questo compito antropo-poietico e studiare i mezzi per realizzarlo; ma è 210
saggezza ancora più profonda pensare il percorso antropo-poietico non come infilarsi in uno schema, adottare o fare adottare un modello e sostenere (o far credere) che questo sia ‘il’ modello, l’unica, autentica e insuperabile forma di umanità. Se si vogliono evitare i misfatti antropo-poietici, il dubbio e il relativismo vengono in soccorso: sono anzi indispensabili. 8. Viene a questo punto in soccorso anche un’altra consapevolezza, che si aggiunge alle prime due. La prima consapevolezza è: noi sappiamo che non possiamo sottrarci al compito antropo-poietico; non possiamo delegare ad altri la responsabilità di fabbricare modelli di umanità e provare a realizzarli tra noi. La seconda consapevolezza è: noi sappiamo che i nostri modelli di umanità sono una delle possibilità tra tante (noi siamo fatti così, ma potremmo essere diversamente). La terza consapevolezza è: sappiamo anche che quello che facciamo non è altro che una ‘finzione’, una ‘finzione di umanità’. La seconda nascita è di per sé una finzione. Spesso sono gli uomini, quasi del tutto tagliati fuori dai processi e dagli eventi della prima nascita (quella biologica), che si arrogano il diritto, il potere e la capacità di provvedere alla nascita sociale dei giovani. Questa nascita è quasi sempre dolorosa; comporta in ogni caso una discontinuità rispetto alla condizione precedente, e la sofferenza svolge esattamente la funzione di produrre e marcare questa discontinuità. Spesso questa seconda nascita è anche un essere introdotti nei suoi segreti, quelli che attengono alla produzione sociale di umanità. Vediamo cosa avviene in una società della Nuova Britannia (Melanesia), dove si ritiene che i giovani iniziati vengano prima inghiottiti e poi vomitati dal tambaran Varku, un essere mostruoso, che avrebbe la funzione di ‘generare’ gli uomini. Nessuna realtà misteriosa aspetta i giovani, allorché entrano nel recinto dell’iniziazione, ma ciò che viene svelato loro è esattamente la ‘finzione’ (anzi, l’inganno) con cui gli uomini rivendicano il loro potere creativo. Alla fine la verità è questa: «Noi uomini siamo il vero tambaran [...] Varku è soltanto un krai nating (un grido vuoto), ma siamo noi uomini il vero tambaran» (Lattas 1996: 156). Il tambaran è una cosa finta: è persino un inganno, mediante cui si crede che la propria umanità venga prodotta da un’en211
tità a parte, extra-umana. Diventare uomini – essere ‘fatti’ o ‘farsi’ uomini – non significa credere nello spirito o negli spiriti tambaran, ma nel rendersi conto che il vero tambaran siamo ‘noi’. Diventare uomini significa capire l’importanza della finzione e, nello stesso tempo, svelarla: significa dunque acquisire la terza consapevolezza come elemento indispensabile per la propria umanità e per il buon funzionamento della società. 9. Finzione è parola importante in questo discorso, perché in essa confluiscono due significati entrambi rilevanti nel ‘fare umanità’. Il primo significato è quello per il quale ‘finzione’ è un po’ come ‘inganno’ (è il tema che Andrew Lattas ha trattato a proposito dello spirito tambaran della Nuova Britannia). Il secondo è invece compreso nell’etimologia latina: finzione come invenzione, come costruzione, dal verbo latino fingere, ‘modellare’, ‘plasmare’. Nel nostro linguaggio quotidiano facciamo uso soltanto del primo significato; nel contesto del nostro discorso invece utilizziamo entrambi i significati, che pur essendo distinti non sono del tutto divergenti. Modellare, plasmare, costruire è anche un cercare di far esistere qualcosa che non c’è, o che prima non c’era: i progetti antropo-poietici si collocano spesso a metà strada tra un fingere reale e un fingere ingannevole e illusorio. Perché l’antropo-poiesi, da chiunque venga esercitata, non giunge mai a buon fine: nel forgiare esseri umani non si ottiene mai il risultato espresso da un modello o indicato da un programma, essendo moltissime le variabili di qualsiasi tipo che si frappongono tra l’idea e la realizzazione. Forse è per questo che i BaNande esprimono l’auspicio «che il nostro viaggio generi degli uomini»; ed è per questo che altre società preferiscono invece affidare a entità superiori, divine o extra-umane, il compito rischiosissimo di ‘fare umanità’.
4. Costruzioni di ‘noi’ Anche i modelli di umanità servono ad arrestare il flusso: sono infatti schemi che, affermando come deve essere fatta l’umanità (l’umanità delle donne e quella degli uomini, dei giovani e degli 212
anziani e così via), si oppongono al cambiamento, riducono le variazioni, producono uniformità antropologiche. Arrestando almeno in parte il flusso, si determinano condivisioni, comunanze, partecipazioni: si diventa simili, si fa parte di uno stesso tipo di umanità, che riceve una convalida per il fatto stesso di essere adottato e diffuso. Si formano così dei ‘noi’: i ‘noi’ del clan dell’orso, dell’aquila o della tartaruga, con le loro caratteristiche peculiari di ordine psicologico e comportamentale (cfr. cap. 3). Analogamente ai modelli di umanità, pure i ‘noi’ rallentano il flusso. Se i modelli di umanità lo arrestano sul piano culturale (concettuale, ideologico), i ‘noi’ lo arrestano – o meglio, tentano di arrestarlo – sul piano sociale. I ‘noi’ sono importanti nella società: nessuna società può farne a meno, e la nostra vita è tutta intessuta di ‘noi’, anche se la vita sociale non è fatta soltanto di ‘noi’. Ci sono i ‘noi’, ma c’è anche – e prima ancora – il flusso. I ‘noi’ lo arrestano, lo incanalano, lo deviano, talvolta lo negano persino: o meglio, tentano di fare tutto ciò. Come si vede, ancora una volta ci imbattiamo nella tematica della stabilità e della stabilizzazione, con cui abbiamo iniziato il nostro discorso. Facciamo ora qualche esempio di ‘noi’, onde evitare che il discorso rimanga troppo astratto. Nella Parte seconda e nel primo capitolo della terza (cap. 11), abbiamo appreso dell’esistenza di molti tipi di famiglie. Tutte le famiglie, e più in generale i gruppi domestici (cfr. par. 10.4), sono esempi di ‘noi’. Ma se vogliamo partire dal tipo di famiglia con cui abbiamo maggiormente a che fare, è facile constatare come in essa si incontrino normalmente individui che provengono da altrove: da altre famiglie, da altri ‘noi’ (è il caso dei coniugi) o da un altrove più radicale e pre-sociale, ovvero da un ‘non-noi’ (i figli). Prima ancora di qualsiasi sforzo educativo (soprattutto nei confronti dei figli) o di avvicinamento e di convergenza (tra i coniugi), lo stesso fatto della convivenza si traduce in una antropo-poiesi anonima, quotidiana (cfr. par. 12.3), la quale agisce silenziosamente verso l’uniformità: si crea – come si usa dire – un’aria di famiglia in quel ‘noi’. Se poi consideriamo altri tipi di famiglie, come per esempio le famiglie consanguinee – quelle in cui fratelli e sorelle rimangono insieme per tutta la vita (cfr. par. 10.2) –, il ‘noi’ 213
familiare o domestico si forma fin dalla nascita, senza dover mediare la sua ‘noità’ (il suo essere quel particolare ‘noi’) con gli estranei: tra i Na o tra i Nayar non ci sono mariti che entrano nella famiglia venendo da fuori; il ‘noi’ domestico è fatto soltanto di fratelli, di sorelle e dei figli di queste ultime. È un noi forte, solido, garantito dalla nascita e dalla residenza natolocale (per usare un linguaggio lievemente tecnico). I ‘noi’ stabilizzano e orientano la vita sociale e, nello stesso tempo, offrono protezione agli individui. Come si è detto, la società non è fatta soltanto di noi; è fatta anche di flusso: noi siamo di solito in contatto con ‘altri’, con cui scambiamo beni e incrociamo relazioni, con cui intratteniamo rapporti di convenienza, ma anche di ostilità e di diffidenza. Gli ‘altri’ sono ovviamente risorse indispensabili, e per questo facciamo di continuo ricorso a loro; ma proprio perché ‘altri’ – proprio perché fuori di un qualche ‘noi’ in cui di volta in volta ci identifichiamo –, costituiscono sempre una potenziale minaccia, se non di aggressione, quanto meno di instabilità. Gli individui difficilmente possono reggere una vita tutta esteriorizzata verso gli altri; hanno bisogno di ‘noi’, presso cui trovare rifugio più o meno momentaneo, staccandosi dal flusso snervante della vita sociale più ampia. I ‘noi’ sono isole, aree protette, dotate di relativa stabilità e sicurezza: nei ‘noi’ – di solito – c’è da temere di meno. In questi luoghi di sosta diffidenza e paura tendono a diminuire, mentre aumentano fiducia, sicurezza, solidarietà. Quando si forma un ‘noi’, o vi si aderisce, la competizione, la lotta, il conflitto, il confronto e in parte anche lo scambio, tipici della vita con gli ‘altri’, vengono lasciati fuori: se entrassero nel ‘noi’, lo lacererebbero e lo disintegrerebbero. Persino lo scambio, per l’appunto, diminuisce all’interno dei ‘noi’. Più che di scambi, il ‘noi’ è fatto di comunanza, di partecipazione, di condivisione. Un ‘noi’ può anche essere costituito da una condivisione o da una convergenza di interessi: una ‘convenienza’ nel senso letterale del termine. Ma ciò che maggiormente accomuna i membri di un ‘noi’ è la loro partecipazione a criteri principi modelli, comuni e condivisi, di umanità. Anche se in maniera implicita, i ‘noi’ formulano giudizi su forme di umanità, quella propria e 214
quelle altrui, scegliendo e decidendo quale tipo di umanità è per loro più confacente. Si tratta quasi sempre di qualcosa di più profondo e decisivo di una convergenza di interessi, qualcosa che pone in causa – anche se di poco, per poco tempo, per aspetti transitori e in apparenza superflui – un qualche senso di umanità. È questo il cemento più segreto dei ‘noi’. Ed è per questa capacità di penetrare in strati profondi che i ‘noi’, i quali – ripetiamo – possono anche coagularsi su argomenti o temi in apparenza di poco conto (come succede, per esempio, nel caso di una tifoseria sportiva), agiscono talvolta con una perentorietà e una fermezza impressionanti. I ‘noi’ sono infatti faccende serie: spesso esigono fedeltà che vanno ben al di là degli interessi e delle convenienze dei singoli individui. Coinvolgendo questioni importanti come il senso di umanità, si impongono talvolta con una forza, spesso con una violenza, e comunque con un’autonomia che li trasformano da isole o aree protette in entità a parte, in soggetti sociali forniti di una capacità di iniziativa propria. In questi casi, i ‘noi’ non esigono soltanto di durare nel tempo, ma programmano azioni in proprio, ascrivibili ai ‘noi’ in quanto tali. Si tratta di ‘noi’ che, rispetto agli individui che li compongono, guadagnano una vita propria e a sé stante. Un’amicizia tra due persone è senza dubbio un ‘noi’, il quale però si attiva in rapporto a contesti e situazioni particolari, ed è comunque dipendente dalla volontà degli individui che vi partecipano: un’amicizia può svanire da un momento all’altro e scompare con la morte di coloro che l’hanno nel tempo sostenuta più o meno a lungo. Sotto questo profilo, anche la famiglia nucleare, per quanto certamente ben più istituzionalizzata di una semplice amicizia, è un ‘noi’ a proposito del quale è inevitabile riconoscere un carattere piuttosto effimero e ‘instabile’ (cfr. par. 10.3). Abbiamo avuto modo di vedere che invece ci sono famiglie – cioè ‘noi’ domestici – decisamente più stabili e durature nel tempo: esse acquisiscono queste qualità di durata e di stabilità in quanto si rendono indipendenti dalle vicende degli individui che ne fanno parte, e questa loro indipendenza coincide con l’autonomia delle loro strutture. 215
Abbiamo quindi delineato fondamentalmente due tipi di ‘noi’, a seconda che essi coincidano con le relazioni dei loro componenti (‘noi relazionali’) o che invece ne siano indipendenti e coincidano con strutture autonome (‘noi strutturali’): i primi, pur rallentando il flusso sociale, sono in balia delle relazioni individuali; i secondi, essendo strutture costruite appositamente per sopravvivere alle relazioni e alle decisioni individuali, guadagnano una consistenza e una persistenza sovraindividuali. Se i ‘noi relazionali’ dipendono quasi del tutto dalle decisioni o dalle vicende degli individui, i ‘noi strutturali’ sono sovraindividuali, anche nel senso che si collocano a un livello gerarchico superiore agli individui: essi comprendono entro di sé gli individui, li ospitano al loro interno e li inglobano talvolta persino in maniera esclusiva e definitiva.
