Contro il simbolico. Dieci lezioni di filosofia 9788874621439


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Contro il simbolico. Dieci lezioni di filosofia
 9788874621439

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Quodlibet Enzo Melandri Contro il simbolico Dieci lezioni di filosofia

Dello stesso autore:

La litica e il circolo Studio logico-filosofico sull’analogìa

Enzo Melandri

Contro il simbolico Dieci lezioni di filosofia

Postfazione di Luca Guidetti

Quodlibet

I

ri

2007 Quodlibet

Macerata, via S. Maria della Porta, 43

www.quodlibct.it ISBN 978-88-7462-J43-9

A Enrico M. Forni in memoriam

Avvertenza

Ogni opera, anche modesta, è sempre un’impresa collettiva. Questa deve la sua origine al centro culturale Lucio Lombardo Radice, di Correggio, e precisamente a un’iniziativa dell’amministrazione comunale di Correggio, c dcH’assessorato alla Cultura dell’amministrazione provinciale e del CIDI. La responsabilità del contenuto e della stesura definitiva spetta natural­ mente all’autore, che è anzi lieto dell’occasione che gli è stata offerta di par­ lare in pubblico nel palazzo dei Prìncipi. In questo caso tuttavia anche l’ese­ cuzione finale mi è stata grandemente facilitata dalla precisa e affettuosa collaborazione specialmente di Mauro Bertani, Luca Guidetti, Ivan Levrini, Sandra Palmieri, Valeria Pezzi ed Emanuela Risari. Tanto per intenderci, dovendo dar loro un titolo, queste conferenze le avevamo chiamate non troppo propriamente «lezioni». Poi, chissà perché, questa lezione ha attecchito e compare come «Dieci lezioni di filosofia» negli inviti comparsi a suo tempo. Perciò, per riguardo a quelli che sono intervenuti e che magari vogliono ripercorrere con la lettura quanto han sentito dalla voce, ho mantenuto l’eco delle lezioni nel sottotitolo. Le dieci lezioni furono tenute a Correggio, come s’è detto, dal febbraio al giugno 1988 bisettimanalmente, alle date e coi titoli che seguono: 1. Logica: la struttura c il calcolo; 12 febbraio 1988. 2. Linguaggio: lingua e linguaggi formali; 26 febbraio 1988. 3. Realtà: oggetti, mondo sensibile, entità, concetti; 13 marzo 1988. 4. Metafisica: pensiero, materia, essere; 23 marzo 1988. 5. Soggetto e coscienza; uno, molti, medio e soggetto; 8 aprile 1988. 6. Credenza e immaginario; sognare, l’altro e il doppio legame; 22 apri­ le 1988. 7. Desiderio e volontà; passioni, azioni, deliberazione e causa dell’agire; 6 maggio 1988.

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AVVERTENZA

S. Etica e morale; il dovere, la libertà, la coscienza e la teodicea; 20 mag­ gio 1988. 9. Politica e potere; servitù e dominio; 27 maggio 1988. 10. Meditano vitae, meditano mortis; 3 giugno 1988. Solo l’ultima conferenza, originariamente improntata alla morte di Ivan U'ijc, è stata modificata nella stesura per le ragioni indicate nel testo. Spero che il lavoro possa interessare come a suo tempo mi parve fossero accolte le parole. E. M.

Prima lezione

Logica La struttura, il calcolo, l'interpretazione

i. Potremmo definire una specie di mappa isocronica della modernità della logica nei confronti delle sue riproposizioni ormai passate, mettendo dentro quest’area precursori come Leibniz, Bolzano e Boole, ed escluden­ done altri come Hegel, Flerbart e Pi anti, benché la loro distanza dal pre­ sente non delinei un’evidente regolarità. L’isocronia di cui parliamo non sta in una nozione troppo rigida di contemporaneità, poiché dipende dalla tra­ dizione, dalla nazionalità, dal clima in cui campa l’opera di un autore, tutte cose che si riconoscono ex post festum, se tale è il caso, orientate sul senso del presente. Forse la cosa appare più chiara se dico che tutto il pensiero logico moderno è certamente posteriore a Fiegei, Comte e Mill, per citare tre dei massimi teorici sintetici del XIX secolo che, per tradizione, cultura nazionale e personalità individuale hanno più inciso sui destini dell’eredità precedente. Il distacco da Fiegei in proposito è il maggiore che si possa ipo­ tizzare; da lui anzitutto si desume l’impressione nettissima di aver voltato pagina e, se anche possono farsi valere certi ripensamenti, per esempio in sede di dialettica (come altro rispetto alla logica), si tratta di una tentazione non reazionaria, che può spingere a un recupero ma su tutt’altre basi. Per quanto riguarda Comte la distanza appare minore, e tuttavia rimane netta. Comte non individuava nella logica lo statuto di una disciplina autonoma; la logica era per lui il nerbo interiore del metodo scientifico, né bisognoso né profittevole di trattamento esplicito. E l’unico metodo scientifico era quello positivo dell’adduzione e addizione di fatti a fatti. La logica avrebbe poi coinciso con un totale senza intervalli o differenze. Comte evidente­ mente assumeva che il metodo scientifico fosse nella sostanza unitario, per lo meno indipendente dalla logica, nel senso che l’accumulo dei fatti bene accertati sarebbe bastato a dirimere ogni controversia. Basterà questo a defi­ nirne la distanza dal presente. John Stuart Mill, invece, pur essendo in ter­ mini di filosofia sintetica l’equivalente di Hegel e di Comte, ha scritto un

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trattato di logica che ancora oggi si legge con profitto. Ma nonostante la maggiore prossimità del linguaggio e della tematica, anche qui si ricerche­ rebbero invano i problemi che ci rendono familiare la contemporaneità. Assumiamo le tre culture, francese, britannica e tedesca, come indici del­ lo sviluppo che ha raggiunto la cultura mondiale. Ma c’è un’altra differen­ za da segnalare. La cultura francese, dopo Comte, è tutta positivistica; e lo si dica senza intenti derogatori, anzi. Sono positivisti, in Francia, o scienti­ sti quanto al metodo, anche quelli che, come Bergson o altri, perseguono tutt’altri intenti. In Inghilterra invece la cultura filosofica resta in prevalen­ za empiristica, sia prima sia dopo J. S. Mill, che di suo vi aggiunge l’apertu­ ra al positivismo. In Germania invece né prima né dopo Hegel si è stati hegeliani. Dopo il 1860 si è affermata anche qui la tendenza positivistica, che ha avuto coloritura psicologica. Si manifesta anche in quest’ultimo caso la famigerata maggiore relativa arretratezza della cultura tedesca rispetto alle altre due, dal momento che può rifarsi, positivisticamente, attingendo al patrimonio dello spinto soggettivo, ideologico, anche se non strettamente hegeliano, dello psicologismo. Risalendo ai motivi animatori delle tre culture moderne, indirizzate ver­ so la contemporaneità, sia lecito evidenziare che la filosofia britannica dipen­ de dal primo avvertimento del modo di produzione capitalistico, e cioè dal­ l’analisi dell’economia politica, coi suoi caratteristici problemi di massimi e di minimi, e così via; che quella francese, dopo il positivismo, viene a dipen­ dere dall’organizzazione del sapere e dell’insegnamento, cioè dal progresso scientifico, soprattutto della scienza naturale, in cui rientra anche la sociolo­ gia, anche se quest’ultima si occupa di problemi che debordano da tale ambi­ to; e che infine la filosofia tedesca di fine secolo, dopo aver tentato di sussu­ mere tutto il sapere sotto l’ideale salvifico della medicina, in quanto psichiatria o psicologia, ha un andamento più disperso, forse meno centralo ma in compenso a tratti più acuto delle altre due. In ogni modo è un fatto che da nessuna di queste tre anime, l’economia politica, la sociologia e la psi­ chiatria, spunta il motivo della riproposizionc della logica odierna. Il mondo culturalmente rilevante della fine del secolo scorso indicava quindi cumulativamente il massimo del benessere nel raggiungimento con­ giunto dei tre obiettivi della prosperità economica, del sapere equivalente a un potenziale complessivo di dominio sulla realtà e a una conduzione del­ la vita psichica corrispondente a un optimum di sanità. Questo era natural­ mente riferito al massimo numero degli uomini, compatibilmente con la loro relativa distanza dai centri irradiatori del benessere. Questi ideali sono

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ancora - si spera - quelli animanti distributivamente la più gran parte del­ l’umanità. Fatte salve queste condizioni, cui cordialmente aderiamo, resta da capire in che modo le odierne preoccupazioni per la logica possano inse­ rirsi in una filosofia generale dell’umanità. 2. Da quel che ho detto credo emerga abbondantemente che io non pen­ so che la filosofia cresca sui problemi battezzati come tali filosofici, ma che piuttosto essa sia una creazione spontanea di qualsiasi quesito che in gene­ rale si ponga l’umanità. Questo problema, una volta posto, si riflette poi in vari modi nei riflessi delle attività particolari. Tra le attività ci sono anche quelle teoriche, e non è lecito sottovalutare l’influsso del teorema di Pita­ gora sulla nostra agrimensura. Ora, il nostro problema riguarda non tanto l’origine, quanto la natura dell’odierna preoccupazione per la logica. Un’o­ rigine epocale, di motivazione concreta, anche se di fatto indiretta, abbia­ mo visto che non c’è. Gli uomini potrebbero di fatto arricchirsi, diventare in lungo e in largo più sapienti, esibire una maggiore e ragionevole igiene mentale senza preoccuparsi dello statuto della loro logica. Quindi, che cosa manca? La letteratura contemporanca non manca di risposte al riguardo. C’era il problema epistemologico. Questo non rientra del tutto in una filosofia della scienza di stampo positivistico. Di fatto, ci sono risultati sperimenta­ li che non si sommano, come le note esperienze di fisica dei quanti. La sommatività o meno dipende non solo dai fatti, ma anche dal metodo o per meglio dire dalla filosofia con cui ci si dispone a darne la sintesi. Dunque lo scrupolo per la verità sarebbe lo stimolo a porre il problema epistemologi­ co, c di qui, con passaggio intuibile, la necessità di ricerche sui fondamenti non sempre evidenti della logica. Ma questo problema pone in primo pia­ no il veicolo di ogni operazione logica, cioè il linguaggio. È qui che i conti non tornano. Fin dai primordi si era supposto che la logica, in quanto puramente con­ cettuale, nulla avesse che spartire col linguaggio. Si dava per scontata una più che naturale astrazione, a patto però di sapere a che cosa se ne affidasse il risultato. L’astrazione non si può esprimere come astrazione, bisogna affi­ darla o al senso del discorso, o a quello dell’operazione di pensiero che abbiamo in mente. Finché di questo si parlava in maniera convenzionale, a nessuno poteva venire in mente di dire cose che non erano mai state espres­ se già mille volte, c meglio di lui. Ma a un certo punto la cosa saltò fuori. Fu sufficiente la perdila del medio linguistico in comune, che nel Medioevo era

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il latino. Ma qui il latinoj_usatocome linguaggio, non come lingua (ritor­ neremo poi su questa importante distinzione, che comunque si può già capire). Quando le lingue nazionali (prima il francese, poi l’inglese) sono accreditate a parlare di filosofia, ne derivano differenze che non sono solo di lingua, ma anche di linguaggio. La differenza si determina poi non solo in sede di lingua nazionale logicamente corretta, ma anche nel caso di sin­ goli autori particolarmente espressivi. È l’evenienza del Rinascimento, del­ la renaissance o della ripresa della cultura dopo il Medioevo. Ancora Leib­ niz scrive di logica (e di matematica) in latino, minimizzando le differenze, mentre in metafisica, dove esprime idee più personali e contrastabili, usa il francese (il tedesco era ancora un dialetto fiammingo sconosciuto e d’in­ certa ortografia). Questa perdita del medio comunicativo del linguaggio, definitiva in quanto lingua (non c’è da sperare se non nell’esperanto), vien però recupe­ rata mediante il linguaggio matematico, già a partire dal XVII secolo. Qui non occorre esser cartesiani, o seguaci di una particolare mathesis universalis, per riconoscere un fatto di poi sempre più universalmente accredita­ to. Era naturale che a un certo punto questa acclimatazione universalmen­ te riconosciuta al linguaggio matematico (anche dai giapponesi e dai cinesi) si facesse essa stessa lingua e si rivolgesse contro i linguaggi naturali. Que­ sto evento si è compiuto nel XIX secolo. Per parlare delle tre culture nazio­ nali, esso può accogliere i nomi di Boole, di Schròder e di Couturat (anche altri, ma vogliamo restare nei limiti di una equivalenza, che tale è). E evi­ dente che in questo evento la matematica si presenta come un linguaggio, anzi come una nuova linguistica di carattere internazionale. Dunque l’impulso alla rivoluzione in materia di logica è venuto dalle esi­ genze della comunicazione. Questa non poteva più esser soddisfatta con mezzi puramente linguistici, come la traduzione, o con risorse puramente culturali, come la compenetrazione di un modo di vita nell’altro. In passa­ to era avvenuto che la versione cinese degli Elementi di Euclide, da parte del padre Matteo Ricci, avesse provato i poteri della nostra civiltà presso una cultura aliena, dando anzi origine in essa a uno sviluppo matematico in parte indipendente. Ma evidentemente nel XIX secolo questo non basta più. Ai procedimenti metodici ma lenti della diffusione culturale deve sostituir­ si un cambiamento del sistema di cultura, fondato su un mutamento del modo stesso di comunicazione, più rapido ed efficiente, dovuto principal­ mente al progresso delle matematiche e soprattutto del loro apprendimen­ to. La violenza dell’impatto col nuovo mondo culturale sconvolge tutti i

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collaudati sistemi diffusionistici e impone una rivoluzione che retroagisce anche irriguardosamente sugli stessi promotori. Dal punto di vista degli indiani, dei cinesi, dei giapponesi, per tacere dei tanti altri su cui si è eserci­ tata l’influenza, la logica occidentale, fosse economia politica, scienza esat­ ta della natura o igiene mentale esclusiva d’ogni altra insinuazione, si è pre­ sentata come un’istanza di dominio puro, privo d’ogni razionalità finale. C’è dunque da meravigliarsi se perfino la nostra cultura non vi ritrovi altro fondamento? La logica è dunque il puro e semplice, denudato matematicamente, Willc zur Machtì La demoniaca volontà di potenza? Non siamo così irriguardosi e senza ritegno anche verso noi stessi. La civiltà, anche quella occidentale, ha lontane, oscure origini. La razionalità spesso è frutto di razionalizzazione, e questa è una prassi non molto sim­ patica, ma imposta dal bisogno di semplificare un accumulo eccessivo, una complessità senza vie d’uscita. Per capire questo non si può che rivolgere il nostro sguardo, per un momento, al passato. Mi scuso per questa nuova deroga dal canone della contemporaneità; ma, senza di essa, non avrebbe senso il presente. Nella storia dell’evoluzione, o della crescita della coscienza occidentale, non era la prima volta, nel XVII secolo, che si determinava una forbice tra l’intelletto e la ragione. E mi spiego: tra l’intelletto come ragione del due per due fa quattro, e la ragione come comprensione del rapporto tra mezzo e scopo. Insomma, intellettuale è la comprensione di una regolarità, indipen­ dentemente dal senso; mentre razionalità include il senso del capire il rap­ porto che lega la parte al tutto, o comunque l’azione allo scopo. Questo è un punto che dobbiamo tener fermo, se vogliamo capire più analiticamen­ te le motivazioni complesse dell’affermazione della ragione occidentale sul resto del mondo. In un certo senso la ragione occidentale ha dovuto subire la sua riduzione intellettualistica, nell’affacciarsi al resto del mondo, ma nel­ lo stesso tempo ha accettato tale riduzione solo perché ne comprendeva la ragione. Risalendo all’indietro nel tempo, forse le stesse vicende ne posso­ no offrire la giustificazione.

3. La circostanza che suscita il nostro interesse è il rapporto che si dà nel passato tra linguistica e psicologia. Nel Rinascimento è interessante notare come sia la linguistica, in quanto filologia, a offrire il modello (o i modelli) del modo di pensare rinascimentale. Non si tratta ancora di logica, poiché la nozione moderna si è formata a poco a poco, e quella medievale era più che linguistica, grammaticale; fondata com’era sul soddisfacimento di certe chia-

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re regole, naturalmente differenti secondo le diverse scuole. Più che il riferi­ mento alla logica, relativa secondo le diverse scuole, vale quello alla retorica. La retorica non si spiega mediante regole di conformità linguistica, essa risicde anche nella trasgressione (ragionevole) delle regole, dunque è in tal senso psicologica. La riscoperta dei classici vale come disponibilità non solo di un nuovo mezzo di comunicazione, ma di un centro di comprensione, che vie­ ne imitato e coltivato come un medio trascendentale, allo scopo di costitui­ re una mentalità comune, inizio e centro di una pluralità di comunicazioni. Sulla base della mentalità di Virgilio, di Orazio o di Catullo, l’ideologia dell’umanismo non è che il tentativo di stabilire su basi linguistiche (o, meglio, retoriche) una teoria della comunicazione letteraria. Chiaro che il latino a suo tempo viene studiato perché è un modo di comunicazione già collaudato o, meglio, accreditato da una mentalità comu­ ne alle persone colte. Che è poi quella, propagatasi in epoca medievale, degli antichi scrittori come Virgilio, Orazio e Ovidio e gli altri, che già si suppo­ neva si intendessero tra loro. Questo modo di intendersi in comune è non solo mediato da una cultura comune, dalla poesia e da altre esperienze cul­ turali e da un retaggio di figure retoriche, ma è diffuso in una comunità lin­ guistica di specie ecumenica, se non di estensione internazionale. Tutto ciò andrà poi perduto; anche dopo i successi del Rinascimento ita­ liano. Al di là dell’umanesimo sorge la rénaissance. Ma la renaissance è un altro risvolto della storia, non del tutto una prosecuzione del Rinascimen­ to italiano. La riscoperta dei classici porta a valorizzare un medio di porta­ ta potenzialmente illimitata, il cui possesso non solo definisce una menta­ lità comune come espressione di parola intelligibile, ma diventa altresì un modello imitato e coltivato allo scopo di costituire una mentalità unitaria che meglio utilizzi la comunicazione. La filologia, base dell’umanesimo, è la scienza in base alla quale si dimostra falsa la Donazione di Costantino. Ma giova osservare che la sua sapienza non è solamente linguistica; essa è altresì, sebbene non in maniera appariscente, una dottrina psicologica che giudica del vero in base al probabile accadimento in menti aliene. La forza del Rinascimento sta nell’attrazione dell’alieno nell’identico. Ciò che un altro ha pensato e prodotto devo poterlo pensare e riprodurre io stesso. La forza della uiprjot^ ne commisura la grandezza e per converso i limiti. Esteriormente l’umanesimo si presenta come un tentativo di stabilire un medio universale su basi linguistiche. Questo medio di recente riscoperto e offerto dal latino nel suo uso colto, e cioè filologico. La filologia, come si è osservato, non comprende solo la competenza linguistica nell’idioma lati-

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no, ma soprattutto l’assimilazione della mentalità degli autori che ne carat­ terizzano la letteratura: Orazio, Virgilio, Ovidio e gli altri che sarà il caso di citare. Non solo la lingua entra quindi in questione come medio, ma anche la letteratura, il parere, la morale, l’estetica degli autori cui si affida: cioè la psicologia. Leggendo un autore ne assimilo non solo i modi di dire, ma anche la mentalità. La diffusione è compenetrazione psichica. Al di là dell’umanesimo c’è il Rinascimento e, come prosecuzione di questo, oltre esso, la renaissance francese e inglese. Dopo Lorenzo Valla, dopo Pietro Ramo (Pierre de la Ramée), si annuncia una filosofia iconocla­ sta rispetto a tutti i modelli letterari. Si tratta della renaissance come l’ha intesa Descartes, che si vanta di aver dimenticato il latino che aveva appre­ so al collegio dei gesuiti di La Flèche. Egli rifiuta l’insegnamento gramma­ ticale, anzi ne rifiuta tutta la logica, né gli interessano le esercitazioni di lati­ no, che pure aveva appreso assai bene nel suo apprendistato gesuitico. A Descartes interessa il distacco della psicologia dalla grammatica. Egli non accetterebbe l’ambigua — dal suo punto di vista — nozione di filologia. La grammatica regge l’ordine delle parole; la psicologia dice quello delle idee. Descartes pensa che i contenuti del nostro animo si presentino con una loro evidenza, e che, rimettendoli in ordine secondo questo criterio, tutti gli altri problemi debbano trovare il loro naturale assestamento. Ciò non conduce direttamente alla verità, ma alla certezza soggettiva delle nostre idee. Idea grandiosa, ma psicologica. Da cui segue con effetto generale un grande ribaltamento. Non importa che cosa abbian pensato altri, benché famosi. Io ritrovo in me queste c queste altre idee, in quanto principalmente chiare e distinte. Le altre saranno altrettanto buone, ma mi vengono dal di fuori. Non sono in grado di ricondurle alle mie. Quindi per il momento non ci sono. Sono questi i criteri di una mente che riflette su se stessa, e giova osservare che essi sono di natura psicologica, non grammaticale o retorica. La certezza prevale sulla verità. Le idee, le idee che io ho, sono l’unico criterio di certezza. Tutto il mon­ do vicn fuori dalle idee, dalle mie o dalle tue idee, indifferentemente, purché convergano a un unico criterio di certezza, che è insito nell’estensione. Le idee passano da idee materiali, idee che io ho in mente come tali, a idee for­ mali, quando sono in grado di distinguerle. Nel qual caso diventano a certe condizioni idee obiettive, quando con l’estensione io attribuisco loro un mondo obiettivo, cioè di cose che stanno fra di loro le une fuori dalle altre. Qui c’è evidentemente una prestazione, per non dire indebita, tuttavia trascendentale della psicologia. La volontà, la presenza, l’intelletto stanno

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da soli a rappresentare l’anima. Questa psicologia è però incrinata, perché essa deve escludere il ricordo, mettere in sospetto la memoria, rendere pro­ blematico il concetto stesso di tempo. Pertanto non parlerà della Scuola di Port Royal o di Pascal, per cui valgono analoghe difficoltà metafisiche, per passare immediatamente al secolo successivo. In esso si riproduce il ribal­ tamento della psicologia in linguistica. È l’epoca dcH’illuminismo, dell’en­ ciclopedia, della conversazione e del linguaggio parlato: il «logocentrismo» non invita a meditare sui fondamenti. Per questa via si perviene al massimo a Condillac, che si pone il problema di come, a partire dalla sensazione più elementare, si venga costituendo e con quali funzioni il medio del linguag­ gio. Come si vede, siamo nel vortice di una spirale che per un verso sembra ripetersi, ma che per altro introduce insensibilmente a cose nuove. L’ultimo giro è quello che, nel XIX secolo, rimette il primato tematico alla psicologia. Abbiamo già detto di quest’ultima prestazione dello psicologismo positivi­ stico. Ma anche in precedenza, con Hegel, nel pieno dell’idealismo trion­ fante, la logica come spirito oggettivato, nella linguistica e nelle scienze del­ la cultura, non si distingue dalla fenomenologia, la scienza dello spirito soggettivo e cioè dalla psicologia. Soggettivo e oggettivo sono come il dop­ pio conio di una stessa moneta, che deve sostenere entro uno stesso spes­ sore logico la faccia linguistica e quelky?sicologica. La rottura di questa spirale, o il suo allargamento in una tangente non più avvolgibile, si verifica con l’inizio dell’età contemporanea, che farei cominciare con la seconda metà del XIX secolo. Con questo nuovo svilup­ po le soluzioni tendono a radicalizzarsi in senso diverso. La logica perde la sua antica parentela con la psicologia e con la linguistica, per assumere un tratto più decisamente calcolistico e strutturale. L’epoca moderna della logi­ ca, che degrada tutta la vicenda precedente a preistoria della medesima, esor­ disce con questo atteggiamento senza ritegno antistoricistico. La questione della verità o della validità della logica si deve poter apprendere indipen­ dentemente dalla considerazione della storia precedente. Perciò è tanto complesso tracciarne le linee che vi conducono, come se la scienza che per definizione è la più razionale di tutte avesse dei natali imbarazzanti, su cui è meglio sorvolare. Il fatto è che la logica si presenta oggi come un’Atena uscita intera e adulta dalla testa di Zeus. Citerò solo tre nomi per illustrare la logica moderna: Boole, l’inventore dell’algebra della logica e quindi del calcolo; Frege, il creatore di un linguag­ gio astratto della logica, che ne include l’interpretazione; e Couturat, che ha inaugurato un’interpretazione prettamente logicistica di Leibniz, sulla cui

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scia si svolgerà la lettura di tanti altri autori contemporanei o meno della sto­ ria del pensiero. Si potrebbero citare decine di altri autori, ma non ce n’è bisogno per dimostrare che l’esigenza da cui sorge la nuova logica è in pri­ mo luogo internazionale, trattandosi di un inglese, di un tedesco e di un fran­ cese; che inoltre comprende i caratteri strutturali del calcolo, dell’interpre­ tazione interna e di quella esterna, rivolta verso la storia del pensiero; e infine che la sua efficacia non è un fatto isolato, giacché, almeno inizialmente, essa porta a una profonda revisione di tutto il modo di studiare la filosofia. Insieme con la possibilità di esprimere la deduzione come un calcolo, Boole ha scoperto la struttura della logica, il suo reticolo, il latex o lattice (come si dice con parola latina riconiata dall’inglese); ha visto che in logica non vale la regola del prima e del poi, della premessa e della conseguenza, ma che tutto in essa è contemporaneo, poiché la sua struttura può esser rappre­ sentata come un reticolo o lattice bidimensionale al completo. Precedente e conseguente, in senso temporale, non valgono che psicologicamente, come ordine dell’apprendimento per noi. Una volta compreso questo, la struttu­ ra potrà essere appresa tutta in una volta se si ha l’immaginazione sufficien­ te a pensarla come data in una sola colata e un calcolo adatto a esprimerla. Al di là anche dell’algebra della logica, Frege sopravanza di gran lunga tutti gli altri nello spiegare perché si è dovuto risolvere a dare una notazio­ ne astratta della logica. Il punto da rilevare è che la logica, in questo uso di metodi simbolici, sembrerebbe di nuovo inclinare a un’interpretazione lin­ guistica. Sennonché, nell’accezione di Frege, il linguaggio della logica non c, se ci si passa l’apparente bisticcio, di natura linguistica, bensì strutturale. Per poter essere espressa, tale struttura richiede un linguaggio artificiale, che nulla ha che vedere con la linguistica. Non bisogna confondere linguaggio con lingua. E un linguaggio che può essere usato solo da chi lo capisce con­ cettualmente, così com’era già il caso per le formule matematiche. In mate­ matica quel che è scritto tra le formule poco importa — sia esso scritto in francese, inglese o russo - ma interessa capire le formule. Naturalmente per intendere queste ultime forse occorrerà leggere anche quel che l’autore scri­ ve appresso alle formule in francese, inglese o russo, per capire bene tutto il resto: ma l’essenziale resta la comprensione del linguaggio matematico, non della lingua in cui quello si esprime.

4. il linguaggio logico, come per altro verso il linguaggio figurativo o quello della musica, non ha nulla che vedere con la lingua articolata; esso mette in forma, esattamente come quest'ulti ma, ma non comunica nulla

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all’infuori delle sue formule. Ognuno, se vuole, può apprendere un tale lin­ guaggio; ma nel capirlo se ne costituisce uno proprio, figurativo, musicale o logico. Solo, con esso non comunica nulla. Se viene usato esso è uguale per tutti: si tratta allora di quella universalità che vale per ogni evento uni­ co, e che proprio per questo non dice nulla. Da questo momento in poi il linguaggio della logica non è più leggibile come lingua. Sotto tale aspetto la

questione sembra esser risolta. Ma siamo con ciò incappati in una stretta nella quale non è più avvertibile lo smorzamento delle vaste oscillazioni che l’hanno provocato. In seguito diremo qualcosa su come si sono formati questi concetti che si inscrivono in una specie di ideografia autoregolata. La cosa di per sé non è difficile; è un po’ quello che è successo in matematica, dove l’interpretazione è tutta interna. Gli oggetti della logica sono queste strutture astratte. È importante riconsiderare questa nuova logica sotto il profilo filosofico. La logica moderna, infatti, non è la tradizionale logica della filosofia, non è una divisione interna a quel corso di studi che prevedeva la triparti­ zione in grammatica, logica, dialettica, né di quella specializzazione di pro­ blemi generali che induceva a una trattazione separata di gnoseologia, logi­ ca, estetica ed etica. In prima approssimazione si può dire che la logica moderna è una derivazione della logica formale. Ma a differenza di quest’ultima, che in fondo rimane esterna ai raziocini più interessanti dal pun­ to di vista dei fondamenti, la logica moderna è fonte di importanti proble­ mi e forse ancor più di basilari precisazioni. La novità sta soprattutto in questo: che, dato il carattere fortemente tecnico di questa nuova logica, essa può esser studiata e coltivata con profitto anche da chi non si interessi par­ ticolarmente di filosofia. È successo altre volte, in altri campi. Naturalmente gli esiti saranno, per un filosofo o meno, alquanto diversi. È probabile che un filosofo, commentando i lavori di logici intesi come pura­ mente tecnici, esca con qualche osservazione pungente. Ma questo, si imma­ gina, sarà il tenore di tutti i commenti intorno alla rilevanza di ciò che un altro sta facendo. Tuttavia è imprescindibile osservare che in epoca contem­ poranea i lavori più importanti in merito sono dovuti a coloro che erano suf­ ficientemente addestrati nelle nuove tecniche da riproporre, anche per la filo­ sofia, una ridiscussione di antichi argomenti mediante un rinnovato rigore. Si possono citare come esempio le famose «antinomie» di Kant a carattere cosmologico: il mondo è finito o infinito.'' È eterno o non eterno? E cosi via. Kant sostiene che qualunque risposta è un’antinomia, cioè che include anche la sua negazione, e perciò comporta contraddizione.

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Queste antinomie kantiane vengono ridiscusse da Russell nel 1903, con l’intento di sostituire alla formulazione loro data da Kant una più esatta e stringente. Evidentemente Russell era attratto dal problema, giacché aveva già scoperto altre antinomie nei fondamenti del pensiero di Frege. Gli argo­ menti di Kant, per chi non li avesse presenti, sono più intuitivi che ineccepi­ bilmente formali; sorge cioè il dubbio che non siano vere e proprie antino­ mie, in senso tecnico. E infatti Russell nel corso della loro riproposizione giunge alla conclusione che non lo sono; cioè tesi e antitesi non hanno lo stes­ so valore probativo, e non si dà quindi vera antinomia. Che io sappia, que­ sto tentativo non è stato più rifatto; è parso definitivo il parere di Russell. Comunque sia, questo esemplifica un intento ben preciso. Si tratta di riprendere una vecchia dimostrazione, relativa all’impossibilità di decidere se il mondo sia finito o infinito, all’inconcludenza delle ragioni per conce­ pirlo come eterno o avente invece un inizio nel tempo, e così via seguendo le quattro antinomie, col solo ausilio di una riformulazione più accurata. Se infatti Russell fosse positivamente riuscito a riformularle con l’aiuto della nuova logica in maniera ineccepibilmente rigorosa e noi, leggendo Russell, ci fossimo convinti che permangono come antinomie anche nella nuova for­ mulazione, ecco che oggi potremmo sostenere non solo che gli argomenti kantiani sono corretti ma che risultano improponibili questioni di tale tipo totalizzante. Forse Kant potrà aver ragione lo stesso; non però logicamen­ te. E invece, secondo Russell, Kant ha formulato troppo scorrettamente tali argomenti per trarne una così fatta conclusione. Anche questa conclusione, a sua volta, è molto importante. Se uno oggi vuol sostenere che il mondo è finito, oppure è infinito, e così via, può certamente farlo. È dubbio se pos­ sa farlo per ragioni logiche, ma è certo che non gli si può per le stesse ragio­ ni proibire di farlo. Ci sono molti altri argomenti di questo genere, che la logica moderna tro­ va di nuovo interessanti e che stimolano gli interpreti a ricercare la desidera­ ta formulazione esatta. Uno di questi è il cosiddetto xuqleùiov Xóyoq (la «proposizione dominante»), in una congiunzione di tre giudizi sul possibi­ le che conduce a un’antinomia cd è di effetto destabilizzante su certi invete­ rati usi linguistici. Ma sarebbe troppo lungo esporlo. Un altro esempio, divertente e assai più noto, è quello dell’«asino di Buridano». Questi, posto davanti a un bivio con un secchio di biada a destra e uno sulla sinistra, sic­ come non ha motivo di scegliere quello a destra piuttosto che quello a sini­ stra o viceversa, si ferma perplesso e muore di fame. Non tutti sanno però che questo argomento potrebbe essere non solo divertente, ma anche serio.

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Diventa un argomento serio se si dice che nil sine ratione, c che occorre sem­ pre un motivo, o una causa, per scegliere anche tra due cose apparentemen­ te equivalenti. A uno che sostenga sul serio che nulla può avvenire senza una j ragione, auguro tuttavia di non trovarsi mai nella situazione dell’asino di Buridano, perché sarebbe costretto a digiunare o a smentirsi. 5. Vediamo ora per quali difetti della logica tradizionale si è dimostrato decisivo l’uso della notazione simbolica. Il primo importante vantaggio si è registrato nella possibilità teorica di superare l’equivocazione. L’equivocazione si dà nel linguaggio allorché usia­ mo un termine, o una parola, con due o più significati diversi. Ciò può esse­ re inevitabile, e non è detto sia un male necessario. Nulla vieta a una paro­ la della lingua di poter avere o assumere due o più significati diversi. Ma diventa un male, o un inconveniente, quando a ogni parola logicamente usa­ ta si dà il significato di un concetto. Un concetto non può avere due, o più significati diversi, o altrimenti non è più un concetto. Un concetto ha da essere univoco, o non è più un concetto. Si parli allora di significato, che può esser diverso perché non ha la pretesa di esser concetto. Il rimedio è offerto dalla definizione concettuale di ogni termine; si può anche dire che ogni termine è tale, solo se ammette una sua definizione concettuale. Con ciò non abbiamo assegnato restrizioni all’uso filosofico; abbiamo solo pre­ visto di usare il concetto per un certo uso del significato. In base a questo modo di ragionare non si può più argomentare dicendo di intendere con una certa parola una certa cosa piuttosto che un’altra, in base alla tradizio­ ne o alla competenza linguistica, ogni volta spostando l’uso rilevante del significato. Ma, in base allo statuto artificiale e quindi convenzionale del nostro linguaggio, diremo semplicemente che abbiamo inteso questo o quello, sulla scorta delle nostre definizioni. Né c’è più un appello palese o occulto alle abitudini semantiche dei nostri interlocutori; si va semplice­ mente a vedere quale sia il significato che abbiamo definito, nel caso che si presti a esserlo, o altrimenti a controllarne la spettanza verosimile. In secondo luogo l’uso del linguaggio permette, piu o meno secondo il grado di formalizzazione del linguaggio, la trasformazione del ragiona­ mento in calcolo; come avviene già in matematica, dove nessuno inferisce alcunché, né deduce né induce, ma calcola. Nel calcolo algebrico poi, nes­ suno fa uso di abachi, ma semplicemente sostituisce un algoritmo con un altro dopo naturalmente avere bene appreso le regole di trasformazione e di sostituzione. Così in logica simbolica (semplifichiamo) dire ‘se a, allora

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b’ (a —> b) vuol semplicemente dire ‘o non-4, o b\ Così non-rt vuol dire che, se a ha valore 1, non-d ha quello duale, che è 0. Oppure viceversa nel caso di convenzione diversa. Possedendo un po’ d’esercizio questi passaggi si fanno algoritmicamente senza pensare a che cosa significhino. Ciò è dovuto alla coincidenza del­ l’idea di reticolo dell’algebra booleiana e della forma linguistica astratta, evi­ denziata da Frege. Il passo decisivo penso sia stato, in questo caso, il concetto fregeiano di valore di verità. In una logica bivalente (a due valori di verità), i valori della verità possono essere 1 o 0, volgarmente il vero o il falso\ in una logica a tre valori di verità, saranno il vero, il falso o Vincerlo. In una a n valori di verità saranno il vero, il falso e gli n -2 valori di verità (differenzialmente) intermedi tra 1 e 0. Questa notazione del tutto relativistica è stata un vantaggio decisivo sot­ to il profilo concettuale, perché quando Aristotele deve parlare della logi­ ca, benché ne parli nel nostro senso, deve dire che Vanalitica è quella scien­ za che tratta dell’òv cu; aXiiGég (dell’ews tamquam veruni), perché egli non possiede il concetto del «valore di verità», e introduce in sua vece quello del quam-si o del «come se», che agisce come un destabilizzante ontologico. In effetti ci si sente in imbarazzo di fronte a questa formula. Come fa l’ente a far finta di esser vero? L’ente o c’è, o non c’è. Il discorso sull’ente (su ciò che c’è) è un discorso logico se assumiamo che le premesse siano vere e che quindi quel che consegue si dia di necessità, expositis. È analitico ciò che sappiamo in base a ciò che abbiamo detto, ma non sappiamo la rilevanza di fatto di ciò che abbiamo detto. Questo definisce certamente l’importanza del sillogismo, cioè dell’analitica, ma non sappiamo di fatto che cosa esso significhi, perché non sappiamo se quanto abbiamo detto sia un entimema che dipende da altre ipotesi o un’ipotesi puramente congetturale. Perciò tut­ to il complesso del discorso relativistico, o cautelativo, è abbastanza goffo, perché non dice di più di quel che esprimiamo in maniera puramente ipo­ tetica. Aristotele si rende ben conto di ciò, escludendo che l’analitica faccia parte della metalisica: la logica non è una scienza reale, perché parla di fin­ zioni (coinc-sc) c non di cose sia pur generali ma effettive, come in fondo fa la metafisica. Infatti egli non coordina la logica alla metafisica, ma ne fa un ÒQyavoV o strumento del tutto speciale che non è bene inquadrato nel sistema delle scienze obiettive. La difficoltà nel dire qual sia l’oggetto della logica ha non poco imba razzato il suo sviluppo. È di nuovo con Frege che spunta l’idea decisiva; può sembrare una cosa da poco, e invece ne è la mossa fondazionale. La logica

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non è una scienza reale, essendo suo oggetto non una costante in qualche modo data, bensì una variabile. Questo oggetto formale è il suo valore di verità, che può variare tra vero e falso; vero, falso e incerto; e così via. Non dobbiamo fare altro che darne una definizione corrispondente, poiché una scienza in generale può avere un oggetto qualsiasi, non è detto una costan­ te. Se la matematica dovesse avere un oggetto reale, cioè costante, sarebbe finita all’epoca della scoperta degl’irrazionali, circa nel vi secolo a.C. La sco­ perta di Frege è la determinazione dell’oggetto formale della logica, che è abbastanza ampio da comprendere anche i fondamenti della matematica. Purtroppo è anche troppo ampio, fino a includere certe antinomie. Ma que­ sto è un altro discorso; non abbiam detto che la nuova logica è una panacea valevole per rutti i mali. 6. In genere non è interessante seguire lo sviluppo di logiche a più di due, fino a infiniti valori di verità. Può sembrare bello, ma la cosa non ha gran­ di sviluppi. A rutti gli scopi rilevanti, basta quella a due valori di verità. Non avendo la logica valore conoscitivo, ci interessa solo sapere qual ne sarebbe la configurazione adatta per risolvere certi casi. E chiaro che quando dob­ biamo risolvere problemi concreti adopreremo gli strumenti del caso, più pertinentemente analitici. Neppure sono importanti le altre divisioni della logica che possono darsi. Noi usiamo normalmente una logica aletica., che non usa funtori modali e si occupa semplicemente del vero e del falso. Ma potremmo benissimo impiegare una logica modale che usa funtori modali del tipo «è possibile che x», «è necessario che j», «non è possibile che z», e così via. Allo stesso modo potremmo fare intervenire una logica probabili­ stica usando funtori i quali dicano che è probabile, indicando anche la per­ centuale di probabilità, che da a segua b. Si tratta di questioni che furono assai dibattute agli inizi di questa nuova problematica, ma che in seguito furono progressivamente disertate, quando si capì sempre meglio che esse fanno parte della metodologia dell’applicazione della logica, ma non ne mutano il quadro di riferimento teorico. Ci sono invece questioni che sembrano ancora vantaggiosamente dibat­ tute, come l’intervento di logiche libere, con cui si può operare correttamente (cioè, in maniera calcolistica) anche in presenza di contraddizioni marginali. Le logiche libere corrispondono all’esigenza di avere una logica non contradittoria nel fuoco del proprio interesse, senza bisogno di dover­ si salvaguardare dall’insorgcre di possibili incongruenze stabilendo pre­ ventivamente un solido quadro teorico cui attenersi. Le logiche libere, si

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può dire, sono logiche senza sponde; quelle teoretiche, come per esempio quella che desiderava Russell, sono inquadrate fin dall’inizio in modo che non sorgano certi problemi. Esigenza che, in molti casi, si è dimostrata superiore alle capacità umane di previsione. Direi però che anche queste fac­ cende, una volta assodata la formalità di un certo ambito, non interessano più di tanto; esse fanno parte di un problema di applicazione, metodologi­ co e interpretativo. Come filosofo e interessato alla storia del pensiero, rilevo l’importanza che la logica moderna ha conferito alla riscoperta del vero significato delle opere dei medievali e degli antichi, per lo meno di certuni tra di essi. Si trat­ ta di autori, tra antichi e meno antichi, che hanno dibattuto con un’ostina­ zione degna di un miglior pubblico questioni e paradossi logici che un seco­ lo fa non eravamo nemmeno in grado di apprezzare. Per questo recupero storico dobbiamo esser grati ai fondatori della logica moderna. Più di cent’anni fa c’erano logici e storici della logica considerevoli, come Trendelenburg, Ùberweg o Prantl, che tuttavia mancavano di conoscenze tecniche adeguate; cosicché, quando s’imbattono in argomenti che per essere apprez­ zati richiederebbero un notevole sforzo di riformulazione e di discussione applicata, finiscono col trascurare il tema trovandolo impertinente o non interessante. Se ne può dare un esempio richiamando l’argomento della consequentia mirabilis (detta anche «legge di Clavius») di cui si avvalsero i primi studio­ si di assiomatica per discutere la questione dell’indipendenza degli assiomi tra loro. Se per esempio risulta che negando il quinto postulato (o assioma) di Euclide non cade tutta la geometria, ma ne resta in piedi una parte con­ siderevole, si è con ciò dimostrato che il postulato delle parallele è indipen­ dente dagli altri, cioè si sovraggiunge a essi. Se esso non fosse indipenden­ te, negandolo si comprometterebbe l’intera costruzione. Questo si discute applicando (ma è la metodologia che deve poi decidere) la legge di Clavius che, nella sua generalità, in simboli si esprime così: -—> (p —» q rimane valida, questo vuol dire chep è implicito in ciò che si vuol negare; perciò la sua negazione comporta la distruzione di tutta la costruzione. Se invece questo non succede, è dimo­ strata l’indipendenza di p rispetto a q\ cioè del nuovo assioma aggiuntivo. Queste sottigliezze non erano facilmente sopportate in quel periodo del XIX secolo in cui si mirava a cogliere il contenuto piuttosto che la forma del pensiero, conformemente alla valutazione psicologistica della logica. Eppu­ re detto principio era stato usato anche da Euclide, Teofrasto, Crisippo, per

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tacere dì Anseimo e Bonaventura, che ne danno un’applicazione teologica nell’argomento ontologico. Oltre al pensiero psicologistico, di cui s’è det­ to, anche quello storicistico prevalente nello stesso torno di tempo è stato decisamente incline a un orientamento contenutistico del pensiero, e quin­ di ha mostrato una decisa insofferenza per questa specie di problemi. Vi è quindi stata una revisione deH’orientamento del pensiero storico nel suo complesso, e a questo punto si dovrebbe parlare dell’opera pionieristica svolta in proposito da Couturat. Credo tuttavia si capisca bene il senso del­ la correzione introdotta, volta a impedire che, anche da un punto di vista storico, una parte di ciò che è stato tramandato non si possa più ricostruire adeguatamente. 7. Un punto importante che non posso tralasciare, e che anch’esso si deve a Frege, è il recupero della logica come logica proposizionale nei con­ fronti della logica predicativa (o logica del termine) che era invece prevalsa in epoca precontemporanea. Si può anche dire, un po’ meno bene, il recu­ pero della logica stoica nei confronti di quella aristotelica. Una delle cose che colpisce di più, percorrendo una qualsiasi storia della logica premoder­ na, è che l’esemplificazione che prevale come canonica è «Socrate è morta­ le». Questo è un esempio assai complicato di situazione logica. Ho il sospet­ to che la tradizione provenga direttamente dall’Accademia, nella cui «aula magna» da un lato c’era un quadro di Socrate che parlava con i suoi disce­ poli e dall’altro sempre Socrate che aveva appena bevuto la cicuta. Quando Aristotele teneva lezione gli veniva forse naturale dire, accompagnandosi col gesto: «vedete, qui Socrate è vivo, là invece è morto, o sta morendo. Ma il fatto che stia morendo vuol dire che era mortale anche quando viveva. Diciamo dunque “Socrate è mortale”». Più seriamente, io credo che l’e­ semplificazione sia dovuta all’abitudine del tutto naturale di discutere i pro­ blemi di esistenza in connessione col tempo. «Socrate è vivo» e «Socrate è morto (= non vivo)» sono proposizioni tra loro contraddittorie, se non si tien conto del tempo cui si riferiscono. Ma «Socrate è mortale», morto Socrate, resta vera anche quando lui era vivo. Però prima che lui morisse non si poteva dire se fosse vera. Avrebbe anche potuto essere immortale. Si deve anche tener presente il modo tenuto da Aristotele nel definire il principio di contraddizione esclusa. Egli dice che e impossibile che una stes­ sa cosa, nello stesso tempo, appartenga e non appartenga a una medesima cosa, sotto lo stesso rispetto. Qui la complicazione appare proprio alla radi­ ce del principio. Ciò dipende dal fatto che è enunciato in maniera predica-

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tiva; questa maniera ha il vantaggio di essere intuitiva, ma si porta appresso un insieme di complicazioni, segno evidente che essa non è primitiva, da un punto di vista logico. Enunciato alla maniera moderna, invece, il principio ha un fraseggio molto secco:' ->(p & -’/?). Non c’è menzione di tempo né di aspetto. Per evitare fraintendimenti bisogna però specificare chep sta per un’intera proposizione, non importa quale, purché sia sempre la stessa. Per fare un esempio di logica proposizionale, è bene ricorrere alla logi­ ca degli Stoici, i quali fornivano quali esempi di proposizioni espressioni come tpcòg è ari (è luce), ìipépa èoit (è giorno), vvS, èotl (è notte), e così via. È facile capire che in questi casi la proposizione può essere affermata o negata solamente in blocco, essendone impossibile la scomposizione in sog­ getto e predicato. In «è giorno» non è possibile distinguere il quid o quod dal quale, quantum, agens, patiens, ecc. Gli esempi sono scelti ad hoc e non casualmente. Infatti in greco, come pure in latino e in italiano, non c’è nean­ che grammaticalmente l’obbligo di mettere nell’enunciazione il falso sog­ getto nominale. Certo la discussione sarebbe stata più capziosa se la lingua in questione fosse stata il francese, l’inglese o il tedesco, poiché in tali enun­ ciazioni si presenta un soggetto grammaticale che è il puro raddoppiamen­ to del predicato nominale, privo di senso logico. La logica proposizionale (o enunciativa) deve la sua fondamentalità proprio a questa primitività. Infatti il calcolo proposizionale corrisponden­ te è l’unico completo, cioè per ogni caso occorrente in esso si può dimo­ strare che valep o -p, coerente, cioè non contradittorio o escludente l’eve­ nienza di p &. ~p, e semplice, tale che in esso nessun assioma è implicito negli altri. La dimostrazione che esso gode di queste proprietà è offerta dal Primo teorema di Godei, mentre per il calcolo predicativo manca una sif­ fatta prova. Anzi, se questo non viene delimitato ad hoc, come diremo meglio, una tale prova non può nemmeno esistere. Così la logica dei pre­ dicati, pur essendo assunta dalla tradizione logica premoderna come intui­ tivamente più perspicua, non può esser da noi ritenuta come fondamenta­ le perché manca (e con ragione) di qualsiasi prova di completezza o di coerenza. Il calcolo predicativo ammette una tale prova solo se delimitato artificialmente a un’estensione finita, con limite all’infinito dei razionali, e ai predicati del primo ordine. I predicati del primo ordine ammettono solo la quantificazione del soggetto, mentre quelli del secondo ordine ammet­ tono anche la quantificazione dei predicati del primo ordine. Ora è questo calcolo del secondo ordine che non consente una chiusura sistematica, e quindi resta privo di assiomatizzazione. Purtroppo solo un calcolo predi-

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cativo del secondo ordine sarebbe in grado di fornire una giustificazione logica dell’aritmetica dei numeri reali, per lo meno nell’interpretazione logicistica di Frege e Russell. Ora il fallimento del programma formalistico di Hilbert, sancito dal Secondo teorema di Godei, determina non solo una restrizione consapevole delle procedure dimostrative, ma fa insorgere delle differenze filosofiche decisive all’interno dello stesso pensiero logico e/o matematico.

S. Quanto all’interpretazione o, meglio, alle interpretazioni della logica, trattandosi di raccordare dei calcoli astratti a delle esemplificazioni concre­ te, devo dire che la questione è assai controversa, che non può esser la stes­ sa per tutti. In genere occorre stabilire dei modelli quanto meno parziali che agevolino la comprensione del tipo di riferimento che si sottintende. Infat­ ti il significato in una disciplina astratta non può mai identificarsi con il rife­ rimento concreto, dato che questo per lo più non c’è, ragion per cui l’e­ sempio serve solo a capire, quando ci si riesca, che specie d’intenzione significante uno abbia in mente. Si distinguono per esempio predicazioni universali e particolari-, queste ultime sono concepite come negazioni delle prime. Sarebbe una quantifica­ zione universale dire «tutti gli uomini sono ricchi»; la negazione di quest’ultima, «non tutti gli uomini sono ricchi», equivalente a «qualche (non ogni) uomo è ricco (= povero)» è la quantificazione particolare. Ora c’è un’altra distinzione tra predicazioni ipotetiche e esistenziali. Ci sono alcu­ ni che interpretano le proposizioni esistenziali come particolari, e conse­ guentemente le universali come ipotetiche; in base al fatto ovvio che queste ultime non sono mai certe se l’universo di discorso (il soggetto di cui si par­ la nella quantificazione) è illimitato o indefinito il numero, e che per esibi­ re una particolare è sufficiente presentare un esempio di negazione di una universale. Basta che esista un uomo provatamente povero per confutare l’asserzione che tutti gli uomini sono ricchi. Una volta capito il meccani­ smo, non c’è bisogno di perdersi in spiegazioni. D’altra parte ci sono altri che, con non minori né meno plausibili ragioni, interpretano le esistenziali come universali, senza considerare le particolari, che in questo caso diven­ tano irrilevanti da esprimere. Allora dire che Socrate è mortale diventa equi­ valente a dire che «tutti i Socrati sono mortali». E non vale ribattere che di Socrati ce n’è solo uno; perché la predicazione universale non riguarda il numero degli elementi di una classe, ma la totalità della loro inclusione in essa. Trattandosi di materia teorica, l’obiezione è piu convincente di quan-

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to sembra. In logica solo le predicazioni universali (o totalizzanti) possono avere lo statuto di vere proposizioni logiche. La logica moderna ha contribuito come poche altre discipline al risor­ gere di una filosofia scientifica. Questa istanza è assai più forte e meno moderata di una semplice filosofia della scienza:, ed è un’esigenza che si fa valere anche in sede legittimamente storiografica. Oltre alla ripresa di auto­ ri e movimenti come gli Epicurei, gli Stoici, gli Scettici e i Neoplatonici, e di certe correnti medievali come i Terministi, i Modisti e i Nominali, cia­ scuno nel proprio specifico universo di riferimento, questa filosofia scien­ tifica sotto relativizzazione storiografica ha al suo attivo, per esempio, il recupero di Leibniz, come si è detto. La riprova che non si tratta di sterile erudizione accademica sta nel fatto che oggi Leibniz, malgrado la sua scien­ za non sia più la nostra, dice indubbiamente di più che Kant; e questo nono­ stante che il suo modo di pensare, spesso tanto formalistico, sia avvertito con fastidio da molti studiosi storicizzanti. Sia ben chiaro che non ho volu­ to parlar male di Kant. Gli autori che ci erano cari nel XIX secolo ci sono presenti anche ora: Mozart non costituisce una confutazione di Bach, né Beethoven degli altri due. Forse il cambiamento sopravvenuto attiene più alla strumentazione che alla sintesi concertatoria. Con tale strumentazione tuttavia la nostra epoca aggiunge una nuova sensibilità per aspetti diversi, che forse in passato apparivano tra loro ripugnanti. In base a queste consi­ derazioni si può forse affermare che, mentre nello storicismo di stile XIX secolo non c’era modo di emergere se non con opzioni ideologiche, e forse estetizzanti, di rottura stilistica con una tradizione, oggi invece si gode di una (per principio) illimitata contemporaneità col passato, ragion per cui è impossibile che per quanto individualista uno non trovi la propria nicchia di soddisfazioni in un passato che glielo consenta: e quindi si deve consta­ tare che mai finora un’epoca era mai stata tanto ricca di interessi tanto diver­ si tra loro. E questa una contraddizione? No, se si sostituisce alla polemica autoesaltantcsi e in fondo drogata la tolleranza non dell’indifferenza ma del­ la mutua valorizzazione. La conclusione è forse troppo irenica, o più edifi­ cante del dovuto. Come si deve interpretare quanto detto? Forse, nel sen­ so di un superamento della storia stessa. È difficile parlare in termini di civiltà postindustriale, e non so nemmeno se sia corretto farlo; in ogni modo si scorgono gli estremi della questione plausibile che il discorso racchiude. Nei nostri termini il discorso si fa ancora più utopico; ma nel momento in cui si è capaci (o si fosse capaci) di esser contemporanei di Parmenide e di Kant, di Aristotele c di Leibniz, di Buridano e di Russell, e così via: in tale



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evenienza si vivrebbe un momento che ha superato la storia. Esso ancora disporrebbe di grandi risorse di simpatia, ma non coltiverebbe predilezio­ ni o antipatie per nessuno. Non so abbandonare l’argomento senza toccare in maniera molto libe­ ra un folto insieme di considerazioni conclusive. Ritorniamo al tema della logica proposizionale. Questa logica ha come oggetto il vero o il falso; ma in un altro senso: non come variabile proposizionale. Altrimenti si potreb­ be dire che essa non ha oggetto, o che ce l’ha come obbligo puramente tra­ scendentale. L’oggetto della logica, che dovrebbe essere il vero, per via del­ la variabile non c’è più. C’è la possibilità di vero o falso; ma la possibilità, ridotta all’oggetto, diventa l’ambivalenza del vero o del falso. Dunque l’og­ getto non è vero, non è reale: ma è il confuso insieme di vero o di falso. A questo punto avvertiamo una certa confusione: che cosa vuol mai dire ave­ re p£r oggetto non questo o quello, ma l’insieme di «questo o quello»? 9. Qui sotto processo va il capire. Che cosa vuol dire mai «capire», se con esso intendiamo mettere sotto un’etichetta, di cui non comprendiamo la genesi, qualcosa che diciamo di aver capito solo dopo averlo messo sotto un’etichetta? Se dico il «vero» o il «falso», come oggetti, che cosa si capisce? O se dico, peggio ancora, il «vero o falso» come unico oggetto, che cosa si capisce ancora? Ma se invece io dico «Socrate è mortale», questo si capisce: ma che cosa? Che forse una verità venga fuori dall’unione di due rappresen­ tazioni? Ma questa idea del congiungimento è una strana teoria. Perché allo­ ra la disgiunzione del vero o del falso non dovrebbe costituire una verità? Ma non è forse ragionevole che logica e matematica debbano riscoprire la loro antica origine e parentela formale? Nessuno oggi metterebbe in for­ se un’idea del genere. Evidentemente la matematica ha in comune con la logi­ ca il principio di un’identità puramente formale, costituita di pensiero o di attività di carta e matita; non certo di sassi o sacchi di cemento. Ma la mate­ matica ha in proprio un principio induttivo, per il quale essa può allargare la propria conoscenza di identità astratte. Lo stesso non si può dire della logi­ ca, la quale può allargare il suo momento formale solo approfondendolo; non come principio d’induzione. In assenza di tale requisito puramente intensionale dell’approfondimento, estensionalmente la logica potrebbe con­ siderarsi, come dice Kant, già acquisita fin da Aristotele. Come si possono unificare le due discipline, se non dicendo che il loro oggetto comune è «il formale o l’induttivo: cioè l’identico e il diverso»? Questo problema mi pare che non sia stato risolto, ma che possa esser foriero di nuovi guai.

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Nella logica modale si considerano due altri modi di dire o maniere di pensare: il possibile e il necessario. Essi vengono formulati, nell’interpreta­ zione chiamata de dicto, come prefissoidi che reggono per intero una pro­ posizione. Per esempio «possibile» si esprime dicendo «è possibile che />»; «necessario», «è necessario che -*p». La negazione del possibile produce il non-possibile, cioè l’impossibile; e «è impossibile che/?» è lo stesso che dire «è necessario che ip». Questa opposizione, strutturalmente parlando, è duale. Allo stesso modo negando il necessario, «non è necessario che p» dovrebbe essere equivalente a «è possibile che ->/?». Entro questi limiti va tutto bene. Ma questo algoritmo non esaurisce tutto il campo della logica modale. Il possibile è incluso nel necessario, o ne è escluso? Se si risponde di sì, conformemente a un uso leibniziano del possibile, si dà la sequenza necessario —» esistente —» possibile, insieme con la duale impossibile —» ine­ sistente —» possibilmente inesistente. Inesistente, concepito così come con­ tingente, si può considerare la congiunzione di «è possibile che p» e «è pos­ sibile che -p». In tal modo il quadro diventa coerente, ma occorre notare che questa è solo un’interpretazione: quella, per l’appunto, di Leibniz. Per la verità ne esistono almeno una dozzina di altre differenti da questa, e tut­ te perfettamente coerenti. A parte questo, esiste anche un’interpretazione de re della logica modale, fondata sul predicato e non sulla modificazione del­ l’intera proposizione. Essa è più coerente con l’interpretazione predicativa, e cioè concettuale (del termine) della logica. E non si può tanto facilmente eliminare, poiché è profondamente radicata nei nostri usi linguistici, anche scientifici. Anziché dire per esempio che è possibile che siap, in questa inter­ pretazione preferiremmo dire che il predicato di p è potenzialmente vero. Di qui discendono gli usi del possibile in re, il potenziale e il virtuale. Anche della logica della probabilità si può dare un’interpretazione de dicto e una de re. La prima riguarda la probabilità della previsione, espressa nel % del numero dei casi in cui ci si aspetta; l’altra invece concerne la probabi­ lità intrinseca del caso o evento, che corrisponde piuttosto a un grado di esi­ stenza «minore» di 1. Vi è poi un’ulteriore specializzazione del formale, che è il normativo. I suoi prefissoidi «è obbligatorio che /?», «è permesso che p» ccc. sono gli equivalenti del modale in campo etico. Anche il normativo può esser trattato al calcolatore, poiché le corrispondenti combinazioni sono suscettibili di calcolo. Parimenti, alla normatività de dicto corrisponde l’in­ terpretazione «giuridica» del comportamento, mentre a quella de re (predi­ cativa, ossia significante) l’interpretazione «morale». Questo richiama alla mente il fatto, in generale, che in un certo senso la logica modale intesa come

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de re consiste nell’attribuire al mondo stesso necessità (razionale) e libertà (contingente), mentre la concezione de dicto non concede al mondo che la {atticità (modalmente neutra) e restringe alla mente dell’uomo, c al suo lin­ guaggio, lo spazio illusorio (epifenomenico) di quell’altro significato. Credo sia risultato chiaro in che senso la logica, pur avendo un proble­ ma di linguaggio in proprio, non possa dipendere da una lingua o da consi­ derazioni linguistiche. Esiste di certo una logica interna alla lingua (ad ogni lingua parlata o scritta), ma questa non costituisce la fondazione della logi­ ca senza frase. E mi pare che la situazione sia illustrata al meglio dal caso del­ la logica modale. Aristotele segue la lingua, e non ammette che il possibile segua dal necessario. Secondo lui il possibile esprime anche il potenziale; non è solojl òvvutóv. ma il òuvaiiEi òv. Da ciò consegue che quest’ultimo, essen­ do virtualità di essere e di non-essere, è più ampio e non può risultare inclu­ so nel primo, che è solo àvéyxT], necessità d’essere. Perciò, volendo attener­ ci alle regolarità della lingua, noi dobbiamo relativizzarne la logica fino al punto di non poter più disporre di un calcolo. Viceversa, assumendo la mate­ matica interna a una parte del linguaggio, noi possiamo dissociare la logica dalla linguistica e stabilirne l’autonomia. Il prezzo da pagare consiste nella lunga catena del medio interpretativo. La logica conquista l’indipendenza, ma si lascia dietro un lungo strascico di pensieri e di commenti. La logica è una nozione chiara solo in apparenza. Essa fu inventata dai greci antichi, che in questo come in tanti altri campi ci sono stati maestri. Ma questo non deve ingannare, poiché tutto il pensiero moderno ha un rivolgimento opposto a quello greco. Tale opposizione è dialettica, d’ac­ cordo, nel senso che conserva il significato di ciò che nega. Ma vediamo il nostro caso. È la logica un concetto? Per dir di sì, bisogna accertarne l’uni­ vocità. Senza univocità non c’è concetto. Ciò non toglie che possano esser­ ci dei significati oscillanti e ambigui, interessanti fin che si vuole, ma che non possiamo accreditare come concetti. Detto questo, mi pare che per un orec­ chio moderno la logica non sia un concetto. Essa è un ibrido di due com­ ponenti: la lingua (o, nel senso che s’è detto, la psicologia) e il calcolo, che si assomma nella capacità di dare una matrice. Dunque non esiste come con­ cetto la logica, ma solo come combinazione limitativa su entrambi i lati di linguaggio e calcolo. Oggi i computer offrirebbero abbondante prova in proposito, se non fosse che la logica del calcolatore è limitata a una sotto­ specie di logica. La potenza mentale dei greci fu abbastanza suggestiva, combinata con la loro lingua, da produrre persistenti oggetti fantasmatici. Uno di questi è quello che fu chiamato logica.

