Colloqui con Stravinsky 880646938X, 9788806469382

Colloqui con Stravinsky. Copertina cartonata. Sovracoperta. Tagli e pagine integri. Collana: eldquo;Saggi 576". Mol

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Italian Pages 392 [409] Year 1977

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Colloqui con Stravinsky
 880646938X, 9788806469382

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IGOR' STRAVINSKY e ROBERT CRAFT

COLLOQUI CON STRAVINSKY

EINAUDI

Igor' Stravinsky e Robert Craft

Colloqui con Stravinsky

Einaudi

Editore

A partire dal febbraio 1957 Igor' Stra­ vinsky incomincia a redigere le risposte a una serie di questioni che un suo colla­ boratore, il giovane musicista americano Robert Craft, gli andava ponendo. Fra i musicisti del nostro secolo, Stravinsky è quello che ci ha dato il maggior numero di informazioni sulla propria vita e sul proprio lavoro, e questo non per un sen­ so di compiaciuto esibizionismo, ma per cercare di illuminare dall’interno una creazione musicale la cui coerenza non era stata capita da tutti. Le «conversazioni» con Craft hanno finito per alimentare tre libri, ora raccolti nel volume che qui presentiamo. Lo stes­ so Stravinsky le ha giudicate più fedeli a lui che i suoi libri più elaborati: questi testi offrono del compositore l’immagine che egli ha voluto lasciarci al termine del­ la sua intensa e discussa attività. Attraverso l’immediatezza colloquiale del dialogo, Stravinsky ci offre una viva­ ce autobiografia, a partire dalla sua infan­ zia e poi dalla sua educazione nella Rus­ sia imperiale. La vicenda privata si fonde cosi liberamente alla ricostruzione delle varie fasi della sua attività creativa, alla riflessione teorica, agli spunti polemici, alla discussione dei problemi della com­ posizione e dell’esecuzione, al rapporto con la tradizione. In queste pagine fanno la loro compar­ sa tutti i maggiori protagonisti di una straordinaria stagione artistica. Non ci sono soltanto i musicisti (Rimskij-Korsakov, Rachmaninov, Debussy, Ravel,

In sopracopcrta: sotto il titolo, Stravinsky in un disegno di Picasso. Sul retro, Picasso e Stravinsky in un disegno di Jean Cocteau.

Schonberg, Berg, Webern, Bartok, per ricordarne solo alcuni) ma scrittori e pit­ tori (Valery, Gide, Proust, D’Annunzio, i futuristi italiani, Dylan Thomas, Au­ den, Picasso); e Djagilev su tutti. Corroborando i ricordi con la docu­ mentazione di molte e preziose lettere, discutendo di tutto con appassionata lu­ cidità, Stravinsky ci propone un contri­ buto importante non soltanto alla com­ prensione della propria opera, ma dell’in­ tera vicenda culturale del nostro secolo. Il volume è arricchito da un saggio di Robert Wangermée,che vi analizza l’evo­ luzione di Stravinsky dal neoclassico al seriale.

SAGGI

576

Conversations with Igor Stravinsky

Titoli originali Memories and Commentaries

Expositions and Developments

Faber and Faber e Doubleday

Copyright © 19^8, 19^9, i960, 1961,1962 by Igor Stravinsky Copyright © 1977 Giulio Einaudi editore s. p.a., Torino Seconda edizione

Igor" Stravinsky e Robert Craft

Colloqui con Stravinsky Introduzione di Robert Wangertnee

Traduzione di Luigi Bonino Savarino

Giulio Einaudi editore

Indice

p. XI

XXXV

«Specchi di Stravinsky » di Robert Wangermée

Nota all'edizione italiana

Colloqui con Stravinsky Conversazioni con Igor Stravinsky 5 12

14 15 19 20

1. Il modo di comporre e le composizioni La serie La tecnica Strumentazione Gesualdo Traduzione

2. Di musicisti e altri 22 28

30 31 37 37 40 42 47 53 55

Pietroburgo Djagilev Debussy Lettere di Debussy Jacques Rivière Lettere di Jacques Rivière Ravel Lettere di Ravel Schonberg, Berg, Webern Dylan Thomas Lettere di Dylan Thomas

57 64

3. La mia vita, la mia epoca, le altre arti

75

4. La musica oggi

76 78

Pittori del Balletto russo

Armonia, melodia, ritmo La musica elettronica

Vili

Indice

p. 80 82 83 88 90 93 95

La musica con temporanea e il pubblico in generale Jazz L’esecuzione della musica La musica e la Chiesa La giovane generazione Il futuro della musica Consiglio ai giovani compositori

Ricordi e commenti

Autobiografia

1. Educazione russa 103 109 in 112

La famiglia Insegnanti L’Università Concerti a Pietroburgo

2. Djagilev e i suoi danzatori 114 115 117 122 123

Pavlova Fokin Nizinskij e Nizinskaja Mjasin Il balletto Djagilev e Djagilev

3. Alcuni compositori russi 132 136 137 138 138 140 141

Rimskij-Korsakov Cezar Kjui Anton Arenskij Sergej Taneev Anatolij Ljadov Skrjabin Sergej Prokof'ev

Portraits mémoires 147 151 152 153 154 155 157

Paul Valéry Romain Rolland Manuel de Falla Reynaldo Hahn Gorodeckij e Bal'mont Lord Berners Royauté

Indice

Quesiti musicali p. 161 168 170 170 174 177 180 185 186 188

Mecenatismo Musica elettronica Varèse Webern Musica per film e film Esecuzione e interpretazione Cromatismo 1912 e dopo Stereofonia Tradizione

Tre opere 193 193 203

211

1. Le rossignol. Lettere di Alekxandr Benois

La première

2. Perséphone. Lettere di André Gide 3. La carriera del libertino. Lettere di W. H. Auden Appendice

223

Prima sceneggiatura per La carriera del libertino di Stravinsky e Auden

231

Esposizioni e sviluppi

337

Appendice

349 351

Indice delle composizioni di Stravinsky Indice dei nomi

IX

«Specchi di Stravinsky» di Robert Wangermée

Fra i musicisti di questo secolo, Stravinsky è uno di quelli che — in margine alla sua creazione - si è dato la pena di confidarci il maggior nu­ mero d’informazioni sulla propria vita, le proprie opere, i propri gusti. Memorie, articoli, polemiche, lezioni universitarie, interviste, conversa­ zioni: in forme diverse, tali scritti non hanno mai come scopo una com­ piaciuta esibizione di stati d’animo; mirano piuttosto - anche nei loro minimi particolari - a sottolineare, con una spiegazione razionale, la coe­ renza profonda d’una creazione musicale che - nel corso del suo svilup­ po - non era apparsa evidente a tutti. Questi testi Stravinsky non li ha redatti regolarmente durante il corso della sua vita, ma nella loro parte essenziale sono stati scritti a Parigi tra il 1935 e il 1939 e negli Stati Uni­ ti, dal 1958 in poi, per il resto. Nel primo gruppo troviamo soprattutto le Cronache della mia vita1 e la Noetica della musica1. Il secondo gruppo comprende diversi volumi che, accanto alla firma del compositore, reca­ no quella del suo segretario Robert Craft; ricordi, interviste, note criti­ che e commentari. Secondo le edizioni, i testi presentano sottili varianti - oppure omissioni - le intenzioni significative delle quali potrebbero essere messe in evidenza da una attenta esegesi, ma questi volumi non concordano sempre nella loro edizione americana o inglese.

Autenticità e credibilità.

Le conversazioni raccolte da Craft sono giudicate da Stravinsky più fedeli a lui stesso che i suoi libri più elaborati. È nel febbraio 1957 che1 2 igor' Stravinsky, Cronache della mia vita, Minuziano, Milano 1947. 2 io., Poetica della musica, Curci, Milano 1954. Alle Cronache e alla Poetica bisogna aggiun­ gere alcuni testi brevi, apparsi fra il 1921 e il 1940. Non sono stati riuniti da Stravinsky stesso, ma ripubblicati recentemente in un lavoro bio-bibliografico: e. W. white, Stravinsky the composer and his works, London 1966 (Appendice A, Various writings reprinted, pp. 527-42).