5. Un ‘noi’ diverso da tutti gli altri La Chiesa Cattolica rappresenta sotto questo profilo un caso senza dubbio significativo. Con la pratica del battesimo impartito ai bambini, e addirittura ai neonati (una pratica che ben presto si impone nella storia della Chiesa e che viene confermata in modo indiscutibile dal Concilio di Trento), è garantita fin da subito l’appartenenza al corpo mistico di Cristo per un individuo che, indipendentemente dalla sua volontà, si vede trasformato in «una creatura del tutto nuova» (come si legge nella Doctrina de sacramento paenitentiae, cap. 2, in Denzinger 2003: n. 1672). Questa trasformazione è concepita come qualcosa che trascende il livello meramente antropologico, poiché con il battesimo gli individui, oltre a entrare nel ‘noi’ della Chiesa, vengono «fatti veri figli di Dio» e «resi partecipi della natura divina» (Lumen gentium del 1964, cap. 5, par. 40, in Denzinger 2003: n. 4166). Come si vede, anche qui abbiamo a che fare con un’antropopoiesi, con una trasformazione della materia umana, ma si tratta di un’antropo-poiesi che non si limita a far passare un individuo da uno stadio all’altro della sua esistenza o da un tipo di umanità a un altro: si tratta invece di una trasformazione che fa 216
passare l’essere umano a una condizione di partecipazione alla natura divina. Messo a confronto con riti antropo-poietici di altre culture (riti di passaggio, come si è soliti dire con Arnold Van Gennep), il battesimo è, sotto il profilo procedurale, ben poca cosa. Non ci sono prove particolarmente impegnative da parte del soggetto e, anziché protrarsi per mesi o anni, il tutto si riduce a uno scarno rituale di qualche decina di minuti, durante il quale si pronunciano alcune brevi formule (di cui la principale Ego te baptizo...) con l’imposizione del nome e con un accenno di immersione nell’acqua o addirittura di semplice aspersione del capo. Eppure, questa breve procedura – un esempio particolarmente significativo di ‘come fare cose con le parole’ (Austin 1987) – determina un cambiamento decisamente più radicale di quelli prodotti dai riti di passaggio di altre società. Troviamo una conferma di ciò nel Catechismo della Chiesa Cattolica, dove si ribadisce che con il battesimo l’individuo è ormai «divenuto membro della Chiesa», di un ‘noi’ collettivo e unificato, di un corpo che è il corpo mistico di Cristo; divenendo «una nuova creatura» e anzi «un figlio adottivo di Dio», che in quanto tale partecipa della natura divina, «il battezzato non appartiene più a se stesso, ma a Gesù» (parr. 1265 e 1269). A pochi giorni, a pochi mesi o a pochi anni dalla nascita biologica, la Chiesa Cattolica fa compiere ai suoi adepti più inconsapevoli una mutazione di cui è difficile trovare un analogo altrove: da una condizione di essere umano miserevole, la cui natura è stata corrotta dal peccato originale, da uno stato dunque di abiezione, si passa, in virtù di qualche formula e di qualche gesto, a una condizione in cui questo stesso essere viene reso «partecipe della natura divina». Si comprende allora come l’appartenenza a questo ‘noi’ comporti un ‘non appartenere più a se stessi’. Questo ‘noi’ non nasce infatti dalle relazioni degli individui tra loro, da accordi, patteggiamenti, convergenze; non è quindi un ‘noi relazionale’, ma non è nemmeno un ‘noi strutturale’ come tanti altri nel mondo, un ‘noi’ come potrebbero essere le ‘case degli uomini’ della Melanesia, per esempio, o i lignaggi e i clan sparsi un po’ ovunque 217
nelle società umane, i quali durano sì nel tempo, ma sono pur sempre sottoposti a rischi di estinzione, come tutte le strutture costruite socialmente dagli esseri umani. Il ‘noi’ della Chiesa si propone invece come un ‘noi’ divino e umano insieme, come un ‘noi’ entrando nel quale gli esseri umani abbandonano la loro condizione di precarietà ed entrano a far parte di un corpo che sfida il tempo e la morte, proprio perché è un corpo divino. Si comprende anche, allora, come questo legame, e anzi questa unione, sia di per sé qualcosa di indistruttibile, al di là – potremmo forse dire – delle decisioni, che l’individuo adulto può assumere, di confermare o meno l’appartenenza al corpo mistico della Chiesa, di dichiararsi ‘apostata’ o semplicemente di richiedere – secondo una pratica oggi avviata anche in Italia – di essere ‘sbattezzato’. A quanto pare, oggi la Chiesa riconosce gli effetti pratici, giuridici e civili della pratica dello sbattezzo e accetta di non computare tra i suoi aderenti coloro che ne fanno richiesta; ma altra cosa sono gli effetti spirituali e teologali, visto che si tratta addirittura di una partecipazione dell’individuo al corpo divino di Cristo in unità con tutti gli altri fedeli. Semmai è la Chiesa che provvede a ‘scomunicare’ l’apostata, ovvero colui che, come l’eretico e lo scismatico, compie con il suo stesso rifiuto un delitto «contro la religione e l’unità della Chiesa» (Diritto canonico, libro IV, parte seconda, titolo I, canone 1364). Anche così, si vedono assai bene l’autonomia e l’autorità di agire in proprio di un ‘noi’ che ‘scomunica’ chi rifiuta di aderire o provoca scissioni al suo interno. Un ‘noi’ divino, oltre che umano, è l’immagine che la Chiesa propone di se stessa: un ‘noi iper-strutturale’, se così possiamo esprimerci, in quanto la sua struttura non è una semplice costruzione umana. Si tratta invece di una costruzione a cui pone mano la stessa divinità e per questo può vantare il massimo della stabilità: non soltanto una ragionevole o auspicabile durata nel tempo, ma un ‘noi’ completo, definitivo sul piano antropologico, in quanto realizza appieno l’umanità, ed eterno sul piano teologico, perché coincide con lo stesso corpo della divinità. Ma un ‘noi’ comunque ‘costruito’, ‘edificato’. Forse è nelle lettere di san Paolo che troviamo maggiormente svolto questo con218
cetto dell’edificazione, a partire dall’idea – come si afferma in 1 Corinzi (14, 12) – che occorre procedere all’«edificazione della comunità» (aedificationem ecclesiae). Ma si tratta di una comunità e di un ‘noi’ inediti, completamente diversi da quelli che sono stati costruiti finora. Per intanto, c’è il principio stesso della costruzione: una volontà di costruzione, una consapevolezza e una progettualità che non affiorano di solito. Paolo quindi esorta per esempio i Tessalonicesi a edificarsi gli uni gli altri, come del resto già fanno: aedificate alterutrum, sicut et facitis (1 Tessalonicesi 5, 11). Questa rivendicazione di un ‘noi’ che edifica consapevolmente se stesso secondo un progetto inedito fa dire a Paolo: «Noi non siamo della notte, né delle tenebre. Noi non dormiamo dunque come gli altri, ma restiamo svegli [...] Noi [...] siamo del giorno» (1 Tessalonicesi 5, 5-8). La consapevolezza, l’attenzione, la cura nell’edificare un ‘noi’ contraddistinguono questa nuova impresa indubbiamente sociale: non si edifica a caso, secondo le contingenze, i costumi, le tradizioni o le ambizioni individuali; «non tutto edifica», specialmente se ognuno persegue il proprio interesse (1 Corinzi 10, 23). «Ciascuno stia attento a come costruisce»; lo stesso Paolo si presenta «come un sapiente architetto» il quale ha gettato il fondamento, lasciando poi ad altri il compito di costruirvi sopra (1 Corinzi 3, 10). Ma nello stesso contesto egli si premura di precisare che la costruzione non è affatto un’opera soltanto umana: «Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete il campo di Dio, l’edificio di Dio (Dei enim sumus adiutores; Dei agricoltura estis, Dei aedificatio estis)» (1 Corinzi 3, 9). Anzi, non c’è da inventare un fondamento: «nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo» (3, 11). Questo fondamento è ciò che determina la differenza rispetto a tutte le altre costruzioni umane. Sul piano morale, ciò che fa differenza rispetto a tutte le altre comunità è l’abolizione della discordia, della malvagità, delle divisioni interne: non le divisioni sociali (che Paolo accetta), ma le divisioni generate dall’odio. «Vi esorto [...] perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e di intenti» (1 Corinzi 1, 10). È questo ideale di compattezza totale, assoluta, di integrità, al di là delle di219
visioni storiche, sociali, di genere, ciò che caratterizza il ‘noi’ che occorre costruire: contro le divisioni «la carità edifica» (8, 1). Ma questa assoluta compattezza può essere data soltanto da un fondamento divino. Fino a che si rimane sul piano umano, fino a che ci si comporta – e si costruisce – «in maniera tutta umana», fino a che si dimostra di essere «semplicemente uomini», «invidia e discordia» mineranno alle base qualunque costruzione sociale e impediranno all’uomo di raggiungere la «perfezione» (1 Corinzi 3, 1-3; 1 Tessalonicesi 5, 23). ‘Noi, perfetti’: è questo l’obiettivo di Paolo, ma è un obiettivo perseguibile soltanto passando dall’«uomo naturale (homo animalis, physikòs ánthropos)» all’«uomo spirituale (spiritualis, pneumatikós)» (1 Corinzi 2, 14-15), un passaggio che solo Gesù è stato in grado di compiere. Egli infatti ha costruito «un solo uomo nuovo», abbattendo «il muro di separazione che era frammezzo» tra due popoli, due forme di umanità, quella dei «circoncisi», gli Ebrei, e quella degli «incirconcisi», i pagani (Efesini 2, 14-15). Rivolgendosi agli incirconcisi, così Paolo riprende il tema della costruzione di una nuova umanità, quella che supera l’«inimicizia» tra i popoli, perché il ‘noi’ che egli ha in mente non coincide con una comunità locale, ma con un ‘noi’ che ingloba potenzialmente tutti gli uomini: Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù. In lui ogni costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito (Efesini 2, 19-22).
Tutti devono essere ‘edificati’, tutti insieme gli uomini devono essere ‘costruiti’: una nuova inedita forma di umanità ha da essere realizzata, abbattendo quei ‘muri divisori’ che sorgono dalle differenze culturali, ponendo al posto dei costumi e delle tradizioni la rivelazione di Dio. «A noi» Dio ha rivelato «cose che occhio non vide, né orecchio udì» (come si legge in Isaia e in Geremia): è stato lo Spirito inviato da Dio a farcele conoscere (1 Corinzi 2, 9-10). Prosegue Paolo: 220
Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato. Di queste cose noi parliamo, non con un linguaggio suggerito dalla sapienza umana, ma insegnato dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali (2, 12-13).
In questo stesso contesto Paolo propone una distinzione che ci sarà utile per aprire tra poco il nostro ultimo capitolo e così concludere il nostro discorso. Si può intendere forse con ‘spirito’ ciò che ci permette di conoscere le cose e di svelarne in qualche modo i segreti: è la conoscenza delle cose, anche di quelle riposte; «lo Spirito infatti scruta ogni cosa» (2, 10). Ma, come c’è uno «uno spirito del mondo», cioè quello spirito che ci consente di sapere ‘come va il mondo’, e come c’è uno «spirito dell’uomo», cioè quella capacità o facoltà che ci fa conoscere «i segreti dell’uomo», così c’è uno «Spirito di Dio» che appunto «scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio». Orbene, la costruzione di questa nuova forma di umanità, di questo ‘noi’ universale, è qualcosa che non attiene allo spirito del mondo e nemmeno allo spirito dell’uomo. Non è con la sapienza di questo mondo e nemmeno con l’antropologia (lo spirito dell’uomo) che si può realizzare la vera e autentica umanità: l’‘uomo nuovo’, in cui tutti dovranno riunirsi e riconoscersi, si può costruire soltanto rinunciando al proprio essere naturale (l’uomo naturale) e al proprio essere storico e culturale, rinunciando persino alla propria appartenenza e diventando «tempio di Dio»: Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? [...] O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi? (1 Corinzi 3, 16 e 6, 19).
Ovviamente, guai a chi distrugge il «tempio di Dio»: «Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi» (3, 17). Dio è infatti il vero costruttore (come del resto avevano insegnato le Sacre Scritture): noi, al massimo, siamo suoi collaboratori, architetti (come nel caso di Paolo) o semplici operai. Il piano, la sapienza, la saggez221
za – insomma lo ‘spirito’ – con cui si costruisce il ‘noi universale’, la forma definitiva e compiuta di umanità, l’uomo ‘nuovo’ e ‘perfetto’, non sono faccende umane, su cui gli uomini possano dibattere; sono in primo luogo faccende divine, che vanno ben al di là della nostra povera ‘natura’ e della nostra altrettanto povera ‘cultura’.
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Al di là della natura e della cultura
1. Una piccola famiglia naturale Fa specie sentir parlare di ‘contro natura’ da parte di rappresentanti della Chiesa Cattolica: ai loro occhi, ‘contro natura’ sono un po’ tutte le costruzioni culturali (forme di famiglia o forme di umanità) che sono palesemente diverse dai propri schemi costruttivi. Il nostro discorso potrebbe a questo punto concludersi con l’illustrazione di vistose tendenze o addirittura principi e modelli ‘contro-naturali’ che caratterizzano in misura veramente considerevole la ‘cultura’ della Chiesa Cattolica: dal celibato dei preti alle comunità conventuali, dalla verginità della Madonna alla mortificazione dei corpi, dall’abbigliamento del clero (soprattutto quello dei vescovi, dei cardinali e del Papa) alle costruzioni dei luoghi di culto. Poiché gran parte del libro è stato però dedicato alla famiglia – alla critica della nozione di famiglia ‘naturale’ e alla perlustrazione di diverse forme di famiglia o di gruppi domestici (Parte seconda) – è inevitabile soffermarsi in primo luogo sulla ‘sacra famiglia’, la famiglia che viene collocata alle origini del Cristianesimo e da cui sarebbe nato Gesù. La domanda che viene spontaneo rivolgere ai difensori della famiglia ‘naturale’ è infatti la seguente: come mai la ‘sacra famiglia’ è così poco una famiglia naturale? Se davvero la famiglia naturale fosse così importante, perché il Cristianesimo pone alle sue origini una famiglia che così vistosamente contrasta con le condizioni naturali? Si dirà che non è il Cristianesimo, non sono i Cristiani in quanto tali ad aver collocato alle proprie origini la sacra famiglia: è Dio ad avere combinato tutto questo. La domanda da antropologica si fa al223
lora teologica: perché mai Dio onnipotente non ha trovato di meglio che far nascere suo figlio dal grembo di una vergine, Maria, la quale del resto mantiene la sua verginità anche dopo il parto, con un’evidente emarginazione del suo promesso sposo, Giuseppe? Visto che Dio può tutto, visto che «nulla è impossibile a Dio», come ci assicura l’evangelista che maggiormente scende nei dettagli di questa strana vicenda (Luca 1, 37), perché Dio non ha coinvolto anche Giuseppe in questo processo di filiazione, depositando per esempio la sostanza divina nel seme maschile? Oppure, al contrario, perché non evitare del tutto le complicazioni del processo di filiazione e collocare Gesù sulla terra come neonato o come bambino già formato, ricorrendo in questo caso alla possibilità dell’adozione? Si dirà che sono domande strampalate e del tutto fuori luogo. E invece no: esse servono a inquadrare con maggiore precisione la soluzione adottata dalla divinità (o da coloro che hanno costruito questo racconto: Luca 1, 26-38 e 2, 1-21). Si tratta infatti di una soluzione intermedia, in quanto a) viene scartato l’atto sessuale ‘naturale’ (Giuseppe, messo da parte, non ingravida Maria né con il suo seme umano né con un eventuale seme divino); b) viene scelto un grembo femminile ‘naturale’ per deporvi e farvi crescere il nascituro che sarà poi chiamato Gesù; c) si ritorna tuttavia a una condizione di ‘innaturalità’, essendo quel grembo vergine sia prima sia dopo la nascita del figlio. Vorremmo fosse chiaro al lettore che qui non stiamo affatto indagando su ciò che potrebbe davvero essersi verificato in quel villaggio sperduto e fino ad allora insignificante della Galilea, Nazaret, dove una ragazza, Maria, si era fidanzata con Giuseppe, e «prima che essi iniziassero a vivere insieme, si trovò incinta» (Matteo 1, 18). In ogni epoca ci sono dei maligni e dei sospettosi, e allora Matteo si affretta a precisare che Maria si trovò davvero a essere incinta prima dell’unione matrimoniale con Giuseppe, ma «per opera dello Spirito santo». Il desiderio di saperne di più, anche a prescindere da illazioni maliziose, è umano, giustificato, comprensibile, persino doveroso. Giovanni Crisostomo (IV secolo d.C.), il quale sostiene l’opportunità che su questo argomento «tu non infastidisca l’evangelista e non lo tor224
menti continuamente con le tue domande», non può esimersi dal dichiarare nel suo Commento a Matteo (4, 3): «non pensare di aver imparato tutto perché hai sentito dire che fu opera dello Spirito; pur sapendo questo ignoriamo ancora molte cose» (Comunità di Bose 2000 [a cura di]: 127-28). Per esempio, in che modo colui che è senza confini può essere contenuto nel seno di una donna? In che modo colui che tutto contiene può essere portato nel grembo di una donna? In che modo la Vergine partorisce e resta vergine? [...] In che modo Maria fu sua madre? In che modo venne dal seme di David?
Come si vede, è lo stesso Crisostomo a suscitare tutta una serie di domande – alcune di ordine teologico, altre di ordine più antropologico, altre ancora di ordine biologico – che inevitabilmente convergono verso questo momento originario e fondante del Cristianesimo, a tal punto che persino Lutero e Zwingli riconoscono nei loro scritti la nascita virginale di Gesù da Maria e quindi l’importanza di questa figura femminile (Comunità di Bose [a cura di] 2000: 779 sgg.). Ma Crisostomo – sempre nel Commento a Matteo (4, 3) – chiarisce assai bene quali sono, in definitiva, i punti nodali: Da questi argomenti e da tanti altri ancora risulta chiaro che Cristo è uscito da noi, dalla nostra stessa pasta, dal seno della Vergine, ma in che modo ciò avvenne non è chiaro. Non cercarlo neppure tu, ma accetta quello che ti viene rivelato e non indagare con curiosità quello che è taciuto (Comunità di Bose [a cura di] 2000: 129).