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Credo sia sufficiente dir questo per liberarci dal «linguisticismo» che tut­ tora incombe nel discorso logico. In precedenza c’era stato il pericolo del­ l’attribuzione della logica alla psicologia. Quest’ultima era intesa non solo come scienza della vita psichica, ma in particolare della sua fisiologia, ivi incluso il pensiero e le altre attività psichiche superiori. Ora è facile demoli­ re questa tesi, ma l’onore di essere il primo ad aver formulato una decisiva obiezione contro lo «psicologismo» spetta a Husserl. Nelle sue ricerche logi­ che del 1899 egli osservò che nessuno dubita che la fisiologia del pensiero sia un fatto materiale, ma che su tale base si giustifica altrettanto bene tanto un ragionamento giusto quanto uno errato. La differenza specifica tra un ragio­ namento corretto e uno scorretto non si può misurare in kilocalorie, dicen­ do per esempio che il pensiero corretto costa più sforzo e quindi consuma di più, o invocando una misteriosa attività psicofisica come «scatola nera» di cui non sappiamo nulla. La differenza non può consistere che nel fatto di ragionare come si deve, e ciò vuol dire adoperare l’apparecchio fisiologico in conformità con leggi logiche, non a causa di esse. Così una calcolatrice arit­ metica (Husserl pensava a una di quelle macchinette di fine secolo che fun­ zionavano con un giro di manovella) funziona bene non perché essa sia in sé logica, ma perché strutturalmente è stata costruita in modo da produrre i risultati desiderati; se fosse guasta o costruita male, produrrebbe altrettanto bene risultati errati. Ma la logica non si identifica nemmeno con il linguaggio, nemmeno con quello artatamente costruito allo scopo. Probabilmente questo è un errore simmetrico al precedente. Nella fattispecie fu Russell a scoprire l’antinomia corrispondente. In genere, dice Russell, i greggi sono formati da pecore e non, a loro volta, da greggi. Ma supponiamo che, in conformità con la teo­ ria degli insiemi, io voglia parlare di greggi formati di greggi, e così via. Lin­ guisticamente non vi sarebbe nulla da obiettare, purché si proceda molti­ plicativamente e non di visivamente. Per quanto ne sappiamo in base agli usi linguistici, le classi possono sia contenere sia non contenere se stesse come elemento. Entrambe le costruzioni sono ammesse. Supponiamo ora che io voglia costruire la classe di tutte le classi che non contengono se stesse come elemento. Linguisticamente il costrutto è senz’altro possibile. Ma ora ci si chiede se tale classe complessiva contenga o no se stessa come elemento. Ne risulta una risposta antinomica. Se infatti la classe contiene se stessa, per definizione viene a far parte di quelle classi che non contengono se stesse come elemento; se invece si dice che non contiene se stessa, è una di quelle classi che dovrebbero esservi contenute, sempre in virtù della costruzione.

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PRIMA LEZIONE

immaginiamo noi. Esso c’è solo nel suo esser-così. Questa differenza non si può riferire a parole; si può solo ribadirla sperando che sia compresa. In termini appena un po’ più consacrati, si può dire che essa riguarda la diffe­ renza che c’è (o dovrebbe esserci) tra gnoseologia e ontologia, che non si può appiattire su un solo riferimento. L'ontologia assume i significati come se fossero fondamentali, quindi in rilevanza a tutto tondo; la gnoseologia li riduce a quel che ne possiamo conoscere in proiezione bidimensionale. Importante è notare che gnoseologia o ontologia non sono la stessa cosa. Si potrà sopprimere l’incomodo riferimento all’ontologia, ma poi resta di ren­ der ragione dell’altro, dei suoi limiti, soprattutto per quanto riguarda l’es­ sere, l’esistenza, l’oggetto. In conclusione, ho creduto di rispondere alle domande sulla logica: che cosa essa è? Da dove proviene? È forse linguistica? È forse psicologia? È cal­ colo, o un giochino che si fa sui simboli? A tutte queste domande ho cerca­ to di rispondere non raccontando una favola, più o meno plausibile, ma con un sicvel non. Il grande problema che rimane aperto è quello dell’applica­ zione della logica. Con questo a mio parere resta stabilita la grande differenza tra la logica, per quanto moderna, e la matematica. La matematica è infatti cresciuta insieme con le sue applicazioni. Questo non si può dire della logi­ ca, a meno che non si equivochi sul tenore della domanda. Quando per esempio Newton e Leibniz inventano il calcolo, è un pezzo che i fisici mate­ matici stavan dietro al problema delle tangenti. Trovato l’algoritmo, di lì a presso vien subito trovata l’applicazione. Noi oggi troviamo una quantità di cose di cui non sappiamo, presumibilmente, se ci sarà mai un’applicazione. Il ragionamento sui mondi possibili, pur essendo sensato, non è affatto con­ cepito in vista di un’applicazione su altri pianeti. E d’altra parte sarebbe stra­ no che ciò dovesse sempre succedere, che la matematica chiedesse alle scien­ ze empiriche su quali campi esercitare i suoi algoritmi. Quando tale esigenza si determina in genere sono gli scienziati empirici stessi, non i matematici, ad applicare in quei campi del sapere una sufficiente competenza per cavarsela. Ma la nostra situazione è molto diversa. Non si dimentichi: Vin sé è ciò che si risolve nel Sosein, nell'esser così in senso fantasmatico-conoscitivo; il per sé non si risolve, essendo ciò che è reale per conto suo. La definizione non è effettiva, ma credo di doverci ritornare più volte in seguito. Noi lutti vogliamo esser realisti, anche il filo­ sofo. Solo, non si sa come dirlo. Ho cercato di dirlo, ma forse con un truc­ co. Se è così, mi dispiace.

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Nota bibliografica La «logica del concetto», o del «termine», le cui lontane origini risalgono alla tradizione delle «categorie» di Porfirio e, indirettamente, all’Organon di Aristotele, assume la forma apparentemente definitiva di «concetto della logi­ ca» nell’idealismo tedesco, di cui resta esemplare il testo di George Wilhelm Friedrich Hegel, Wissenschaft der Logik, 3 voli., Berlin 1812-16 [Logica]. Nell’indirizzo «scientistico», o cartesiano, del pensiero moderno, la logica è invece considerata ineffabile proprio perche immanente al «metodo». Que­ sta tradizione culmina col positivismo classico, che pone esplicitamente il divieto della logica formale: v. in proposito Auguste Comte, Cours dephilosophie positive, 6 voli., Paris 1830-32 [Corso]. E inoltre, dello stesso, Système depolitiquepositive, 4 voli., Paris 1851-54 [Sistema]. Il tratto d’unione e di continuità tra la concezione tradizionale della logica (o del metodo) e quel­ la invalsa all’inizio del nostro secolo è tuttora considerato l’ottima ed equili­ brata silloge, da un punto di vista empiristico, di John Stuart Miìì/A System of Logic (ratiocinative and inductive, being a connected view of thè principles of evidence and thè methods of scientific investigation), London 1843 [Sistema di logica]. L’isocronia di contemporaneità presenta un tratto carat­ teristico saliente, che oggi consideriamo preterintenzionalmente profetico, nell’opera di Bernhard Bolzano, Wissenschaftslehre (Versuch ciner ausfùhrlichen und gròsstenteils neuen Vorstellung der Logik mit steter Rucksicht auf deren bisherigen Bearbeiter), 4 voli., Sulzbach 1837 [Epistemologia]. I tre autori sono citati come rappresentativi del nuovo indirizzo del pen­ siero in logica. Il contrassegno del «nuovo» e il superamento della logica categoriale, o del concetto. Ciò è stato ottenuto identificando la logica con un «calcolo» e individuando, al di là di ogni psicologia, una struttura di «reticolo» precedente l’espressione linguistica sia del concetto sia della pro­ posizione. Si tratta anzitutto del lavoro pionieristico di George Boole, An Investigation of thè Laws of Thought (on which are founded thè mathe­ matica! theorics of logie and probabilities), London 1854 [Leggi del pen­ siero]. Si ha quindi l’«algebra della logica», ossia il tentativo, alquanto pre­ maturo, di trattare algoritmicamente i problemi di logica, per cui v. Ernst Schròder, Vorlesungcn iiber die Algebra der Logik, 3 voli., Leipzig 1890 [Algebra della logica], c infine la filosofia «logicistica» della logica, espres­ sa sotto forma di interpretazione e recupero della logica di Leibniz, in Louis Couturat, La logiqne de Leibniz (d’aprcs des documents inédits), Paris 1901, e, dello stesso, Opiisciiles et fragments inédits de Leibniz, Paris 1903.

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PRIMA LEZIONE

Al nuovo secolo spetta l’effettiva opera di rifondazione, quale si esprime nel lavoro di Russell e altri tra il 1900 e il 1920: Bertrand Russell, The Principles of Mathematics, Cambridge 1903; On Denoting, «Mind», XIV, 1905, pp. 479 93; Introditction to Mathematica! Philosophy, London 1919; Alfred North Whitehead / Bertrand Russell, Principia mathematica, 3 voli., Cam­ bridge 1910-13 (li ed. 1925-27). In questo torno di tempo l’opera di Euclide consegue la sua prima edizione critica moderna, con l’intento di essere defi­ nitiva: Euclidi* Elementa, ed. Johann Ludwig Heiberg, 5 voli., Leipzig 188388; e inoltre The Thirteen Books of Euclid’s Elements, a cura di Thomas L. Heath, 3 voli., Cambridge 1908. Il principale fautore della nuova «logica proposizionale» è stato senza dubbio, Frege, al quale si deve la profonda opera di supporto, di giustifica­ zione e di fondazione per mezzo di un’adeguata ideografia: Gottlob Frege, Begriffsschrift (Eine der arithmetischen nachgebildete Formelsprache des reinen Denken), Halle 1879 [Ideografia]; Die Grundlagen der Arithmetik (Eine logisch mathematische Untersuchung ùber den Begriff der Zahl), Breslau 1884 [Fondazione dell’aritmetica]; Grundgesetze der Arithmetik (begriffsschriftlich abgeleitet), 2 voli., Jena 1893-1903 [Leggi fondamentali dell’aritmetica]; Kleine Schriften, Darmstadt 1962. Le «antinomie di Kant» si trovano esposte nella celebre Critica: Kritik der reinen Vemunft, A (1781) B (1787), A 426-61, B 454-89. Le obiezioni di Russell in The Principici of Mathematics, cit., cap. LII (Kant’s Theory of Space), pp. 456-61. Un altro punto di riferimento costantemente presente, sebbene etero­ nomo rispetto alla linea di sviluppo qui considerata, sono state le «ricerche logiche- con cui esordisce la fenomenologia contemporanea: Edmund FI us­ seri, Logische Untersuchungen, 2 voli., Halle 1899-1900 [Ricerche logiche]. Come introduzione generale e storica allo sviluppo qui considerato si veda William e Martha Kneale, The Development of Logic, Oxford 1962, che contiene la bibliografia corrispondente.

Seconda lezione Linguaggio La lingua, la comunicazione, l'informazione

i. Un primo rilievo da fare riguarda l’attuale interesse per il linguaggio. Esso a mio parere è incentrato sul rapporto tra l’esperienza c l’espressio­ ne, quindi tra l’impressione e l’espressione, è di carattere psicologico, pri­ mariamente, e solo di riflesso concerne anche la comunicazione e, da ulti­ mo, l’informazione. Questo interesse si inscrive nel tema della presa di coscienza da parte del pensiero critico nei confronti di quanto è effettiva­ mente dato a essa, e più in particolare della trasparenza con cui mostra i propri contenuti. La critica è rivolta alla tesi, per lo più tacita, con cui in precedenza si assumeva la perfetta trasparenza (o diafania) della riflessione e del medio comunicativo rispetto a tali contenuti. Esaminata con maggiore consape­ volezza, tale convinzione appare articolata in due momenti, uno psicologi­ co, che concerne il grado di consapevolezza che si può avere degli eventi della nostra vita psichica, c uno psicolinguistico, che riguarda il rapporto tra quel che ne sappiamo, o crediamo di saperne, e l’adeguatezza dell’e­ spressione usata. Con l’affermarsi della psicologia del profondo, il tema dell’inconscio (cioè della vita psichica inconscia) interviene in maniera sem­ pre più massiccia anche dal punto di vista di certi problemi linguistici: come per esempio nella genesi dei significati ambivalenti, modificanti o contrad­ dittori. Per noi più interessante è l’altro problema, quello della pertinenza dell’espressione all’intenzione significante e significata, sia da parte di chi parla, sia da parte di chi ascolta. La gestazione di questo problema linguistico risale abbastanza addietro nella storia del pensiero. E importante constatare, però, che la sua origine non deriva da vicende culturali o dalla loro storia, ma dipende del tutto naturalmente da difficoltà insite nel fatto stesso che il nostro pensiero non è immediatamente linguistico. Ingenuamente, noi crediamo forse di espri­ merci identificandoci in gran parte con quanto diciamo e quindi assumen-

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SECONDA LEZIONE

do la responsabilità della nostra espressione. Tuttavia a una qualsiasi obie­ zione che ci possa esser rivolta è difficile che non ribattiamo, e con un cer­ to risentimento, che la colpa è dell’ascoltatore: il quale non avrebbe voluto capire nella maniera giusta quanto intendevamo dire. A un grado di consa­ pevolezza più elevato, anziché dar la colpa all’interlocutore con frasi del tipo «non mi hai capito», appartiene il bisogno di riformulare in vari modi press’a poco equivalenti ciò che si è inteso dire, coscienti della difficoltà del­ l’espressione stessa. In questo caso la frase tipica è «non mi sono spiegato bene». Per chi parla non fa molta differenza che l’espressione sia stata frain­ tesa per l’ottusità dell’interlocutore o per l’imperizia nell’uso del mezzo espressivo; ma per chi ascolta la differenza consiste nel sentirsi attribuire una responsabilità o no, il che è essenziale per l’interesse della comunica­ zione. Questi limiti della comunicazione devono sempre esser tenuti pre­ senti e, direi di più, essi vanno accettati senza indulgere a razionalizzazioni («colpa tua», «colpa mia» ecc.), poiché sono già presenti nell’ambito di una conversazione a due tra interlocutori affiatati. Anche in questa situazione privilegiata capita spesso di ripetere interlocuzioni come «non è quel che volevo dire», «perché pensi proprio a questo?», «io avevo in mente un’al­ tra cosa» ecc. Una spia di ciò sono le interiezioni di conferma che chi parla inserisce periodicamente nel suo eloquio, come le interrogative «no?», «è vero?» e simili, che in genere sono (brutte) abitudini prive di significato, ma che tradiscono un’origine ben altrimenti significativa. Questo vuol dire che anche la conversazione è più spesso di quanto non si pensi un monologo a due e la comunicazione verbale in tal senso in gran parte illusoria. Questo fatto, se viene teorizzato in negativo, prende il nome di solipsismo, che è il discorso rivolto solo a se stesso (soli ipsi). In epoca moderna colui che ha introdotto tale tematica, sia pure preterintenzional­ mente, è stato Descartes. Tutto dipende dal suo ricorso all’evidenza, che e tale per la vita psichica singolare. E dal fatto che sull’intuizione di quest’e­ videnza, che egli suppone la stessa per tutti, si fonda la perspicuità del discorso comunicativo. Ciò incoraggia una propensione solipsistica, in net­ ta opposizione con le concezioni tradizionali, fondate sull’assenso dell’in­ terlocutore (conserisus gentium). Ma il luogo è più complicato di quanto appaia a prima vista, e converrà soffermarvisi un poco. Quando Descartes cerca di fondare la certezza dell’evidenza sull’intui­ zione fa perno su una circostanza dell’apprendimento che è abbastanza comune e, come filosofo, la generalizza (o meglio, come vedremo, la rende esemplare) quale fonte di tutto il pensiero razionale. Noi dobbiamo sem-

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pre risalire a un’esperienza che ci appare evidente per il fatto che l’intuizio­ ne è anteriore alla distinzione di soggetto c oggetto: c quindi chi esercita un atto d’intuizione non può fare a meno di identificarsi col suo oggetto, facen­ do tutt’uno con esso. Conviene non dare a queste espressioni un senso inde­ bitamente mistico o, meno che mai, orientaleggiante (quasi si trattasse di zen}. Quel che Descartes intende è molto semplice; tutto sta a vedere se è sufficiente come base di tutto il pensiero. Per dare un’idea della circostanza intuitiva del pensiero basterà un esem­ pio. Se io dico che un circolo (come circonferenza) è il luogo di tutti 1 pun­ ti equidistanti da un centro, chiedo agli ascoltatori di rappresentarsi un pun­ to come centro e una circonferenza formata dalla curva di tutti i punti che stanno alla stessa distanza dal centro. Ciò che io dico mi appare intuitivo semplicemente perché nessuno può capire questa specie di definizione sen­ za tracciare col pensiero una circonferenza che compia quel che io intendo. In altre parole, se uno comprende ciò che io dico deve anche fare quel che è richiesto, facendo coincidere apprendimento ed esecuzione. Se effettiva­ mente si verifica tale comprensione, l’intuizione diviene per così dire perfor­ mativa (o fattitiva}. Sono con ciò risolti tutti i problemi?

2. Abbiamo posto la questione in maniera ipotetica: se la performazionc passa all’interlocutore, allora l’intuizione di base non solo è comune a me e lui, ma è identica. Può tuttavia succedere che non passi, e me ne accor­ go dalla non coincidenza di altri risultati che ne derivano. Quel che Descar­ tes presuppone è che si dia un certo esercizio nella geometria, e quindi una certa immaginazione matematica in comune. Non è difficile acconsentire a ciò, dal momento che gli Elementi di Euclide furono pubblicati prima del 300 a.C. e da allora sono forse il libro più diffuso sull’argomento. Dicendo questo, però, facciamo appello a uno speciale consensus, che è quello degli esperti in materia, e questo non è esattamente quanto intende Descartes. Egli pensa a un’erudizione che sia sufficiente a capire l’argomento; è questa comprensione che lo rende performativo, quindi universale e per ciò stes­ so trasmissibile. In questo modo pensa di superare il solipsismo: una verità basata sull’intuizione è identica per qualunque essere pensante; in ultima analisi, quindi, non c’è neppure bisogno della comunicazione per trasmet­ terla. Paradossalmente il superamento del solipsismo lo riconferma a un altro livello. Questo, per quanto riguarda l’origine moderna del problema. Ma il riferimento all’intuizione si presta anche a un’altra conclusione, di esi­ to simmetricamente opposto.

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Descartes è uno di quei pensatori che dispone di un doppio cervello: una metà che pensa geometricamente, con linguaggio, cioè, enidiale (o d’imma­ ginazione raffigurativa, ma esatta): e una metà che pensa normalmente, secondo bon sens e il medio linguistico usuale, che è della lingua (francese o latino, poco importa) e non pertiene ad alcun linguaggio. E questo fatto può averlo indotto a credere che a quanto veniva intuendo geometrica­ mente, senza l’ausilio di schemi verbali, non occorresse che il complemen­ to di un’esposizione a parole per renderlo accessibile a tutti. Si tratta però di un’illusione, ed eccone le ragioni. La prima è che, come accennato, l’in­ tuizione (o il suo principio) vale al massimo per una parte della geometria, non per tutta, nemmeno ai tempi di Descartes; né, a maggior ragione, per tutta la matematica (geometria-raritmetica) o la mathesis o scibile in gene­ rale. L’altra è che non tutto l’intuibile per principio si restringe al sapere matematico; oltre a questo, ci sono i princìpi metafisici o, se non ci si cre­ de, quelli ben più complessi del cosiddetto senso comune. Entrambi questi fondamenti, l’uno formale, l’altro informale, non sono contenuti nei princì­ pi intuitivi della matematica; quindi richiedono un’evidenza (e un’intuizio­ ne) loro propria e corrispondente alla funzione. Gli esempi di princìpi intui­ tivi, sia metafisici sia di senso comune, sono tanto innumerevoli quanto poco interessanti: si va dalle illustrazioni del principio d’identità, per cui a = a, o di causalità, per cui nilsine ratione, al principio d’immanenza, per cui si può affermare solo quanto è conosciuto, o a quello dell’evidenza attuale dell’esperienza sensibile e fenomenica. Tralasciamo perciò questo punto, per rivolgerci a quello della distinguibilità e conseguente delimitazione di sif­ fatti princìpi. Devo infatti ammettere che il numero di tali princìpi sia delimitabile, o altrimenti niente vieterebbe di assumere (da un punto di vista empirico) che ce ne sono tanti per quante evenienze diverse di cui noi facciamo esperien­ za. Bisogna inoltre assumere che essi siano distinguibili, uno per uno. O altri­ menti, di nuovo, sarei costretto ad ammettere un’intuizione tanto globale quanto confusa, e in tale tripudio di esperienze unitive uno potrebbe chie­ dersi se io sia ancora in grado di discernere qualche cosa, o se mi trovi in pre­ da ai fumi della mistica più orgiastica e ossessiva. Quest’ultima osservazio­ ne tra l’altro spiega anche perché, nell’epoca delle possessioni diaboliche e della caccia alle streghe, Descartes pensi a una delimitazione dei princìpi di carattere drasticamente intellettuale, matematico e anzi geometrico. Dell’intuizione in sé è possibile soltanto dire che è anteriore alla distin­ zione di soggetto e oggetto. Ma son troppe le cose che son tali (vi rientra per

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esempio tutto Vinconscio) e non per questo le diremmo intuitive. Provando ad aggiungere dell’altro, non è facile evitare le incongruenze. Se dicessi, poniamo, che in un’intuizione (primitiva) si trovano uniti in maniera inscin­ dibile l’atto soggettivo e l’oggetto dell’intuizione stessa, dovrei fare uso di una distinzione astratta, come dice Hume, o, nel senso della scolastica, ver­ bale e cioè ex terminis. Posso anche dire che si tratta di una distinzione di ragione c non di fatto, nel senso di un’operazione che è possibile compiere solo intellettualmente. In realtà, e ai sensi della definizione di intuizione, non è possibile separare le due cose, atto e oggetto, che ho distinto nel pensiero. È bene soffermarsi alquanto su questo punto. In una bolla di sapone, per esempio, si può non solo distinguere ma anche vedere che c’è una superficie esterna e una interna; ma, ammesso che la bolla di sapone abbia uno spesso­ re monomolecolare, non potrò mai separare la superficie esterna da quella interna. Forse disponendo di sofisticate apparecchiature si potrebbero ver­ niciare le due superfici di due colori diversi; e guardando l’interno con un periscopio aghiforme, senza far scoppiare la bolla, con molta pazienza e peri­ zia si potrebbe osservare che il suo colore è diverso da quello esterno. Ma allora avremmo al minimo tre strati monomolecolari, e di nuovo l’impossi­ bilità di dividere esattamente tre interi per due. La separazione reale, in que­ sto caso fisica, rimarrebbe esclusa. La distinzione tra le due superfici di una sfera, l’esterna c l’interna, è fondata sul modello topologico del confine coe­ rente e chiuso; se voglio esprimere queste condizioni, non posso più ricor­ rere a un modello intuitivo che, per quanto ideale, non contiene in sé la ragione ultima; ma devo ricorrere a princìpi espliciti in senso verbale, che ne sono espressione. E «a parole» che riusciamo a separare l’esterno dall’inter­ no della sfera; in realtà non è così. Il modello riesce al massimo a renderci astrattamente intuibile questo stato di cose. Riassumendo: che cos’è che ci consente di compiere distinzioni anche là, dove in realtà nulla si può dividere? La risposta è chiara: è l’uso del lin­ guaggio. Il linguaggio riesce a dividere anche dove non c’è più niente da dividere. Ma questa è in fondo una prestazione minore del linguaggio. Esso inoltre porta a costruire entità (o identità riconoscibili) anche dove l’empi­ ria o la testimonianza dei sensi, limitata com’è alla ricezione di corpi (o entità individuabili) giustamente non può dirci più nulla. A mio parere, qui ha origine il problema dell’espressione. Il problema dell’espressione consiste nel fatto che, essendo il medio lin­ guistico eterogeneo rispetto a ciò che vi viene espresso, esso rappresenta contemporaneamente di meno e di più di quanto si vorrebbe. E tale prò-

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blema sorge allorché, usando il linguaggio, ci accorgiamo che il medio in questione (/) dice di meno, in quanto il linguaggio non è che l’appiattimen­ to per così dire bidimensionale, un quadro verbale di un insieme infinito di stati e relazioni, che non si potrebbe esprimere se non riducendolo secon­ do regole espressive; e nello stesso tempo (z7) dice di più, in quanto esso aggiunge a quanto rappresenta la struttura del suo modo di esprimere le cose, che non esiste in realtà, ma che nel quadro che ci viene presentato non si distingue da ciò che in esso vorrebbe essere simbolo di fatti esterni, che quindi arricchisce per virtù propria. L’eterogeneità del linguaggio rispetto alla realtà, esterna (o fisica) e interna (o psichica), fa sì che la corrisponden­ za con le cose non possa darsi che sotto forma di coincidenza punto per punto, e non per adeguazione. Se concepiamo il primo come un reticolo, la coincidenza andrà ricercata nei nodi, non nella rete stessa. Ora, che il linguaggio dica di meno di quanto c’è, fa parte di una consa­ pevolezza quasi immediata. Ma che possa dir di più, senza che ce ne accor­ giamo, è il risultato di maggior rilievo che deriva dall’essersi posto il pro­ blema dell’espressione. Entrambi gli aspetti, quello del difetto come quello dell’eccesso, sono rilevanti, anche perché si potrebbe dire che un difetto non avvertito aggiunge surrettiziamente all’espressione una completezza che essa non ha; ma il vero problema resta quello di escludere dall’interpreta­ zione del medio in senso realistico quelle proprietà espressive che fanno parte della sua stessa struttura, e che deformano inavvertitamente quanto vorremmo dire in semplice prosa. Ma questa distinzione tra un contenuto reale e una forma rappresentativa è molto difficile da mettere in opera: se non si dispone di linguaggi alternativi, è impossibile. Infatti per esprimere tale distinzione non posso che fare uso del controfattuale (il periodo ipote­ tico di terzo tipo): come avrei potuto esprimere il mio pensiero se non l’a­ vessi fatto con queste parole. Come si vede, la pluralità richiesta è di lin­ guaggi, non di lingue; abbiamo detto che ogni lingua ammette più linguaggi, condizione che è sufficiente alla bisogna.

3. Il problema acutizza dunque la consapevolezza che nel momento di esprimersi vi è sempre tensione tra ciò che ci si accinge a dire e quanto si sarebbe potuto dire, ma viene scartato, per esser solidali con la propria intuizione. Se il discorso è conciso e la selezione delle parole e degli schemi sintattici deve esser rapida, la coscienza controfattuale cresce di conse­ guenza. L’esito di questo conflitto tra perplessità c brevità si traduce in genere in una specie di legge dell’eloquenza decrescente. Ma mentre in anti-

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co questo fenomeno poteva forse essere attribuito a inefficienza e illetteralità del retore, in epoca moderna ciò diventa il contrassegno più eloquente circa la coscienziosità del dotto. È curioso che il problema dell’espressione non emerga con Descartes, ma la cosa si spiega se teniamo presente che il suo pensiero ha orientamento psicologico e non linguistico; la geometria essendo forse un linguaggio (enidiale), non certo una lingua. Dal nostro punto di vista, il fatto che egli non abbia saputo esprimere adeguatamente il proprio pensiero dipende dall’assenza pressoché completa di un’analisi del linguaggio, da lui considerato solamente mezzo esteriore di espressio­ ne, inessenziale e indifferente. Ciò è all’origine di notevoli difficoltà inter­ pretative, per esempio del fatto che noi distinguiamo un po’ troppo spedi­ tamente nel suo pensiero l’idea di una sostanza estesa, la materia fisica, e una sostanza pensante, che è V esprit. In realtà Descartes dovrebbe dire che non si tratta di due cose diverse, estensione e pensiero, ma di un tutt’uno ante­ predicativo (anteriore alla separazione dell’oggetto dal soggetto) in cui interviene come discriminante il medio linguistico che, geometrico o meno, vi istituisce l’oggettività. Noi, per sostanziare ciò che egli intende dire, dob­ biamo ricorrere alla fictio iuris di un’estensione che sorreggerebbe gli ogget­ ti fisici, reali, e che in tal modo li separa dall’azione che costituisce il modus operandi dello spirito immateriale. Ma siffatta separazione è interamente affidata alla virtù delle distinzioni di ragione, astratte e anzi fantomatiche, che non hanno identità fuori del linguaggio. Dobbiamo quindi reduplicare il mondo antepredicativo indistintamente soggettivo e oggettivo, nella fin­ zione di un mondo esterno, dove le cose appaiano distinguibili perché fisi­ camente separabili, essendo poste nell’estensione le une fuori dalle altre. Ma resta un cospicuo residuo, quello costituito da ciò che non è separabile se non con l’immaginazione, che è una prestazione del pensiero. Infine, ma questo andrebbe detto per primo, ciò che è chiaro c distinto è isolabile solo nel pensiero. Per una formulazione esplicita, adeguata del problema bisognerà atten­ dere Leibniz. Ancora Malebranche non lo pone in maniera riconoscibile, formale. La precisa dizione leibniziana c riconoscibile nella distinzione tra le nozioni (cioè cognizioni, non semplici idee) intuitive e quelle simboliche. Da notare che qui il simbolico viene inteso in senso strettamente letterale; formalmente è simbolo quel segno che convenzionalmente sta per qualco­ sa d’altro (supponit prò alio}, non solo eterogeneo ma estraneo alla sua nor­ male semantica: come le lettere anziché i numeri nell’algebra. Nel passag­ gio da Descartes a Leibniz si ripete più in piccolo quanto avevamo notato

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in precedenza, cioè una nuova alternanza nel prevalere di volta in volta di preoccupazioni linguistiche in luogo delle psicologiche; o viceversa. Per esempio, nel XIX secolo, dopo Kant e dopo gli empiristi inglesi (eccettuato Locke), non si sente più parlare per un pezzo del problema dell’espressio­ ne o del linguaggio. Viene cioè tacitamente assunto che la coscienza sia già chiara, che sappia quel che vuol dire, cioè diafana o trasparente a sé mede­ sima. Ma non trascorre molto tempo, e si dà esattamente la situazione inver­ sa. Si fa valere il punto di vista linguistico per il fatto che, non essendo la coscienza in grado di leggere i suoi contenuti come un paesaggio nella came­ ra obscura, si deve procedere per tentativi (ipotetici, controfattuali o comunque indiretti) allo scopo di identificarne quello verosimilmente più adeguato. Ma il problema è duale: non nello stesso modo, ma sempre cor­ relativamente, la coscienza perde la diafania del contenuto perché diventa consapevole di essere l’effetto di superficie di una vita psichica più riposta: con lo spuntare della psicologia del profondo muta il modo stesso dell’autocomprensione, la consapevolezza della presenza possibile di motivazioni inconsce rende insignificante quanto è trasparente all’autocoscienza forma­ le. L’alternanza periodica della tematica linguistica e di quella psicologica, tanto defatigante quanto in fondo inane, rende evidente il fatto che entram­ bi i fenomeni, e la loro stessa alternanza per reciproca induzione, si radica­ no nel momento antepredicativo dell’esperienza di sé da parte dell’uomo. Se il linguaggio esprima veracemente quel che avevamo in animo di dire; o se il voler dire corrisponda a una pulsione vitale piuttosto che a una reazio­ ne indotta: sono domande a cui non si può rispondere proponendo l’una in funzione dell’altra, ma richiedono decisamente un nuovo approccio, tale da contenerle entrambe. L’innovazione porta oltre le sistemazioni del pensiero della prima metà del XIX secolo: tanto l’idealismo come il positivismo, o l’empirismo appaio­ no decisamente superati. E come succede a tutte le rivoluzioni radicali, anche questa presenta un vasto effetto retroattivo. Ogni nuovo punto di vista esige la riscrittura di tutta la storia precedente. A questo proposito vicn naturale riconsiderare la questione connessa con l’intelletto agente (intcllectus agens) di Aristotele. In conformità con la sua teoria della potenza c dell’atto, Aristotele distingue nell’operare della mente un intelletto agente (voùg TtotTyrrzóg) e uno passivo (voùg JtaOrfrtzóg) che raccoglie nei suoi abi­ ti (memoria, conoscenza, abitudini propriamente dette) i proventi di quel­ lo. Per lo più, quando si parla di contenuti della coscienza, ci si riferisce all’intelletto inteso passivamente. Infatti quasi tutta la vita psichica di cui

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possiamo in qualche modo parlare è data dal deposito passivamente regi­ strato di un intelletto de-funto, non più in atto. Restando esclusa per Ari­ stotele l’autocoscienza del voùq, ossia la diafania e l’autonomia dell’intel­ letto in atto, ci si chiede com’egli possa pervenire a parlarci di una coscienza attiva, del voùg notr)Ttxóq. Obiezione che deve essersi fatta lui stesso, o che altri gli ha rivolto; e alla quale risponde che l’intelletto agente è dato insie­ me coi suoi contenuti, non direttamente, ma in maniera secondaria: èv JCOiQéQYtp, che in latino si traduce «in obliquo» e che noi potremmo rende­ re, quanto al senso, «con la coda dell’occhio». Dunque la datità o, meglio, con-datità della coscienza viene riconosciuta fin da colui che fu detto il filo­ sofo per eccellenza; la condizione del suo apprendimento è forse un po’ troppo limitativa, ma devo dire che, come punto di partenza, è forse la cosa più onesta che sia stata detta in proposito. Il problema è un altro. Ed è che se la coscienza, rispetto ai suoi contenuti, è data perifericamente, indiretta­ mente e come di riflesso, essa non è autonoma, né autoctona, né solidale con tutto l’essere umano che la esprime (e sia pure il filosofo). E quindi, trala­ sciando qualche passaggio, la domanda diventa: donde (da chi o che cosa) si riversa in noi l’intelletto agente, la scintilla illuminante della coscienza? La risposta varia dagli scolastici, che ponevano il dove in Dio, per arrivare fino a noi, che postuliamo delle motivazioni inconsce, sebbene non inco­ noscibili, del nostro agire, compresa l’attività intellettuale. Lo spettro rico­ pre una distanza enorme tra 1 suoi due estremi; tuttavia è importante ren­ dersi conto che la differenza nelle risposte può risultare esser da ultimo puramente verbale e dipendere dalla forma del linguaggio che ci siamo impegnati a sostenere. Certo, per dire che la motivazione inconscia e la volontà di Dio sono la stessa cosa, occorrerebbe un supcrlinguaggio in cui poter quanto meno formulare, non si dice dimostrare, tale equivalenza; cosa che per il momento sembra esser fuori della nostra portata, ma che non ci vieta di ricorrere alla figura retorica dell’insinuazione.

4. Ritorniamo al nostro TÓnog, il linguaggio. E precisamente confron­ tiamoci con una sua prestazione particolare, che è la descrizione. Che cos’è una descrizione? Essa non è un ricamo eseguito con le parole, ma dal pun­ to di vista teorico è una proposizione, poiché le spettano il vero o il falso. Quindi la descrizione è un’espressione soggetta a particolari limitazioni del suo oggetto, se essa deve valere come vera. Teniamo presente che io posso descrivere il fiore, la foresta, la montagna, o /'Australia; ma non altrettanto bene dirò di volerlo fare con itti fiore, una foresta, un monte, o un conti-

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nente; infatti l’assenza del determinativo (individuante) mi obbliga a riflet­ tere su ciò che in genere è comune a ciascuna di queste cose, e quindi rischio di finire col descrivere un sistema di classificazione, non qualcosa di vero o falso. Da quanto detto si staglia la difficoltà cui alludiamo. Come posso descrivere ciò che passa nel mio animo? Solo in certi casi estremi sono in grado di dire se sono triste o allegro, se sto bene o male, a che cosa io pen­ si o che cosa mi aspetti. Non è far professione di atarassia dire che per lo più tali questioni mi appaiono indecidibili, ma un rendersi conto che la descri­ zione della vita psichica porta immediatamente, o quasi, a discutere della classificazione che si ha in mente. Il fatto che la classificazione dei fenome­ ni psichici (rappresentazioni o idee, sentimenti e giudizi, secondo Brenta­ no) sia tuttora un problema, anche se meno discusso di un tempo, la dice lunga circa il loro tenore di oggetti delimitabili. In effetti il problema pare mal posto. Una domanda più adeguata, anche se forse altrettanto inconclu­ dente, potrebbe essere: quale realtà psichica ho presente, che non sia già contenuta nei modi verbali che vengo usando e che per virtù propria con­ tribuiscono quanto meno a determinarla? La risposta non dovrebbe conce­ pirsi come alternativa (sì o no, vero o falso, reale o irreale), ma nei termini di un riempimento intensivo (più o meno) di certe attese in proposito. In alternativa si darebbe la possibilità di impiegare un linguaggio già bloccato nel suo lessico semantico, articolato in suddivisioni fino al limite del discer­ nimento, al quale fornire risposte in termini di tutto o nulla, senza sfuma­ ture. Si tratterà poi di reinterpretarlo correttamente. In realtà è il linguag­ gio usato dal metodo dei questionari, che si avvalgono anche del sistema delle domande incrociate e delle risposte date involontariamente. Ma in tal caso chi si esprime descrive la realtà con un linguaggio che non gli è pro­ prio, le cui risposte vengono trattate come un qualsiasi dato di fatto este­ riore, senza ciò che contraddistingue il fatto psichico come tale e lo rende ambiguo positivamente, dico l’interazione dinamica con la coscienza. E in ogni caso ci si troverebbe confinati all’uso di un linguaggio e non di una lin­ gua; e anche a proposito di un siffatto linguaggio tecnico ci si potrebbe sem­ pre sensatamente chiedere che cosa esso descriva: se qualcosa di effettiva­ mente vero di per sé, o non piuttosto il modo che alcuni tecnici intendono impiegare per passare il tempo chiacchierando di qualcosa. Come si vede, l’approccio che ora pratichiamo è molto diverso da quel­ lo logico che abbiamo seguito in precedenza. Ciò dipende dalla differenza tra lingua e linguaggio. Se si procede da un punto di vista logico, si perse­ gue l’intento di mettere a punto una struttura, la quale è essenzialmente un

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fatto (o meglio un «da farsi») extralinguistico, alla stessa stregua di una rete ; ) ferroviaria, un sistema di canali, o un gioco di pedine sulla scacchiera. Natu­ ralmente per esprimere tutto ciò occorrerà fare uso di una lingua, specie se ho bisogno di collaborazione; e probabilmente sarà più opportuno allo sco­ po sviluppare una funzione speciale della lingua stessa, che chiameremo il «linguaggio», della logica, o di quel che si tratta. Invece dal punto di vista propriamente linguistico, che ora pratichiamo, si tratta magari di parlare delle stesse cose (oggetti di pensiero, relazioni connettive, ordinamenti ecc.), ma senza presupporre uno speciale linguaggio in cui inserire tali idee, obict­ tivandole. L’approccio linguistico usa la lingua come mezzo di comunica­ zione, non di obiettivazione; non intende delimitare a priori una certa fun­ zione o uso speciale della lingua, allo scopo di fissarne i significati in senso tecnico. La lingua si assume sempre globalmente, con tutte le sue funzioni e sistematiche ambiguità di lessico. In generale, quando parliamo di lingua ci riferiamo all’italiano, all’ingle­ se, al francese o ad una qualsiasi altra lingua del caso. Non risulta infatti pos­ sibile parlare di un linguaggio, comunque inteso, se non presupponendo la comprensibilità immediata o già acquisita di almeno una di tali lingue. La necessità di ribadire una distinzione, che dovrebbe apparire quanto meno nell’uso come scontata, è dovuta al fatto che nel tradurre dall’inglese pub­ blicazioni di logica e di linguistica ci troviamo immancabilmente di fronte all’unica parola language, che a volte significa linguaggio, ma a volte lingua (come nella dizione colloquiai language, che non ha molto senso tradurre letteralmente). Accettiamo provvisoriamente che il concetto di lingua sia ret­ to dal criterio di una traduzione da una lingua all’altra, la quale consenta di mantenere, come si dice, lo stesso significato. Non tenteremo qui di dire (non si parli di definire) che cos’è il significato; basterà constatare che esso è ciò che tutte le lingue hanno in comune, dal momento che regge la pratica della traduzione. Da questo consegue che ogni lingua deve essere in grado, in teo­ ria, di esprimere qualsiasi significato, e ciò per qualsiasi funzione del lin­ guaggio. In realtà la cosa è un po’ meno assiomatica, ma nulla vieta di sup­ porre che, nel caso, uno possa imparare la lingua nella quale l’espressione racchiude il significato nella maniera più calzante. La lingua dunque si rife­ risce (non direttamente, ma riflessivamente) a quei prodotti, i significati, che vengono espressi con parole o mediante frasi dotate di senso compiuto. Abbiam detto che bisogna cautelarsi contro l’equivocazione. Per esem­ pio la lingua matematica, di cui parla Galilei, che c composta di triangoli, rettangoli, circoli, e così via, tanto che chi non la capisca non può intcn-

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derne letteralmente parola, dovrebbe inequivocabilmente dirsi, piuttosto, linguaggio. Il concetto di linguaggio è diverso da quello di lingua. Per un verso ne costituisce un sottoinsieme speciale, che non allarga la lingua, ma ne fissa una funzione o uso. Per esempio, con l’osservazione un po’ irrita­ ta «ma che linguaggio tieni?», alludo al fatto che l’interlocutore faccia uso di modi inappropriati al senso del discorso. Nel caso di espressioni oscene si suol ribattere, inappuntabilmente, «codesto è un linguaggio osceno». Ma per altro verso il linguaggio è più esteso della lingua, nel senso che com­ prende, mediante neologismi, termini tecnici o uso di deittici specifici, mol­ te più occasioni di significato. Parliamo infatti di linguaggio delle arti figu­ rative, di linguaggio musicale, di linguaggio del cinema ecc., con dizione che dopo rutto resta accurata, non metaforica: a nessuno verrebbe in mente di fare un uso colloquiale (come lingue) di tali linguaggi. Sono poi del tutto privi di qualsiasi sospetto di metaforicità gli usi appropriati di linguaggio geometrico, linguaggio della meccanica quantistica, o anche del codice pena­ le. Una specificazione interessante del linguaggio è quella formale., che può arrivare a essere assiomatica se il linguaggio in questione, oltre a esser for­ male, sottosta a regole di formazione e di trasformazione coerenti e com­ plete. Abbiam già parlato di ciò nella parte dedicata alla logica; qui ripetia­ mo lo stesso argomento, ma in una generalizzazione tematicamente linguistica. Le regole di formazione sono quelle che prescrivono a un enun­ ciato ben formato, poniamo, di esser composto da un termine-soggetto, una copula e un termine-predicato. Le regole di trasformazione operano sugli enunciati ben formati e dicono quali tra loro, pur essendo diversamente for­ mati, si possono ridurre a uno solo; e quali intrattengano rapporti di dipen­ denza unilaterale, non equivalente. Questa precisazione mette in luce il fat­ to che, anche in un linguaggio formale, è indispensabile la preliminare divisione, nel linguaggio stesso, di elementi (termini, relazioni) di un tipo o dell’altro, prima di procedere a combinazioni dei tipi diversi per dar luogo, con le regole di formazione, a sequenze di forma prevista. E questo il pro­ blema delle categorie semantiche (o dei modi significando nel linguaggio dei modisti medievali), sul quale dovremo ritornare in seguito. La distinzione tra lingua e linguaggio può esser meglio compresa dicen­ do che per esempio la Divina commedia e scritta in lingua italiana, prescin­ dendo dalla differenza storica tra l’italiano di Dante c quello di adesso, cosa che fa pur sempre parte della lingua, non del linguaggio. Al massimo pos­ siamo dire che la lingua vi è esemplificata in un uso poetico del linguaggio; osservazione che nel caso sarebbe poco calzante, trattandosi di commedia

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nel senso di Dante, cioè di componimento basato sulla commistione di diversi stili (o funzioni) e in questo simile alla lingua parlata. Piuttosto, se come di solito l’opera è corredata da un commento in calce di carattere sto­ rico, cronachistico, stilistico e filosofico-morale, allora abbiamo una esem­ plificazione di altri diversi linguaggi entro una stessa lingua. Per converso posso dire che gli Stoi/Eta o Elementi di Euclide, benché redatti in greco, esibiscono indipendentemente il linguaggio della geometria per l’appunto euclidea: la qual cosa si può dire, oltre che in greco, in arabo, in latino e per­ fino, grazie al lavoro del padre Matteo Ricci, nella lingua cinese. Dovrebbe qui esser chiaro che si tratta dello stesso linguaggio che parla della geome­ tria euclidea in lingue diverse. Tocchiamo qui di striscio la controversa questione della traducibilità del­ la poesia. Croce per esempio negava che lo si potesse fare, mentre Gentile lo ammetteva (citiamo due autori che appartengono a una stessa situazione di cultura). Ci si chiede però come Croce potesse citare Ibsen, dato che non conosceva il norvegese; e perché mai Gentile, benché tradotto in molte lin­ gue, sia così poco frequentato dagli stranieri. A parte ciò, è evidente che conservare quel che Jakobson chiama la funzione poetica col variare della lingua è cosa di estrema difficoltà. Anzitutto, trasferire insieme col signifi­ cato primario (denotativo) il gioco di assonanze, dissonanze, sinonimie e contrasti che formano il significato secondario (connotativo) o la coloritu­ ra del significante (la parola pronunciata o letta), costituenti gran parte del tessuto materiale della poesia, specie se moderna, dipende da tali contin­ genze che una bella traduzione resta pur sempre un caso fortunato. Sarem­ mo dunque tentati di dar ragione a Croce, se non fosse per due nei essen­ ziali alla plausibilità del suo argomento. 11 primo è contro Jakobson: non si può parlare di una funzione poetica. Parlare di funzione ne presuppone l’u­ nicità, come nell’esempio della geometria euclidea; mentre qui si tratta di non so quante c quali funzioni di volta in volta diverse. Se non si pongono limiti parafrastici alla traduzione, dato che questa riguarda il significato e non la poesia, non si vede perché L'infinito di Leopardi non possa esser reso da una trentina di pagine di fitta prosa cinese. Non si pretende che una poe­ sia debba tradursi in un’altra poesia della stessa lunghezza, solo di lingua diversa. Ma c’è un altro modo di circonvenire la difficoltà, di cui abbiam già parlalo. Ed è quello di imparare di volta in volta la lingua da cui si deve tra­ durre col grado di competenza richiesto per poterlo fare bene, s’intende, parafrasandola. Tutto sommato, quindi, concordiamo da ultimo con Gen­ tile. Croce non ha capito che la traduzione di una poesia non ha bisogno

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d’essere, a sua volta, poetica. Ma ciò che egli intende è altra cosa, e lì siamo d’accordo: non si può certo andare in paradiso in carrozza. 5. Parlare i vari linguaggi di una lingua può voler dire occuparsi di logi­ ca, di metafisica, di diritto o altro ancora; ma ciò che ora vorrei fare è scor­ porare tutti i momenti di linguaggio dall’oggetto del nostro discorso, per occuparmi da un punto di vista filosofico in generale della lingua in sé e vedere quali siano i problemi fondamentali a cui mette di fronte uno studio linguistico così fatto. Dopo aver liberato il campo dalle più insidiose equi­ vocazioni, conviene sempre partire da quanto, nel particolare, è specifico. Anzitutto c’è il problema linguistico interno alla lingua, a qualsiasi lin­ gua. Non intendiamo parlare di linguistica comparata; non che la cosa non c’entri, ma deve per forza restare sullo sfondo. Intendiamo, da filosofi, ciò di cui si è occupato lo stesso Aristotele, quando (nei capp. xx-xxi della Poe­ tica) parla per la prima volta della òiàoGowotc o articolazione della lingua. E un’osservazione aristotelica, contenuta in modo un po’ anodino anche in zZ Platone (per esempio nel Teeteto, ma anche altrove), che per capire nell’a­ scolto ie parole di una lingua bisogna riprenderne l’articolazione in sillabe, " cioè che l’elemento minimo di intelligibilità uditiva è la sillaba. Si tratta di - ' un primo concetto, un po’ primitivo, di fonema., in quanto fonologico e non meramente fonetico-acustico, poiché fa perno sul momento intellettuale associato alla percezione di ciascun suono articolato. Intesa in questo modo, la sillaba adempie altrettanto bene che il fonema la sua funzione di identifi­ cazione. La questione si chiarisce se si riflette sul fatto che in una lingua che ci sia completamente ignota noi non riusciamo a percepire nemmeno una sillaba riconoscibile. I suoni che sentiamo sono per noi meramente foneti­ ci, cioè emessi con la voce, ma non sapremmo come scrivere nemmeno un frammento di tale sequenza, o rappresentarlo in qualche altro modo, non comprendendo l’articolazione di detta lingua. Il primo principio della lingua è dunque l’articolazione. Essa è costituita da un momento analitico di scomposizione riduttiva a unità minime, purché intelligibili e cioè percepibili intellettualmente, e dal momento sintetico del­ la ricomposizione delle parole a partire dalle sillabe intese nel senso che si è detto. Questo principio di organizzazione strutturale è tanto essenziale che, qualora esso venisse a mancare, come succede in certe patologie, ciò impe­ direbbe la comprensione dell’atto di parola, non essendone più intelligibili le parti costitutive. Viceversa la parola risulta percepibile anche in presenza di una pronuncia che lasci molto a desiderare, appunto perché il principio

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strutturale rinforza tacitamente le scansioni mancanti; questo va sottolinea­ to in quanto di solito non ci rendiamo conto in che misura noi parlando «mangiamo» la lingua. Una parola che manchi di articolazione non è nem­ meno una parola: non si può memorizzare, né riprodurre, né tanto meno rintracciare sul vocabolario. Perciò non è vero che la lingua si fondi su suo­ ni fisici, o fonetici, essendo la fonetica una parte dell’acustica. L’osservazio­ ne vale a metter fuori gioco le teorie onomatopoietiche dell’origine del lin­ guaggio, poiché esse condividono un presupposto mimetico mal collocato. Il principio diacritico della lingua, come lo chiama Bùhler, consiste non tan­ to nella reduplicazione fonologica del suono fisico, quanto nel suo inseri­ mento in una struttura intelligibile, l’articolazione, che ne fa un oggetto per così dire noumenico. In tedesco si dice yernehmen questo tipo di percezio­ ne fonologica. Senza tale Vemehmung non si spiegherebbe il fenomeno per cui noi riusciamo a comprendere l’italiano anche se pronunciato in malo modo e con gli accenti più diversi o per noi dissonanti. E la struttura che ci permette di unificare le varie emissioni di voce in identità e differenze di pura specie intellettuale. Di qui Aristotele prosegue con la distinzione dei suoni, o emissioni di voce (cpcovai), in sonanti o vocali (tpcovéevra) e con-sonanti (0U|A(pU)vé£VTa). Le prime sono fonemi che possono esser pronunciati separatamente con un’unica emissione di suono, cioè vocali e dittonghi; mentre le consonanti sono molecolari fin dall’origine, dovendo esser pronunciate insieme con una qualche vocale, per quanto atona. Noi parliamo di vocali e consonanti, ma questa divisione non mette in luce il carattere duale (atomico e molecolare), che è reso meglio per esempio dalla coppia aristotelica: sonanti e consonanti. Questo principio strutturale della diaccisi della lingua ha costituito il fon­ damento per distinzioni di livello supcriore, come quella tra parole seman­ tiche, cioè dotate di significato atomico, e parole sinsemantiche, che hanno significato molecolare, cioè in connessione con quelle della prima classe. A essa corrisponde quella medievale tra termini categorematici (descrittivi) e sincat egovernatici (compositivi), dove la prima classe ammette la legge del contrasto del significato e la seconda no. Per esempio, se posso descrivere qualcosa dicendo che è «rosso», deve esistere qualche altra cosa che allo stesso titolo è «non-rossa»; invece con i sincategorematici la legge del signi­ ficato non trova applicazione, non potendo contrastare il significato di parole come «uno», «con», «non» e simili. La nostra distinzione generale è quella tra lessico e sintassi, che in sé è chiara, ma ha il difetto di non palesa­ re il fondamento strutturale: che è la complementarità della funzione.

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Nel momento sintetico l’articolazione procede ricombinando gli ele­ menti. I fonemi di base, gli elementi fonologici, sono molto pochi. Consi­ derando tutte le lingue, si riducono a meno di cinquanta (per fare una cifra tonda). Le combinazioni sillabiche (vocali isolate e consonanti più vocale) sono circa cinquecento, sebbene in ogni lingua questa cifra si riduca, essen­ do utilizzate solo quelle combinazioni che hanno una resa migliore dal pun­ to di vista fonologico (della perspicuità del capire). E con queste sillabe si formano, in una lingua naturale (cioè, non accresciuta artificialmente dal­ l’uso di vocabolari e termini tecnici), quelle 2000-3000 parole di cui abbiam bisogno per parlare. Infatti con duemila parole è possibile esprimere infini­ ti pensieri diversi: dove manca il vocabolo specifico, può sempre provvede­ re la parafrasi, la recursività, l’analogia e la negazione parziale. Questa pre­ stazione per davvero entusiasmante è data dalla ricombinazione degli elementi a vario livello. Dallo stesso principio diacritico dipende la scrittu­ ra, che in ogni lingua ne ricapitola l’articolazione fonologica. Esistono così scritture sillabiche e scritture alfabetiche, secondo che pongano come ele­ mento la molecola o l’atomo della diacrisi. Aristotele aggiunge una considerazione abbastanza curiosa (per lo meno, è quanto vi ho letto io e ne porto l’intera responsabilità). L’articolazione del­ la lingua in parole, come si è visto, è formata da due momenti: uno analitico, che spezza, divide e parcellizza l’emissione del suono e lo riduce a sillabe; e uno sintetico, che lo ricompone, integrandolo e ricombinandolo come si è detto. Considerando che gli animali producono dei suoni che non sono lin­ guistici, perché inarticolati, cioè continuativi o ripetitivi in maniera mecca­ nica, l’invenzione del linguaggio, la sua origine, è ciò che manifesta la diffe­ renza specifica tra l’uomo e l’animale. Dato questo, Aristotele pare insinuare che il fenomeno della balbuzie rappresenti uno stadio di regressione al momento in cui gli uomini hanno inventato il linguaggio, vale a dire l’arre­ sto al momento della scomposizione, senza la complementare ricomposi­ zione nella sintesi susseguente. Del resto tutte le lingue usano le ripetizioni sillabiche in maniera funzionale (come dedi, papiri, ÒJUDJta: non sono forse balbettamenti che han trovato un uso espressivo?); vi manca ancora la piena ricomposizione nell’impiego fluente, che richiede piuttosto la diversifica­ zione delle sillabe e che probabilmente è un’acquisizione ulteriore. Con que­ sto credo di avere espresso, sebbene in maniera molto inadeguata, i princìpi della linguistica strutturale quali si trovano in Aristotele. Non deve stupire che tali princìpi, di recentissima formulazione, si ritrovino già in antiquo, se si riflette sul fatto che 2500 anni (il tempo trascorso tra noi e gli inizi del pen-

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siero filosofico) sono un breve battito di ciglia nei confronti del tempo tra­ scorso dai primordi della lingua e della sua diffusione generalizzata.

6. Dopo questo excursus linguistico-empirico, vorrei ora ritornare sul problema filosofico della lingua, che è connesso con quello dell’espressio­ ne. Abbiam già detto di come questo concetto non risulti abbastanza accu­ rato, comportando un difetto e un eccesso rispetto a quanto si vorrebbe dire. Ma forse non è giusto considerare la lingua secondo la semplice ade­ guatezza, o meno, dell’espressione al suo contenuto; proprio perché il suo problema, da un punto di vista funzionale, è un altro e diversamente collo­ cato. Se parliamo di funzioni del linguaggio, esse appaiono essenzialmente due, e sono entrambe funzioni espressive: una è la funzione rappresentatjva (o simbolica), l’altra è la funzione comunicativa. Alcuni, come Platone, han­ no sostenuto che la prima funzione, quella simbolica, è primaria, perche se non c’intendessimo prima di tutto a proposito di che cosa in realtà la paro­ la è rappresentazione, non sapremmo neppure dire a che prò cerchiamo di comunicare. Mostrerò invece che questo è un paralogismo, non foss’altro perché pone la ragione (tÒ òlÓtl) prima del fatto (lò ÓTt) da spiegare: non si può certo fondare una spiegazione sul fatto che, senza di essa, essa non si darebbe. Il fatto è che ancor oggi noi non sappiamo se, e in che misura, noi riusciamo a comunicare. Possiamo solo osservare che il bisogno di comu­ nicare è tale da vincere fortunatamente l’incertezza che abbiamo circa il dar­ si di un’effettiva comunicazione. In particolare, non sappiamo se quel che chiamiamo comunicare sia l’effetto di un atto linguistico significante, oppu­ re di una provocazione a rispondere (di cui diremo poi) la quale per altre vie, al di fuori del significato, ci costringe in qualche modo a intenderci. Per quanto interdipendenti, è buona norma lasciare tra di loro indipendenti le due funzioni, quella rappresentativa e quella comunicativa, evitando di dire che la comunicazione presuppone l’univocità del riferimento, o viceversa. Oltre a Platone e ai Cinici - i quali però su tale base sostengono l’inuti­ lità di ogni discussione - a favore della priorità del riferimento simbolico c’è il parere di Husserl, il quale sostiene che l’uso rappresentativo del lin­ guaggio è necessario perfino nel discorso che l’io solitario svolge tra sé e sé, vale a dire nelle meditazioni del pensiero. Egli intende dire che anche nelle riflessioni solitarie, se non ci corroborasse l’ausilio della parola, per quanto tacita, l’immaginazione si confonderebbe ben presto e, perdendo il filo del discorso, non riusciremmo a obicttivare per noi stessi il senso dei nostri pensieri. L’osservazione è considerevole, e mostra che il linguaggio ha una

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funzione obicttivante (o simbolica) che vale anche in assenza di intenti comunicativi. Anche nel discorso dell’io solitario bisogna potersi dire che «questo è un punto fermo", fissandolo per associazione a una parola di più facile rammemorazione che il semplice contenuto psichico. Questa circo­ stanza tuttavia non assorbe in sé l’indipendente funzione comunicativa. In concreto, io ho bisogno delle parole per stabilire delle divisioni, fis­ sare delle scansioni, per ordinare le azioni che ho in animo di compiere in sequenze organizzate. Non solo la vita di relazione, ma la stessa vita inte­ riore è intessuta di trame verbali, senza il cui ordito risulterebbe disartico­ lata, informale. L’uso della tacita verbalizzazionc rende più duttili ed effi­ caci le mie disposizioni reattive, poiché rinforzo con una struttura linguistica dei dispositivi altrimenti solo immaginativi. A parte ciò, come si è detto, l’associazione al linguaggio rinforza le distinzioni e aumenta le stes­ se possibilità di cui dispongo con l’immaginazione, in proporzione al voca­ bolario interno messo in gioco. Certamente si usa l’immaginazione con un assetto quasi-linguistico, nel senso che anche i pensieri si applicano a tale trama come dei gettoni, che poi vengono eventualmente spostati lasciando inalterato il loro valore; se poi si usa la lingua per fissare il significato delle parole, questa prestazione di rinforzo dei termini «gettonati» emerge ancor più chiaramente. Si può associare il pensiero linguistico, a sua volta, a immagini geome­ triche; probabilmente tutti i matematici classici facevano così. In questo caso si dispone di una salda struttura di riferimento per un linguaggio già preformato su base enidiale. Nel passaggio da una lingua a un’altra i mate­ matici, i geometri e in generale tutti coloro che dispongono di un saldo cor­ relato ideativo non hanno difficoltà a tradurre il ragionamento espresso a parole, poiché disponendo dei termini appropriati lo schema di base resta sempre lo stesso. Lo schema è un’immagine intuitiva della struttura, molto spesso rudimentale, non complicata ma ripetitiva, che si tratterà poi di riprendere, correggere e formalizzare con un linguaggio appropriato; ma il suo fondamento è quello che si è detto, di un nucleo di rinforzo, che caso mai è complicato spiegare a parole pur essendo in sé intuitivo. E quindi assodato che una funzione importante del linguaggio è quella di provvedere alla simbolizzazione dei nodi su cui poggia il nostro pensie­ ro, in modo da liberare e rendere accessibile la rete di relazioni cui esso fa capo e si sviluppa, fino a pervenire a nuovi nodi; e cosi via. Ciò ne costitui­ sce il campo di applicazione, e tutto sommato si può dire che la funzione simbolica, nel rendere esplicito quanto ci è già noto in maniera intuitiva ma

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confusa, nel completarlo attraverso una rete di relazioni, è in funzione dell’oggettivazione dell’esperienza: nel caso più semplice quella di chi pensa. Il pensiero è un’attività pratica che, benché vicariale rispetto alle pratiche reali, che comportano uno spostamento di materia, opera su due tipi di cose: le immagini degli oggetti effettivi, e le relazioni tra dette immagini. Infatti gli schemi di cui disponiamo mentalmente sono in fondo due, e solo due: quello della cosa, e quello del rapporto ad altra cosa. Che altro c’è al mon­ do? Nient’altro. Ci sono solamente cose e relazioni tra cose; meglio, imma­ gini di cose e di relazioni ad altre cose. Non ci sarebbe alcun problema se il compito del pensiero fosse semplicemente quello di riprodurre in immagi­ ne quanto c’è in realtà: in particolare, non ci sarebbe filosofia. Che essa ci sia, dipende dal fatto che è possibile riprodurre in immagine la cosa; non ■. però la relazione, perché questa non esiste al di fuori del pensiero. Infatti le relazioni sono il risultato del raffronto, del confronto, della separazione e divisione, del cumulo o somma, e così via, che la libera immaginazione costruisce col pensiero e nel pensiero. E questo che fa saltare il quadro ' riproduttivo dell’immagine, producendo variazioni, invenzioni o mostruo­ sità. Ma in sé il pensiero è un’operazione abbastanza banale. L’altra funzione del linguaggio risalta meglio per contrasto con quanto si è prima detto sulla simbolizzazione c obiettivazione. Si tratta della funzio­ ne comunicativa, che è specificamente linguistica, e cioè: non del linguaggio, ma della lingua. Come già osservato, ripetiamo che «non c’è problema» del­ la comunicazione, se ci si accontenta di presupporre che questa bene o male esista, c ci limitiamo a ricercarne «all’indietro» le condizioni alle quali essa sarebbe ottimale. Ci sono alcuni ottimi libri che insegnano l’arte di espri­ mersi in un linguaggio piano, chiaro e intuitivo; ma questo è un problema di didattica, o di giornalismo, che difficilmente potrebbe confondersi con quel­ lo che ci sta di fronte. Di un vero e proprio problema della comunicazione non si può parlare prima della seconda metà del XIX secolo. In precedenza esso si presentava confuso con questioni come l’origine del linguaggio e i rac­ conti mitici, come la torre di Babele e la confusione delle lingue. Nella Bib­ bia la lingua originaria è l’ebraico, l’assegnazione dei nomi alle cose risale direttamente al creatore (Elohim) oppure è delegata in parte ad Adamo, che deve perfezionare l’istituzione: «il nome col quale infatti Adamo chiamò ogni essere vivente, è il suo vero nome» (Gen., 2, 19-20). Chiaro che, quan­ do si ricerca la verità nel nome, non si è ancor capito il problema in questio­ ne. Dal racconto della torre di Babele si evince che la comunicazione è con­ cepita come trasmissione di ordini, essendo gli uomini «un popolo solo», che

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SECONDA LEZIONE

ha «una lingua sola per tutti». Alla fine ne risulta l’impossibilità di comuni­ cazione, ma questa è concepita come nemesi o vendetta divina, con cui gli uomini pagano il fio dell’oltracotanza, con intervento del tutto ex machina: «andiamo dunque, discendiamo, e confondiamo le loro lingue, così che nes­ suno più comprenda la parola del prossimo suo» (Ge?z., 11, 6-9). Non emer­ ge la difficoltà intrinseca della comunicazione. Non giova dunque imparar l’ebraico per venire a capo di tali problemi.