1

XII

Robert Wangermée

il musicista ha cominciato a redigere le risposte a una serie di questioni che Craft gli sottoponeva, o che si poneva egli stesso e gli permettevano di evocare ricordi, dare giudizi, manifestare le sue opinioni sulla musica, sui musicisti e, in modo particolare, sulla propria arte. Nella prefazione all’edizione francese del primo di questi volumi, Craft racconta che Stra­ vinsky scriveva le sue risposte «su dei pezzettini di carta, in russo, in francese, o direttamente in inglese»; qualche volta cominciava col dise­ gnare per ricordarsi meglio. In seguito, il metodo della trascrizione delle risposte orali, sembra essere stato adottato più spesso, poiché Stravinsky accettava di dedicarsi a questi «exercices de souvenir» più volentieri du­ rante i periodi morti delle tournées di concerti attraverso il mondo, anzi­ ché nei periodi in cui componeva nella sua casa \ Sembra che non ci sia alcuna ragione per diffidare delle trascrizioni di Craft: se questo giovane musicista ha potuto esercitare una qualche influenza su Stravinsky, fu nel corso di una lunga intimità familiare alla quale era stato ammesso fin dal 1948, quando non aveva che ventiquattro anni, ma egli ha voluto fare opera di fedele memorialista; del resto, le sue fuggevoli notazioni sono sempre state rivedute, corrette o precisate da Stravinsky stesso. Certa­ mente i testi che completano queste conversazioni — analisi di opere, no­ tizie destinate ai programmi di concerti, e soprattutto le interviste e gli articoli di stampa riuniti in Retrospectives and Conclusions ~ debbono molto di più a Craft; così di questi non ci occuperemo in questo nostro studio. Ma nell’insieme non vi può essere alcun dubbio: l’immagine che ci formiamo di Stravinsky attraverso la lettura di questi testi è certamen­ te quella che il compositore vuol lasciare di se stesso alla fine della sua vita. Separati da una ventina d’anni d’intervallo, i due gruppi di scritti stravinskiani appartengono a due periodi differenti dell’attività creatri­ ce del compositore. Da Pulcinella (1919) fino a The Rake's Progress, Stravinsky è un musicista neoclassico; negli anni che precedono la guer­ ra, nessuno dei suoi pari pensa a contestare la sua autorità: è riconosciu­ to come il maestro e la guida più influente dei musicisti più giovani. Al­ l’indomani della guerra però, Stravinsky fu stupefatto di sentirsi criti­ cato non più per le sue arditezze, ma, al contrario, come il rappresentante più conosciuto di una reazione nostalgica del passato. E sono i musici­ sti più giovani e più promettenti - primo fra tutti, Boulez — che lo hanno 1 «Le mie conversazioni con Stravinsky - scrive R. Craft nella prefazione ad alcune pagine di diario - furono originariamente registrate nei diari della tournée, essendo Stravinsky maggiormente disposto a parlare di se stesso e del suo lavoro mentre eseguiva la sua musica all’estero che quando la componeva a casa» (i. Stravinsky - r. craft, Dialogues and a Diary, Doubleday, New York 1963; di prossima pubblicazione presso Einaudi).

«Specchi di Stravinsky»

XIII

denunciato ed umiliato: a lui hanno preferito, come modello, Anton Webern. Dalla Cantata (1951-52) Stravinsky si è, progressivamente, ma sempre più completamente impregnato dei metodi di composizione se­ riale; anch’egli ha riconosciuto la grandezza di Webern assimilando i suoi procedimenti e integrandoli alla propria musica; e così ha ricuperato l’approvazione degli artisti più all’avanguardia. Si può dire semplicemen­ te che egli ha mutato campo, che dal neoclassicismo è passato al seriali­ smo, dall’ala destra all’ala sinistra della creazione musicale? Un esame attento delle sue opere può aiutare a comprendere la natura della sua evoluzione. Considerando che i testi anteriori al 1940 da una parte, e quelli po­ steriori al 1957 d’altra parte, costituiscono degli insiemi omogenei, vor­ remmo qui confrontarli; esaminare in qual modo i primi esprimono le idee del musicista neoclassico, gli altri le idee del musicista seriale; ten­ tare di determinare le costanti e le varianti attraverso il tempo, cercare di comprenderle e di spiegarle. Di conseguenza utilizzeremo solamente i testi che precisano in modo significativo le posizioni estetiche del musicista; trascureremo tutti gli altri, e in modo particolare i materiali relativi alla vita ed alla storia delle opere del compositore. Difesa e illustrazione del neoclassicismo.

Stravinsky stesso ci invita a considerare i suoi scritti come elementi d’una difesa della sua musica: oppure - come dice all’inizio della sua Poetica — una specie di apologia «una spiegazione della musica quale io la concepisco, che non sarà meno obiettiva per il fatto di riassumere la mia particolare esperienza e le mie osservazioni personali» Quando componeva Petruska o Le sacre du printemps, Stravinsky non aveva scritto nulla sulla propria musica. Nelle Cronache della mia vita e nella Poetica della musica ci offre alcune precisazioni storiche su queste opere già lontane: ma senza indugiarvisi né, tanto meno, spiegarle o giustificarle. In verità, negli anni intorno al 1935, queste opere non so­ no più contestate; si sono imposte al di sopra delle polemiche; apparten­ gono già alla storia e lo stesso compositore si sente staccato da esse; si di­ chiara incapace di ritrovare la condizione spirituale che lo animava quan­ do le componeva12. Egli s’interessa essenzialmente a ciò che sta compo1 Stravinsky, Poetica cit., p. 9. 2 «Ma come ricostruire quei sentimenti, che si sono provati un tempo, senza rischiare di snatu­ rarli sotto l’influenza di tutta la evoluzione successivamente prodottasi in noi? La mia interpreta-

XIV

Robert Wangermée

nendo, e che dovrà essere difeso. Nelle ultime righe delle Cronache scri­ ve: «io non vivo nel passato e neppure nell’avvenire. Sono nel presente. Ignoro di che sia fatto il domani. Non posso aver coscienza che della mia verità di oggi. Sono chiamato a servire questa verità e la servo con piena lucidità» \ La verità stravinskiana di quel tempo è - senza che il compositore pronunci esplicitamente il nome - il neoclassicismo. All’inizio il musici­ sta si esprime con un certo numero di opposizioni e di rifiuti: antiroman­ ticismo, antisentimentalismo, antindividualismo, i quali trovano una illustrazione particolare nell’anti-wagnerismo. Non è un caso se, ricor­ dando un soggiorno a Bayreuth dov’era andato per sentire Parsifal insie­ me con Djagilev nel 1912, Stravinsky elude la musica di Wagner - «og­ gi è troppo lontano da me»2. Per lui Bayreuth è il ricordo irritante di una città ingombra, di una sala lugubre, di un’atmosfera artificiosa, di un cerimoniale pretenzioso di cui vuole annientare il rito pretendendo che le sole cose che gli hanno dato qualche piacere sono i bocks di birra e i Wurstel inghiottiti durante gli intervalli. Per uno spirito religioso com’è sempre stato quello di Stravinsky — la concezione wagneriana di un’arte che vuol essere una religione, d’un artista che vuol essere profeta e capo di una chiesa novella, di una rappresentazione teatrale che preten­ de essere considerata come un servizio sacro, non poteva essere risentita altro che come un sacrilegio. Ma anche sul piano strettamente artistico, l’opposizione di Stravinsky alla concezione del Gesamtkunst-Werk — die sommergendo la musica in una religiosità sofisticata, in una lettera­ tura simbolica o pseudo-filosofica le dà una libertà illusoria nella quale non poteva che perdersi - non è meno viva. In contrasto, per esempio, con l’opera di Verdi, che strutturandosi in un seguito di «arie» e di «in­ sieme» integrati in forme puramente musicali raggiunge «una coerenza che è la manifestazione esterna e visibile di un ordine interno e profon­ do» 3, il dramma lirico di Wagner, basandosi su una melodia infinita che si spiega all’infuori d’ogni rigore formale secondo i capricci dell’azione drammatica, offre l’immagine stessa del disordine in arte; ricorrendo al procedimento del Leitmotiv che vuole che ogni tema musicale significhi un sentimento, identifichi un personaggio o una situazione, impone alla musica dei fini artificiali ch’essa non può assumere validamente4. Per zione odierna dei sentimenti di allora potrebbe essere inesatta e arbitraria non meno che se fosse operata da un estraneo. Avrebbe lo stesso carattere di una intervista abusiva con me stesso, del ge­ nere di quelle che mi è capitato troppo spesso di leggere». Stravinsky, Cronache cit., pp. 91-92. 1 Ibid., p. 247, 2 Ibid., p. 80. 3 id., Poetica cit., p. 56. 4 Ibid., p. 27.