I punti sono almeno due. Il primo è l’affermazione che Cristo, figlio di Dio, è uscito da noi, dalla nostra stessa pasta, dalla nostra sostanza umana: Cristo, figlio di Dio, ma anche figlio di una donna, anzi di una donna vergine. Il secondo è l’invito a riconoscere e ad accettare il mistero. Come davvero possa succedere che da una vergine nasca un figlio e che comunque la madre rimanga vergine è – per Crisostomo – il ‘non detto’, il ‘taciuto’, ciò che nella rivelazione non risulta rivelato. C’è, da parte di Crisostomo, il riconoscimento che il ‘mistero’ deve essere 225
mantenuto, rivelato, ma non svelato. Il Cristianesimo – a differenza di altre culture – è una religione che mantiene i suoi misteri, che pone alla base della sua costruzione istituzionale e simbolica il mistero della nascita del suo fondatore e che richiede ai suoi adepti l’accettazione del mistero in quanto tale, anche quando questo mistero urta in maniera violenta contro la conoscenza delle condizioni e dei processi ‘naturali’ del concepimento e della procreazione. Ma perché mai il mistero della filiazione di Dio tra gli uomini? A pensarci bene, le due soluzioni alternative che avevamo prospettato prima – quella di passare attraverso un atto sessuale normale e quella di evitare questa trafila, collocando per esempio Gesù come un trovatello tra gli uomini – sarebbero state assai meno misteriose. Molto più misterioso – in linea del resto con la profezia di Isaia (7, 14: «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio»), espressamente ricordata da Matteo (1, 22-23) – è abbinare la nascita con una condizione di verginità: è un abbinamento ‘innaturale’, ma particolarmente appropriato a colui per il quale «nulla è impossibile». Il Cristianesimo si fa perciò un vanto di mantenere i suoi misteri. Anche questo insopprimibile mistero, il quale richiede non indagine, ma arresto, sospensione dell’indagine e un atteggiamento di supina accettazione, è un’ulteriore prova del fatto che l’innesto della divinità tra gli uomini – e in primo luogo in una donna (vergine) – non è una faccenda umana, non nasce da un’iniziativa né da una richiesta degli esseri umani; è invece «un atto creatore di Dio, un atto di cui Dio, e non l’uomo, è soggetto» (Bianchi 2000: XXVI). E infatti Maria, la povera e sprovveduta ragazza di Nazaret, accetta la propria condizione di passività («Ecco la serva del signore; si faccia di me come hai detto tu», Luca, 1, 38), così come Giuseppe, per parte sua, «fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa», messa incinta dallo Spirito santo, e «non si accostò a lei, fino alla nascita del figlio» (Matteo 1, 24-25). «Dio è il protagonista di tutto», commenta per noi Enzo Bianchi (2000: XXXI). Per il Cristianesimo, come già per l’Ebraismo, è Dio che decide alla fin fine le sorti dell’umanità: è lui che foggia l’umanità a sua im226
magine ed è lui che impone a Israele il patto di alleanza (Genesi 1, 26 e 17, 9-14). E quando si tratta di scendere tra gli uomini, di farsi anch’egli uomo, non accetta le normali condizioni di vita e di crescita, ma si incunea in una coppia di giovani sposi, rendendo la loro famiglia indubbiamente ‘sacra’ agli occhi dei credenti, ma decisamente ‘innaturale’ e ‘fuori norma’ (come del resto si addice a ciò che appunto è sacro). Quando poi questa famiglia si comporta ‘come se’ fosse una famiglia normale, è facile vedere in Gesù quasi uno sprezzante – e un po’ sorprendente, se si vuole – atteggiamento di rifiuto, di presa di distanza, di estraneità. All’espressione di Maria, «tuo padre e io, addolorati, ti cercavamo!» (da ben tre giorni), il figlio oppone un rifiuto tutt’altro che filiale, contrapponendo «il Padre mio» a Giuseppe (Luca 2, 48-49). In effetti, si comprende l’estraneità di Gesù nei confronti del povero Giuseppe; ma alle nozze di Cana (altro episodio che ci viene ricordato da Enzo Bianchi) Gesù manifesta un sentimento di estraneità ancora più dura nei confronti della madre: «Che c’è fra me e te, donna?» (Giovanni 2, 4). Già, che c’è? Lasciamo del tutto in mano agli esegeti lo scavo di queste espressioni. L’unica osservazione, con cui intendiamo concludere questo paragrafo, è che esse sono perfettamente in linea con l’atteggiamento molto critico e ostile che Gesù ha sempre manifestato – almeno alla lettura dei Vangeli – nei confronti di ciò che alcuni chiamano la famiglia ‘naturale’: la divisione, la separazione, l’odio persino, che Gesù – come si ricorderà (cap. 6) – intende portare all’interno di questa famiglia, non possono essere sottaciuti. Questo tipo di famiglia – la famiglia ‘naturale’ – è stata null’altro che un mezzo per consentire l’arrivo del figlio di Dio tra gli uomini, e questo arrivo ha stravolto le sue caratteristiche di ‘naturalità’. Ma la missione salvifica, per la quale Dio è venuto tra noi, esige ben altro: la piccola famiglia di Nazaret è troppo poca cosa; non è su questa che si può fare leva per un’impresa che va ben oltre i problemi domestici; non è questa al centro della grande ‘edificazione’ che il Cristianesimo vuole realizzare.
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2. Una grande famiglia spirituale Per salvarsi occorre costruire qualcosa di molto diverso da una semplice famiglia, quale si incontra nella quotidianità della vita sociale, e per fare questo si potrebbe forse dire che, mentre si mantiene l’idea di famiglia, si provvede anche per un verso a sfrondare e per l’altro ad aggiungere. Sfrondando certi aspetti e aggiungendone altri, si ottiene una famiglia strutturalmente diversa da quella in cui il figlio di Dio accettò di venire al mondo. Che cosa si sfronda? Innanzi tutto, i rapporti sessuali e i processi della procreazione biologica. Si ricorderà come Gesù, con la sua teoria dei tre tipi di eunuchi, avesse indicato chiaramente quale fosse la via per il ‘Regno dei cieli’, anche se si tratta di una via – come egli stesso ammette – non per tutti comprensibile e non per tutti praticabile (cap. 6). San Paolo, per parte sua, accentua questa scelta ascetica: «è meglio per un uomo non toccare donna», e più avanti soggiunge: «vorrei che tutti fossero come me», ovvero non sposato e in grado di astenersi dal sesso; ma non tutti hanno questo «dono da Dio», per cui «è meglio sposarsi che ardere di concupiscenza» (1 Corinzi 7, 1-9). A una famiglia da cui si eliminano i rapporti sessuali e procreativi (quelli coniugali) rimangono i rapporti di consanguineità. E infatti in questo modo la comunità (il ‘noi’) dei Cristiani viene fin da subito immaginata: cioè una comunità di ‘fratelli’. Ma essendo stata eliminata la dimensione della procreazione biologica, i ‘fratelli’ di cui si parla (gli adelphoí) non sono tali in quanto tutti discendenti da Abramo: non sono fratelli di carne, ma fratelli in Cristo. L’idea della consanguineità dei ‘fratelli’ si svuota, anche se viene mantenuto il principio della coesione, dell’unità e della solidarietà del gruppo fraterno. Vi è quindi un uso ‘metaforico’ della relazione sociale tra fratelli nella progettazione e nell’edificazione della comunità cristiana (Destro, Pesce 2005: 60). Ma nella concezione cristiana ciò non significa un indebolimento della coesione; al contrario, l’unione tra fratelli nell’ekklesía dà luogo – almeno idealmente – a una «condivisione perfetta» (2005: 62). Lo svuotamento della consanguineità biologica è compensato a dismisura – potremmo quasi dire – da 228
un riempimento spirituale, teologico e antropologico insieme. Si diventa fratelli non perché si è nati da uno stesso padre e da una stessa madre biologici, ma perché vi è un ‘padre’ che – secondo Paolo (Romani 8, 29) – predetermina e chiama gli uomini a essere suoi figli. Si sta configurando così una famiglia del tutto spirituale, a capo della quale vi è Dio come padre, Gesù come suo figlio ‘primogenito’ e gli altri ‘figli’ che diventano tali a seguito della chiamata divina e del loro diventare «conformi all’immagine del Figlio primogenito». Come chiariscono Mauro Pesce e Adriana Destro (2005: 62), «ciò che fonda la fratellanza non è una comune natura o una comune appartenenza» a una discendenza parentale o a un gruppo sociale; è invece – ancora una volta – la predeterminazione divina. Il distacco da condizioni ‘naturali’, così come da condizionamenti sociali, è molto forte, ed è provocato – anche per il Cristianesimo – dal concetto di una ‘seconda nascita’. In Giovanni (3, 1-8) Gesù si incarica di spiegare l’importanza di questo concetto a uno stupito Nicodemo, il quale si chiede come sia mai possibile per un uomo «entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e nascere». Nicodemo rimane inchiodato all’idea della nascita biologica e non vede altre possibilità, mentre Gesù distingue e anzi oppone alla nascita «dalla carne» – la nascita biologica, la nascita naturale – la nascita «dallo Spirito», la nascita spirituale; ed è solo questa che consentirà all’uomo di «entrare nel regno di Dio». La comunità dei ‘fratelli’ è una prefigurazione del regno di Dio e vi si entra in quanto si è «rinati non da seme corruttibile, ma incorruttibile» (1 Pietro 1, 23). Poste a confronto, la comunità dei fratelli in Cristo da un lato e la famiglia ‘naturale’ dall’altro danno luogo a un rapporto gerarchico, per comprendere bene il quale occorre non lasciarsi sviare troppo dall’operazione metaforica che indubbiamente ne è alla base. Difficile infatti non scorgere il significato metaforico che la comunità dei fratelli progettata assume rispetto alla famiglia socialmente vissuta (Destro, Pesce 2005: 60 e 65). Ma nella concezione cristiana non può certo essere ammesso questo passaggio concettuale dalla famiglia ‘naturale’ o sociale (comunque la si voglia definire) alla famiglia ‘spirituale’ e divina, 229
come se questa fosse solo una metafora della prima. Ciò che viene costruito sulla base della ‘seconda nascita’ – la nascita dallo Spirito, invece che dalla carne, la nascita «dall’alto», invece che dal basso (come si legge sempre in Giovanni 3, 3-7) – è infinitamente più importante e decisivo rispetto alle famiglie in cui capita di nascere. Queste famiglie sono caduche, destinate a scomparire; sono incomplete, esposte alle divisioni, alle lacerazioni, ai contrasti, alla corruzione; sono costruzioni soltanto umane, e quindi intrinsecamente fragili e inaffidabili. Al contrario, la comunità dei fratelli in Cristo, l’ekklesía, la Chiesa, non ha soltanto una capacità di durare nel tempo, ma in quanto prefigurazione del regno definitivo di Dio ha dalla sua l’eternità. Questa convinzione o questa affermazione è strettamente collegata alla faccenda della metafora, o meglio alla sua negazione. Vi sono infatti culture – e il Cristianesimo rappresenta un caso veramente esemplare – in cui la metafora si fa, ma non si dice; si compiono i passaggi che portano da un determinato contesto o sfera di esperienza a un altro contesto (e questo viene spesso costruito con elementi che provengono dal primo), ma la consapevolezza del passaggio e del trasferimento viene abolita a favore di una entificazione forte e inscalfibile di ciò che dovrebbe essere soltanto una metafora. Si può osservare assai bene questo modo di procedere nella costruzione della ‘grande’ famiglia a partire dalla ‘piccola’ famiglia, della famiglia eterna a partire dalla famiglia terrena. Per ottenere una grande famiglia probabilmente è stata avvertita l’esigenza di aggiungere a una comunità tutta maschile – la comunità dei discepoli, ovvero dei fratelli, con Gesù come primogenito e con Dio come ‘padre’ di tutti – un elemento femminile, che fu trovato in Maria, la ‘madre’ di Gesù, colei che ha portato in grembo e poi partorito il figlio di Dio. Il passaggio metaforico riguardante la figura di Maria è ben descritto da Enzo Bianchi, allorché egli commenta il brano di Giovanni (19, 26-27) che riporta le parole di Gesù sulla croce: alla madre egli dice «Donna, ecco tuo figlio» e al discepolo prediletto (Giovanni) «ecco tua madre». Leggiamo il commento di Bianchi (2000: LVIII-LIX): «le parole di Gesù rivelano, anzi creano, dei rappor230
ti inediti tra Maria e il discepolo»; più in generale, «sotto la croce si assiste all’evento per cui Maria è stabilita nella maternità spirituale dei discepoli» (corsivo nostro), qui rappresentati da Giovanni; ovvero, «da madre del Messia, Maria diviene madre dei discepoli del Messia» (corsivo dell’autore). Si noti l’insistenza di Bianchi: «il Cristo glorioso [...] stabilisce Maria e il discepolo in relazione di maternità e filialità». In questa vicenda sotto la croce si percepisce in maniera nitida il passaggio da un contesto di partenza, quello per il quale Maria è (o sarebbe) la madre di Gesù, a un contesto di arrivo, quello nel quale Maria viene stabilita (non concepita, non immaginata) come madre dei discepoli. È forse una ‘finzione’ questo passaggio (una metafora, un modo di dire)? No: per i Cristiani non si tratta di una finzione, nemmeno nel senso nobile che abbiamo voluto dare a questo termine nel nostro discorso (cfr. parr. 11.5 e 12.3). Con le sue parole Gesù ‘crea’ una realtà nuova; ma questa realtà – questa famiglia spirituale che vede l’aggiunta dell’elemento femminile e materno (Maria come madre di Gesù e come madre di tutti i Cristiani) – non è affatto secondaria e derivata, in quanto viene dall’‘alto’ ed è eterna nella sua essenza. Beninteso, in questa famiglia spirituale, che è la Chiesa, ricompaiono i tratti e i rapporti tipici della famiglia ‘naturale’ e si assiste persino al recupero – sia pure in senso trasfigurato – della sessualità e del rapporto coniugale. Se nella Bibbia ebraica – e in particolare nei testi di Osea, di Geremia e di Ezechiele – Dio è concepito come lo sposo di Israele, a sua volta immaginato come una sposa infedele, nel Cristianesimo si riproduce questo legame coniugale che unisce Dio (lo sposo) alla sua Chiesa. Sant’Ambrogio – sulla scia di Origene – utilizza ampiamente il Cantico dei cantici e le espressioni di amore sensuale tra gli amanti in esso contenute per parlare del connubio tra Cristo e la Chiesa; ma questa volta – a differenza che per la sinagoga ebraica e per Israele – la sposa è fedele, realizzando così «una stabilità perpetua», un legame d’amore «maturo e definitivo», che «dura oltre la morte» e che si «stabilirà nell’eternità» (Toscani 1974: 191-92). La presa di distanza dall’Ebraismo (Israele come sposa infedele) fa tutt’uno con la presa di distanza dalla 231
famiglia ‘naturale’ e solo umana: l’instabilità è ciò che caratterizza entrambe le situazioni, mentre la Chiesa si configura come il massimo della stabilità. Ma tutto ciò si ottiene andando oltre i legami naturali e facendo della Chiesa una famiglia in cui i legami fraterni, i legami filiali e persino i legami coniugali sono fondati sulla presenza immanente di Dio, che attraverso suo figlio ha voluto unirsi intimamente agli uomini. Ed è questa unione tra Dio e gli uomini ciò che davvero conta. La Chiesa è infatti sì una famiglia, ma non riproduce del tutto sul piano spirituale i legami parentali della famiglia terrena. È come se nel passaggio metaforico dalla famiglia naturale alla famiglia spirituale questi legami perdessero la loro specificità e la loro esclusività: il padre può diventare il figlio, chi genera può essere a sua volta generato. In Matteo 12, 49-50, là dove Gesù manifesta la sua estraneità alla propria famiglia terrena (sua madre e i suoi fratelli) e indica invece i suoi discepoli come la sua più vera e autentica famiglia, egli afferma: «Chiunque fa la volontà del padre mio che è nei cieli, questi mi è fratello, sorella e madre». Nella famiglia spirituale i rapporti naturali e sociali saltano nella loro distintività, o meglio vengono recuperati e trasportati in un altro ambiente, dove si combinano e si mescolano, assumendo un altro significato. Agostino per esempio nel De virginitate (5, 5) afferma che Maria «fisicamente fu soltanto Madre di Cristo, spiritualmente gli fu anche sorella e madre» (Comunità di Bose [a cura di] 2000: 194); in modo analogo le vergini che si consacrano a Dio «sono, insieme a Maria, madri di Cristo». Per rendersi conto di come l’allontanamento dalle condizioni naturali e sociali delle famiglie terrene possa generare una situazione di difficile comprensione, quasi una sorta di vertigine concettuale che rasenta il mistero, è sufficiente citare questa ulteriore frase di Agostino: «La Chiesa imita la madre del suo Sposo e del suo Signore ed è anche lei madre e vergine» (Comunità di Bose [a cura di] 2000: 194). La Chiesa è sposa di Cristo, ma imita, e anzi si identifica con la madre del suo sposo; è vergine ed è anche madre. In uno dei suoi Discorsi (72A, 8), Agostino sostiene infatti che anche ‘noi’, «corpo di Cristo», siamo «madre di Cristo» (Comunità di Bose [a cura di] 2000: 197). 232
Ma «in che modo», egli si chiede, «in che modo osiamo dirci madri di Cristo»? In quanto – egli risponde – facciamo parte della madre Chiesa: «Questa madre, santa, onorata, simile a Maria, partorisce e al tempo stesso è vergine. Che partorisce lo dimostro per mezzo vostro; siete nati da lei ed essa partorisce anche Cristo, poiché voi siete membra di Cristo» (Comunità di Bose [a cura di] 2000: 198). Non è stato solo Agostino a cercare di spiegare questi ribaltamenti di ruoli che si verificano nella famiglia spirituale della Chiesa. Il teologo francese Henri de Lubac, per esempio, ha sostenuto che la Chiesa, esattamente come la vergine Maria, è nello stesso tempo «sposa di Dio padre» e «sposa del Figlio di Dio» (Comunità di Bose [a cura di] 2000: 1049). Volendo, potremmo trovare in effetti soluzioni di questo tipo – una sorta di poliandria – in diverse società di questo mondo: in Tibet, per esempio, dove una donna può essere contemporaneamente moglie di Ego e del padre di costui, allorché diviene vedovo (Levine 1988: 160). Ma i confronti etnologici, oltre a essere considerati irriverenti e forse irritanti, potrebbero apparire inappropriati, perché nella Chiesa abbiamo a che fare non con i rapporti della carne, bensì con quelli dello spirito, per cui è opportuno ritornare alle riflessioni dei teologi. Michael Schmaus, altro teologo del Novecento, riprende il tema della Chiesa come genitrice di Cristo e anzi di Dio (oltre che generata) e spiega tutto ciò con una citazione da Gregorio Magno, che qui riproduciamo: Dobbiamo sapere che colui il quale è fratello e sorella di Cristo nella fede, ne diventa madre nella predicazione. Poiché egli in certo modo partorisce il Signore che ingenera nel cuore degli uditori. Egli diventa sua madre quando per la sua voce l’amore per il Signore viene generato nello spirito del prossimo (Comunità di Bose [a cura di] 2000: 1051).