7. Nel tardo secolo XIX finalmente troviamo una prima formulazione del problema comunicativo nel lavoro di Darwin dedicato all’«espressione delle emozioni negli uomini e negli animali ». La teoria di Darwin in proposito si può riassumere così. Quando nel contatto tra due esseri sen­ zienti uno di essi riesce con un gesto, un suono o una certa mimica faccia­ le a esprimere un barlume di significato, e questo fatto viene afferrato dal­ l’altro, si costituisce con ciò un modello di comunicazione imitabile, che sarà poi destinato a perfezionarsi, stilizzarsi e infine articolarsi. L’origine della comunicazione vien dunque fatta risalire all’istituzione tacita di con­ venzioni espressive imitabili, non importa attraverso quale medio: gestuale, mimico o fonetico. La successiva elezione del fatto acustico a medio deter­ minante si spiega con l’opportunità di lasciar liberi l’occhio e le mani per altre attività. La funzione comunicativa del linguaggio si comprende quindi come imitazione di un’espressione che è connessa in maniera contingente con un certo fatto; l’abitudine e la specializzazione fanno il resto. Non occorre sot­ tolineare l’affinità con la teoria evoluzionistica delle piccole variazioni acci­ dentali e della selezione naturale, che spiega lo stato presente in termini di adattamento. Questa teoria venne poi perfezionata da Wundt, il famoso psi­ cologo, che scrisse una voluminosa opera sull’argomento, portando l’atten­ zione su una vasta gamma di casistiche particolari, come per esempio il lin­ guaggio dei sordomuti. Scopo evidente era quello di imbrigliare, con una griglia più fine, il fenomeno del significato fondato sullo scambio imitativo di parlante e ascoltante. Per quanto generalizzata, la teoria resta in sostanza quella di Darwin. Il problema è di vedere se, procedendo in questo modo, si riesca a raggiungere il grado di specificità richiesto da una teoria della comu­ nicazione. Il principale difetto della teoria di Darwin-Wundt si palesa appieno non appena si consideri il problema da un altro punto di vista. La comunicazio­ ne non è fondata sullo scambio delle parti (tra il parlante e l’ascoltante), più il tratto in comune dell’imitazione. Caso mai è quest’ultima, l’imitazione,

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che regge il fatto comunicativo; ma presupporla vuol dire aver già risolto tutto il problema. Giova piuttosto tener ben distinti i due fatti della comunica­ zione, l’espressione da parte di chi parla, e la ricezione da parte di chi ascol­ ta, poiché il fatto d’esser interscambiabili negli attori non li rende, in se stessi, identici. Infatti l’atto espressivo della comunicazione non ha nulla a che vedere col reciproco atto ricettivo della sua comprensione. L’espressione è un atto in senso lato retorico, fondato sull’efficacia dell’emissione; ma que­ sta è solo una metà della comunicazione, la quale deve completarsi con la comprensione dell’udienza, che è un atto squisitamente ermeneutico, inter­ pretativo, fondato sulla effettiva ricezione del messaggio. Insomma, il fatto che ora io funga da emittente e quindi, magari immediatamente dopo, da ricevente: vuol semplicemente dire che io compio in due occasioni diverse due diverse operazioni, una retorica e una ermeneutica, che per la circostan­ za di esser scambievoli non diventano certo l’una l’inverso dell’altra. La reci­ procità è puramente esteriore, e riguarda la funzione sociale della conversa­ zione; in sé le due operazioni sono molto diverse, e richiedono ciascuna un’analisi peculiare. Espressione e ricezione sono due differenti operazioni, per nulla assimilabili al tipo di reciprocità di moltiplicazione e divisione. Con questa osservazione la concezione suddetta della comunicazione dimostra la sua inattendibilità. L’obiezione rivolta è valida perché si fonda su un argomento puramente analitico, indipendente dal punto di vista e basato sulla semplice constatazione. Siccome però una concezione non può esser veramente superata che da un’altra migliore, chiameremo la prima concezione la «teoria coordinativa» della comunicazione, per il fatto che essa si fonda su un elemento comune (l’imitazione) che, permanendo iden­ tico per l’emittente e il ricevente, istituisce per l’appunto la coordinazione tra i due poli. Ciò spiega tra l’altro perché tale teoria, per quanto criticata, rappresenti un presupposto inespressamente condiviso. Le idee più diffi­ cilmente criticabili sono quelle che permangono nello stato endemico, ano­ nimo e anodino. La teoria coordinativa della comunicazione è tipicamente una tesi otto­ centesca anche per un altro aspetto. Essa procede nel senso del «progres­ so», che per ciò stesso è il nuovo; si ignora o si trascura presuntuosamente il latto che esisteva un’altra tesi in grado di offrire uno strumento critico, se adeguatamente ricolletta, molto più potente. Alludiamo alla tesi della inco­ municabilità, la quale e stata per la prima volta espressa da Gorgia, il sofi­ sta, nel v secolo a.C., c che si può ripresentare nel contesto di una «teoria causale» della comunicazione, con tutta serietà e cognizione del fatto.

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SECONDA LEZIONE

La tesi di Gorgia è la terza di una triade consecutiva, di cui la prima pro­ posizione dice che (z) «nulla esiste- (ovòèv eotlv); la seconda (zz) che, se anche esistesse, sarebbe «incomprensibile all’uomo» (àxaTaXìyTTOv àvOpcÓTtcp); e la terza, finalmente, (zzz) che, se anche lo capisse, egli non potrebbe né esprimerlo né «comunicarlo al prossimo» (avEQpr|VEUTOv tò) JléXag). Le tesi sono espresse in maniera sofistica, cioè paradossale; tale è il vezzo prevalente nel v secolo a.C. Ma in se stesse non sono però sofistiche. La proposizione (i) si riferisce al fatto che «esiste» è una parola del lin­ guaggio, e che nel linguaggio è possibile parlare di tutto, di ciò che è e di ciò che non è, senza che al suo interno si diano i criteri per fare distinzione tra le due cose. Perciò nulla di quanto è detto (possibilmente) esiste. La (zz) riba­ disce la stessa circostanza per cui se il linguaggio non è la realtà, la realtà non è contenuta nelle parole; ossia, non si può esprimere con parole che cos’è che contraddistingue il reale dal non reale. Come si vede, è una tesi un po’ deprimente, ma molto seria. La terza (zzz), infine, per cui se qualcosa fosse conoscibile non sarebbe comunque comunicabile agli altri, riceve ulteriore confono da altre opere dello stesso Gorgia. Presso i greci Elena era comu­ nemente considerata il caso esemplare della seduzione rovinosa. Esami­ nando le premesse da cui discende la condanna di Elena, Gorgia non solo giustifica il suo operato, ma ne tesse l’elogio. Dunque l’«Elogio di Elena» non solo esemplifica la forza di un controargomento, cosa che Gorgia farà piuttosto, con argomenti da plaidoyer, nell’«Apologia di Palamede», ma è la stessa esibizione dimostrativa del fatto che la lingua non comunica attra­ verso una coordinazione di significati già acquisiti, ma semmai convince perché esercita sull’audienza una costrizione che è quasi fisica, al di là del significato. Anzi, il significato sta proprio nell’affezione che si è data nel­ l’evento comunicativo. La teoria causale della comunicazione, dunque, era già stata espressa in forma paradossale da Gorgia. In termini prosaici, essa consiste nell’effetto di scatenamento il cui significato si genera ex novo nell’ascoltatore quando, per conto suo, capisce quanto vien detto. Bisogna intender bene questo punto. Nell’atto della comunicazione, quando sono io che parlo, non si tra­ smette alcun significato (in sé identico) da me a un altro; ma io provoco un effetto che crea nell’altro, in maniera autoctona, un fenomeno di significa­ to; ritenuto sia da me sia dall’altro un’identità, perché sorretta da coinci­ denza, ma che in realtà è la produzione nell’altro di un nuovo significato, diverso dal mio. Questo è il fatto duro della comunicazione, quale si deli­ nca con la teoria causale, o del significato come effetto di scatenamento.

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Solo dopo essersi intesi, comunicando bene o male (più male che bene), interverrà un successivo processo di coordinazione dei significati. Sarà quin­ di possibile, non vogliamo negarlo, anche l’altra tesi; ma non come teoria, bensì successivamente, dopo aver acquisito la comprensione del meccani­ smo comunicativo. In tal caso saranno le circostanze, per una sorta di riso­ nanza, a costringere il contenuto della comunicazione verso un effetto con­ centrico identificabile, seppure solo fino a un certo punto. In linea di principio non si dà mai il caso, se non accidentalmente, che il significato espresso coincida col significato ricevuto.

8. Presumibilmente questa concezione che fonda la comunicazione su una specie di sistematico fraintendimento, che vorremmo chiamare la teo­ ria gorgiana, non sarebbe mai stata recuperata se nel campo delle scienze linguistiche e psicologiche non si fosse determinata una svolta molto impor­ tante, costituita dalla «teoria della lingua» di Bùhler. Il viennese Karl Bùhler, che esordì come psicologo dell’età evolutiva, divenne in seguito alla «cri­ si della psicologia» (da lui così definita) un considerevole studioso di semiologia e di linguistica. Nel periodo nazista emigrò, in quanto ebreo, negli Stati Uniti, ma almeno inizialmente non riuscì a suscitare un interes­ se di rilievo intorno alle proprie idee, forse perché trapiantate in un conte­ sto del tutto alieno dal suo; ma oggi ci si sta accorgendo dell’importanza che egli ha avuto e, ancor più, di quella che avrebbe avuto se l’accoglienza fos­ se stata più adeguata. È Bùhler che ha fondato la teoria linguistica della comunicazione sull’involontario appello, da parte di chi si esprime, a una reazione capace di scatenare l’effetto di un significato in chi ascolta. Bùhler elabora il concetto di Aùslòsungy o scatenamento: chi parla provoca un effet­ to che è diverso in ciascuno dei suoi ascoltatori, poiché diversa è la prepa­ razione all’ascolto o la competenza linguistica, generale e specifica, che determina il significato in atto che si produce. Non è che venga negata la comunicazione in sé, essa viene solamente sottratta all’ipoteca di una teoria coordinativa del significato, secondo la quale l’evidente esistenza di una comunicazione, ragionando in maniera apagogica c trascendentale, presuppone l’identità di ciò che in essa si tra­ smette. La teoria coordinativa, respinta sul piano filosofico e generale, si ripropone dal punto di vista dell’ingegneria della comunicazione: secondo questa, infatti, la comunicazione non è altro che trasmissione di informa­ zioni. In tal modo si può parlare di sistemi comunicativi automatici (infor­ matici), cosa che, a parte le equivocazioni che ingenera, può benissimo con-

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servare il suo buon senso settoriale; solo, non bisogna dimenticare che il senso della comunicazione è dato dall’incontro-scontro tra la retorica del­ l’emittente e Vermeneutica del ricevente, e questa prestazione difficilmente si può immaginare che possa esser resa automatica. L’idea ingenua, che può esser rovinosa nelle conseguenze, è che si possa trasmettere il significato come una derrata che viaggi su ferrovia. La teoria causale (gorgiana e biihleriana) della comunicazione ha tra le altre cose il merito di non avallare simili equivocazioni. E pur accentuando il carattere dinamico della comunicazione, rendendola più drammatica, alea­ toria e multiversa, nondimeno essa è in grado di fondare senza soggiacere ad autoinganni il fatto comunicativo. Il cardine di questa teoria è costituito dalla preferenza accordata al momento della ricezione, in confronto con l’e­ missione: e cioè all’ermeneutica, piuttosto che alla retorica. Essendo l’ermeneutica l’arte dell’interpretazione, tale concezione insiste giustamente sulla differenza di preparazione e competenza linguistica dei singoli ele­ menti dell’udienza. E infatti evidente che chi mi ascolti da lungo tempo rie­ sce a intonare meglio la sua interpretazione (in accordo o disaccordo con quanto dico) nei confronti di uno che mi ascolti per la prima volta; questo perché chi è già abituato al mio modo di discorso riesce a cogliere più a pro­ posito gli eventuali stimoli, là dove vadano rilevati. In effetti è molto inge­ nuo far dipendere la comunicazione da un’informazione che si trasmetta identicamente; e, ancor più che ingenuo, è stolto credere che l’esistenza (non dimostrata) della comunicazione sia per ciò stesso la prova dell’identità del significato trasmesso. Le concezioni coordinative servono semmai come prescrizioni costruttive utili a preformare i quadri entro cui collocare le comunicazioni dei linguaggi specialistici delle scienze particolari; ma tali quadri, come la carta millimetrata, sono prelinguistici e anzi precomunicativi, in quanto sf trasmettono come cose fisiche. Noi comunichiamo anzi­ tutto con lo scambio di oggetti fisici, che nulla hanno che vedere con la semantica. La comunicazione è una funzione linguistica importante, perche precede in se stessa il linguaggio. La teoria dello scatenamento rappresenta un risultato della riflessione filosofica tanto piu ragguardevole, in quanto contiene implicitamente una garbata critica, rivolta a coloro i quali pensano che ci si possa intendere e capire senza problemi, purché si parli lentamente, spiccicando le parole c dicendo cose semplici e chiare. La comunicazione e invece un parallelo­ gramma di forze la cui risultante, quando c’è, si da in maniera mollo com­ plessa. Chiamiamo «gorgiana» la teoria dello scatenamento, in quanto cer-

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te considerazioni in proposito di Gorgia ci appaiono particolarmente per­ spicue. Per esempio nell’« Apologia di Palamede» Gorgia parte da premes­ se che in genere non sono accettate, e finisce col trarre conclusioni che sono simpatetiche con Palamede, l’arcitraditore invece secondo l’imputazione di Odisseo. Gorgia procede in modo del tutto illogico; ma fa questo con una tale maestria, che a noi sembra evidente, almeno a tratti, l’innocenza di Palamede. Gorgia scoprì che le premesse non sono princìpi, se non per il fatto che noi di solito, ma convenzionalmente, le collochiamo al principio di una dimostrazione; invertendo il procedimento a mo’ di voteqov-jCQÓteoov, una diversa convenzione può far sì che la conclusione diventi la premessa della premessa originaria; non c’è scritto sopra, quale premessa debba valere come principio. Tutto dipende quindi dalla forza persuasiva dell’argomen­ tazione svolta. Questo modo di ragionare può apparire un po’ sofistico; un po’ in effetti lo è, ma non più di tanto. Certe premesse infatti si eleggono a princìpi in virtù di una loro dignità normativa. Ma tale autorevolezza è loro conferita, a sua volta, da una convenzione; e nulla vieta di dissentire da una convenzione. Gorgia ha ragione nel sostenere che l’ordine sintattico del pri­ ma e del poi non è garanzia sufficiente per attribuire, a quanto vien prima, la dignità di principio; ci vuol ben altro, ammesso che lo si trovi. Comun­ que sia, questo vuol dire che anche Vorcio geometricus più agguerrito può esser sconvolto da un’adeguata controargomentazione.

9. A mio parere questo è un risultato importante, perché porta a distin­ guere in maniera molto netta ciò clic è logico da ciò che è linguistico. Anche senza dovere ammettere che la logica, poniamo, di Aristotele tracci infalli­ bilmente la via giusta, si ammetterà che nella lingua vige un criterio diverso del prima c del poi, che è quello dell’ordine sintagmatico, interno a essa e dotato di senso proprio, che è altra cosa rispetto alla consequenziarictà logi­ ca. E mi piace pensare che il sintagma, ossia l’ordine di successione delle parole nella frase, sia sempre in conseguenza di uno scatenamento di signi­ ficato (nel senso di Buhlcr) nel processo ricompositivo del medesimo. Vor­ rei menzionare, avviandomi alla conclusione, un altro topico significativo che contraddistingue la lingua rispetto alla logica e ai vari linguaggi scienti­ fici o speciali. Ed e che mentre in logica si può operare per mezzo di para­ digmi o formule che si ripetono identicamente, pur applicandosi a situazioni differenti, nella lingua anche procedendo per paradigmi o esemplarità pre­ fissali, il suo carattere di sintagma che si svolge nel tempo dà al significato della frase la contingenza circostanziale del riferimento. In logica a + a = a;

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SECONDA LEZIONE

ossia, la ripetizione dell’identico riproduce l'identico. Nella lingua una cosa del genere non si può nemmeno dire, perché la ripetizione del significante non dà mai lo stesso significato. Ma c’è dell’altro. Può essere che nell’esporre un pensiero io debba impiegare un discorso alquanto lungo, una sequenza di frasi concatenate, o un sintagma di sintagmi; e che nel far que­ sto io parta da un punto, un sistema di paradigmi o di formule già noto, per sviluppare con aggiunte successive il mio discorso, fino a pervenire a una conclusione non più di dominio comune, la quale suggerisce infine altri pensieri. A questo punto può darsi che lungo l’asse sintagmatico del discor­ so io abbia smarrito, abbandonato o volutamente modificato l’identità para­ digmatica dalla quale ero partito. Ora è evidente che, dal punto di vista del paradigma, detto discorso presenta un difetto di chiarezza e richiederebbe di esser riformulato fin dall’inizio; ma si potrebbe assumere anche un altro punto di vista, quello del sintagma, e spiegare che nel suo decorso si dà del tutto naturalmente una graduale modificazione dell’identità originaria. Si potrebbe perciò giustificare razionalmente, dal punto di vista sintagmatico, come mai nel decorso di un ragionamento linguistico (non logico), attra­ verso^ successivi spostamenti del fuoco dell’identità, io possa a grado a gra­ do pervenire perfino a conclusioni opposte a quanto le premesse originarie, paradigmaticamente intese, parevano costringermi. Chiaro che questo svol­ gimento di discorso capace di modificare l’identità, secondo il sintagma in cui si inscrive, non sarebbe riformulabile coi mezzi di un linguaggio logico, che deve usare per forza paradigmi a identità rigida, non variabile. Qualo­ ra si volesse tentare un’impresa del genere, occorrerebbe complicare il para­ digma, incaricarlo di tener conto di molte circostanze, magari utilizzando le logiche libere: ma anche così operando non ci sarebbe alcuna garanzia che il risultato ripagasse della spesa. Più promettente è senz’altro utilizzare in sede analitica (come, all’incirca, nell’«analisi filosofica^ dell’ultimo Witt­ genstein, o di altri inglesi) la logica della lingua stessa, la sua interna granimatica filosofica. Avremo modo di ritornare su questo punto. io. Di fatto noi utilizziamo quotidianamente le risorse sintagmatiche del discorso, e siamo consapevoli di procedere per lo più razionalmente, anche se trasgredendo un canone strettamente logico. Anzi, mi chiedo che senso abbia ragionare, con gli altri interlocutori o anche tra se stessi, se non si ammette che si possa giungere a conclusioni anche opposte a quelle da cui avevam preso l’abbrivo. Rispetto al paradigma, il sintagma riveste per noi un aspetto creativo. Come Descartes, io posso partire dalla certezza, imper-

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meabile al dubbio, del cogito-, di qui, mediante l’argomento ontologico, per­ venire all’esistenza necessaria di Dio; e infine, facendo perno su questa con­ vinzione, riprodurre mediatamente altre certezze confortato da un metodo. Questo ragionamento non è consequenziario, non essendo il metodo con­ tenuto analiticamente nella maggiore premessa dell’ego. Ma nondimeno esso riesce a essere convincente, non dico senz’altro per noi, ma per molti e ragguardevoli suoi contemporanei. Si può anche dalla stessa premessa giungere a conclusioni sensibilmente differenti, come dimostra il caso di Malebranche o di Spinoza. Un uso corretto dello spostamento dell’asse sin­ tagmatico dovrebbe portare a una più marcata distinzione tra quel che è consentito dire, pensare e credere, e ciò che è conseguenza analiticamente necessaria, ma priva di sviluppi. Far crescere su se stessa una convinzione, modificandone la fissità iniziale: questo è il modo di operare della Sprachlogik, la logica interna alla lingua.

Nota bibliografica Sul problema del tradurre, e relativi topici, molto utile è l’antologia di Hans Joachim Stórig, Das Problem des ÌJbersetzens, Stuttgart 1963, di cui si v. in particolare la traduzione delle poesie cinesi (in tedesco) in epoche diverse; sulla questione v. Emilio Mattioli, Introduzione al problema del tra­ durre, in «Arte, critica, filosofia», Bologna 1965, pp. 189-214. La contrap­ posizione riportata c in Benedetto Croce, La poesia, Bari 1953, pp. 103-4; e Giovanni Gentile, Filosofia dell’arte, Firenze 1930, pp. 240-43. Per l’impo­ stazione linguistica qui seguita, che corrisponde più a una «linguistica della parola» che a una vera c propria «linguistica della lingua» (nel senso di Saus­ sure, v. oltre), ovvero del «sintagma» piuttosto che del «paradigma» (nel sen­ so di Hjelmslev, v. oltre), cfr. soprattutto Karl Bùhler, Sprachtheorie (Die Darstellungsfunktion dcr Sprache), Stuttgart 1934 [Teoria linguistica], che risale ai concetti di v gyov e èvé^yeta di Humboldt (pp. 6-9). Su questo auto­ re, che gode di una doppia formazione, psicologica e linguistica (Scuola di Wùrzburg e Scuola di Praga), torneremo anche in seguito. Per l’aspetto psi­ cologico, Bùhler dipende da Brentano, Marty, Stumpf e soprattutto, Hus­ serl; per quello linguistico, a parte Marty e Stumpf, in primo luogo Trubeckoj, c la scuola storica di H. Paul. La «teoria dell’espressione», a cui si contrappone con A. Marty quella dello «scatenamento», è inaugurata da Charles Darwin con The Expression of thè Emotions in Man and Animals,

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SECONDA LEZIONE

London 1872, e quindi teorizzata da Wilhelm Wundt, Die Sprache, «Vòlkerpsychologie», I, 1900 (1904); entrambe le teorie riguardano la funzione comunicativa del linguaggio, più che la struttura della lingua. Per la linguistica in generale, oltre al lavoro fondamentale di Wilhelm von Humboldt, di cui sono da tener presenti gli scritti di filosofia linguisti­ ca, si v. Heymann Steinthal, Geschìchte der Sprachwissenschaft bei den Griechen und Romeni mit besonderer Riicksicht auf die Logik, Berlin 1863 (1890) [Storia della grammatica classica]; Hermann Paul, Prinzipien der Sprachgeschichte, Tiibingen 18S0 [Storia della linguistica]; Karl Vossler, Positivismus und Idealismus in der Sprachwissenschaft, Heidelberg 1904; Ernst Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen, 3 voli., Berlin 1923, voi. 1 («Die Sprache») [Filosofia delle forme simboliche]. Per la linguistica strutturalistica, a partire dal celebre lavoro di Ferdinand de Saussure, C.oitrs de linguistigue generale. Genève 191 $ (Paris 1916 sgg.), v. Nikolaj Sergeevic Trubeckoj. Grundziige der Ph enologie, «Travaux du Cercle linguistique de Prague»», vii, 1939 (Gòttingen 1958); Léonard Bloomfield, Langnage, London 1935; Louis Hjelmslev, Prolegomena to a Theory of Langnage, Madison 1961 (ma 1943, in clanese); riassuntivamente cfr. Giulio C. Lepschy, La linguistica strutturale, Torino 1966. Per il rapporto tra linguaggio e pensiero, oltre al lavoro di Charles Kay Ogden e Ivor Armstrong Richards, The Meaning of Meaning (A study of thè influente of language upon thought and of thè Science of symbolism), London 1923, cfr. gli studi filosofici di K. Vossler, di J. Stenzel, di E Kainz e di L. Weisgerber; quelli psicologici di S. Asch, J. Piaget, E. Sapir, B.L. Whorf e A. Gemelli, spesso commisti a considerazioni sociologiche. Per la retorica, concepita in senso non derogatorio, è da considerarsi classico il testo di Chaì'm Perelman e Lucie Olbrechts-Tytcca, Traité de Pargumentation, 2 voli., Paris 1958 [Sull’argomentazione]; e, degli stessi, Rhétorique et philosophie, Paris 1952; mentre per l’ermeneutica il testo fonda­ mentale è quello di Hans-Georg Gadamer, Wahrheit und Methode, Tiibingen i960 [Verità e metodo].

Terza lezione

Realtà Gli enti, i concetti, gli oggetti

i. Ai sensi dell’obiezione di Gorgia, del reale non si può dir nulla, giac­ ché neppure può esser pensato. «Se le cose pensate non sono enti», egli dice, «l’ente non viene pensato». E s’intenda: se io posso pensare tanto quel che è come quel che non è, ciò che si pensa non è mai l’ente (= quel che è) se non accidentalmente. Tale obiezione di solito viene circonvenuta mediante una contemporanea aùiotpta, ossia facendo coincidere quel che si dice con quanto si vede, o comunque con la testimonianza dei sensi. Da ciò si ricava una certezza che marginalmente può esser problematica, ma sufficiente a fondare un criterio di verità fattuale, che nel pensiero riempie una delle alternative (vero o falso) e scarta l’altra. Non c’è dubbio che se la realtà è totalmente determinata, e limitiamo la nostra indagine alle cose visibili, o comunque sensibili, ogni domanda intorno all’ente deve avere come rispo­ sta un sì o un no. Anche in sede di filosofia linguistica, se ci limitiamo a par­ lare delle cose visibili (gli ó^aió), non sorge nemmeno un problema di comunicazione. Ciò che si vede, infatti, o è un sensibile comune a tutti, o non contiene neppure un significato. Vero è che non si capisce che bisogno ci sia di comunicare quanto è già ampiamente noto a tutti, a meno che non si debba trasmettere l’informazione a qualcuno che non è presente. Come si vede, la comunicazione intesa come trasmissione di informazioni è un problema di telecomunicazione, dove la distanza non è solo spaziale ma altresì temporale. La storia è per esempio un caso di telecomunicazione temporale a sen­ so unico. Abbiamo inaugurato questa nuova indagine all’insegna del «nes­ sun problema», né di verità, né di realtà, né di comunicazione. Per quanto gradevole, quest’impressione non potrà esser mantenuta a lungo, quantun­ que ci sforziamo di farla durare. Anzitutto alla questione del vero (o del rea­ le) è possibile rispondere solo se nella domanda si può isolare lo stato di cose enunciato dalle altre dichiarazioni concernenti l’autoriferimento di chi

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TERZA LEZIONE

la formula. Per esempio in una telefonata interurbana se mi si chiede se qui piove, in condizioni di tempo non incerto, posso dare una risposta com­ pletamente enunciativa. Ma se io dico al mio interlocutore «chiudi la fine­ stra, per favore», lo stato di cose (enunciativo) è la finestra aperta, mentre l’autoriferimento è dato dalla trasmissione (in maniera garbata, ma non ci si inganni) di un comando, in seguito al quale lo stato di cose (futuro) sarà pre­ sumibilmente la finestra chiusa. È importante notare che V informazione non è costituita solamente da enunciati, relativi a stati di cose, ma anche da dichiarazioni autoreferenziali, come gli imperativi, le domande, le promes­ se e i performativi. La necessità di distinguere, nella trasmissione di infor­ mazioni, tra Venunciato relativo allo stato di cose e la dichiarazione pro­ grammatica o intenzionale, si è imposta con l’uso del computer, che funziona per l’appunto secondo questo doppio registro di linguaggio-mac­ china e linguaggio di programmazione. Contemporaneamente filosofi del linguaggio come Searle e come Grice, richiamando la teoria dell’intenzio­ nalità e della notificazione di Husserl, ne hanno offerto un’ampia giustifi­ cazione analitica. Ma avremo occasione di ritornare su questo punto. Al presente ci interessa osservare che parlare della realtà unicamente come il correlato oggettivo, Io stato di cose asserito da un enunciato vero, sarebbe non solo un approccio disperatamente misero, ma anche per molti versi difettivo nei confronti della sua espressione legittimamente disponibile. Non è detto che, per parlare della realtà, il linguaggio debba fare il calco di quanto è esteriormente descrivibile.

2. La domanda forse ingenua, ma che da sempre fino a oggi si sono posti tutti gli uomini sensibili, certo non quelli che prendono il mondo per il suo valore corrente e per così dire di scambio, ritorna sempre, comunque rifor­ mulata, sullo stesso punto: che cos’è la realtà? Vorremmo porla come un problema di psicologia evolutiva, cioè dell’età in cui si pone o si acutizza la domanda. Più modestamente, cercheremo di far fruttare la memoria che abbiamo. Entriamo nell’adolescenza, e proviamo il senso della vergogna di non esser vestiti. Andavamo vestiti da marinaio, poi venne il giorno in cui ci mandarono coi pantaloni alla zuava. Parlo per me, s’intende. La giacca, vista da lontano, poteva far finta d’esser normale; però, essendo rivoltata, aveva l’occhiello dall’altra parte e le spalle sempre un po’ troppo strette. Per parte nostra, ci si sentiva in colpa per avere il corpo troppo grande, da adul­ to. Ma perché quelle strane acconciature? Si noterà che la condizione, con la scusa del casual, non è cambiata poi molto; e i giovani d’oggi sono altret-

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tanto sensibili al riguardo. È un’età in cui solo le scarpe e i calzini paiono appartenerci in senso stretto. Bene, io credo che si tratti, nel vestimento, di un’investitura, di un periodo d’iniziazione. Bisogna abituare il giovane ad afferrare gradatamente il senso della realtà, che passa attraverso il senti­ mento di essere uno come gli altri, uno tra i tanti. È dunque la realtà una conquista della maturità, dato che sembra così arduo affrontarla? Abbiamo detto di una fragile condizione psicologica, che entra in crisi nelle zone di contatto col mondo esterno, la pelle, il rossore, le pustole, il vestito, l’aspetto, il contegno... È un tratto intimistico, ma che si rivela immediatamente come riflesso del sociale. Di dentro ti senti nudo, ma fai finta di niente perché ormai sei grande; senza esibizionismi, devi esser capace di capire quel che fanno gli altri a partire da un’idea adulta del mon­ do, emancipata ma anche disincantata. La prima tentazione è quella di ricu­ sa, regressiva, il rimpianto dell’età dell’oro perduta. Fin tanto che sei infan­ te, cioè etimologicamente uno che non parla e comunque che nel caso non sa farsi valere, ti viene concessa una dilazione dall’obbligo di essere adulto; che tu, come Peter Pan, il bambino che non voleva crescere, utilizzi per gio­ care e farti, bamboleggiando, più irresponsabile di quanto non sia. Ma pre­ sto o tardi, anche se è bene non fare in fretta, la situazione di privilegio giun­ ge a un termine: devi buttarti nel mondo e sei nudo, e all’arrivo devi rivestirti nei panni dell’adulto. Questo onore non ti è gradito, ti calza mala­ mente come un travestimento in maschera, finché a mano a mano non arri­ vi a comprenderlo. Il che significa che per capire il mondo degli adulti devi innanzitutto rispondere alla domanda: che cosa sci diventato tu? Diventando altro da quello che cri, il mondo esterno appare dapprima nella sua anonima, uniforme, comune alterità. La realtà sembra anzitutto esser quella che è per tutti, la sua immediata connotazione essendo quella ambientale e sociale. In questo senso essa è ciò in cui tutti implicitamente credono; c siccome questa fede sociale consiste in una fitta rete di aspetta­ tive, di ciò abbiamo esplicita, benché indiretta conferma, quando un senso psicologico più sottile ci permette di rilevare le correnti indotte dalle tante parziali delusioni di tali precostituite attese: segno evidente della religio di speranze che connette il corpo sociale. Ma nel mondo visto da chi è appe­ na pervenuto allo stato adulto non si dà ancora una percezione differenzia­ ta del sistema sociale. Questo si mostra in blocco come omogeneo, orien­ tato come ci appare in senso non tanto indipendente quanto piuttosto contrario, anzi ostile, a quel mondo dell’infanzia che sembra invitarci a disprezzare con la determinatezza del neofita, che da poco abbia dimesso la



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partecipazione al passato errore. Subentrando così, non importa se fatico­ samente, il bisogno di proiettarsi negli adulti, prima ancora di averne intra­ vista la riva di approdo, avvertiamo in noi il desiderio di distanziarci da un’infanzia che abbiamo appena abbandonato. Vi è il lancio di noi stessi alla cieca in una data direzione, ma senza un oggetto determinato; questo dovrebbe restituirci il senso di una realtà, che noi non sappiamo se, e come, ci sia. Non tutti siamo abbastanza avvertiti che si tratta non tanto di acqui­ sire il modo di pensare degli adulti, ma invece di imparare altresì a difen­ dersene, se vogliamo pervenire al punto decisivo, che anche 1 più maturi degli uomini in definitiva, loro malgrado, falliscono: che cos’è dunque la realta? Una maturazione convenzionale, benché precoce, può esserne d’im­ pedimento quanto il più cronico infantilismo; sottilmente, sono estremi che si toccano. Nei discorsi degli uomini maturi, la realtà è il ripudio di ogni illusione ideale, vale a dire aprioristica, ed è come tale il risultato dell’esperienza. Questa esperienza propria dell’adulto sembra essere una riduzione a un limite che resta invisibile dal lato adolescenziale, dove la sua menzione gene­ ra lo spettro di un’esperienza depressiva che trae forza dalla meditata rinun­ cia a ogni slancio trasgressivo. Ricordo che uno dei motivi che personal­ mente mi spinsero alla filosofia fu la progressiva incapacità di accettare il disincantato realismo col quale persone adulte, peraltro stimabili, finivano con l’accettare senza contrastarlo il responso della loro esperienza. A que­ ste persone avvedute ed esperte le mie obiezioni apparivano come delle sciocchezze che il corso stesso della vita avrebbe finito con l’appianare, ren­ dendole anestetiche. In primo piano dunque veniva e vien tuttora posto quel concetto di esperienza, unico e vero e proprio «apriori», sulla cui base occorre ricavare, da ultimo, il nocciolo definitivo di una stabile «verità», come correlato della realtà. Che io in seguito abbia fatto il professore di filo­ sofia, e non le cose cui ero destinato, è un compromesso ragionevole che dimostra l’adattabilità di un remoto disadattamento di origine adolescen­ ziale. Tutto ciò induce a parlare di acquisizione del senso della realtà nei ter­ mini di un processo induttivo, e non in quelli di un dato di fatto statico, precostituibile. Ma un processo può anche non concludere, disperdere i suoi obiettivi nelle tracce di un disegno troppo complesso per evidenziarsi.

3. Il discorso si sposta insensibilmente dall’analisi psicologica ai fonda­ menti stessi della vita dell’uomo, alla sua ancestrale biologia. In questo sen­ so l’esperienza del mondo e della vita agisce come una sorta di salutare,

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anche se depressiva, inibizione nei confronti degli impulsi selvaggi, inedu­ cati. Il confine tra i riflessi incondizionati e quelli condizionati, tra gli impulsi e gli adattamenti sociali dei medesimi, è spesso incerto; l’effetto del­ l’inibizione porta a estendere la portata dei riflessi condizionati, a detri­ mento di quelli incondizionati, ragion per cui nell’uomo sorge un senso involutivo contrario alla linea principale, maestra, dell’evoluzione. Se que­ sta procedeva verso una progressiva specializzazione di funzioni, nell’uo­ mo il bisogno di integrazione prende per altro verso un senso regressivo. Ne deriva un ritardo di adattamento, che assume la forma anche biologica del differimento della maturità. La tesi per cui l’uomo non sarebbe altro che una scimmia destrutturata, dalla nascita prematura e dalla crescita ritar­ data da un più lungo e penoso periodo di adattamento, risale quanto meno a Buffon. Ma è stato Lodewijk Bolk, in un’opera tanto celebre quanto pra­ ticamente ignota, a darne dimostrazione con argomenti pertinenti all’ana­ tomia, alla fisiologia, all’endocrinologia. L’uomo è il prodotto finale, non ancora compiuto, non solo di un’evoluzione progressiva, ma anche in parallelo di una regressiva, che agisce nel senso di un aumento dèlTmibL zione dello sviluppo. Si tratta della tesi della fetalizzazione, che secondo Bolk accompagna regressivamente la Menschwerdiing, la genesi dell’uomo. Il meccanismo fetalizzatore consiste nel differimento della crescita e matu­ razione. Questo ritardo sistematico provoca per un verso una nascita abor­ tiva, anche se non letale; e, per l’altro, permette un più lungo periodo di svi­ luppo extrauterino, con conseguente maggiore plasticità nei confronti delle esigenze ambientali. Il rapporto riflessi condizionati/riflessi incondiziona­ ti si altera a favore dei primi. Espulso ancora immaturo dal grembo mater­ no, dove è troppo grosso per poterci ancora stare, l’uomo nasce pur essen­ do ancora un feto; esso sarebbe incapace di sopravvivere, senza quel sostituto della placenta che sono le cure che si prende di lui la società. Sono queste che gli danno larghe probabilità di continuare una vita in gran parte artificiale. L’uomo è animale urbano, utpov JtoXtTixóv, diceva Aristotele; e si deve intendere che, per necessità di natura egli deve completare nel grem­ bo della civiltà quel processo di maturazione che le specie inferiori hanno in gran parte già acquisito non appena vedano la luce. Col crescere della cura sociale, si accentua per converso la destrutturazione biologica. Come dice Bolk, «l’accesso allo stato adulto è stato sempre più differito» nel cor­ so dell’ominizzazione; parimenti «la crescita, rallentata; la durata della vita, prolungata». Non ha senso scorgere in tutto ciò una promessa di vittoria perenne; non si deve piuttosto vedervi un primo passo dell’umanità «verso

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la sua futura scomparsa»? La citazione di Nietzsche - è Bolk stesso a farla - diventa qui d’obbligo: «L’uomo è qualcosa che deve esser superato»: que­ sta «corda tirata tra la bestia e il superuomo»; «e perciò devi amare le tue virtù, perché tu andrai in rovina con esse». Le virtù sono essenzialmente capacità d’inibizione. Questa digressione sul biologico rappresenta una tesi di per sé valida, o comunque discutibile disponendo delle informazioni appropriate: dopo tut­ to, si tratta di una teoria di oltre cinquant’anni fa. Noi l’abbiamo introdot­ ta, oltre che per i suoi propri meriti, per far da contrappeso alla nozione di esperienza. Questa, anche nei suoi esiti più meditati, si concepisce come un agire, il fare esperienza (in inglese si direbbe to experiencef in accezione meno empirico-cosale e più grave del senso di destinazione, patetico e biografico-storico, che assume la nostra vita in complesso. Così, se l’esperien­ za per noi non vuol dire altro che mantenere un indirizzo prudente, che non oltrepassi la portata delle nostre provate abilità, il nostro atteggiamento di circospetta lungimiranza non potrà alla lunga che riscuotere conferme: ma appunto perché non abbiamo veramente fatto esperienza, non ci siamo pro­ vati nel rischio, dimettendoci infine senza aver trovato nulla. Ma c’è un altro modo di fare esperienza, ed è quello degli uomini che osano sfidare l’igno­ to. Non sto pensando ai viaggi spaziali, ma al fatto che un uomo può deci­ dere di affrontare un compito per il quale non sa se le sue capacità saranno all’altezza. Chiaramente la Divina commedia di Dante, per esempio, un poe­ ma cioè in rima incatenata che intrattiene il lettore per oltre 14.000 versi in una lingua fin allora mai udita, è un’impresa che prima d’esser compiuta a nessuno era venuto in mente che si potesse fare; di sicuro, nemmeno a Dan­ te. Questo è un esempio evidente di neotenia, per usare il linguaggio di Bolk, cioè di crescita creativa su di sé, indotta dal rischio stesso dell’impresa. Dan­ te non potè godere della sua acquisizione da parte del pubblico. Come rife­ risce Boccaccio, alla morte di Dante mancavano ancora tredici canti del poe­ ma, che non si potevano ritrovare. Ma al figlio Jacopo apparve in sogno il Poeta, che disse dov’erano, e l’opera fu completata. Leggenda o realtà che sia, l’epilogo c’informa che a Dante fu risparmiata la delusione di sopravvi­ vere, ancora attivo, alla propria opera. Infatti, che cosa si può fare dopo ave­ re portato a termine un’impresa del genere? Non è possibile ripeterla; né riposare sugli allori aspettando la gloria. L’esperienza spinta oltre al limite non ammette che il riflusso della bassa marea. La morte, o l’incapacità di sopravvivere.

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4. C’è un personaggio del mondo antico che ha colpito in questo senso l’immaginazione dei contemporanei e dei posteri, che li ha convinti che l’uo­ mo non è sottoposto a un cieco destino, al fato, alla polpa onnipervasiva, ma elevandosi alla libertà col proprio volere, si affranca dai tanti impedimenti. Si tratta di Alessandro Magno, la cui importanza come esemplare, nell’età elle­ nistica, difficilmente potrà esser sopravvalutata. Ma le cose belle sono diffi­ cili, xaXejrà làxaXa. Anche qui il difficile comincia dopo l’impresa. Che cosa ha veramente dimostrato Alessandro? Che si possono dominare gli eventi, o che si è solo in grado, al massimo, di domesticarli, cambiando loro il nome? Che ne è dell’impero persiano sotto i Diadochi: ha cessato di esistere, o ha solo mutato i padroni? L’evento comunque resta considerevole; e in Occi­ dente la sua fama surclassa perfino quella di Cambise, che ha infranto la plu­ rimillenaria indipendenza dell’Egitto. Lo stesso mito ricompare, ma solo per i contemporanei, con Napoleone. Non parliamo dei riformatori religiosi, ma dei grandi condottieri coi quali si identificava immediatamente l’uomo comu­ ne. Perche quelli, e si tratti pure di Mose, di Gesù o di Maometto, sono indi­ ci putativi di un rivolgimento solamente morale, o spirituale, di per sé incon­ sistente e privo, molto più del politico, di concreti effetti reali. Comunque sia, la realtà che vorremmo qui cogliere e che più ci interessa, è quella che ci appare in termini psichici e che si espande comunicando attraverso un con­ senso intelligente c critico; non certo la realtà in termini di atomi, di radia­ zione elettromagnetica o di età astronomica dell’universo. Una verità trop­ po indiretta, dalle risultanze puramente simboliche e impalpabile nelle sue conseguenze non e un correlato adeguato alle nostre esigenze in fatto di realtà. Che ce ne facciamo della luce di una stella che a milioni di anni-luce di distanza manifesta la sua presenza quando ormai con ogni verosimiglian­ za, è scomparsa da un pezzo? Il pensiero è sconvolgente; ma dovremmo for­ se farne uso per il suo valore subliminale, quasi fosse una verità religiosa? Lo stesso sublime diventa ripugnante, se assunto con questa funzione. E d’altra parte non sappiamo che farcene di verità specificamente religiose, che stan­ no o cadono con la fede nell’intenzione pura che le anima. Le verità religio­ se sono quelle di cui i loro adepti dicono che hanno scosso il mondo; solo che il inondo non se n’è accorto, fatta eccezione per un innocuo cambiamento di nomi. Infine dalle verità mistiche ci asteniamo per quanto più è possibile. Queste sono simili a un uomo che, dopo dieci anni di solitudine e di digiu­ ni, scende dalla montagna ad annunciare agli uomini che lo adorano: «EIo visto un cervo dalle corna d’oro!» Di più non è dato sapere.

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TERZA LEZIONE

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5. Vorrei parlarvi di un’esperienza tanto psicologica quanto filosofica che si fissò, io credo, nel cuore stesso del pensiero moderno quando esso si espresse in forma esemplare nell’opera di René Descartes. Noi siamo al mondo e crediamo di sapere che la realtà è fatta di oggetti che si palesano ai sensi, ma la stessa riflessione ci dice che essa è composta altresì di entità in soprannumero, invisibili e date indirettamente, che noi crediamo di identi­ ficare accanto al resto che ci sta intorno. In particolare, quella parte del mondo che è la nostra mente contiene anche dei concetti, il cui significato possiamo comprendere e comunicare altrui senza doverli attribuire come proprietà a degli oggetti sensibili. Che cosa dobbiamo pensare di queste entità apolidi, che fan parte del mondo pur non essendo contenute in esso? Senza atteggiarsi a santo, Descartes è il profeta disarmato di una via d’u­ scita da queste perplessità: è il famoso cogito, anzi per esteso ego cogito, ergo sum. Potrete ribattere come volete, ma una cosa è certa: se «io penso», pri­ ma devo poter esistere come cosa che pensa. Descartes risale ancora più indietro, fino a ricomprendere la frase di sant’Agostino, si fallor, sum, che egli interpreta nel proprio senso. Se infatti io mi sbagliassi anche in questo, per cui io sono in quanto peccatore, potrei tuttavia sempre sostenere che esisto, come uno che si sbaglia perfino in questo ragionamento. Je pense, donc je suis. Mi obietterete, come taluno dei contemporanei: Monsieur, qa n’estpas grand’ chose! Infatti, non riesco a dire molto, posso solo a fatica distanziarmi dal centro del mio essere inteso come pura soggettività. E tut­ tavia in quanto essere pensante, io sono, in particolare posso avere delle idee che non hanno le cose di questo mondo. Le cose non hanno idee, sono io che le ho, che ho rappresentazioni anche delle cose prive di idee, che le sepa­ ro e ricombino, magari per produrre involontariamente fantasmi di cui mi spavento. Le idee sono solo l’oggetto cui è rivolta la mia mente e, come tali, possono essere idee qualsiasi. Come quella scheggia di lapide mortuaria che durante un bombardamento, nel fosso, si conficcò accanto a me più di quarant’anni fa. Le idee, mi ricordo, erano confuse ma pertinenti: quel pove­ retto, anche nella tomba»; «ma lui è già morto»; «poteva capitare a me»; «ma per fortuna»; e così via. Impressioni concatenate in vario modo, non certo coerente, ma tra di loro legate: delle idee, per l’appunto. Prese in questo modo, come impressioni che mi passano per la mente, inventate o evocate, le rappresentazioni in sé, prima ancora di pensare agli stati di cose che raffigurano, sono quelle che per Descartes costituiscono le «idee» materialmente intese, ideae materialiter sumptae. L’espressione «materialmente intese»» significa che le assumo per come mi appaiono nel-

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la mente, come per così dire le vedo; sono cioè le idee che, nell’immediato, mi passano per la testa. Fin qui nessun problema. Il punto importante è se, nell’analisi delle idee, si possa procedere oltre. Si può andare più avanti? Descartes lo fa. E di fatto io posso inquadrare topologicamente queste idee, in uno spazio sempre ideale dove si distingua destra e sinistra, sopra e sot­ to, davanti e dietro; e inoltre il pieno e il vuoto, la figura e lo sfondo, il dipendente e inseparabile da ciascuna di esse da ciò che invece è indipen­ dente e quindi separabile. E inoltre c’è il tempo, che cosa sia venuto prima, distintamente, al pensiero; e che cosa dopo, di conseguenza. In una parola, io posso cominciare a operare delle distinzioni razionali sull’oggetto mate­ rialmente inteso delle mie idee. Queste distinzioni non sono però delle idee materialmente intese, anche se compiute su di esse. Sono piuttosto distin­ zioni che trovo io, vale a dire determinazioni del mio sguardo diretto sulle idee, modificazioni della maniera di considerarle. Io mi accorgo per esem­ pio che un triangolo non solo ha tre angoli, ma anche tre lati; e riconosco che non solo li ha, ma deve averli, necessariamente. Ora tutto questo non si riesce a scorgere nell’idea presa materialmente, di essa posso avere anche una rappresentazione confusa, magmatica, anteriore a ogni distinzione. Più precisamente l’idea materiale offre una raffigurazione appena discernibile, che si contraddistingue per certi caratteri, come una casa o un albero. Ma ci vuole uno sforzo dell’attenzione, sorretto da un adeguato sforzo della volontà, per obbligarci a riconoscere che, una volta fissate certe distinzio­ ni, altre cose ne risultano necessariamente. La distinzione dell’intelletto, operata dalla volontà, è ciò che dà origine all’idea intesa in senso formale, all’idea formaliter, che è così detta perche ne concerne il significatoTL’idea del triangolo, in quanto significa un’entità (e non un oggetto dei sensi), è tale se necessariamente comporta anche tre lati, tra le altre cose: essa deve cioè esser fatta in un certo modo. E a questo punto comincia a prender for­ ma il pensiero di una realtà possibile, di una realtà che non è ancora fisica, ma certo concepibile nella mente. Così il reale si rivela alla mente come qualcosa di altro, di distinto dalla propria attività coscienziale, ma nello stes­ so momento come un qualcosa, che per il fatto d’esser suscettibile di darsi così e così, non è quel che s’intendeva con materiale. L’idea deve esser fatta in modo, distinguendosi per certe caratteristiche formali, da imporsi all’in­ telletto. Le qualità che attribuiamo alla materia, intesa come il contrario del­ la mente, non sono in se stesse materiali. Questo è un paradosso o, per meglio dire, è il costo del compromesso cui dobbiamo piegarci per non incorrere nell’antinomia di Gorgia. Il reale non è pensato, e dunque il pen-

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siero tratta del reale come dell’irreale. Descartes riduce al minimo il compromesso richiesto. Omnia in mensura et numero et pondero disposasti (Sap., 11, 21): il mot­ to potrebbe valere per Descartes e, in effetti, è stato spesso citato a tale pro­ posito. L’ordine e il numero, cioè la misura, è quanto noi riteniamo del rea­ le. La realtà determinabile, questa è la materia, più l’ordine e la misura, che sono nostre esigenze intellettuali, il requisito minimo perché si possa par­ lare di qualcosa d’altro dal pensiero. Per parlare dei corpi materiali, com­ preso il nostro proprio, dobbiamo farlo prestabilendo a priori che devono esser suscettibili di ordine, misura e peso. Presupposto di tutto ciò è che, a fondamento dell’idea di corpo, debba esserci ['estensione. Che cos’è, dun­ que, l’estensione? Sostanza o attributo? E, se attributo, essenziale o acci­ dentale? Sono i problemi classici della filosofia moderna. Noi non daremo risposta a queste domande, perché ci son già per esteso in qualsiasi buon manuale. Diremo piuttosto dell’altra questione: che cosa si deve intendere con estensione? Qual ne è il significato? Anzitutto, essa corrisponde alla terza funzione delle idee, quando sono assunte in senso obicttivo, ideae obiettive sumptae, vale a dire rappresentativamente. Sono le idee prese nel senso rappresentativo, di raffigurazione cioè di un mondo di cose fuori di me, che creano per me il mondo esterno, esteriorizzando i corpi nel mon­ do. Secondo Descartes, se io non mi fondassi su questa presupposizione, il mondo certamente continuerebbe a essere quel che è, ma io non lo potrei concepire come esterno. Non ne avrei l’idea. E questa idea oltrepassa quel­ la della distinzione formale. In breve, è l’idea che se esistono due cose nel mondo occorre che si pen­ sino come l’una fuori dell’altra, e viceversa; o, in altre parole, che siano non solo distinte, ma altresì distanziate. E quindi, per operare questo distanzia­ mento, devo immaginarmi anzitutto l’estensione. Sia essa sostanza o acci­ dente, poco importa, purché rispetti l’ordine della fondazione, ciò che pre­ cede e ciò che segue. Voglio dire che quest’ordine resta valido, per noi, anche se per avventura non esistessero sostanze né mondo esterno «in sé». Importante è rendersi conto che l’estensione non è un’idea del genere di quelle che avevo all’inizio, e che consideravo solo materialmente: come l’i­ dea del bianco grigiastro, del suolo, degli scoppi, del movimento ecc., e nemmeno un’idea distinta matematicamente, con le sue proprietà formali, le sue incompatibilità o conseguenze, la sua astratta identità ecc., ma qual­ cosa di ulteriore e più fondamentale. Essa è infatti subentrata nel mio intel­ letto per una ragione ben precisa, e cioè per distinguere distanziando. Qui

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non è più il caso delle associazioni che si formano nel sogno o nell’immagi­ nazione, perché l’estensione, anche se si produce nello stesso modo, inter­ viene con un motivo che riesco a identificare, a ritrovare, a dire esplicita­ mente. Nasce così la raffigurazione «ideale», per mezzo degli assi cartesiani delle ascisse e delle ordinate. Ma perché io possa parlare di due cose nel mio campo visivo, comunque me le raffiguri, bisogna che prima di tutto èsse, df «per sé», mi facciano il favore di stare un po’ separate, o altrimenti le confondo. L’idea dell’estensione mi permette così di stabilire che se due cose sono diverse, c distanziate, io posso raffigurarmele in uno spazio di cui misuro la distanza. Tramite questo procedimento, pervengo all’idea di uno spazio complessivo, che è l’insieme di tutte le infinite distanze tra gli oggetti presi in numero infinito; e, attraverso alcune distanze scelte a piacere, e seguen­ do un determinato ordine, posso incaricare gli oggetti stessi, definiti dal parametro spaziale, di essere nella loro propria localizzazione ciò di cui io parlo. È quindi la misura di distanza relativa (per esempio, il signore laggiù in fondo, nell’ultima fila, terzo da destra ecc.) che identifica l’oggetto del mio discorso. Per costituirlo a soggetto grammaticale non è necessario pro­ muoverlo (chiedendo scusa al signore laggiù in fondo) a vera e propria sostanza. Nel modo di pensare precedente, per esempio in quello aristote­ lico, bisognava invece attribuire al soggetto grammaticale per lo meno lo status di «sostanza seconda». 6. Ora, ammesso che questo modo di parlare risulti intelligibile, siamo evidentemente in presenza di un gioco di immagine e specchio. L’estensio­ ne, se neghiamo che sia sostanza, è anch’essa un’immagine. Ciò che la distin­ gue dalle altre immagini e la sua funzione di specchio, per cui ciò che all’ini­ zio era solo una rappresentazione materiale indifferenziata, attraverso la distinzione formale e la distanziazione si costituisce a fuoco di un riferi­ mento universale, nella cui cornice è consentito inquadrare almeno un ele­ mento di realtà esterna. In sé le idee sono tutte materiali. Esse non conten­ gono nulla più di quel che sembrano. Ma seguendo questo filo raziocinante, osserviamo che almeno alcune tra di esse (quelle della matematica, per esem­ pio) si prestano più di altre a esser prese in senso formale. Non ci preoccu­ piamo del perché ciò sia possibile: probabilmente tutte le idee sono suscet­ tibili di tale trattamento; la questione può essere solamente una di politura, curvatura e potere riflettente degli specchi disponibili. Non andiamo oltre, c passiamo dalla distinzione formale a quella obiettiva, concependo l’imma-

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gine di un mondo dove ogni cosa, attraverso gli assi cartesiani, risulti univo­ camente identificabile e quindi riconoscibile. Non importa che l’idea resti in fondo quel che era prima, un’impressione materiale o un’immagine sul fon­ do della retina, l’importante è che io ora so di che cosa sto parlando; e che ogni altro può saperlo con me, purché si procuri le istruzioni per l’uso del suo cervello. Posso non esser sicuro di nulla, ma, tracciando gli assi cartesia­ ni, a ogni punto del mondo attribuisco una terna di numeri (x, y e z) che ne identificano la posizione (unica) rispetto alle coordinate. Potrò continuare a non sapere altro, ma per lo meno so di quale punto del mondo sto parlando; meglio ancora, posso presumere di farlo, senza dovere abbandonare la sedia del mio studio: la verifica pratica non aggiungerebbe nulla alla mia certezza. Qui, stando fermo, con la sola mia mente dico a me stesso: posso fare a que­ sto modo, dando un nome diverso a ogni cosa per quanto piccola di questo mondo. Utilizzando il solo concetto di estensione, troverò tutto il mondo obbediente ai miei piedi per quanto riguarda la mia capacità di nominarlo attraverso le tre coordinate di numerali. Omne enim quod vocavit Adam (...) ipsum est nomen eius (Gen., 2, 19). .Ma ora il problema che ci interessa non è solo quello dcll'identificazione (o del riconoscimento di quella x, di cui esattamente parlavamo), ma del­ ta, conoscenza degli oggetti di cui vogliamo parlare, ossia della loro effettiva individuazione. Vale a dire, non ci basta sapere che l’oggetto di cui parliamo è identificabile come x, vogliamo anche sapere a che titolo esso è un oggetto. Finché mi limito a usare l’apparato identificatore che ho descrit­ to, ho una carta millimetrata che al massimo mi fornisce il concetto (nomi­ nale), senza individuazione dell’oggetto. A parte la concreta individuazio­ ne, che ci immette nel problema della conoscenza, io potrei avere un apparato identificatore fallace perché, per esempio, prevede solo due dimen­ sioni anziché le tre che ci vogliono. E qui, anche se a malincuore, dobbia­ mo abbandonare Descartes, compiacendoci tuttavia di averlo accompagna­ to per un non breve tratto di strada. Un primo problema riguarda il presupposto, di origine atomistica, del­ la incompenetrabilità dei corpi. Chiaro che, se ci sono atomi, e questi sono indivisibili (o indistruttibili), ciò si dà come ovvia conseguenza. Ma si trat­ ta proprio di ciò che vorremmo sapere, non presupporre. Ora ci viene in mente che il principio di identificazione attraverso gli assi cartesiani è una concezione solamente geometrica, che non può applicarsi alla fisica per semplice proiezione. Vale a dire: se i corpi sono effettivamente incompene­ trabili, l’individuazione geometrica coincide con quella fisica; ma se di fat-

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to, fisicamente, non lo sono? In effetti, se la distanza tra due corpi è mino­ re di 1/ioo.ooo.ooo di cm., il principio non ha validità fisica, perché siamo in presenza di una collisione atomica con probabile alterazione d’identità. Come si vede, l’argomento è presentabile senza far menzione delle geome­ trie fisiche speciali, che complicherebbero irrimediabilmente il quadro. Un altro problema riguarda la nozione stessa di■ evento^ cioè di cosa che muta nel tempo. Nel mondo non vi sono solamente le forme statiche. Ci sono cose che mutano di forma e le figure che si trasformano non sono tut­ te trascrivibili per mezzo della geometria analitica, nemmeno quelle regolari. È a questo proposito che Descartes pone una categorica distinzione tra curve geometriche e curve meccaniche’, le prime sono rappresentazioni geo­ metriche di cui è possibile dare come generatrice una formula algebrica; le altre, invece, si dicono meccaniche perché si generano con speciali disposi­ tivi di disegno che permettono di tracciare figurazioni spostando il penni­ no a velocità costante. (Sono tali la concoide, la quadratrice, la duplicatrice del cubo ecc.). Queste ultime non sono riconducibili all’algebra se non intervenendo col deus ex machina di un’addizionale cinematica. Il guaio in tutto ciò è che Descartes rende tale distinzione categorica, come se fosse sta­ bilita per sempre, mentre nemmeno cinquanta anni dopo sarà superata dal­ l’intervento del calcolo infinitesimale. Ma anche l’introduzione di conside­ razioni cinematiche nella geometria non va certo esente da inconvenienti. Fare assegnamento sulla velocità costante nel tracciare le curve meccaniche può voler dire una delle due: o non accettare affatto tale premessa, se non come comodo espediente privo però di rilevanza teorica, e siamo costretti ad ammettere un limite di chiusura sistematica della geometria analitica; o ne accettiamo, ammettendolo, tutte le implicazioni teoriche, e il concetto stesso di velocità costante introduce una nuova variabile non garantita dal­ l’evidenza. Con questa nuova variabile entra infatti in gioco il problema del tempo, vera bestia nera della filosofia cartesiana. Il mutamento infatti diven­ ta comprensibile introducendo la variabile t (il tempo), ma il presupposto del suo fluire costante non è certo evidente. Si tratta di un postulato meta­ fisico di tutt’altro genere. Dobbiamo limitarci a dire che si afferra il tempo in un atto di intuizione anch’essa elementare, in un atto temporale che ha se stesso come oggetto. Ma a parte il palese carattere di espediente di que­ sta considerazione, bisogna dire che nulla garantisce che due diversi atti temporali riguardino lo «stesso» tempo oggettivo. Per altro verso spazio e tempo non sono certo concetti correlatili in maniera simmetrica; perché lo spazio, fin tanto che non vi si introduce il movimento (la cinematica), si

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dispone in una coerente geometria, evidente in ogni suo luogo; mentre il tempo non presenta nemmeno la certezza dell’attimo «ora», compresso come limite fluttuante tra futuro e passato, e rimanda all’affidabilità della memoria. Eppure la nozione di evento è quella di una cosa che perdura, pur subendo modificazioni nel tempo. Parlare di eventi è parlare della realtà in maniera più adeguata che non riferendosi alle semplici cose. Ma evidente­ mente nel parlare di realtà in maniera più adeguata, rispunta fuori con mag­ giore stringenza, come contraddizione o paradosso, la «rimossa» antinomia di Gorgia. Tuttavia noi insistiamo, in ciò cartesianamente, a muoverci sul terreno dell’intuizione. Se vi è una qualche contraddizione nel rappresentarci ciò che è reale, questo divario deve palesarsi nel fatto stesso che esso non è un’i­ dea della nostra mente, ma l’idea di qualcosa d’altro. Tra l’idea che come tale è sempre della nostra mente, materialmente parlando, e l’idea che, attraver­ so il mutamento del nostro sguardo, diventa formale e da ultimo obicttiva, rendendoci capaci di rappresentare qualcosa di radicalmente altro, il reale, deve intervenire una modificazione avvertibile in noi come acquisizione del senso della realtà. Questa modificazione, per quanto sia profonda, non deve però comportare l’abbandono del terreno dell’intuizione, quale la cono­ sciamo nel muoverci in ambiti privilegiati, come quelli delle scienze pro­ priamente eidetiche, come almeno in parte sono le matematiche, la logica, la deontologia ecc. Forse dovremo accontentarci di un pensiero parzial­ mente intuitivo, sperando poi di stabilire il tutto su tale parte di evidenza, giacché la pretesa di far valere solo l’intuizione appare francamente utopi­ stica. Le risorse di un pensiero non intuitivo, o contro-intuitivo, come pre­ feriamo dire, si fondano come sappiamo sull’uso di paradigmi linguistici ai quali, essendo già adusati, non richiediamo che l’evidenza dell’abitudine, e una reiterazione allargata. Il pensiero controintuitivo si muove per esempio nel possibile, adoperando allo scopo delle matrici esaustive di tutti i casi cal­ colabili, e trascegliendo quelli più adatti. Noi siamo talmente abituati a que­ sto modo di ragionare, da non avvertirne l’alcatorietà; ma bisogna pensare che esso riceve rincalzo, per complementarietà, dal compresente pensiero intuitivo. Questo perché nessuna matrice potrebbe sul serio esaurire, nem­ meno disponendo di schemi linguistici adeguati, l’universo trascendental­ mente comprensivo di tutte le possibilità che si danno. L’alternativa di un pensiero totalmente controintuitivo non è affatto percorribile. Il suo ideale sarebbe quello di un pensiero completamente simbolico, retto dall’arbi­ trarietà del segno, regredente sul solo libro scritto comprensibilmente a par-

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tire da un’infinita biblioteca di Babele. Il rapporto tra simbolo e designato non può dunque essere completamente aliorelativo come quello tra cose eterogenee, senza con ciò importare all’interno dell’universo dei segni il paradosso gorgiano.