«Specchi di Stravinsky»

xv

Stravinsky, cosi, Wagner illustra i traviamenti nei quali la musica può sviarsi quando cessa di essere veramente se stessa; tali concezioni gli sem­ brano tanto più inquietanti in quanto vengono applicate — col pretesto di commenti letterari, di spiegazioni storiche o filosofiche — ad opere, co­ me quelle di Beethoven, il merito delle quali consiste, malgrado tutto, nella loro autonomia artistica: la vera musica non è che pura musica. Infatti Stravinsky scrive: «io considero la musica, a cagione della sua essenza, impotente a "esprimere” alcunché: un sentimento, un’attitudi­ ne, uno stato psicologico, un fenomeno naturale...»1. Certamente qui, si tratta, prima d’ogni altra cosa, di una reazione di pudore contro gli ec­ cessi letterari del romanticismo, contro gli abbandoni a una facile senti­ mentalità, contro le effusioni patetiche e liriche del xix secolo. Ma Stra­ vinsky razionalizza la propria reazione e ne fa un principio estetico; il significato espressivo comunemente attribuito alla musica, secondo lui, non è che un elemento convenzionale placcato sulla sua essenza imma­ nente. Egli scrive: «La maggior parte delle persone ama la musica in quanto si propone di trovarvi delle emozioni quali la gioia, il dolore, la tristezza, un’evocazione della natura, lo spunto per sognare ó ancora l’o­ blio della "vita prosaica”. Vi cerca una droga, un doping»1 2: in realtà queste costruzioni, in rapporto alla musica stessa, sono marginali. Com­ prendere veramente la musica esige un contatto diretto con la materia sonora e una conoscenza della forma stabilita in una costruzione ordina­ trice del tempo. Stravinsky riconosce che questo è un comportamento che «presuppone un certo grado di sviluppo musicale e di cultura intel­ lettuale», ma questo permette di accedere a un godimento d’ordine piu elevato e conferisce all’arte il suo vero significato. È dunque un forma­ lismo rigoroso che regge la concezione che Stravinsky si fa allora della musica: per lui, questa, è una speculazione sul mondo sonoro. Nella sua opposizione al romanticismo, egli diffida dei concetti ambi­ ziosi: ispirazione, arte, artista «parole fumose» che ci impediscono di ve­ der chiaramente in un mondo nel quale tutto è equilibrio e calcolo3. Per Stravinsky la composizione non avviene nelle sofferenze di un parto do­ loroso, in un entusiasmo pitico, e neppure nella beatitudine di un’enun­ ciazione; è una funzione tanto meglio assolta quanto più è quotidiana e che viene esercitata in un addestramento sistematico sviluppando le fa­ coltà creatrici con lo sforzo: «come l’appetito vien mangiando, è egual­ mente vero che il lavoro arreca l’ispirazione»4, poiché questa non è altro 1 Stravinsky, Cronache cit., p. 97. 2 Ibid., p. 230. 3 id., Poetica cit., p. 45. 4 id., Cronache cit., p. 243.

Robert Wangermée

XVI

che l’emozione provata dal creatore «alle prese con quell’incognita che è ancora l’oggetto della sua creazione, e che deve diventare un’opera» un appetito di scoperta applicato alla fabbricazione di un oggetto con­ creto, partendo dai materiali scelti inizialmente. Così, per Stravinsky, l’artista non si distingue molto dall’artigiano; Bach, Handel, Haydn, Beethoven, i «vecchi italiani» non pensavano diversamente — cosi egli afferma -, e persino un romantico e un lirico come Cajkovskij si è sem­ pre considerato come «un artigiano a somiglianza di un calzolaio»1 2. Stra­ vinsky insiste spesso sulla necessità, per il compositore, di conservare un contatto diretto con la materia sonora, di «avere anche lui le mani in pa­ sta»3. Quanto a lui, egli compose al pianoforte: «Non bisogna disprez­ zare le dita; esse sono grandi ispiratrici, e a contatto con la materia sono­ ra, suscitano spesso delle idee subcoscienti che, in altro modo forse non si rivelerebbero»4. Ciò che lo affascina nel cymbalum ungherese ascolta­ to in una piccola orchestra di ristorante a Ginevra, è «il contatto diretto dell’esecutore con le corde a mezzo dì bacchette tenute in mano»5; per comporre Renard, dove riserba una parte importante a questo strumento poco banale, se ne procura uno da un emigrato e comincia a farci prati­ ca, all’inizio con molta pazienza. Prima di scrivere il suo Concerto per violino, si fa iniziare lungamente alla tecnica e alla pratica dello strumen­ to dal virtuoso Samuel Duschkin6. Stravinsky non può concepire che un’opera sia inventata nelle sue linee melodiche e nella sua armonia, e poi orchestrata conformemente a ricette codificate. Fin dall’inizio è il materiale concreto che deve stimolare l’immaginazione, imponendo a questa certi limiti secondo abitudini che, in seguito, si potrà tentare — e questo fa parte del meccanismo dell’invenzione - di aggirare o di supe­ rare. Comporre, dunque, è dapprima dominare la materia sonora, poi met­ terla in un certo ordine poiché nell’arte, più che in qualsiasi altra attività umana, l’ordine è necessario: senza questo «ogni cosa si disgrega»7. Comporre, dunque, è «disporre in ordine»8 dei suoni secondo certe re­ lazioni d’intervallo. Non è più col meccanismo stereotipo della tonalità classica che quest’ordine si realizza, ma con la polarizzazione di tutti gli elementi intorno a un suono o ad un accordo privilegiato; il sistema cosi 1 STRAVINSKY, Poetica CÌt., p. 45.

2 id., Cronache cit., p. 240. Ibid., p. 38. Ibid., p. 133. Ibid., p. 107. Ibid., p. 233. Ibid., p. 191. 8 id., Poetica cit., p. 35.

3 4 5 6 7

« Specchi di Stravinsky»

XVII

creato ha un senso solamente perché tende alla realizzazione di un ordine superiore - la forma - nella quale finalmente s’incarna lo sforzo creato­ re1. Per lo Stravinsky neoclassico, è nella cornice delle forme «sanzio­ nate dal tempo, per così dire omologate... qualsivoglia ordine», che tale ordine può realizzarsi meglio, poiché «richiede una restaurazione»2: e questa costrizione non costituisce un impedimento alla creazione, ma è una guida che permette all’artista di trovare in modo piu sicuro una via nella propria creazione. Bisogna che questo Stravinsky sia ormai ben di­ verso dall’innovatore radicale di prima del 1914, perché si possa com­ prendere questo suo entusiasmo nel celebrare le virtu di una tradizione la quale «non è la testimonianza di un passato concluso, ma una forza viva che anima e informa di sé il presente», poiché essa «garantisce la continuità della creazione» 3. È noto che da Pulcinella (1919) in poi Stravinsky ha strutturato la maggior parte delle sue opere secondo forme antiche divenute ormai ba­ nali: concerti, fugati, oratori, balletti classici, sinfonie: in realtà, senza rispettare rigorosamente l’antica cornice formale, ma riferendosi ad essa, piuttosto, con allusioni e, prima di tutto, con l’etichetta dei titoli; soprat­ tutto ha preso a prestito da musiche del passato figure melodiche o ritmi caratteristici. Se all’inizio è partito dal xviii secolo è certamente perché Pergolesi, Bach, Vivaldi, Handel, sembravano rappresentare, al di là del romanticismo, l’ideale di un’arte «oggettiva», rigorosa, riservata, atten­ ta a non abbandonarsi alla sentimentalità: nell’Octuor per strumenti a fiato ( 1922-23 ), nel Concerto per piano e -fiati (1923 ), nell’oratorio (Edipus Rex (1927), nel Concerto per violino (1931), nel Concerto in mi be­ molle (Dumbarton Oaks) (1938), si trovano contrappunti d’andamen­ to bachiano, ritmi alla maniera dei Concerti brandeburghesi, cori hàndeliani, grandi frasi melodiche composte da curve e controcurve ingegnose che evocano le arie barocche. Più tardi Stravinsky ha considerato tutta la musica antica da lui conosciuta, come un arsenale dove attingere i luo­ ghi comuni che ormai servivano come materiale di base alla sua musica: è noto che per la sua opera buffa Mavra è partito da Glinka; da Cajkovskij, testualmente citato nel balletto Le baiser de la fée (1928); da We­ ber, Johann Strauss e Rossini per ]eu de cartes (1937), da Monteverdi, Gluck, Mozart e Bellini per l’opera Phe Rake's Progress (1952). E se ha proceduto in tal modo si può esser certi che non è per impotenza creati­ va, ma in conseguenza di un partito preso che i suoi scritti mettono chia­ ramente in evidenza. Stravinsky, Poetica cit., p. 39. id., Cronache cit., p. 191. id., Poetica cit., p. 51.