La metafora – si è detto – è un cammino, un passaggio, un tragitto, che può essere lungo o breve. Ma soprattutto può essere un cammino alla fine del quale viene mantenuto il ricordo del passaggio (dal contesto A al contesto B) oppure ciò che si è 233
costruito in questo passaggio cancella o addirittura rovescia il passaggio stesso. Nella costruzione della Chiesa come di una comunità perfetta, di una grande famiglia in cui non vi sono soltanto uomini e donne, ma in cui uomini e donne coabitano con Dio e con suo figlio, in cui si uniscono con la divinità secondo rapporti di reciproca filiazione (‘noi’ figli di Dio, ma ‘noi’ anche generatori del Signore), è come se si fosse fatta tanta strada da dimenticare, sovvertire e mescolare le nozioni di partenza. In effetti, se c’è di mezzo Dio, se il ‘noi’ che si è venuto a costituire è la stessa cosa che la presenza di Dio tra gli uomini («Dio-è-connoi», Emmanuele, è il nome che dovrebbe essere dato a Gesù, partorito da Maria, cfr. Matteo 1, 23), la grande famiglia spirituale della Chiesa si distanzia enormemente dalle piccole famiglie, instabili, precarie, divise, in cui di norma la gente vive. C’è un salto qualitativo tra i due tipi di famiglie, segnato in primo luogo – sul piano del comportamento umano – dalla rinuncia al sesso e alla procreazione nella costituzione della famiglia divina: sotto il profilo umano e per usare una terminologia evangelica, si tratta di una famiglia di ‘eunuchi’ (eunuchi del terzo tipo, quelli che hanno reso se stessi tali per il Regno dei cieli, cioè esattamente per costituire la famiglia divina). Ma è una distinzione che si traduce ipso facto in una gerarchia di modelli e di valori, come succede per esempio nella lettera agli Efesini (5, 24) di Paolo, dove «il rapporto tra Cristo, il capo, e la Chiesa viene offerto a modello del rapporto tra il marito e la sposa cristiani» (Filoramo 2007: 15). Certo, Giovanni Filoramo rintraccia nel passo paolino il condizionamento di un sistema patriarcale con relativa sottomissione della donna al capo famiglia; ma per la Chiesa il rapporto risulta rovesciato. Così, per esempio, il celibato, che contraddistingue gli appartenenti alla Chiesa Cattolica, non è concepito soltanto come una rinuncia (un allontanamento da una condizione naturale, di partenza), ma come il segno dell’acquisizione di un potere procreativo spirituale, quello per il quale la Chiesa non è soltanto l’insieme dei figli di Dio, ma genitrice, e addirittura – come si è visto, da Agostino ai teologi del Novecento – essa stessa procreatrice di Dio. Avendo inserito il celibato in un sistema di potere (un potere procreativo, 234
quello della ‘seconda nascita’, che è un potere antropo-poietico e nello stesso tempo teo-poietico), si comprende la resistenza della Chiesa Cattolica alle proposte relative alla sua abolizione. Abolire il celibato significherebbe infatti non soltanto sopprimere un elemento di distinzione tra la grande famiglia sovrannaturale e la piccola famiglia ‘naturale’, ma rinunciare anche a una condizione precipua attraverso cui si esercita il potere di ‘generare’ figli di Dio (e in definitiva di rigenerare – come si è visto – Dio stesso). Con l’istituzione di un indiscutibile rapporto gerarchico, che rovescia il rapporto metaforico di allontanamento e di derivazione, si capisce anche come mai la Chiesa, la grande famiglia spirituale, privilegi la piccola famiglia, la famiglia nucleare, pur così instabile, pur così inaffidabile e precaria. La risposta è nella stabilità – una stabilità eterna – che la grande famiglia ecclesiale garantisce e nel rapporto di netta superiorità che essa dimostra ‘dall’alto’ del suo insegnamento. Sotto il profilo storico e antropologico, Jack Goody ha messo in luce come la Chiesa Cattolica abbia sempre preferito «sostituire la propria parentela spirituale ai più ampi legami della cosiddetta ‘parentela naturale’» e come abbia combattuto – si pensi alle società africane, per esempio – contro il culto degli antenati e «contro i clan» (Goody 1999: 249), cioè – potremmo aggiungere – contro quei gruppi parentali e domestici, famiglie estese e famiglie consanguinee, che avrebbero potuto competere sul piano della stabilità e della durata (non certo su quello dell’eternità). La Chiesa Cattolica sopporta poco, anzi non tollera affatto, le famiglie che gli uomini elaborano per durare nel tempo, per andare oltre il destino individuale. Anche quando la Chiesa ha adottato, come è accaduto più di recente, «la prospettiva del diritto naturale di impronta neotomista» per la sua concezione della famiglia (Filoramo 2007: 11), ha certamente provveduto – per usare la nostra terminologia – a una decisa stabilizzazione della famiglia: la famiglia nucleare, intesa come comunità ‘naturale’, come aderente e rispondente ai principi e ai caratteri della ‘natura umana’, diviene ipso facto intoccabile, inamovibile, incontestabile. Ma occorre vedere an235
che l’altra faccia della medaglia: ciò che così viene ‘naturalizzato’ – considerato come inevitabilmente naturale – è la famiglia nucleare, una famiglia ‘instabile’ per eccellenza, una famiglia ‘a termine’, che comunque si dissolve, come abbiamo già visto, con la morte e che proprio per questo non può competere in nulla con la famiglia spirituale. Questa è in effetti la famiglia ‘naturale’ concepita dal Cristianesimo: una famiglia che si dissolve con la morte. Agostino, nel De civitate Dei, dopo avere appunto chiarito il destino di dissoluzione della famiglia naturale (22, 17), introduce il tema dell’«uomo perfetto» con una lunga citazione dalla lettera agli Efesini di Paolo: un uomo che diviene ‘perfetto’, perché reso tale da Cristo che è disceso tra noi «per riempire tutte le cose» (Efesini 4, 9). E questo uomo perfetto viene fatto coincidere da Agostino con il magistero stesso della Chiesa, intesa come «corpo di Cristo», un corpo «ben compaginato e connesso» e soprattutto un corpo che non teme più la morte. Dire ‘famiglia naturale’ significa dire morte: che cosa di più naturale della morte? Dire ‘Chiesa’ significa invece indicare una famiglia spirituale, che coincide sì con un corpo, ma con il corpo incorruttibile di Cristo e in cui tutti gli uomini possono arrivare «allo stato di uomo perfetto» (Efesini 4, 13). Quando dunque la Chiesa evoca la famiglia naturale, fa valere uno schema gerarchico, in cui essa si identifica e che è alla base del suo potere. La famiglia naturale si trova in basso, al fondo di questo schema, il quale prevede però la distinzione e la separazione netta tra ciò che è naturale e ciò che è sovrannaturale, tra ciò che è carnale e ciò che è spirituale, tra ciò che è terreno, transeunte e meramente umano, e ciò che invece è stabile, permanente, eterno, divino e umano insieme. La Chiesa si colloca sul piano alto di questo schema, a un livello di netta superiorità istituzionale, a partire dal quale nascono il suo potere e la sua autorità sul livello inferiore. Si capisce, allora, come la Chiesa non risulti scalfita da argomentazioni come quelle contenute in un recente testo anonimo Contro Ratzinger, dove si fa rilevare quanto meno la stranezza che «tante certezze in materia di sessualità provengano da anziani signori dai gusti sovente indefiniti, immancabilmente avvolti in gonne lunghe, tenuti per 236
voto a non conoscere la donna, a non praticare, procreare e amare» (Anonimo 2006: 110). Le certezze in materia di sessualità e soprattutto di famiglia provengono infatti dalla convinzione di essere sul piano dell’‘uomo perfetto’, di una famiglia in cui si coabita e ci si unisce a Dio e al suo sapere, lo Spirito. Cosa possono mai sapere gli uomini che rimangono al livello della famiglia ‘naturale’ (gli antropologi, per esempio)? La famiglia naturale c’è, e occorre che ci sia, perché ci sia la società, ma anche perché in tal modo la famiglia sovrannaturale possa esplicare tutto il suo potere e tutta la sua autorità, occupandosi e prendendosi cura di ciò che si trova sulla terra. In quanto ‘famiglia’, la Chiesa ritiene infatti di potersi occupare dei problemi della famiglia naturale; e in quanto famiglia sovrannaturale (divina e umana insieme) ritiene che le sue direttive siano dotate di una certezza la cui garanzia proviene dalla sua intimità con Dio. È ‘dall’alto’ di questo sapere che la Chiesa si occupa delle famiglie che stanno ‘in basso’, e se ne occupa tanto sotto il profilo concettuale e teorico, asserendo come deve essere strutturata la famiglia, quanto sotto il profilo rituale e organizzativo, mediante il sacramento del matrimonio, quanto sotto il profilo umanitario, venendo in soccorso, con le organizzazioni di solidarietà tipiche del Cattolicesimo, alle famiglie bisognose. Tutt’altro che da sottovalutare questo aspetto della solidarietà; ma dal punto di vista istituzionale non è certo tale da porre in discussione lo schema gerarchico che vede ‘in alto’ una famiglia ‘perfetta’, non bisognosa, e ‘in basso’ le famiglie imperfette, quelle meramente umane, prede dei bisogni naturali, delle ristrettezze economiche, spesso distrutte dalle condizioni di degrado sociale un po’ ovunque nel mondo, o semplicemente sballottate dalle passioni e dagli interessi individuali: non solo non lo mette in discussione, ma lo conferma.