7. Il rapporto tra pensiero c realtà-fuori-del-pcnsiero si pone dunque, attraverso il medio dell’intuizione, come un rapporto tra due realtà diver­ se,contrarie e opposte fintanto che si vuole, ma non del tutto aliene l’una all’altra. Tale rapporto è ciò che chiamiamo ragione, proporzione o rapportatezza (ratto), e la sua stessa definizione indica che esso può variare molto, escludendo solo i due estremi dell’intuizione c del simbolico esclu­ sivi, totalizzanti senza complemento. In particolare, la nozione di espe­ rienza può essere usata, quantunque in maniera non totalizzante, sia per riferirsi al momento intuitivo e redintegrante del farla, sia a quello simbo­ lico e calcolistico del tenerne conto. Per quanto concerne il problema così mediato del senso della realtà, il punto di vista prevalente è di carattere psi­ cologico (e sociale); tuttavia anche la sua adozione non serve molto, per­ ché non spiega il profondo divario che continua a sussistere tra il senso fisi­ co-matematico e quello psicologico del reale. Lo psicologo che più si è segnalato nel porre con nitidezza questo problema filosofico è stato Kiilpc, fondatore della Scuola di Wùrzburg (il cui allievo Popper è oggi molto cele­ brato) che ha scritto un lavoro intitolato appunto alla «realizzazione», nel nostro senso. Ma nella filosofia moderna in generale l’inauguratore di una vera c propria critica della conoscenza a partire dai suoi momenti concreta­ mente mediatori tra la realtà e il pensiero, prima ancora di Kant, è stato il filosofo Locke. Anche Locke, come Descartes, è fautore di una ripresa radi­ cale della conoscenza a partire dalle idee che la generano. Ma queste idee, a differenza di Descartes, non assumono il criterio di una mathesis univ erta­ lis come discriminante in senso formale. Esse vengono assunte per il loro valore assertorio di presenza, la cui attenta considerazione in sede sorgiva, o fenomenologica, deve esser sufficiente a mostrare le fallacie del pregiudi­ zio. La corrosiva critica dell’idea composta di sostanza, che è un pregiudi­ zio considerare una nozione necessaria a priori, anziché fittizia; l’inedita considerazione dei «modi misti», che riguardano il ruolo costruttivo del­ l’immaginazione negli sviluppi dell’agire umano consapevole, non imitati­ vo; e il grande rilievo dell’idea di libertà, che nessun raziocinio riuscirà mai a comprimere tra le maglie di un predisposto meccanicismo, dagli effetti già calcolati: costituiscono alcuni degli esiti giustamente più celebri della filo-

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sofia di Locke, il fondatore del nuovo empirismo emergente. Al di là dei suoi meriti innegabili, però il difetto di questa maniera di pensare a mathesis nulla, o allargata, è che sulla sua scorta non si riesce a distinguere tra evi­ denza originaria, o intuitiva, e evidenza proveniente dal costume e dall’abi­ tudine. Il fatto è che non possiamo combattere il pregiudizio, raddrizzare le idee e costituire una conoscenza verace basandoci su ciò che la media degli uomini pensa, senza con ciò ricadere nella perplessità; o su ciò che i miei amici e io pensiamo, senza relegarci nell’arbitrario. Ma Locke ebbe tut­ tavia il coraggio di fare una cosa e l’altra insieme, e bisogna dire che il tem­ po gli ha dato largamente ragione. Non possiamo nondimeno stabilire mediante una specie di «curva gaussiana» quale sia il senso della realtà pre­ valente a un dato momento, mettendo in ascisse il grado di cultura e in ordi­ nate l’intensità della «realizzazione». Mi pare pertinente mettere in rilievo le notevoli difficoltà che concezio­ ni oggi ovvie e perfino banali hanno dovuto superare per entrare a far par­ te della mentalità degli uomini pur colti di una data epoca. Così per esem­ pio il fatto che ogni corpo sia pesante, è una cognizione che ha dovuto compiere un percorso abbastanza faticoso per essere acquisita al senso fisico-matematico, quindi a quello comune di realtà. Ancora Kant, indottrina­ to com’era nelle teorie di Newton, pensa che la proposizione «ogni corpo è pesante» sia sintetica a posteriori. Per noi è invece di senso comune con­ siderarlo certo a priori. Invece non era così. La legge di gravitazione uni­ versale di Newton fu da lui espressa dicendo che concerneva la sua esattez­ za sperimentale (prodotto delle due masse, fratto il quadrato della distanza), ma che quanto alle cause (hypotheses non fingo!) non intendeva sostenere che ci fosse una forza di attrazione tra i corpi dotati di massa. Perché que­ sto? Ma perché non era ancora entrato nella mentalità comune il fatto che un corpo sia pesante perché fatto oggetto di un’attrazione di gravità. L’idea stessa di un’attrazione era in qualche modo revulsiva, come per noi le sen­ tenze pubblicitarie. Erano ancor troppo vicine le speculazioni degli alchi­ misti, dei visionari, degli spiriti geniali ma indisciplinati del Rinascimento che trattavano di un’occulta attrazione che si esercita tra le cose, in virtù di una simpatia elettiva o altre filìe unitive. Erano cose presenti nei discorsi di Giordano Bruno, di Fludd e perfino del suo discepolo Gilbert, che ne dava dimostrazione col magnete; e la gravità come una sorta di magnetismo, per quanto approssimativa, non si può dire che sia un’idea sbagliata, se propo­ sta per intendersi. Il senso comune dei dotti era rimasto indietro, doveva recuperare. Fu proprio a proposito di Ncv/ton che, con gli illuministi, si dif-

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fuse in Francia e da noi la mania filobritannica; essa comincia con Voltaire, Maupertuis, Diderot e pervade tutta l’enciclopedia. Newton ha diffuso l’i­ dea che la capacità di trasmettere un impulso a muoversi dipende da una proprietà della materia; ma dopo aver lanciato il sasso, nasconde la mano dicendo che non usa fingere delle ipotesi. Altri s’incaricano di raccordare l’idea col sentimento di tutti. Newton non fingeva invano di non fingere ipotesi. È interessante notare che quando Spinoza disse all’incirca le stesse cose, senza ricorrere a cautele, venne immediatamente accusato di materia­ lismo perché applicava al movimento, che è una produzione dello spirito, la capacità intrinseca della materia. Oggi non sappiamo più muoverci, noi stessi, senza bruciare benzina. Anche queste concezioni più astratte fanno parte del quadro del mondo che io mi faccio, anzi proprio i pregiudizi vi proiettano un chiaroscuro più profondo, partecipe della realtà vissuta. Se riesco ad assegnare i movimenti, in quanto meccanici, a una orologeria o clockwork universale, i loro effetti non sono più ciò di cui potremmo esser ritenuti responsabili come soggetti. Si capisce che anche nell’universo meccanicisticamente più deresponsabi­ lizzato, rimane sempre un ambito di comportamenti destinato alla giusti­ zia, in quanto le azioni considerate dipendano dal libero arbitrio o siano comunque suscettibili di trattamento penale o civile. Il decorso degli even­ ti, la storia stessa si divide in due parti sempre più difficilmente separabili, i movimenti meccanici e le azioni volontarie; ma nell’unicità della sequenza la discriminante del giudizio risulta incerta. All’epoca della caccia alle stre­ ghe gli squilibri mentali provocati dallo stesso atteggiamento bigotto veni­ vano giudicati invasamenti e possessioni diaboliche, implicanti l’almeno parziale responsabilità dell’imputato, con conseguenti punizioni e torture; oggi inorridiremmo di fronte a un ordinamento del genere, Beccaria ci ha insegnato che la pena non riscatta il delitto, ma tuttavia non siamo propen­ si a deresponsabilizzare completamente il malato psichico: le nevrosi intac­ cano meno delle psicosi la capacità d’intendere e di volere, e la sentenza del giudice si fa più incerta, in conseguenza. In teoria il criterio discriminatore è molto netto: non dobbiamo rispondere delle sequenze naturali e mecca­ niche degli eventi, bensì degli innesti volontari che vi si immettono con con­ seguenze prevedibili. Così, una persona imputata di omicidio, non deve rispondere dello sparo della polvere o della traiettoria del proiettile, ma solo della mira e dello scatto del grilletto. Sarebbe quindi possibile in astratto passare dalle sequenze meccaniche a quelle volontarie ogni qualvolta è richiesto, facendo perno sulla rilevanza giuridico-morale. Ma supponiamo

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che uno commetta un’infrazione sotto l’influsso dell’alcool o di una droga: ciò costituisce una circostanza attenuante o aggravante? Qui i pareri non sono del tutto concordi, specialmente se si tratta di giudicare del compor­ tamento abituale a un gruppo di persone. Abbiamo quindi riunite malamente in una, una duplice accezione di realtà: se da un lato è reale ciò la cui evenienza è ineluttabile, cioè un effetto fisico di cause fisiche; dall’altro dichiariamo reale con altrettanta sicurezza ciò che è conseguenza della nostra volontà, e che in assenza di essa non si sarebbe determinato nemmeno fisicamente. In passato si tendeva a rendere solidale o no, in blocco, l’individuo con tutto l’avvenimento. Oggi siamo più inclini a dividere un capello in quattro, giudicando della relativa pertinenza di ciascun segmento, ma è chiaro che essendo i due momenti malamente accordati, nessuna norma se ne può ricavare con sicurezza. Così si può dire che la morte di una madre anziana può dipendere da due motivi: uno fisico, nel caso che la madre, poniamo, fosse molto vecchia o debilitata al punto di non farcela proprio più; l’altro morale, nel caso che entrasse in causa il fatto che i figli o i parenti più stretti non le prestassero ormai più l’attenzione o le cure necessarie. A discolpa ecumenica si potrebbe sostenere che una perso­ na anziana, malata e debole, doveva comunque prima o poi morire. Ma que­ sto non solleva da un dubbio atroce: forse non doveva morire proprio in quel momento, forse cercava ancora di dirci qualcosa d’importante. Se le mie osservazioni sono giuste, la nostra concezione della realtà si palesa fondamentalmente schizofrenica per esser in se stessa motivata da due intenzioni opposte. Accanto a un’intenzione deresponsabilizzante, di rifiuto dell’accadere e che chiamerei materialistica, nella tendenza ad attri­ buire a ogni avvenimento una causa meccanica e naturale, si pone per con­ verso una seconda intenzione, opposta e complementare, che a tratti si fa più acuta che mai e nostro malgrado ci fa sentire, in ogni situazione indi­ stintamente, nel profondo, consapevoli e colpevoli. Dalla somma di due assurdità contrapposte non si può certo sperare la felicità, né s’intravede la via per cui uscire da tale distretta.

8. Parlando del tutto in generale, senza cioè pensare a una dissoluzione teorica o pratica di tale deprecabile dualismo, devo dire che però esiste un terzo tipo di approccio alla realtà che non è immediatamente pregiudicato in tal senso. Si tratta del punto di vista per cui la realtà, essenzialmente, si pone in termini di ontologia e, in particolare, come teoria degli oggetti e del loro modo di darsi alla nostra esperienza sensibile e intellettuale. È una cor-

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rentc di pensiero che tra le altre cose porta ad approfondire o recuperare concezioni oggi dimenticate e che di recente è apparsa sotto le luci dell’at­ tualità sotto il nome di fenomenologia o filosofia fenomenologica. Sarà for­ se perché questa filosofia è subito apparsa stranamente irresponsabile sot­ to il profilo sociale, etico e politico, proprio per questo essa esercita un grande fascino. Essa pare immetterci in quella dimensione dell’oggettività, che non coincide interamente con quella di realtà, dalla quale si diffonde un effetto «anestetico», neutralizzante sia i problemi derivanti dalla rimozio­ ne della coscienza, sia di rincaro della medesima nella riacutizzazione di un senso di colpa. Come mai ci sentiamo in dovere di accordare una certa legit­ timità a questa filosofia? È che nel corso delle riflessioni sul senso dere­ sponsabilizzante del materialismo scientifico, o, in alternativa, sul riacutiz­ zarsi della coscienza di colpa, alla lunga ci sentiamo sopraffatti da un senso di demoralizzante stanchezza. L’uno e l’altro motivano invece un accatti­ vante interesse per le teorie dell’oggetto, se ci si oppone moralmente sia a ciò che ho chiamato materialismo, sia alla registrazione, infelice ma acquie­ scente, del senso di colpa. Questa filosofia, nuova esproprio per ciò anti­ chissima, trova quanto meno il modo di prendere per le corna il dilemma. Anzitutto nel parlare di realtà, di esistenza, di cose individuali ricordia­ moci che abbiamo che fare con dei modi di dire. L’osservazione non è inte­ sa a diminuirne l’importanza, ce lo impedisce la consapevolezza linguistica stessa, ma a mettere in rilievo che si tratta di un problema non di cose, o di eventi, ma di significato. E di tale significato è possibile parlare in termini lin­ guistici; o, meglio, metalinguistici. Assumiamo a scopo di perspicuità lo schema stoico dei tre diversi livelli con cui la lingua (in questo caso, il greco) affronta il che cosa del significato, andando dal meno al più determinato:

i) ti, qualcosa di indeterminato; ovciva, complemento al plurale; zz) òv, ente, entità, essente; oùx ovtcx, c.s.; z7z) ocòpa, corpo esistente individuale; àotópctTa, incorporei, c.s. Come si vede, il otnpa c l’individuo, l’esistente in senso proprio, l’ogget­ to materiale. Solo se l’ente esiste come corpo esso va soggetto al principio d’individuazione. Invece l’ente, TÒ òv, preso a sé, può essere un ùoiópctiov o incorporeo, ma resta un ente fin tanto che può essere identificato c ripreso come lo stesso. Al ti, infine, non spetta nemmeno l’identità, per tacere del-

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l’individualità, non essendo che un qualcosa non meglio determinato. Le determinazioni dunque son due, una debole e una forte: quella debole (zz) è l’identità del riconoscimento; quella forte (zzz) è l’individuazione dell’esi­ stente, che presuppone l’identità ma, in più, è un ente corporeo. L’ente incor­ poreo non ha esistenza, si può dire che «è», ma non propriamente che «esi­ ste». Dell’indeterminato, il Tl, non si può nemmeno dire che è; e ciò a maggior ragione vale per gli orava. La ragione per cui si raccomanda questo schema sta nella sua maggiore semplicità e adeguatezza alla lingua rispetto a quello per esempio di Ari­ stotele. Questi presentava una partizione in orizzontale oltre che in verti­ cale distinguendo una predicazione categorica, una analogica e una paronimica, imponendo fin dall’inizio una specie di «teoria ramificata dei tipi» (nella terminologia di Russell) che complica irrimediabilmente il quadro e lo rende praticamente inapplicabile. Invece lo schema stoico si limita a una «teoria semplice dei tipi», che riguarda solo i gradi intensivi dell’essere (nul­ lo, identico, esistente) ed è di applicazione intuitiva. Tale quadro non è ulte­ riormente semplificabile; è un fatto che senza per lo meno presupporre una siffatta distinzione non si può procedere con coerenza. In effetti le cose più obiettive del mondo, cioè i numeri, non sono esistenti: voglio dire che non esistono i numeri, ma solo le cose contate. Però il numero dato a certe cose contate si può riconoscere come lo stesso. Per questo c’è bisogno di distin­ guere tra identità ed esistenza (o sussistenza). In altri termini, l’obiettività non è l’esistenza, ossia le cose che sono identificabili nella mente non è det­ to che siano individuabili come esistenti nella realtà. Ma qui stiamo usando il dualismo di mente e realtà in maniera troppo disinvolta, dimentichi delle incongruenze già rilevate. In ogni modo si capisce in che modo debba inter­ venire l’ontologia, cioè la teoria dell’oggetto (anche inesistente, purché iden­ tico), nello stabilire la taratura oggettiva dei nostri sistemi di riferimento. Riprendiamo per esempio il principio d’individuazione che per il mon­ do fisico domina incontrastato da Descartes alla fine del secolo scorso. Tre dimensioni dello spazio (x, y e z) e una del tempo (z), in base a tale princi­ pio, sono considerate sufficienti a individuare un corpo fisico; cioè che non può esistere più di un oggetto di cui parliamo in tal senso. Ma possiamo assumere senz’altro che lo spazio non abbia più di tre dimensioni, o che il tempo non possa andare all’indietro? Si tenga ben fermo il nostro presup­ posto: noi vogliamo esser sicuri che nel punto prescelto al momento dato non esista più di un corpo; o altrimenti le nostre osservazioni diverrebbero equivoche, in quanto ubiquitarie. Ora, rispondere affermativamente vor-

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rebbe dire compromettere il principio d’individuazione col mondo sensi­ bile; ossia rimandarlo al problema della conoscenza, che per parte sua a pro­ pria volta lo presuppone. Mentre il principio d’individuazione, dal punto di vista linguistico, dovrebbe discriminare l’uso puramente copulativo del verbo «essere» da quello determinativo che ha in «esistere», o «sussistere». La questione è dubbia; noi usiamo parlare di esistenza in senso proprio anche a proposito degli atomi o delle particelle così dette elementari, che non cadono nel mondo dei sensi. D’accordo, si dirà; ma l’esistenza di tali corpuscoli si inferisce da esperimenti che vi afferiscono. Modifichiamo allo­ ra il principio d’individuazione in modo che comprenda sia il mondo sen­ sibile, sia ciò che in qualche modo ne viene dedotto. Ora ciò che viene inferito appartiene al mondo sensibile per via di una proiezione che pone il soggetto senziente in condizione di osservare ciò che normalmente non può. Così il modello dell’atomo, in origine, deriva inge­ nuamente dal desiderio dell’osservatore di farsi tanto piccolo da vederlo. In maniera più indiretta i modelli più recenti cercano non di visualizzare, ma di chiarire con diagrammi la distribuzione delle forze interagenti, i livelli energetici, o il senso dello spin. Ma fondamentalmente si tratta sempre di un’extrapolazione, che più o meno furbescamente cerca di rispondere alla domanda: come vedremmo noi le cose, se fossimo al posto di Dio? Se tale questione ammette, entro certi limiti, una soluzione confortante, è perché del mondo sensibile vengono conservate per induzione, nel passaggio a quel­ lo sovra - o sotto — sensibile, solo certe proprietà noetiche considerate inva­ rianti. Ma è proprio quello che accade quando si parla di spazio a quattro o più dimensioni. È chiaro che non si vede né si opera nella quarta dimensio­ ne dello spazio: un guanto destro non si trasforma nel sinistro senza rove­ sciare le costure. Ma anche gli atomi non si vedono né ci si gioca a bocce. E tuttavia come possiamo stabilire che l’atomo ha un nucleo e degli orbitali elettronici, così possiamo dire, basando l’induzione sulle proprietà note del­ la prima, seconda e terza dimensione, che nella quarta è identificabile l’ipercubo, o cubo tesserattinico (a quattro raggi), che è formato da 8 cubi con 16 vertici, 24 facce e 32 spigoli. Non essendo possibile immaginarselo, noi cer­ chiamo con la coda dell’occhio di coglierne approssimativamente le sem­ bianze, ma invano. Nondimeno queste difficoltà non sono maggiori che nel caso dell’atomo. Per me, l’unica cosa che non convince è che dopo aver piaz­ zato 7 cubi, non si sa dove mettere l’ottavo, che bisogna aggiungere da una parte con effetto destabilizzante, perché asimmetrico e antiestetico.

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9. A quali conclusioni si giunge indulgendo a speculazioni del genere? È chiaro che per stabilire che cosa esiste fisicamente, il mondo sensibile deve essere oltrepassato. Non si può accettare la testimonianza dei sensi come unico criterio discriminante tra ciò che esiste e ciò che non esiste. L’extra polazione così ammessa può prendere diverse direzioni: quella del subliminalmente piccolo, per esempio, come quella della quarta dimensione; ma ce ne sono molte altre. Non abbiamo parlato del tempo, del fatto che potreb­ be andare all’indietro. Per un verso questo è banale, perché se tutti gli even­ ti devolvessero in un tempo invertito, nessuno se ne accorgerebbe. Ma par­ liamo di quel luogo topico della microfisica, espresso dai diagrammi di Feynman, in cui certi eventi di tale mondo sarebbero più agevolmente spie­ gabili se si assumesse che, per essi, il tempo ha un senso invertito rispetto al nostro mondo macroscopico. Si rifletta inoltre sul fatto che ci siamo limi­ tati al mondo fisico, supponendo ovvia tale qualificazione. Ma la teoria del­ l’oggetto, l’ontologia, non è definita da siffatti parametri. In conclusione, anche senza fare intervenire un dubbio iperbolico, può benissimo darsi che le tre coordinate spaziali congiunte con quella temporale traguardino più di un’entità, non solo, ma di un corpo alla volta. La questione dell’individua­ zione, data per risolta in maniera evidente, è ritornata a essere un problema, e non dei meno gravi. D’altra parte può trattarsi di un recider pour mieux sauter. se la conclusione al dualismo di cui abbiamo parlato dipende, com’è vero che dipende, da un errato principio d’individuazione, la risalita al pro­ blema fondamentale può avviarci in un percorso migliore. E interessante peraltro notare che in questa critica dei princìpi acquisiti dopo Galilei non pochi argomenti vengono tratti dal linguaggio ordinario, vale a dire dalla logica interna alla lingua, o meglio dai suoi schemi profondi. Questi ragio­ namenti non sarebbero apparsi pertinenti in una situazione scientifica in cui perdurasse l’egemonia della meccanica e del suo semplice quadro di riferi­ mento matematico-fisico. Anche se abbiamo già tratto delle conclusioni che ci appaiono general­ mente accettabili, vai la pena di soffermarsi ancora sulla crisi del «naturali­ smo», che è la filosofia per lo più implicitamente fondata sull’egemonia del­ la fisica matematica. Abbiamo detto che il principio dell’incompenetrabilità dei corpi è in realtà la soluzione data al principio d’individuazione stabi­ lendo che tre coordinate spaziali e una temporale siano sufficienti per par­ lare univocamente di uno, e un solo, corpo fisico. Espressa in questa manie­ ra più cautelata, l’incompenetrabilità rende palese il suo carattere di principio misto, in parte fattuale, ma in parte anche normativo, vale a dire

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implicitamente performativo. Stabilire infatti che «un corpo non può stare al posto di un altro» è solo apparentemente un dato di fatto, in realtà è un ordine; nel senso che è diretto all’imposizione di un atomismo spaziale, per evitare che una stessa porzione di spazio si possa chiamare con due nomi diversi, tra loro non sinonimi, e che predicati tra loro contradittori si pos­ sano asserire di uno stesso oggetto. In altre parole, l’incompenetrabilità non è un buon principio di fisica. Se infatti ci chiediamo quali e quante situa­ zioni fisiche possano esistere, tali da contraddirne il principio, non è diffi­ cile rispondere che di fatto esse sono infinite. A questo proposito interessante è la nozione di atomo. In origine l’ato­ mo è quella parte dello spazio che fa da pieno, mentre il restante spazio è il vuoto; oppure il pieno è l’essere, compatto e inscindibile, mentre il vuoto è il non essere, la distanza e la separazione. Il carattere solido, pieno e inalte­ rabile è sempre stato costitutivo del concetto di atomo; vale la pena di ricor­ dare che ciò deriva da una distinzione dello spazio in parte e tutto, in pieno e vuoto, in fisso e variabile, e che 1 secondi termini di tali coppie sono attri­ buiti al non essere, alla distanza, allo sfondo del vuoto. Se poi l’atomo per avventura non si rivelasse inscindibile, bisognerebbe parlarne in termini di sottoparticelle più elementari, cui attribuire di nuovo l’originario concetto atomico. La riproduzione dello stesso schema è inevitabile, poiché dipende non da come stanno le cose, ma da un nostro modo a priori di trattare lo spa­ zio, separando il pieno dal vuoto ecc. Se ammettiamo una misura dell’atomo di 1/100.000.000 cm., non possiamo penetrare al di sotto di questa soglia: sia­ mo fatti di atomi e non di vuoto. Tuttavia la scienza ci insegna a andare oltre questi limiti: se per esempio un evento di tale ordine di grandezza presenta caratteri contradittori, allora è possibile salvare lo schema pieno-vuoto divi­ dendo col pensiero l’atomo, ossia postulando che sia composto di particelle la cui somma spieghi la compresenza di attributi che in precedenza appari­ vano inconciliabili. È ormai un secolo che si sa che l’atomo è composto da elettroni e da un nucleo. Questo risolveva la compresenza nell’atomo di cari­ che negative e di cariche positive, rivelate separatamente dal decadimento radioattivo. Gli elettroni negativi formano degli orbitali che bilanciano l’at­ trazione del nucleo positivo. Ma quando subito dopo sorse il problema di come le cariche positive potessero coesistere nel nucleo, compatte, senza esplodere, la risposta fu che la soglia del l’incompenetrabilità dovesse scen­ dere da 1/100.000.000 a 1/10.000.000.000.000 cm. Al di sotto di tale valore sarebbero invalse altre leggi, con una forza di attrazione (anzi, di stringi­ mento) enormemente superiore a quella antagonista. Naturalmente al di sot-

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to di tale soglia sorgevano nuove particelle, il protone (positivo) e il neutro­ ne (senza carica), e la storia è tutt’altro che conclusa. Dunque la scienza ha dato una risposta insieme innovatrice e conservatrice: per un verso ha limi­ tato l’assolutezza originaria del principio di incompenetrabilità; ma per l’al­ tro ha riprodotto lo schema dell’interazione di due corpi separati, spostan­ dola nel campo dell’inosservabile, al di sotto di 1/10.000.000.000.000 cm. Coerentemente col principio atomistico, tale risposta è stata formulata in ter­ mini spaziali, incurante però del fatto che con tale mossa sono saltati alcuni postulati logici fondamentali, e che noi non siamo abituati a commisurarne la validità secondo l’opportunità del caso. Che il positivo attragga il positi­ vo, anziché respingerlo, è una questione di distanza; che dell’elettrone non si possa insieme stabilire posizione e velocità, significa che esso è, e non è, una particella; che le onde elettromagnetiche viaggino in pacchetti, mi per­ metto di dire, è una disposizione abusiva. Il nostro senso della realtà è dunque gravemente compromesso su entrambe le fonti della sua tradizionale costituzione. Alla sinistra, diciamo dopo Galilei, abbiamo una frontiera aperta su un ignoto in cui si insinuano le nostre pattuglie esplorative, armate di fisica e di matematica. A destra, dopo la secolarizzazione della teologia, il fronte non è più in avanscoperta ma si assiste a un ripiegamento in buon ordine, approntato dalle autorità civili della psicologia e della sociologia, le cui teorizzazioni ci inducono a credere esattamente in quel che poi, bene o male, succede. Il nostro senso della realtà è diviso e frastornato. Per un verso abbiamo la seduzione del «nuovo», che in mancanza di un fondamento più fermo potrebbe sostituirvisi come stimolo a una crescita, in attesa di tempi migliori. Ma si tratta di un nuovo che non può più continuare a esser tale senza rinnegare la logica e la ragione. E a questo proposito il sempre ruminante e mal disposto filo­ sofo si chiede per quanto tempo ancora durerà l’illusione del progresso e la fede nei suoi nuovi eroi, gli scienziati, prima di vederne l’intera corpora­ zione a mano a mano trasformarsi in una setta esoterica e mistica, sul tipo magari dei pitagorici ma in fondo sempre oscurantistica. Per l’altro verso, sul piano della conoscenza dell’uomo, della società e della storia, le virtù di sapienza che si richiedono non sono certo minori. Ma in questo campo le teorie non servono a spiegare, bensì a capire e ad accettare anche senza spe­ ranza. Si tentano anche delle spiegazioni volonterose, ma in realtà motiva­ te da spirito di adattamento, e che si dimostrano utili fin tanto che sono ani­ mate da una positiva gioia di vivere, con o senza teoria corrispondente. L’ipotesi di un dio trascendente, ordinatore e provvidente è certo molto

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meglio che nulla, ma bisogna riconoscere che rappresenta l’ideale di un adattamento crescente, positivo (di noi al mondo così com’è) e negativo (del mondo a noi, mediante la tecnica); e che tale ideale non serve a nulla pro­ prio per quelli che ne avrebbero più bisogno tra noi, i reietti, i relitti, i fal­ liti; mentre a chi è mosso da una vorrei dire animale ma sana volontà di vive­ re può apportare degli utili ritocchi, perfezionamenti e abbellimenti, ma nulla che non abbia già. io. Il nostro senso della realtà è dunque inoltre profondamente insicuro e vacillante, stretto com’è tra la Scilla di un meccanicismo incredibile e il Cariddi di un finalismo, impraticabile perche tautologico. Ripudiata la visione meccanica delle cose e degli eventi, la scienza naturale non può dir­ ci nulla che si assommi in una credenza, perché una fede ha da essere intui­ tiva e quelle astrazioni non hanno nemmeno il sostegno della logica. Chia­ ro che invece la fede in Dio, specialmente se non analizzata, può ancora persistere; ma è il significato che essa ha per noi, una volta dimessa la fata Morgana del finalismo, a dimostrarsi inane e vuoto. Il fatto è che bisogna già avere il senso della realtà, se vogliamo attribuire a questo abito un signi­ ficato positivo. Di fronte al malato incurabile, al drogato cronico, al rotta­ me irreversibile io non posso fare altro, anche se me ne vergogno, che ripe­ tere la preghiera del fariseo: «Signore, ti ringrazio perché non sono come lui». Questo, per chi ama la verità, non le consolazioni edificanti. Il sistema etico costruito sul sentimento fondamentale della colpa, proprio dell’ebrai­ smo, subisce un primo scacco sul problema del senso del reale. Infatti, qua­ si ci dimenticavamo imperdonabilmente di dirlo, la realtà (o il suo senso) ha una forte implicazione etica: ma di ciò parleremo a suo luogo. Ai quattro mali incontrati da Buddha nel mondo, la malattia, la vecchiaia, la morte e la miseria, lo jahvista mosaico aggiunse il tratto d’unione, la sinsemantica del­ la colpa. Non è infatti senza significato accusare gli uomini di corresponsa­ bilità per i loro mali. Ma, colpa o no, per gli emarginati non c’è salvezza, se manca loro la volontà di esserlo: che poi è la pura e semplice, sana e anima­ le voglia di vivere. Per concludere un po’ meno lugubrmente, vorrei indicare la mia pro­ pria, personale riedizione della classica «consolazione filosofica». Come in tutti gli argomenti, le conclusioni cui siamo giunti a proposito del dualismo di natura e spirito, con quel che segue, sono al massimo altrettanto certe che le premesse, non di più; in altre parole, le conclusioni sono relative alle pre­ messe. Se queste cambiano, anche le conclusioni devono cambiare. Abbia-

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mo anche visto che ci sono validi motivi per cercare di mutare le premesse; ma non è cosa facile, dal momento che non parliamo a vanvera, bensì sulla scia di una determinata tradizione. Si tratterà di combatterla, di propugna­ re altre idee, non certo di starne al di fuori. Gli inizi son sempre difficili, len­ ti e di poco momento; specie per chi pensi che non si tratti di rifar tutto da capo, ma di riformare l’edificio del sapere. Se ho mostrato la necessità del­ la riforma, sono contento dei risultati acquisiti. Se invece non ho indicato la via da seguire, l’ignoranza non è solo mia; è che la proporzione tra i pas­ si incerti e quelli certi non è molto incoraggiante. Ma forse si capisce senz’al­ tro come una concezione della realtà fondata sull’ontologico, cioè sulla teo­ ria degli oggetti, sulla metafisica e su cose lontane dal senso comune, possa nondimeno interessare, nonostante il fatto che sembrino non importare a nessuno.

Nota bibliografica La teoria matematica della comunicazione che si riassume nella formu­ la per cui la quantità d’informazione H --k log, W, analoga (ma si noti il segno opposto) a quella di Boltzmann sull’entropia, si deve a Claude E. Shannon e Warren Weaver, The Mathematical Theory of Communications Urbana 1949, che sviluppano concezioni di Norbert Wiener, Cybernetics, New York 1948. La teoria linguistica della comunicazione, pur non con­ traddicendo a questa impostazione, oltrepassa tuttavia il punto di vista inge­ gneristico per cui la comunicazione consisterebbe nella trasmissione di informazioni, per adottare quello, più adeguato, della intenzionalità della notificazione, che risale a Edmund Husserl, Logische Untersuchungen, voi. II, Prima ricerca, cit., ed è stato sviluppato conformemente da Karl Bùhler, Sprachtheories cit., con la teoria della «triplice funzione dell’atto linguisti­ co», che in precedenza era stata messa a punto, nell’ambito della scuola di Brentano, da Anton Marty, Ubersubjektlose Sàtze und das Verhdltnis der Grammatikzh logik und Psychologie, «Vierteljahrsschrift fùr wisscnschaftliche Philosophie», Vili, 1884; XVIII-XIX, 1894-95; rist. in A. Marty, Gesammelte Schnften, voi. il, 1, Halle 1918, pp. 1-307. La ripresa odierna di quest’ultimo problema, per effetto del dualismo tra linguaggio-macchina e linguaggio-programmazione che caratterizza l’infor­ mazione del computer, è stata chiarita da John R. Searle, Speech Acts (An essay in thè philosophy of language), London-New York 1969, che si avva-

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le anche del fondamentale lavoro di Herbert Paul Grice, Meaning, «Philosophical Review», 1957; rist. in Philosophical Logic, ed. Peter Frederick Strawson, London 1969. La tesi di Bolk sulla «ominizzazione», in quanto ritardo della maturazione e prolungamento della fase «fetale» extrauterina, si trova in Louis Bolk, Das Problem der Menschwerdung, Jena 1926; di cui un estratto in francese, col titolo La génèse de Phomme, è nel n. 18 di «Arguments», IV, i960, pp. 3-13. Il problema psicologico della realtà, il cosiddetto «senso della realtà», è stato discusso da Oswald Kùlpe, Die Realisierung (Ein Bcitrag zur Grundlegung der Realwissenschaften), 3 voli., Leipzig, I, 1912, ii-iii, 1920-23.

Quarta lezione Metafisica Il principio, l'essere, il possibile

i. Un aneddoto racconta che Andronico di Rodi, riordinando gli scrit­ ti lasciati da Aristotele, ne trovò alcuni che non appartenevano ad alcun ramo dello scibile; mise perciò questi libri nello scomparto «dopo quelli di fisica»: là pria là cpuaixa (bibita). Da ciò il nome, al singolare e preso come sostantivo: la metafisica. Questo resoconto è chiaramente inattendibile, ma gli siamo debitori di una caratterizzazione abbastanza buona dell’argo­ mento. Infatti la metafisica, andando oltre la fisica, non è più legata dal pre­ giudizio dell’esistente. Sarà dunque identica alla logica? No, perché la logi­ ca non è, in sé, una scienza reale, ma fittizia; la logica o meglio l’analitica, per Aristotele, tratta dell’ews tanquam verum, dell’essere come se fosse vero, cioè reale. Essa tratta dunque del possibile irreale, o controfattuale, e la sua virtù normativa si esercita per mezzo di questo distacco e ritorno sul reale, non avendo consistenza in proprio. Mentre la metafisica, come si dice in un famoso passo dei IV libro, proprio all’inizio, è «scienza del reale, in quanto tale, e delle sue intrinseche attribuzioni». L’«in quanto tale» si riferisce al fatto che, mentre le altre tre scienze teoretiche astraggono dal reale un aspet­ to, ciascuna secondo il proprio punto di vista, e cioè la matematica il quan­ titativo, la fisica il movimento, la teleologia la funzione, la metafisica o scien­ za prima, invece, non avendo un punto di vista caratterizzante, che specificandola la limiterebbe, ha come oggetto l'essere in quanto tale e i suoi attributi essenziali. L’essere è dunque ciò che la metafisica ha in comune con le altre scienze teoretiche, ma non l’essere come esistente e meno che mai i suoi conscguenti attributi del quantitativo, del movimento e dell’agire fina­ listico. Andando oltre la fisica, la metafisica tratta del reale anche secondo le modificazioni immaginarie o fantastiche; né in questo è limitata dal possi­ bile secondo una definizione di legittimità logica. Ciò che in questo oriz­ zonte illimitato le presta tuttavia una caratteristica di specificità è la con-

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QUARTA LEZIONE

fluenza di tre motivi: (i) la metafisica è il campo della discussione dei princì­ pi, ed è jiqcóti] ÈJIIOTÌ1I.U1 (o scienza prima) proprio in questo senso, per cui il principio è ciò di cui si tratta prima; (ri) i princìpi di cui essa tratta devo­ no risultare intelligibili, non si dice intuibili (questa è un’altra cosa), cioè tali che in loro assenza non si darebbe spiegazione veruna; (iit) l’intelligibilità del principio deve esser rilevante per il mondo reale, anche esistente, e cioè l’assunzione di una metafisica, o di un’altra, o di nessuna, deve comportare delle differenze per il relativo utente. Ora, che cosa sia una discussione di principio (ì) credo sia chiaro a tutti. Se voglio per esempio intervenire a favore della democrazia sosterrò che il principio della maggioranza, anche se non è una panacea universale, è pur sempre meno ingiusto che il suo contrario; in tal caso io oriento la discus­ sione sul fatto che sia giusto o no il principio di maggioranza, e non tratto degli inconvenienti derivanti da una possibile incompetenza tecnica dei pare­ ri, della lentezza procedurale e della rappresentatività del giudizio che è pre­ valso. L’intelligibilità di principio (ri) va intesa alla lettera, senza cioè fare intervenire immediatamente il ricatto retroattivo di certe indesiderabili con­ seguenze. Quando Democrito dice che esistono solo gli atomi e il vuoto, e tutto il resto è inconsistente, non bisogna subito ribattere che, allora, è incon­ sistente anche la teoria di Democrito. Il principio atomistico è di per sé chia­ ramente intelligibile, questo è quanto. Non è detto che per capirlo occorra condividerlo; ciò non è vero, forse, nemmeno per Democrito. Se non ci fos­ se altro a favore della metafisica, essa sarebbe utile per questo: che ci fa capi­ re maniere di pensare differenti da quella che indossiamo, senza obbligarci alla partecipazione. Le religioni non sanno farlo. L’aspetto della rilevanza pratica (riri), infine, dovrebbe essere eloquente. Non è detto che il principio del libero arbitrio rafforzi la deliberazione, la volontà o la responsabilità più che il fatalismo, o un altro principio opposto; anzi, psicologicamente è for­ se vero il contrario. La metafisica non si occupa di queste conseguenze in qualche modo casuali', si parla solo di implicazioni rilevanti, intendendo con questo che cambia il senso, quindi anche il comportamento di chi vive coe­ rentemente una certa convinzione; ma non che cambi di conseguenza. Biso­ gna infine dire che la convinzione profondamente vissuta, se ha carattere di principio, raramente coincide con la metafisica professata. In linea generale, la fede non è mai, o quasi mai, ciò che si dice di credere.

2. Per inquadrare tematicamente il percorso della nostra disamina, vorrei prender lo spunto da una considerazione che dev’esser stata rilevante nel fis-

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sare l’ineludibilità del problema della metafisica nel senso di Aristotele, che è anche quello da noi seguito. Abbiamo già detto di Gorgia, la cui posizio­ ne forse oggi manca di un po’ di spicco nel collettivo alquanto livellante del­ le dossografie filosofiche; ma certo la sua importanza non può esser soprav­ valutata, se vista attraverso la considerazione di cui godette in Platone e in Aristotele, quale punto di riscontro, polemico sì, ma di tutto rispetto. Il prin­ cipio di Gorgia che qui torna a proposito è quello dell’alterità reciproca di pensiero e essere, in senso diametralmente antiparmenideo; esso dice, si ricorderà, che se è proprio del pensiero pensare le cose che non sono, allora vale anche la conversa per cui è destino della realtà non esser mai pensata. Il linguaggio di Gorgia è volutamente duro, spigoloso, monolitico. Il nostro uso prevalente, specie in questioni di principio, è più modale, possi­ bilista, sfumato. Nulla dimostra meglio il successo di Aristotele che l’introduzione del possibile, anche per noi normale, nel discorso teoretico. Tra­ dotto in conformità, il principio di Gorgia diventa: se è proprio del pensiero (poter) pensare (anche) le cose che non sono (attuali), allora è possibile che la realtà abbia degli aspetti che non sono pensati, o che mai lo son stati o che addirittura non sono nemmeno pensabili. Come si vede, l’introduzione del­ la dizione al modale (col possibile) minaccia di trasformare un paradosso, anzi un’antinomia, in una sentenza quasi di senso comune; se non fosse che, per conservare la pregnanza dell’originale, abbiamo dilatato il finale con la clausola per cui «la realtà può avere degli aspetti che non solo non sono pen­ sati, ma nemmeno sono pensabili». Non son sicuro che questo pensiero non sia di senso comune, in ogni modo non è banale in quanto contraddice la stessa intelligibilità per principio. Questa considerazione spiega due cose: primo, che il principio di Gorgia è invariante rispetto al linguaggio adope­ rato, che cioè si mantiene anche se sfumato in maniera modale, purché si faccia attenzione; e, secondo, che il suo senso «duro» lo rende inaccettabi­ le come principio metafisico, appunto perché trascende l’intelligibilità e ci lascia letteralmente senza parola. Questa conclusione non deve stupire, per­ ché la filosofia non e la metafisica; e perché inoltre non per niente la metafisica è un’invenzione di Aristotele. Nella logica (anche quella aristotelica) la conclusione è canonica. Se io dico «nessun uomo è immortale», la conversa di questa proposizione è immediatamente valida, «nessun immortale è uomo». Così se dico, senza quantificare c senza modalizzare, «il pensiero non pensa il reale», ne con­ segue che «il reale non è pensato dal pensiero». Si dà solo in maniera più abrupta quel che con l’uso dei modali diventa più perspicuo quanto al sen-

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so. Il pensiero dell’essere è dunque turbato dal fatto fondamentale che il pensiero stesso, come del resto il linguaggio, non è vincolato all’essere, ma può presentare ciò-che-non-è alla stessa stregua di ciò-che-è. Noi diciamo compiaciuti che il linguaggio, proprio per questa sua caratteristica, manife­ sta un grado di libertà superiore a quello dell’essere, che deve limitarsi a essere quel che è. Un linguaggio privo di tale dimensione in più, se ci fosse, sarebbe costretto a enunciare solo quel che c’è in positivo, non potrebbe esprimere la negazione né la privazione, sarebbe di conseguenza povero, scomodo da usarsi e oltre tutto inutile. Ma per i primi filosofi, che dovette­ ro riflettere sulla natura del linguaggio, emersero dapprima i difetti della sua inaffidabilità. Perché quella libertà che sovradetermina il linguaggio nei con­ fronti della realtà deve esser scontata da parte del suo utente, per converso, per il fatto che la realtà stessa occulta delle peculiarità che non sono espri­ mibili nel linguaggio e neppure indirettamente rappresentabili nel pensie­ ro. Il rapporto di esclusione di pensiero e realtà è infatti reciproco. Per noi questa conclusione è inaccettabile, poiché, come si è detto, essa intacca uno dei capisaldi della metafisica: l’intelligibilità dei princìpi. Sareb­ be tuttavia errato considerarla sofistica. Gorgia fu un sofista, va bene, e come tale fa un uso espressivo dei paradossi, secondo un costume parabo­ lico cui era adusata l’epoca. Secondo questo stile una verità filosofica, qua­ si per assonanza con quella poetica, non deve esser detta plausibilmente quando la si può esprimere altrettanto bene in maniera insolita, contra­ stante, scandalosa: di modo che attiri su di sé l’attenzione e ne incida il ricordo, custodendo meglio i motivi per cui il detto è anche stato concepi­ to. La conclusione per altro verso è definita scettica; ma anche questo non va bene, perché essa intende dire una verità sul linguaggio e sul pensiero. Va da sé naturalmente che poi gli scettici troveranno in Gorgia un loro pre­ cursore. Ma l’obiezione di fondo è stata classicamente formulata da Ari­ stotele nel Protrettico, l’esortazione alla filosofia, con un argomento che sarà ripreso anche da Engels nella sua Dialettica della natura. Vi si dice, molto giustamente, che voler negare la filosofia non basta a eliminarla; quel che ne risulta, alla fine, è l’imbarazzo della scelta tra una filosofia esplicita e una implicita, quest’ultima probabilmente molto peggiore, perche incon­ sapevole. La filosofia non è la metafisica, d’accordo; ma ha in comune con essa il presupposto dell’intelligibilità del punto di partenza. E un punto di vista che neghi plausibilità a quel che tutti fanno non può essere un inizio accettabile. Per fortuna però non siamo tenuti ad accettare o ripudiare in blocco questo argomento. L’evoluzione storica della teoria della cono-

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scenza ci permette di circonvenire l’aporia con un percorso naturalmente più agevole. Ciò che intriga Gorgia è che il pensiero del non essere comporti con­ versamente la non realtà degli oggetti del pensiero. Si può rigirare questo punto in molte maniere, ma si arriva sempre alla stessa conclusione. Da essa deriva che non posso capire il vero, ne comunicarlo se non per accidente ad altri. Tralasciando le varie tappe di questa travagliata dialettica, di cui men­ zioniamo solo i paradossi di Zenone di Elea contro il movimento (si ricor­ di Achille e la tartaruga), il passo decisivo è stato compiuto da Democrito, allorché ha distinto la conoscenza (ideale) dalla realtà (empirica). Per sem­ plicità identifichiamo qui Democrito con la teoria atomica, anche se proba­ bilmente la sua filosofia era più complessa e multiforme. Il nostro pensie­ ro, secondo Democrito, non è direttamente rivolto sulla realtà, ma mediato dalle nostre asserzioni sulla realtà. Nelle asserzioni sulla realtà questa vi è contenuta in maniera indiretta ma, in compenso, intelligibile. In esse si trat­ ta di quella realtà non primaria, ma derivata, che ci è accessibile come cono­ scenza. La verità della conoscenza è garantita dalla Oecopia, se essa è in gra­ do di toglier via, spiegandole, le parvenze difformi della realtà primaria. Nella teoria non siamo obbligati a seguire la tirannia delle accidentalità lin­ guistiche. Se il linguaggio non si adatta a quel che vogliamo dire, si può benissimo usargli violenza, travalicandolo (si fa qui valere la scomoda cir­ costanza per cui Democrito non disponeva ancora di una matematica come linguaggio alternativo, indipendente dalla lingua). In ogni modo è suo que­ sto gioco di parole, che ne tradisce la risolutezza sprezzante d’ogni retori­ ca: «non esiste Vento piuttosto che il ni-ente»\ dove Democrito mette TÒ óév in prima posizione, ricavandolo da pqòév togliendogli la negazione p,f|, un nonsenso più forte che in italiano. 3. Con tale reduplicazione del reale, esso una volta vicn datoy anche se parzialmente, ma l’altra conosciuto, e qui perfettamente. Questo procedi­ mento a due stadi pare fatto apposta per contrastare le obiezioni che fon­ dano sull’estraneità del medio (il pensiero, il linguaggio) al reale l’impossi­ bilità di afferrare quest’ultimo. I due stadi o momenti si direbbero in tedesco Kenntnis e Erkenntnis, che possiamo rendere con conoscenza pri­ maria, o empirica, e conoscenza intellettuale, o riconoscimento. Ciò ha in sé un innegabile buon senso: può darsi che io conosca poco bene un tale, ma questo non mi vieta di riconoscerlo se l’incontro di nuovo. La cono­ scenza come riconoscimento è sempre un atto intellettuale che si sovrap-

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pone a una conoscenza primaria. Va da sé che la scoperta della teoria è vis­ suta da Democrito come un’esperienza liberatoria totale, senza riserve e cioè dogmaticamente; per giungere a concepirla più problematicamente come un’ipotesi, sia pur molto probabile, bisognerà attendere in proposito la riflessione di Epicuro, un paio di secoli dopo. Ma è più importante capi­ re che cosa può risolvere la teoria, in particolare una teoria atomica. In primo luogo si scioglie la contraddizione primaria sussistente nel lin­ guaggio, la compresenza dell’essere (lò òv) e del non essere (tÒ pq òv), che sono, in quanto asserzioni, paritetiche: cioè vere o false. Non vi è difficoltà ad ammettere, nella teoria della conoscenza, l’esistenza di un non-essere pariteticamente a quella dell’essere, entificandoli in ente e non-ente (o ntenre, questa volta senza giochi di parole). Nella conoscenza primaria possiamo identificarli con il pieno e il vuoto, cioè con gli atomi e il vuoto. Come si vede, però, la conoscenza primaria non è quella empirica, o percettiva, ma la sua reduplicazione inversa nel mondo dell’estremamente piccolo, in realtà contro-fattuale e immaginario, in cui, ridotti che fossimo in proporzione, non vedremmo che atomi e vuoto. Anche il sensibile viene ridotto in conformità della teoria, che per quanto immaginaria è talmente accattivan­ te da farci vedere allucinatoriamente i minuscoli corpi che si muovono urtandosi e rimbalzando via di nuovo. Ma questo movimento spiega non solo la formazione dei corpi grandi, macroscopici, attraverso l’aggregazio­ ne, come pure la loro corruzione e disfacimento attraverso la disgregazio­ ne; ma anche le percezioni, i fantasmi, le idee che nascono nell’anima attra­ verso le leggi della prospettiva. Proprio ai tempi di Democrito il pittore Agatarco aveva introdotto la rappresentazione prospettica nelle scene tea­ trali. E benché l’anima sia composta di atomi come ogni altra cosa, le leggi della prospettiva e ogni altra illusione percettiva si fondano parimenti sulla valutazione e misura proporzionale delle distanze, ma riorganizzate in altro modo, soggettivo perché concavo e ideale come tutti gli scorci percettivi. Parmenide diceva che per afferrare l’essere occorreva concepirlo in modo che esso fosse identico al pensiero, respingendo fermamente ogni illu­ sione di molteplicità, cangiamento e transitorietà. Nulla di più opposto a Democrito, parrebbe. E tuttavia entrambi respingono la testimonianza per­ cettiva nella parvenza della òó’^a, la mutevole opinione fondata sul mondo decettivo dei sensi. In Democrito c’è in più il tentativo di spiegare come esso si formi. Il pensiero ha in comune col reale non già l’identità con l’essere, secondo il presupposto di Democrito, ma al contrario il non-essere, il vuo­ to. Il non-essere della conoscenza non è il nulla assolutamente negativo; ma

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è la privazione, l’assenza e in particolare tutte le forme della distanza, la divi­ sione e la prospettiva. Il pensiero ha nell’anima il suo corpo, formato maga­ ri di atomi più sottili e veloci; ma preso come pura funzione, esso è identi­ co a quel vuoto che distanzia, divide e ricompone un ordine diverso. E siccome il non-essere circonda tutto, il mondo come ogni singolo atomo, anche il pensiero nella conoscenza non ha limiti. L’infinito è un oggetto di pensiero proprio perché in realtà non esiste, e la stessa cosa vale per la sog­ gettività come insondabile concavità del non-essere. Così la diagonale del quadrato, il circolo, la sfera, gl’irrazionali non esistono se non come idea­ lizzazioni create dal non-essere della conoscenza; in realtà le due parti in cui si divide un quadrato non sono mai uguali, il circolo è un poligono irrego­ lare, la sfera è tale per modo di dire, e gli irrazionali sono dei non-numeri posti tra l’intervallo di due numeri piccoli a piacere. Il pensiero non può tra­ sgredire la realtà perché ne condivide il non-essere. Facendo perno su nien­ te, il pensiero può spiegare gli atomi c il vuoto, come pure le illusioni pro­ spettiche della percezione. Non è che per convenzione, vópxp, che noi parliamo di colore, di dolce o di amaro; in realtà, egli dice, non ci sono che gli atomi e il vuoto, diopa xal xevóv. Non l’idealismo, ma l’accorgimento dell’idealità della conoscenza è di Democrito, prima che di Platone.

4. L’idealità della conoscenza fa sì che questa possa comprendere tanto l’essere quanto il non-essere. L’idealità della conoscenza si dice, da Demo­ crito in poi, teoria. Infatti ogni teoria considera sia le cose che sono, sia per contrasto quelle che non sono. La conoscenza presuppone la coscienza; cioè, per dirla in greco, l’idealizzazione complessiva, la ouvetÒTioig. A que­ sto punto diventa più facile spiegare perché la coscienza del non-essere non sia lo stesso che la non coscienza dell’essere; la coscienza, a differenza del­ la conoscenza, che può essere diretta oltre che riflessa, è sempre meta-ontica sia rispetto all’òv o al pq òv. Con la scoperta di un punto di vista supe­ riore, che è metaontico e perciò complementare, l’aporia di Gorgia appare definitivamente superata. Questa invenzione ha però un prezzo, di cui for­ se Democrito non si rese perfettamente conto, che mette in dubbio proprio il suo approccio materialistico o quanto meno realistico. L’idealità della conoscenza porta con sé l’inevitabile approccio a una filosofia idealistica o spiritualistica, come di fatto avverrà con Platone e Aristotele. Anzi, questo nuovo punto di vista postdemocriteo apparirà più stabile, e su questa base fiorirà l’Axaòripeia. Nella teoria atomica rimaneva infatti una presunzione debole. Se la teoria della conoscenza c ideale, nel senso che adopera delle

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finzioni o idealizzazioni a scopo di perspicuità, in che misura è essa distin­ guibile dalle altre fantasie o fantasmi della mente che si definiscono sogget­ tivi, convenzionali e illusori? Come si vede, la difficoltà è tutta qui: se s’in­ debolisce l’ideale dicendo che è fantastico, la stessa sorte spetta alla teoria inventata; se si esalta l’idealità della teoria come tale, si rafforza di conse­ guenza il valore decisivo e in definitiva realistico di talune almeno delle costruzioni intellettuali. Si aggiunga come rinforzo il fatto che la matema­ tica accademica, con Eudosso (fine ili secolo a.C.), imprimerà alla geome­ tria quella svolta idealistica che da allora in poi renderà un certo platonismo la metafisica privilegiata nel suo ambito; mentre la matematica democritea, pur con la notevole ma discontinua eccezione delle sue applicazioni fisiche, non ha avuto cittadinanza nella tradizione della scienza pura. Nel cangiante gioco delle prospettive doxastiche, alle quali appartiene l’espressione linguistica, la teoria della conoscenza deve dunque ritrovare nel labirinto del sensibile il filo d’Arianna che la ricongiunga alla realtà, anche di senso comune, che informi su ciò che è e su ciò che non è in sede percettiva. All’indomani del suo stesso trionfo, la 0E(OQia subisce dunque un fles­ so, non tanto a cagione del ricatto idealistico delle sue finzioni irreali, quan­ to per un risorgere della complessità in campo etico e politico, ciò che com­ porta una rivalutazione del soggettivo, dell’opinione, dell’ideale in senso pickwickiano. Tutto questo produsse l’ultimo grande rilancio filosofico nel mondo antico, di cui la figura dominante è Socrate, piuttosto che Platone. Non per nulla la dizione di presocratico (e, per contrasto, postsocratico) è assurta a valore di concetto. Anzitutto, una questione di carattere storico. Abbiamo presentato l’idealismo di Platone come se fosse sorto da una pole­ mica interna al concetto di teoria di Democrito. Questa è una ricostruzio­ ne di comodo. In realtà è documentabile l’opposizione di Socrate ad Anas­ sagora, la cui concezione del voùg è per molti versi parallela alla funzione della teoria in Democrito. Socrate ne\VApologia (di Platone) dice di aver stu­ diato a lungo Anassagora, ma di esserglisi poi opposto perché Anassagora riduce sempre l’agire a movimento, lo psichico a fisiologico, il discorso in prima persona a spiegazione in terza persona. Senza polemizzare ulterior­ mente con Anassagora, con questa osservazione Socrate dà inizio al òeuteoog TtXofjg, al secondo giro di boa, cioè alla svolta per lui decisiva e che lo caratterizza come socratico. Ma che cos’è socratico, in questa accezione? È anzitutto un’obiezione di metodo contro il modo di procedere naturalistico, in terza persona. Inoltre, ridurre l’agire a movimento, non comporta

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forse la stessa critica? Piuttosto, l’idealità della conoscenza deve riconosce­ re l’efficacia reale delle idee, in ogni presa di coscienza. È qui che l’obiezio­ ne si lascia a sua volta riconoscere come di paternità platonica; Platone attra­ verso Socrate si rivolge ad Anassagora, affinché Democrito intenda. Ma perché tanti riguardi, anche ammesso che Democrito fosse ancor vivo? E perché non polemizzare direttamente con lui, in un dialogo apposito? Democrito non compare mai, a nessun titolo, nei dialoghi. Non è improbabile un’ostilità personale tra i due grandi personaggi. Da parte di Platone, che era di Atene e di famiglia politicamente influente, Democrito di Abdera, colonia ionica, essendo di famiglia ricca e legata ai Persiani, viene ignorato come collaborazionista delle Guerre persiane e respinto come «cinico» nelle questioni di impegno politico e etico. L’obie­ zione contro Anassagora si lascia facilmente intendere come diretta all’in­ nominato. La teoria che pretende di cogliere la realtà in sé, gli atomi e il vuo­ to, al di là della proiezione prospettica dei sensi, che altro è alla fine se non, a sua volta, un fantasma creato dalla mente? Come è possibile trovare la verità in un’immagine soggettiva, idealizzata ma allucinatoria, escogitata da una mente costretta a orientarsi tra mere fantasie? Naturalmente questa cri­ tica del Socrate di Platone contro il falso oggettivismo della scienza della natura non può esser spinta molto oltre, senza il pericolo di anticipare in Platone stesso lo scetticismo della Seconda Accademia nei confronti del possesso della verità in sé. Per il momento, l’obiezione antinaturalistica va ricompresa nel fervore del rilancio di Socrate come filosofo morale, mae­ stro non solo di etica ma di vita. Non occorre qui insistere sul fatto che l’op­ zione idealistica dell* Accademia, la prima università, promuove nell’età di Pericle una nuova fioritura di quelle che oggi si dicono scienze umane.

5. Al di là dell’alquanto negativa conclusione sofistica di Gorgia, di Pro­ tagora e di altri, attraverso la triplice sistemazione teoretica atomismo di Democrito, dc\Videalismo di Platone e della sintesi onnicomprensiva di Aristotele, si viene configurando per l’uomo del V-IV secolo un confronto con la realtà mediato dal linguaggio, la logica, la matematica e in generale la cultura di cui ormai dispone con sempre più larga affidabilità. Questo rap­ porto non è più immediato, come in precedenza; e ciò spiega la scomparsa dei ragionamenti antinomici. D’altra parte tale mediazione si avvale anche del confronto con alternative sussistenti al suo interno, come le lingue stra­ niere, la logica del termine c quella proposizionale, la matematica finitistica e la dibattuta questione dell’illimitato. Non vi è più un confronto diret-

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to tra pensiero e realtà per sé; è già stato dimostrato che esso non conduce a nulla, in quanto fin dall’inizio presupposto come sussistente tra due ter­ mini totalmente eterogenei e aliorelativi. Anzi la nascente epoca ellenistica, quando la morte di Aristotele segue dappresso quella di Alessandro (323, 322 a.C.), assume in proprio il metodo comparatistico di trattare quel che si suppone essere lo stesso problema per raffronto con altre, indipendenti culture. Assistiamo così alla ripresa dotta delle citazioni orientali, già pre­ senti in origine nella tradizione orfica e in frammenti delle religioni dcll’Egitto e della Mesopotamia. Le novità concernono lo Zend-Avesta e la cul­ tura iraniana; i testi indiani dei Veda e del buddhismo, nel frattempo emigrato in Cina; e forse anche, tramite la satrapia ex-persiana dell’indo, e dei cinque fiumi, il confucianesimo e il taoismo. Che cosa ne è rimasto? Quali conseguenze ne sono derivate per il pen­ siero filosofico? A quanto pare tali contatti sono rimasti sterili. La filosofia non prospera col commercio. La cultura greca è già molto complessa nel secolo in cui si conclude la conquista macedonica dell’Oriente, e ciò che rimane di tale contatto è il lungo confronto con l’ebraismo. Ma gli ebrei sono i più occidentali, i meno tipici di tutti gli orientali. In ogni modo la Bibbia apparve in greco nella versione detta dei LXX (Septuaginta, se. translatores), nel corso del il secolo a.C. In questo senso la spedizione di Ales­ sandro in Oriente, come dimostra la presenza di filosofi, storici e scienzia­ ti al suo seguito, assunse il significato simbolico di un viaggio alla ricerca delle origini della metafisica, da Diogene il cinico ai gimnosofisti o fakiri indù, con cui si conclude. In realtà l’indagine prende la forma effettiva di un confronto fra etnie e tradizioni diverse, che in parte sono estranee ma in parte si riconoscono cognate, come l’iranica, la sarmatica e l’indiana, c cia­ scuna può vantare, se ha la scrittura, una propria cultura del libro, fors’anche un suo Omero. Degli ebrei resta oltre tutto un’eredità durevole, tutt’altro che superficiale: il senso interiore, intimistico e perciò monoteistico, della divinità, il sentimento di colpevolezza nei suoi confronti da parte del­ l’uomo, e della religione come espiazione e speranza di redenzione. Ma di tutto ciò parleremo più criticamente a suo luogo, più avanti. In conclusione, il problema da cui sorge la soluzione metafisica può con­ siderarsi risolto, e in eccesso, con la suddetta triade di teorie generali: quel­ la democritea, quella platonica e quella aristotelica. È importante registrare l’eccesso di spiegazione nei confronti della comprensione della realtà, giac­ ché la metafisica, per la sua stessa natura, oltrepassa i limiti dell’esistente e immette nell’immaginario e anzi nel fantastico: come si conviene a ogni ten-

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tativo generoso di risolvere le questioni per forza di princìpi. Ciò non è sen­ za conseguenze sull’apprensione del reale, che viene via via raffinandosi nel senso direi aristotelico di uno stemperamento delle antitesi in opposizioni sempre meno radicali, che consentono l’avvicinamento se non proprio la sintesi. Dal punto di vista metafisico, la contraddizione in quanto opposi­ zione diametrale cede il passo alla contrarietà, che è un’opposizione inten­ siva e polare, e questa a sua volta alla sub-contrarietà, che ammette una gra­ dazione tra i suoi estremi.