XVIII

Robert Wangertnée

Egli spiega particolarmente che le «formule anodine e anonime di un’epoca lontana», di cui si è servito per esempio in (Edipus Rex, tutte le convenzioni formali alle quali accetta di conformarsi e persino, in que­ sto caso, il ricorso a una lingua morta, il latino, rappresentano «dei ter­ mini rigorosi» che impediscono al linguaggio musicale «di disperdersi secondo le divagazioni, spesso pericolose di un autore» Approva il suo amico Charles-Albert Cingria d’aver scritto che «il lirismo non esiste senza regole ed esse devono essere severe»12. Sottolinea l’importanza del contrappunto come esercizio di scrittura3 e come tecnica di composizio­ ne 4; glorifica la fuga «forma perfetta in cui la musica non significa nulla oltre se stessa», la quale manifestando nel modo piu totale la sottomis­ sione alla regola, mette in evidenza il fiorire della libertà creatrice in que­ sta stessa costriziones. Fa volentieri l’apologià delle forme e dei generi che, da Wagner in poi, sono stati tenuti in sospetto e disprezzati: l’opera tradizionale, per esempio, perché sfugge all’anarchia formale del dram­ ma lirico, perché è composta di «arie» e di «insieme» i cui rapporti reci­ proci stabiliscono la struttura e «conferiscono a tutta l’opera una coeren­ za che non è che la manifestazione esterna e visibile di un ordine interno e profondo»6; e cosi il balletto classico perché fa trionfare «la concezio­ ne sapiente sulla divagazione, la regola sull’arbitrario, l’ordine sul “for­ tuito ”». In realtà Stravinsky si rende perfettamente conto dell’impossibilità, per un compositore moderno, di inquadrarsi esattamente negli schemi formali del passato7: sinfonie, concerti, sonate, per lui non sono strut­ ture da rispettare, conformandosi alle leggi d’un insegnamento scolasti­ co: sono - prima di tutto — allusioni nostalgiche a un passato nel quale le opere d’arte sembravano rette da un ordine esteriore ad esse; per Stra­ vinsky queste forme non sono piu se non quadri di referenza che invita­ no il compositore a disciplinare il proprio pensiero in strutture ch’egli deve re-inventare per suo conto, utilizzando formule prese a prestito al passato piuttosto che rispettando delle forme. È questo che conduce Stravinsky a glorificare il luogo comune, attra­ verso il Verdi del Rigoletto e della Traviata, per esempio, nella musica di Bellini, in Cajkovskij, nei compositori francesi d’opéra-comique, e piu 1 Stravinsky, Cronache cit., p. 191. 2 Ibid., p. 240. 3 Ibid., p. 49. 4 Ibid., p. 229. 5 id., Poetica cit., p. 68. 6 Ibid., p. 56. 7 id., Cronache cit., p. 228.

«Specchi di Stravinsky»

XIX

generalmente in molti compositori che dopo aver avuto grandi successi nel secolo passato, sono incorsi in seguito nello sdegno dei giudici più accreditati. Cosi Stravinsky valorizza le musiche popolari, la dignità di opere culturali delle quali non è generalmente riconosciuta. Nella prima pagina delle sue Cronache, racconta compiacentemente la sua prima emo­ zione musicale suscitata da un contadino russo quasi muto che, per diver­ tire i bambini, faceva schioccare rumorosamente la lingua e cantava: «Il canto era costituito di due sillabe, le sole che riusciva a pronunciare, pri­ ve di qualsiasi senso, ma che alternava con un’incredibile destrezza in un movimento assai vivo. Accompagnava questo schioccare nel seguente modo: applicava la palma della mano destra sotto l’ascella sinistra, poi, con un gesto rapido, faceva muovere il braccio sinistro appoggiandolo sulla mano destra. Faceva cosi uscire da sotto la camicia una serie di suo­ ni abbastanza sospetti, ma ben ritmati e che per eufemismo si potevano definire “baci di nutrice”» l. Il piacere che il bambino di tre anni traeva da questa musica primitiva è rimasto molto vivo in Stravinsky. Ricorda ancora che l’imitazione del canto delle contadine che tornavano dal la­ voro, nella sua infanzia, lo aiutò a prender coscienza di se stesso come musicista. Non è il «distanziamento» ovvero l’idoleggiamento del fol­ klore che per Stravinsky valorizza queste musiche, ma i luoghi comuni 'ch’esse comportano. Per la stessa ragione egli apprezza i pianini mecca­ nici e gli «organetti a manovella», le «melodie da strapazzo» da musichall, il jazz. Ciò ch’egli desidera in ogni caso è d’impossessarsi dei luoghi comuni caratteristici per trarne (com’egli dice) dei «ritratti-tipo»1 2 delle musiche da cui sono stati tratti. Ma i luoghi comuni che Stravinsky sceglie con particolare predilezio­ ne sono quelli che alimentano la musica barocca del xvm secolo. Però, per lui, non si tratta mai di realizzare pastiches delle musiche d’altri tem­ pi, ma piuttosto di utilizzare frammenti di opere del passato diventati ormai banali, per infondere in essi nuova vita. Nel fare questo egli non è animato dal rispetto per la musica antica: il rispetto «rimase sempre ste­ rile», è piuttosto «per mezzo dell’amore che si riesce a penetrare l’essen­ za di una creatura», e, d’altronde «è il rispetto o l’amore che ci spinge a possedere la donna? »3. Stravinsky rimpiange il tempo «non è più il tem­ po in cui Bach e Vivaldi parlavano sensibilmente lo stesso linguaggio, e i discepoli lo ripetevano dopo di loro, trasformandolo senza saperlo, cia­ scuno secondo la sua sensibilità»4; l’omogeneità del linguaggio creava 1 Stravinsky, Cronache cit., p. 36. 2 Ibid., p. 128. 3 Ibid., p. 132. 4 id., Poetica cit., p. 66.

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uno stile che sosteneva l’artista durante la sua creazione. Quanto al pre­ sente, Stravinsky rimpiange che l’individualismo trascini l’artista a iso­ larsi dagli altri uomini e «lo condannano ad apparire agli occhi del pub­ blico come un mostro: un mostro di originalità, inventore del suo lin­ guaggio, del suo vocabolario e dell’apparato della sua arte. L’uso dei ma­ teriali già sperimentati e delle forme stabilite gli è comunemente vietato: ne deriva ch’egli parli un idioma senza relazione con il mondo che l’ascol­ ta. La sua arte diventa davvero unica, nel senso che è incomunicabile e chiusa da ogni parte» \ Stravinsky ha pensato che, per non soccombere a questo individualismo, che nella creazione artistica si oppone alla for­ mazione di uno stile, era meglio appoggiarsi su linguaggi d’altri tempi che avevano beneficiato d’una unità stilistica. Non è il caso qui di dare un giudizio sull’impresa di inserire i luoghi comuni del passato in una sintassi del xx secolo, trattandoli come se ve­ ramente non fossero altro che elementi sonori, sprovvisti d’ogni riferi­ mento espressivo. Ci basti ricordare che, di questo, Stravinsky ha fatto un vero sistema estetico. Questa valorizzazione del passato e delle regole lo porta a rifiutare la fama che gli viene dalle sue arditezze rivoluzionarie, persino a propo­ sito di un’opera come il Sacre. «Han fatto di me un rivoluzionario mio malgrado» scrive1 23.Rifiuta la consacrazione che l’opinione pubblica sem­ bra dare, ormai senza reticenze, alla nozione di rivoluzione in arte: per lui la rivoluzione è una rottura d’equilibrio, è sinonimo di caos, mentre «l’arte è di per se stessa costruttiva». L’audacia nella trasformazione del linguaggio non può essere gratuita: quando distrugge un ordine è per stabilirne un altro. Souvtchinsky - che nel periodo tra le due guerre fu l’amico più vici­ no a Stravinsky - confidò un giorno a Robert Craft che, per lui, il neo­ classicismo di Stravinsky si inseriva in una concezione generale antirivo­ luzionaria; secondo Souvtchinsky le simpatie politiche di Stravinsky era­ no rivolte verso l’«Action frammise»; certamente non aveva nessuna simpatia per il fascismo, ma il suo orrore per il bolscevismo e per lo stali­ nismo era tale («in fondo era un russo bianco» dichiarava Souvtchinsky) che, se fosse vissuto in Francia durante la guerra, avrebbe potuto non ri­ fiutare le sue simpatie a certe tesi dell’occupante ’. Stravinsky ha espresso in modo patetico le inquietudini dell’artista moderno quando ha fatto «tabula rasa» dei principi che, nella tradizione 1 Stravinsky, Poetica cit., p. 65. 2 Ibid.,p. 12. 3 id., Retrospectives and conclusions, Knopf, New York 1969; di prossima pubblicazione presso Einaudi.