3. Teofania, teokoinia, teofagia Abbiamo cominciato questo nostro discorso dall’idea di stabilità, dall’aspirazione alla stabilità che tutti ci accomuna. Nella prima 237
parte abbiamo visto come si possa rispondere in due modi distinti a questa esigenza: o accontentandosi di una stabilità relativa o cercando, invece, una stabilità assoluta e definitiva. Nella seconda parte abbiamo potuto prendere in esame molti esempi di stabilizzazione nel campo delle famiglie e dei gruppi domestici, mentre in questa terza parte ci siamo concentrati – specialmente da un certo punto in poi – su quell’enorme e senza dubbio affascinante tentativo di stabilizzazione che è la Chiesa: una costruzione – un’‘edificazione’, per usare la terminologia paolina – che ha attraversato i secoli, oltre che numerosi confini etnici, politici, linguistici, geografici. Un’edificazione che, sotto questo profilo e nonostante tutti i conflitti, le lacerazioni e le scissioni interne, ha avuto un impressionante successo storico. Sotto il profilo culturale (scelte di simboli, elaborazione di idee, approfondimenti di principi), quali operazioni la Chiesa ha compiuto per raggiungere il suo obiettivo di stabilità? Facendo ricorso al nostro armamentario concettuale, abbiamo utilizzato il concetto di ‘noi’. Fin dalle sue origini e per così dire in maniera strutturale la Chiesa si presenta come un ‘noi’, ma fin da subito si presenta come un ‘noi’ che non è fatto soltanto di uomini e di donne: in mezzo a loro c’è Dio. Un Dio che non si accontenta di rivelarsi con manifestazioni indirette, quali sono state per lo più quelle dell’Antico Testamento, ma un Dio che nelle sue teofanie si avvicina più direttamente all’umanità. Il tema che affronteremo in questo paragrafo coincide infatti con il grado di avvicinamento e anzi di intimità tra Dio e gli uomini. A un estremo possiamo collocare l’episodio di Esodo 19, 16-25, là dove Dio scende sul monte Sinai avvolto nel fuoco, preceduto da tuoni, lampi e un potente suono di tromba. Il popolo spaventato viene radunato da Mosè ai piedi della montagna; ma Dio fa salire solo Mosè sulla vetta, e anzi chiede esplicitamente che il popolo si tenga a debita distanza: «scendi ad avvertire il popolo che non irrompa in direzione del Signore per vederlo: molti di loro cadrebbero». E Mosè a sua volta dice al Signore: «Il popolo non può salire sulla montagna del Sinai, perché tu ci hai avvertito, dicendo: ‘Metti dei confini alla montagna e rendila sacra’». Mosè ritornerà sulla cima soltanto con Aronne. All’estre238
mo opposto, nel Cristianesimo, la teofania coincidente con la nascita di Gesù è senza dubbio una manifestazione dove viene meno la distanza tra gli uomini e la divinità: il figlio di Dio si trova a dover vivere e poi a morire direttamente tra gli uomini. Si tratta di una teofania più diretta e più umile, la quale, abolendo la distanza, ovvero i ‘confini’ tra divinità e umanità, si traduce ipso facto in una ‘teokoinia’, in uno ‘stare insieme alla divinità’ da parte degli uomini o, se si vuole, uno ‘stare insieme agli uomini’ da parte della divinità. Ci rendiamo conto che ‘teokoinia’ può apparire come un neologismo che va minimamente spiegato, soprattutto in quanto in diversi punti dei testi che compongono il Nuovo Testamento appare il termine koinonía, ‘comunità’, assai più usato – anche in tempi recenti – per designare la formazione di gruppi che si richiamano al senso di condivisione di sostanze e di partecipazione di vita comune del Cristianesimo antico. Ma anche koinia, sempre con il significato di ‘comunità’, gode di una significativa diffusione in ambito religioso, specialmente negli Stati Uniti d’America. Abbiamo comunque preferito adottare koinia per ottenere un’espressione – ‘teo-koinia’ – che ricalcasse sotto il profilo formale il termine iniziale ‘teofania’ e preludesse al termine finale, ‘teofagia’, su cui si concentrerà questo penultimo paragrafo. Così simile a ‘teofania’, ‘teokoinia’ presenta inoltre l’ulteriore vantaggio – rispetto a koinonía – di segnalare subito la presenza divina (teo-koinia) e, in modo analogo a ‘teofania’, di richiamare un tema che abbiamo già incontrato nelle analisi precedenti e che si ripresenterà in questo paragrafo, ossia la volontà di Dio di venire tra gli uomini, di stare con gli uomini. Ancora una volta, è Dio che decide di presentarsi agli uomini e di mettersi con loro; non sono gli uomini che chiedono a Dio di rivelarsi e di fare loro compagnia. E questo è un ulteriore motivo di stabilità. Gli uomini si mettono insieme, costituiscono un ‘noi’, ma a fondamento di questo ‘noi’ non vi è un progetto umano di convivenza, vi è invece un progetto divino che trasforma quel ‘noi’ da realtà umana in realtà umana e divina insieme. Il ‘noi’ della Chiesa si presenta, più in particolare, come una ‘famiglia’: quel ‘noi’ è il ‘noi’ di una famiglia allargata, e chissà 239
quanti commentatori – oltre a quelli che qui abbiamo fuggevolmente utilizzato – sarebbero in grado di individuare nella famiglia ecclesiale tracce più o meno evidenti dei tipi di famiglia di cui i costruttori della Chiesa hanno fatto esperienza nelle loro rispettive società. Abbiamo però sottolineato un altro aspetto, che ci è parso fondamentale: quello dell’allontanamento e della presa di distanza dalle condizioni preesistenti. Nell’edificare la Chiesa, gli architetti (Paolo – come si ricorderà – si definisce tale) prendono alcuni elementi dalla vita e dall’organizzazione delle famiglie presenti nella loro società, ma altri li lasciano cadere e altri ancora li inventano per proprio conto. Li ‘inventano’? I costruttori – quei costruttori e i loro eredi, i manutentori attuali – non sarebbero affatto d’accordo con questo verbo, perché è vero che i costruttori si incamminano su una strada che li porta molto lontano dalle realtà sociali dell’epoca, ma su quella strada – essi dicono – incontrano Dio. Più precisamente, è Dio che costruisce questo nuovo ‘noi’. Insieme a Dio, questi costruttori vanno decisamente ‘al di là della natura e della cultura’ – come abbiamo voluto intitolare questo capitolo 13 –, ma lo possono fare (o meglio, ritengono di poterlo fare) proprio in quanto ‘Dio-è-con-noi’. Se il ‘noi’ è una costruzione, Dio è il massimo garante della sua stabilità: di più non si può avere, e ‘noi’ abbiamo Dio dalla nostra parte. È questa ‘teokoinia’, questo essere ‘Dio-con-noi’, ciò che fa gridare a Paolo: «non siamo più come fanciulli sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, secondo l’inganno degli uomini, con quella loro astuzia che tende a trarre nell’errore» (Efesini 4, 14). Questo ‘Dio-con-noi’, questa presenza dello spirito di Dio in ‘noi’, ci fornisce un sapere che va ben al di là delle tradizioni e dei costumi, di quel sapere che gli uomini si costruiscono stentatamente o si inventano con l’inganno (con le finzioni) nelle loro società esclusivamente umane: «Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con i vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana» (Colossesi 2, 8). Una volta «radicati» in Cristo «e costruiti su di lui» (2, 7), è possibile guardare alle tradizioni culturali, agli «insegnamenti umani», come «tutte cose destinate a logorarsi con l’uso» (2, 240
22). Il messaggio che Paolo pensa di poter trasmettere è certamente diretto agli uomini, ma nelle sue origini non è umano, «non è a misura d’uomo (katà ánthropon)», proveniente da qualche società umana; infatti – egli prosegue – «né io l’ho ricevuto da un uomo né da un uomo sono stato ammaestrato» (Galati 1, 11-12), bensì da una rivelazione divina. ‘Stabilità, per Dio’: questo è il messaggio che alla fine Paolo intende trasmettere; ma è una stabilità che non passa attraverso la semplice acquisizione intellettuale di un sapere, bensì attraverso la coabitazione, la convivenza con Dio (teokoinia). Sotto il profilo culturale, il Cristianesimo potrebbe forse essere concepito come uno sforzo per consolidare, stabilizzare, rendere comprensibile e fondare la teokoinia. Come è possibile che umanità e divinità, due realtà così diverse, lontane e incomparabili, stiano insieme? Nei paragrafi precedenti abbiamo visto come una serie di eventi, processi e rapporti familiari (tratti dalla vita familiare) siano concepiti come modalità che assicurano la presenza di Dio nel ‘noi’. Innanzi tutto, l’evento della nascita: una nascita senza dubbio ‘innaturale’ sia per quanto riguarda il concepimento spirituale, sia per quanto riguarda il mantenimento della condizione di verginità della madre. All’evento della nascita divina (Dio che mediante suo figlio viene tra noi, diviene come noi) si può fare corrispondere un’altra nascita, altrettanto innaturale, ovvero la rinascita o seconda nascita, a cui gli uomini si sottopongono attraverso il battesimo. Dio da un lato e gli uomini dall’altro entrano a far parte di questo ‘noi’ inedito grazie a due tipi di nascita, che certamente vanno ben oltre la natura. Questo ‘noi’ è poi a sua volta costituito da legami fraterni (gli uomini tra loro e con Cristo) e da legami filiali (in quanto tutti figli di Dio). Anche i legami coniugali vengono utilizzati per garantire ulteriormente l’unione, specialmente da quando si introduce nella costruzione della Chiesa l’immagine della madre di Gesù. Maria vergine viene infatti considerata come il simbolo stesso della Chiesa: la Chiesa, per così dire, si femminilizza e si pone come sposa di Dio, come sposa di Cristo e persino come madre di Dio e di Cristo, suscitando non poche difficoltà di umana comprensione, come è attestato dalle rifles241
sioni di Agostino. Con il vincolo matrimoniale, è pure interessante osservare il recupero della dimensione erotica e sessuale. Abbiamo accennato, per esempio, all’interpretazione del connubio Cristo-Chiesa come prefigurato dall’erotismo dei due amanti nel Cantico dei cantici, ma si sarebbe ovviamente potuto proseguire con qualche accenno almeno ai risvolti erotici di molte esperienze mistiche all’interno del Cristianesimo e in particolare del Cattolicesimo. Famiglia, matrimonio, erotismo: per quanto spiritualizzate risultino queste nozioni per fondare la teokoinia, è facile constatare come l’allontanamento dalle condizioni considerate ‘naturali’ – attraverso il celibato, l’astensione dalla vita sessuale e dalla procreazione biologica – non possa fare a meno di mediare, a un certo punto, con elementi, aspetti o fattori profondamente radicati nella naturalità, nell’‘uomo naturale’. Lo stesso incontro, anzi la stessa unione con la divinità (teokoinia) prende forma di un contatto corporeo. La forte spiritualizzazione del ‘noi’ non significa affatto una messa in ombra del corpo; anzi, la ‘mortificazione’ del corpo – a cui san Paolo invita i suoi seguaci (Colossesi 3, 5) e al cui indirizzo la Chiesa non è mai venuta meno – è un modo per purificare il corpo, predisponendolo all’incontro con la divinità. Questo, sembra di poter dire, è il punto decisivo: un incontro sì spirituale, ma un incontro che avviene comunque nel corpo. È impressionante infatti l’insistenza nelle lettere di san Paolo, per esempio, di espressioni in cui il ‘noi’ è concepito come ‘corpo di Cristo’: E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito [...] Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte (1 Corinzi 12, 13-27). Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane (1 Corinzi 10, 17).
Soltanto metafore? Per l’osservatore dall’esterno senz’altro sì. Ma se l’antropologo deve capire come il suo interlocutore pensa e si comporta, è difficile insistere soltanto sull’aspetto metafori242
co. Per i costruttori di quel ‘noi’ che è la Chiesa e per i suoi manutentori attuali non pare che si tratti soltanto di metafore. C’è qualcosa di più, e di più profondo, e questo prende l’aspetto – come già abbiamo argomentato in precedenza – di un’operazione che agisce in senso opposto al percorso metaforico. Per coloro che hanno compiuto quel percorso il ‘noi’, di cui parla san Paolo, è davvero un ‘corpo’, non un «corpo animale», ma «un corpo spirituale» (1 Corinzi 15, 44): un corpo in cui si incontrano e si uniscono umanità e divinità. Abbiamo visto appena sopra come una serie di eventi e di rapporti vengano intesi come modalità di questo incontro-unione (nascite, rapporti di filiazione, connubi). Ma questi rapporti di ordine parentale e matrimoniale (o persino erotico) sono sufficienti per mantenere nel tempo questa unione? Sono sufficienti per trattenere la divinità ‘con noi’? Sulla strada che porta ‘al di là della natura e della cultura’ i costruttori del ‘noi’ ecclesiale si sono imbattuti in un’altra possibilità, a cui forse Israele non aveva pensato, da cui forse sarebbe rifuggito. Rapporti di filiazione e vincoli matrimoniali non producono un’intimità così profonda quale invece è garantita da quest’altra possibilità, quella cioè di ingerire l’‘altro’ in ‘noi’. Nei rapporti sessuali, erotici e coniugali, per quanto intensi e profondi essi siano, gli individui rimangono distinti, e nei rapporti di filiazione gli individui che nascono e si sviluppano acquistano una sempre maggiore individualità, pur condividendo – se questa è l’ideologia – una stessa ‘sostanza’ genealogica. Ma nell’attività del mangiare e del bere si introduce una sostanza esterna che diviene parte del nostro corpo. L’idea del diventare ‘una sola carne’, che – come abbiamo visto – viene utilizzata dal Cristianesimo per illustrare la modalità più autentica del matrimonio, si realizza in modo assai più efficace nell’alimentazione, specialmente se di ordine spirituale. Questa possibilità è al cuore del Cristianesimo, come ben sanno coloro che l’hanno fondato e costruito e coloro che intendono mantenerlo. Nel sacramento dell’Eucaristia – leggiamo infatti nel Presbyterorum Ordinis (par. 5), decreto del 7 dicembre 1965, elaborato dal Concilio Vaticano II – «è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa», come del resto aveva già sostenuto san Tommaso 243
d’Aquino: Cristo è infatti il «pane vivo» che «dà vita a tutti gli uomini», e in questo modo l’Eucaristia si presenta come «fonte e culmine di tutta l’evangelizzazione». Se ora vogliamo andare alle origini di ciò che non possiamo chiamare altro che ‘teofagia’, troviamo i seguenti passi relativi all’ultima cena di Gesù con gli apostoli: Mentre mangiavano, Gesù prese del pane, pronunziò la preghiera di benedizione, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli e disse: «Prendete e mangiate: questo è il mio corpo». Quindi prese un calice, rese grazie e lo diede loro dicendo: «Bevetene tutti: questo infatti è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti in remissione dei peccati» (Matteo 26, 26-29).
In Marco (14, 22-25) troviamo – con variazioni minime e del tutto ininfluenti per il nostro discorso – lo stesso episodio, il quale si ripresenta pure in Luca (22, 17-20) con una semplice inversione (prima il vino, poi il pane) e con l’aggiunta di una notazione significativa: «Fate questo in memoria di me», la stessa espressione del resto che ricorre nella breve ricostruzione dell’ultima cena che è presente in Paolo (1 Corinzi 11, 23-26). Nella stessa lettera di Paolo compare tuttavia in maniera più esplicita il tema dell’unione con Dio (teokoinia), quale si raggiunge attraverso la teofagia: «il calice della benedizione che noi benediciamo, non è comunione (koinonía) con il sangue di Cristo? Il pane che spezziamo, non è comunione con il corpo di Cristo?» (10, 16). In Giovanni il tema della teofagia non è trattato nel contesto dell’ultima cena, ma anticipato nella predicazione avvenuta nella sinagoga di Cafarnao (6, 48-58), dove si assiste alla contrapposizione tra il «pane della vita», quello di Gesù, e la manna di cui si cibarono gli Ebrei nel deserto: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno. E il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (6, 51). Della manna si cibarono – egli dice – i vostri padri «e sono morti». Ma non è tanto su questo punto che il Vangelo di Giovanni registra dubbi, perplessità e anzi una vera e propria resistenza concettuale. Lo sconcerto nasce dall’idea del mangiare un cibo 244
che coincide con la stessa carne di Gesù: «Come può costui darci da mangiare la sua carne?»; persino i discepoli, dopo avere ascoltato il discorso che ora riporteremo, dissero: «Questo discorso è duro. Chi lo può ascoltare?» (6, 52-60, corsivo nostro). Proviamo infatti a leggere con attenzione queste parole: In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete la vita in voi. Chi si ciba della mia carne e beve il mio sangue, ha la vita eterna, e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. La mia carne infatti è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda. Chi si ciba della mia carne e beve il mio sangue rimane in me ed io in lui. Come mi ha mandato il Padre, che è il vivente e io vivo grazie al Padre, così anche colui che si ciba di me vivrà grazie a me. Questo è il pane disceso dal cielo; non come quello che mangiarono i padri e sono morti. Chi si ciba di questo pane, vivrà per sempre (Giovanni 6, 53-58, corsivi nostri).
Se è vero che il Cristianesimo è caratterizzato da un’intenzione di avvicinamento tra Dio e l’umanità e se è vero che questa religione ha cercato ogni mezzo per realizzare questo tentativo di unione, di koinonía, con il proprio Dio, è difficile non ammettere che la teofagia («mangiate il mio corpo e bevete il mio sangue») è la soluzione estrema, più efficace e definitiva. Solo mangiando la sostanza divina, facendola diventare carne della propria carne e sangue del proprio sangue, si riesce a pervenire a un’identificazione totale: «che tutti siano uno come tu, Padre, in me ed io in te, affinché siano anch’essi in noi» (Giovanni 17, 21). In questo modo si riesce a trattenere la divinità in ‘noi’, anche se si tratta di un’azione certamente scandalosa e quasi repellente (per discepoli e per Ebrei), un’azione che va contro tutti i possibili divieti alimentari, e tuttavia assai più efficace rispetto a quelle che si ispirano ai rapporti parentali, matrimoniali ed erotici. Del resto, questa azione del mangiare e del bere la sostanza divina acquista una concretezza rituale che i rapporti ora elencati di rado riescono a raggiungere. Se su questi rapporti aleggia pur sempre – anche presso i credenti – una qualche idea di metaforicità (confermata anche dal fatto che tendono spesso a ingarbugliarsi tra loro), l’incorporare la so245
stanza divina è un gesto che non si limita a evocare, non sposta nell’immaginazione, ma realizza nell’immediato e nel corpo fisico del credente l’intima unione con la propria divinità. Non solo, ma la ripetibilità del gesto è un modo per assicurarsi che l’unione uomo-Dio non è qualcosa di auspicato o un evento il cui ricordo rischia di allontanarsi nel tempo, bensì una realtà di continuo confermata, ribadita, istituzionalizzata. Con il sacramento dell’Eucaristia – gesto estremo e scandaloso (come ammesso dallo stesso Giovanni) – è come se il Cristianesimo volesse porre la parola fine ai dubbi che anche tra i credenti potrebbero serpeggiare, circa il carattere aleatorio e metaforico delle proprie costruzioni. Con la teofagia, con l’incorporare la divinità in ‘noi’ – e non una sola volta, come evento eccezionale, ma di continuo, tutti i giorni – non è più questione di metafora, perché quel mangiare e quel bere sono gesti fisicamente reali che portano dentro al corpo sostanze reali, fisiche e divine nello stesso tempo. Su questo, il Concilio di Trento è stato chiarissimo, e il Concilio Vaticano II a proposito dell’Eucaristia non ha fatto altro che ribadirne i principi dottrinali, che forse possiamo riassumere in tre punti. In primo luogo, il rifiuto esplicito e la condanna senza compromessi di ogni interpretazione dell’Eucaristia in termini metaforici, come si legge nel decreto sul sacramento dell’Eucaristia dell’11 ottobre 1551: questo santo sinodo insegna e professa apertamente e semplicemente che nel divino sacramento della santa eucaristia, dopo la consacrazione del pane e del vino, il nostro Signore Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, è contenuto veramente, realmente e sostanzialmente (vere, realiter ac substantialiter), sotto l’apparenza di quelle cose sensibili [...]. Il nostro Redentore ha istituito questo mirabile sacramento dell’ultima cena, quando, dopo la benedizione del pane e del vino, ha affermato con parole esplicite e chiare di dare loro il proprio corpo e il proprio sangue. Queste parole, riportate dai santi evangelisti, e ripetute poi da san Paolo, hanno per sé quel significato proprio e chiarissimo secondo cui sono state comprese dai padri [della Chiesa]; perciò è un atto particolarmente indegno che vengano travisate da alcuni uomini litigiosi e corrotti e interpretate come immagini fittizie e immaginarie (fictitios et imaginarios tropos), con le quali si nega la verità della car246
ne e del sangue di Cristo. Tutto questo contrasta con il comune sentire della Chiesa, la quale, come «colonna e sostegno della verità», ha maledetto come sataniche queste invenzioni escogitate da uomini empi, riconoscendo con animo sempre grato e memore questo preziosissimo dono di Cristo (in Denzinger 2003: nn. 1636-37).