6. All’interno della cultura ellenistica, il confronto con la cultura india­ na porta alcuni contributi particolarmente degni di nota. Nella scuola che in seguito si dirà neoplatonica si introducono i concetti di infinito e di zero, precedentemente estranei ai greci, in quanto concetti che per essere assimi­ lati richiedono una speciale infrastruttura culturale. Si tratta del procedi­ mento di reiterazione illimitata, che oltrepassa l’obiezione di regressns in infinitum in precedenza aborrita, e del concetto di limite, che ne supera d’un tratto le soglie. Di conseguenza con zero non si deve qui intendere la «clas­ se zero», o il nulla (come pii òv), ma il limite presupposto dalla sua infinita approssimazione in una serie decrescente. Allo stesso modo {'infinito^ anche quello attuale, deve esser concepito come il limite di una serie infinita, pen­ sata come del tutto svolta. Anche Archimede aveva impiegato ragionamen­ ti che implicitamente racchiudevano tali concetti, ma la loro esplicita, si direbbe spudorata, menzione si deve ai filosofi e matematici della tarda Accademia, per esempio Proclo. Contributi nuovi si danno anche nella geo­ metria dove, attraverso le opere di Pappo e Apollonio, si sviluppano altri metodi per la quadratura delle curve; segnaliamo un primo utilizzo dell’al­ gebra e l’uso dei numerali per misurare le grandezze in geometria, mentre prima era costume dei greci riportare le grandezze sulle grandezze, senza pETÓpaotg e’iq aX.X,o yévoq. Assistiamo quindi, per lo meno in maniera incoa­ tiva, a un allargamento di orizzonti c a un tentativo di far convergere meto­ di diversi per la soluzione di uno stesso problema. La conciliazione sul­ l’oggetto del pensiero, mediante la disparità dei metodi, è un procedimento che non sarebbe dispiaciuto ad Aristotele, né avrebbe trovato in lui impe­ dimento. I moderni riprenderanno questa via con Viète (e quindi fra gli altri Descartes), ma in polemica con l'aristotelismo, inconsapevoli del favore che avrebbe trovato in lui questa nuova ars inveniendi. Per ragioni che non comprendiamo bene il pensiero antico tende a chiu­ dersi, a isterilirsi, mostrando di non avere né l’intenzione o meglio l’ener-

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già di percorrere in profondità le nuove direzioni di espansione reperte. Tra le tante ipotesi fatte, le quali possono esser tutte calzanti data la complessità del problema, della decadenza del mondo antico, una particolare conside­ razione merita l’aspetto economico. Non è esatto dire che gli antichi non avevano una scienza economica; il fatto è che la loro economia non è in espansione perché ha raggiunto un perfetto stato di equilibrio. La crescita dovuta allo sviluppo dell’agricoltura stanziale risale ormai alla preistoria, al neolitico, e il vantaggio è stato assorbito dall’aumento della popolazione nell’ambito dei grandi imperi. Caso mai gli antichi non hanno saputo affrontare il deterioramento della situazione economica nel momento del disordine amministrativo, coincidente col periodo turbolento dell’alto Medioevo. La produzione della ricchezza, cioè dei beni di consumo, era considerata un fatto naturale come l’avvicendamento delle stagioni, e la carestia aveva la contingenza saltuaria di una maledizione dipendente dalla maligna configurazione degli astri. Qualsiasi tentativo di intervento pro­ grammato, qualora fosse risultato escogitabile, avrebbe solo aggiunto disor­ dine a disordine. Il tramonto della classe dirigente antica, nell’impero roma­ no, non è compensato dall’insorgere di una nuova classe, esponente di una popolazione più vasta, che sappia infondere idee e energie nuove nel vec­ chio impianto, o rivoluzionarlo in qualche maniera più radicale. I cristiani furono troppo affisati nell’al di là, o troppo rassegnati allo stato deludente del mondo per essere di qualche aiuto. Le persecuzioni di persone e cose del mondo «pagano», portarono a distruzioni rilevanti, ma anche in questo i cristiani furono superati dalla fresca violenza dei barbari. È una retrospet­ tiva molto triste, l’orizzonte antico sembra rinchiudere un mondo senza speranza o, in alternativa, la vendetta senza scopo dei barbari e la follia mor­ bida degli escatologisti. L’arco dello sviluppo della metafisica fu dunque compresso negli scarsi mille anni che vanno dal IV secolo a.C. al vii d.C. La sua vicenda si svolge nel tentativo di dare una risposta al problema dell’essere e del non essere, della forma e della materia, dell’intelligibile e del fatto bruto ecc., in segui­ to alla scoperta della teoria e delle sue capacità esplicative a riproduzione allargata. Queste non tanto giungono a esaurimento, quanto piuttosto non trovano piena espansione per il fatto che la cultura antica muore di morte violenta. Perciò non conosciamo la conclusione della metafisica, al massi­ mo ne identifichiamo il carattere nella ripresa che essa ha avuto nel secolo xvii. Di qui si evince che la convinzione da essa intrattenuta è ancor oggi viva e operante, e consiste nel ritenere che esista una strategia complessiva,

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esprimibile mediante princìpi, che permette di pensare la realtà senza incor­ rere in contraddizioni, e che tale convinzione sia rilevante anche ai fini pra­ tici, perché l’intelligibilità è altresì ragione e guida del comportamento del­ l’uomo. Questo è il significato della metafisica. Tralasciamo l’obiezione derivante dalla pluralità delle metafisiche in conflitto tra loro, non perché è banale ma, in quanto obiezione, ingiusta. Infatti nella cultura post-moder­ na non sono solo i filosofi a essere in contrasto fra loro, ma anche i mate­ matici, i fisici, i biologi ecc.; tal che a due a due tutti gli studiosi potrebbe­ ro orientarsi più vantaggiosamente seguendo il criterio dell’opposizione al collega della stessa disciplina. Solo le maestranze seguono più o meno disci­ plinate e inquadrate, ma solo in apparenza o perché non significano nulla. L’obiezione contro la metafisica, dunque, portata fino in fondo, si limita alla constatazione che essa non ha maestranze: ma anche questa potrebbe esse­ re un’impressione falsa. Ora, proprio nella ricerca di una possibile strategia ecumenica di soprav­ vivenza, tendente a evitare i crudi contrasti, l’incontro tra il mondo antico e le culture orientali ha luogo non più sul terreno intonso del primo con­ tatto con la realtà, ma su quello mediato delle opinioni, già comprese in un orizzonte di conciliazione tra atteggiamenti noti. Ciò non deve stupire, essendo proprio di un approccio ingentilito alla realtà così come viene espe­ rita da altre culture non tanto il mito (o meglio i miti) che in assenza di una teoria ne garantiscono l’accesso, quanto la riflessione sulle opinioni che li contornano, in cui si esprime la sapienza di quei popoli esemplificando per via di detti c proverbi briciole di una resipiscenza simile alla propria. È qui che avviene il raffronto decisivo con l’ebraismo. Non si tratta infatti di una vera comparazione, leale e onesta, tra due diversi modi di accesso alla realtà, ma di una sfida intesa al capovolgimento del rapporto tra l’uomo e la realtà. Quest’ultimo è negli ebrei profondamente sconvolto, e personalizzato. Infatti per essi non si tratta tanto di ricercare un approccio pensabile con una quantità già data, quanto di trovare una collocazione nei piani di chi ha creato il mondo, destinandolo a uno scopo che prima non aveva. L’incon­ tro non sarebbe stato possibile se i greci avessero tenuto fermo il loro inten­ to, quello di trovare l’accesso a una realtà ostile, o indifferente all’uomo. Questo è infatti il presupposto su cui si sviluppa la filosofia come teoria naturalistica, c bisogna riconoscere che sono stati i greci, per curiosità di cose nuove o volontà di estraneazione, ad assimilare lo strano e diverso. Nel panorama comparatistico delle culture a loro aliene, le opinioni con cui l’el­ lenismo si incontra più di frequente e in maniera più incisiva sono quelle,

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insolite agli indoariani, degli orientali maggiormente emarginati dal loro mondo, e più originali: gli ebrei. Anch’essi trovano per loro conto, sopra tutto ad Alessandria, la via dell’ellenizzazione. Già nel il secolo a.C. si porta a termine la traduzione della Torah, la leg­ ge di Mose, in greco; e la versione, detta dei LXX (Septuaginta) porta il tito­ lo di BipXia o Bibbia, i Libri. Il passo più importante compiuto dai gentili verso gli ebrei fu il permesso di stanziarsi in forze ad Alessandria (da Hcliopolis); ma quello reciproco fu ancor più decisivo: gli ebrei, in particolare quelli di Alessandria, si danno a riconoscere attraverso la divulgazione del loro statuto morale e legale: la Bibbia. Credo inoltre che la Bibbia, così come oggi la conosciamo, non esistesse prima: perché sono i greci ad aver creato la struttura in generale del libro. Che cos’è la Bibbia? Essa non è solo la Torah, così s’intitola la parte finale del Pentateuco, con le Leggi, il Deu­ teronomio e i Numeri. Il Pentateuco è preceduto da un racconto delle ori­ gini comuni a tutta l’umanità, il mito della Genesi, e seguito da una conti­ nuazione della storia d’Israele, culminante nella monarchia di Saul, Davide e Salomone, e i suoi vari tentativi di restaurazione messianica da parte dell’Unto del Signore, il Re dei giudei, che viene ad assumere un significato sempre più escatologico e trascendentale. Il tutto è poi interpolato da nume­ rose composizioni liriche, sapienziali e proverbiali, che costituiscono i Sal­ mi o inni. La Bibbia è in sostanza un’antologia della letteratura del popolo d’Israele, dalle origini molto antiche, messa a punto in vista di un’edizione divulgativa in greco. Nella Bibbia c’è un unico punto metafisico degno di rilievo, ed è l’in­ venzione del monoteismo. Ma la sua importanza è tale da non poter essere sopravvalutata. Psicologicamente esso consiste nella concezione intimisti­ ca, dialogica e contrastiva della divinità, una specie di superego col quale si è sempre in rapporto, ma con cui si parla come a un alterego, se ne cerca l’a­ micizia e non di rado si polemizza. Dal punto di vista metafisico il mono­ teismo è il termine del raffronto, impossibile nel politeismo, tra l’uomo e la sua radice ultima, assoluta ma personale, modello della sua stessa non somi­ glianza ad alcunché d’altro. La fonte della realtà è per gli ebrei quella stessa della creazione a opera di Jahweh. Questa creazione non è però creazione dal nulla, concetto più tardo che manifesta in maniera per così dire espres­ sionistica il nocciolo della questione. Nel libro della Genesi lo jahwista dice che Elohim (la divinità collettiva, al plurale) ha creato il ciclo e la terra; non l’acqua, si badi bene, e neppure il fango, la materia primordiale dalla quale la divinità trasse poi l’uomo. L’acqua, l’informe, la cavità abissale e vuota

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costituiscono l’universo precedente; insieme con i mostri marini, le divinità sotterranee, i princìpi caotici dell’indistinto, del dissolvente e del femmini­ le, sono l’abominio contro cui si erge la legge mosaica. Il terrore dell’acqua gli ebrei lo ritroveranno altre due volte, la prima con Noè e il diluvio, l’al­ tra più lieta nella fuga dall’Egitto e il passaggio attraverso il Mar Rosso. La creazione del mondo coincide dunque col ritiro delle acque, sopra il firma­ mento e sotto, negli abissi, e consiste nello stabilire una dimora all’asciutto per l’uomo, sopra la terra e sotto il cielo. Et factum est vespere et mane, dies sextus (1, 31). E venne il sabato, et benedixit dici septimo et sanctificavit illum, quia in ipso cessaverat ab omni opere suo (2, 3). Anche i greci avevano in origine paura del mare, dominio dell’ostile Poscidon, lo scotitore di terra. Vi sono sorprendenti analogie tra Genesi e Odissea. Abramo trasgredisce indenne l’ordine ricevuto quando capisce che Dio non può comandargli di fare una cosa atroce, oltre che ingiusta. Gia­ cobbe lotta con l’angelo del Signore, e ne resta storpiato, pur di strappare una legge, un contratto civilistico alla pari. Ogni volta si deve immaginare una selezione che separi chi ha capito da chi semplicemente segue una con­ suetudine, e tra obbedienza e trasgressione si compie il segreto volere divi­ no. Così Odisseo resta l’ultimo degli scampati ai tanti pericoli, perché è l’u­ nico a rimanere fedele al vóoxoq; in quella nostalgia che comprende i due sensi del dolore del ritorno. Anche la stessa vicenda prende tanto la forma del destino che si compie, quanto quella del trionfo della nemesi, della giu­ sta norma. Nella Bibbia la presenza del momento normativo diverrà pre­ valente, in specie dopo l’epoca romana; ciò che gli impedisce di farsi giuri­ dico, di appiattire il Talmud a una precettistica di stile musulmano è la contemporanea tensione data dall’interpretazione anomala, profetica, che spinge lo sguardo verso la metafisica della volontà ascosa. Nel teatro greco l’anelito alla giustizia si palesa drammaticamente, si esprime nel conflitto tragico ma si risolve, catarticamente, nel riconoscimento del suo dovere essere di nuovo riaffermato. Il contatto con la civiltà del teatro, manifesta­ zione ignota ai popoli del Medio Oriente, altera profondamente il caratte­ re di quella ricerca dell’assoluto che è insita nella metafisica. Anche per gli ebrei la tensione verso il giusto è diretta a cogliere la volontà divina, e que­ sto avviene attraverso vicende storiche che per la loro esemplarità, sottoli­ neata dalle lamentazioni dei profeti, assumono significato tragico. Ma l’e­ sposizione non segue una sceneggiatura drammatica, ripiega sul tono elegiaco, diventa scambio di opinioni profondamente sofferte: loquar in tribulationc spiritus mei, confabulabor cum amaritudine animae meae, dice

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Giobbe (bob, y, u). Questo rivolgimento all’interno, che è caratteristica dell’orientamento monoteistico, sortisce degli effetti nuovi e tutt’affatto paradossali rispetto ai generi classici. Il criterio di saggezza che persegue il pensiero metafisico prende qui la forma di una curvatura negativa, di una concavità senza centro all’interno dello stesso soggetto umano. La persua­ sione di fondo è che se noi fossimo capaci di raggiungere l’altro, tutti i restanti problemi si risolverebbero di conseguenza.

7. In definitiva pare che il destino singolare che ha caratterizzato l'Oc­ cidente nei confronti di tutte le altre culture del mondo sia dovuto al con­ corso delle due mentalità, la greca e l’ebraica, che a partire dall’epoca tardoantica del li secolo a.C. fino al basso Medioevo del XII secolo, sono convissute talora in armonia e complementarità, ma più spesso in tensione dilacerante e ostile, perché al di là della confusione si rendono consapevoli di maturare metafisiche tra loro incompatibili. Forse a questa circostanza altamente drammatica è dovuto il valore più universale che ha rivestito la nostra civiltà medievale rispetto a tutte le altre. Ma con la scolastica e il tar­ do pensiero medievale le acque si decantano e avviene una prima filtratura. Viene riconosciuto il valore dei pensatori ebrei e musulmani, ma in tanto li si assimila, in quanto sono circoscritti come alieni. Il medio del pensiero cri­ stiano non tradisce più, perché esso si è definitivamente autonomizzato come cattolico; e quando la riforma dividerà l’unità di questo, non sarà cer­ to per ripercorrere la via da Roma a Gerusalemme. Il Rinascimento italia­ no è forse ancor troppo medievale per inaugurare l’epoca moderna; ma la rénaissance di Descartes e successori indica come, per procedere oltre, abbiamo dovuto rinnegare per quanto allora si poteva l’eredità cristiana in quanto ebraica e, dopo una lunga ma sempre parziale assimilazione, prose­ guire per la via lasciata aperta dall’ellenismo. Dal punto di vista metafisico, l’esprit de géométrie ha divorziato da l*esprit de finesse, e sotto tale forma è divenuto egemone in tutto il mondo. Mi rendo conto che è difficile tentare una siffatta generalizzazione, ma essendone costretto dal l’argomento, devo dire che a mio parere il pensiero moderno e la sua intrinseca metafisica, tan­ to più imperante nella pratica in quanto espressamente negata o contrasta­ ta, è ormai fondamentalmente estraneo all’ebraismo, quindi anche al cri­ stianesimo, e questo nel senso che non gli viene neppure in mente che si possa ricercare nell’elaborazione del sentimento di colpa o nella redenzio­ ne dallo stato di peccaminosità una soluzione qual ch’essa sia dei problemi del mondo, meno che mai di quelli che si dicono di principio. Un dio che si

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fa uomo e si fa mettere in croce per portare su di sé i mali del mondo è una storia senza partecipazione da parte nostra. Se il fatto riferito è vero, dispia­ ce che sia accaduto; tanto più che non è nemmeno edificante, solo inutile. Questa linea di lettura può darsi che non sia del tutto soddisfacente, sopra tutto se messa a confronto, in sede di bilancio, con i tanti aspetti delu­ denti seguiti all’espansione del mondo moderno. Si faccia attenzione, però, che qui non stiamo facendo il panegirico della modernità, sulla quale abbia­ mo già espresso altrove il proposito di un ridimensionamento; si tratta qui di indicare anche attraverso l’esperienza storica la via percorsa dal pensiero nella sua avventura metafisica. In un importante senso la via percorsa ci appare a conti fatti come l’unica via che sarebbe stata percorribile; e anche se questo ragionamento può essere inquinato da quella speciale falsità che oggi chiamiamo tautologia, con un uso scorretto ma efficace del termine, l’inesistenza di alternative percorribili quanto meno con l’immaginazione resta un fatto assai eloquente. Nel dramma entro il quale si svolge l’intrec­ cio degli atti del pensiero occidentale, la metafisica è il protagonista per eccellenza. Essa e il sovrano che domina necessariamente, anche se non incontrastato, estendendosi la sua giurisdizione al di là di questo mondo, oltre cioè la fisica. Dei suoi caratteri abbiamo parlato, dicendo che il suo proprio sono le questioni di principio, dell’intelligibilità e delle conseguen­ ze sul piano pratico. Il complotto che ne minaccia l’imperio sorge dall’in­ treccio col codominio orientale ed è una vicenda di lunga durata, ma che si risolve in due tempi: prima, il divorzio da un’alleanza innaturale; e, secon­ do, il passaggio delle civiltà orientali stesse a un comune destino postindu­ striale c postmoderno. Le alternative si sono dimostrate fallaci non perché fossero peggiori, ma perché sono inesistenti. Inoltre il fatto che la metafisi­ ca vada oltre la fisica vuol dire che per un certo tratto può coincidere con l’industria e il mondo moderno, ma che oggi è più libera che mai da questi aspetti della razionalità. Così, se poniamo il principio di conservazione del­ l’energia, o il principio d’entropia (o d’informazione), essi hanno un conte­ nuto e un valore metafisici solo a condizione che ci rappresentiamo in essi qualcosa che vada oltre la fisica; altrimenti essi sono al massimo delle leggi, ma, col difetto di non essere empiriche, rischiano di mancare completa­ mente di significato. Come ho cercato di dimostrare, tuttavia, non è questo l’aspetto più inte­ ressante della questione. La dizione di problema metafisico era intesa a fare emergere un pensiero molto riposto, forse per l’innanzi mai compiutamen­ te pensato, che per il fatto di andare oltre la realtà permettesse, alla manie-

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ra di certi immaginari^ come le grandezze o i numeri detti tali, una miglio­ re comprensione del rapporto da noi intrattenuto con la realtà. La cosa non è assurda, anzi si dimostra possibile con l’intervento della teoria nelle que­ stioni metafisiche. Il risultato si esprime considerando esemplarmente tre figure di pensatori: Democrito, Platone e Aristotele. Generalizzando, si può pervenire a fissare i tre tipi ideali di soluzioni metafisiche: il materialismo, l’idealismo, il realismo-e/o-spiritualismo. Naturalmente questa è a sua vol­ ta una semplificazione ideale, che non esclude altre soluzioni. Abbiamo anche detto che la circostanza per cui le soluzioni sono in eccesso rispetto al desiderato, cioè che il rapporto problema/soluzione sia \/n piuttosto che 1/1, dipende dalla natura della metafisica, la quale, per il fatto di spostarsi nell’immaginario, non può garantire l’unicità del risultato: anzi, di ciò deve farsene un vanto. Fin qui rutto è lineare. Ma la concessione all’immaginario lascia la por­ ta aperta all’indesiderato (mettiamo) ospite orientale: sia esso Gesù il cristo, il profeta Geremia o il dio d’Àbramo, d’Isacco e di Giacobbe. Questo sostiene che il rapporto con la realtà è mediato da un sesto senso, non meta­ fisico, ma unitivo. Abbiamo cercato di intendere ciò come approfondi­ mento della via interiore, del rapporto con l’altro, dell’immersione nella concavità. Se procediamo ad analizzare tutto questo coi mezzi dell’ingegno ellenico, geometrico e discriminante, lo stesso disegno ci apparirà del tutto incomprensibile. Che cosa si dovrebbe fare, come e perché? Il monito di solito esordisce stabilendo che tutti siamo peccatori; quindi continua ingiungendoci di fare penitenza; infine conclude accattivandoci con la spe­ ranza della redenzione. Il rutto viene espresso in termini duri e oscuri. Infat­ ti non è chiaro che siamo tutti peccatori, in che misura o modo; né si vede come potremmo pentirci, con quali mezzi o facendo che cosa; infine non si capisce con quale guiderdone dovremmo esser ricompensati e perché. Si prenda il caso di Abramo. Il Signore lo chiama e gli ordina di sacrifi­ care il figlio in suo nome. Abramo non dice nulla; prende le sue cose e s’in­ cammina col figlio e il somaro verso il luogo del sacrificio. Dopo tre giorni di cammino ci arriva, prepara il luogo e si dispone a eseguire l’ordine. Ma improvvisamente appare un ariete che si fa prendere e Isacco e salvo, poi­ ché Abramo offre in sacrificio la bestia in luogo del figlio. Si capisce dal rac­ conto che Abramo è tenuto a obbedire alla divinità, quali che ne siano gli ordini, ma che trasgredendoli scopre la più riposta volontà del Signore, che non è un Baal, ma il giusto e misericordioso Jahweh. Lo stesso tipo di inse­ gnamento dialettico, articolato nei tre momenti dell’obbedienza al comari-

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damento, la trasgressione in antitesi, e la scoperta conclusiva del valore di Dio, è presente in altri controversi episodi biblici. Quel che anzitutto stupisce e la tortuosità del procedimento, di cui non si comprende la ragione. Ammettiamo che nel culto prevalente fosse d’uso comune sacrificare in certe solennità il primogenito e che anche i progeni­ tori del popolo d’Israele, in particolare Abramo, fossero obbligati ad adem­ piere tale atrocità. Perché il dio d’Àbramo, d’Isacco e di Giacobbe non esau­ disce fin dall’inizio e direttamente la tacita preghiera che si eleva dal cuore del genitore affranto? Da notare che tale supplica non viene esplicitamente formulata, e che è evidente il proposito di mettere alla prova l’obbedienza di Abramo. Solo perché questi è fino alla fine ligio alla legge, avrà la ricom­ pensa di un contrordine. Poi si riconoscerà che l’abrogazione dei sacrifici umani corrisponde all’intima volontà di Jahweh, ma sarebbe oltracotanza da parte dell’uomo prevedere, anticipare e costringere Dio ad attuare anzi­ tempo il supposto adempimento. I greci chiamavano upptg tale eccessiva confidenza dell’uomo nel favore divino, ma presso gli ebrei il misfatto intenzionale è la più grave trasgressione della legge divina, il peccato per eccellenza, la «tentazione di Dio» da parte dell’uomo. Come si vede, non è facile interpretare la volontà di Dio, c’è sempre il pericolo mortale di oltre­ passarla o, in alternativa, quello di limitarsi a seguirne 1 precetti con animo passivo o farisaico (secondo i cristiani). A questo proposito si veda l’inter­ pretazione che dà il Talmud del supplizio di Gesù. Secondo gli ebrei orto­ dossi l’intera vicenda della passione e morte di Gesù Nazareno, sedicente Re dei giudei, se è racconto è veritiero, si deve valutare, apprezzare e con­ dannare come una immane tentazione di Dio. 1 cristiani non trovarono altro modo di ribattere che mediante un paradosso spinto al limite della blasfe­ mia: che Gesù risorge dalla morte facendosi identico alla volontà di Dio, l’unico modo di negare l’esistenza di una tentazione. 8. Ci chiediamo non senza sgomento se ci sia il modo di sfuggire a que­ ste e altre assurdità. Non si dimentichi che la via greca di evitare questi ulti­ mi problemi, che consiste nell’invenzione della metafisica, se se ne seguono con acribia gli sviluppi fino all’epoca moderna, propone sorprese non mino­ ri. A varie assurdità forse ci siamo abituati, l’inverosimiglianza attenua lo sgomento che altrimenti ci assalirebbe, il fatto è che siamo costretti a capi­ re il senso della realtà e che per riuscirci dobbiamo inoltrarci al di là di essa. Non possiamo accontentarci della fisica, trovare la razionalità nel fatto che, come ci assicurano gli scienziati, ci sono esattamente (poniamo) 264 parti-

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celle elementari diverse, alcune esistenti e altre virtuali o di andamento nega­ tivo nel tempo, o che, per comprendere la fisica dei quanti, bisogna pre­ scindere tanto dalla logica come dai dati di fatto. La fisica moderna incon­ tra abbastanza presto il primo limite, quello dell’incredulità. Quanto alla metafisica, essa incontra un altro limite, il secondo, nella inimmaginabilità del transreale. Nel cercare di comprendere la realtà possiamo porre il compasso eccen­ tricamente, scegliendo un punto al di fuori di essa. Questo è uno spunto consentito, almeno da chi ammette la metafisica. Ma abbiamo visto quali ne sono i limiti. Per rimettere a fuoco il problema, bisogna dire che c’è una cosa che non è consentito fare: incoraggiare quel senso di dereahzzazione, che dovunque sentiamo alitarci intorno. È un fatto che ai nostri giorni il senti­ mento della realtà è gravemente menomato, e forse questo tratto sconfor­ tante è il principale sintomo del nostro disagio della civiltà. Si possono cita­ re in causa la crescente comodità della vita, la mollezza e anzi l’assenza di stimoli contrastanti, come pure la diminuita rilevanza degli atti di volontà tenace e indurita. Ma queste considerazioni non mi trovano consenziente, sembra che si cambi l’effetto con la causa. E assurdo d’altra parte dire che si sta peggio proprio perché si sta meglio in generale. A mio parere la per­ dita di realtà è connessa col sempre più frequente insorgere di nevrosi, che quindi tendono a stabilizzarsi, costituendosi come psicosi, anche in segui­ to alla massiccia presenza di forme collettive di fuga dalla realtà. È qui che diventano rilevanti le circostanze prima menzionate. Forse un tempo si moriva prima di dar segni di pazzia, oppure le nevrosi venivano a forza compresse o anche, senza tanti riguardi, ci si auscultava meno. Oggi un rinforzo è dato dall’indulgenza con cui tolleriamo, quasi fosse un hobby, ogni dimissione della realtà. Tra queste mi sembra lecito includere anche la routine quotidiana, che ci sembra naturale seguire metodicamente in modo da non subirne per contraccolpo dei problemi, giacché in ogni situazione inconsueta poco o tanto si mette allo scoperto il nostro senso della realtà. Ciò è inoltre aggravato dal fatto che le reazioni a noi normalmente accessi­ bili si presentano in forma predeterminata, per così dire istituzionalizzata, e ogni risentimento del genere non fa che avviarci sempre meglio verso la stessa china, autoconfermandoci nell’acccttazione di modalità che non nascono dai problemi, ma si costituiscono in vista di scansarli. Così anche le anomalie fan parte del sistema di vita, e le reazioni che potrebbero sti­ molare a un diverso apprendimento sono già previste come sottosistemi di un sistema che procede imperturbabile e di cui quelle sono le eccezioni che

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confermano la regola. Noi siamo indignati per la diffusione della droga, paventiamo il periglioso itinerario dei nostri figli e più giovani amici attra­ verso tali consuetudini, adoperandoci per stornarle e promuovere una coscienza individuale e sociale ripugnante a tali mezzi di evasione; ma in che consiste la convinzione profonda del nostro atteggiamento? L’immoralità della droga consiste nella creazione vicariale di un universo fittizio che allontana il mondo reale e vi si sostituisce, ignorando anzitutto le esigenze degli altri. Ma dobbiamo ammettere che anche la vita quotidiana normale, nel suo vizio di routine, appare a un osservatore esterno «drogata» in quel senso. Che cos’è dunque la verità? A che cosa l’abbiamo infine ridotta? Restando sul concreto, la risposta riesce difficile, vien fuori discontinua affannosa, asmatica. Questo senso di realtà è, senza alcun dubbio, quello dei rapporti con gli altri, dal prossimo al più remoto, che tende a concludere a una totalità ecologicamente equilibrata, stabile, persistente. Lo stile fram­ mentario del discorso che gli pertiene corrisponde allora allo stato di insuf­ ficiente maturità delle odierne scienze sociali, o umane, al fatto cioè che, avendo ripudiato per ottime ragioni la sintesi di tipo ideologico, esse si ritrovano non per la prima volta in una condizione disgregata, dai confini incerti e priva di idee teoreticamente rilevanti. Per esempio, è importante la geografia, come chilometri quadrati di territorio, per definire una popola­ zione pacificamente autosufficiente? Se è così, si potrebbe tentare di defini­ re la realtà in termini di effetti sociali derivanti da un sistema di relazioni sociali la cui ampiezza ha il diametro minimo di tot chilometri. Ognuno vede che si possono istituire infinite rilevanze di tipo più vario; e tuttavia nell’ipotesi citata non c privo di senso istituire una comparazione tra società dell’ordine di grandezza delle nazioni medie europee, quelle di mole ame­ ricana, come gli Stati Uniti o il Brasile, o ancor più grandi, anzi immense come l’Unione Sovietica. In considerazioni aventi questo grado di com­ plessità, cui abbiamo alluso citando un solo parametro, l’estensione del ter­ ritorio, pare evidente che nel definire il senso della realtà mediamente rile­ vante, il momento «greco» della teoria e della visione chiara del mondo e quello «ebraico» della soggettività profonda e della comprensione parteci­ pativa devono già esser bilanciati in una ragionevole coesistenza irenica, sia pure in misura variabile e non prefissabile, ma cangiante secondo i luoghi e i tempi. Il problema dell’ipotesi di una siffatta oìxoupÉvq non è che l’ana­ logo, più complesso, della definizione coerente, unitaria e sistematica delle varie scienze sociali nel loro insieme organico. Psicologia, sociologia, dot­ trina dello stato per un verso; economia, diritto civile e del lavoro, relazio-

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ni internazionali per l’altro; ma inoltre psicologia sociale, sociologia del­ l’individuo ed economia politica non come suddivisioni di quei generi, ma sostanze seconde contrassegnate da un’istanza specifica propria; e in più neoformazioni apparentemente asistematiche come antropologia, ecologia e etologia: forse non converrà neppur tentare di riorganizzare questa pro­ liferante molteplicità con il sistema degli organigrammi prediletti per esem­ pio dal Direttorio; però è certo che ogni stabile conquista nel progresso del­ la chiarezza e della distinzione teoretiche sarà anche un passo verso il Weltstaaty io stato o nazione universale. Nell’attesa siamo costretti a costruirlo con l’immaginazione, ciascuno per proprio conto. Non è detto che sia uno sterile esercizio; come disse in proposito Hegel, «l’idea non è così impotente da non sapersi realizzare».

9. Da ultimo ma non per ultimo viene il problema maggiore, che regge quello cui abbiamo accennato più sopra e tradizionalmente lo riassume: la questione dell’enea, e cioè in sostanza il problema del male. La ricerca del­ la verità, secondo Malebranche, procede con un metro diverso trattando dell’orJre de la nature o àeWordre de la gràce. L’ordine della natura è quel­ lo dell’estensione, cui si aggiunge la fisica matematica e la trasmissione mec­ canica del movimento; l’ordine della grazia riguarda il mondo dello spirito, inteso non solo come pensiero ma anche come appetito, desiderio e moti­ vazione delle trasformazioni finalistiche. È interessante rilevare che, men­ tre nell’ordine naturale non sono ammesse eccezioni alla regolarità mate­ matica delle leggi, nell’ordine spirituale vige un orientamento teleologico che non ha altra esattezza che quella stabilita dal fine, e quindi in esso con­ vivono massime di probabilità e punti di singolarità come eccezioni. Noi tendiamo a ricondurre questa riedizione del dualismo cartesiano al divario per noi più familiare che sussiste in sede metodica, oltre che sistematica, tra scienze naturali e scienze culturali, storiche e sociali (o umane): per esem­ pio alla maniera di Dilthey, di Croce o del neoidealismo in genere. Qui, però, senza accentuare indebitamente le esigenze razionalizzatrici, vorrem­ mo considerare la distinzione di Malebranche come prologo alla trattazio­ ne di Leibniz. Leibniz segue il filo conduttore della recherche de la vèrite e su questa base pone il problema dell’etica e dell’origine del male. Parlando in generale, che si debba distinguere tra verità naturale e verità morale è una necessità d’ordine metodico, che s’impone di fatto. I due diversi luoghi preposti a tale accertamento sono da sempre l’osservazione ripetuta di un fatto riproducibile o, nel caso che il fatto (più spesso il misfat-

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to) non sia riproducibile, la testimonianza di uno o (meglio) più testi atten­ dibili. Il primo caso mette capo alla verifica di laboratorio, e di norma è impermeabile al dubbio; il secondo trova invece collocazione in tribunale, nella contestatissima procedura dell’escussione dei testi, di cui si può dire che non ce n’è una che sia assolutamente sicura. La verità che abbiamo det­ to morale presenta inoltre un altro motivo d’incertezza. Oltre all’inatten­ dibilità stessa di un’accertabilità irripetibile e ritenuta per sentito dire, si aggiunge il fatto che la contestazione può essere a bella posta convinta a giu­ rare il falso. In altre parole, se nel rapporto uomo/natura l’eventuale falsità del giudizio sta tutta dalla parte dell’uomo, poiché è lui che si sbaglia e non la natura che lo vuole ingannare; nel rapporto uomo/uomo invece, cioè nel raccogliere la verità di un altro, può darsi che ci venga fatto credere il falso in luogo del vero. Da questa proprietà che ha il linguaggio di poter far pas­ sare l’irreale come realtà, e cioè il falso come verità, prende origine quella varietà del male morale che è la falsa testimonianza. Siamo indotti da ciò a parlare del male senz’altro. L’esistenza del male è considerata indubitabile da Leibniz, per lo meno per quanto riguarda il male fisico, che è la sofferenza in senso molto lato, dalla noia al dolore, e il male morale, che è dato da tutti i delitti, a comin­ ciare dall’inganno, e che fa tutt’uno col peccato. Solo per quanto riguarda il male metafisico, che consiste semplicemente nell’imperfezione, è lecito e anzi secondo Leibniz doveroso intrattenere dei dubbi. Infatti la discussio­ ne di questo punto conduce direttamente nei problemi di teodicea. Si Deus est, itnde malum? Si non est, unde bonum? Ma procediamo con ordine. L’e­ sistenza del male fisico è riconosciuta anche dal Buddha, e con lui dai gimnosofisti e dai cinici. Il male morale, concediamolo, è eliminabile se si rinun­ cia alla vita morale, addestrandosi come i cinici a non riconoscere alcuna dignità o valore. Restano i mali fisici, la malattia, la vecchiaia, la miseria e la morte. Essi non sono eliminabili se non ragionando al controfattuale: «meglio sarebbe per l’uomo non essere mai nato...»; o come Egesia il cire­ naico, il suasor mortis, che persuadeva gli altri al suicidio. In ogni modo la morte non elimina che il male futuro, non certo quello che è stato, e che continuerà a esser stato eternamente. Il male morale rientra nel conto cini­ co, ma solo se si è disposti a rinunciare anche a quel bene che deriva dalla stessa fonte, e che non si può conservare senza sopportare anche il primo. La rinuncia ai valori, in ultima analisi, sembra essere una filosofia morale dei paria, un nichilismo tra il rassegnato e il risentito dei diseredati. La radi­ ce ultima del male morale sta in quello metafisico, nelle riflessioni sulla teo-

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dicea. Quindi il male fisico, che certamente esiste, è superato dalla speran­ za di star meglio. Ciò non è vero in tutti i casi: ci sono le sofferenze dispe­ rate, quelli che ne sono consapevoli e, di conseguenza, i suicidi più o meno eutanatici. Ma per la maggioranza dei viventi una siffatta motivazione è qua­ si un truismo. Il male morale è compensato a usura dal bene morale, cioè dai vantaggi che derivano dal vivere non come cani selvaggi, ma in società. È interessante riflettere su questo bilancio ineguale, inclinato a nostro favo­ re: poiché in assoluto i vantaggi sono l’esatto equivalente delle pene, cam­ bia solo il segno. Ma il fatto è che la società civile esiste da tanto tempo che non risentiamo più degli sforzi fatti per stabilirla, che quindi godiamo (anche moralmente) senza avvertirne il debito costo. Va da sé che questo giudizio è assai meno tautologico del precedente, esso dipende dall’apertu­ ra del compasso circoscrivente il territorio e il suo risultato non è detto sia maggioritario per ogni popolazione. In ogni modo, proiettivamente, tali sono le nostre speranze. Con tutto questo non abbiamo però parlato del problema del male, ma solo della maniera con cui normalmente lo si ritiene compensato dal polo opposto del bene. Avendo stabilito che il bene compensa a usura il male, il problema di teodicea è già risolto. Con tutto il rispetto per Leibniz, il pro­ blema sta nel fatto che il male non fa parte di un sistema civilistico, nel qua­ le il risarcimento estingua il danno arrecato. Abbiamo già visto, a proposi­ to del male fisico, che non si può eliminare dal mondo la sofferenza che c’è già stata; si può solo far sì che non ci sia più. Questo vale per quanto è dato per natura. In campo morale, il male deri\ra dalla cattiva volontà dei nostri atti, o dall’ignoranza delle conseguenze dei medesimi. In ciò propriamente il male è «cosa nostra», esiste perché ce lo facciamo da soli. E qui è tanto più difficile riflettere con mente serena, ma i risultati sono gli stessi. Come pos­ so compensare l’amico estinto di un male che gli ho fatto? E, più in genera­ le ancora, che stravagante idea è mai quella che si possa compensare un male? Il problema, come si vede, è quello del male assoluto, passato senza compensi e incompensabile in se stesso, in una parola metafisico. Curiosa­ mente, proprio il male metafisico è stato quello trattato in maniera più rela­ tiva, privativa e da ultimo noncurante da tutta la filosofia. Come è posto il problema da Leibniz? io. Nella teodicea la questione è così formulata: ci si chiede come un principio creatore, unico e libero, assolutamente buono, onnisciente c onni­ potente, abbia potuto permettere il male e, soprattutto, come abbia potuto

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permettere il peccato, decidendosi spesso a rendere i peccatori felici e i giu­ sti infelici. La risposta è concepita in termini di armonia prestabilita, la qua­ le considerando le cose molto in generale, induce infine a credere che quan­ to saremmo portati a biasimare è connesso con il piano più degno di esser scelto, ad maiorem Dei gloriami L’armonia prestabilita spiega come mai, nel bilancio generale della creazione, la sofferenza che spetta a uno ingiusta­ mente possa esser compensata dal bene di cui un altro gode immeritata­ mente: peccato però che questo non sia di sollievo al malcapitato né di effi­ cacia pedagogica per il beneficiato! La pazienza di Giobbe fu messa alla prova dal Signore, che gl’inviò ogni genere di sofferenze. Pur pervenendo al limite della sopportazione, Giob­ be superò la prova. In compenso il Signore gli diede il doppio di quel che aveva prima, tra mogli, figli e pecore. E Giobbe finì in letizia 1 suoi anni. Questo è il male in una concezione civilistica, che prevede il risarcimento dei danni. Il medesimo convincimento dell’equità della compensazione del male, questa volta però attraverso una pena inflitta alla sua causa, cioè noi stessi, domina anche la concezione che potremmo definire penalistica della giustizia. Così il male che io peccando ho inflitto al mio prossimo, se si trat­ ta, poniamo di un delitto in sé irredimibile, può trovar risarcimento presso Dio ove io volontariamente mi infligga una penitenza a lui gradita. In que­ sto modo il male punitivamente inflitto a noi stessi estinguerebbe, a guisa di vendetta, il male fatto agli altri, annullando il segno positivo col negati­ vo. Questa concezione, che non ci peritiamo di qualificare come barbarica, domina tuttavia ancora i nostri convincimenti tradizionali, sia pure in modo semiconsapevolc. Volendo immaginare una grande festa del perdono, con risarcimento dei peccati c rinascila morale in grande stile, infatti, non abbiamo saputo escogitare altro che questo: una vendetta, presa su una vittima innocente, avrebbe per la sua stessa atrocità rabbonito il paventato giustiziere. Eppure già Beccaria aveva dimostrato, con tutta ragionevolezza, che non esiste alcuna sorta di legame causale tra delitto e pena, nemmeno di tipo morale. E non c’è un disegno più distorto di questo, per cui del sangue innocente dovrebbe lavare la colpa commessa da altri. Anche il male da noi stessi commesso è inespiabile. Resta solo, tragicamente, il dispiacere. Da un punto di vista più laico, si può solo prevenire il male, non curar­ lo. In questo senso, se il sacrificio di Gesù è stato ed è atto a prevenire dei mali futuri, esso non fu invano. Le riflessioni di teodicea si possono inten­ dere, filosoficamente, in maniera trascendentale: cioè indipendentemente da qualsiasi religione o teologia positiva. In tal modo la concezione di un dio

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onnipotente, onnisciente e massimamente buono diventa un esercizio intel­ lettuale diretto a saggiare, nel modo del controfattuale, come sarebbe in assoluto una capacità di operare e di comprendere affrancata da ogni limi­ tazione umana, e a quali fini potrebbe esser diretta. È interessante notare, dal punto di vista della teodicea, che una siffatta rimozione dei limiti non risolverebbe ogni problema; anzi, che rincarerebbe le difficoltà di taluni dei più importanti, apprezzabili già nella condizione umana. L’onniscienza, per esempio, è limitata per principio (non cioè dai difetti dell’intelletto umano) dall’eventuale presenza di un infinito attuale, che fosse non solo non denu­ merabile, ma anche non ordinabile. Leibniz sapeva già che l’infinito attua­ le non è denumerabile; ragion per cui nemmeno un intelletto onnisciente potrebbe conservar distinti tutti i ricordi e tutte le anticipazioni degli even­ ti in un tempo continuo. Ma egli riteneva ciononostante che ogni legge di sviluppo di una monade, la funzione che coordina i suoi attributi nel tem­ po, fosse quanto meno ordinabile: e quindi suscettibile di esser registrata, cioè denumerata distintamente, per segmenti. Ma tale fiducia è scomparsa dalla matematica successiva. I limiti della memoria non c’entrano: sempli­ cemente non si può denumerare distintamente un tutto inesistente, incapa­ ce di distribuzione completa. Questa impossibilità è trascendentale, non specificamente umana; nemmeno Dio può farci nulla. Per parte sua l’onnipotenza è intaccata dalla potenza smisurata di un infinito attuale. Restando nell’ambito della filosofia medievale, la conce­ zione più verosimile sembra esser quella di Averroè (Ibn Rushd). Non essendo concepibile l’onnipotenza, la creazione di Allah deve intendersi come un evento parziale, episodico, che esiste all’interno di un universo inintelligibile, indominabile e irrazionale. A parte questo, l’onnipotenza (divina) non è più tale non appena si stabiliscano i primi princìpi. L’infinita proliferazione delle conseguenze si surmoltiplica rapidamente oltre ogni capacità efficace di rattenimento, e ogni agire diviene per principio irre­ sponsabile, sia che assenta al factum, in quanto ciò avverrebbe ex post festum, sia che cerchi di rimediare al fiat con interventi eccezionali. A dif­ ferenza dell’idea dell’onniscienza, quella dell’onnipotenza è evidentemente destinata al teatro umano. Essa è un’eloquente iperbole della facoltà di libe­ ro arbitrio. Il libero arbitrio è il postulato su cui si fonda la responsabilità dell’azione umana, che senza di esso non risulterebbe valutabile in alcun modo: né punibile, né deprecabile e nemmeno degna di lode. Non vi è qui necessità di usare il controfattuale teologico, poiché, come ben sapeva Descartes, per quanto riguarda volontà e deliberazione, l’uomo è uguale a

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Dio, proporzionalmente o analogicamente. In quanto postulato che regge una pratica universalmente diffusa e alla quale non sapremmo rinunciare, l’esistenza della libertà di volere non dovrebbe esser soggetta a negazioni. Di fatto, invece, non è così. Non alludiamo qui ai tanti argomenti, più o meno sofistici, che posso­ no farsi valere contro l’esistenza del libero arbitrio. La stessa legislazione liberale, nelle sue espressioni più recenti riconosce una restrizione sempre maggiore al principio del libero arbitrio, sotto forma di quella temporanea incapacità di intendere c di volere che nelle questioni penali sembra esser divenuta quasi la condizione normale degli uomini. La nostra osservazione vorrebbe andare più in profondo. Non ho difficoltà ad ammettere che il libero arbitrio esiste. Ma così come non mi son dato io stesso l’esistenza, solo l’ho ricevuta e (magari) l’approvo, la domanda diventa: sono io libero di assumerlo, o sono condannato a esser libero? La domanda non vorreb­ be esser sofistica, a sua volta, intesa nel senso che non basta al concetto di libertà saper di esser liberi da qualcosa (di negativo), bensì esserlo per qual­ cosa (di positivo). In questo senso devo correggermi: non credo che abbia significato esser liberi di esser liberi; ma che lo abbia sentirsi l’obbligo, non obbligati, di farne qualcosa. Dovrei concludere dicendo qualcosa sull’essere infinitamente buono. Anche lasciando perdere l’infinito, la questione intrigante è che due uomi­ ni, o due popoli, possono esser buoni ciascuno per conto proprio, e tutta­ via combattere tra loro a morte, facendo del male e ricevendone altrettan­ to. La questione, come si vede, riguarda più precisamente i limiti intellettuali delle questioni di etica, e sarà perciò meglio discussa nella lezione corri­ spettiva. Dico intanto il mio parere, sconsideratamente. Leggendo Goethe, la prima cosa che mi viene in mente di dire, e sono convinto che egli non l’avrebbe presa a male, è che si sente che egli è stato un uomo profonda­ mente buono e comprensivo, tanto da far venir la voglia d’imitarlo.

Nota bibliografica

Aristotele non parla mai di metafisica, né di filosofia in senso tecnico; il termine in lui corrispondente è quello di tcqwtìi ÈniGTqpìi, scienza prima. Lo stesso vale per Tommaso d’Aquino c i medievali in genere. Il maggiore trattato di metafisica, in cui essa compare col significato moderno, è senza dubbio quello di Lrancisco Suarez, Disputationes mctapbysicae, pp. 1 e il,

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Salamanca 1597. La metafisica concepita come ontologia e philosophia pri­ ma appare invece con Christian Wolff, Philosophia prima sive ontologia^ Leipzig 1729. Ma per il significato che la metafisica ha assunto nel dibatti­ to contemporaneo ci riferiamo in definitiva a Martin Heidegger, Was ist Metaphysik?, Frankfurt am Main 1949 (ma 1929); e, dello stesso, Einfiihriing in die Metaphysik, Tùbingen 1953 (ma 1935).

Quinta lezione

Soggetto e coscienza L'uno, i molti, il medio

i. Fin qui la discussione si è svolta in maniera abbastanza tranquilla, par­ lando di concrezioni già coagulate nella nostra rappresentazione, quali la logica, il linguaggio, la realtà o la metafisica. Ora invece dobbiamo inoltrarci in quella zona d’ombra in cui nemmeno l’immaginazione più esperta riesce a fissare il significato di parole come soggetto, coscienza, io personale e pri­ vato. Volendo ricavare il significato dall’uso, bisogna dire che c’è un senso ovvio per il quale tali parole si trattano come sinonimi, e va bene; ma nello stesso tempo affiora la consapevolezza, magari per esser subito repressa, che la cosa non sta proprio così: che le varie sfumature dell’uso esprimono quanto meno un imbarazzo, forse un disagio dovuto a mancanza di chia­ rezza. Per il momento ci accontentiamo di stabilire, al di là dell’uso sinoni­ mico, che il subiectum, come soggetto psicologico (i), esprime specialmen­ te l’istanza attiva, l’iniziativa drammatica, l’atto contrastivo; la conscientia, da cum e sci) e; (ii), il sapere collettivo, quel che tutti sanno o «dovrebbero» sapere, cioè la scrupolosa consapevolezza; e l’ego (z’n), infine, l’io persona­ le, privato o sociale che sia, è semplicemente il soggetto grammaticale, l’ìn­ dice di chi parla, in una parola l’autorifcrimcnto. Questa precisazione non intende esaurire il significato di tali termini, il quale a causa della zona d’om­ bra è inevitabilmente complesso; ma solo stabilire un inizio su cui proce­ dere più speditamente. Nel primo senso il soggetto è importante come attore (o attante) della comunicazione. Per la teoria della comunicazione un messaggio viene defi­ nito intenzionale, quando la probabilità che esso sia frutto del caso è tal­ mente esigua da costituire una evidente confutazione di siffatta ipotesi; quando cioè, anche senza vederlo, noi possiamo facilmente raffigurarci il soggetto che lo emette. Siccome tale computo, trattandosi di probabilità, è quantitativo, si darebbe con ciò una soglia comparativa al di sopra della qua­ le l’emittente del messaggio è palesemente intenzionale, ossia soggettiva.

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Secondo questa teoria ci sarebbe, vale a dire, il modo di definire (sia pure relativamente a una certa media) la qualità di soggetto obiettivamente, in quanto soggettività oggettiva, e ciò attraverso la relativa improbabilità di un messaggio intenzionale fortuito. È questa la probabilità, per ripetere un famoso esempio, che un milione di scimmie, addestrate a battere i tasti, lavorando per un milione di anni riescano a produrre per caso (non sapen­ do l’italiano!) una cantica della Divina commedia. È essenziale distinguere la comunicazione intenzionale da quella che non lo è. In questo campo la letteratura divulgativa ha creato una certa confu­ sione, non saprei fino a qual punto innocua, a giudicare da certi film di fan­ tascienza. Quando per esempio si dice che una certa galassia (la quale, per esser tale, deve distare almeno un milione di anni-luce) invia un messaggio che ci informa sulla sua composizione chimica media, la sua velocità di rota­ zione o di allontanamento, la sua distanza, e così via, questo modo di par­ lare è chiaramente metaforico: quella galassia, anche senza conoscerla, è chiaro che non è, e non è mai stata intenzionata a mandarci alcun messag­ gio; siamo noi che, attraverso le leggi di fisica che ci son note, riusciamo a inferire certe conclusioni con un certo grado di probabilità. Invece nel caso del Progetto Ozma, il programma di ascolto delle emissioni stellari, la situa­ zione ipotizzata è nettamente diversa. Ammettendo che nell’universo, pres­ so altre stelle, esistano civiltà simili alla nostra, e che abbiano la tecnologia e l’energia sufficienti, ma soprattutto la voglia di mandare un messaggio a noi attraverso i vuoti abissi dello spazio, appoggiandosi sulle emissioni più frequenti in natura (per esempio, la banda dell’idrogeno, o dell’ossidrile): la cosa non presenta difficoltà di principio, ci si chiede solo se noi sapremmo riconoscere tale messaggio come intenzionale. E il fatto che il programma sia stato messo in atto, suscitando magari degli interrogativi sull’impiego del tempo da parte degli astronomi, ci dice che la risposta è stata affermati­ va. Ammesso di riceverlo, noi sapremmo apprezzare adeguatamente un simile messaggio. Finora non si è captato nulla, credo nemmeno un falso allarme. Ma sup­ poniamo... Supponiamo che si riceva una sequenza di 1849 impulsi sulla banda dell’idrogeno, che viene d’altronde utilizzata dalla radioastronomia per «'vedere* l’universo; e che tale sequenza sia (a} ripetitiva, per esempio esattamente ripetuta a intervalli di 43 ore, 21 ' e qualche secondo per 144 vol­ te; (A) formata da unità (piene o vuote) di 13/100 di secondo, cioè che la suc­ cessione di pieni e di vuoti si lasci ricomporre come multiplo di tale ipote­ tica unità; e (c) che detta sequenza si possa trascrivere, inalterata quanto al

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possibile senso, in una «sequenza» lineare di + e di -. A questo punto è evi­ dente che siamo di fronte a un probabile messaggio, che si tratta di decifra­ re; e a tale scopo la sequenza trascritta viene trasmessa agli studiosi interes­ sati. Ora è impossibile che a qualcuno non venga in mente che 1849 è il quadrato di un numero primo, e cioè di 43. Che 43 sia un numero primo, vuol dire che c’è solo un modo di combinarlo perché dia 1849, vale a dire il quadrato. Allora si prende un foglio quadrettato e si traccia un quadrato avente 43 quadretti di lato; quindi, andando da sinistra a destra e dall’alto in basso, si riempiono o si lascian vuoti i quadretti corrispondenti agli impul­ si unitari (si potrebbe anche andare da destra a sinistra, o dal basso in alto, il risultato è invariante rispetto a queste convenzioni di scrittura). Che cosa può apparire in un simile disegno? Parecchie cose. Per esempio, il sistema numerale, che sarà quello duale, dato che si esprime già, anche meccanicamente, come sequenza modulare di pieni e di vuoti; il sistema degli elemen­ ti chimici su base Z, il numero atomico; alcuni composti della chimica del carbonio di interesse vitale; la composizione chimica del pianeta abitato e della sua atmosfera; il sistema stellare corrispondente, e la sua distanza nel­ lo spazio. Sono molte le informazioni che possono essere comunicate con un quadrato di 43 per 43; eppoi, una volta riuscito il primo tentativo, nulla vieta di farne altri, più grandi e complicati; se la distanza è grande, ce n’è di tempo per risolvere dei rebus! Naturalmente tale comunicazione non sareb­ be illimitata: non riusciremmo mai a intenderci su destra e sinistra, sulla pro­ nuncia delle vocali, o su sentimenti indipendenti dalla chimica del sangue.

2. L’esemplificazione controfattuale, inesistente ma possibile, rende per­ spicue le condizioni alle quali diventa obicttivo il discorso sulla soggettività, cioè scientificamente controllabile e verificabile punto per punto. La via indicata è indiretta, né potrebbe essere altrimenti, anche seguendone altre. Essa passa attraverso l’intenzionalità del messaggio, e questa a sua volta è dimostrata dall’estrema improbabilità di un risultato casuale, che si trasfor­ ma poi in certezza quando interviene lo scambio della trasmissione. Tenia­ mo dunque per fermo che l’esistenza della soggettività è scientificamente dimostrata, né avremo motivo di ritornare su questo punto. Semmai può destare qualche meraviglia che si debba insistere su un fatto tanto ovvio, ma sentiamo l’obbligo di rettificare la voga che per qualche tempo è invalsa di considerare superato il problema della soggettività: la qual cosa, per chi abbia provato sul serio a prescindere da se stesso, in quanto superato, deve esser stata fonte d’inenarrabile confusione. Si sarà d’altra parte notato che

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l’argomento che prova l’esistenza della soggettività è costruito sulla teoria della comunicazione oggettiva, quella di tipo coordinativo e non causale. Come si è detto, si tratta della concezione di senso comune presso gli inge­ gneri, per cui la comunicazione consiste semplicemente nella trasmissione o nello scambio, se va nei due sensi, di informazioni. L’informazione è poi definita dal numero delle scelte binarie (logaritmo su base 2) richieste per dare significato al messaggio. La scelta di questo riferimento è ovvio: una dimostrazione è tanto migliore, quanto minori sono i presupposti che richiedono di esser condivisi, e la teoria coordinativa, cioè obiettiva della comunicazione è considerata di dominio pubblico. Siccome però il nostro argomento non è la comunicazione, che abbiamo già svolto, ma la sogget­ tività, ci chiediamo quali approfondimenti può fornire in merito l’altra teo­ ria rivale, quella causale o gorgiana della comunicazione. Secondo questa teoria, che abbiamo cercato di riesumare con Gorgia, avvalendoci dei lavori di Bùhler in proposito, ciò che effettivamente si comunica non coincide con la trasmissione obiettiva, e cioè complessiva­ mente predeterminata, delle informazioni. Un esempio di comunicazione nel senso qui inteso è dato dall’Encomio di Elena, dove Gorgia evidente­ mente ha in mente una forza che si propaga non in virtù di un significato che permanga identico nell’operazione, ma a causa di una suggestione, anche fisica, che emana da chi parla e soggioga chi ascolta; e dove, nel sen­ so obiettivo della comunicazione, propriamente non si trasmette nulla. L’encomio, insomma, forza l’ascoltatore movendolo a provar pietà per Ele­ na, anziché condannarla. Questo celebre esempio di comunicazione in sen­ so causale forse prova troppo, e deve esser rettificato da alcune più fasti­ diose precisazioni. In primo luogo, penso che sia chiaro perché si parla nel caso opposto di teoria coordinativa della comunicazione. Durante questa operazione, il significato che si vuole trasmettere deve essere rigorosamen­ te identico, salvo i disturbi, a quello ricevibile da parte di un ascoltatore nor­ male. Nella teoria causale della comunicazione, invece, ciò che si trasmette non è un significato coordinabile (tra emittente e ricevente), ma esattamen­ te quanto si causa nell’ascoltatore. Questo effetto è definito da Bùhler di Auslòsung, q scatenamento. Limitando la comunicazione agli aspetti rigo­ rosamente verbali, ci si avvede che l’effetto di scatenamento di significato, se è vero che non può esser garantito da una preliminare coordinazione, non è causale nel senso di una forza o suggestione fisica, ma dipende da una motivazione squisitamente semantica. Da una parte c’è la scelta delle paro­ le e dei giri di frase dell’oratore, e in questa capacità di suscitare lo scatena-

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mento desiderato consiste la sua bravura. Ma dall’altra, e in collocazione in definitiva più determinante, c’è la predisposizione culturale, disponibilità all’assenso o al dissenso. Infatti è ovvio che quanto può muovere uno a pietà può egualmente incitare altri al disprezzo. È necessario dir questo per evitare di fraintendere la teoria della comu­ nicazione gorgiana nel senso balordo di una riabilitazione della retorica. Non c’è alcun bisogno di una così fatta riabilitazione, che oltre tutto ripor­ terebbe la teoria causale della comunicazione nell’ambito dell’altra. Se infat­ ti l’oratore fosse capace di disporre le sue parole secondo l’effetto desidera­ to, questo sarebbe il significato tanto trasmesso quanto ricevuto, e cioè coordinato; non scatenato. La riabilitazione della retorica ha avuto il suo massimo esponente in Hitler, quando nel Mein Kampf osserva che la folla, a guisa di femmina, deve essere non solo convinta, ma soggiogata dal tribu­ no. In ciò Hitler dipende da Gustave Le Bon, la cui psicologia della folla ha avuto anche altri discepoli, più domestici. Non credo però che Gorgia deb­ ba essere inteso a codesto modo. Comunque sia, è evidente che la teoria del­ la comunicazione come scatenamento del significato mette piuttosto l’ora­ tore in balia di un ascolto minimamente preparato, critico e spregiudicato. È inutile trascinare le folle se poi si finisce a piazzale Loreto. 3. Sebbene il nostro problema non sia la comunicazione, ma la soggetti­ vità, è interessante considerare la prima, specie nell’accezione causale, come una via d’accesso al momento agente, allattante. In primo luogo, il fatto che si diano due diverse teorie della comunicazione, oltre tutto malamente armonizzabili tra loro, fa pensare a un’origine extraverbale del fatto comu­ nicativo, al di là dell’espressione delle emozioni, e cose simili. Per ricorrere a un esempio banale, quando si forma una numerosa fila allo sportello del­ la stazione, o della banca, è chiaro che le persone così accomunate, anche se non usano parole, si comunicano (e come!) un profondo sentimento di fru­ strazione, di rabbia mal repressa, di inespressa insoddisfazione. Tutto il con­ trario del proverbiale mal comune, mezzo gaudio! Si odiano quelli davan­ ti, nella fila, che una volta pervenuti allo sportello pretendono di fare operazioni lunghe c complicate; si odiano di contraccambio quelli dietro a noi, che premono irrequieti e pare cerchino di insinuarsi in posizione pre­ rogativa; intanto si medita indispettiti sugli effetti perniciosi del crescente benessere delle classi medie... La comunicazione interessa il mondo preu­ mano, si estende agli esseri sprovvisti di linguaggio. Per la teoria causale del­ la comunicazione, comunicare (s’intende, tra soggetti) in questo senso più

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primitivo e profondo vuol dire scatenare nell’interlocutore una reazione che forse avrà poco a che vedere con quanto intendevamo dire, ma che tuttavia appare carica di tutta l’emotività e le svariate assonanze culturali di cui l’al­ tro è capace. La diffusione culturale di fedi religiose come il cristianesimo, l’islamismo o, di recente, lo spiritismo, che è senz’altro sproporzionata rispetto al modesto livello dottrinale delle loro rispettive origini, è forse spiegabile con l’effetto detonante (piuttosto che scatenante) del fiammifero nella polveriera. La concezione provocativa del significato infatti dice che non c’è proporzione tra causa ed effetto, ma solo consecutività. Per con­ verso, se si cercasse mediante una dittatura pedagogica di comprimere gli effetti, livellando e uniformando le cause, il risultato finale sarebbe sempre all’incirca lo stesso, perché ognuno reagisce secondo la propria risonanza agli stimoli verbali. In altre parole, la teoria causale della comunicazione dice che la comunicazione è, in un senso profondo, un equivoco; ma che ciono­ nostante essa esiste, c’è realmente. La comunicazione consiste dunque in uno scatenamento o rimando di significati, di cui è responsabile chi parla per il fatto che preme il grilletto {triggerpressing), ma ancor di più chi ascol­ ta perché fa esplodere dentro di sé (putbursting) lo scatenamento di senso, che è sempre personale. Da ciò si evince una caratteristica non banale del soggetto: proprio per­ ché esso appare intonato a una logica (nel senso di modo di funzionare) non della coordinazione, ma piuttosto della consequenziarietà o, più esplicita­ mente, causale. Da un punto di vista affatto teorico (o strutturale), non ci peritiamo di proporre un accostamento tra Vintuizionismo, come logica del «se—, allora — », e la dottrina causale di cui sopra, e il formalismo, come logica della disgiunzione «— vel— » e coordinazione, sempre nello stesso senso. A sua volta questo accostamento contiene trascendentalmente una forte opzione, in ultima analisi, di segno intuizionistico. Secondo questa filosofia l’albero della consequenziarietà prevale su quello della coordina­ zione. La scelta precede sempre i due casi tra cui avremmo dovuto sceglie­ re; anche se è più comodo presentare un contenitore, in definitiva, con i due casi dati in anticipo sulla scelta. Come si vede, l’intuizionismo, o ciò che abbiamo stabilito di chiamar tale, è in se stesso assai poco intuitivo. Noi sia­ mo solo consapevoli che, dato un certo fatto, ci sentiamo indotti ad aspet­ tarcene un certo altro: sep, allora q. Diamo al primo il titolo di causa, al secondo di effetto; oppure, piu logicamente, premessa e conseguenza; e simili. Ma se il legame tra il primo e il secondo è del tipo stimolo-significa­ to, non sappiamo dare un nome convincente a tale nesso (—>), poiché di esso

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siamo solo a metà consapevoli. In generale il soggetto agente può sempre associare un motivo del suo agire, cioè accompagnare l’azione effettiva con una spiegazione verbale. Questa verbalizzazione generalmente segue, a richiesta, l’azione compiuta; ma può anche darsi contemporaneamente a quella o addirittura precederla, prevedendone l’accadere. In quest’ultimo caso, dato il senso anticipatorio della spiegazione, può sembrare che le paro­ le producano l’evento anziché esserne il riflesso, per il fatto che esse vengon prima. In molte occasioni la motivazione dell’agire addotta verbalmente può esser quella effettiva, ma dal punto di vista generale bisogna supporre che per principio essa sia sempre falsa (pur potendo risultar vera in qualche caso, ma per accidente) per il fatto che interviene il fenomeno noto come razionalizzazione delle motivazioni inconsce o semiconsapevoli. Questa ci obbliga a contabilizzarle in doppio registro, uno ufficiale, l’altro reale. L’esperienza dell’ipnosi è stata sotto questo aspetto decisiva. Se a un sog­ getto debitamente ipnotizzato si dà l’ordine di chiudere la finestra non appena sia sveglio, quello si sveglia e va a chiudere la finestra. Se quindi gli si chiede perché l’ha fatto, egli normalmente risponde che aveva freddo. Chiedo scusa se, a scopo di brevità, non ho presentato una situazione rigo­ rosamente sperimentale, ma la morale del fatto è questa. L’ordine ricevuto in stato ipnotico è la motivazione reale dell’evento «chiudere la finestra»; il freddo ipotizzato, che per caso poteva anche esser sentito, è quella razio­ nalizzata, fatta passare come credibile per sé e per gli altri. Dunque la razio­ nalizzazione delle motivazioni a mezzo di giustificazione verbale per prin­ cipio falsa, è un fatto accertato al di là di ogni dubbio. Anche questo fatto getta luce sulla costituzione del soggetto umano, e dà ragione a quanti, come Freud, lo vedono topologicamente dissociato in una parte rivolta alla per­ cezione, all’io, alla coscienza, e una parte più propriamente autoreferenzia­ le, intrinseca alla propriocezione, all’ex, all’inconscio. Secondo questa teo­ ria, che è non solo della psicoanalisi freudiana, ma anche della psicologia analitica junghiana e in generale di tutta la psicologia (dinamica) del profon­ do, la motivazione reale è quella pulsionale dell’inconscio, mentre la moti­ vazione verbale è al massimo quella cosciente, sempre in qualche modo razionalizzata, e quindi in certa misura falsa. Il soggetto inteso in quanto attore e non solo spettatore dell’azione, presenta sulla scena la coartazio­ ne c le vicende di due individui distinti: l’io o la coscienza, come sede degli atti razionali o razionalizzabili; e il sé o Vici (neutro), come subiectum per lo più inconscio delle pulsioni profondamente istintuali. Questa distinzio­ ne non ha il suo fondamento sull’io cosciente; sarebbe infatti un contro-