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occidentale, sono stati considerati — per secoli — come fattori naturali che condizionano la composizione. Scrive: «Per quel che mi riguarda, io pro­ vo una specie di terrore quando, al momento di mettermi al lavoro e in­ nanzi alle infinite possibilità che mi si offrono, ho la sensazione che tutto mi sia permesso. Se tutto mi è permesso, il meglio e il peggio, se nulla mi oppone resistenza, ogni sforzo è inconcepibile, io non posso appoggiar­ mi a nulla per costruire e quindi ogni impresa sarebbe vana. Sono dun­ que costretto a perdermi questo abisso di libertà? » ’. Se la natura oppu­ re una tradizione incoscientemente subita non impongono più norme al linguaggio, è necessario - secondo Stravinsky - che l’artista stesso stabi­ lisca le proprie regole: «La mia libertà consiste dunque nel muovermi nel piano limitato che mi sono prefisso per ciascuna delle mie imprese»123. Sono queste convenzioni che gli permettono di strutturare le sue opere e stimolano la sua fantasia creatrice. Quando scriveva le Cronache e la Poetica della musica, Stravinsky pensava ch’era più comodo e più sicuro cercare questi elementi convenzionali, d’opera in opera, in questo o in quel tipo di musica antica ridotta ormai allo stato di luogo comune. In ogni modo questo neoclassicismo era tutto il contrario di un acca­ demismo, poiché non significava che il compositore si limitasse a sfrut­ tare i procedimenti trasmessi dalla storia, conformandosi a modelli irri­ giditi dalla scuola; infatti i materiali diventati ormai banali potevano acquistare vita nuova in un lavoro creativo nel quale, del resto, si mani­ festava quell’individualismo cui Stravinsky tentava invano di sfuggire. Ma lo stesso neoclassicismo induce Stravinsky - l’autore del Sacre — ad affermare la superiorità del principio apollineo su quello dionisiaco, col pretesto che quest’ultimo «presuppone come estro finale l’estasi cioè la perdita di se stessi, proprio quando l’arte richiede soprattutto la coscien­ za dell’artista» Un tal rigore Stravinsky lo estende molto al di là dei problemi della composizione. La sua concezione dell’interpretazione illustra in modo particolare il razionalismo rigoroso nel quale intende mantenere la mu­ sica: il timore dell’aggiunta del patetico, dell’emozione superflua che rischiano di sviare l’opera dal suo significato oggettivo e autentico, lo conduce a rifiutare la stessa idea d’interpretazione, «cosa di cui ho orro­ re», scrive4. Egli teme che l’interprete diventi rapidamente un tradut­ tore del pensiero del compositore con tutti i rischi di tradimento che ciò comporta. Fra i direttori d’orchestra che hanno diretto le sue opere i soli 1 Stravinsky, Poetica cit., p. 58. 2 Ibid., p. 59. 3 Ibid., p. 75. 4 id., Cronache cit., p. 124.

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che hanno diritto alla sua riconoscenza sono Monteux, Ansermet, coloro che grazie a una solida tecnica si sono mostrati capaci di curare il mon­ taggio di tutti i particolari necessari a rendere sensibile ciò ch’era già sta­ to previsto dal compositore: «la capacità dell’esecutore si misura pro­ prio in relazione alla sua facoltà di vedere ciò che in realtà si trova nella partitura e non secondo l’ostinato intendimento di cercare ciò che egli amerebbe che fosse» '. Stravinsky non ha torto, se esige che il direttore d’orchestra s’imponga prima di tutto di ritrovare lo spirito e la volontà del compositore, ma questo non basta - com’egli spera — per trasmettere la musica. Per quanto possano essere precisi i segni che il compositore ha posto sulla partitura (e tale precisione è una preoccupazione recente), l’esecutore resta sempre un mediatore; egli deve comprendere i segni e, letteralmente, interpretarli dando loro vita. Facendo questo, corre sem­ pre il rischio di mettere una parte di se stesso, in questa ri-creazione. I compositori d’altri tempi che si fidavano di un’ampia rete di convenzio­ ni ben conosciute, lasciavano all’esecutore un vasto campo di libertà che i compositori della generazione dopo il 1955 si sforzeranno di restituir­ gli. Stravinsky non si conformava allo spirito della musica antica, ma re­ stava fedele all’austerità antindividualista del suo neoclassicismo, quan­ do esigeva che l’interprete ideale fosse semplicemente un esecutore co­ scienzioso e nulla piu. Questo non poteva condurlo che a diffidare dei virtuosi, sospettati di sacrificare la musica alla virtuosità tecnica, e di cercare ad ogni costo ef­ fetti ed il successo del pubblico12. È l’illusione di una verità oggettiva del­ l’esecuzione musicale che, intorno al 1920, ha condotto Stravinsky a de­ dicare molto tempo alla trascrizione delle sue opere per i rulli d’un piano meccanico, il Pleyela: si trattava di fissare per il futuro i rapporti dei tempi e delle sfumature in modo che modelli d’esecuzione fossero stabi­ liti una volta per sempre3. Dopo l’insuccesso del Pleyela, Stravinsky ha riversato sul disco le identiche preoccupazioni: dal 1928 in poi, ha vo­ luto fissare egli stesso — sia come pianista che come direttore d’orchestra — le versioni autentiche delle sue opere: versioni che avrebbero dovuto servire di modello a tutte le esecuzioni a venire, specialmente per «i mo­ vimenti e i loro rapporti reciproci»; ed il suo razionalismo gli ha impe­ dito di capire come questi documenti non siano stati, nella maggior par­ te dei casi, presi in considerazione con più attenzione. Così appare evidente che Stravinsky nelle sue Cronache e nella Poe­ 1 Stravinsky, Cronache cit., p. 123. 2 Ibid., p. 234. 3 Ibid., p. 154.

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tica della musica ha elaborato una dottrina estetica coerente. Se si è dato la pena di esprimersi in altro modo che non fosse la musica, è perché ha sen­ tito il bisogno di giustificare la propria creazione; compositore il valore del quale è stato riconosciuto già da molto tempo — dal successo che ave­ va ottenuto ben prima del 1914 con i Balletti russi —, ebbe la sensazione negli ultimi quindici anni d’essersi allontanato dal suo pubblico: coloro che avevano amato Uoiseau de feu, Petruska, il Sacre, le Noces si aspet­ tavano che restasse fedele alla musica che aveva già presentata: «non possono e non vogliono seguirmi nel cammino del mio pensiero musica­ le», scrive con amarezza \ Il grande pubblico dei concerti non gli riserva più le grandi accoglienze d’un tempo. E ciò che dovette inquietarlo di più - senza ch’egli l’abbia mai confessato - furono forse le critiche che co­ minciavano a formulare taluni fra i critici più aperti e che fino allora l’a­ vevano seguito con entusiasmo: un Boris de Schloezer, per esempio, che era stato sino allora tra i migliori esegeti della sua musica, si allontanava da lui e formulava nette riserve riguardo alle sue concezioni neoclassi­ che. Era questa, dunque, la musica che Stravinsky doveva difendere: «Non posso avere coscienza che della mia verità di oggi. Sono chiamato a servire questa verità e la servo con piena lucidità»1 2: queste parole che concludono le Cronache provano che lo scopo perseguito da Stravinsky era giustamente — come egli ha detto altrove —1’«apologia» del suo neo­ classicismo.

Il musicista seriale. All’indomani della guerra la situazione di Stravinsky è ancor più de­ teriorata. La posizione di leader dell’avanguardia da lui tenuta, nono­ stante tutto, fino al 1940 è stata profondamente messa in discussione. In Francia, René Leibowitz aveva allora rivelato le opere dei tre grandi viennesi; il suo apostolato si accompagnava con una critica acerba di tut­ ti i compositori i quali non avevano saputo prendere coscienza del signi­ ficato dell’evoluzione del linguaggio armonico dopo Wagner, e non ave­ vano compreso la necessità ineluttabile dell’avvenimento del sistema do­ decafonico e seriale3. Il neoclassicismo di Stravinsky, allora, diventava un bersaglio preso di mira specialmente dai giovani musicisti, e in modo 1 Stravinsky, Cronache cit., p. 246. 2 Ibid., p. 247. 3 Cfr. specialmente r. Leibowitz, Igor Stravinsky ou le choix de la misere musicale, in «Les temps modernes», Paris aprile 1946; nel suo libro L’Evolution de la musique de Bach à Schoenberg, Paris 1951, Leibowitz non nomina neppure Stravinsky.