In secondo luogo, il Concilio di Trento stabilisce il principio della transustanziazione, mediante il quale «con la consacrazione del pane e del vino si opera la conversione di tutta la sostanza del pane nella sostanza del corpo del Cristo [...] e di tutta la sostanza del vino nella sostanza del suo sangue» (in Denzinger 2003: n. 1642). In terzo luogo, si riconosce e si ribadisce che la teofagia è un «preziosissimo dono di Cristo», un’offerta della divinità: è il figlio di Dio che offre se stesso agli uomini, che letteralmente si fa mangiare; non sono gli uomini che prendono l’iniziativa. Anche in questo caso, vediamo che tutto dipende da Dio, persino il suo auto-sacrificio a favore degli uomini. E con ciò sembrerebbe che non debbano più esserci dubbi sulla realtà, sulla stabilità e persino sull’eternità di questo ‘noi’, che è divino e umano insieme, nato non da accordi tra uomini, non da un percorso di ricerca degli uomini, ma da una ‘teofania’ che si traduce immediatamente in una ‘teokoinia’. La teofagia ha lo scopo di stabilizzare questa unione; ma poiché si tratta di una teofagia voluta dalla stessa divinità, non una soluzione ricercata o richiesta dagli esseri umani, è come se tale unione venisse protetta dal senso di arbitrarietà e quasi di velleità che accompagna ogni impresa umana. Con la sua decisione di farsi mangiare dagli uomini, la divinità trascina il ‘noi’ ecclesiale e spirituale che ne deriva – questa nuova e inedita forma di umanità, dove divino e umano si compenetrano – completamente al di là delle condizioni naturali e delle convenzioni sociali.
4. Contro natura no o contro natura sì? Che dire allora di questa teofagia che, pur essendo imposta da Dio («prendete e mangiate, perché solo così vi salverete»), è an247
che però un’antropofagia, visto che Gesù è sia figlio di Dio sia figlio dell’uomo? Nel cuore del Cristianesimo si trova un atto teofagico e antropofagico insieme, che meriterebbe di essere affrontato in un’indagine approfondita anche di ordine comparativo. In attesa, che dovremmo fare: applicare in questo caso la categoria del ‘contro natura’? Come si ricorderà, abbiamo proposto un altro approccio, e non vorremmo smentirci proprio ora che siamo di fronte a uno degli aspetti più inquietanti e ‘scandalosi’ del Cristianesimo. Gli antropologi di solito sono abituati a non inorridire troppo di fronte alle soluzioni più inattese; ma dovrebbero anche capire perché si inorridisce. La soluzione non consiste nell’applicare il pregiudizio del ‘contro natura’, ma nel cercare pazientemente i significati di comportamenti che, mentre sono fondanti per gli uni, potrebbero essere sconvolgenti per altri. La teofagia è fondamentale, fondante e imprescindibile per il Cristianesimo (c’è anche da dire che, praticata tutti i giorni, essa perde quel significato di urto che invece aveva così colpito Ebrei e discepoli nella sinagoga di Cafarnao). Ma per altri essa richiama troppo da vicino l’antropofagia e il cannibalismo perché possa essere accettata tanto facilmente. Disponiamo di una testimonianza che proviene dai Baka del Camerun. Vale la pena di registrarla, anche se si tratta soltanto di una comunicazione personale, non ancora di una pubblicazione: L’eucaristia fa problema per i Baka. Tra i Baka ogni individuo è figlio e debitore di un lignaggio (il lignaggio paterno: yèe), il quale è a sua volta l’umanizzazione di una delle figure animali con cui Komba, la divinità, ha popolato la foresta. Ogni lignaggio dispone quindi di un suo doppio animale, nei confronti del quale vige un rigoroso divieto alimentare. In quest’ottica ho sentito molto spesso mettere in relazione i divieti alimentari baka con l’eucaristia cristiana, percepita come un modo molto violento e profondamente scorretto e pericoloso di rapportarsi a Komba (la divinità). L’idea di mangiare il corpo di Komba (corpo di Cristo) mette a disagio ed è tout court accostata alle pratiche di cannibalismo o èngònjò. La pratica dell’eucaristia, equivalente all’idea di mangiare il corpo di Komba, è vissuta come infrazione del maggiore tabù possibile (Daniela Pes, 24 ottobre 2007). 248
Abbiamo riportato la reazione dei Baka perché si rifletta sul fatto che non è detto che a tutti piaccia l’idea di mangiare la carne e bere il sangue della propria divinità, neanche se è la stessa divinità a offrirli. Che cosa è, allora, questa teofagia cristiana: un atto contro natura, un obbrobrio, un ‘abominio’ o, invece, un atto di cultura? Riteniamo che quest’ultima sia la soluzione più adeguata, la strada più giusta da percorrere, ponendoci nell’ottica della ricerca del significato, invece che in quella della condanna del comportamento. Utilizzando il nostro armamentario, ci è sembrato di poter affermare che per la cultura cristiana la teofagia è il modo estremo, più efficace e definitivo di stabilizzare un ‘noi’ che, proprio perché incorpora quotidianamente la sua divinità, può aspirare non solo a una durata perenne, ma addirittura all’eternità. Mangiando la propria divinità, questo ‘noi’ può avvantaggiarsi della vittoria del figlio di Dio sull’«ultimo nemico» che dovrà essere annientato, cioè «la morte» (Paolo, 1 Corinzi 15, 26): un evidente andare oltre le condizioni di naturalità, che è anche un andare oltre divieti alimentari, cioè costumi e regole sociali. È Dio che ‘ci’ porta tanto al di là di natura e cultura. In quanto offerta e anzi imposta da Dio, la teofagia si presenta inoltre come una soluzione divina, non un’invenzione umana: in essa – come si esprimeva Pio XII nell’enciclica Mediator Dei del 20 novembre 1947 – «il sacrificio è realmente consumato» e proprio per questo non può essere ridotto a un’«indole sociale» (in Denzinger 2003: n. 3853). A proposito del cannibalismo, Marshall D. Sahlins ebbe a dire: «il cannibalismo è sempre simbolico, anche quando è reale» (1983: 88). Nel caso della teofagia cristiana, potremmo invertire in qualche modo i termini e sostenere che essa vuole essere ‘reale’, anche quando sappiamo che è profondamente simbolica. Alla base – come ha chiarito bene il Concilio di Trento – c’è l’idea della transustanziazione, cioè una trasformazione di sostanza (dal pane alla carne, dal vino al sangue di Gesù); e questa transizione avviene immediatamente allorché si provvede alla ‘consacrazione’ del pane e del vino. Tutto è affidato alle mani di Dio; ma la consacrazione non è forse un altro bell’esempio di come le parole – le pa249
role pronunciate da noi uomini – ‘fanno’ le cose, anche se si tratta, anzi soprattutto se si tratta, di cose divine (Austin 1987)? Come è ormai evidente, l’antropologia non può fare propria la categoria delle cose ‘contro natura’, se non come categoria che determinate culture usano per giudicare altre culture o per bollare certi comportamenti. In questo modo, ‘contro natura’ diviene un oggetto di studio e apre la strada per indagare i motivi culturali per cui la categoria viene elaborata e impiegata non come descrizione, ma come giudizio o pregiudizio. Ovvero, di fronte alla teofagia cristiana l’antropologia non adotta l’atteggiamento dei Baka (e, a quanto ci risulta, di molte altre società), ma cerca di capire quali siano le ragioni che spingono i Baka a rifiutare l’Eucaristia cristiana, così come dovrebbe indagare le ragioni culturali che hanno motivato i Cristiani a praticare la teofagia, differenziandosi così nettamente dalla cultura ebraica, la cultura di partenza. Proprio perché non si impiega la categoria del ‘contro natura’ come categoria valutativa, ci si apre la strada all’analisi culturale, ossia l’analisi dei significati, dei presupposti e delle scelte che sono alla base di credenze e di pratiche che, a tutta prima, ci possono sembrare tanto strane da essere catalogate come ‘contro natura’. A pensarci bene, l’antropologia culturale può venire in soccorso persino dell’Eucaristia cristiana trattandola espressamente come teofagia, sottraendola in tal modo ai giudizi negativi e alle reazioni di ripulsa che possono provenire dai Baka, come da tante altre società, assai sensibili alla questione dei divieti alimentari. In fondo, c’è già stato qualcuno in antropologia che ha provveduto a predisporre un ambito di studio in termini comparativi. Il capitolo 50 dell’edizione abbreviata di The Golden Bough di James George Frazer era significativamente intitolato Del mangiare gli dèi (Frazer 1965: 753-70). Come era suo solito, Frazer accumula esempi su esempi, ma egli ha per lo meno il merito di aver cominciato a preparare il terreno di indagine, non lasciando il Cristianesimo come un unicum, antropologicamente separato, ma studiando temi – come per esempio la transustanziazione – che consentono di passare da un caso all’altro, senza mortificare la loro specificità. In fondo, il problema è que250
sto: in che misura il Cristianesimo – a prescindere dalle proprie opzioni di fede – acconsente a lasciarsi indagare in una prospettiva antropologica, a non trasformare la propria ‘diversità’ (la propria peculiarità – come si vede, noi non facciamo uso di ‘identità’) in un unicum insondabile? Il nostro discorso, che da ultimo ha toccato certi aspetti del Cristianesimo per far vedere quanto possa essere ribaltata la categoria del ‘contro natura’, vuole terminare non semplicemente con un rifiuto di questa categoria, ma con una proposta di ordine euristico, quasi di conciliazione. Occorre infatti uscire da una certa ambiguità, di cui potremmo essere accusati, se non si sciogliesse alla fine un nodo. Per essere definitivamente chiari, potremmo dire che ‘contro natura’ è una categoria scientificamente improponibile, fino a che essa venga collegata a un concetto di natura umana come struttura stabile e autonoma. Abbiamo già argomentato in questo libro circa l’impraticabilità di questa concezione; ma abbiamo anche visto come ci siano diversi autori che, pure di questi tempi, hanno la pretesa di sapere come sia fatta la natura umana: una sorta di rivelazione scientifica o teologica, di cui essi possono fruire. Si comprende come, ritenendosi in possesso di questo sapere, ci si possa spingere a bollare come ‘contro natura’ tutto ciò che non rientra nei suoi schemi (Montaigne: «Dio sa quanto irragionevolmente, perlopiù»). C’è però un’altra possibilità. Se invece che di natura umana, parlassimo più semplicemente e concretamente di ‘condizioni naturali’, ovvero di quell’insieme di fattori che indubbiamente contraddistinguono gli esseri umani sotto il profilo biologico ed ecologico, si può forse ripristinare la categoria degli eventi, delle tendenze, delle scelte culturali, che vanno in qualche modo ‘contro natura’. La nostra idea è che, a partire dalle condizioni naturali, gli esseri umani costruiscono in modo più o meno elaborato le proprie culture, e abbiamo visto come ci si possa spingere molto in là in queste elaborazioni culturali, ovvero come ci si possa allontanare molto dalle condizioni naturali di partenza. In questo spazio – quello che si apre al di là delle condizioni naturali – risultano operanti le ragioni culturali, mediante cui si cerca di spiegare i fenomeni più eterogenei, più strani e in ap251
parenza incomprensibili, e che comunque costituiscono la varietà e la ricchezza delle culture umane. Per il motivo appena ora accennato, l’antropologia ritiene che sia poco praticabile un tentativo di spiegare la cultura con le basi di partenza, ovvero di ricondurre o di ridurre la cultura alle condizioni naturali. Anche perché – e qui veniamo alla questione che ci riguarda – la cultura può non solo allontanarsi di tanto o di poco dalle condizioni naturali, ma anche agire ‘contro’ queste stesse condizioni. Montaigne lo aveva già chiarito assai bene, quando affermava che noi vediamo il costume «forzare ad ogni istante le regole di natura» (1982: 140). Un campo di studio notevolmente importante in antropologia è proprio quello che si potrebbe definire – a questo punto con intento descrittivo e analitico, non con intento valutativo e moralistico – mediante la categoria delle tendenze e delle azioni ‘contro-naturali’, cioè di quelle pratiche che per esempio ostacolano lo sviluppo di organi, che impediscono l’espletamento di funzioni e di attività, che incidono, modificano o addirittura sopprimono parti anatomiche o organi interi. A un esame appena un po’ sistematico, si vede assai bene che queste pratiche ‘contro-naturali’ non sono affatto eccezionali, ma sono invece piuttosto la norma nelle diverse configurazioni culturali. Chi scrive ha provato a occuparsi di ‘interventi sul corpo’ e ha visto che sia per motivi estetici, sia per motivi etici, sono moltissimi gli interventi che si rivelano antifunzionali rispetto ai bisogni, alle attività e alle funzioni del nostro organismo (Remotti 2005a). In fondo, in quanto ‘costruzione’ ogni cultura si configura come un allontamento più o meno spinto dalle condizioni naturali (siano esse le condizioni dell’organismo umano, siano esse le condizioni degli ambienti naturali); e in questo allontanamento possiamo anche intravedere, con modalità e gradi diversi, elementi di contro-naturalità. Per dirla tutta, ogni cultura non può non essere, in qualche modo e misura, ‘contro-natura’. Sotto questo profilo, il Cristianesimo è una cultura particolarmente ricca di aspetti ‘contro-naturali’ (dalle pratiche di mortificazione del corpo al celibato dei preti e delle suore), e qui – per concludere – varrà forse la pena ricordare come una ten252
denza ‘contro-naturale’ particolarmente spinta nacque proprio dalla teoria dei tre tipi di eunuchi esposta da Gesù (Matteo 19, 12). Origene, tra il II e il III secolo d.C., si evirò, e così fecero gli Skopzi (‘eunuchi’), una setta di flagellanti cristiani che praticavano l’automutilazione sia per gli uomini sia per le donne nella Russia tra il XVIII e l’inizio del XX secolo (Remotti 2005a: 360-61). Di fronte alla frase sibillina di Gesù – «chi comprende, comprenda» – Origene e Skopzi interpretarono ‘alla lettera’, non come una metafora, l’insegnamento del maestro. Ma non c’è da meravigliarsi troppo che questo sia avvenuto. Se le culture del mondo sono piene di tendenze ‘contro-naturali’, perché mai il Cristianesimo dovrebbe fare eccezione? Sempre che abbia voglia di stare in mezzo agli altri, alle altre culture: cultura tra culture, religione tra religioni, secondo un atteggiamento umile e umano che gli antropologi hanno tanto spesso riscontrato nello studio delle culture e delle religioni altrui. Oppure si ritiene che la koinonía con la propria divinità, di continuo ribadita nel rito teofagico dell’Eucaristia, sia tale da sottrarre radicalmente e per sempre il nocciolo del Cristianesimo al dominio dei costumi e delle tradizioni non solo dell’Ebraismo, ma di qualsivoglia cultura umana? Se così fosse, il ‘noi’ dei Cristiani (e più in particolare dei Cattolici) si collocherebbe in una posizione del tutto a parte, separata, una posizione in cui rivelazione divina e natura umana misteriosamente si uniscono e da cui ci si sente legittimati a giudicare gli ‘altri’ con la categoria ‘abominevole’ del ‘contro-natura’... Ancora una volta: «Dio sa quanto irragionevolmente, perlopiù»!