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senso pretendere che la coscienza discrimini da sé quel che non è coscien­ te. Per questo il fondamento della distinzione tra conscio e inconscio va ricercato nel riferimento all’azione; perché Vagire nel suo attuale decorso, è sempre al massimo solo per metà conscio. Quindi la comprensione piena dell’agire richiede il concorso sulla rappresentazione scenica dei due co­ attori del dramma, il protagonista e il deuteragonista, né è dato sapere in anticipo chi è veramente il personaggio principale; non è detto che sia quel­ lo che parla da protagonista. La psicologia del profondo invita di per sé alle metafore drammatiche, e in questo si deve probabilmente scorgere di più che un semplice parallelismo bi-associativo, produttivo di arguzie verbali: non è forse tale psicologia del profondo il nostro teatro contemporaneo, motivato com’è razionalmente dal disegno di una catarsi universale? Non c’è davvero bisogno di rompersi la testa per capire chi o che cosa, nel caso, ricoprirebbe il ruolo del protagonista. Da questo breve esame della nozione di soggetto, inteso come ÙJtOxeipevov dell’azione, si ricavano almeno due importanti cognizioni: primo, che tale soggetto è complesso, presentando gli estremi di un collettivo plurale (a due, o a tre istanze distinte: ma basta il 2 perché ci sia pluralità) e non di un individuo; e, secondo, che la ragione per cui si scinde, e si è scisso, è da ricercarsi nella costrizione repressiva e oppressiva di quella stessa vita socia­ le, neU’adattamento alla quale abbiamo ravvisato altrove il più sicuro indi­ zio di progresso. Del primo punto ci occuperemo ancora a lungo. Quanto al secondo, è chiaro anzitutto che non ci sarebbe razionalizzazione, né quindi tendenza a dissociare un io cosciente e sociale da un sé irresponsa­ bile e inconsciamente asociale, se non ci fosse bisogno di separare le moti­ vazioni lodevoli o come minimo da tutti condividibili, da quelle che la ver­ gogna ci impedisce di citare perché illecite o rimosse al punto di non esser più coscienti. È quindi l’io sociale che porta il peso di una coabitazione for­ zata con un parente impresentabile, e sa il cielo quanto stretto. In più, se egli è di confessione psicanalitica, deve subire quotidianamente l’esortazione a toglier lo scheletro dall’armadio o, in alternativa, a presentarlo come nulla fosse agli amici, in pubblico. 4. Questa scoperta, relativamente semplice, della pluralità delle istanze coabitanti in uno stesso condominio comune a tutta la vita psichica di ogni singolo uomo, è stata senza dubbio foriera della maggiore trasformazione della mentalità in epoca anche per noi contemporanea. Anche se e difficile tracciare le linee per cui essa si è diffusa, è chiaro che questo mutamento di

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consapevolezza ha per esempio inciso in profondità nella concezione del diritto, avviandolo più decisamente sulla via civilistica (in opposizione a penalistica) della sua interpretazione. Non è detto che questa via, per la qua­ le si valorizza il momento di certezza più che quello di costrizione dell’or­ dinamento giuridico, sia tutta liscia e carente d’insidie, vogliamo solo sot­ tolineare che essa appare predeterminata come una sfida a cui, se è il caso, occorre reagire positivamente, senza regredire alle risorse superstiziose e magiche del penalismo. Della concezione precedente, lunga e penosa da superare, ci si occupa da oltre un secolo e mezzo offrendone spiegazioni più o meno ampie e pertinenti, da Michelet a Brémond fino a Aldous Huxley, a proposito del periodo culminante (1600-1650) della persecuzione e caccia delle streghe e dei fautori, come fu detto, della Vecchia religione. Esempla­ re fu il caso di una celebre vittima, il parroco Urbain Grandier, arso vivo sul rogo a causa di una (per noi) inconsistente accusa di commercio col demo­ nio. I particolari della vicenda si possono leggere in I diavoli di Loudun, di Huxley, da cui è stato tratto un film sedicente sensazionale. Il periodo considerato cade ancora nell’ambito della filosofia dell’anima dominata dalla tarda scolastica; ma dispiace dover annoverare come coa­ diutore, seppure inconscio, dei presupposti a tal proposito rilevanti anche un pensatore moderno come René Descartes. Per noi è interessante sotto­ lineare che la psicologia razionale dell’epoca, condivisa in ciò anche dai car­ tesiani, è dominata incontrastatamente dal dogma dell’unità dell’anima, ciò che ne garantisce l’immortalità ma anche, per converso, ne assicura la puni­ bilità dei peccati. Occorre soffermarsi un momento su questo punto, in modo da aver ben chiaro che cosa significhi negarlo. L’unità dell’anima (si badi bene, non dello spirito o dell’intelletto, in quanto istanze possibilmente impersonali) comporta la sua atomicità o individualità indivisibile. Da ciò, e più precisamente dalla sua trascendentalità, o mancanza di contrasto pos­ sibile con concezioni alternative, se ne inferisce l’immortalità: è impossibi­ le infatti pensare che possa aver fine ciò che non ha parti, e in questo senso è unico, e per sempre (curioso che l’immortalità venga sempre immaginata come estesa in un solo senso, nel post mortemi che cosa facesse l’anima pri­ ma di nascere, di questo non c’è memoria, né ci vien data notizia alcuna). Tale concezione è dunque dominante perché incontrastata; se ne può solo avere un’attenuazione nel caso in cui l’intensità del vissuto corrispondente sia indebolita dall’abito comunemente, anche allora, non filosofico ed extravertito. In questa persuasione, giova osservare, si trovano consenzienti sia la filosofia, scolastica o cartesiana, sia la religione, cattolica o protestante,

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con la sola lodevole eccezione di una parte dei gesuiti. Ne deriva perciò che in tutti gli atteggiamenti di carattere schizoide, dai quali gli uomini sono afflitti specialmente nei periodi di conflitto religioso e ideologico, il pre­ supposto rigido dell’allineamento unitario della vita psichica alle esigenze categoriche dello spirito non può che aggravare e render più aspra la ten­ denza alla dissociazione e a esprimerla patologicamente. Così per induzio­ ne psichica e contrario la proibizione assoluta di un atto di cui non si com­ prenda altrimenti la peccaminosità, genera ben volentieri una copiosa proliferazione di comportamenti sempre meno contenibili; finché, risulta­ tane impossibile la soppressione, la vitalità della psiche perversamente si apre una via d’espressione attraverso le parvenze di una personalità diabo­ lica disponibile alla bisogna. La cultura dell’epoca, intollerante nei confronti di una qualsiasi oscillazione dell’identità personale, ignara per di più del suo fragile e intermittente stato di equilibrio tra pulsioni diverse che d’ogni lato ne minacciano l’integrità, non aveva altra alternativa da offrire che l’incal­ zante ingombro d’una personalità tanto aliena, da risultare diabolica. E così la schizofrenia, rincarata dalle asprezze dell’apparato giudiziario, veniva man mano aggravandosi in durevole stato psicotico di sdoppiamento della personalità, a tratti alternati. L’orrore della scena non è mitigato dal fatto che, dopo tutto, noi siamo convinti che l’io personale, identico a se stesso e perfettamente acclimatato alla sua cultura, non ha consistenza maggiore di Asmoneo, di Balaam, di Leviathan e altri diavoli ai quali veniva assimilato. Perché il fatto che i diavoli, Asmoneo, Balaam, Leviathan e gli altri, con­ fessassero in prima persona d’essere autori dei peccati per i quali venivano condannati, costringeva le loro vittime, non potendo altrimenti cacciarli, a invocare la morte per far cessare, comunque, le torture. Agli inizi del XVili secolo, quando un abito più civile e scettico fece recedere i processi alle stre­ ghe e le torture, cessarono a poco a poco anche le apparizioni diaboliche e i peccati del caso. L’esistenza o meno del diavolo come persona (e cioè non come concet­ to, ma come Asmoneo, Balaam, Leviathan ecc. intesi come individui) dipen­ de dunque in primo luogo da una convenzione culturale che ne renda pos­ sibile lo spazio semantico, e quindi, in secondo luogo, da un opportuno riempimento di tale potenzialità semantica, così da renderla agibile. In tal modo, che se Isacaaron è il demone della lussuria presso un uomo, gli atti sessuali compiuti da quell’uomo, dato il personaggio e i modi dell’azione incriminata, non possono altrimenti spiegarsi che come prodotto di pos­ sessione diabolica. Dalla tortura apprendiamo, magari mentre andiamo in

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macchina, che l’istigatore ne è stato Isacaaron. Come si vede, la prima e fon­ damentale condizione è l’istituzione, al di fuori di ogni res gesta, di un pro­ mettente spazio semantico potenziale. Ora, si noterà che, togliendo il dia­ volo, la situazione per l’uomo resta la stessa. Anche l’esistenza o meno dell’uomo come persona... (riempire gli spazi vuoti come meglio aggrada), dipende da ultimo da tali due condizioni, cioè da uno spazio semantico e da un suo agibile riempimento. Nella vita normale il riempimento dello spa­ zio agibile dalla mia persona (dove quel che vale per me deve esser consi­ derato tale da qualsiasi altro) è assicurato dicono, dal codice civile e dello stesso avviso era Napoleone. Per parte mia, conto di più sull’amicizia e, dove questa non possa soccorrere, sull’indifferenza o non malevolenza del prossimo nei miei riguardi. Questo per dire che dalla nozione dell’ego, a parte l’ovvia funzione di autoriferimento, non mi aspetto gran che. Pure ci son state fior di filosofie, che su concetti di io trascendentale, di io che mi oppongo al non-io, o di io che sono o non sono quell’altro, hanno costruito non trascurabili fortune. Anche l’io dilatato a persona, come consapevole soggetto sociale che ha un censo, appartiene a un ceto, indossa un ruolo che si fonda sulle aspettative degli altri, e svolge una parte lodevole, anche se non proprio leggendaria, negli eventi della storia; confesso che tutto ciò mi lascia abbastanza tiepido, appena fuori freddo o lukewarm, perché non è qui che entra in gioco il senso della soggettività. Abbiamo cercato di chiarire la nozione di soggetto, mostrando che in relazione all’agire esso mostra una parte che esce fuori dal fuoco della coscienza, c rimanda all’inconscio. Non intendiamo qui parlare dell’incon­ scio, ma del fatto che il modo di intendere la coscienza, non potendosi par­ lare di definizione, deve quanto meno esser riformulato in maniera tale da non contraddirsi quando per esempio diciamo di esser consapevoli, e cioè consci, che la reale motivazione di molti atti, anche da noi stessi compiuti, ci rimane inconscia. Questa frase che, dopo quanto abbiam detto, contiene una verità indubitabile, deve risultare anche nelle parole formalmente inop­ pugnabile. Si possono escogitare vari espedienti verbali per rendere il discorso privo di contraddizioni alla lettera, ma la cosa più efficace è attin­ gere dall’uso corrente, si capisce quello colto e non triviale, il modo di far­ le funzionare senza eccessivi crampi mentali. Il soggetto come viroxeipevov può essere inteso come conscio o indifferentemente come inconscio senza contraddizioni. La coscienza, invece, non può impunemente specificarsi in conscia e inconscia senza aggiungere altro. Il termine coscienza è ambiguo, perché noi lo usiamo indifferentemente per quanto ci risulta dall’introspe-

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zione, come da ciò che veniamo a sapere, e quindi ne siamo consci, attra­ verso la testimonianza di altri. Per esempio io so che c’è la Papuasia, ma per sentito dire; non è come il mal di denti, che sai che c’è stato perché te ne mancano parecchi. 5. Dal punto di vista neopositivistico, accettandone la supina osservanza, bisognerebbe usare due parole diverse, una da riserbare ai dati introspettivi, e l’altra per le risultanze delle descrizioni altrui. Dal punto di vista dell’ana­ lisi del linguaggio, tuttavia, una strategia più promettente consiste nel cercar di capire, al di là dell’equivocazione, la ragione per cui si è data semanticamente una tale collusione. Anzitutto, avendo ridimensionato la carica espli­ cativa dell io, in quanto concetto teoreticamente troppo povero e semanti­ camente troppo ambiguo (tra «l’io» come sostantivo e «io», come pronome), e avendo retrogradato il soggetto all’antica mansione di essere il supporto o la causa dell’azione, conscia o inconscia, non ci resta che la coscienza per inquadrare tutto il resto. La questione del resto è simmetrica, e proprio in questo senso analoga a quella dell’essere. Può esserci l’essere dell’ente come l’essere del non ente, in corrispondenza con le due, e due sole possibili domande dotate di senso: che cos’è ciò che è? (ti ÈotÌ òv), che cos’è ciò che non è? (li èoii luì òv). A entrambe, come si è visto, la Oernoia deve dare una risposta paritetica, entrando in merito all'essere dell'essere e all'essere del non essere. Non si tratta di cambiar parola, ma solo di distinguere tra un primo e un secondo senso dell’essere; cosa non difficile, dato che abbiamo imparato a distinguerne perfino un terzo. Quanto a coscienza, se vogliamo conside­ rarla un termine, le condizioni d’uso sono perfettamente simmetriche. Anche qui dovremo distinguere una coscienza del secondo ordine di ciò di cui sia­ mo consci direttamente, per esempio per via di percezione interna (o, per intenderci, introspettivamente), e di ciò di cui solo indirettamente siamo con­ sci, per esempio le motivazioni inconsce del nostro agire, di cui ci parlano gli altri e noi, riflettendo, riconosciamo per vere. La coscienza ha infatti il significato primario di consapevolezza, nel senso di quel che sappiamo o dovremmo sapere, date certe condizioni, maniera perfettamente intersoggettiva; la qual cosa non va confusa con la conoscenza, che ne riguarda il momento oggettivo e neutrale, non inter­ soggettivo, e si fonda sull’identità enunciativa. Che la consapevolezza di primo grado sia diversa da quella riflessa, o di secondo grado, non defini­ sce ancora gli estremi di un’equivocazione, anzi consente di conservare alla coscienza un senso unitario: si dovrà forse evitare, in proposito, di parlar-

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ne come di un concetto, se s’intende con ciò la stretta univocità. Coscien­ za di primo grado è per esempio la percezione come percezione interna^ Coscienza di secondo grado è in tal caso Vappercezione, in quanto perce­ zione di percezione, meta-percezione. La percezione detta esterna non è una vera percezione; comunque la corrispondente appercezione è identica all’altra. Alla percezione esterna, che si dice percezione perché le viene assi­ milata, si può equiparare qualsiasi altra informazione non pervenutaci da percezione interna, come l’esistenza della Papuasia, la probabilità dei buchi neri o le congetture sull’adolescenza infelice di Amleto. Ma nel momento in cui accettiamo come nostre simili certezze (che anche se non lo sono, si possono sempre render tali associandovi un coefficiente di improbabilità, o di modalità diversa dal reale), l’appercezione che ne risulta costituisce senza alcun dubbio la coscienza adeguata del suo oggetto. Da un punto di vista logico la dimostrazione riuscirebbe più facile. Nel IV secolo a.C. le battaglie navali erano all’ordine del giorno. Immagino di trovarmi in quella situazione aleatoria. In effetti io non so se domani ci sarà o non ci sarà una battaglia navale. Come faccio? Posso sempre rassicurarmi col fatto che, anche se non so che cosa succederà, certamente domani ci sarà, o non ci sarà, una battaglia navale. Questa certezza è assoluta e non la cede in nulla alle altre certezze che ho a disposizione. Si tratta ora di tradurre il linguaggio della certezza in quello della coscienza, che ha la stessa struttu­ ra. Procedendo in questo modo ci si può facilmente convincere che dire d’esser consci di qualcosa d’inconscio, a parte l’ossimoro verbale, è una fra­ se dotata di senso. Il significato di coscienza così chiarificato è tratto per generalizzazione dall’appercezione, di cui è l’analogo trascendentale allar­ gato a tutti quei fatti a cui il rendersene conto aggiunge la modificazione intensiva dell’appropriazione, ciò che si dice la presa di coscienza. L’asse di simmetria tra l’essere e la coscienza c il centro di quell’identità che secondo Parmenide deve sussistere se la verità è costituita dalla coinci­ denza del pensiero con la realtà. In effetti abbiamo visto che una siffatta cor­ rispondenza non è soddisfatta né dal lato ontico, né da quello noetico. Ciò che resta del principio parmenideo, c la coscienza che, in qualche modo, tra­ scendentalmente, debba pur darsi una tale adaequatio rei et intellectns. Si è anche visto che Democrito, introducendo la GetDQia, compie un importan­ te passo in avanti, stabilendo che la conoscenza consiste nell’equiparare l’es­ sere al non essere, c riducendo la coscienza a conoscenza puramente intel­ lettuale. Il problema della coincidenza del pensiero con l’essere è anzi già risolto, se poniamo il centro nella circostanza vuota per cui pensiero e realtà

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trovano la loro identità nel non essere. E cioè: la realtà è in quanto non coscienza, e la coscienza è in quanto non reale. Il discorso non troppo chia­ ro circa l’anima, costituita da atomi pulviscolari, più piccoli degli altri e rotondi, scivolosi, mobilissimi, si lascia intendere come caratterizzante la differenza tra le sue immagini, meri fantasmi, e la solidità e consistenza dei corpi. Anche i fantasmi, come le percezioni, le immagini, i sentimenti, han­ no una loro attenuata realtà, non sono un puro nulla: l’essere dell’idea, del­ la rappresentazione, per quanto io lo spieghi come prospettiva, distanza, gioco di apparizioni, effetto fantasmatico, prodotto di inafferrabili neutri­ ni, è pur sempre qualcosa e non il nulla. Ma in ciò si tratta pur sempre di pensiero impuro, che richiede un indebolito essere del pensiero: la perce­ zione, per l’appunto. Se di qui noi portiamo l’astrazione al suo polo tra­ scendentale, dando voce all’inesprimibile, riusciamo tuttavia a cogliere il momento in cui il pensiero, relegando il residuo essere della coscienza a una conoscenza del tutto oggettivata, si rivela come puro pensiero del non esse­ re. Reciprocamente la conoscenza pura si rivela come oggettiva al punto di non contenere più pensiero. Questo gioco di riduzioni, lo ammettiamo, non è molto confortante né illuminante. La ricomposizione delle simmetrie sull’asse portante del non ente (per non dire il niente) suggerisce inevitabilmente la vana tautologia del nichilismo, alla stessa stregua di Sartre quando parla di essere, di negazione e di altro, consapevole della nausea a ciò inerente. Ma noi volevamo solo dimostrare che il problema è in se stesso solubile, magari per la via di un azzeramento. Forse l’esigenza di una spiegazione totale, esaustiva, perfetta, racchiude in sé un vizio nichilistico; ma non sapremmo suggerire come anti­ doto le virtù redentrici dell’irrazionale, consigliando per esempio di non spiegare troppo, di limitare le generalizzazioni e di lasciare qualche proble­ ma da risolvere ai posteri. Questi si daranno poi senz’altro, è perfino desi­ derabile augurarselo, diciamo solo che non è pensabile delimitare senza motivo le nostre generalizzazioni, né adottare di proposito spiegazioni che si confutino da sole. E più importante scavare nei nostri attuali motivi di insoddisfazione, poiché solo nei reperti messi così allo scoperto potremo trovare la via della soluzione desiderata.

6. Come si è determinato questo svuotamento della coscienza, che ha finito col contrarsi nella forma vuota dell’io? È opportuno seguire le vicen­ de dell’identificazione del soggetto psicologico col soggetto grammaticale, poiché tale inespressa equiparazione, svolgendosi nelle fasi alternative del

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predominio ora della psicologia, ora della linguistica, che abbiamo cercato di evidenziare nello sviluppo della mentalità moderna, può spiegarci il sen­ so di questa complessiva riduzione. È chiaro anzitutto che non si può par­ lare di una riduzione del grammaticale allo psicologico, o viceversa, senza ulteriori qualificazioni; perché se considero l’«io» come pronome gramma­ ticale sottostanno a esso tutti i diversi sensi e funzioni per i quali lo si usa, non è detto che la realtà interessata dal gioco di questi mezzi espressivi sia inferiore a quella che verrebbe alla luce trattandone con categorie psicolo­ giche, tanto più che anche quest’ultima apparecchiatura deve esprimersi con 10 stesso medio, solo modificandone la poetica discorsiva; ed è evidente che allo stesso modo non si può neppure parlare di riduzione nel senso inver­ so, dalla linguistica alla psicologia, proprio perché la funzione è diversa e incomparabile, mentre il medio espressivo resta lo stesso. Se si vuole, quin­ di, bisogna parlarne con un linguaggio misto, fuori d’ogni committenza e in questo senso «comico», sperando di conservare il messaggio attraverso le forme cangianti e polimorfe del significato. Parliamo dunque di un io medio, moderatamente introspettivo, gram­ maticalmente corretto e, insomma, piccolo-borghese. Pur essendo ligio alla logica del senso comune, egli gode del privilegio di stabilire, man mano che parla, le leggi di pertinenza a quel che dice. «Che c’entra, questo?», è un frequente intercalare, come pure «no, perché...» ed «ecco!», «bravo!», con­ cernenti sempre la rilevanza. Il fatto d’aver detto, nel passato (magari cin­ que minuti prima), qualcosa di opposto a quanto ora affermato, può non esser contraddittorio, perché io posso essere, ora, un altro soggetto, diver­ so dall’io che ero prima. Le leggi della logica non valgono se cambia il tem­ po, le circostanze, il soggetto del discorso. Quel che è stato detto vien per­ ciò annullato e ripreso da ciò che io adesso sto dicendo. Anche l’io piccolo-borghese, se messo alle strette, può rinnegare se stesso e assumere 11 ruolo del sovrano assolutista e cambiare la legge vigente, se così gli aggra­ da, poiché egli è sopra la legge e ne è anzi la fonte di legittimazione. Tutto ciò diverrebbe esplicito nella formula, tuttora inespressa, implicita in chi parla: «io adesso detto legge, e dico che cosa è vero e che cosa è falso, pre­ scindendo sia dalla logica sia dai dati di fatto»: e posso far ciò, dal momen­ to in cui mi vien concessa la parola c fin tanto che mi è dato farlo. Que­ st’essere così autistico, sprezzante e prepotente quando non rischia nulla, se non la perdita di un’udienza che d’altra parte non ha mai avuta, nel quo­ tidiano odierno, pare il relitto, il residuo indigesto o la reminiscenza di un’altra epoca, quando invece avere anche solo l’aria di poter dire qualco-

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sa del genere comportava un forte rischio. Il personaggio comico di oggi appare tale per il fatto che indossa abiti tagliati nel panno giusnaturalisti­ co di Grozio, di cui questi non ha saputo prevedere l’effetto su un referente antiassolutistico qual è l’attuale democrazia. Una sovranità estesa a tutti, purché sappiano respirare, è opportuno che resti anonima, a scanso del ridicolo. Che cosa però significasse il privilegio assolutistico, è dimostra­ to dall’interpretazione, che anche Grozio condivide, del noto principio per cui suum cinque tribuatur. La giustizia coincide col dare a ciascuno quel che gli spetta, va bene; ma non contraddice a questo principio che il sovra­ no privilegi qualcuno, ivi incluso se stesso, dandogli senza merito più di quel che gli spetta. Nell’epoca dell’assolutismo i sudditi andavano in pace se non veniva loro sottratto quanto era dovuto, ora che sono cittadini alla pari non devono far finta di legiferare in vacuo, su ciò che non esiste più se non come illegittimo. Pur nella sua astratta formalità, l’io ha un certo carattere, che eredita dal­ la sua passata schiavitù e che è brutto come la sua storia: è assolutista, monarchico, giusnaturalista. Pur non essendo una categoria, è un essere pie­ no di sé che pretende di aver sempre ragione. È difficile sopprimere questo io, che mette sempre in discussione tutto, fuorché se stesso. Questo essere esiste solo come io, non come sé o altro. Non si riesce a stabilire se l’enfasi cada sulla peculiarità grammaticale di poter stare sempre al centro autore­ ferenziale, oppure sulla volontà psicologica di emergere a qualunque costo, anche fittiziamente. Il soggetto grammaticale, come abbiamo detto, è mol­ to complesso se si tiene conto del riferimento pronominale. Parlare in pri­ ma persona non è lo stesso che parlare di sé. In prima persona si esprime anche il dettame della coscienza, che è un’istanza diversa da quella strettamente personale e formale. Rispunta qui il problema del «sé» che parla e agisce, e possiamo concedere che citare se stessi indichi l’autoriferimento; e che l’autoriferimento, a sua volta, quando assume il carattere del volere aver ragione, si denomini anaforicamente «io». Si dà il caso in cui concediamo all’io il potere della verità su quanto dice, senza discussione, se ciò va d’ac­ cordo con quel che dicono gli altri, ma questo accade quando la persona a cui appartiene l’io è accusata o è un testimone. Tale è la situazione dell’e­ scussione dei testi in tribunale. È ovvio che in questo caso la libertà di espressione in prima persona va sempre concessa, non foss’altro che per aggravare l’eventuale condanna. Insomma, nel parlare dell’io non si esce dal­ le aule del tribunale. Fuori delle filosofie dell’idealismo tedesco, l’io è un tema del discorso giuridico.

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Nel rapporto tra io e coscienza, la coscienza è il termine dominante, di cui l’io è specificazione particolare. La coscienza deve prima di tutto inten­ dersi-come un insieme di tutti gli io. Questi io si possono comprendere nel senso dell’intersoggettività oppure in quello della intrasoggettività. Nel pri­ mo caso, quello deli’intersoggettività, gli altri io sono compresenti al mio io per introiezione nella coscienza che dico mia per intenderci, ma che nel­ l’intenzione è quella di tutti, unica e potenzialmente universale. Parlando invece di intrasoggettività, intendo invece comprendere con uno schema simile a quello intersoggettivo il fenomeno dell’emergenza di una società di io, apparentati ma successivi, quindi diversi, in una coscienza letteralmente identica. Il quadro presentato ha forse l’aria di esser più complicato di quan­ to intende spiegare, ma trattando di questi problemi è inevitabile intratte­ nere senza sgomento un certo spessore di pertinente complessità. Nel Sosia di Dostoevskij l’io del protagonista del racconto, in seguito a un incidente, si sdoppia in maniera irreversibile; ma la coscienza di Goljadkin non si lascia ingannare e risente delle colpe che vengono date al sosia, come un altro se stesso. Dostoevskij ha avuto in sorte d’esser stato il più convincente poeta di questa materia oscura. L’episodio maggiormente significativo, perché al di_qua di ogni patologia, è presentato neW Idiota allorché il principe Myskin, che per timidezza parla gesticolando esagitatamente, e si ripete tra sé, cer­ cando di controllarsi, «devo smetterla, o finirò col rompere questo vaso!», conclude infine i suoi sforzi con uno spasmo che fa cadere il vaso. La cita­ zione letteraria è qui d’obbligo non tanto per la sua esemplarità, ma per il fatto che siffatte circostanze della vita quotidiana, anche se possono capita­ re a tutti, non sono di comune dominio. Abbiamo con ciò indicato una del­ le funzioni insostituibili del romanzo moderno, inteso come Rilditngsroman: il romanzo che educa e forma, in quanto sa esprimere l’accidentale come momento di un riferimento universale. Come è spiegabile, prescindendo dalla patologia, ciò a cui abbiamo allu­ so? È evidente che nella complessità del soggetto non c’è solo l’io, l’io che interviene in prima persona, nel romanzo, è solo quel fantoccio che parla e sproloquia girando intorno al problema e tirandolo in lungo, sempre inva­ no. Per Dostoevskij l’«io parlo» non è soltanto un’istanza autoconfermantc, ma anche il suo contrario. Se io sono autocontrollato, ciò che domino sono anzitutto gli atti di parola; ma allora sono insincero, non dico tutto quel che mi sta a cuore. Se invece sono spontaneo, accettando di correre i rischi dell’incontinenza, finisco col dire tutto e il contrario di tutto; e chi mi ascolti non raccoglie alcun chiarimento. Da queste modeste osservazioni

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spunta già fuori il vero problema del soggetto, che non è quello di identifi­ care colui che parla, o si muove, o si agita da isterico o rumina ossessiva­ mente, non è cioè l’emergenza di un chi riconoscibile ma del che cosa si muova nel profondo indirettamente, forse impersonalmente, facendo appa­ rire come altro l’aspetto demonico della nostra stessa coscienza. Il sogget­ to infatti potrebbe essere diverso dall’io; in questo abbiamo riconosciuto non esserci contraddizione: non mi sento responsabile del fatto di aver sete, o di continuare volentieri a respirare. Per ciò è stato creato il comodo con­ cetto di anima vegetativa, la cui portata arriva esattamente dove giungono il sangue, la linfa o gli ormoni. L’io respinge da sé ogni traccia di illegalità; e qualche volta ha perfino ragione, quando cioè si dà il caso che giuridica­ mente non gli possa addebitare nulla. È la coscienza che, avvalendosi di ciò che sanno gli altri, e di cui anch’io mi rendo conto in certi momenti, mi per­ mette di penetrare più profondamente nell’anima, al di là delle compro­ missioni che essa, abbastanza innocentemente, trattiene in sé della biosfera vegetativa e animale. Non tutto ciò che è propriamente psichico è per ciò stesso positivo, ed è la coscienza a rivelarcelo. È questo il contributo più importante dato alla conoscenza di noi stessi dai romanzieri e filosofi della coscienza del profondo, Dostoevskij, Nietzsche e, non per ultimo, Freud. 7. Nessun argomento è più imbarazzante per il filosofo che il dover par­ lare di coscienza. Da un lato egli si rende conto che non gli è consentito far­ lo ingenuamente; dall’altro l’origine agostiniana e la destinazione kath’holica del concetto è troppo carica di storia e di implicazioni per trattarne con semplicità. In ogni modo, si può sempre tentare di darne un’illustrazione inventariale, come di istruzioni per l’uso in caso di bisogno. Dal punto di vista dell’armamentario filosofico, coscienza è un termine ricco di significa­ ti anche molto distanti tra loro, come consapevolezza, coscienziosità e financo sicurezza. Parlare di coscienza anziché, per esempio di intelletto, è prima di tutto molto comodo se quanto si vuol dire non ha bisogno di distinguere la maniera in cui si è coscienti, attribuendola ai sensi, al senti­ mento, al giudizio. La percezione sensibile è già un modo di esser coscien­ ti, «questo panno morbido, verde, sul tavolo, ben steso» raccoglie per un attimo il mio interesse, diventa la mia autocoscienza sensibile. Oppure «questo panno non mi piace, è verde bandiera, al tatto sembra sfilacciato» risponde, anche inespresso, a un sentimento o una prevenzione che allo stesso modo è coscienza. O infine, il giudizio puramente intellettuale, «que­ sta cosa qui è un panno, con queste e quest’altre caratteristiche», dà voce a

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una coscienza distaccata, centrata sulla cosa, ma non di genere diverso dal­ le altre occorrenze. Il concetto di coscienza concerne solo la certezza del _suo oggetto, anche il grigio lattiginoso fluttuante intorno a me mi dà la sicu­ rezza di vedere la nebbia anziché le cose al di là di essa, e questo fatto spe­ cifico, ammesso che io non guidi una macchina, mi rende superfluo inte­ ressarmi del riferimento simbolico a oggetti oltrepassanti il quadro che mi si presenta, siano essi reali o fantastici, intellettuali o sensibili, scrupoli morali o emozioni sgradevoli. La speciale neutralità che la coscienza così intesa osserva nei confronti dei suoi contenuti, che si è radicalizzata in prin­ cipio d'immanenza, ha contrassegnato il tema filosofico della ripresa del concetto in epoca a noi contemporanea, con Brentano, Husserl e Heideg­ ger. Non è difficile scorgere negli estremi di tale riproposizione la radice fondamentalmente agostiniana di questo principio filosofico, per il fatto che Agostino ha fondato l’oggettività del sapere sulla coscienza e non sulla conoscenza dell’esistente. In primo luogo dunque la coscienza si oppone al suo falso sinonimo, la conoscenza, soprattutto inteso sotto forma di teoria empiristica, che ha il suo fondamento nell’esistenza sensibile. La riproposi­ zione della coscienza ha dunque un senso antiintellettualistico, poiché la forma analitica è riempita dal senso della consapevolezza e non ha il carat­ tere dell’astrazione del concreto, ma ne codetermina il significato. E distin­ guendo il significalo dal riferimento, è chiaro in che senso la coscienza Sia indifferente all’esistenza, ossia libera da presupposti ontici. Una seconda accezione del termine è quella contenuta nell’espressione «esser coscienti», nel senso di coscienziosi o scrupolosi. In tedesco ciò si esprime mediante una parola diversa che contrappone a Bewufltsein, la coscienza come consapevolezza, il Gewissen, la coscienza morale. L’uso di Gewissen è un po’ obliquo rispetto alla centralità del Bewufltsein, ma tut­ tavia ha il senso attivo dell’attualità e della presenza. Aver coscienza signi­ fica anche rendersi conto. Quindi «sii cosciente di quel che fai» significa anche un momento diretto sulle conseguenze dell’azione, accentuandone la mediata responsabilità. Questo secondo aspetto della coscienza, la Gewissenhaftigkeit o coscienziosità, lo tradurrei con «rendersi conto di ciò che sta in mezzo tra la coscienza e il suo termine estremo»: in altre parole, il Gewissen è l’aver coscienza del medio, piuttosto che dell’oggetto. Perché questa complicazione del medio nel rapporto al significato? Come si e osservato, la coscienza c in primo luogo percezione, quindi sentimento (e/o volontà) e infine giudizio. Questa classificazione è tratta da Brentàno. Percezione, sentimento e giudizio non sono distinti in base

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all’oggetto, che come rappresentazione può anzi essere il medesimo. La dif­ ferenza sta nel medio, cioè nel diverso rapportarsi dell’orzo di coscienza a ciò che le si presenta. Nella percezione qualcosa vien semplicemente pre­ sentato, nel sentimento quanto è presentato vien considerato degno d’esser intrattenuto o respinto, nel giudizio questo stesso rapporto è riconosciuto come vero o falso, indipendentemente dall’emozione. Non occorre dire che la percezione diventa giudizio percettivo, se si passa all’appercezione. La coscienza è dunque sempre coscienza di qualcosa, ed è questo «aver qualcosa come oggetto» che per Franz Brentano la caratterizza come coscienza intenzionale. La coscienza non è detto che sia sempre intenzionale, o sia tale per natura; ma, se interpreto bene Brentano, vorrei dire che lo diventa quan­ do intende il qualcosa, su cui è diretta, come un oggetto. Il problema del medie) e proprio della coscienza in quanto intenzionale: essa è tale perché diretta a qualcosa, che però si dà a riconoscere solo come oggetto. Vorrei dire che l’essere intenzionale della coscienza è sempre sdoppiato in una sor­ ta di doppio legame, che per un verso è il qualcosa dell’atto intenzionante, per l’altro è identificato con l’oggetto inteso. Il termine a cui è diretta la coscienza è quindi solo in apparenza identico all’oggetto; lo sarebbe solo nel caso in cui il qualcosa collassasse nell’oggetto intenzionato senza resi­ dui, il che non è mai il caso. Si forma in tal modo, anche al di là dei propo­ siti coscienti di Brentano, il rimando a un oggetto oscuro dell’intenzione, tale che se fosse possibile parlarne sarebbe il qualcosa di cui si diventa infi­ ne consapevoli. Il massimo a cui possiamo aspirare è di afferrare come oggetto una modificazione di questo qualcosa, coscienti di coglierlo in ver­ sione alterata, in modo obliquo (quest’ultima notazione è in latino, e in Brentano fa riferimento alla dottrina dei casus della declinazione, che spie­ ga lo sdoppiamento di semantica). In altre parole, non è detto che l’oggetto di coscienza sia una cosa-, tutt’al più è cosa il qualcosa della percezione inteso come oggetto di percezione esterna; ma è coscienza, in tal caso, che identifica in una cosa l’obiettivazione così avvenuta. La percezione è inevitabilmente esterna, quando non dio presente l’oggetto che sotto forma di rammemorazione, c allora il qual­ cosa si riduce a traccia mnemonica, e perciò gli assegno un nome per ricor­ darmene durevolmente. Anche 1 nomi possono esser dimenticati, s’intende, ma il fatto che essi facciano parte del mio attuale sistema semiotico modifi­ ca in tal senso la loro funzione di rappresentanza, trasformandola da ram­ memorativi in ritenzionale. La ritenzione corrisponde alla memoria attua­ lizzante, per cui ciò che è passato agisce ancora in tutto o in parte nel

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presente, mentre la rammemorazione ricostruisce simbolicamente sulla sua traccia l’evento ormai del tutto passato. Il sussidio che l’uso dei nomi for­ nisce alla memoria non si saprebbe come sottovalutare, tanto è essenziale. Bisogna qui considerare che nel denominare interviene tutta l’organizza­ zione linguistica dei segni presentificanti, non solo questo o quel lessema preso autonomamente, e perciò la portata rappresentativa della mente cre­ sce in proporzione, finendo col coincidere con la capacità linguistica attua­ le, di parola e di lingua, del soggetto. Dal punto di vista semiotico, il nome sta per l’oggetto. Ricordarsi del nome è molto più facile che ritenere mne­ monicamente l’oggetto, perché il nome fa parte della capacità attuale di compiere atti di parola. Perciò il sistema linguistico rende attualmente men­ zionale quanto altrimenti apparterrebbe solo all’archeologica delle media­ zioni rammemorative. Questo inestimabile vantaggio fornito dal sistema simbolico ha tuttavia un prezzo che non può esser sottaciuto, e che è compito della fenomenolo­ gia palesare ricorrendo a una più profonda presa di coscienza. Si tratta di questo. Il nome sta per altro, snpponit prò aliqtto. Esso rimanda simbolicamente al suo denominato, esso sta per quello. Nelle espressioni composte il rimando m parte trattiene il significato nel simbolo significante:, il significato totale del simbolo è dunque essenzialmente il rimando al riferimento, più la ritenzione del significante incorporata nell’uso.dTmmagmando di disporre le parole secondo un sistema definitorio lessicale, come nei voca­ bolari tipo Oxford English Dictionary ma con maggior rigore teoretico, i lessemi si ridurrebbero a pochi; a un numero limitato dalla circostanza che, per loro mezzo, si possano effettivamente definire tutte le altre parole. Ora sorge la domanda: in tal caso, i lessemi residui avrebbero come significato il solo rimando, senza ritenzione significante; o no? La risposta dei semiologi dovrebbe essere affermativa, si capisce; ma quella dei fenomenologi è decisamente no. E deve esser così perché nell’uso del segno è parte del signi­ ficante la sua appartenenza al sistema di segni, cioè la sua connotazione sin­ tattica. Per la fenomenologia non e il latto che il segno stia per il designato (la cosa, il riferimento) a fondare la relazione simbolica, ma l’atto con cui la coscienza coordina un segno a una certa cosa, identificata come oggetto esterno. Quindi il segno e sempre il significato più il significante. Se il signi­ ficato e il rimando alla cosa, il significante è la legge di coordinazione di cui è suscettibile sintatticamente. Ma la relazione simbolica è solo una tra le tan­ te possibili nell’ambito delle categorie semantiche, le Bedeittungskategorien o modi significando L’obiezione fenomenologica diventa più sostanziosa se

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1 si riflette sul fatto che il quadro simbolico del mondo, quale per esempio ci I



è offerto dalLobiettivazione scientifica in tutte le sue specificazioni, appare appiattito nell’unica dimensione della semantica denotativa. Quali sono dunque le altre categorie semantiche?

8. Nella filosofia fenomenologica le tesi concernenti il linguaggio non sono trattate esplicitamente, ma compaiono parallelamente all’analisi della coscienza, che costituisce complessivamente una psicologia dell’atto. La presa di posizione antipsicologistica, per cui Husserl divenne celebre, non deve intendersi nel senso di un disinteresse per le questioni psicologiche o psicolinguistiche, com’è invece il caso di Frege. Tutt’altro: per la fenome­ nologia anche la psicologia deve essere compresa in senso coscienziale, quindi non naturalistico e addirittura antipsicologistico. Ma non vogliamo complicare il problema. Nella percezione detta esterna l’oggetto primario è quello esterno, cioè quello con cui^i è in relazione simbolica e che può esser determinato. Il nome sta per qualcosa d’altro che si tratta di specificare, ma questa specificazione non arriverà mai mediante il rimando all’esterno, poi­ ché essa proviene dal sistema linguistico di cui fa parte, sintatticamente, la parola che lo richiama e che da ultimo rispecchia la percezione interna. Questo in sintesi. In realtà l’intreccio dei rimandi è alquanto più complica­ to. Il faggio che cresce spontaneo nei boschi umidi di collina e mezza mon­ tagna si chiama scientificamente fagus silvatica, ma nel dargli questo nome non è più l’ingenuo albero di prima, in quanto l’oggettivazione lo fa stare per qualcosa d’altro, che è inquadrato nelle categorie della botanica, dell’e­ cologia, della geologia ecc. In questo caso il richiamo alla percezione interna, se mai c’è, è disperso nella frantumazione delle tante oggettivazioni, cia­ scuna facente capo a un’alterità specificata, il cui senso ultimo apparterrebbe alla totalità del sapere scientifico nel modo in cui ne realizzo in sintesi la coscienza. Ma in nessun caso l’obiettività esterna può interrompere il flus­ so del richiamo retroattivo alla percezione interna; solo, può disperderlo e renderne irriconoscibile la funzione coscienziale. La critica degli effetti antirésipiscenziali della percezione esterna è per­ ciò il primo passo della fenomenologia. Dal punto di vista filosofico la tesi con cui si esprimerebbe tale convinzione (anche se non è stata mai così for­ mulata da Brentano, né da Husserl o Meinong) è quella dell’autocontradittorietà del mondo esterno. Detta così, senza mezzi termini, la tesi appare paradossale, ma l’analisi mostra che è tale solo in apparenza. Nelle obiettivazioni scientifiche i tanti e diversi riferimenti fanno perder di vista quella

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sintesi che lo stile filosofico non deve mai abbandonare, anche a costo di sfociare nel paradosso. Se noi partendo dal sistema linguistico dato nelle varie scienze, le quali a vario titolo trattano del mondo obiettivo, inteso come esterno, cerchiamo di sapere per che cosa stia quanto è simbolizzato dai diversi termini, presi in senso proprio, il risultato è quel che direi un «far finta di intendersi»: sia che si proceda dal genere al più specifico, perché da ultimo abbiamo solo delle idee individuali, che saranno certo di nostra com­ petenza, ma che non sono comparabili se non genericamente con quelle degli altri componenti; sia che si proceda verso le maggiori generalità, che, anche se non raggiungono lo stacco filosofico, non sono meno varie in sede epistemologica che i pareri personali. Pur osservando la massima scrupolo­ sità nelle decodificazioni, cercando di ricostruire il quadro totale del mon­ do attraverso le diverse specie di denotati esterni, la somma non è mai costantemente uguale, e questo porta a concludere che un mondo cosi con­ cepito è in se stesso contraddittorio. Il mosaico non rivela la figura del mon­ do esterno perché ogni tessera è come minimo sovradeterminata, non s’in­ castra cioè nel punto giusto: ogni ambito del sapere ha infatti i suoi stilemi d’obiettivazione categoriale, le sue implicite regole d’uso sintattiche_e semantiche che portano insensibilmente a configurare totalità concluse come tipo, pur essendo come somma inconcludenti. Passando attraverso // tutte le simbolizzazioni senza perdere la sinderesi, si ottiene al massimo un lessico ragionato, la competenza nell’impiego della lingua scientifica, la for­ bitezza impeccabile dell’eloquio, ma non la minima idea di un mondo ester- Vno: poiché un simile oggetto non si dà per costruzione, bensì solo pregiu­ dizievolmente, per rimorso della percezione interna tradita. La percezione interna, per Brentano, è quella in cui abbiamo qualcosa come oggetto immanente. Il suo carattere è di esser sempre evidente: infat­ ti si dà evidenza (sia pure assertoria, non apodittica) quando il qualcosa si sovrappone inevitabilmente all’oggetto immanente, come succede nella per­ cezione interna. In seguito Brentano ha chiarito questo pensiero ricorren­ do a una formulazione più espressamente linguistica. Noi distinguiamo semantica e sintassi come dimensioni della semiotica. Brentano parla sempre di termini all’uso medievale. Questi sono da lui distinti in autoseman­ tici, cioè dotati di significato autonomo, in senso lessematico; e in sinsemanlici, cioè dotali di significato solo in connessione con altri lessemi. Quest’uso di «sinsemantico» è più chiaro, soprattutto più utile del sintatti­ co odierno, poiché evita la dieresi col semantico; invece la proposta di «auto­ semantico» nell’altro caso deve considerarsi infelice e le preferiamo la dizio-

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ne di lessema, dovunque necessario. Dunque la percezione interna, con que­ sta precisazione, diventa quella in cui abbiamo qualcosa non come oggetto immanente (espressione che non vuol dire nulla), ma come oggetto che si esprime o meglio si esprimerebbe, se fosse possibile, in maniera totalmente sinsemantica. Questo modo di dire non è più, come l’altro, tautologico. Se l’aver qualcosa come oggetto esterno è il rimando inconcludente della per­ cezione esterna, l’aver qualcosa come nesso sinsemantico è il termine della percezione interna. Detto meno bene, la percezione interna contiene il richiamo (lo Hinweis, non VAusweis del rimando, dirà Husserl) a cid che nella coscienza corrisponde a quanto riusciamo a esprimere mediante la for­ ma sinsemantica, o sintattica in senso lato. Il passaggio dalla percezione interna alla coscienza intesa sia come Bewufltsein sia come Gewissen richie­ de l’ulteriore analisi, oltre la rappresentazione, dell’emotività e del giudizio, cosa che anche a volerne trattare in breve non sarebbe qui opportuna. La conclusione che si dà infine è pur sempre che la coscienza è l’omologo supe­ riore, in senso noetico, della più materiale e concreta percezione interna. È caratteristico di Brentano e più in generale della fenomenologia che la realtà del mondo esterno, nonostante la sua (parziale) contraddittorietà, resti una nozione pur sempre in vigore. La coscienza funge da rettifica dell’oggettività esteriorizzata del senso comune e del suo omologo scientifico, col risultato che l’obiettività ottenuta per mezzo dell’analisi fenomenologi­ ca del linguaggio viene a occupare una posizione intermedia tra le esigenze assolute della coscienza e il riferimento a una realtà alienata nelle cose. Il richiamo alla coscienza è contenuto come modificazione, nel passaggio dal­ la semantica autonoma dei lessemi alla sempre maggiore consapevolzza del­ la sinsemantica delle loro dipendenze gerarchizzate e coimplicate dall’atti­ vità della coscienza. Questo intervento attivo della consapevolezza e della coscienza etica, dell’intelletto e insieme del sentimento e della volontà, che è contenuto nella tendenza stessa alla concentrazione sinsemantica del signi­ ficato, non è tuttavia un valore positivo e unilaterale, ma a sua volta un even­ to che rispetto al mondo esterno si configura come un vortice rivolto all’indietro, un risucchio nell’alterità di un black hole. Nella concezione passata la coscienza non faceva nulla: ciò era essenziale affinché rispecchiasse fedel­ mente, con scrupolo neutrale. Ora la coscienza deve riconoscersi attiva, mirante, fungente. E nello stesso tempo ci si chiede, ed è una domanda legit­ tima per la percezione interna: da che viene agita, a che deve mirare, o come ciò avviene?

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9. Il mondo al di là del buco, oltre il flusso invertente, il viaggio nell’antiesteriorità può ben essere la scoperta dell’universo demonico. Invano han­ no cercato di rassicurarci con l’idea che l’al di là sia tutto azzerato dalla pre­ senza nullificante di Dio. Il dio di Agostino è uno e assoluto come quello di Piotino, ma le due identità non sono collimanti. E dove due identità for­ mano una differenza, ivi è la virtualità del conflitto, del male. Non c il male assoluto, s’intende, ma quello derivato, che sorge per eliminare una differenza. Il mondo interiore conosce l’identità, se è vero che l’oggettività gli appartiene; ma ancor più sa del suo contrario, la differenza. Esso è anzi for­ mato da differenze: per questo è il regno dello spavento, il luogo dei fanta­ smi, il ricettacolo di quanto si afferma e quindi la metamorfosi lo muta nel suo opposto, modificandolo nel contrario. È per paura di esso che ci siamo rivolti al mondo esterno, ancorando l’identità all’esistenza, al solido e cor­ poso. Nella prospettiva inversa lo stesso significato può includere anche la sua modificazione nel contrario e questa stessa idea ci dà una vertigine di terrore. Dio e demonio vengono a coincidere, come non di rado nelle Scrit­ ture, e sarebbe blasfemo, perché manicheo, supporre il contrario. E anche senza scomodare il buon diavolo, il dio di Dostoevskij sarebbe nemico di quello di Goethe, o di Milton. In Delitto e castigo Raskolnikov c uno spregevole piccolo borghese, uno studente che si mantiene a stento, povero tanto da dovere abbandonare l’u­ niversità. Vorrebbe render felice la madre, che vive in provincia e si priva di tutto pur di farlo studiare; si preoccupa della sorella che, impiegata come istitutrice, è insidiata dal padrone presso cui lavora. A un certo punto Raskolnikov, messo alle strette, nella sua coscienza inquieta ma lucida, instabile ma risoluta, concepisce con freddezza una soluzione catastrofica: il delitto. Qui Dostoevskij è abbastanza perfido da lasciarci intendere che il delitto si dice tale per la tradizione cristiana e l’ordinamento vigente, ma non è più così se, impunito, si misura coi valori di uno spregiudicato razionali­ smo occidentale. In breve, Raskolnikov uccide a scopo dì rapina una vec­ chia usuraia, cattiva, sorda e asociale, la cui perdita non è rimpianta da nes­ suno; le circostanze lo aiutano a compiere il delitto perfetto: le spacca la testa con l’accetta, ruba quel che gli serve e tutto si svolge come se fosse riu­ scito a farla franca. Secondo Dostoevskij noi, se fossimo coerenti, dovrem­ mo applaudirlo; essendo occidentali crediamo alla razionalità come azione diretta allo scopo. Ma un oscuro istinto spinge Raskolnikov alla confessio­ ne del delitto, ed egli si redime perche riscopre nel suo profondo la verità imperitura, non solo tradizionale e popolare, della religione che aveva rin-

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negato. Dostoevskij descrive la resipiscenza finale di Raskolnikov come abreazione a un atto che egli ha compiuto sotto l’influsso plagiario e osses­ sivo della mentalità pragmatistica moderna. Raskolnikov scopre che l’jdo» dell’atto delittuoso non era lui, e per recuperare questo «sé» diverso deve condannare l’altro espiando dppersona. L’attività psichica di base è quella da cui si sviluppano come poli di orientamento distinti l’io e la coscienza. La coscienza è un collettivo, una società di io diversi di cui l’/o di volta in volta attuale non si accorge, perché ciascun soggetto è corredato di una propria identità e rilevanza rammemorativa, e tutti insieme hanno l’illusione della diafania, della trasparenza a se stessi e della appartenenza a un unico evento già stato, la vita trascorsa. Ma la coscienza non è solo attività di chiarificazione di questo sviluppo, è essa stessa agita da un collettivo di soggetti di cui solo una parte raggiunge la semitrasparenza di un io cosciente. Quindi la coscienza è in certo qual modo il medio tra la falsa coscienza dell’io e la progressiva incoscienza del­ le forze che operano in noi e che, risalendone il tramite, si collegano al tota­ le della natura naturans per usare una felice espressione che fu di Scoto Eriugena. L’io non conosce motivazioni reali, ma solo razionalizzazioni regressive; perciò sotto la sua apparente onestà si può celare la pulsione tor­ bida, sporca, demonica, che è compito della coscienza portare alla luce. Per­ ciò è nell’io e le sue inconsapevoli rimozioni che risiede per l’uomo il male, non nell’entità del misfatto. All’io di Raskolnikov erano presenti delle ragioni obiettive per giustificare il delitto, ma queste dovevano palesarsi sco­ pertamente e quindi erano inani, in quanto razionalizzazioni: così egli subi­ sce la ritorsione della coscienza e lo sviluppo di nuove contraddizioni che non trovano conciliazione se non nell’autocondanna. L’identificazione che egli compie di se stesso con l’io del discorso razionalizzatore, autogiustifi­ catorio, diventa una palese mistificazione che non ricopre forse più del cin­ que per cento della realtà complessiva accessibile alla coscienza, ed è quin­ di divaricante, schizoide, fallimentare fin dal suo nascere. Dostoevskij ha detto questo quando la psichiatria non esisteva ancora, e oserei dire che gli psichiatri hanno tuttora da imparare da lui. Quanto alla sua onestà intellet­ tuale, resta molto da desiderare. Il confronto polemico non andava fatto tra la coscienza cristiana e la pseudocoscienza occidentale del superuomo, ma tra la prima e quella, essa pure occidentale, che non compie alcun delitto perché prevede, nell’evenienza, il proprio tracollo, ed è motivata dal desi­ derio di evitare con esso ogni pericolo di conversione all’irrazionale.

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io. Quest’ultima ragione non è per nulla edificante, ma può esser reale e nessuno si sentirà di dire che non è cosciente. La coscienza, senza tanta religione, ha da essere obiettivamente etica, consapevole quanto basta per non subire contraccolpi di resipiscenza. In noi c’è quindi un soggetto che si dà a riconoscere come un io convenzionale, legale e formale; preferibil­ mente si consiglia di esserlo come proprietario terriero del xvm secolo, pri­ ma dell’assillo capitalistico, e di continuare a fare il gentleman per esempio alla maniera dello squire Allworthy, il patron di Tom Jones. Se uno non può permetterselo, è giocoforza convincersi che bisogna trovare il modo di coa­ bitare in dubbia comodità con altri soggetti che stanno insieme a noi, come l’immaginario, l’ossessivo, l’isterico, tutto ciò insomma che d’inverosimile, sorprendente e illegittimo può esserci in noi e che nondimeno non possia­ mo escludere dalla realtà, dal momento che non siamo unità né coerenti né complete in tutto, ma (senza doversene vergognare) plurali. Ancora Piran­ dello pareva rammaricarsene: c’è più che un sospetto d’accusa nel dire, come egli fa, uno, nessuno, centomila. A parte il problema intrasoggettivo della compresenza di molti soggetti nella stessa coscienza, nei rapporti intersoggettivi, cioè tra coscienze separa­ te da almeno 20 centimetri di spazio (tra il centro di un cranio e l’altro) si dà un caratteristico problema di comunicazione che, come nel caso di quella interstellare, si presenta specialmente in assenza di una deissi in comune tra due interlocutori. Per quanto se ne sa, ciò ha origine dall’antinomia di Antistene il cinico. Quando due persone discutono accanitamente per il fatto che non sono d’accordo, Antistene mette in luce la contraddizione seguente. O i due discutono esattamente della stessa cosa, e allora non si capisce in che cosa non siano d’accordo, dal momento che il loro oggetto è identico; o par­ lano di due cose diverse, uno avendo in mente una cosa e l’altro un’altra, e allora non si capisce perché ci sia discussione, dal momento che ognuno svol­ ge un monologo autistico. Come si vede, a rigor di logica aletica, non moda­ le, l’argomento è irreprensibile. Tale argomento viene ripreso da Platone, e piegato a una conclusione diversa. Egli assume uno dei due corni del dilem­ ma, ma evitandone l’insensatezza. Non avrebbe senso una discussione tra due che son persuasi di parlare dello stesso oggetto, tuttavia l’identità dell’ogget­ to potrebbe esser virtuale, induttiva, al massimo ricavabile per convergenza al termine di una discussione non contenziosa (o eristica) bensì di ricerca (o zetetica). In tal modo la contraddizione viene evitata, ma a prezzo di rende­ re trascendentalc-optativa l’identità dell’oggetto di discussione. Traducendo in termini di senso comune il ragionamento di Platone, ne risulta che, se due

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QUINTA LEZIONE

persone discutono accanitamente, ciò è segno che vanno almeno d’accordo su che cosa essi poi dissentono. Ma allora il quesito di Antistene, «se son d’ac­ cordo, perché discutono?», diventa più che mai pertinente. In realtà l’argo­ mentazione di Platone è sofistica; egli dice che tale identità non c’è, ma è come se ci fosse arrivandoci attraverso il suo argomento. È dunque vero che, adottando la conclusione di Platone, la discussione diventa inutile. In Antistene il tentativo di fondare l’oggettività sulla convergenza in una delle diverse soggettività conduce dunque a privare di senso ogni discus­ sione, anzi ogni possibile discorso. Nel contesto della nostra disamina que­ sto significa che l’intersoggettività resta inane se non si fonda sulla comu­ nicazione^ Ma quale comunicazione? Non, evidentemente, quella trasmettitiva, nella quale vien presupposta come identica l’unità di misura, il bit. Nel suo senso più profondo, la comunicazione trasmette degli effetti la cui unica caratteristica comune è di non essere nel ricevente ciò che sono nel trasmittente, o viceversa; questo perché, come abbiam detto, si trasmet­ tono degli impulsi scatenanti ma non dei significati bell’e pronti. Ciò acca­ de normalmente in ogni comunicazione, per banale che sia. I significati ven­ gono ogni volta inventati da chi li riceve. La comunicazione quindi esiste, ma non come trasmissione dell’identico. Comunicare l’identico è impossi­ bile, essendo trascendentale esso non si trova né in chi trasmette né in chi riceve, non esistendo né dentro né fuori di noi. Un’identità parziale è non meno contraddittoria di quella totale del mondo esterno; e il mondo inte­ riore è, sotto questo aspetto, una gola spalancata che inghiottc tutto, un yaopa o il Xaoc esiodeo. Siamo forse giunti a una conclusione un po’ troppo desolante, proba­ bilmente più dovuta alla meccanica inevitabile del discorso che al senso complessivo delle nostre intenzioni. Ma forse lo scopo era proprio quello dichiarato di gettar scompiglio in alcune ormai inveterate identificazioni, come il soggetto, l’io, la coscienza; e in questo senso ciò che abbiamo detto potrà risultare utile a comprender meglio quanto segue. Avremo agio di ritornare in tema. Se tutto questo è vero, lo si dimostrerà nell’esame suc­ cessivo, sulla materia di cui son fatti i sogni.

Nota bibliografica Il «Progetto Ozma», dal nome della principessa del favoloso paese di Oz, con riferimento al libro per ragazzi di Lyman Frank Baum, The Won-

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derful Wizard of Oz, Chicago 1900, e, dello stesso, The Marvelous Land of Oz, Chicago 1904 ecc., fu ideato dall’astronomo americano Frank D. Drake; tale progetto fu parzialmente realizzato mediante un ascolto siste­ matico della durata di 150 ore (6 giorni) per mezzo del radiotelescopio di 25 metri di diametro presso l’Osservatorio di Radioastronomia di Green Bank in West Virginia nel i960, orientato su Tau Ceti ed Epsilon Eridani naturalmente senza risultati di sorta. Come esempio di un soggiogamento «gorgiano» dell’uditorio cfr. la teoria retorica di Adolf Hitler, Mein Kampf, 2 voli, voi. il, cap. vi, Miinchen 1925-27, pp. 525-34; questa evidentemente dipende da Gustave Le Bon, Psychologie des foules, Paris 1895, di cui è impossibile sopravvalutare il successo. Sulla caccia alle streghe cfr. Jules Michelet, La torcière, Paris 1862; Henri Brémond, L’inquiétude religieuse, 2 voli., Paris 1909; e, più di recente, Aldous Huxley, The Devils of Louditn, London 1952. La nozione di coscienza è, naturalmente, piuttosto elusiva, e non è facile dire come «debba» esser concepita. La fenomenologia non ha nulla che vedere con l’«autocoscienza» o Selbstbewufitsein in senso idealistico, il suo tema essendo la «coscienza intenzionale» che ha come punto di partenza paradigmatico, per es. in Brentano, la «percezione interna». Cfr. anzitutto Franz Brentano, Psychologie vom empirischen Standpunkt, 3 voli.; voi. I, Leipzig 1874 [Psicologia 1]; voi. li, «Von der Klassifikation der psychischen Phànomene», 1911 [Psicologia II]; voi. ili, «Vom sinnlichen und noctischen Bewufitsein», 1928 [Psicologia ni]; le note di Oskar Kraus chiariscono il senso della transizione tra il primo e l’ultimo Brentano. Per la tesi «antipsicologistica» di Husserl v. Edmund FI usseri, Logische Untersuchungen, voi. I, cit., «Prolegomena zur reinen Logik». Sulla «riduzione eidetica» (la «mes­ sa tra parentesi» del mondo esterno, del presupposto naturalistico) cfr. Edmund Husserl, Ideen zh einer reinen Phànomenologie undpbanomenologischen Philosophie, Halle 1913 [Idee l]; e, per confronto, l’analogo con­ cetto di «obiettivo» in Alexius Meinong, Uber Gegenstandstheorie, Leip­ zig 1904 [Teoria dell’oggetto], e, dello stesso, Uber Annahmen, Leipzig 1902 [Assunzioni]; v. soprattutto, la fondamentale monografia di John Niemeyer Findlay, Meinong’s Theory oj Objects and Values, Oxford 1933. Per la concezione fenomenologica nel suo complesso v. Herbert Spiegelberg, The Phenomenological Movemcnt, 2 voli., den Flaag i960.