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particolare da Pierre Boulez il quale - pur glorificando le prodigiose in­ venzioni ritmiche del Sacre o di Les noces — aveva denunciato la sclerosi e l’accademismo delle opere posteriori *. Non può stupire dunque se cri­ tici che pretendevano essere all’avanguardia come, per esempio André Hodeir e Antoine Goléa, abbiano attaccato Stravinsky con una violenza particolare, rimproverandogli la sua cecità davanti al dodecafonismo, de­ nunciando il suo neoclassicismo e l’influenza nefasta ch’egli aveva eser­ citato su un’intera generazione di musicisti di tutto il mondo12. Fin dal 1948, nella sua Philosophic der neuen Musik, Theodor W. Adorno rite­ neva bene opporre in un dittico «Schónberg ed il progresso» e «Stravin­ sky e la restaurazione». Cosi, al principio degli anni intorno al 1950, i musicisti più dotati che s’erano dati a comporre nella scia del serialismo post-weberniano, avevano sempre manifestato, come complementare, una viva opposizio­ ne al neoclassicismo di Stravinsky. L’ultima opera neoclassica di Stravinsky - e, indubbiamente la più perfetta - è la sua opera The Rake’s Progress. Robert Craft ha raccontato quale profonda rivelazione fu per Stravinsky l’audizione delle opere dei Viennesi e in particolar modo quelle di Webern, nel 1952 e negli anni seguenti3: questa musica ch’egli certamente conosceva da lungo tempo, Stravinsky sembra averla veramente scoperta e compresa solamente al­ lora. Lo sviluppo della sua creazione ne fu profondamente trasformato: e senza rinnegare il proprio genio, divenne allora un musicista seriale. I testi che Stravinsky ci ha lasciato dopo il 1957 rivelano, prima d’ogni altra cosa, l’impronta di questa ri-scoperta dei Viennesi. Ed è cosi totale, questa scoperta, che Stravinsky riconosce di non aver conservato alcun ricordo di un possibile incontro con Webern4, né di esecuzioni di opere sue, che pure erano state eseguite insieme a lavori stravinskiani in certi concerti parigini degli anni venti5. Ma è con un entusiasmo enfa­ tico che, nel 1959, egli dichiara che Webern «rimane una perpetua Pen­ tecoste per tutti coloro che credono alla musica»; secondo il suo modo di vedere, l’importanza di Webern è dovuta al fatto che questi «è scopri­ tore di una nuova distanza tra l’oggetto musicale e noi, e di conseguen­ za, di una nuova misura del tempo musicale»6; egli si chiede se « Webern 1 p. Boulez, Stravinsky demeure, in «Musique russe», Paris 1953, p. 221 prendistato, a cura di P. Thévenin, trad', di L. Bonino Savarino]. 2 a. hodeir, La musique étrangére contetnporaine, Paris 1934, e a. goléa, sique contemporaine, Paris 1934. 3 Robert craft, Dix années avec Stravinsky, in Avec Stravinsky, Miinchen 4 Stravinsky, Entretiens avec Robert Craft, in Avec Stravinsky, p. 24. 5 id., Themes and Episodes, Knopf, New York 1966, p. 120; di prossima Einaudi. 6 Cfr. in questa edizione, p. 170.

[trad. it. Note di ap­

Esthétique de la rnu1938, p. 81.

pubblicazione presso

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stesso sapeva chi era Webern » tanto nuova è la struttura armonica del­ la sua musica che non può essere percepita se non in variazioni di den­ sità1. In un’intervista del 1965 ritrova ancora una volta quel tipo di voca­ bolario para-religioso — che in altri tempi detestava nei wagneriani — per dire che, in fin dei conti, egli riverisce «saint-Antoine»; ed aggiunge che Webern impregna profondamente la sensibilità musicale contemporanea2. L’atteggiamento di Stravinsky davanti a Schonberg è più complesso. Nelle sue Cronache ricordava di aver ascoltato Pierrot lunaire a Berlino nel 1912, ma si limitava a dichiarare un po’ seccamente, che se la riuscita strumentale della partitura gli sembrava incontestabile, non era mai sta­ to entusiasta dell’estetica di quest’opera che gli sembrava «un ritorno al periodo del culto di Beardsley» 3. Nella Poetica della musica, dopo aver criticato i responsabili delle cacofonie moderniste, Stravinsky però ave­ va ritenuto opportuno precisare ch’egli non metteva Schonberg fra loro, perché il sistema da lui adottato restava sempre perfettamente logico e coerente; riconoscimento, però, ch’era ben lontano dal significare una qualsiasi adesione ad una musica lontanissima dalla sua, «tanto per l’e­ stetica che per la tecnica»\ Negli scritti posteriori al 1957, al contrario, Stravinsky insiste sul­ l'impressione profonda suscitata in lui dal Pierrot lunaire per la sua so­ stanza strumentale, intendendo con questo «non solamente la strumen­ tazione ma tutta la struttura contrappuntistica e polifonica di questo folgorante capolavoro strumentale»5 e attribuisce a Djagilev la respon­ sabilità di aver criticato duramente l’estetica JugendstiV. Riconosce non­ dimeno che, pur avendo presentito fin da allora l’importanza di Pierrot lunaire, non potè comprenderlo se non in maniera impressionista, senza scorgerne veramente l’autentica sostanza. Del resto, precisa che allora non conosceva nessuna delle opere capitali che Schonberg aveva scritto prima di Pierrot lunaire (i Fiinf Orchesterstùcke, Erwartung, Die glùckliche Hand) e che negli anni seguenti non aveva ascoltato altro che una seconda volta Pierrot lunaire diretta da Darius Milhaud a Parigi, la Suite op. 29 nel 1937 a Venezia, il Prelude à la Genèse nel 1945 a Hollywood, e la Kammersymphonic nel 19491. Se a questo si aggiunge che fino allo1 Stravinsky, Entretiens cit., p. ^7. 2 id., Themes cit., p. 123. 3 id., Cronache cit., p. 8.5. 4 id., Poetica cit., pp. 14-1.5. 5 id., Entretiens cit., p. 24. 6 id., Dialogues cit., p. 104. 7 Ibid., p. 106.

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ra sembra ch’egli non abbia ascoltato nulla di Alban Berg, bisogna rico­ noscere che lo Stravinsky anteriore al 1952 - il neoclassico che veniva opposto a Schonberg in un’antitesi rigorosa — conosceva piuttosto male i Viennesi1. Ed è questo, senza dubbio, che può spiegare come l’audi­ zione a dosi massicce della loro musica in certi concerti di Hollywood - unita all’entusiasmo di Craft e di qualche giovane musicista come Bou­ lez - abbia potuto imporsi a lui con la forza di una rivelazione. I suoi scritti portano l’impronta di questa scoperta essenziale per lui, che non l’ha certamente indotto a rinnegarsi, ma che ha orientato in nuove dire­ zioni il suo modo di comporre e gli ha dato nuove basi estetiche. Nel 1957 egli crede che «il linguaggio più perfetto è lo stile seriale», il quale ha «arricchito lo stile d’oggi» e modificato i punti di vista di tut­ ti i compositori: per ciò che in materia d’arte si può intuire sulle tenden­ ze dell’evoluzione, pensa che «la nuova musica sarà seriale»1 2. E d’ora in poi non manifesta più le riserve che prima aveva avuto per le correnti radicali. Al contrario: s’interessa da vicino a tutte le tenden­ ze d’avanguardia, senza perdere per questo il suo senso critico. Tra i gio­ vani musicisti, coloro ai quali va la sua più grande simpatia, sono gli in­ novatori più decisi. A Craft che gli chiede di citare l’opera di un giovane autore che lo interessa più d’ogni altro, risponde, nel 1957: «Le marteau sans maitre»; e senza tentare di giustificare la sua ammirazione, parafra­ sa Gertrude Stein a proposito di Picasso: «Io, amo ascoltare Boulez»3. Poiché, senza poter razionalizzare chiaramente ciò che sente, ha la con­ vinzione di percepire il significato dell’universo sonoro post-weberniano del Marteau o della Terza Sonata4. Altrove spiega di essere particolar­ mente affascinato dalle novità sonore che Boulez può trarre dal piano­ forte, e dall’invenzione veramente «alla Mallarmé» delle sue strutture formali5: sì entusiasma anche per le bellezze sonore d’una composizione come Eclat per pianoforte e complesso da camera, e per la «nuova tecni­ ca del controllo del tempo» che questa composizione propone, e nella quale il direttore d’orchestra - «Maitre Boulez», come lo chiama con una solennità affettuosa e un poco ironica - ha una parte eminentemente creatrice6. 1 Souvtchinsky ricorda che Stravinsky qualificava di «Musique boche» Wozzeck (che non ave­ va mai sentito), e che a proposito di Mahler (che non conosceva) faceva dell’ironia, parlando di «maIheur». Poulenc assicurava che, prima della guerra, il solo fatto di evocare Schonberg e Berg davanti a Stravinsky bastava a destare in lui un sospetto di tradimento a suo riguardo (Retrospectives and Conclusions, p. 113). 2 STRAVINSKY, Entretiens cit., p. 28. 3 Ibid., p. 18. 4 Ibid., p. 57. 5 Ibid., p. 63. 6 id., Themes cit., p. 17.