Lettera al Papa (parte seconda)
Santità, ora che il mio discorso, iniziato alcuni mesi fa, è giunto alla fine e il mio viaggio (se così vogliamo chiamarlo) è ormai terminato, mi sento in grado, anzi in dovere, di sintetizzare alcune riflessioni conclusive, per quanto provvisorie esse siano. La prima riflessione riguarda il tono del mio scritto. Le confesso, Santità, che se all’inizio di questa avventura avevo pensato a uno scritto polemico – irritato com’ero dalle espressioni di dileggio e di rifiuto usate dalla Chiesa (tra tutte, la più terribile, l’espressione ‘contro natura’) –, presto mi sono reso conto che il livello del discorso voleva essere altro. Sempre meno mi interessava scrivere un pamphlet distruttivo; sempre più mi interessava ‘capire’ perché, e in base a quali motivazioni culturali, la Chiesa attuale assume queste posizioni. Non so se sarei stato in grado di incrinare – non dico di distruggere – qualche posizione dell’avversario, come si conviene in effetti a un pamphlet polemico; non so nemmeno se sono riuscito nell’altra impresa, quella cioè della ‘comprensione’. È questa però la strada che ho cercato di intraprendere; e il prodotto del lavoro è qua, finito da pochi giorni e, con tutte le sue imperfezioni (alcune già note all’autore, altre invece – e sono senza dubbio la maggioranza – a lui ancora ignote), pronto a sottoporsi tra qualche mese alla valutazione dei lettori, a essere utilizzato da chi vi potrà intravedere qualche spunto interessante o buttato nella spazzatura da chi invece non vi scorgerà che disquisizioni senza senso. La seconda riflessione nasce anch’essa da una constatazione. Mentre all’inizio avevo pensato che, prima o poi, in qualche parte del mio percorso, sarei intervenuto sulla faccenda del relati254
vismo – visto che questo, Santità, è ‘il’ Suo obiettivo polemico –, mi sono accorto che nel mio viaggio, a parte qualche accenno fuggevole, sono andato oltre. Finito lo scritto, avrei potuto tornare indietro e inserire un paragrafo appositamente dedicato all’argomento, oppure riservare parte di questa lettera alla discussione. Non per pigrizia né per pavidità ho preferito tralasciare la prima di queste soluzioni e sfruttare solo in parte la seconda. Mi limiterò infatti a brevi considerazioni. Come ritengo di avere detto diverse volte ai miei studenti – e come in ogni caso ho scritto altrove (Remotti 1997a) –, il relativismo culturale è per così dire la mossa iniziale dell’antropologia, ma niente più che la mossa iniziale. C’è ben altro da fare in antropologia che fermarsi di fronte alla molteplicità e alla variabilità delle culture e asserire l’incidenza della diversità culturale nella condizione umana: occorre andare ‘oltre il relativismo’ (Remotti 1997a: 329-31). Cos’altro allora c’è da fare? Risponderei con una parola: tessere, nel senso di collegare, cucire, connettere. È quello che ho cercato di fare in questo scritto. Individuati alcuni ‘temi’ (altra parola importante in questo modo di intendere l’antropologia), si tratta di vedere come si presentino variati, simili e diversi nello stesso tempo, in questo o quel contesto. C’è chi non può sopportare la diversità culturale e allora la riduce a ben poca cosa (in questo libro abbiamo accennato ad alcuni esempi); e c’è chi se ne lascia catturare. La proposta contenuta in questo libro è di cercare di ‘attraversare’ la diversità culturale, sia pure per brevi tratti e segmenti parziali, non in maniera definitiva e completa: sempre meglio però delle soluzioni che sopprimono la diversità da un lato e di quelle che, dall’altro lato, non offrono strumenti per tentare qualche cucitura, qualche attraversamento, qualche traduzione. Se affermo che occorre andare oltre il relativismo, l’antropologia che ho cercato di illustrare in questo mio lavoro non rinnega affatto il relativismo, da cui prende le mosse e che considera comunque un momento irrinunciabile del suo percorso. È un’antropologia che giustamente – a mio parere – si irrita, quando al relativismo vengono addebitati i mali del mondo contemporaneo, quando si afferma che «il relativismo, che oggi, quale 255
sentimento base della persona ‘illuminata’, si spinge ampiamente fin dentro la teologia, è il problema più grande della nostra epoca» (Ratzinger 2003: 75). Posso capire che al cardinale Ratzinger preoccupi molto un relativismo che si spinge fin dentro la teologia cristiana, ma di qui a dire che esso è il problema più grande del nostro tempo il passo è ampio. Eppure, anziché irritarmi e polemizzare, mi dispongo a capire; e in effetti, c’è di che capire, c’è materia che richiede di essere ‘compresa’. Questa materia da capire è il desiderio della stabilità, di una grande e definitiva stabilità. Essa è la paura dell’instabilità, degli scricchiolii dei propri troni, dei piedistalli delle proprie idee, delle proprie convinzioni e del proprio potere. È il ricorso forsennato – direi quasi disperato – ai grandi fattori di stabilizzazione: Dio, ragione, natura, storia (come abbiamo visto nella Parte prima di questo scritto, ognuno sceglie e mischia come vuole questi fattori, pur di ottenere stabilità). È l’affermazione che ‘noi’ siamo sulla strada giusta e che tutti gli altri non hanno da fare altro che accodarsi a ‘noi’. Tutti gli antirelativisti di questi nostri anni – non importa (il che è significativo) se credenti, laici o persino atei – condividono l’idea che a ‘noi’, attraverso la religione o attraverso la scienza, è stata rivelata la verità. Ponendo in luce una molteplicità di vie, di soluzioni, di forme di umanità, il relativismo – anche un relativismo appena accennato, timido, senza troppe pretese – diviene lo spauracchio che si aggira nella cultura europea, che incrina la fiducia in ‘noi’ stessi, che induce l’Europa (‘noi, moderni, occidentali, scientifici e cristiani’) ad abdicare al proprio compito storico. Santità, ha mai pensato – sotto questo aspetto – alla curiosa convergenza tra la Sua polemica antirelativistica e quella del laico Marcello Pera? Anche il maestro di Pera, Karl R. Popper, non aveva esitazione ad appaiare relativismo e irrazionalismo, come pericolose «deviazioni intellettuali» (Popper 1972: 636). Qui ormai non si fa più distinzione tra chi crede e chi non crede, tra chi ha una fede religiosa e chi si professa ateo (o quanto meno agnostico, o quanto meno laico): l’importante è stare tutti dalla stessa parte, cioè la difesa arcigna, senza tentennamenti, senza ‘se’ e senza ‘ma’ (come abbiamo imparato a 256
dire), di un ‘noi’ che si differenzia da tutti gli altri e che ritiene di avere un compito storico ‘universale’ da svolgere nel mondo. Santità, per Lei questo compito si configura come un «servizio agli altri», come un «servizio dell’intera umanità» che l’Occidente, o l’Europa, deve svolgere (Ratzinger 2004: 72). Si tratta di un servizio sotto il profilo religioso, in primo luogo, dato che «le culture del mondo» avvertono di non poter stare «senza Dio»; e dunque ‘noi’ (a cui il vero Dio si è rivelato, con cui Egli ha deciso di ‘stare’ persino sotto forma di un perenne sacrificio ‘teofagico’ [par. 13.3]) abbiamo il ‘dovere’ di diffondere un messaggio che gli «altri [...] hanno diritto di avere». Ma è un servizio che ingloba tutti gli altri, ragione e scienza comprese. ‘Noi, europei, occidentali e cristiani’ abbiamo da offrire agli ‘altri’ un piatto completo, anzi ‘completo e definitivo’, un modello di umanità ‘perfetto’. Queste tesi si leggono molto bene nella dichiarazione Dominus Iesus, «circa l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa», che Lei, insieme all’allora arcivescovo emerito di Vercelli, Saverio Bertone, aveva redatto per la Congregazione della dottrina della fede (6 agosto 2000). Mi si potrà obiettare che sarebbe un grave errore far coincidere i contenuti di questo messaggio salvifico della Chiesa con l’Europa attuale, con i suoi stili di vita improntati a laicismo, a consumismo, a relativismo, per l’appunto. Ma la Sua battaglia contro il relativismo e persino le Sue dure critiche alle derive del capitalismo avrebbero lo scopo di richiamare l’Europa a un destino e a un compito storico di salvezza per l’intera umanità. Facendosi di nuovo portatrice del Cristianesimo, l’Europa si porrebbe ancora una volta al servizio dell’umanità intera, offrendo non semplicemente qualche idea, ma un intero modello di umanità, e – per giunta – non un modello di umanità fabbricato qui da ‘noi’ (poveri esseri umani), bensì un modello ‘perfetto’ di umanità, consegnato da Dio alla Chiesa Cattolica e Apostolica, l’unica vera Chiesa, l’unica sposa di Cristo (Dominus Iesus IV, 16). E che si tratti non di un modello di umanità astratto, per così dire spiritualizzato, adattabile quindi a una pluralità di circostanze, appare chiaro dalle prese di posizione che Lei, Santità, ha assunto a proposito della famiglia e del ma257
trimonio. La famiglia monogamica, intesa come «cellula nella formazione della comunità statale», avrebbe conferito all’Europa «il suo volto particolare e la sua particolare umanità» (Ratzinger 2004: 69). Ma il valore della famiglia monogamica non si esaurisce di certo in questa funzionalità storica. L’Europa ha accolto entro di sé questa forma di famiglia in quanto rappresentativa e costitutiva dell’umanità intera. Se con l’accettazione del divorzio e delle unioni omosessuali l’Europa pone in crisi questa famiglia, essa «esce dal complesso della storia morale dell’umanità» e procede a «una dissoluzione dell’immagine dell’uomo, le cui conseguenze possono solo essere estremamente gravi» (Ratzinger 2004: 69-70). Santità, in questo scritto – nonostante la gragnola di colpi e di fendenti che dalla Sua Chiesa si abbattono su chi appena osa concepire qualche possibilità alternativa alla famiglia monogamica ed eterosessuale (‘contro natura’ o ‘fuori della storia morale dell’umanità’ sono le terribili accuse che provengono dal Suo Magistero) – abbiamo visto come appunto nell’umanità sia riscontrabile una miriade di soluzioni alternative. Sinceramente, se l’aspettava questa molteplicità di forme e di modelli? Questa diversità culturale, che gli antirelativisti (di non importa quale risma) non sopportano, che vorrebbero ridurre e almeno mentalmente abolire, che politicamente e storicamente è stata in effetti immiserita (Stati nazionali, partiti comunisti, Chiese cristiane: guarda caso, di nuovo tutti insieme), quale significato può mai assumere sotto il profilo antropologico, per esempio di un’antropologia cristiana? Ce la sentiamo di dire che tutto ciò è ‘contro natura’ o – peggio – che tutto ciò è opera del demonio? (Ho constatato che abbastanza spesso – ancora oggi – si fa ricorso al demonio per spiegare i costumi degli ‘altri’: per esempio, poligamia, stregoneria, tatuaggi e via di questo passo). Ce la sentiamo di trattare tutto ciò come ‘spazzatura’ della storia dell’umanità? Mi ero ripromesso di non irritarmi. Voglio infatti dimostrare che sono gli antirelativisti – i possessori delle verità indiscutibili – a scagliare ‘anatemi’, senza chiedersi troppo quali conseguenze abbiano espressioni che mettono al bando gli ‘altri’ (vi258
cini di casa, di quartiere o di continente), che li collocano («Dio sa quanto irragionevolmente, perlopiù») fuori o addirittura contro la natura, la storia, la ragione, l’umanità. Ho detto prima che l’antropologia non può accontentarsi del relativismo: ha da fare altro, ha da proseguire oltre. Ma un accenno di relativismo iniziale, preliminare, è – oserei dire, rubando l’espressione a Clifford Geertz (1988: 22) – «il minimo della decenza», persino quando illustri colleghi di filosofia intendono di questi tempi dimostrare le aporie del relativismo e che è una faccenda «difficile da formulare in maniera coerente e convincente» (Marconi 2007: 84). Ritengo avesse ragione Geertz nella sua polemica contro gli antirelativisti, quando affermava che il relativismo fa parte dell’ordine normale delle cose (c’è poco da dover dimostrare) e che la paura che gli antirelativisti ne hanno è del tutto infondata (Geertz 2001: 57). Curiosa la tesi di Diego Marconi, il quale sembra rovesciare la posizione di Geertz. Se da un lato egli bacchetta sulle dita della mano ogni tipo di relativista, sempre un po’ petulante e fuori luogo, dall’altro considera l’«assolutista» come una figura comune e di cui non è il caso di preoccuparsi. L’assolutista infatti, il quale crede che certi valori siano universalmente vincolanti e certi fini debbano essere universalmente condivisi, è una figura più comune di quel che si pensa di solito (non frequenta soltanto le sacrestie o le scuole coraniche), ed è, in ultima analisi, un interlocutore come un altro.