Sesta lezione Credenza e immaginario Il sogno, la rappresentazione e il doppio legame

i. Credere è parola ambigua,'perché può voler dire tanto credenza, quanto fede. Noi vorremmo limitarci a quel senso del credere che si può esprimere come credenza, per esempio quella che uno può avere nell’esi­ stenza di esseri intelligenti extraterrestri. La credenza è ciò_che a certe con­ dizioni, non sempre verosimili, potrebbe diventare una verità di fatto; men­ tre ripugna pensare che questo valga per la fede. Infatti l’Apostolo dice che il giusto ex fide vivit (Rom., i, 17), e che considera l’uomo salvo per fidem sine operibits (ivi, 3, 28). Non si potrebbero rimpiazzare queste occorrenze con la semplice credenza. Nei paesi protestanti questa distinzione è ovvia­ mente più acquisita, basterà dire che in quei passi fides viene resa con fàith, mentre nel nostro senso credenza è normalmente belief. Naturalmente c’è un problema anche a proposito del belief (o del beheving), ma questo non ha nulla che fare con l’incertezza di fatto del riferimento, bensì col modo di appresentificarlo, di raffigurarlo o in generale di rappresentarlo. L’esisten­ za di intelligenze extraterrestri è una cosa, ma quella della struttura dell’a­ tomo è un’altra, e quella di un oggetto di desiderio (o di repulsione) un’al­ tra ancora. Nel parlare di credenza non basta dare un nome all’oggetto in cui si crede, ma bisogna anche dire che tipo di supposizione è quella che ci fa parlare di un oggetto. L’analisi di questo tema ci condurrebbe a esaminare a quanti e quali oggetti di riferimento linguistico noi assegnarne il titolo di credibili. È evi­ dente che il concetto di cosa credibile, nel senso che si è detto, è molto più ampjp che di quello di cosa esistente, o reale; se vogliamo tradurre il signi­ ficato di credibile in quello di affidabile, nel senso della comunicazione, noi possiamo facilmente osservare come l’uso di riferimenti comuni affidabili, nei quali però noi non crediamo, sia preferibile in vista del mantenimento dei contatti umani. Questa via di indagine sarebbe indispensabile in un approccio sistematico. Meno dispendioso è l’approccio che, partendo dalla

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SESTA LEZIONE

periferia del problema, e senza pretesa di esaurirlo, riesce con pochi passaggi a dar l’idea della sua portata e importanza. Il punto di partenza resta come sempre la realtà esistente. Il punto di arrivo è come si configurano le cre­ denze che noi ci formiamo in merito. 2. Nel romanzo realista del XIX secolo in sostituzione della realtà abbia­ mo un’illusione di realtà che è fondamentalmente sorretta da due dispositi­ vi linguistici: la descrizione e l’indicazione. Questi servono a mantenere costante finché richiesta, l’attenzione della direzione della mente sull’oggeno, ciò che avviene sia descrivendolo, sia indicizzandolo. Quindi la con­ vinzione di cogliere la realtà, in un lettore del romanzo realista, tiene o non tiene in ragione dell’efficacia di tale semantica suppositiva. Per comprende­ re come merita il profondo coinvolgimento delle convinzioni a cui ci affi­ diamo nel seguire certe convenzioni, bisogna tener presente che, oggi come allora e come sempre, l’atteggiamento condiviso dal senso comune si espri­ me all’incirca così: «Non facciamo tante disquisizioni oziose, metafisiche, sull’oggetto; quando io dico “questo è un tavolo”, tu capisci che cosa dico, e perché lo dico; il resto poi seguirà un po’ alla volta». Il pathos antimetafi­ sico del senso comune esprime la tacita persuasione che le cose, prese sepa­ ratamente, siano semplici e che il compito di prevenirne, con l’ammucchia­ ta, la complicazione e la confusione spetti allo sguardo da vicino o, preferibilmente, al contatto diretto con le cose. Per non cadere in errore dovremmo sempre ricordarci che noi usiamo le parole in luogo delle cose; e sarebbe meglio, ove fosse possibile, usare invece delle parole le cose diret­ tamente. Così, accumulando oggetti anziché parole, noi renderemmo meglio il senso di tanti discorsi; e uno che andasse in giro con un sacco contenente tanti begli oggetti, magari taluni in miniatura, non avrebbe bisogno d’altro per parlare, nemmeno di interpreti per le lingue straniere. Questo era il persiflage di Swift nei Viaggi di Gulliver. E Swift ha qui di mira Hobbes, cioè la tesi che la comunicazione linguistica si regga sul rimando agli oggetti. È chiaro che gli oggetti si possono denominare e, riunendoli con un certo ordi­ ne, alla fine si deve capire il discorso che si fa con essi. Naturalmente, Hob­ bes non dice questo; ma in letteratura si consente a certi scherzi. Su questa base, la prima domanda che sorge è se l’ordine degli oggetti riproduca il senso del discorso; se cioè questo si lasci esprimere per solo mezzo dell’ordine con cui si collocano, o si producono, o si snocciolano dei grani di rosario. Che questa non sia ancora la domanda da diecimila dolla­ ri, lo dimostra la controdomanda, se cioè esista, c nel caso quale sia, un

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oggetto di riferimento che corrisponda alle parole «non», «oppure», o «perché» (e l’elenco potrebbe continuare). Sono inconvenienti cui sembra diffi­ cile rimediare pur con l’uso di mimiche particolarmente abili; anche senza considerare il fatto che la mimica, intesa come linguaggio gestuale, non rien­ tra in ciò che abbiam detto riferimento. È noto il fatto riferito da Wittgen­ stein, a proposito di una sua discussione con Sraffa. Wittgenstein allora sosteneva la teoria corrispondentistica (parole-cose) del linguaggio, e Sraf­ fa gli fece un caratteristico gesto napoletano, con le dita a pera, chiedendo­ gli a che cosa quello corrispondesse. Complementare a questo, cioè al sen­ so delle parole non realistiche per la teoria della corrispondenza, è il problema di come usiamo le parole quando intendiamo esprimere la realtà. E da questa impostazione semantica della questione sorge il problema già menzionato delle categorie semantiche', cioè di come usiamo principalmen­ te (ossia, per principio) il nome o sostantivo, il pronome, l’aggettivo, l’av­ verbio e il verbo. Da notare che, con l’impostazione semantica del problema, abbiamo già abbandonato l’ingenua concezione corrispondentistica. Il significato va dalle parole alle cose, non viceversa. Questo è il postulato della semantica in generale, anche prescindendo dallo speciale problema posto dalle categorie semantiche delle varie specie di parole (o parti del discorso) in questione. La realtà, nell’accezione corrispondentistica, non c’è più; essa esiste solo come convenzione evocata dal modo di usare i nomi, i verbi ecc. (ivi inclu­ si anche i gesti), che in chi ascolta senza farsi troppe domande danno l’im­ pressione che si stia parlando di qualcosa. Ma per non rompere l’incantesi­ mo bisogna esser molto bravi, tanto nel parlare quanto, e ancor più, nell’ascoltare, altrimenti ci si ritrova dinanzi a flatus vocis o a caratteri di stampa: ciò che talvolta succede. E a tal proposito i romanzieri, questa genia di nomadi nei confronti degli usi semantici stanziali, si son posti con sem­ pre maggiore radicalità delle domande molto pertinenti su che cosa signifi­ chi raccontare, la forma di discorso più ammaliante, e di chi, e che cosa, e come c circa quali azioni, e in quali circostanze: e ne è risultato che i modi di dire che più di frequente si usano per la bisogna sono, per l’appunto, la descrizione e la deissi (ÒEÌ^iq, indicazione). La descrizione si usa per parlare dell’abbigliamento delle signore (di una volta) e cose simili, oppure per parlare impunemente dell’attuale re di Francia, che è supposto calvo, non si sa perché, anche se poi della cosa non si fa nulla per il fatto che non esiste un re di Francia (senza offesa). Fin dall’e­ lenco delle navi nel secondo canto Iliade y a cui Omero si è dovuto ras-

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segnare per ragioni di epopea, con le descrizioni si rischia di riempire di noia il lettore, quando non di sottoporlo a una vera e propria tortura. Essa è comunque necessaria per fornire al lettore, a tratti e come di straforo, quel­ le informazioni a cui da solo non potrebbe arrivare. Ma si tratta pur sem­ pre di una notazione che, per sua natura o per il modo con cui è rifilata, risulta innaturale e per così dire appiccicata. Invece l’indicazione dell’og­ getto che si effettua mediante parole deittiche (in genere avverbi, ma anche pronomi e altre parti del discorso usate invale funzione, appunto, deittica) avviene più sveltamente, senza parere e quasi tacitamente, sol che si possa. Èd è evidente che la deissi non è limitata dalla presenza del denotato, per­ ché essa passa inavvertitamente allo stato di deissi fantasmatica, o diretta al fantasma. Il riferimento a oggetti inesistenti avviene indifferentemente o per mezzo di deissi fantasmatiche o di descrizioni false; ma si avverte che in quest’ultimo caso l’uso linguistico suona più innaturale. Il romanziere deve dunque descriverci brevemente l’ambiente in cui intende muoversi e quin­ di indicare e farci collocare gli oggetti, cioè situazioni, persone e oggetti. A questo proposito si è data una gara, in tempi recenti, a chi era più realista. Se in Balzac e ancora in Flaubert troviamo descrizioni alquanto prolisse, per non dir bieche, più ci avviciniamo ai moderni e più si dà deissi senza descri­ zione. Il termine di arrivo per questo verso è Kafka. Kafka non descrive nul­ la, finge semplicemente che noi capiamo quel che intende dire e, nel far que­ sto, inflaziona al massimo il realismo deittico. Questo secondo me significa che da un pezzo è venuto il momento di cambiar registro, ma qui la parola spetta ai romanzieri. Da II cappotto di Gogol’ fino ai nostri giorni questo criterio di relativo avanguardismo si è consolidato con sempre maggiore incisività. Esso con­ siste in un complesso di gesti, non di descrizioni, e di gesti fantasmatici diretti al fantasma. Nonostante questa spettralità, l’effetto può esser sor­ prendentemente realistico. A causa di questo gioco illusionistico, il lettore è indotto a credere di sapere di che si tratta, cosa di cui porta invece per inte­ ro la responsabilità. Certo, egli immagina di sapere che cos’è e come è fat­ to attraverso, il racconto di Doyle, il numero 22 di Baker Street a Londra, anche se nessuno gliel’ha descritto nemmeno per scherzo. Un altro celebre luogo indicizzato è la società russa del secolo scorso, con gli anarchici e il computo delle anime e le apparizioni delle anime morte. Che tali cose esi­ stessero non è in discussione, bensì il fatto che di noi lettori occidentali nes­ suno ha mai visto tale società, eppure tutti crediamo di dover conoscere quelle cose, in cui compaiono come persone note Varvara Petrovna e Ste-

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pan Trofimovic e i mille altri rammemorabili. Se è vero ciò che abbiamo osservato, lo spessore realista dei romanzi che trattano di tali vicende non rimanda affatto alla conoscenza storica delle condizioni della Russia. La memoria che ci resta dei tanti personaggi ricorrenti è quella di fatti che coi tempo si affievoliscono, non di denominazioni registrate. Così in Gogol è la deissi che provoca l’incauto lettore a suscitare inavvertitamente in sé? attraverso il sentimento vicariale, una realtà oltre il descritto. Questo 1 ef­ fetto illusionistico di un autore che sia realista.

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3. Come si è visto, i rapporti tra coscienza e realtà sono talmente com­ plessi che, nemmeno nel caso di un rapporto ridotto a quello tra la lingua e le cose, possiamo pensare di formularlo in termini di semplice corrispon­ denza. Con l’approccio semantico al problema, lasciando cioè perdere lo stesso pensiero di una corrispondenza qualsiasi, siamo pervenuti al punto in cui, attraverso la descrizione e la deissi, a cui si devono aggiungere l’a­ nafora e la metafora, il mondo dei significati diventa talmente fitto, da minacciare di soverchiare quello reale. Avendo tuttavia scelto la via del significato, che va dalla parola alla cosa, non viceversa, è evidente che non si può eliminare l’immaginario per decreto, dichiarandolo cioè tale,_per tro­ vare l’accesso alla realtà. Prima bisogna accostumarsi all’idea che uno stes­ so immaginario sta alle radici della diramazione che per un verso immette in ciò che chiamiamo reale, e per l’altro ramo, complementarmente, in quel che abbiamo tagliato fuori come non reale, fantastico e immaginativo. Dun­ que V immaginario (o mondo semantico), nel senso che si è detto, si suddi­ vide in reale e non reale, fantastico c in una parola immaginativo. Sia chia­ LC ro che non abbiamo detto che questa divisione si possa portare fino in fondo, e per questo è bene che tra immaginario e immaginativo resti facile l’equivocazione. Siamo con ciò pervenuti a un argomento su cui i più (nel senso di ol JtoXXoL) fanno professione d’esser realisti, come se questo bastas­ se a esorcizzare la fondamentalità dell’immaginario e le potenzialità demo­ niche da esso racchiuse. Dovremo pertanto parlare, senza conforto di pro­ fessioni, di un immaginario che si pone a mezza via tra gli estremi della coscienza e della realtà, come «materia di cui son fatti i sogni», non solo, ma anche la teoria atomica o qualsiasi altra cosa sia pensabile del mondo e che possa non essere azzerata sul reale. E si noti che tutto è nato, si badi bene, nel momento in cui si è dovuto riconoscere che alla percezione esterna spetta solamente la competenza dell’immagine simbolica del frammento di mondo al quale rimanda, e che il mondo ha un significato che non può esser

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ricostruito per giustapposizione di tutte le istantanee simboliche in un uni­ co, grande collage. Partendo da un’impostazione semantica del problema, non è lecito privilegiare tino a tal punto l’uso di una particolare categoria semantica, che è quella dei nome. Sia consentito riassumere in breve il punto a cui siamo arrivati. Abbia­ mo assunto la fenomenologia non come una filosofia particolare, ma come quell’approccio che garantisce un discorso sulla coscienza e sulla soggetti­ vità, distanziandoci solo da quelle filosofie che amano parlare di una crisi . del soggetto e preconizzano un superamento dell’intero problema. La feno­ menologia ferma l’attenzione sulla coscienza intenzionale, cioè su quella coscienza che ha qualcosa come oggetto. La nostra interpretazione insiste sul carattere triadico, e non diadico, di tale relazione. Ciò significa che io (come coscienza) ho in mente qualcosa (come etwas iiberhaupt) che, in mancanza di meglio, identifico con questa o quella specie di oggetti. Nel far questo devo rendermi conto che tale identità non è ontologica, bensì gno­ seologica o, meglio, fa pane del mio modo di essere intenzionale, di prender coscienza. L’identità ontologica consiste nel constatare oggettivamente che a = b-, mentre Videntificazione di cui parlo sta solo nel fatto che io pon­ go a (il qualcosa) uguale a b (la specie di oggetto). In un certo senso questa operazione è arbitraria, perché ciò che vale per me in un dato momento può non valere per altri, e nemmeno per me in un altro momento. Ma tale è la coscienza intenzionale. Abbiamo anche visto che di qui si dirama la princi­ pale distinzione tra percezione esterna e percezione interna, secondo la natura dell’oggetto (£) al quale eguagliamo il contenuto (^). Nella perce­ zione esterna l’oggetto si determina mediante un l imando simbolico-, in quella interna, invece, l’oggetto immanente si identifica col significato smsemantico (meno bene, sintattico). In definitiva Vctwas, comunque lo si identifichi, è per sua natura immaginano. Questo, in breve, lo svolgimento del filo seguito.

4. Non vorrei andare oltre l’argomentazione fin qui svolta. Più impor­ tante, mi sembra, è approfondir meglio il senso di certi passaggi, inqua­ drandoli con altre riflessioni forse meglio accessibili sia dal lato discorsivo, sia da quello intuitivo. La prima cosa da considerare è proprio il significa­ to dell’espressione complessa «aver qualcosa come oggetto», di cui abbia­ mo già dato una spiegazione analitica. Indipendentemente da questa, che potrebbe accusare una nostra forzatura interpretativa, l’aver-qualcosacome-oggetto è una dizione complessa che mette insieme due diversi Uvei-

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li di consapevolezza espressiva e d’impegno linguistico. Il qualcosa in gene­ rale appartiene al grado infimo dell’individuazione, quindi anche d’identità, o d’identificazione; tuttavia esso è depositario dell’esistenza di un contenu­ to di coscienza, come l’essere indeterminato o il sentimento fondamentale di Rosniini. Porre tutto ciò come oggetto rende esplicito il problema espressivo a un livello linguistico profondo, di cui non siamo sempre perfetta­ mente coscienti. Al riguardo ci si può chiedere se tale qualcosa, che è pre­ sente come oggetto, lo sia nel senso d’esser suscettibile d’individuazione,_il che implica l’avvenuta identificazione: nel qual caso la scelta è fatta, e si trat­ ta solo di seguire con coerenza il riconoscimento linguistico di una certa equazione. Vedo per esempio un raggio di luce come caso particolare di onde hertziane. Ma, se il procedimento di riconoscimento non conclude, ci si può chiedere se il qualcosa, che si vuole identificare, non impegni per caso chi ne è soggetto su un piano di complessa esperienza, anche espressiva, che lo sconsigli dal mettere la x entro un’equazione che usi termini (o numera­ li, fa lo stesso) di una categoria prefissata. Il richiamo a\V esperienza che compare a questo proposito è sintomo dell’avvertenza a sospendere la deci­ sione di identificare come al solito il genere di oggetto di cui si tratta, per riservarsi all’occorrenza una scelta diversa. Come si vede, la coscienza si intende come intenzionale allorché essa rimanda al costituirsi del qualcosa, il contenuto di cui è correlato, nei ter­ mini che lo possano esprimere come oggetto. Purtroppo questo inviluppo fraseologico non è ulteriormente semplificabile: essendo la relazione triadi­ ca, ci sono difficoltà a esprimerla in qualsiasi linguaggio che abbia, come la lingua, la forma di una sequenza lineare. Quindi, se il qualcosa corrispon­ de al contenuto pre-prcdicativo, la sua espressione in quanto oggetto com­ porta la preliminare soluzione del problema categoriale, cioè di quali cate­ gorie o forme predicative siano indispensabili per oggettivare il contenuto nel modo che di solilo adoperiamo. In caso di perplessità, ciò è un indizio che il problema non si ritiene solubile in questo modo, diciamo per sem­ plice obiettivazione (non necessariamente «esterna»), e allora si ricorre nor­ malmente a un appello all’esperienza, che di solito significa che il problema andrebbe impostato in altro modo, che o non sappiamo o che ci riuscireb­ be troppo difficoltoso dire, e cerchiamo di cavarcela col rimando a «ogget­ tivazioni» tra virgolette, allusive o lampeggianti a intermittenza. In realtà il problema che emerge, al di là delle categorie, e quello delle categorie seman­ tiche. È opportuno non confondere i due problemi, quello delle categorie semplici e quello delle categorie semantiche: espressione, quest’ultima, che

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traduce il tedesco Bedentungskategonen e il latino medievale (dei logici modisti) modi signifìcandi. È la questione a cui Kant ha cercato di rispon­ dere con la teoria degli schemi trascendentali, i quali appunto sono chiama­ ti a mediare tra l’intuizione e le categorie; _essi sono il prodotto dell’imma­ ginazione, e preparano quelle che nell’odierna linguistica si direbbero strutture profonde, cioè antepredicative, in quanto idee soggettive della suc­ cessione, del numero, della sostanza come persistenza, della causalità come mantenimento dell’effetto, dell’interazione come effetto reciproco, c delle modificazioni modali dell’esistenza. Queste complicazioni inerenti all’inserimento del qualcosa nelle opera­ zioni di identificazione categorica si profilano meglio tematizzando il pro­ blema del «come». La coscienza intenzionale non è anzitutto trascendentale, nel senso che non è una forma vuota da riempire in qualsiasi maniera purché rispetti le condizioni puramente funzionali della sintesi della sensi­ bilità e dell’intelletto. Dal punto di vista fenomenologico siamo, si può dire, agli antipodi di siffatta impostazione del problema, giacché la coscienza in quanto intenzionale è sempre correlativa a un oggetto; o, meglio, è coscien­ za di aver qualcosa come oggetto. A una lettura distratta questo «come» può sembrare un’identità (il segno = dell’equazione), ma bisogna guardarsi da questo appiattimento ontologico. Come si è detto, con esso si esprime una identificazione da parte della coscienza, che pone il qualcosa «come se» (quasi, quam si) fosse un oggetto: l’operazione di identificazione, cioè, ne presuppone un’altra di segno opposto, che stacca i due termini della colli­ mazione. Nell’estrema inopia del linguaggio filosofico di base, il «come» non esprime tanto l’eguagliamento quanto l’imbarazzo in cui ci si trova nel dover presentare come identico ciò che in realtà non lo è, ma che non si saprebbe in che modo altrimenti esprimere. La trascendentalità del come, cioè il problema del come del «come», pone un quesito che oltrepassa il semplice schema della coscienza intenzio­ nale, poiché esso trascende sia il soggetto sia l’oggetto, per porsi come cor­ relatore in sé. Forse questa è la ragione che ha condotto Husserl a parlare non di oggetto, ma di noema, che si definisce come «l’oggetto nel come del­ la sua datità», e a correlarlo con una corrispondente noesi. Anche se ciò sembra spostare il problema senza risolverlo, resta il fatto che anche la coscienza intenzionale non può più intendersi come puro correlato sogget­ tivo di un oggettivo, poiché c’è in mezzo una complessa mediazione: quel­ la, per l’appunto, del «come». Un’altra considerazione che può aiutare, pur se in un primo momento pare peregrina, è la distinzione introdotta da Hei-

c/y ■ fC

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degger tra i due sensi dell’^/s (il come), quello apofantico e quello erme­ neutico. L’«in quanto» apofantico è la normale esplicazione per sinonimi, senza cioè trasgressione categoriale; mentre l’«in quanto» ermeneutico è più complesso, presupponendo che l’identità interpretativa sppossa ottenere per concorso di categorie diverse. In ogni modo, l’effetto di questa distinzione concorre a dare al come il senso di un distacco, più che di un’omologazio­ ne. La funzione logica del chiedersi come, apparentemente così chiara, periclita da ultimo in irresistibile dialettica. Ci si può chiedere infine se per caso non appartenga alla coscienza, pro­ prio in quanto intenzionale, questo tendere a esplicare nel senso del come, più che del perché. Che cosa vieta di avere tale intenzione? Qui non biso­ gna farsi carico deH’equivocazionc che in italiano può darsi tra intenzione e intenzionalità. L’uso tedesco di Intentionalitat è solo tecnico; ed essendo ?' L-CXS (PV tale significato quel che è, intentionales Bewufltsein vuol solo dire coscien­ a.c/VC za di qualcosa come oggetto. Solo che Bewufltsein è parola d’uso comune, oltre che tecnico. Normalmente significa coscienza, esser consapevoli, e simili; ma può anche assumere il senso speciale di voluto, fatto apposta, intenzionale fbewuflt). Allo stesso modo Selbst-bewufltsein è l’autocoscienza in Hegel; ma selbst-bewuflt può anche voler dire, di un contegno, che si dà dell’importanza. Anche in inglese, se io per esempio dico, di una donna, che è self-conscious, voglio insinuare che si crede bella, o interessan­ te. Le trappole delle lingue sono molteplici; quindi non si può nemmeno escludere che, per il concorso di tali accidenti, il significato di coscienza intenzionale resti lo stesso in tutte le versioni.

5. Nella prima teoria dell'autocoscienza, interessante anche se incom­ pleta, che risale a Platone, questa viene espressa con un termine che non ha avuto molta fortuna storica, pur godendo del pregio di ridarne almeno una delle sue connotazioni di fondo. Il termine greco è ovveiòìpig: esso espri­ me (è il caso di dire, sinsemanticamente) tutto l’insieme degli etòq, degli oggetti correlati alle idee soggettive con cui pensiamo di sorreggere il pro­ cedimento cognitivo, e ne sottolinea la dipendenza da qualcosa di destina­ to ad assicurarci, oltre alla semplicità e la coerenza, la sua completezza. Il composto ovv-eiòipoig è interessante perché combina il significato sintatti­ co del ouv- con la semantica oggettiva dell’etòog c la determinatezza dell’a­ zione da parte del soggetto, l’(riòì])uic;: in latino sarebbe obiettiva con-ideatip, ossia con-scientia', essendo la scientia, in questo senso, il modo di disporre di un’idea che richiede l’inclusione del limite, come termine o con-

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cetto nell’accezione socratica. È una semplice notazione da manuale, che Socrate facesse il passo decisivo dalla dialettica al concetto; questa formula­ zione agile ma frettolosa si avvale tuttavia di una grande autorità, quella di Aristotele, che così si è espresso nel caratterizzarne la prestazione. Socrate ci ha esonerato dall’incarico di portare ovunque l’intero apparato della dia­ lettica, per affidare le risorse della nostra comprensione intellettuale alla sola univocità del concetto. Noi vogliamo vedere se, per suo mezzo, siamo in grado di fissare «l’oggetto nel come della sua datità». Che cos’è il voryróv, il concetto? Nel senso della definizione data sopra, il voìjtóv è il correlato di vóiioiq e vóqiict, entrambi presi in senso intellet­ tuale puro. Nella versioneplatonica sarebbe la correlazione dell’lòéa come atto soggettivo, come idea che ho in mente io, e la tensione di approssima­ zione dell’eióoc, il termine ideale oggettivo; questo, se fosse assimilabile, conferirebbe verità all’intera operazione. Dunque la coscienza, come ouvEiòiiot;, èil processo di approssimazione inerente a tutti 1 nostri concet­ ti, concepiti come modelli, all’idea della verità oggettiva. Non si può esami­ nare spassionatamente se una tale verità sia o no raggiungibile: prima biso­ gna compiere il passaggio al limite, quindi affidarci a tale veicolo per varcare il mare della vita e infine forse possederla, cosa che fu concessa a Socrate solo in punto di morte. Mentre noi facciamo la traversata, E3TinÀEVOp.EV TÒv £iov, siamo nella successione e non nel passaggio al limite: questo non può esser deciso volontariamente. Perciò non compio il passaggio al limite, perché non sono platonico; se anche lo fossi, neppure lo compirei in suo nome, perché non so se Platone abbia veramente voluto dire questo. Nell’universo tantalizzante, tantalizing, di Platone il mare profondo della vita ricopre, con le idee, anche la loro forzatura al limite; il fatto che esistano tali nascosti teso­ ri, alla lettera e non solo per metafora, è cosa che egli dice e non dice, cui solamente allude, forse per attrarci nell’abisso. Restando al di qua del limi­ te, la coscienza deve limitarsi al dominio dell’lòéa soggettiva, non dell’Eiòog in sé e per sé, o al massimo dell’idea in senso kantiano o trascendentale. Questa è l’idea che, pur non essendo oggettiva, possiede una sua oggettività nel modo dell’aggettivo sostantivato: la regola della sua reiterazione e un principio di rilevanza che si ripropone con ogni successiva applicazione in un’astrazione sempre meglio precisabile. Non desterà stupore rilevare come alcuni di questi procedimenti oggettivanti, ma non oggettivi di per sé, trovino impiego in matematica. Il loro cen­ tro di irradiazione, se non proprio in Platone, si riconosce tuttavia risalendo all’Accademia, che ebbe il compito storico di dare allo sviluppo di certe scien-

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ze, specie quelle matematiche, una durevole impronta platonizzante. I pro­ cedimenti cui in particolare si allude sono quelli che vanno sotto il nome di definizioni recursive ma impredicative. Esse furono nel fuoco di una specia­ le acribia critica nel periodo tra Poincaré e Russell, ma non si trovò modo di sostituirle con criteri migliori. Si prenda per esempio la cosiddetta induzio­ ne matematica. Se si è capita la regola per cui, dato un numero abbastanza grande, diciamo rz, si può creare sempre il successivo n+1, lasciando inaltera­ to il concetto generale di numero, la comprensione di questa regola recursiva o di reiterazione illimitata non può che approfondire la rilevanza, altri­ menti indefinibile, o impredicativa, del concetto di numero. Questo schema era noto a Platone col nome di àÓQioiog òuàq, la generazione attraverso la «diade illimitata». Se io parto dall’unità generica e la divido in due, per retroa­ zione sull’unità del concetto ottengo il due, come uno più uno. Così la reite­ razione della diade mi dà il tre, come due più uno; e via di seguito per tutti i numeri. Non sarebbe sbagliato dire, dal punto di vista platonico, che la com­ prensione della diade illimitata mi consente di pensare che nel concetto ori­ ginario dell’unità in genere è contenuto implicitamente l’infinito. Queste considerazioni possono apparire un po’ fantasiose, per lo meno quanto a tenore espressivo, ma anche le definizioni per astrazione, o l’as­ sioma moltiplicativo si presterebbero a simili licenze. Dire che due numeri sono uguali quando sono gleichzahlig, cioè hanno la stessa cardinalità, è un’anticipazione impredicativa come ogni altra astrazione che, per esser compresa, richieda la preliminare acquisizione del senso della rilevanza. Allo stesso modo si può dire trascendentale la comprensione del carattere non cumulativo del concetto di numero nell’aritmetica. Ammesso che io abbia capito le proprietà del numero, cioè che queste proprietà si applicano al numero minimo, lo 0 come origine della serie, e a un numero qualsiasi di essa, diciamo n, devo anche comprendere, per dire di aver capito, che tali proprietà devono necessariamente applicarsi anche a »+l, il numero imme­ diatamente successivo a quello n menzionato. Si tratta di un notevole rom­ picapo, pur se questo è abbastanza semplice, che ha interessato pensatori tanto divaricali nel tempo quanto Zenone e Aristotele da una parte, e Pea­ no c Russell dall’altro. La ragione dell’idiosincrasia del pensiero intuitivo sta nel fatto che in matematica si usano due diversi riferimenti all’universa­ le: uno espresso da tutti (e ciascuno) c l’altro, meno evidente, da uno qual­ siasi (a scelta), che non è equivalente al primo. Seguendo le concezioni della Scuola di Marburg (i neokantiani Cohen, Natorp e, in parte, Cassirer) si può pensare che le idee in senso kantiano,

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pur essendo contrassegnate come soggettive dal carattere astrattivo del loro oggetto, riducibile al concetto della rilevanza pura, e da quello della conse­ guente impredicatività o, meno bene, tautologicità, conservino tuttavia una loro oggettività: ciò posto, l’aggettivo sostantivato deterrebbe quanto meno la rappresentanza, il diritto di stare simbolicamente per l’Elóog oggettivo. Stando a questa impostazione del problema, alla domanda per esempio «che cos’è il numero?», intesa come «qual è l’oggetto corrispondente al concet­ to soggettivo e ideale di numero?», si può tentare di rispondere richiaman­ do l’operazione del contare, che termina nel concetto di numero ordinale; quindi, partendo da questo, si può introdurre astrattivamente il concetto di numero cardinale, facendone impredicativamente l’oggetto comparativo di diverse operazioni del contare, che non avrebbero equinumerosità, o Gleichzahligkeit, in assenza di tale termine oggettivo. Può sembrare che tutto vada egualmente bene, l’oggetto o, se non si può, il concetto dell’oggetto in sua rappresentanza. Che differenza fa? Il fatto è che il concetto e l’ogge_tto possono coincidere solo se quest’ultimo è singolare, unico. Diversamente ho sì i concetti univoci del tre, del cinque, dell’enne e enne-più-uno, ma non il fondamento su 3, 5, n, 7?+l oggetti. L’unità degli indiscernibili (nel con­ cetto) annulla la pluralità solo numero (negli oggetti). Se fa parte dell’idea soggettiva il riferimento a una pluralità di oggetti, pur non pretendendo che questi siano esistenti, come si può ridurre tutto ciò a un significato pura­ mente intensionale? Qualità e quantità, o intensione e estensione, sono egualmente inerenze ontiche, determinazioni intrinseche, ÈWTtóo/.ovTa del significato. Anche senza fare intervenire dimostrazioni decisive come l’an­ tinomia di Russell o altri paradossi del genere, è evidente che la via ideali­ stica di far stare, in luogo dell’oggetto, la sua rappresentanza, non è un vali­ do espediente. E si badi che qui parliamo di oggetti, non di corpi esistenti; evidentemente la rappresentanza dell’oggetto manca di uno dei caratteri che si danno in sua presenza. Uno di questi caratteri è il tempo. Che cos’è il tempo o, meglio, la coscienza del tempo? 6. Abbiamo già parlato del tempo come omologo dello spazio, cioè in quanto categoria o, più modernamente, parametro. Conviene qui rammen­ tare lo scopo che fin dall’origine ci si è prefisso introducendo tali categorie, dal punto di vista dell’intelletto. Spazio e tempo sono indispensabili misure strategiche, che consentono al linguaggio di evitare molte delle contraddizioni che altrimenti si darebbero. Lo spazio introduce la nozione di distanza, che permette di parlare senza incongruenze di qualità diverse, in quanto appar-

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tenenti a oggetti distanti tra loro, l’uno fuori dell’altro. Il tempo introduce le nozioni di dopo e, correlativamente, di prima, che permettono di parlare coerentemente di qualità diverse anche dello stesso soggetto, purché si ten­ ga conto del momento dell’attribuzione. Se oggetto dello spazio è la distan­ za tra le sostanze, oggetto del tempo è invece il mutamento, il cangiamento e il movimento, anche della stessa sostanza. La funzione anticontradittoria dello spazio è sempre considerata ovvia, tanto da non esser neppure spiega­ ta. Più riposta è invece quella del tempo, meno evidente, e bisognerà aspet­ tare Platone e Aristotele per sentir dire che il tempo è la misura del movi­ mento (o mutamento) secondo il criterio del prima e del dopo. Queste sono le funzioni dello spazio e del tempo dal punto di vista intellettuale. Certo, non è tutto qui. Ma per parlare di una realtà in proposito, bisogna parlare del loro carattere empirico residuale, di cui non è facile trovare il referente. Noi parliamo di cose che sono già nello spazio e nel tempo, ma questo modo di trattare dell’ùz-esse, l’esser-nel-mondo spazio-temporale, allarga la nostra domanda senza peraltro rispondervi. Non sappiamo dire perché le dimensioni dello spazio siano esattamente tre, non quattro o venticinque. Ciò rimanda alla questione delle traslazioni che possiamo compiere su un oggetto spaziale senza alterarlo, ma questo sembra più un problema di defi­ nizioni che un riferimento empirico. Né sappiamo dire perché il tempo abbia solo una dimensione, e vada solo in avanti, dal passato al futuro, secondo il mio modo di dire, una freccia che ne indica il senso. Abbiamo già discusso di certi particolari notevoli che si danno in merito, ma ora non ci interessano tali spunti. Consideriamo qui l’in-essere come schema lingui­ stico profondo, che consente non tanto di parlare del mondo senza con­ traddirsi, quanto soprattutto di parlare apofanticamente della realtà, qua­ lunque essa sia. Tale schema corrisponde al principio di individuazione spazio-temporale, per cui si può dire che esistono i corpi, cioè che ci sono dei riempimenti non-vuoti dell’enorme casellario di posti spazio-tempora­ li che tale principio ci mette a disposizione. In questo modo riusciamo a inquadrare il problema dell’esistenza come una questione di riempimento, o meno, di una struttura già presente, almeno virtualmente. Credo che ora si capisca perché si dica, aristotelicamente, che la sostanza vicn prima degli accidenti, in particolare delle determinazioni spazio-temporali. In teoria potrei sempre disporre di uno schema più profondo per cui fosse tutt’altro che ovvio che la cosa deve stare così. La risposta è che il retaggio aristotelico è, per lo meno è stato, più profon­ do di qualsiasi altra ipotetica alternativa. (Con eredità aristotelica si deve

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intendere sia il fatto che la sua teorizzazione ha avuto fortuna, sia quello complementare per cui egli si è limitato a formalizzare una tendenza già in atto. Sarebbe interessante poter dire qualcosa di più, ma non ci proviamo nemmeno. Si sa solo che giapponesi, cinesi e vietnamiti, come risulta dalle bibliografie, anche loro studiano Aristotele: sarà lecito arguire che cosa ci ' trovano?). In breve, che la sostanza venga prima degli accidenti vuol dire che, tanto nell’ordine paradigmatico che in quello sintagmatico, la scelta del sostantivo condiziona quella dell’aggettivo, dell’apposizione e dell’avverbio: tutte determinazioni che aristotelicamente valgono come accidentali, cioè extrasostanziali. Tutto questo è abbastanza chiaro; e si sarebbe tentati di con­ cludere che H sostantivo sia la parola-chiave, che centra su di sé il significa­ to (autosèmantica, diceva Brentano), e trattare tutto il resto come contorno, in una sorta di specificazione di per sé inessenziale, perché dipendente da quella, se non fosse che c’è una significativa omissione, che spicca proprio per la sua assenza: che ne è del momento sinsemantico, del senso della frase per intero? Nella questione della priorità della sostanza sugli accidenti non sorge il problema del corrispettivo del verbo, che pure nella formazione del sintagma, la sequenza di parole che esprime l’intero senso del dictum (o meglio il aeztóv, per gli Stoici), ha un’importanza non inferiore a quella del sostantivojo VjTOXEÌlievov. Difatti tutte le teorizzazioni più antiche del sen­ so grammaticale-speculativo del discorso insistono sul duale, quasi un’en­ diadi, di òvoua e òfjpa, di sostantivo e verbo. Anche Platone, anche Aristo­ tele fanno occasionalmente uso di tale dizione già omologata. Ma in Aristotele c’è un’altra teoria, più esplicita. Nella dottrina delle categorie egli pone al primo posto la sostanza, l’oùoéa, ossia ciò di cui si parla nel caso nominativo; quindi vengono le inerenze, gli èvujtào'/pvra della sostanza, il jtoCov e il JtOOÓv, il quale e il quanto di essa, cioè gli aggettivi o le altre occorrenze funzionalmente simili; solo al terzo posto si menziona il verbo come potenza o forza, óùvapig, che può essere attiva o passiva, jiqó.ttov o jrao'zov. Infine seguono le circostanze, tò. èv irvi, lo spazio o tóttoc; e il tem­ po o ZQÓvog; e chiude la rassegna (a parte l’abito o è'/ov e la situazione o zeloOat, che richiedono altro discorso) la menzione della relazione, TÒ jTOÓc; tl, di ciò che sopraggiunge ma non altera la sostanza. Nell’elenco delle categorie intese come determinazioni ontiche, o Seinsbestimmungen, la collocazione del verbo al terzo posto rompe la simmetria paritetica dell’endiadi òvop.a e Ònpx/, introducendo un criterio di priorità che si palesa nella collocazione della relazione (esterna) all’ultimo posto. L’azio­ ne consignificata dal verbo insieme col tempo e il significato nominale (ma

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queste due ultime determinazioni ci appaiono oggi accidentali, dovute cioè alla contingenza della lingua) viene ulteriormente appiattita sull’apofantico, ma dovrei dire sullo schema cosale, dal fatto di esser ridotta da a òùvapic,, cioè da azione (in atto) a facoltà o capacità di agire (in potenza): che è come raffigurarsi una molla sì contratta, ma inscatolata col fermo. Nelle categorie il verbo non viene cioè afferrato nella sua peculiarità di categoria semantica. Alla dottrina delle categorie semplici consegue la teoria classica della sostanza, l’ontologia come ousiologia, che conclude a un trattamento uniforme di tutte le determinazioni ontiche, differenziate solo dalla diversa forza con cui sono trattenute dall’oùota. Aristotele rimedierà ai difetti di questa teoria (statica) della sostanza con la teoria (dinamica) dell’atto e del­ la potenza; ma, benché a vario titolo immaginabili, non si conoscono appli­ cazioni per cosi dire autopoietiche di qucst’ultima teoria alla linguistica, all’a­ nalitica, alla teoria della dimostrazione e in generale all’epistemologia, come peraltro sarebbe stato auspicabile.

7. Per risolvere un accenno sul quale abbiamo alquanto indugiato, ma senza farlo seguire da una clausola esplicativa, ora finalmente siamo in gra­ do di dire, sia pure approssimativamente, che: (z) se la categoria semantica del nome trova il suo adempimento nel denominato, sia esso il riferimento, l’oggetto o il suo riscontro simbolico; invece (zz) la categoria semantica del verbo, assunta come la contraria, non ha un soddisfacimento esprimibile per mezzo dei termini suggeriti da quel modello interpretativo, in quanto essa è non autosemantica, ma sinsemantica, e quindi ha una prestazione unitiva, olisticae, in termini di espressione, mimetica. Il che è quanto dire che il ver­ bo significa o, meglio, consignifica in altro modo che il nome. Il che, a sua volta, è un discreto truismo o dovrebbe esserlo; se non fosse che è fin trop­ po facile dimenticarsene. Il verbo dunque esprime non una denotazione, ma l’unione stessa con l’azione, la partecipazione o l’imitazione di essa con altri mezzi che quelli poictici. Diremo via via meglio di che si tratta, con l’ausi­ lio di esemplificazioni. E diremo anche che nome e verbo non sono le due uniche categorie semantiche, solo i due estremi della semantica nominale e della sinsemantica proposizionale, tra i quali a mo’ di subcontrari si posso­ no inserire molte altre categorie distinguibili qualitativamente: per esempio l’aggettivo, il participio, l’avverbio, l’articolo. Vogliamo ora lasciar cadere per un po’ questo discorso e riprender quel­ lo sull’immaginario. 11 legame, se si ricorderà, era dato dal fatto che per giu-

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dicare della realtà si devono usare le categorie; e che queste richiedono l’uso di schemi trascendentali per mediare, anche attraverso le categorie semanti­ che, tra l’intelletto e l’immaginazione. Ora con quest’ultima, la facoltà imma­ ginativa, dobbiamo intraprendere un trattamento simile, anche se di senso inverso. L’immaginativa non è la facoltà responsabile del libero gioco, in fol­ le o leerlaiifend, delle rappresentazioni disimpegnate, allorché il giudizio, s’intenda il giudizio determinante e il suo prodotto, la conoscenza e infine la scienza, si prende una vacanza. No: l’impostazione del problema, che fu di Kant, e prima di lui di Burke, e di Bacon tra gli altri, ha dei meriti che non è qui il caso di commemorare. Ma il giudizio riflettente non è esattamente il duale di quello che lo è sul serio, il determinante; perché, se è vero che entrambi si fondano sulla rappresentazione, che è il proprio della facoltà immaginativa, la loro origine comune è anteriore a ogni successiva specializ­ zazione. Ed è difficile a questo proposito rintracciare la retroazione dal giu­ dizio acquisito come vero, anzi scientifico, agli abiti rappresentativi pregiu­ dicati come reali, in opposizione a quelli che appaiono come dichiaratamente fantasiosi. Prima di tutto, perché la linea discriminante non è così netta come sembra negli esempi tipici scelti ad hoc, poi, perché in epoca di grandi rivol­ gimenti, anche scientifici, tale linea è irregolare, né appare opportuno farla valere in base all’abitudine o al pregiudizio; e infine perché, prescindendo dal feed-back retroattivo, le rappresentazioni, come immagini, non portano la firma sopra, la signatura dell’appartenenza, o meno, alla realtà. Il ricorso ad Aristotele non suggerisce alcuna alternativa transitabile. Come psicologo egli dice che la sensazione, l’aioOriaig, è sempre vera; il giudizio successivo, costruito in base a essa, non può infatti contraddirne le risultanze, per essere in se stesso pure vero. Ma la sensazione non viene mai sola; vi si accoppiano, nell’empiria o conoscenza sensibile, la memo­ ria (|1VT|P1) e la rappresentazione (cpavraota). Ora la pvqpq, così come l’t/.ioOqotc, va sempre bene; salvo il caso di disfunzioni e che le si richieda­ no prestazioni esorbitanti. Mentre la (pavraoia, per confronto col giudizio, può esser detta vera o falsa. Perciò l’èpjtEtotc/., essendo intrisa di cpaviaota, non sempre è un fondamento attendibile. Qui Aristotele ci pianta in asso, anche se noi vorremmo sapere altre cose. Per esempio, se la rappresenta­ zione è una facoltà immaginativa adattabile alla funzione conoscitiva, ma di per sé indipendente da essa. Nel qual caso non sarebbe che l’opera prete­ rintenzionale del medio, il quadro offerto dai (pavidopaia, ciò che può indurci in errore, posto che la realtà non ci sia altrimenti accessibile. La fan­ tasia potrebbe avere quale compito precipuo quello di registrare degli stati

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interni, propriocettivi, senza riguardo a funzioni di verosimiglianza; e solo in un secondo momento esser stata filogeneticamente raccordata a tener conto delle informazioni di sensi, come la vista e l’udito, che sono indub­ biamente più esterni del tatto: come pare dimostrare l’esempio di Helen Keller. In caso contrario la fantasia dipenderebbe solo da una capacità com­ binatoria delle immagini che, comunque sorte, si lascerebbero così trattare da un’immaginativa sfrenata, scriteriata, dominata dal bisogno di rimesco­ lamento. Non sembra, quest’ultima, una prospettiva promettente; anche se tuttora professata da alcuni indirizzi o poetiche d’arte contemporanea. In conclusione, è per questo che abbiamo distinto immaginativo e immagina­ rio} riserbando il primo termine al gioco combinatorio di unità fantastiche, cioè al di fuori di ogni impegno cognitivo, e l’altro termine, l’immaginario, al fatto che, come nel mito platonico della caverna, non possiamo fare altro che guardare delle immagini proiettate quali ombre sulle pareti. Non c’è una via che porti a veder le cose come sono, alla luce del sole. Ci sono casi in cui si verifica l’emergenza dell’immaginario come tale, e anche se poi questa esperienza viene considerata normale, restano tuttavia le tracce della sua origine stupefacente, meravigliosa, straordinaria. A que­ sto proposito è la ipt’/il che si segnala come capace di isolare nella sua mira­ bile singolarità l’esperienza del Oaupaoióv. Che cos’è, in questo senso, l’a­ nima? Non è facile rispondere, ma bisogna dire che essenzialmente l’anima è ciò che anima. Il medio dello psichico è l’immaginario, non il gioco delle immagini ma la loro intrinseca dinamica; così come il medio della fisica sono gli scambi di energia tra assetti differenti, o quello della linguistica il con­ corso dei segni nel mutevole effetto del discorso. Non basta dire che lo psi­ chico ha un nuovo grado di libertà rispetto al fisico, così come lo spirito oggettivo (la lingua, appunto) supera a sua volta il primo. A me pare che l’e­ mergenza del medio, cioè dello psichico rispetto al fisico, in primo luogo, ma poi anche di ogni soglia di stacco qualitativo, consista nel fatto che ogni diverso medio possegga una sua propria scansione, articolazione e deter­ minazione delle unità di cui si compone. Nel passaggio da un medio all’al­ tro, se quel che dico è vero, si darebbe una brusca destrutturazione, segui­ ta da una ristrutturazione secondo il nuovo modulo. Nell’esperienza specificamente psichica è il fenomeno noto come Gestalt-switch. Il fatto è di comune dominio e non occorre soffermarvisi. L’idea che affiora balugi­ nando è che la Geslall rientri in un tentativo spontaneo di definizione e di articolazione delle unità psichiche di base, al di sotto delle quali parliamo di fatti fisici e, al di sopra, di costruzioni altrimenti definibili. È interessante

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vedere come si può trovarne un riscontro partendo da Aristotele, per riconsiderarne certe peculiarità. In Aristotele, come noto, non esiste né il concetto né un’espressione cor­ rispondente a Gestalt. Ma questo non è affatto deterrente. La parola Gestalt, badando al suo senso, si può rendere con «momento figurale» della perce­ zione, ossia della gcnTCtoia collegata con l’atoOqoig. La parola «momento» (momentum), in filosofia, ha due significati; uno è quello di «aspetta un momento!», e consiste nel rappresentarsi il movimento del tempo come arrestato in un’istantanea; l’altro (che in tedesco si dice das Moment, per distinguerlo dal primo, der Moment) si può rendere non troppo bene con «punto di vista», alludendo al movimento del pensiero, ci si sposta secon­ do l’astrazione o il criterio di rilevanza adottati. Si potrebbe quindi dire, senza tradire Aristotele, che nella sensazione c’è un momento fantastico, © immaginario, non riducibile alla ópoimotc o adaequatio con la realtà. Ades­ so non siamo più così sicuri che in Aristotele non ci sia un momento fanta­ stico corrispondente al figurale. Si consideri per esempio il concetto di iioocpi (forma) e in generale di ’ev (uno), inteso come ciò che dà unità, quin­ di forma in senso lato determinata, al contenuto della percezione, notando come tali concetti non rientrino nell’elenco delle categorie, né tanto meno tra le loro specificazioni. Il concetto dell’z/wo, e così pure quello di forma, se li si intende in maniera trascendentale, non sono categorie per il fatto che si predicano non come sinonimi (del genere sommo), ma analogicamente (allo stesso modo per tutti i generi). Si potrebbe quindi dire che il medio dei (pavraopctTa, al quale si affaccia la sensazione, si articola in unità proprie, che dipendono non dalle cose esistenti nel mondo, i corpi così individuati, ma da princìpi di unità e di forma che scandiscono in maniera autoctona la potenziale molteplicità dell’immaginario.

S. L’anima è ciò che anima. La meraviglia che desta ciò che è animato è che può possedere una psiche diversa dalla mia. In origine anzi tutto quel che si muove è animato di vita psichica propria, mia o di altri. Poi uno impa­ ra che i corpi si dividono in animati e inanimati; e ci resta male. Il panpsi­ chismo è bello, l’ilozoismo è solo ingenuo. Risaliamo all’esperienza origi­ naria, omettendo l’uomo primitivo c le sue credenze. Il fenomeno di base, molto banale, consiste neU’animare o no i corpi intorno a noi del mondo ambiente. Questo non dipende da credenze preconcette: e il mondo stesso che, se non ci si pensa, appare fatto così. Per esempio di notte mi va d'al­ zarmi, muovo dei passi senza accendere la luce e batto a tutta forza lo stin-

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co contro il piano del tavolino; per tutta risposta gli allungo un calcio che reduplica il male che sento senza danneggiare minimamente l’odiata cagio­ ne d’inciampo, che io per un attimo ho scambiato per un nemico o comun­ que qualcuno che l’ha fatto apposta. Entra qui evidentemente in gioco un principio di analogia^ per cui io induco dall’interruzione della mia azione l’esistenza di una forza esattamente contraria, intenzionale e animata in senso perverso; e l’attribuisco per un momento alle cose che mi circondano, fin tanto che non sopravviene il ricordo che stanno lì, perché ce le ho messe io. Forse l’uomo primitivo era ancor più propenso a credere nell’analogia, ma bilanciava l’irritabilità col fatto di avere pochi oggetti contro cui urtare. Ci viene però detto che l’atto critico con cui distinguiamo gli oggetti in animati e inanimati comincia a un’età già considerevole dell’infanzia. È inutile dire che tale distinzione è in sé arbitraria: sono illuminanti in proposito le discus­ sioni teoriche se, disponendo di un computer abbastanza sofisticato, gli attribuiremmo o no un’animazione indipendente, per esempio HAL 9000 di zoo/.- Odissea nello spazio. Chiaro che, se dovessimo apprendere tale distinzione come epistemologi adulti, anziché per abitudine e pregiudizio infantili, ci troveremmo talvolta in serie difficoltà. Da queste discussioni si ricava da ultimo la persuasione, vagamente depressiva, che forse nemmeno noi stessi, mentre agiamo, siamo veramente animati. Senz’altro più conveniente è partire da uno schema d’azione, direttamente, e quindi ricavare dal confronto con esso le specificazioni rilevanti. Parlerò indifferentemente del modo d’agire del gatto e del cane, della fon­ tana, dell’albero e della pietra semisepolta lì accanto, dell’erba, del fiume, dell’aria e della luce; osserverò con molta attenzione, in compenso, il mio comportamento, consapevole che sono io che distribuisco la mia attenzio­ ne in modi a volta a volta diversamente circospetti. Di qui trarremo gli auspici. Se si tratta per esempio di una testuggine che divaga distrattamen­ te per il giardino, devo fare attenzione io a non esser distratto, o altrimenti rischio di inciampare c farmi male. Se il cane mi infastidisce perché vorreb­ be che lo portassi fuori, sono io che devo pensare all’investimento di ener­ gie che ho speso nell’educazione di quest’animale e fare attenzione a non contraddire l’impegno preso da tempo. Per veder crescere l’albero, in fon­ do non si richiede altro che io, di tanto in tanto, lasci il cannello dell’acqua aperto. La pietra che affiora accanto all’albero senza dar fastidio, se la logliessi, certo, tutto starebbe meglio; ma è lì, c lì la lascio stare: non si smuove, chissà com’è profonda, e che fatica ci vorrebbe. La realtà del mon­ do, come si vede, si può scalare secondo l’entità degli investimenti richiesti

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dalla sua differenziata campionatura. Anche se mi riferisco a un figlio, per questo modo di valutare non è determinante l’affetto, quale riflesso emoti­ vo, ma piuttosto la consapevolezza di un impegno che dura per tutta la vita, e anche oltre. Ricordo un’osservazione, attribuita per scherzo a uno dei miei maestri perché calzava col mood del personaggio, il compianto Oggioni, secondo cui una moglie, l’avrebbe detto Aristotele, doveva essere come un cappotto: cioè durare a lungo e tenere caldo. Naturalmente anche uno stato emotivo può essere apprezzato in questo modo, per quanto in esso dipende da un investimento di energie in un lungo periodo. Il mondo è l’insieme degli enti esistenti, i corpi, che io posso classificare distinguendoli in animati e ina­ nimati; ma non è detto che debba farlo necessariamente, perché il mondo si può altrettanto bene definire come l’insieme degli oggetti d’uso, che si dif­ ferenziano secondo l’investimento che ciascuno richiede. Protagora diceva che di tutte le cose è misura l’uomo; ma l’espressione «di tutte le cose» reci­ ta navTcnv /OìipaiCDV, che renderei con «di tutti gli oggetti d’uso» pÉTQOV EOTtv avSpauroc, anche se suona palesemente tautologico. Ricapitolando, un primo momento da mettere in rilievo nella coscienza dell’immaginario è che la auvetóìiaic si compone di eiór), ideae fantasmatici, irreali dal punto di vista del loro essere. L’essere dell’idea è certamente qualcosa e non nulla; l’importante è aver ben chiaro in mente che non è ciò per cui sta. Il fatto che stiano per qualcosa, nel senso ancora presimbolico che vogliano dire qualcos’altro, è una caratteristica fondamentale delle idee, ed è questo «essere del non-essere» che costituisce, appunto, l’immagina­ rio. Ciò è sufficiente a scalzare la concezione ingenua di una corrisponden­ za tra pensiero e realtà. Tale concezione può ripresentarsi sotto forma di idea fantastica, che mantiene la corrispondenza ma non la verosimiglianza. Secondo questa teoria la corrispondenza può mantenersi se non si preten­ de una correlazione continua tra parole e cose, ma si riconosce che allo sco­ po è sufficiente una imbastitura più rada e intermittente, come tra proposi­ zione per intero e stato di cose significato: cioè tra Xóyog (o Xexióv) e il Jtoàvp.a sottinteso Oìipatvóp.Evov. Questa interpretazione del rapporto tra le idee e le cose si trova in Platone, nel Sofista (come rettificazione c anzi palinodia delle fantasiose concezioni del Cratilo), quindi esse furono ripre­ se e sviluppate coerentemente da Aristotele. Val la pena di dire che, anche se raramente il problema viene posto in questa maniera, la sua soluzione vie­ ne naturalmente presupposta da ogni realismo di senso comune. La teoria della corrispondenza come imbastitura a punti radi c irregola­ ri in effetti riesce a superare l’obiezione per cui le idee sono immaginarie;

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per essa basta che si dia coincidenza di tanto in tanto, non importa se il fon­ damento è in sé fantasmatico: anche le lettere dell’alfabeto non hanno alcu­ na somiglianza coi suoni che loro corrispondono. Non intendiamo qui con­ futare i presupposti della ópoiojoiq: solo vorremmo degradarla da teoria a dottrina, poiché la tecnica della corrispondenza per punti saltuari è passibi­ le di interpolazione, ma non di extrapolazione. Eppure proprio questo, che comporta la spiegazione della relazione d’impuntura in sé, sarebbe quanto richiesto da un’autentica teoria. La sollecitazione a una critica ulteriore è offerta dal fatto che la corrispondenza richiede una coincidenza tra unità, ciascuna definibile nel proprio ambito. Le unità del linguaggio sono, ponia­ mo, le proposizioni; e quelle delle idee le scansioni dei momenti figurali, o qualcosa di simile. Ma quali sono le unità di ciò che succede, tò ivy/avov, nel mondo? La coincidenza non può esser creata ad hoc dallo stato di cose richiesto dal significato, sospetto che inerisce intensamente all’accadere se inteso come irpcr/pa tò oqpaivópevov. Ogni fantasia ammette la proiezio­ ne di sé nel significato. In ogni modo la dottrina della corrispondenza non contraddice la tesi della fantasmaticità delle idee. Un secondo momento importante, nell’analisi dell’immaginario, è l’in­ combenza del carattere d’azione che inerisce alle idee in quanto fantasmatiche. Ciò non esorbita dall’ambito della ovve(òì]oiq, non è detto che le idee debbano costituire una galleria di quadri, col cartellino, ma certo vi aggiun­ ge una forte connotazione pragmatica. Non è certo peregrino che le prime idee a essere isolate, nella loro pura concavità, siano state quelle di àoETCti, quali virtù o forze: tale è infatti il contenuto dei dialoghi di Platone detti «socratici», la definizione cioè di idee di pura JtQà^iq. Abbiamo detto più sopra che la loro determinazione rende tali idee concave, ossia identificabi­ li separatamente; secondo l'uso aristotelico che contrappone al concavo il camuso, nel senso che non c’è una camusità separabile dal naso a cui com­ pete. Ma qui non vogliamo certo chiederci se la sia un’entità sepa­ rabile dal resto delle idee, sia pure nella fantasia.