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Di Stockhausen ammira Gruppen per le innovazioni ritmiche, post­ seriali, per le sottili combinazioni degli effettivi sonori delle sue tre or­ chestre nonostante alcune riserve, ammira Carré per certi effetti orche­ strali e vocali, ed anche per le novità del suo grafismo1 2. Retrospettiva­ mente Stravinsky ri-valorizza musicisti, le innovazioni dei quali erano state, all’inizio, misconosciute: di Edgar Varèse afferma di conoscere e di ammirare grandemente Ionisation, Octandre, Density 21,^ Integra­ tes} aggiunge anche, in modo leggermente provocante, ch’egli considera la sua attività più recente — la registrazione su nastro dei suoni della città di New York — «di grandissimo valore e non solo come documentazione, ma come materiale d’arte» 3; altrove dà prova di conoscere minuziosa­ mente diverse partiture di Varèse, mettendo in evidenza influenze di De­ bussy, della musica popolare, del jazz, e delle proprie composizioni ante­ riori al 1914; vede in Déserts una tra le migliori opere della musica con­ temporanea e nella quale Varèse ha avuto il merito di integrare felice­ mente la musica elettronica alla musica viva: il merito, anche, d’essere stato tra i primi ad utilizzare i rapporti d’intensità come elementi di strutturazione formale, e d’aver scoperto nuove risorse per gli strumen­ ti a percussione e per gli strumenti a fiato4. Egualmente s’interessa a Charles Ives come a un precursore sorpren­ dente per le sue ricerche di poliritmia, di politonalità, di atonalità, di ef­ fetti sonori nuovi, di utilizzazione dei micro-intervalli, di combinazioni d’orchestre multiple, del caso e dell’improvvisazione5. Da questi pochi esempi appare chiaramente che ormai Stravinsky ac­ corda una viva attenzione alle ricerche più innovatrici nel linguaggio. E, di conseguenza, si mostra generalmente severo verso quei musicisti che non si pongono in questa corrente di ricerche e d’invenzioni: con Hinde­ mith, per esempio, nonostante l’amicizia che lo lega a lui (e precisando di non essere mai stato completamente sincero negli elogi che ha potuto fare della sua musica precedentemente)6; con Prokofev che fu anche suo amico, che ammira come eccellente pianista, le cui opere hanno «del­ la personalità», ma «spaventosamente ingenuo in materia di costruzio­ ne musicale», ed i giudizi artistici del quale erano «abitualmente banali e spesso errati», e le cui facoltà intellettuali «venivano usate soltanto 1 Cfr. in questa edizione p. 182. Sul Gesang der Jiinglinge, vedi anche Entretiens cit., p. 28.

2 Stravinsky, Tbetnes cit., p. 12. 3 Cfr. in questa edizione, p. 168.

4 Stravinsky, Dialogues cit., pp. 110-11. 5 Cfr. in questa edizione, p. 284, e Dialogues cit., p. 66. 6 Stravinsky, Dialogues cit., p. 102, in opposizione al giudizio già espresso nelle Cronache cit., p. 238.

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nel gioco degli scacchi» con lo «stile americano» che gli sembra di un livello molto basso «d’espressione e tecnica banale»1 23 ; con Benjamin Britten, il cui War Requiem è un miscuglio di musiche di cinema alla ma­ niera di Honegger, di formule senza invenzione e di imitazioni realisti­ cheJ; per i compositori francesi piu celebri del periodo fra le due guerre dei quali diceva bene un tempo, ed a proposito dei quali lascia pubblicare da Craft qualche cattiveria gratuita4. Si è potuto sospettare che Stravinsky, invecchiando, approvasse siste­ maticamente tutte le novità per rendersi degno di riprendere - e questa volta sino alla fine - il suo posto alla testa dell’avanguardia. In una let­ tera del 18 novembre 1965 al «New York Times», il musicista ha credu­ to opportuno difendersi dall’accusa di aver tributato elogi a Varèse sol­ tanto per seguire una moda e senza verifiche; ha precisato che egli s’era formato una opinione diretta in occasione - tra le altre - di alcune sedute di registrazione delle opere di Varèse a Los Angeles5. In ogni modo sa­ rebbe sbagliato pensare che Stravinsky accordi una fiducia incondizio­ nata a tutte le arditezze dell’avanguardia. Anche i musicisti che suscita­ no maggiormente il suo interesse vengono giudicati con spirito critico. Inoltre Stravinsky non apprezza molto certi leaders fra i meno contestati dell’avanguardia: Olivier Messiaen, per esempio, di cui non ama le tra­ sposizioni del canto degli uccelli6, né gli straripamenti sonori, né le co­ struzioni troppo tributarie dell’improvvisazione, né l’ingenuità7; John Cage lo diverte - Stravinsky vede in lui il solo musicista di spirito dada ma esita a considerare tutto ciò che fa come musica, sia pure all’infuori d’ogni tradizione - non solamente quella di Bach e di Beethoven, ma an­ che quella di Schonberg e di Webern è, tutt’al più, una «metamusi­ ca» e non certo una «nuova maniera di vivere» come si tende a dire a proposito di qualsiasi cosa8. Stravinsky non s’interessa alla musica elettronica in se stessa, poiché questa ha troppo spesso il torto di utilizzare i rumori realisti usciti dalla musica concreta o di imitare gli strumenti già esistenti; essa sfrutta po­ veramente l’immensità delle sue possibilità sonore; ha il merito di ren­ dere i compositori più sensibili ai problemi di tessitura, di articolazione, di dinamica e di suscitare invenzioni ritmiche; ma per la mancanza del­ 1 Cfr. in questa edizione, p. 142.

2 Stravinsky, Entretiens cit,, p. 69. 3 id., Themes cit., pp. 87-88. 4 id., Cronache cit., p. 144 e Dialogues cit., pp. 177, 206. 5 id., Themes cit., pp. 87-88. 6 id., Dialogues cit., pp. 59-69. 7 id., Themes cit., p. 119. 8 id., Esposizioni cit., p. 283.

«Specchi di Stravinsky»

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l’orchestra, del direttore, i concerti di musica elettronica lo fanno pen­ sare a sedute di spiritismo; secondo lui è nel teatro che la musica elettro­ nica può avere qualche interesse, soprattutto mescolandosi e giustappo­ nendosi agli strumenti tradizionali - ed alla vita \ Al contrario di ciò che si sarebbe potuto supporre, la musica elettro­ nica per Stravinsky non rappresenta l’ideale di quell’arte completamen­ te volontaria e dominata nei suoi minimi elementi, verso la quale egli sembrava tendere in passato. Certo, Stravinsky conserva la sua diffiden­ za per l’interprete e non può decidersi a cadere — come han fatto molti giovani musicisti — dagli eccessi rigoristici dell’elettronica nell’abbando­ no alla volontà dell’esecutore: «Credo illogico, - egli dice giustamente, — controllare tutto rigorosamente e poi lasciare la forma definitiva alla mercè di un esecutore; pur dando a credere di avere previsto tutto. La musica non può dipendere da grandi ponderabili e da piccoli imponde­ rabili» 1 2. Stravinsky dichiara ancora di non comprendere nulla della musica aleatoria3; afferma il suo scetticismo quanto alla composizione basata su strutture puramente matematiche45; e, a proposito delle musiche multiseriali (che si è creduto poter definire «puntillistiche»), sottolinea il fat­ to che nelle composizioni dove tutto è concepito per generare un movi­ mento perpetuo e multi-direzionale, il risultato sonoro tende a una statisticità che distrugge ogni strutturazione del tempo e vieta la realizzazio­ ne di ciò ch’egli si attende da una forma musicale; e conserva anche il suo distacco con ciò ch’egli definisce la «generazione Zen»\ Ciò che più interessa Stravinsky nelle ricerche delle musiche nuove sono, a quanto sembra, i prolungamenti delle sue più antiche preoccupa­ zioni relative al ritmo, ed inoltre il controllo del tempo e le possibilità di strutturazione che nascono in un campo che, fino allora, sembrava ab­ bandonato all’approssimazione o al temperamento degli interpreti6; pen­ sa anche che la «musica del futuro» potrà certamente trovare un più va­ sto campo di sviluppo nell’utilizzazione delle altezze sonore, indipenden­ ti dal temperamento come nelle gamme tradizionalmente usate in Occi­ dente7. Si può anche pensare che nell’adozione da lui fatta della tecnica seriale, vi sia una trasposizione, in un ambito diverso, della sua antica aspirazione verso un ordine ormai impossibile a raggiungere nel mondo 1 Stravinsky, Entretiens cit., pp. 26 e 58; Conversazioni cit., p. 168; Dialogues cit., p. 126. 2 id., Entretiens cit., p. 284. 3 Cfr. in questa edizione, p. 286. 4 Cfr. in questa edizione, pp. 297-98. 5 Stravinsky, Dialogues cit., p. 127. 6 id., Entretiens cit., p. 30. 7 Cfr. in questa edizione, p. 184.