Insomma, è difficile – forse impossibile, per Diego Marconi – essere relativisti, mentre, a quanto pare, saremmo tutti degli assolutisti, non importa quanto pacifici o bellicosi. Può darsi. Quello che però qui abbiamo cercato di fare è stato perlustrare la molteplicità assai elevata e in sostanza irriducibile delle forme di famiglia (capp. 6-10), a proposito di un relativismo facente parte delle cose di cui si occupano gli antropologi; e, prima ancora, ci siamo imbattuti nel senso di ‘relatività’ che altri – altre società in altri angoli del mondo – hanno sviluppato a proposito delle loro forme di umanità (cap. 3). Andare ‘oltre’ il nostro 259
relativismo ha anche questo significato (importantissimo e decisivo per il discorso che qui intendiamo svolgere): riconoscere che non è soltanto una faccenda di noi antropologi (o di noi intellettuali di un’Europa sfinita, di un Occidente corrotto); è una consapevolezza a cui molte altre società normalmente arrivano (Remotti 1997a). Aggiungerei: a cui di solito arriva qualunque altra società, se non coltiva di sé un’idea esagerata o ‘folle’ di completezza, di definitività, di assolutezza. Vedere assolutisti dappertutto è, molto probabilmente, una proiezione di ‘noi’ su ‘loro’, anzi su tutti quanti: una forma di cecità. Sarà anche per loro difficile (come ci avverte Marconi) sostenere in modo coerente il loro relativismo. Noi qui però qualche esempio l’abbiamo offerto, allorché abbiamo visto come diverse società si appigliano anche loro alla natura per ‘stabilizzare’ in una certa misura i loro assetti sociali e le loro forme di umanità. Ma proprio questa operazione di naturalizzazione e di stabilizzazione ‘relativa’ ci fa vedere come essa generi la consapevolezza del carattere ‘parziale’ della propria umanità e come in una stessa società si imponga il riconoscimento della compresenza e della convivenza di tanti modi diversi di intendere e realizzare l’umanità (cap. 3). ‘Contro natura’ tutto questo? Spazzatura tutto ciò? Direi proprio di no. Oserei anzi parlare di saggezza – di una ‘saggezza perduta’, perché spesso da ‘noi’ (proprio ‘noi, europei, occidentali, cristiani e scientifici’) calpestata senza neanche accorgercene (cap. 11). Era però una saggezza che si nutriva non soltanto di relativismo, ma di quel tessere e intrecciare che consentiva di andare oltre il riconoscimento e la percezione della diversità, attraverso l’istituzione di legami, di alleanze, di accordi, persino attraverso l’istituzione dei conflitti e la regolazione dell’aggressività. Serve ancora a qualcosa questa saggezza? Può ancora avere un significato in un mondo in cui sembra che non ci sia altro che assolutismi – persino a livello di vita quotidiana – e in cui il relativismo si configura come un discorso difficile da sostenere, da proporre, da praticare? Santità, ho udito molte volte nei Suoi discorsi la forte, vivissima preoccupazione per le sorti di questo nostro mondo e per 260
l’umanità che lo abita. Da Lei non ho appreso soltanto la condanna di diverse forme di famiglia; ho anche colto – come per esempio nel discorso di domenica 23 settembre 2007 – la condanna della «logica del profitto» che, se si lascia prevalere, «incrementa la sproporzione tra ricchi e poveri» e dà luogo a «un rovinoso sfruttamento del pianeta». Da Lei sono giunte parole chiare sull’idea che il capitalismo, per quanto sia «un modello valido», non è però «l’unico possibile». Non pretendo con questo mio libro di riuscire a dimostrare ai Suoi occhi che, anche a proposito della famiglia, potremmo fare un discorso analogo: sono ormai così depositate e profondamente radicate le motivazioni culturali che innervano il discorso cristiano e cattolico sulla famiglia, e io qui ho fatto solo un tentativo – forse temerario – di venirne in chiaro (cap. 13). Ma prima di congedarmi da Lei, vorrei chiudere questo mio discorso con un’ultima osservazione e con un omaggio. L’osservazione riguarda il tipo di sapere che qui ho voluto difendere. Non è la prima volta che presento questo sapere come caratterizzato da un atteggiamento di umiltà. Lo dico spesso ai miei studenti, specialmente a quelli che si recano sul campo: guai a chi si reca presso ‘altri’ pretendendo di sapere come stanno antropologicamente le cose. Né del resto sono l’unico a esprimere questo punto di vista (Aime 2006: 89-98; Herzfeld 2006: XIII-XVI). Se gli antropologi amano andare ‘altrove’ non è per mero esotismo, ma per ‘apprendere’, per capire come altrove altre persone hanno deciso di vivere: la loro umiltà consiste quasi nel diventare ‘bambini’ presso di loro, lasciandosi ‘impregnare’ dalla loro cultura (Piasere 2002). Per quanto mi riguarda, vorrei anche aggiungere che l’umiltà, quale atteggiamento tipicamente antropologico, si abbina bene alla ricerca di ‘saggezza’, di cui abbiamo parlato prima, e pur anche di una saggezza che non intendiamo condividere. Beninteso, anche altrove riscontriamo stupidaggini, tanto quanto crudeltà. Ma sarebbe riduttivo e folle pensare che la saggezza abiti solo qui da ‘noi’. Andare alla ricerca di forme di saggezza, anche di quella saggezza che abbiamo calpestato e distrutto, ritengo sia uno dei compiti irrinunciabili di quel sapere che abbiamo chiamato antropologia 261
culturale. E ora, da questo sapere e da quella saggezza, l’omaggio promesso, che vorrebbe anche essere la mia forma di congedo e di saluto. Santità, è uno sciamano inuit che parla, e le sue parole, raccolte da Knud Rasmussen nella Groenlandia orientale nei primi anni del Novecento (quasi un secolo fa), non hanno certo bisogno di alcun commento, per il profondo senso di umanità che trasmettono: Io non so nulla, ma di continuo la vita mi pone a confronto con forze che sono più potenti di me! Come sia difficile vivere, noi lo sappiamo dai nostri antenati, ed è sempre l’inesorabile che diventa il destino dell’uomo e della donna. Per questo noi crediamo nel male. Il bene non abbiamo da prenderlo in considerazione perché è di per sé bene e non c’è bisogno di farne oggetto di venerazione. Il male, invece, che sta in agguato nel grande buio, minacciandoci attraverso le tempeste e il cattivo tempo e che si avvicina di soppiatto su di noi nella nebbia spessa, deve essere tenuto lontano dal sentiero su cui camminiamo. Gli esseri umani hanno così scarsi mezzi e noi non sappiamo neppure se quello che crediamo sia vero. L’unica cosa che noi sappiamo per certo è che ciò che ha da succedere succederà (Jakobsen 1999: 45, corsivo nostro). Torino, 4 novembre 2007
F.R.
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Indici
Indice dei nomi
Abramo, 57-58, 61, 115, 119, 122, 173, 228. Agostino Aurelio, santo, 75-77, 23234, 236, 242. Aime, Marco, 20, 261. Alexandresco, Stéphane, 178. Allovio, Stefano, 206, 208. Ambrogio, santo, 231. Arioti, Maria, 99, 114, 125, 128. Aronne, 238. Artemidoro, 175. Augias, Corrado, 81. Austin, John L., 217, 250.
Burton, Michael L., 112. Bush, George W., 97. Cai, Hua, 146-51, 165-66. Cairncross, John, 121-22, 125. Calvino, Giovanni, 123. Campanella, Tommaso, 125. Cantarella, Eva, 174-75. Celli, Giorgio, 176-77. Cerizza, Angelo, 73. Changeux, Jean-Pierre, 205. Clignet, Remi, 119. Colafemmina, Cesare, 116-18. Collier, Jane, 96, 101. Colombo, Arrigo, 125. Cristo, v. Gesù Cristo. Cuturi, Flavia, 148, 152-53.
Bacon, Francis, 40, 42, 64. Bagemihl, Bruce, 177-81, 194-95. Ballabio, Luciano, 125. Bataille, Georges, 179. Beckman Lancaster, Jane, 114. Benedetto XVI (Joseph Ratzinger), papa, 11-14, 17, 20, 59, 74, 101, 197-98, 200, 209, 256-58. Berger, Michael S., 118. Bertone, Saverio, 257. Bianchi, Enzo, 226-27, 230-31. Boas, Franz, 24-25. Bogoras, Waldemar, 181-84. Bohr, Niels, 193. Bonanate, Ugo, 55-56, 58, 60, 62. Bonner, John T., 203. Boserup, Ester, 112. Bourdieu, Pierre, 19-20. Bretschneider, Peter, 113. Burch, Ernest S., 131-34.
Davide, re d’Israele, 115, 225. Delaney, Carol, 64, 72. de Mattei, Roberto, 74. Denzinger, Heinrich, 216, 247, 249. Descartes, René, 11-17, 19, 41, 54, 200. Descola, Philippe, 27, 30, 35, 196. Destro, Adriana, 228-29. de Vio, Tommaso, detto cardinal Caetano, 122. Dewey, John, 72. Dorsey, James Owen, 35. Douglas, Mary, 138-39. Dreifuss, Jean-Jacques, 205. Dumont, Louis, 130. Dupré, John, 206. Durkheim, Émile, 39, 66.
277
Goody, Jack, 94-95, 110, 112, 121, 125, 129, 137, 235. Gregorio I Magno, papa e santo, 233.
Elcana, 115. Engels, Friedrich, 48, 88-90, 94-96. Enrico VIII, re d’Inghilterra, 122, 128. Erikson, Dan, 122-23. Erode, re d’Israele, 116. Evans-Pritchard, Edward E., 18891. Ezechiele, 231.
Hardy, Carmon B., 122-23. Harmer-Dionne, Elizabeth, 123. Hazard, Paul, 20. Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 43-52, 54, 167. Heisenberg, Werner, 193. Héritier, Françoise, 102-103, 161. Herzfeld, Michael, 261. Hill, Willard W., 169. Hobbes, Thomas, 54. Hume, David, 42.
Favole, Adriano, 206, 208. Filippo I, langravio di Assia, 122. Filoramo, Giovanni, 193, 234-35. Fisher Brown, Elizabeth, 158. Forni, Silvia, 188, 208. Fourier, Charles, 125. Fox, Robin, 99-101, 103-104, 109. Franklin, Nadra, 111. Frazer, James George, 250. Frege, Gottlob, 107. Friedman, Mordechai A., 111, 116. Funkenstein, Amos, 54.
Isacco, 173. Isaia, 55, 220, 226. Jacobs, Sue-Ellen, 168. Jakobsen, Merete Demant, 262. Jervis, Giovanni, 20.
Galilei, Galileo, 40-41, 54. Geertz, Clifford, 6, 197, 204-205, 259. Geremia, 220, 231. Gershom, rabbino, 117-18. Gesù Cristo, 18, 56, 58, 75-85, 116, 122-23, 126, 217-20, 223-34, 236, 239-49, 253, 257. Giacobbe, 115, 119, 173. Giovanni, apostolo e santo, 230, 246. Giovanni Crisostomo, santo, 22425. Giovanni d’Aragona, infante, 117. Giovanni Paolo II (Karol Wojtyła), papa, 74, 115. Giuseppe, santo, 224, 226-27. Giuseppe Flavio, 116. Giustiniano, imperatore, 175. Goldstein, Melvyn C., 140. Goodenough, Ward H., 99-100, 103-104, 109.
Kamin, Leon, 207. Kant, Immanuel, 42-43, 194. Keyfitz, Nathan, 192. Kister, Menahem J., 61. Kluckhohn, Clyde, 101. Kroeber, Alfred Louis, 203-204. Kuhn, Thomas S., 5. Lancaster, Chet, 114. Lang, Sabine, 168. Laslett, Peter, 154. Lattas, Andrew, 211-12. Lavenda, Robert H., 110. Leibniz, Gottfried Wilhelm, 54. Le Play, Frédéric, 154. Levine, Nancy E., 137, 139-43, 14546, 155, 233. Lévi-Strauss, Claude, 24, 27-32, 3435, 39, 78, 167, 170, 184, 186-87, 196. Lewontin, Richard, 207. Linton, Ralph, 150, 154.
278
Lock, Margaret, 188. Lowie, Robert H., 94. Loyer, Bertrand, 178. Lubac, Henri de, 233. Lutero, Martin, 121, 123, 225.
Parsons, Talcott, 154. Pascal, Blaise, 11-20, 26, 199, 202, 206. Pennacini, Cecilia, 208. Pera, Marcello, 20, 256. Pes, Daniela, 248. Pesce, Mauro, 81, 228-29. Piasere, Leonardo, 103, 261. Pietro, apostolo e santo, 79. Pietro di Grecia e Danimarca, principe, 139-40. Pio XII (Eugenio Pacelli), papa, 249. Pison, Gilles, 124. Platone, 176, 194. Pletsch, Carl, 67. Popper, Karl R., 39, 256. Prigogine, Ilya, 193-97. Pussetti, Chiara, 208.
MacDonald, Kevin, 114, 128. Maine, Henry S., 39. Mair, Lucy, 112-14, 127-30, 137, 139. Malinowski, Bronisław, 6, 94. Mandeville, Bernard de, 39. Maometto, 60-62, 119-20. Mao Tse-tung, 166. Marchesini, Roberto, 206. Marconi, Diego, 259-60. Maria Vergine, 224-27, 230-34, 241. Marsala, Ruben, 117. Marx, Karl, 48, 88, 167. Matteo, apostolo e santo, 78-79, 224, 226. Mauss, Marcel, 41, 66. Mead, Margaret, 185-86. Meekers, Dominique, 111. Menendez, Jessica, 178. Milton, John, 129. Minosse, re di Creta, 177. Montaigne, Michel de, 12, 19-26, 41, 102, 199, 252. Morgan, Lewis Henry, 39, 65-66, 86-90, 94-96. Mosè, 76, 238. Muhammad, v. Maometto. Murdock, George Peter, 90-96, 99101, 103-104, 119, 151.
Quarta, Cosimo, 125. Radcliffe-Brown, Alfred R., 34. Rasmussen, Knud, 262. Ratzinger, Joseph, v. Benedetto XVI. Rayner, John D., 118. Remotti, Francesco, 18, 41, 43, 48, 57, 63-64, 66, 71, 96, 98, 101, 159, 208, 252-53, 255, 260. Ridley, Matt, 205-207. Roosevelt, Franklin Delano, 170. Rosaldo, Michelle Z., 96, 101. Roscoe, Will, 168-73. Rose, Steven, 207. Rossi, Pietro, 48.
Neher, André, 196. Newton, Isaac, 54, 193. Nicodemo, 229.
Sahlins, Marshall D., 249. Said, Edward W., 48. Salomone, re d’Israele, 115. Sangree, Walter H., 137, 139. Schmaus, Michael, 233. Schneider, David M., 150. Schremer, Adiel, 116. Schultz, Emily A., 110. Solinas, Pier Giorgio, 154.
Origene, 231, 253. Osea, 231. Paolo di Tarso, apostolo e santo, 5662, 84-85, 175-76, 218-21, 228-29, 234, 236, 240-44, 246, 249.
279
Spinelli, Barbara, 81. Stengers, Isabelle, 193-97. Strathern, Marilyn, 188.
Van Gennep, Arnold, 217. Viazzo, Pier Paolo, 98, 101, 159. Vico, Giambattista, 54.
Teodosio, imperatore, 116. Terracini, Umberto, 73. Tertulliano, Quinto Settimio, 59-60. Thomas, Wesley, 168. Thompson, John L., 122. Tommaso d’Aquino, santo, 63, 24344. Tönnies, Ferdinand, 39. Tonutti, Sabrina, 206. Toscani, Giuseppe, 231. Turner, Victor, 210.
White, Douglas R., 110, 112. Williams, Walter L., 168-69, 171. Witherspoon, Gary, 170. Wittgenstein, Ludwig, 102-107, 128, 144, 151, 153, 156-57. Yanagisako, Sylvia J., 64, 72, 94-96, 100-101, 156. Zwingli, Ulrich, 225.
Indice del volume
Lettera al Papa (parte prima)
3
Parte prima
Stabilità 1. Un’aspirazione condivisa
11
2. Il potere dei costumi
19
3. Chi si accontenta del relativo...
27
4. ...e chi vuole l’assoluto
37
5. In nome della naturalità
54
Parte seconda
Forme di famiglia 6. Avrai un’unica famiglia
71
7. Tante famiglie, ma una soprattutto
86
8. Somiglianze di famiglia
97
9. Quanti coniugi?
109
1. La poliginia, che cos’è?, p. 109 - 2. La minaccia poliginica, p. 113 - 3. Ebrei poliginici, p. 115 - 4. Islam: imposizioni e tolleranza, p. 119 - 5. Insorgenze poligamiche, p.
281
121 - 6. Passaggi, trasformazioni, scivolamenti, p. 123 - 7. L’indissolubilità degli altri, p. 129
10. Ma la famiglia dov’è?
136
1. Tanti mariti, p. 136 - 2. Con i coniugi o con i fratelli?, p. 144 - 3. Provvisorietà, permanenza, temporaneità, p. 149 4. Gruppo domestico, piuttosto che ‘la’ famiglia, p. 155
Parte terza
Chi contro natura? 11. Una saggezza perduta
165
1. Scempi di famiglie, p. 165 - 2. L’apprezzamento della diversità, p. 168 - 3. Contro natura o secondo natura?, p. 173 - 4. Amori impossibili?, p. 180 - 5. Finzioni procreative, p. 187
12. Un’altra natura
193
1. L’incertezza al posto della stabilità, p. 193 - 2. Dubbi sulla natura umana, p. 197 - 3. Finzioni di umanità, p. 206 4. Costruzioni di ‘noi’, p. 212 - 5. Un ‘noi’ diverso da tutti gli altri, p. 216
13. Al di là della natura e della cultura
223
1. Una piccola famiglia naturale, p. 223 - 2. Una grande famiglia spirituale, p. 228 - 3. Teofania, teokoinia, teofagia, p. 237 - 4. Contro natura no o contro natura sì?, p. 247
Lettera al Papa (parte seconda)
254
Riferimenti bibliografici
263
Indice dei nomi
277