9. Anche nella percezione, se io per esempio percepisco questo tavolo come verde, quel che dico è già compromesso da una reificazione. È il momento dell’appercezione, dirci, che mi obbliga a distinguere la compo­ nente puramente verbale dcll’appercepire dal suo correlato esterno, deno­ minabile c cosale: il panno verde, il panno che è sul tavolo, il suo colore ecc. Nell’appercepire, l’evidenza si restringe al solo verbo, come nel cogito car­ tesiano. Ora io vorrei riportare all’indietro questo dualismo, riavere l’idea

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nella dimensione originaria della pura percezione, senza appercezione, pri­ ma d’ogni altra operazione. Ma non si può dimenticare che, fin dal momen­ to della rappresentazione, questa è una percezione esterna; lo è anterior­ mente a ogni giudizio che ne precisi il rimando simbolico. Nel dire che verde è il tavolo, verde il panno che sta sul tavolo, verde è l’impressione esterna di un panno che aderisce per sovrapposizione al tavolo e cosi via, cioè nel proporre all’attenzione dell’interlocutore questa specie di sequen­ za monotematica, vengo a costituire l’oggetto tavolo (per chi non l’avesse capito, nascosto dal panno verde), che né io né l’altro vediamo, come un 'mntnìvno, come si djcejilosoficamente, cioè come una cosa pensata, ma non veduta né in altro modo sentita. L’esperienza percettiva che abbiamo cerca­ to di descrivere ha un senso che, se ci siamo intesi, può esser generalizzato per tutte le percezioni esterne. Le cose in sé che noi crediamo di vedere, di toccare, di sentire hanno sempre un panno, non importa di che colore, che le sottrae alla nostra diretta apprensione; non solo, ma riflettendo su ciò >*- diventa evidente che l’unità dell’oggetto al quale si riferiscono i vari scorci percettivi, gli adombramenti o meglio «schiasmi», è una creazione dell’im­ maginazione teleologicamente orientata irrtàl senso. Ma non intendiamo qui addentrarci in tale problema, trattato da Husserl sotto il tema delle Abschattungen (schiasmi) con cui i fenomeni vengono percepiti in relazio­ ne all’oggetto noumenico e da Meinong sotto la rubrica dell’oggetto incom­ pleto. Questo è un argomento che abbiamo già trattato parlando del modo di datità dell’oggetto, su cui resterebbe ancor molto da dire. Qui dobbiamo cercare di capire in che maniera nella stessa percezione esterna, a parte la questione relativa al noumeno (cioè, secondo la fenomenologia di Husserl, al noema), si manifesta il carattere della percezione interna, inteso come tratto immaginario e d’azione. Nel dire la mia percezione che il tavolo è verde, nel fissare la mia atten­ zione sull’attributo, io l’ho riempita di questa sensazione di verde, io stes­ so sono diventato verde nel mio atto percettivo. C’è anche il tavolo, s’in­ tende; ma ora questo è rimasto sullo sfondo, da cui emerge solo come tavolità (o ToaTtE'CÓTqg) di un tutto globale. Per parte mia, ho subito la viridità di cui tematicamente mi sento affetto, vorrei dire «affidato» {Rafficere, se ci fosse in italiano). La percezione interna implicita in quella esterna si mette in evidenza modificando in sostantivo l’aggettivo (da «verde» a «viridità») e trattando il sostantivo da aggettivo sostantivato (da «tavolo» a «tavolità»). Rilevare la categoria semantica dell’aggettivo vuol dire percor­ rere la via della contrarietà (o meglio, sub-contrarietà) che dal sostantivo

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conduce, all’altro estremo, al verbo. Se volessi mettere in evidenza diretta­ mente l’azione che vi è implicita, dovrei dire che nel percepire del verde, io virideggio. Questo nel nostro esempio fa un effetto un po’ strano, anzi è francamente comico. Ma non è così, credo, in talune liriche di D’Annun­ zio, dove si parla di «verde vigor rude...». Ci sono però percezioni che pertengono più naturalmente all’azione, per es. «corro», «vado», «canto», ecc. Esiste anche una classe particolare di ver­ bi, in verità piuttosto estesa, che esprime proprio l’impegno nell’azione dichiarata: se io per esempio dico che non mi accosterò più a un tavolo ver­ de, ciò a cui mi impegno è la dichiarazione contenuta nella promessa. La promessa è un moto dell’animo motivato da un certo scopo che si realizza per tutto il tempo del suo mantenimento. È vero che ci sono promesse che non vengono mantenute, che sfumano dopo un po' po’ di tempo; ma esse sono pur sempre promesse, animate più dal sospiro della voce che dalla determi­ natezza dell’azione; conoscendo il soggetto, diciamo di non stupirci se tale è il loro modo tutto verbale di tendere una mano. Nel linguaggio della 1 comunicazione, accanto al momento obiettivo costituito dall’enunciato, cioè dal contenuto enunciativo del discorso, c’è sempre più o meno esplici­ to anche un momento autoreferenziale che notifica, rende noto o dichiara la situazione, l’impegno o la richiesta del soggetto che attua la comunica- • zione. A questa funzione linguistica che è normale nella comunicazione, c che si risolve in un senso diretto retroattivamente su chi la emette, e cioè autoreferenziale, si può dare il nome complessivo di parte dichiarativa (nel senso di notificante) del discorso. Essa comprende le notificazioni vere e proprie, ma anche le domande, le preghiere, gli impegni, le promesse, le intenzioni e, insomma, lo stato d’animo dichiarato che accompagna e spes­ so sostanzia l’enunciato di una comunicazione. Questa controcorrente autoreferenziale, se è in qualche modo impegnativa per il soggetto, si dice che è performativa dell’azione espressa con la frase (si può ricordare il signi­ ficato latino di perficore, che in quest’uso ci ritorna dall’inglese: si tratta del senso fattitivo, che si realizza col fiato della voce non appena se ne dichiari l’intenzione). Più semplicemente si dice performativo quel significato del quale l’e­ spressione verbale dell’atto realizza l’atto stesso. Per esempio nel caso del matrimonio dichiarare di prendere per coniuge una certa persona significa anche farlo. In generale nell’uso performativo l’espressione verbale dell’a­ zione, con cui si dichiara l’intenzione di compiere un certo atto, vale anche per l’atto compiuto. La performatività tratta dell’aspetto meno fisico, meno

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corrispondentistico del significato linguistico; ma non per questo esso si mostra, come carattere, elusivo. Se ilperficere viene collegato, a partire dal linguaggio, con l’animazione, cioè quel momento immaginario, suppositi­ vo e analogico per cui la coscienza considera animati 1 suoi termini di rife­ rimento, io dovrò di conseguenza modificare lo statuto della mia credenza relativo a certi oggetti. Come si è già detto, in proposito c’è una circostan­ za che viene spesso presentata come provocatoria. È il caso in cui vengo messo in condizioni di parlare con un computer, di fare domande e di rice­ vere risposte in maniera congruente, e mi si chiede qual sia il mio atteggia­ mento al riguardo. In particolare, mi si chiede se io mi senta di assegnare al computer una presuntiva alterità, analoga a quella che assegno agli altri interlocutori umani; oppure se mi risulta evidente, per qualche peculiarità, che non è altro che una macchina disegnata per produrre degli effetti in tal senso sorprendenti. Mi pare evidente che, se tale apparecchiatura l’ho pro­ gettata io, anche senza averla materialmente costruita, il suo modo di ope­ rare mi risulterà familiare al punto di prevedere le sue mosse successive: in tal caso non gli attribuirò alterità di sorta. In caso contrario la mia decisio­ ne riuscirà perplessa in proporzione, o addirittura incline all’affermativa; ed è giusto che sia così. È quindi chiaro che la questione, se posta in tutta la sua radicalità, è semplicemente insolubile. Se una macchina in pratica fa tutto quello che farebbe un uomo, è un altro uomo: sarebbe razzistico discrimi­ narla solo perché è fatta di metallo e di plastica, anziché di ossa e di carne. L’argomento è una generalizzazione di quello che si fa valere per il colore della pelle o la forma dei capelli; la sua struttura è identica. L’argomento offre tuttavia il fianco a due fatali obiezioni. La prima pone in rilievo il difetto di universalità, o comunque di uniformità nelle risposte, del test corrispondente. In effetti, uno che sia pratico della progettazione dei computer, scoprirà più facilmente il «trucco» di un laico non solo igna­ ro, ma per di più ingenuo. E un’attribuzione di alterità non è cosa che si possa decidere a maggioranza, sia pure assoluta (1/2+1). La questione pro­ posta si annuncia quindi come inconcludente: non è detto che un candida­ to vincente al primo ballottaggio lo sarebbe anche, previa esauriente discus­ sione, nel secondo e definitivo. In ultima analisi il giudizio determinante sarebbe quello del progettatore del computer in esame, com’è del resto ora: e non mi risulta che sia stata posta la questione. I computer sono macchine, e basta. Ma possiamo dormire tranquilli? La seconda obiezione rovescia l’argomento, e domanda se, per converso, noi siamo disposti a depennare dalla qualifica di uomini tutti quelli che, pur essendo fatti esteriormente

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come noi, mostrano un comportamento provatamente prevedibile in tutti i particolari, date certe condizioni. Infatti uomini, il cui comportamento risulti scientificamente prevedibile, anche ignorandone la meccanica del fun­ zionamento, si potrebbero classificare tra gli automati. In tal caso si potreb­ bero considerare come sub-uomini e, pur senza pensare in termini di Endlósung, ci si potrebbe comportare nei loro confronti come nel caso degli psicopatici, degl’infanti o dei selvaggi della Nuova Guinea o del Mato Gros­ so (se ce ne sono ancora). Questo accenno mostra il difetto dell’argomen­ to. Prima di tutto queste categorie possibilmente automatiche di persone non credo che supererebbero il test, se concepito scientificamente, della totale prevedibilità del loro comportamento. In secondo luogo, l’esame di maturità dell’umano dovrebbe comprendere un periodo più o meno lungo di tempo, e allora lo psicopatico può guarire, l’infante imparare a parlare e il selvaggio addomesticarsi. Infine, tutti nella maggioranza dei casi mostria­ mo un comportamento prevedibile, specialmente le persone di forte carat­ tere. Qualsiasi test automaticamente favorirebbe i temperamenti tenden­ zialmente isterici, se è giusto definirli come quelli di cui è prevedibile soltanto l’imprevedibilità. In effetti è impossibile distinguere dall’esterno l’autodeterminazione finalistica, nel senso di Aristotele, dal determinismo meccanico o causale nel senso di Democrito. La differenza non è osserva­ bile, essendo data dall’animazione, che noi attribuiamo simpateticamente all’azione nel primo caso, e a cui ci ricusiamo completamente nel secondo, non per cattiveria, ma perché non avrebbe senso la partecipazione effusiva a un meccanismo.

io. Resta da spiegare perché la coscienza tenda di per sé, sua sponte, all’a­ nimazione. Questo fatto sembra arbitrario, nel senso che può darsi che uno abbia addestrato la sua mente a inibire tale moto di partecipazione unitiva. Non discutiamo sul fatto che, da un punto di vista pedagogico, può essere utile un atteggiamento più circospetto; qui ci interessa solo il fatto che in praxi noi ci serviamo di questa capacità proiettiva e unitiva insieme, cioè partecipativa, della coscienza. Diremo anzitutto che l’animazione è una pre­ stazione della coscienza che attinge all’immaginario. Si tratta di un gioco di specchi, per cui considero a me uguale c cioè «doppio», non ogni uomo indiscriminatamente, ma solo chi si dimostri profittevole di dialogo, uno che sappia ascoltare a intervenire a sua volta con discorsi congruenti. Non c’è bisogno di fare il punto con un test sul computer, per far questo, né di precisare quali criteri si intendano seguire, è una pratica di tutti, e che

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seguiamo inconsciamente nel coltivare le amicizie. In negativo è anche quel che succede in un vagone di seconda, quando giudichiamo più convenien­ te stare zitti e non dare adito a una conversazione che può lasciarci ama­ reggiati per la nostra stessa correità partecipativa. Non è questione di lignag­ gio d’ordine culturale o cose simili; non è che tutti debbano sapere il Secondo teorema di Godei o, se no, scomparire. Per quel che mi riguarda con le persone prevedibilmente noiose io quasi automaticamente mi com­ porto come una pietra, faccio finta di esser qualcosa che essi scambino per una rupe; ma nel contempo sperando, ecco la mia insospettata socialità, che non si mettano a fare delle scalate su di me con gli scarponi chiodati. Come si vede, un minimo di partecipazione non manca mai, anche se in certe occa­ sioni è bene ridurlo al minimo. =* Abbiamo con ciò parlato della coscienza come simpatia (anche col segno negativo, l’antipatia), che è ciò che produce sul medio immaginario i feno­ meni della partecipazione (della pÉOeSig) e dello sdoppiamento nell’altro e simile (Valter ego). In questa attività di animazione fantastica la coscienza è meno ouveìòìioi^ e più Gewissen, o coscienza morale. Nessuno è mai riu­ scito a fare entrare in gioco questa specie di coscienza senza trattare, come fa Hume, della simpatia. Come si è detto, c’è la coscienza come quadro di riflesso, la consapevolezza; e c’è la coscienza come sdoppiamento morale, come coscienziosità o, cogliendo un po’ malignamente il lato caricaturale, lo scrupolo. Non vorrei parlare di questo aspetto della scrupolosità, i cui riflessi non del tutto positivi sono penetrati financo negli usi linguistici. Ma vorrei rilevare come nell’esortazione «sii cosciente»» si palesi un’ammoni­ zione a comportarsi in maniera del tutto opposta alla normale spontaneità, da cui deriva tra l’altro la propensione partecipativa della coscienza simpa­ tetica. Si tratta di quel paradosso della comunicazione che da Batcson, e quindi da Watzlawick e altri della Scuola (psicologica) di Palo Alto, viene definito come prescrizione di doppio legame, ed esemplificato con il para­ digma di «sii spontaneo». Tale illocuzione, se la si assume nel suo pieno significato, contiene la doppia contraddizione di un’antinomia. Infatti, se io obbedisco all’ingiunzione di esser spontaneo, ne risulta un comportamen­ to che è tutto fuorché spontaneo; se invece sono naturalmente spontaneo, quel che faccio non risponde alla prescrizione. Dall’imposizione di un com­ portamento, che si manifesta nella prescrizione paradossale del sintomo nevrotico, la Scuola di Palo Alto deduce poi importanti conseguenze per la terapia e la pragmatica della comunicazione. Tutto questo qui non ci inte­ ressa; noi prendiamo la nozione di doppio legame come sintomo linguisti-

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co di un più profondo nesso, o semplice legame, che sussiste tra quella coscienza che si costituisce nella consapevolezza che il suo materiale non può essere che immaginario, e la coscienza che assume, indipendentemen­ te dal momento fantasmatico, una funzione, direzione e prescrittività mora­ li. Per il momento ci accontentiamo di osservare che il «doppio legame» dipende da un più riposto, fondamentale e semplice legame. Si è già detto della polemica tra Antistene e Platone a proposito del quid della comunicazione, se cioè esso sia presupposto o no, e quali conseguen­ ze nel caso se ne possano trarre. C’è un altro risvolto di tale discussione, in realtà il suo argomento di fondo, ed è a proposito della coscienza come coscienza morale. Nei confronti delle controdeduzioni di Antistene, Plato­ ne sostiene l’attività rilevante della coscienza morale come principio regolativo, per dirla con le parole di Kant, che l’idea stessa dell’etica impone nel determinare le proprie azioni. Che cosa si intende con principio regolativo, e in che senso esso risulta determinante in sede etica? Il nostro ricorso alla terminologia kantiana si spiega, anzitutto, con la maggiore comodità argo­ mentativa che offre una discussione impostata su un netto dualismo, come quello di «regolativo» e «determinante», nei confronti di quelle che risen­ tono delle complicazioni dovute all’uso di schemi di scambio reciproco, cioè interazionali, o di pluralismo indefinitivamente vario. I risultati otte­ nuti usando un riferimento duale si possono poi sempre rifondere in quel­ li proporzionati a ogni altro schema. Il dualismo, abbiam detto, contiene già l’infinito di tutte le sue inutili moltiplicazioni. Un principio regolativo s’in­ tende tale quando serve a spiegare la scelta preferenziale, tra due idee, di una di esse; ma non può mai essere inteso in maniera determinante, cioè causa­ le, di un fatto fisico da parte di un’idea. Tra fatti e idee vige cioè un chiaro ' divieto di trasgressione categoriale (di pEiapaotc eie; aXko yévoq) e, se di causalità si deve parlare, allora ciascuna deve valere nel suo ambito. Ora Platone vuol sostenere, per lo meno così è stato interpretato, che l’emergenza di un principio regolativo in sede morale vada di pari passo con la svalutazione esistenziale del mondo fenomenico e quindi, per passaggio al limite, diventi determinante in senso pieno, con l’azzeramento di una del­ le due categorie. In origine ci sono cioè i due mondi, quello fisico e quello morale. Se si mantiene il dualismo si mantiene anche il divieto di trasgres­ sione categoriale: cause fisiche spiegano i fatti fisici, motivazioni morali quelli morali; non potrà mai darsi, perché l’abbiamo espressamente vietato, che una causa fisica spieghi un’azione morale, o che una motivazione etica sia il movente di un’eruzione vulcanica. Il dualismo si può eliminare solo

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togliendolo. Se si vuol far questo, i casi son due: o si azzera il mondo fisico, riducendolo per esempio a mera apparenza fenomenica; o al contrario si fa 10 stesso col mondo morale, dicendo che esso è un epifenomeno dell’altro. Questo è quanto si lascia onestamente dire partendo dal dualismo che si è detto. Invece i transazionisti fanno di necessità virtù: la trasgressione agisce come una corrente alternata a due poli che s’invertono come minimo a $o Hz. Nella polemica così interpretata la parte del villain spetta ad Antistene, com’era previsto. Ma a me pare che la sua posizione sia equivalente a quella di Platone: se è vero che i due poli, fisico e morale, sono enantiomorfi, sono per ciò stesso anche isomorfi e quindi, prescindendo dal segno, devono dare un risultato uguale. Ora Antistene dice che l’uomo dabbene, 11 quale non fa nulla senza averlo prima considerato attentamente, non ha nulla che lo contraddistingua in positivo dallo scellerato, il quale agisce sot­ to l’impulso del momento. Qui Platone gli dà torto, ma il suo argomento non risulta conclusivo. Eppure sarebbe bastato che si fosse rammentato (per la dottrina della reminiscenza, non importa se l’ha detto dopo) di quanto aveva sostenuto altrove, esser cioè migliore chi pecca volontariamente rispetto a chi lo fa inconsapevolmente, senza volerlo. Vero è che, per evi­ dente influsso cristiano, si è interpretata questa tesi come se fosse parados­ sale, cioè non rispondente al parere dell’autore. Ma non è così; paradossale non equivale a contrario del vero, e il parere di Platone è che chi agisce male con piena cognizione di causa non è peggiore, ma caso mai migliore, di chi agisce male senza nemmeno saper dire perché. Dei princìpi in uso regolativo si dice anche che le idee che vi corrispon­ dono hanno significato normativo. Le idee prese in senso normativo si pos­ sono esprimere con le modalità etico-giuridiche dell’obbligatorio (necessa­ rio), del consentito (possibile) e del né obbligatorio e né consentito (contingente); il parallelismo con la normale grammatica del modale rende quest’uso forse più comodo per il trattamento logico del versante normati­ vo, ma non penso che faccia progredire l’analisi in qualche senso sostanzia­ le. A parte questo, trovo difficile credere in una qualche forza o potenza normativa di certe idee, tale che, una volta pronunciate le parole corrispon­ denti, questa speciale semantica abbia il potere di favorire o inibire una cer­ ta azione. Così posto, però, il problema appare già pregiudicato nel senso dell’irrilevanza dualistica di semantica e psicologia; da un lato ci appare la semantica come studio del significato che di fatto diamo a certe espressio­ ni, e dall’altro la psicologia come studio, in questo caso, delle volizioni e delle parole che impiegheremmo per esprimerle quando prevediamo o pre-

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sumiamo che agiremo in un determinato modo. Si tratterà pur sempre di un rapporto che, in se stesso, o nei due ambiti correlati, comunque si vogliano definire, appare degno di considerazione e di studio. Ma né il dualismo, né il transazionismo, né le altre teorie destinate a spiegare questo nesso sem­ brano aggiungere alcunché di rilevante in merito. Che da un enunciato su qualcosa si possa dedurre alcunché di rilevante per il dovere essere di quel­ la cosa, è un’enormità talmente madornale da render difficile credere che qualcuno l’abbia mai profferita, se non per distrazione. Ma neppure mi va di credere che, per il fatto che qualcuno (fosse pure il demiurgo) l’ha decre­ tato al modo, più che normativo, imperativo, certe cose debbano inevita­ bilmente accadere. La mancanza di necessità nel clinamen degli atomi non fonda il libero arbitrio, più di quanto questo possa retroagire sui loro casus. Queste considerazioni, come si vede, ricadono insensibilmente nel duali­ smo di esser-di-fatto e dovere-essere; ma a ciò consentiamo di malavoglia, a scopo di chiarezza, essendo convinti che a una soluzione non si giunge con la confusione, per quanto abile, dei punti di vista. Il problema che abbiamo affrontato merita una trattazione più ampia e distesa. Fenomenologicamente parlando la coscienza, sia che si tratti di coscienza trascendentale, coscienza animatrice analogica o coscienza etica, JLuiEistanza unitaria. L coscienza per esempio anche l’obbligo che sentia­ mo tutti di esprimerci in quello che c potenzialmente l’unico e migliore lin­ guaggio, anche se poi ciascuno in pratica balbetta, racimolando alla bell’e meglio un suo proprio gergo, o idioletto. E il fatto, anche se non sembra che tendiamo tutti a esprimerci nello stesso, unico linguaggio universale, costi­ tuisce forse la sola istanza etica convincente, esistente soltanto in tale ten­ denza. Ma probabilmente questo fatto, ancorché minimo, incoativo e dispo­ sizionale, basterebbe a salvarci di fronte a un giudizio ultimativo o universale. Del Purgatorio al quale ci avviamo ci siam fatti un’idea, ma dai «novissimi» speriamo qualcosa di più.

Nota bibliografica

Sulla descrizione cfr. Bertrand Russell, On Denoting, cit., da cui dipen­ de la principale letteratura sull’argomento. La teoria per un certo verso alternativa, poiché parte dalle indicazioni «deittiche», è quella che si trova in Karl Biihler, Sprachtheorie, cit., che considera la òcì^iq una peculiarità non logica, ma linguistica.

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Sull’immaginario, nel senso indicato, cfr. Jean-Paul Sartre, L’imaginaire (Psychologie phénoménologique de l’imagination), Paris 1940; nonché Roman Ingarden, Das literarische Kunstwerk, Tùbingen i960 (1930). Sulle concezioni della scuola di Palo Alto, Cai., cfr. Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin, Don D. Jackson, Pragmatic of Human Communicanon, A Study of Interactional Patterns, Pathologies, and Paradoxes, New York 1967; Paul Watzlawick, John H. Weakland, Richard Fisch, Change, Principles of Problem Formation and Problem Solution, New York, 1974; Jurgen Ruesch, Gregory Bateson, The Social Matrix of Psychiatry, New York 196S. Sui modisignificandi v. Martin Heidegger, Die Kategorien- und Bedeutungslehre des Duns Scotus, Tùbingen 1916, oltre ai lavori storici ben noti sulla «vita dello spirito medievale» di Martin Grabmann. Per il concetto di noesi cfr. Edmund Husserl, Ideen I, cit.; i due sensi del «come», apofantico ed ermeneutico, sono illustrati da Martin Heidegger, Sein undZeit, Tùbingen 1953 (1927). Per le componenti psicologiche e lin­ guistiche del problema dell’essere v. Franz Brentano, Die Psychologie des Aristoteles, insbesondere seine Lehre vom voùg JtouiTixóq, Mainz 1S67; e, dello stesso, Die Lehre vom richtigen Urteil, Bern 1956, e Kategorienlehre, Hamburg 1974 (1933).

Settima lezione Desiderio e volontà La passione e razione, la causa e il fine dell*agire

i. Molto più delle altre, questa lezione è la continuazione e il comple­ tamento della precedente. Il tema ancora in discussione è se nell’uso di un linguaggio idealmente uguale per tutti noi subiamo per contraccolpo una regolazione restrittiva o propulsiva del nostro modo di comportarci. In particolare, ci chiediamo se questa specie di retroazione del linguaggio sul comportamento non sia proprio ciò che ci permette, attraverso il concet­ to di norma, di parlare dell’azione in senso specificamente morale. Per discutere questo problema non ci avvarremo più del dubbio ausilio delle teorie dualistiche o transazionistiche, che pretendono per via d’ipotesi di risolvere una questione che va oltre le capacità intellettuali; ma ci atterre­ mo al metodo puramente fenomenologico di considerare valido, o per lo meno non ripugnante all’intendimento, ciò che s’intona alle nostre cre­ denze preteoretiche. L’unica evidenza che sorregga una credenza è il suo non potere essere, consapevolmente, ingenua; vale a dire che si lasci espri­ mere anche fantasiosamente, ma senza forzature e, dal punto di vista del­ l’udienza, plausibilmente: una credenza cioè non si dice eloquente, ma non ignara di dottrina, in grado di rispondere alle obiezioni che le si fanno via via incontro. «Italia mia, benché il parlar sia indarno ...»: in che modo l’esortazione dei poeti può esser di sprone all’azione? È senz’altro meglio prender l’ar­ gomento dall’altro lato, tanto la sostanza non retorica resta la stessa. E cioè: in che modo gli usi linguistici possono incidere restrittivamente sulle nostre azioni? Prima di tutto, che esista un tale feed-back normativo, che parte dal linguaggio per retroagire regolando il comportamento, mi pare dimostrato dalla stessa ipocrisia: un costume che non ci sarebbe, se non fosse motivato dal desiderio di sfuggire a una sanzione. Più sopra abbiamo parlato della razionalizzazione come falsa coscienza; nell’uso introdotto da Ernest Jones, con ciò si indica l’invenzione di una più o meno plausibile scusa verbale allo

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SETTIMA LEZIONE

scopo di rimpiazzare il motivo reale di un’azione già compiuta._La razio­ nalizzazione serve per non pagare la penale, che sotto forma quanto meno di disapprovazione, si teme incontrerebbe la notificazione della vera ragio­ ne? Col tempo l’adozione di questa specie di espediente può diventare un TEito, e io divento un ipocrita: uno che tende a farla franca, con poca spesa. Ma resta pur sempre un costo; per essere ipocrita, io devo sobbarcarmi alla fatica di assumere costantemente un atteggiamento schizoide di doppia vita, con due registri, due metodi e due facce. Alla lunga non è detto sia una spe­ sa da poco. Questo a mio parere dimostra che anche un uso non patologi­ co, ma cosciente della razionalizzazione, se è in grado di evitare il dazio che si deve pagare per ogni minima trasgressione della norma, non è tuttavia capace di escluderne per intero il condizionamento; questo infatti si fa vale­ re per via indiretta costringendoci alla doppiezza, al collo torto, al sorriso accattivante. Al solito, La Rochefoucauld l’aveva capita una volta per tutte: l’ipocrisia, egli dice, non è che l’omaggio che il vizio paga alla virtù. L’uso del linguaggio favorisce la razionalizzazione, anche se non esclu­ sivamente. Anche i cani, dopo una malefatta, cercano di stornar la punizio­ ne con un contegno fuorviarne e talvolta ci smontano con l’ingegnosa gof­ faggine di cui danno comica prova. Ma il linguaggio ha un’impronta decisiva, perché esso si offre come il medio tra l’azione e il suo apprezza­ mento, e impedisce che la norma, retroagendo come lode o biasimo, più concretamente come ricompensa o punizione, guadagno o perdita, si con­ netta solidarmente all’azione. La lingua è indifferente al fatto che si dica il vero o il falso; così lo è rispetto all’addurre ragioni buone o cattive: in entrambi i casi si adopera una subordinata introdotta da una congiunzione tipo «perché», «poiché» e simili. Così come possiamo dire il falso in luogo del vero, allo stesso modo nelle subordinate la lingua non è competente del­ la maggiore o minore bontà delle ragioni dichiarate. Tutto questo rischia di essere fin troppo ovvio, tanto da oscurare per eccesso il condizionamento normativo che noi avvertiamo nella costruzione di un sintagma linguistico. Voglio dire che un abito di coscienziosa espressione linguistica usa sempre il vero, la ragione giusta, il sincero come base, per poi introdurre il contra­ rio, cioè il falso o la razionalizzazione, come varianti esplicite. La ragione di ciò sta non tanto nella (non) inevitabile sincerità con se stessi, che potreb­ be anche mancare, quanto nel fatto che non importa che cosa si crede o ci si dà a intender di credere, questo è uno, mentre le sue varianti più o meno false, o cattive, sono infinite. La menzogna insomma non è altrettanto faci­ le che la verità, e su questo principio si fondano gli interrogatori. Ciò che

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lega il linguaggio al momento extralinguistico, sia le cose al di fuori sia la nostra stessa mente, è sì un doppio legame ma con preferenza sbilanciata. L’esistenza di un condizionamento normativo è dunque ampiamente dimostrabile in base alle normali credenze. Voler andare oltre in modo da prevenire certe obiezioni, che naturalmente possono darsi, significa pre­ tendere di capire direttamente come ciò possa avvenire. Qui bisogna inten­ dersi, poiché a rigore direttamente non è possibile andare oltre le nostre cre­ denze; ma talvolta si usa tale espressione per dire che una teoria ci dà, se si vuole, l’illusione di vedere proprio le cose in sé. A questo scopo vogliamo adoperare una teoria rigidamente deterministica, fin dove si può, di detto condizionamento, che diventa così unilateralmente e uniformemente cau­ sale. Provvederemo poi a togliere l’ingombro della teoria nel momento in cui diventasse fastidioso attenervisi ostinatamente. Fors_e_è meglio discute­ tegli questo problema con riferimento politico piuttosto che morale; preci­ sando che con politica intendiamo la morale distribuita su un collettivo di individui, e con morale, per il momento, la politica di un solo individuo. È anche opportuno richiamarsi alla storia di un certo tempo, quello della Gre­ cia del V secolo a.C., dopo le guerre persiane ma prima di quella del Pelo­ ponneso. Rammento che l’uomo è detto da Aristotele Lmov jrokiTtzóv, cioè animale sì politico, ma nel senso che vive in città, nella polis, così come il pesce sta nell’acqua o il lombrico sotto terra. Per converso solo chi vive in città ed è politico può dirsi veramente uomo; non così il selvaggio che sta nelle foreste, e nemmeno il contadino che non fa politica, perché incolto e analfabeta. Chi vive in città, usa una lingua comune a tutti, pratica i suoi concittadini c partecipa alla vita pubblica, dal matrimonio al funerale, fre­ quenta il tribunale, il teatro e i comizi elettorali. Il quadro che vogliamo pre­ sentare è del tutto normale.

2. Il cittadino gode della libertà politica sotto le specie della democra­ zia. Ci chiediamo ora in che cosa precisamente consista questa libertà. In primo luogo, abbiamo la libertà in senso rt£-lativo, la libertà dalla tiranni­ de politica, anzitutto e quindi da ogni altra causa costrittiva che sia in pote­ re dell’uomo esercitare. Non avrebbe senso richiedere alla politica la libe­ razione dalle calamità naturali come 1 terremoti o la siccità, ma avvertendo che per gli antichi erano tali anche le epidemie e la schiavitù, la carestia e in fondo le stesse guerre. In secondo luogo, c’è la libertà in senso propositivo o finalistico, la libertà di sostenere una parte politica, di eleggere un candi­ dalo, di insistere per un provvedimento, del tutto come oggi. Naturalmen-

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te, affinché la volontà di tutti, o della maggioranza, diventi la volontà gene­ rale, non occorrerà attendere la teoria rousseauiana del contratto sociale per trovare la convenzione meno urtante: quella per cui la maggioranza mini­ ma della metà più uno, anche se non rappresenta tutti, ha nondimeno la funzione di rappresentanza totalizzante, o generale. E così come i cittadi­ ni sono uguali passivamente, di fronte alla legge data, sono allo stesso modo uguali anche attivamente, nelle questioni de iure condendo, in base allo stes­ so artificio. Le scelte degli elettori sono incanalate secondo la preferenza prevedibile, che può favorire il personaggio, la fazione di parte, il pro­ gramma da svolgere o il rilievo che caratterizza l’insieme di certe richieste. Si suppone che ognuno voti in accordo con il proprio interesse prevalente, che non è detto sia solo di agi e ricchezza, ma anche di ambizione politica, di direzione amministrativa e edilizia, di cura dei rapporti interpostici, di iniziative culturali e altro. Ammesso che tutto questo almeno in linea gene­ rale funzioni passabilmente, è chiaro che una gran parte della vita politica di una democrazia va spesa nel correggere le sue stesse irregolarità, poiché queste, dato il meccanismo strettamente formale del loro retto impiego, sono considerate lesive della libertà. Ora, considerando statico l’orizzonte temporale dell’epoca, così come portava la coscienza antistorica dei con­ temporanei, illusi di vivere in una continuità senza fine, senza la minaccia di nuove classi sociali emergenti, senza minacce provenienti dall’esterno, se si vuole anche senza speranza: bene, considerato tutto questo, si può facil­ mente prevedere quel che in verità non è accaduto, ma che non costituisce il cuore di questa come di ogni altra previsione, cioè l’uniformità se non meccanica, per lo meno omeostatica del comportamento democratico. Non so se si capisce abbastanza il senso dell’esperimento di pensiero al quale abbiamo alluso: che, in mancanza di stimoli esterni o interni, tali da dover reagire con una certa risposta, l’uso della libertà democratica tende alla con­ servazione dello stato di cose iniziale; e che, invece, la presenza di una sfi­ da nei termini che si è detto rende la risposta obbligatoria e quindi inseri­ sce la vicenda della città in una sequenza politicamente incontrollabile di nuove situazioni storiche, quindi non comprensibili che in un senso deter­ ministico. Che ne è stato della libertà politica? In effetti la saggezza politi­ ca del mondo antico, già in epoca ellenistica, tende a privilegiare la tenden­ za stabilizzatrice non più della polis, ma dell’impero universale o ecumenico, sia esso macedone (Aristotele) o romano (Polibio), e a riporre la sua fiducia nelle risorse statiche di un dispotismo addomesticato, se non proprio illuminato.

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Anche se concepita entro le maglie di un sistema di pensiero determini­ stico, la libertà è tuttavia un concetto utile a definire il funzionamento di un assetto politico che presenta i minimi costi in termini di perdite per attrito. La libertà politica intesa in questo senso è come il libero arbitrio quando lo sTcapisce solo come il fondamento della responsabilità, quindi del diritto penale e quanto ne consegue. Fondamento e conseguenza possono essere appiattiti nel determinismo puramente formale di segni che procedono da sinistra a destra, convenendo che chiamiamo più fondamentali quelli, tra i segni, che stanno più a sinistra nei confronti di quelli che, stando più a destra, li chiameremo di primo, secondo, ... piano, prima di arrivare al tet­ to. Va bene: questo è il prezzo da pagare se si vuole essere coerenti deter­ ministi. A noi interessa osservare che anche in questo caso la libertà occu­ pa il primo posto a sinistra, o al massimo uno dei primi tre. Sul problema dell’immaginario nella politica da questo punto di vista c’è poco da dire, poiché per il determinista sono di bronzo non solo le Tavole della Legge, ma anche il ricordo di Silvia e le sue rimembranze. Nei confronti delle idee politiche, siamo liberi di scegliere ma tra un numero molto piccolo di animazioni pensabili dello stato di cose che desi­ deriamo riformare o restaurare. Il momento ideale che sorregge tale deside­ rato cangiamento in senso utopico, positivo o negativo, se si offre come un quadro coerente, è l’ideologia. Non occorre dire quanto sia fantasmatico il tratto che unisce desiderio e ideologia. Il limitato numero delle ideologie disponibili in un dato momento storico si spiega forse con ragioni struttura­ li, essendo difficile immaginare una complessione totale di idee congruenti non disponendo del supporto esistenziale. Inoltre le ideologie possibili ven­ gono ulteriormente limitate dal desiderio, immanente all’immaginazione politica, di sfociare nell’unanimità, o quanto meno di disporre di un efficace strumento di persuasione. Le esigenze del proselitismo fanno sì che l’ideo­ logia, oltre a essere coerente, debba anche apparir verosimile all’immagina­ zione, e quindi intrattenere un certo qual rapporto di prossimità con le que­ stioni particolari che offrono a ciascuno il destro per fantasticare. Dal punto di vista realistico l’unica alternativa concepibile alle filosofie politiche ideo­ logiche è costituita da ciò che vorrei chiamare confiicianismo (dal riformato­ re cinese K’ung Fu-Tzu), per intendere un’arte del compromesso tra le opposte tendenze molto vicina al senso comune «qualunquistico» di apprez­ zare la realtà, ma motivata da un presupposto non banale di produrre il mas­ simo vantaggio generale al minimo costo da parte di ciascuno. Forse in que­ sto è da ravvisare l’utopia propria del confucianismo, in ogni modo è chiaro

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che si tratta di un’ideologia dai toni sommessi, più sofferta che trionfalisti­ ca, e i cui estremi si ritrovano in Occidente, almeno in parte, nell’utilitarismo inglese da Bentham ai due Mill, James e John Stuart. Una concezione anch’essa svincolata dalle utopie ma opposta al confucianismo nel suo intento di riattingere al momento entusiastico, o quanto meno non intrinsecamente depressivo dell’esperienza politica è risorta di recente in Francia per opera di un piccolo gruppo,_detto dei nowveaux philosophes. L’antitesi che inizialmente li accomuna è che la politica o meglio il politico, nel senso di TÒ noXiTizóv, non possa consistere nell’attività di par­ tito o nell’esercizio di un governo, siano pure intelligenti e buoni nella pras­ si amministrativa. Anche l’iniziativa del partito, quale che esso sia (ma l’ap­ punto è rivolto ai marxisti), nella misura in cui ha successo finisce co£ trasformarlo in un organo dello stato, e quindi al massimo non c capace che di trasformare in prassi ordinaria quello che dovrebbe essere il momento qualificante, del tutto straordinario. L’antitesi dunque nega che ia politica si traduca in atti amministrativi, che si esplichi nelle elezioni votando per il partito o il personaggio qualificanti la propria scelta, o che concluda il suo ciclo operativo nel lasciarci in possesso di salde, meditate opinioni. Che cos’è, allora, la politica? È difficile affacciare un’ipotesi al di là dell’antitesi, su cui possiamo convenire, se non tutti, in molti. La tesi, a quanto pare, è che l’evento politico non sia che un puro accadimento di stampo événementiel, che di solito consegue a un fatto storico eccezionale, con titolo a piena pagina. E a questo evento, prima di qualsiasi razionalizzazione, e di qualsiasi misura riduttiva che tenda a normalizzarlo, mi accade di parteg­ giare e di parteciparvi come se ciò avvenisse anche per la mia spinta simpa­ tetica, quantunque solo interiore. Si tratta della via più difficile per entrare nella comprensione del problema, e siamo tentati di dire che i nouveaux philosophes ci costringono a concludere che il politico è qualcosa che non può esistere nel mondo così come lo conosciamo, perché questo non può contenerlo. Esso cioè rientra in un discorso che la psicanalisi rende già risa­ puto, aggiungendo la politica all’elenco delle cose sognate, che trovano una realizzazione allucinatoria coi mezzi dell’immaginario. Questo fa pensare che l’interesse ingenuo per la politica, che forse lutti condividiamo quando l’esperienza avviene in stata nascondi, assommi a quella sospensione del­ l’incredulità, o susponsion of misbelief che secondo Coleridge deve accom­ pagnare la lettura dei racconti del meraviglioso. Quando immaginiamo che andando a votare è in nostro potere imprimere una svolta o un raddrizza­ mento alla direzione della volontà generale, noi viviamo in un tale immagi-

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nario. Se si raggiunge lo stato in cui la normale miscredenza è messa fuori gioco, in quel momento ci sembra di realizzare la rivoluzione d’Ottobre o, se si preferisce, di completare la marcia su Pietroburgo del generale Dcnikin. Per lo più si avverte l’emozione contraria, la depressione conseguente all’ab­ bandono della tensione politica.

3. Una domanda interessante, dal punto di vista fenomenologico, è se ci siano esperienze che fin dall’origine, cioè non in seguito a un’interpreta­ zione, si presentino come immaginarie. Come Aristotele, Brentano crede­ va che già le nostre rappresentazioni potessero dirsi in certo modo vere o false, anteriormente a ogni giudizio. Evidentemente il giudizio deve essere espressamente vero o falso: questo è ammesso da tutti. Non tutti però ammettono che questo valga anche per le rappresentazioni. Se si potesse dir­ lo, saremmo in grado di definire palesemente immaginarie quelle rappre­ sentazioni o idee che già nella loro apparenza mostrano il falso, cioè la con­ traddizione per così dire in termini. Questo fa pensare che nello sviluppo della conoscenza si formi un riverbero, un feed-back che retroagisce dalVoutput del riconoscimento (il giudizio vero o falso) AV input dell’iniziale ideazione (la rappresentazione), col risultato che già quest’ultima sia pre­ giudicata come più o meno verosimile oppure direttamente falsa, quindi immaginaria. Naturalmente se il falso è prova dell’immaginario, bisogna dire che non vale la reciproca, che cioè non sempre l’immaginario è per ciò stesso falso. Ora, a parte la questione della contraddizione o del falso, che risente troppo di un’impostazione logica del problema, io credo che abbia­ mo una siffatta esperienza dell’immaginario in alcuni TÓJtot, luoghi note­ voli. In breve, noi possiamo annoverare almeno tre di queste esperienze. La prima, di cui abbiamo già parlato, è quella che proviamo in noi del contatto con l’altro. Quest’esperienza, che nel suo grado più intenso si dice empatia, ammette diverse interpretazioni. La più semplice e ingenua è che esista un canale privilegiato nel contatto con l’altro, tale che, se se ne è all’al­ tezza, questo fatto si costituisce in esperienza trascendentale che garantisce l’accesso a una sia pur particolare alterità. C’è una banale ma decisiva obie­ zione contro l’empatia intesa come identità con l’altro, la quale fu ritorta contro^Schcler (il principale fautore del partito pro-empatistico), ed è che verificandosi una tale ipotesi noi saremmo costretti a vedere con gli occhi degli altri; purché, naturalmente ci siamo simpatici e noi a loro, di contrac­ cambio. Ma io sono miope e, benché discretamente empatetico, non ho mai registrato il minimo aumento di diottrie dal frequentare persone dalla vista

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acutissima. Un’altra possibile concezione dell’empatia è quella praticata dagli psicoanalisti in occasione del procedimento di transfert, o Ubertragitng. Qui l’obiezione si offre da sé per il fatto che la traslazione è a senso unico, dal paziente al terapista, anzi quest’ultimo deve ben guardarsi dal tra­ sferire alcunché al paziente. Non credo in ogni caso che l’identificazione di questo tipo meriti il nome di empatia. Si tratta tutt’al più di un’assimilazio­ ne simpatetica dello psicanalista da parte del suo paziente. L’unica conce­ zione che resta dell’empatia, che sia possibile, è quando l’altro che scopria­ mo è un altro che ritroviamo già virtualmente in noi, come prodotto della nostra organizzazione coscienziale che non riesce a ridursi nel raggio di un convincente principio di identità egologico. Si rende, necessario, in tal caso (che poi è normale), che il residuo della coscienza egologica, anziché rima­ nere acefalo, periferico e anodino, si avvalori in forma alterocentrica sotto l’influsso di un’esperienza suscitata da un altro, effettivamente sussistente, oltre che in sé, per sé. In definitiva, noi facciamo l’esperienza dell’altro che è in noi, e questa empatia (da cui abbiamo tolto l’illusione che sia possibile capire gli altri direttamente) diventa l’unico riconoscimento capace di pro­ vocarne uno concomitante nell’altro per sé. Evidentemente il fatto che io contenga in me un altro, che io sia duale, plurale e non monocentrico nella coscienza, è la condizione per aver coscienza dell’altro in sé. Ho una netta e decisa coscienza di soggetti altri da me, che sono «in sé» in me, poiché avverto la mia soggettività egocentrica come ristretta, formale e molto al di sotto delle sue possibilità di comprensione. L’empatia è dunque possibile se la concepiamo, senza mire espansionistiche, come modo di trovarsi in buo­ ni termini con l’altro o gli altri che sono in noi, la qual cosa è resa possibile dal fatto di esser già virtualmente in possesso di una forma di coscienza schi­ zoide. Questo pare coincidere con il tema di fondo delle «meditazioni car­ tesiane» di Husserl; ma queste si intitolano, abbastanza stranamente, a Descartes, e il problema che intendono risolvere è la fondazione dell’intersoggettività nella coscienza trascendentale. Dal nostro punto di vista, non si tratta di pervenire a una fondazione che fa un po’ l’effetto di una qua­ dratura del circolo. Si tratta più semplicemente di contenere un atteggia­ mento che potrebbe esser patologico («schizoide») nei limiti di una nor­ malità allargata, magari fino al punto che uno non trovi strano parlare a voce alta (non ho detto altissima) a se stesso, senza dover ricadere nell’abito for­ zatamente coerente, ma coatto, di osservare un rigoroso autismo. Un equi­ librio per molti versi indifferente, cioè che ammette vari termini di conte­ nimento, e che proprio per questo sarebbe inopportuno considerare una

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fondazione. L’esperienza dell’altro, se così vogliamo capire l’empatia, svela dunque una stupefacente incertezza nello stesso autoriferimento. L’autoreferenzialità in senso stretto parrebbe dunque esclusa, ma per ragioni com­ pletamente diverse da quelle dei logici: per mancanza di un termine di ritor­ no, l’esperienza deve riconoscersi, fondamentalmente, come transeunte. Il secondo punto è il guardarsi allo specchio. L’esperienza catottrica, o dello specchio, è stata magistralmente analizzata da Lacan; ma qui vorrem­ mo parlarne indipendentemente. Più che guardare, vorrei dire che ci sen­ tiamo guardati dallo specchio; ed è ciò che rende sinistra, uncanny, tale espe­ rienza. Lo specchio è il luogo dove al posto di uno scialbo se stessi potremmo vedere apparire un volto diabolico, o un infernale nulla; io non credo affatto a queste cose, ma proprio per questo me ne viene un frisson: che cosa farei se, contraddicendo la mia miscredenza, ciononostante si veri­ ficassero? Può darsi che non tutti provino o confessino a se stessi scioc­ chezze di questo genere; ma c’è una più riposta ragione del prodursi di tale incertezza, disagio, uneasiness, che sta proprio nel vedersi allo specchio. L’inquietudine deve qui esser vista come meraviglia, stupore o 0avpót,eiv modificati in senso negativo. In effetti, l’esperienza catottrica sembra essere autocontradittoria. Di fronte allo specchio io vedo la mia mano destra diventare la sinistra, e vice­ versa. Come si spiega questo fatto? Anzitutto, vien da dire che il fatto col­ pisce, anche se non lo si nota, e questo produce inquietudine per la sempli­ ce ragione che non si spiega. Poi esamino la faccenda con calma e spirito materialistico e mi accorgo che in effetti non c’è nulla da spiegare: lo spec­ chio riproduce esattamente quel che ha davanti, l’immagine virtuale al di Là dello specchio è la copia esatta in ogni punto dell’immagine reale. Ciò che non è possibile non esiste; dunque, non c’è nulla da spiegare. Come mai, allora, la mia immagine nello specchio si ostina ad avere la sinistra in luogo della destra? Perché io sono mancino nell’immagine virtuale, al contrario di quella reale? Ecco, la ragione, l’ho detta. Indebitamente io scambio l’im­ magine virtuale con la realtà; dico «io» per l’immagine e per me stesso, pro­ ducendo un’equivocazione. La peculiarità sta nel fatto che l’equivoco non è solo verbale, ma anche immaginativo: io rivesto effettivamente i panni, anzi la pelle dell’immagine nello specchio. Ed è in seguito a questo mio sdoppiamento, per cui una parte di me rimane dov’era e un’altra parte pro­ cede trough thè looking-glass e indossa l’immagine così animata, che la mia destra diventa la sua sinistra, e viceversa. Se fosse possibile guardare disani­ matamente la propria immagine allo specchio, vedremmo ogni cosa al suo

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posto. Il punto è che non è possibile guardarsi così allo specchio; questo spiega il suo carattere weird, tra l’incomprensibile e il soprannaturale, nei momenti di intensa suspension of disbelief, e inoltre che è solo perché l’e­ sperienza appare incongruente, o quantomeno viene vissuta con disagio, che ci accorgiamo dell’investimento emozionale che sostanzia l’immaginario. A tal proposito mi pare più che mai adeguato parlare di doppio legame, appun­ to perché la spiegazione materialistica e razionale del fenomeno non è suf­ ficiente a eliminarne l’effetto di cui si diceva. La terza esperienza in cui si è posti di fronte al proprio doppio, quasi un Doppelgànger, è l’innamoramento. Molti saranno disposti a considerarla una variante della prima, quella dell’alterità; ma benché la spiegazione sia molto simile, l’innamoramento fa emergere in maniera spiccata il fenome­ no del narcisismo. Sempre presupponendo come condizione necessaria il delinearsi di un’esperienza forte dell’alterità, come vissuta in noi ma attri­ buita all’altro per sé, l’innamoramento vi aggiunge l’aura del numinoso, il dolore della separazione, l’esaltazione del costante appaiamento. Anzitut­ to, dal punto di vista della reciprocità dello scambio, la formazione della coppia appare sempre incentrata su uno dei due partner, tal che la simme­ tria, se c’è, è tale solo accidentalmente e provvisoriamente. Nella Paarung c’è sempre chi ama e chi si lascia amare; naturalmente l’esperienza che con­ ta è quella di chi ama, perché sua è l’intensa valorizzazione dell’altro che egli ricava dal rapporto. Nell’asimmetria si rivela il tratto che abbiam detto narcisistico dell’innamoramento. Tuttavia sarebbe inesatto definirlo come pri­ mariamente narcisistico, poiché in tale esperienza non mi innamoro di me stesso, o di una parte, la migliore, di me stesso; no, io vivo sinceramente la prossimità dell’altro, sia pure in forma fantasmatica, c mi sento legato in maniera spesso drammatica all’altro per sé, nel senso che se non ci fosse, non avrei motivo sufficiente per suscitare in me tale dedizione emozionale. Nondimeno ciò non esclude che si tratti pur sempre di un atteggiamen­ to narcisistico derivato. Non vorrei trattenermi a lungo su questo argo­ mento, perché quando il suo vissuto è attuale, solo il Liebestod di Isolde pare esserne un’adeguata espressione, anche se non prova nulla; mentre nel­ la sua inattualità sfido chiunque a non considerarsi fortunato di non rien­ trare tra i suoi addetti, essendo fastidioso pur il solo parlarne. In ogni modo, anche nel momento dell’attualità si è consapevoli che ci si sente legati a un se stessi che è nuovo e migliore, e tale esaltazione regge fin tanto che c’è un altro che ci stimola a farlo e intanto si allarga la ricezione e ne rimane un durevole lascito nell’esperienza che si ricorda. Ciò che contraddistingue

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questa specie di ampliamento d’orizzonti da quello che si ha con la conti­ nua pratica dell’altro nel senso ordinario è il nesso pregnante che si stabili­ sce tra l’immaginario e la memoria.

4. Queste sono le voci dell’immaginario allo stato fenomenologicamen­ 11 te più puro che ci è dato trovare. Nessuno potrebbe accontentarsi di assu­ mere un atteggiamento ironico o condiscendente nei loro confronti, essendo istanze irreducibili al reale nel senso del fuor di noi, quindi nemmeno paragonabili a quel suo surrogato, o Ersatz, che è il simbolico. Non è sim­ bolico il referente di tali esperienze, poiché tale è il quadro fantasmatico (non immaginario!) che si sostituisce alla cosa indicata dalla all’atto del rimando. E non è simbolico nemmeno il senso traslato o in accezione retorica, poiché anche questo rimando, pur essendo più complesso e con­ catenato, da ultimo si deve risolvere onestamente allo stesso modo. Il signi­ ficato del rimando simbolico è nella migliore delle ipotesi il noumeno, la cosa che esso ci induce a pensare; mentre, a partire dall’immaginario, il nou­ meno può svanire ma resta pur sempre il noema, come impressione sia pur fantastica ma nel come della sua datità. Se dunque mi rifaccio alle rappre­ sentazioni in sé, come appresentificazioni in me di qualcosa che mi è acca­ duto e di cui conservo memoria e disposizione a continuarne il tracciato, il risultato di ciò potrà magari esser travasato in recipienti e forme che paio­ no simboliche, ma che in realtà è il mondo in cui vivo, sogno e credo. La percezione interna ha la forma complessa ma unitaria delle immagini con cui ci esprimeremmo, se fossimo capaci di adeguare a essa la sintassi lingui­ stica del nostro discorso. L’illusione dei poeti sorregge la vanità del deside­ rio, insistiamo a dirci che non saremmo uomini se non provassimo a sogna­ re sempre di nuovo con questo metodo. La percezione esterna fornisce gli elementi quali pezze d’appoggio di una rapsodia o ricucitura simbolica di cui il mondo esterno c il risultato più probabile. Ciò che riusciamo a dire in questo senso è garantito e durevolmente incasellato, ma non è che una pro­ babilità derivata, la probabilità di una probabilità. Siamo partiti dal presupposto, peraltro ben fondato, che le nostre cre­ denze siano intessute con lo stesso filo di cui son fatti i sogni, cercando di cogliere quei luoghi in cui l’immaginario si rivela, a causa di certe incongruenze, coi suoi propri caratteri. Ora vorremmo indugiare sul nesso che l’immagine ha con l’azione, mettendo in rilievo più direttamente gli effetti del desiderio e della volontà. In questo rapporto il doppio legame si spiega molto naturalmente come il duplice nesso che dal centro della monade

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appetente conduce da un lato all’immagine del desiderio e, dall’altro, porta all’agire direzionale. Per un verso, sarebbe privo di senso voler trattare l’im­ magine come un fatto fisico, dal momento che essa è già parte dell’immagi­ nario e s’incontra, non tangenzialmente, in certe manifestazioni di espe­ rienza allucinatoria. Per l’altro verso, nemmeno l’azione si lascia impunemente reificare in movimento e causa del movimento, come avvie­ ne nelle spiegazioni di tipo meccanico; anzi, questo chiarimento risulta qua­ si superfluo, dal momento che nessuno, credo, propone una simile ipotesi per capire il nostro comportamento. In ogni modo, molto resta da dire: per­ ché, quando si è detto che l’immagine non è la rappresentazione di un fat­ to fisico e che l’azione non è il movimento a orologeria o comunque mec­ canico, resta il problema di caratterizzare positivamente e l’immagine e il movimento. E in più, vi aggiungiamo il disegno di unirli nel nesso supple­ mentare di doppio legame, per coglierne il sostegno reciproco, e l’origine a partire dal soggetto. Nel suo lavoro di maggiore impegno teorico, il De antiquissima Italorum sapientia, Giovan Battista Vico espone una critica al cartesianismo, in realtà alla nuova scienza della natura, facendo uso di un criterio che egli dice di aver desunto dalla filosofia presocratica degli «italici», cioè i sapienti del­ la Magna Grecia. Nei manuali la critica di Vico a Descartes viene riferita in questo modo. Nella conoscenza della natura l’uomo non può raggiungere la certezza di chi l’ha creata, essendo questo fatto avvenuto fuori di lui; ma nella conoscenza delle cose storiche, di cui ci ragguaglia la filologia, la cer­ tezza che si può avere è di gran lunga più perfetta, in essa verità e fatto si devono corrispondere, perché il creatore della storia umana è l’uomo stes­ so. Il principio corrobora la tesi di Vico come storicista e filosofo della sto­ ria. In realtà il riferimento ai megalo-ellenici è più complesso e mette capo a un altro modo di intendere la natura. La sapienza sottintesa è quella dei medici, le scuole di medicina che fioriscono in Asia Minore, nella Jonia, e quindi anche nel meridione d’Italia e in Sicilia. Negli scritti che sono detti ippocratici, l’autore o più verosimilmente gli autori che compilano le varie parti, in specie nel trattato sulla dieta mostrano il loro credo epistemologi­ co. Non stupirà di ritrovarvi la fiducia nella vis medicatrix naturae, che cor­ risponde a uno stadio di conoscenze scientifiche non troppo avanzate, ma in compenso attivamente pragmatico e confidente nella tecnica di imitazio­ ne della natura. In teoria però questa specie di conoscenza è tutt’altro che semplice, poiché il rapporto che essa riserba all’oggetto non è diadico (uomo-natura), bensì triadico (uomo-dio-natura). In questo modo si insi-

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nua il concetto di creazione, non nel senso ex rubilo, ma come forza medL catrice con cui il OeÓQ anima e fa vivere la natura. La concezione è aristo­ cratica, a tratti sdegnosamente distanziante e, nei confronti del genere uma­ no, pessimistica. Al discorso sulle malattie, a un certo punto, nella trattazione sulla dieta, si sostituisce quello sull’arte medica e le sue difficoltà, rivolto non si sa se alla stoltezza dei pazienti o a quella dei medici. Val la pena di addentrarvisi. Un primo disappunto riguarda il disconoscimento umano della natura del sintomo, che non somiglia a quel che manifesta: «gli uomini non sanno capire da quanto è evidente (Èx tcdv q uvi omv) quel che non si vede (là àcpavìi)». Siccome essi usano arti consone alla natura umana, non divina, ignorano le cose nascoste. Questa ignoranza riguarda non solo la natura, ma anche l’etica e la legge: «gli uomini diedero una legge a sé medesimi, ma sen­ za conoscere su che cosa la stabilissero». Essi esercitano «tutte le arti che hanno in comune per la loro natura umana», ma senza sapere perché. Della natura invece si può dir questo, che «gli dèi tutti le diedero un senso ordi­ nato»: cpvoiv òè Jtàvreg 6eoì òiExóopìiouv. Ma in questa inopia delle menti umane, come può sorgere sia pur solo l’illusione del sapere, l’èjtioTaoOai, il dominare e guidare sapendo? La risposta è implicita nel concetto di piptionj, che ha un significato complesso. Nell’apprendimento l’uomo inizialmente comprende per imitazione degli altri e rinforzo degli effetti utili così conse­ guiti. Si pensi all’apprendimento della lingua materna, o di altre capacità che sfiderebbero un selvaggio, pur essendo di dominio comune. Ma tradurre pipìiou; con imitazione non dice tutto, se ciò che si imita sottintende la com­ prensione del senso dell’azione. Si veda per esempio l’uso della lingua; que­ sto non si esaurisce nella riproduzione dei paradigmi, sia pure mutatis miitandis, ma comprende la costruzione di sintagmi, nell’occasione nuovi, che siano adeguati a esprimere il nostro pensiero nei suoi tratti non imitati­ vi, o creativi. La pipì]oig dunque richiede, come nell’arte drammatica, che si comprenda il senso contenuto nell’agire e che non si capisce riproducendo­ lo, o facendogli il verso per far ridere. Lo stesso accade in rerum natura, quando si tratti di esercitare l’arte medica. Occorre imitare non una cosa, ma la stessa vis medicatrix naturae, che c una jToliiok; della natura animata dal­ la òiaxóopqoic; divina, in un disegno intelligibile e ordinato del mondo. La plpqCJLg è quindi l’imitazione del fatto ma regolandosi sull’idea che lo tra­ scende nel sintagma dell’azione. Perciò «la mente degli dèi insegnò agli uomini a imitare le cose divine», cioè a trascendere l’imitazione con l’appro­ priarsi dell’azione, giacché gli uomini, lasciali a sé soli, non capirebbero. Essi

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infatti al massimo «conoscono quel che fanno», yivóoxovTag et noiéovoi, «ma non conoscono quel che imitano», xcù où yivooxovrac, a pipéovTai. Il fare è qui la riproduzione della cosa, l’imitare è la comprensione dell’agire. 10 posso cercare di copiare un vaso, ma se ci riesco è per il fatto che ho imi­ tato Pane del vasaio ricomprendendola. Ora questo ragionamento non è più così strano come forse appariva nel­ la vulgata manualistica e, a pensarci bene, nemmeno tanto originale. Ma è ciò che Vico attribuisce alla antichissima sapienza degl’italioti e che gli offre 11 destro per il tratto polemico e anticartesiano della sua profetica «scienza nuova». In questa scienza, che è poi la storia, \\ factum conserva sempre il suo valore di voce verbale, di participio, senza assumere il senso cosale a cui siamo adusati oggi, anche per influsso del positivismo e della scienza natu­ rale; il fatto significa in quell’accezione le «cose fatte», res gestae, corri­ spondente al greco là JipaypaTa, e perciò è naturale spostare l’attenzione su chi li ha fatti, sull’uomo come attore della TtQà^ig. Nel comprendere la storia noi istituiamo un dialogo per cui le cose fatte ci appaiono come agi­ te dai loro autori, coi quali almeno a tratti facciamo l’esperienza dell’empa­ tia. Potremmo interpretare il pensiero di Vico dicendo che se l’empatia per gli uomini illustri è una condizione che, pur non essendo strettamente necessaria, favorisce tuttavia la comprensione delle imprese storiche memo­ rabili, ed è in qualche modo inevitabile provarla, la stessa cosa non avviene coi fatti naturali come il terremoto di Lisbona (del 1755), l’eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei e seppellì Ercolano (del 79 d.C.) o la scom­ parsa della mitica Atlantide «in un giorno e una notte tremenda» negli abis­ si del mare (non si sa dove, né quando e né se...), ragion per cui sarebbe pri­ vo di senso considerarli in questa maniera. Va da sé che il motivo degli antichi ippocratici, per cui del principio dell’azione viene a essere investita non solo la storia dei fatti umani, ma anche la natura stessa in certi suoi rap­ porti col mondo umano, come nell’arte medica, ha perso per noi gran par­ te della sua forza persuasiva. Tuttavia è da segnalare, come fa rilevare Canguilhem, che riguardo all’idea di salute o alla definizione di normale e di patologico, che come tali (cioè come concetti) fuoriescono dall’ambito di una scienza in senso stretto naturale, sussiste tuttora un divario ampissimo, che in pratica diventa un’opposizione se si scende in campo psicopatologi­ co, tra la medicina di puro stampo positivistico esemplificata da un Ribot, e quella di indirizzo soggettivo, accentrata sulle esigenze del malato, che per contrasto si considera rappresentata da Janet. In quest’ultimo caso la medi­ cina, anche se non la biologia, ovviamente, resta nel novero delle scienze

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umane; nello stesso senso in cui l’ingegneria e in generale le tecniche ope­ rative, che in qualche modo si occupino dei bisogni umani, lo sono rispet­ to alle conoscenze fisiche di base.

5. Vico è altresì celebre per aver distinto dalla storia empirica dei fatti una «storia ideal eterna» che contiene il puro aspetto intelligibile di uno svilup­ po. Questa dualità tra il fattuale e l’ideale trova scarsa rispondenza presso gli storicisti, benché sia egualmente importante del principio per cui veruni et factum convertuntur^ ossia reciprocantur. L’incomprensione di Vico, sot­ to questo aspetto, dipende dalla difficoltà più riposta dei rapporto che lega il fatto alla sua intelligibilità; questo rapporto, come in Platone, si esprime come relazione tra due piani di riferimento diversi, ma la stessa teoria con­ tiene nello sdoppiamento un’aggiunta irrilevante o addirittura fuorviarne. È 10 stesso fatto che concepito come come cosa agita, ha in sé impli­ cito il proprio criterio di comprensibilità, che è lo schema d’azione. L’idea­ lità del fatto non sta nel suo riferirsi a un piano di essenze ideali, o come altrimenti ci si rappresenta la cosa, ma nell’impossibilità di esaurirlo col rife­ rimento a entità statiche, devitalizzate, prive di tensione, perché esso appar­ tiene, in parte ma essenzialmente, all’atto che lo genera. L’incomprensione, credo, prima che Vico riguarda proprio Platone. Si assume Platone secondo 11 facile schema di pensiero del platonismo, che è la storia delle idee come reduplicazione del reale nella sua intelligibilità, senza pensare che Platone è nato presocratico, e che le idee gli sono pervenute per reminiscenza, in un senso cioè tutt’affatto ateoretico, immemore di Democrito e, fondamental­ mente, animistico. Ma quale che sia l’esatta collocazione di Platone nei con­ fronti della teoria degli «amici delle idee», come li chiama polemizzando Aristotele, risulta chiaramente in tutti i dialoghi socratici che il rapporto tra i fatti e la loro intelligibilità è fondato sulla trasparenza della JtQà^iq, sull’i­ dealità autoctona dell’azione se intesa come puro atto. Non intendo qui pri­ vare Platone della mediazione offertagli dalla teoria delle idee, ma avvertire che non è lecito attribuirgliela sconsideratamente per poi rifiutarli entram­ bi, Platone e le sue idee, quando se ne evidenzi l’incerta prestazione, tra il paradossale c l’assurdo vero e proprio. Un Platone presocratico riuscirà for­ se ancor più indigesto, ma per lo meno a un sofista sarà permesso parlare liberamente, ed esprimere come vuole le proprie idee. Che Platone non fos­ se quell’iniziato alla sapienza esoterica di cui hanno sognato in tanti, è cosa che possiamo accogliere con animo equanime, né turbato né mosso.

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6. A questo punto si rende opportuno un ennesimo ricollegamento alla teoria semantica dei modisignificandi. Si è detto che le categorie semantiche, le Bedeutungskategorien del nome e del verbo, per citare i due estremi del­ lo spettro che le comprende tutte, hanno un diverso modo di significare, e che perciò non vanno confuse con le categorie semplici, o Seinsbestimmungen, che per il fatto di essere intese come mere determinazioni dell’ente (o ontiche) non fanno menzione del modo. E si è visto che in maniera paradig­ matica il nome designa il proprio significato per Ausweis, cioè dall’esterno o simbolicamente, per deissi fantasmatica; mentre il verbo, tutto all’opposto, rimanda al proprio senso per Hinweis, cioè dall’interno o sinsemanticamente, che è la componente dell’azione partecipata o mimata. In mezzo ai due estremi stanno poi le altre categorie semantiche, l’aggettivo, il pronome, l’av­ verbio ecc., riferite al nome o al verbo e partecipanti a vario titolo di entram­ bi. La componente dell’azione espressa dal verbo si è detta partecipativa o anche mimetica, per evidenziare il suo carattere fondamentalmente non sim­ bolico; ma è bene sottolineare che questo tratto unitivo si può esprimere anche dicendo che il verbo è il funtore della proposizione (o comunque del­ la frase compiuta), cioè quel che dà una vera unità di senso interiore alle varie parole sparpagliate. Ora a questa concezione «modista» Brentano ha dato un rilevante contributo con la sua concezione dei modi (di significare), che anche indipendentemente ha costituito larga parte dello sviluppo fenome­ nologico. La dottrina brentaniana dei modi è essenzialmente un’analisi di quel che impropriamente abbiamo detto il doppio legame dell’intenziona­ lità, meglio della relazione intenzionale che unisce in maniera triadica i poli (/) dell’atto di coscienza intenzionale, (n) del qualcosa come puro correlato dell’atto; e (Ut) del come che cosa della sua obiettivazione. Quindi la dottri­ na brentaniana dei modi è in sostanza un’analisi dell’attante soggettivo, che si definisce complementarmente mediante il correlato del qualcosa t/zs-oggettjyato. Quest’ultimo punto merita attenta considerazione. L’atto non si può definire se non per contrasto complementare col suo correlato, il qualcosa intenzionato da quello; ma bisogna prima sottrarre al qualcosa il «come che cosa» della sua oggettivazione, altrimenti il risultato è tautologico. La distinzione rilevante, a questo proposito, riguarda quel che si espri­ me nel caso del nominativo, o in modo recto, e quel che si dice negli altri casi, in modo obliquo. Si tratta dunque di una dottrina logica o, meglio, grammaticale-speculativa, che riguarda il soggetto della frase direttamente, e quindi, ma in obliquo, le determinazioni che lo concernono. Se la dottri­ na assumesse a questo punto la funzione di una teoria, bisognerebbe dire

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che essa è di stampo sostanzialistico, perché si può molto facilmente far cor­ rispondere al soggetto grammaticale la sostanza ontologica. Ci sovviene inoltre del fatto che Brentano analizza la relazione causale «da a a b» in due parti, il fondamento «da a» e il termine correlativo «a £»; inoltre, espri­ mendo la relazione con «a causa b» (col verbo causare) a vien detto in modo recto e b in modo obliquo. Reciprocamente, in «b è effetto di a», b è il fon­ damento della relazione e a il suo termine; e così i modi, b in recto e a in obliquo. Si aggiunga infine che ciò che si esprime al caso nominativo è, quanto meno aristotelicamente, una sostanza seconda, una òevxÉQa ovata. Forse proprio quest’ultimo accenno può salvare Brentano dall’accusa di sostanziammo. Il fatto è che dalla grammatica alla metafisica non c’è un pas­ saggio e che la dottrina dei modi è intesa a chiarire una differenza tra casus (come jTTCDOEiq) e non tra substantiae, o ovoiat. Del resto la sostanza secon­ da, anche in Aristotele, è tutto ciò che può andare al nominativo. Simil­ mente in Brentano la sostanza è sempre sostanza seconda, perché acciden­ tale; si dice solo che senza di essa, espressa in modo recto, non avrebbe senso la predicazione degli altri accidenti, detti in obliquo. Ma sarebbe qui fuori luogo addentrarci nei particolari delle cose dette da Brentano. La dottrina dei modi è anzitutto una tecnica filosofica di ispirazione, per intenderci, nominalistica, che si applica nell’analisi delle entità astratte. Se per esempio qualcuno dice di credere nella validità del teorema di Pitagora, io mi rappresento quel qualcuno, in modo recto, il quale intrattiene un cer­ to rapporto con l’oggetto chiamato teorema di Pitagora, che io mi rappre­ sento in modo obliquo. Interrogato sul perché di quella sua credenza, egli esibisce come prova la corretta dimostrazione del teorema di Pitagora. Que­ sto significa che, attraverso quella dimostrazione, il teorema giunge a esser rappresentato anche da me in modo recto, saltando la mediazione di chi te ne parla. Fin qui tutto è in ordine, trattandosi di un’evidenza apodittica, o dimostrativa. Ma supponiamo che qualcuno mi dica di avere un gran mal di testa. In questo caso la sua evidenza tutta assertoria di avere il mal di testa, supponendo che dica il vero, non è per me che il risultato di una notifica­ zione; lasciando da parte 1 dubbi, il suo mal di testa è per me un oggetto di riferimento presente in modo obliquo. Più importante ancora è il terzo caso, quello in cui qualcuno dice di credere, poniamo, nell’esistenza di forme sostanziali, o cose di questo genere. Qui non è possibile darne una prova apodittica, o altrimenti da un bel pezzo la metafisica sarebbe un ramo della geometria; e neppure si può sensatamente pensare a una finta credenza, motivata da intenti menzogneri come quelli esibiti dalla vasta fenomenolo-

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già dell’assenteismo. In questo caso la prova non conclude, trattandosi nel­ la migliore ipotesi di un entimema con infinite premesse; e d’altra parte la discussione è utile, se io faccio la parte del nominalista costringo l’altro a inventare delle spiegazioni sempre più sottili, o desistere. Questa la tecnica dianoetica, intesa a mettere ordine nelle questioni metafisiche o comunque non dimostrabili, mediante la distinzione dell’oggetto in modo recto e di quello riferito in modo obliquo nella forma del discorso indiretto. Queste considerazioni trovano applicazione nella logica della fenome­ nologia o, meglio, nel problema fenomenologico della genealogia della logi­ ca. Altrove si è detto che il problema di Parmenide, l’identità dell’essere e del pensiero, presupporrebbe una logica a un solo valore di verità, il vero, ma che esso non offre nessuna soluzione oggettiva. Al massimo si trova o che l’essere non è il pensiero, come in Gorgia, o che il pensiero è il non esse­ re, come in Democrito. Ma la questione della genealogia si riferisce alla genesi della logica, e per noi moderni questo è un problema, con buona pace di Frege, di psicologia. Già Freud nel parlare del sogno e delle sue manife­ stazioni cognate, come la nevrosi, si era imbattuto in un problema molto simile quando parla dell’assenza di negazione nel linguaggio dell’immagi­ ne, che si manifesta nel sogno, nella nevrosi e negli usi linguistici primitivi. Quest’ultimo indizio ha il vantaggio della perspicuità, poiché nelle lingue scritte più antiche (per esempio l’egizio) si osserva agevolmente che con­ trasti come forte/debole, luce/buio o grande/piccolo possono essere espres­ si mediante lo stesso radicale o anche la stessa parola, purché dotata di dop­ pio senso. Freud stesso cita poi a esempio il latino sacer, che significa tanto sacro, quanto maledetto; o l’inglese withoia, che appare etimologicamente composto da «con» e «fuori». La questione quindi si complica se conside­ riamo le ulteriori specie di ambivalenza che si determinano quando (