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della tonalità, sia pure ampiandolo fino alla polarità. Stravinsky non si esprime molto chiaramente su questo argomento, ma, dal suo punto di vista, una delle virtù della serie è quella di istituire forme che non sono affatto arbitrariel. Non è certamente senza intenzione se, nel simbolismo al quale ricorre nella sua opera The Flood, nel momento, in cui si esce dal caos, al Te Deum, egli adotta anche una costruzione seriale: «così si può anche pensare che “caos” sia come l’antitesi di seriale»1 2. Nondime­ no è certo che ormai, se egli dà ancora una grande importanza alle regole che il compositore si impone, Stravinsky non è più dominato dall’odio per il disordine che, al tempo del suo neoclassicismo, gli faceva temere ogni rinnovamento del linguaggio e lo incitava a valorizzare le sue con­ cezioni estetiche in una mitologia rassicurante. Altro colore acquista anche la parola «moderno» che ora implica «un fervore nuovo, una emozione nuova, un sentimento nuovo», ed anche una certa insoddisfazione del mondo qual è - ben lontana dall’ideale di ordine da salvaguardare ad ogni costo, che animava il musicista in altri tempi3. Questo, però, non lo induce a fare l’elogio della novità per se stessa. Se lo «sperimentale» non lo spaventa più, è perché ha la certezza che tutto ciò che è solamente «sperimentale» è effimero e trascurabile, ma che ogni esperienza ha la sua importanza quando s’incarna in un’ope­ ra riuscita4. Non si preoccupa più - come aveva fatto in altri tempi, sotto l’in­ fluenza di Souvtchinsky, ma anche con la volontà di dare alla propria mu­ sica una dimensione di eternità - d’integrarla in una riflessione generale sul tempo; se ormai ammette che la musica è «un’immagine della nostra esperienza di vita in ciò che essa ha di temporale», aggiunge subito che «questo tipo di riflessione sulla musica» gli è piuttosto estraneo: «io non me ne faccio niente, sono essenzialmente un uomo che fa»5. Poiché, pure insistendo un po’ meno, egli continua a pensare che la composizione mu­ sicale è un artigianato6; ha conservato la nostalgia per la creazione ano­ nima, quella di un Bach che compone per la gloria di Dio e per le neces­ sità di un servizio regolare; ma comprende anche che ormai è vano ten­ tare di ricreare artificialmente le condizioni d’una situazione sociologica tramontata. Se nella società d’oggi un compositore può ancora ottenere certe committenze, queste non rispondono ormai più a necessità reali: 1 Stravinsky, Entretiens cit., p. 30. 2 Cfr. in questa edizione, p. 317. 3 Cfr. in questa edizione, p. 77. 4 Stravinsky, Entretiens cit., pp. 63-64. 5 id., Dialogues cit., p. 12^. 6 Ibid., p. 123.

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«i committenti - nota con lucidità — sono obbligati a cercare di compera­ re tanto il bisogno della sinfonia quanto la sinfonia stessa» la musica ha cessato irrimediabilmente d’essere funzionale, ed è ormai impossibile, superfluo o pericoloso il tentar di soddisfare colui che l’ha pagata; in de­ finitiva, la sola cosa che conta è la decisione dell’artista stesso ed i pro­ blemi che gli vengono posti dalla propria coscienza. A Craft che gli do­ manda per chi compone, risponde: «Per me stesso e l’ipotetico altro»12; in un’intervista dichiara che quando compone non ha più in testa l’idea di un pubblico preciso3. Certo non è la critica professionale che ha potu­ to sembrargli l’intermediario comprensivo, desiderato, per affrettare la comprensione della sua musica: mai. Ma quando scrive: «Quando com­ pongo non posso immaginarmi che l’opera non possa essere compresa e riconosciuta per quella che è. Uso il linguaggio musicale e la mia stesura fatta a mezzo la mia "grammatica” sarà comprensibile per il musicista che abbia seguito l’evoluzione della musica fino al punto in cui i miei contemporanei ed io stesso l’abbiamo spinta» — si deve ammettere che non è troppo diverso dagli artisti individualisti che denunciava con vio­ lenza qualche tempo prima. Le sue preoccupazioni artigianali continuano soprattutto nella volon­ tà di conservare un contatto diretto con la materia sonora, nel desiderio di trarre dagli strumenti nuove risorse con una pratica diretta più atten­ ta, con la sua convinzione che la tecnica è strettamente legata al pensiero ch’essa condiziona tanto quanto lo esprime4. Continua a diffidare delle parole letterarie e abusivamente patetiche, come «genio» oppure «ispi­ razione » ; ma tiene a spiegare ch’egli non ha mai voluto veramente negare ogni possibilità d’espressione alla musica, e in realtà ha voluto solamen­ te dire che la musica non può essere assimilata a un messaggio verbale, non può essere ridotta a un significato razionale: ormai ammette che un certo contenuto espressivo può essere legato alla musica, ma la musica non rimanda a un al-di-là di se stessa: essa non dice altra cosa di ciò che dice5. Si può ammettere dunque che questa è un’altra correzione al rigo­ roso formalismo d’altri tempi: al di là dell’espressione, l’espressività ces­ sa di essere sospetta a priori. Non rivendica più l’antipatetismo e ricono­ sce in tutta la sua musica, anche in quella del periodo neoclassico, «degli elementi sia apollinei che dionisiaci»6. 1 Cfr. in questa edizione, p. 163. 2 Cfr. in questa edizione, p. 161. 3 Stravinsky, Themes cit., p. 114. 4 id., Entretiens cit., p. 49. 5 Cfr. in questa edizione, p. 299. 6 Stravinsky, Entretiens cit., p. 19.

XXXII

Robert Wangermée

Quanto all’ordine che, agli occhi di Stravinsky, resta necessario per strutturare una forma, ormai non si tratta più di realizzarlo in maniera privilegiata, con referenze a forme già esistenti ereditate dal passato. Webern ha provato che si poteva comporre imponendosi un principio d’ordine completamente nuovo, che può dare origine a nuove conven­ zioni quando sarà riconosciuto e codificato questo, evidentemente, re­ stituisce al compositore una libertà che non è più limitata se non dalla sua volontà e dalla sua coscienza; ma — dopo aver riconosciuto tutte le insufficienze del linguaggio armonico troppo direttamente legato al pas­ sato tonale - Stravinsky apparentemente è stato felice di trovare altre regole e, di conseguenza, nuove restrizioni e una disciplina nella tecnica seriale1 2. Comunque, se la musica seriale non offre più uno schema formale pre­ stabilito, che può servire come trampolino all’invenzione del composito­ re, è in ogni nuova opera che la forma concreta viene inventata, comin­ ciando dai rapporti melodici e armonici ampliati e organizzati nei mate­ riali scelti secondo certi «principi d’identità» che permettono la strut­ turazione 3. Perciò la musica antica ha cessato, evidentemente, xdi avere un ruolo privilegiato nell’attività compositiva di Stravinsky. D’ora in poi egli si preoccupa di distinguere la tradizione da «ciò che assomiglia al passato». Infatti scrive: «la vera opera che costituirà la tradizione potrà del tutto non rassomigliare al passato, e soprattutto non al passato immediato»4. A buon diritto, non può immaginare che un compositore possa conce­ pire la sua creazione, libero da ogni legame con le opere del passato, le quali servono come punto di partenza alla sua immaginazione; ma non crede più necessario considerare queste opere come una trama ideale per la composizione. Questo non gli ha impedito d’interessarsi alla musica del passato con una passione forse più grande che negli anni precedenti: del resto, la sua conoscenza della musica antica sembra essersi considere­ volmente ampliata e raffinata. Non si limita più ad opporre rozzamente l’individualismo e il patetismo romantico carico di tutti i peccati, allo stile collettivo e contenuto dei musicisti del secolo xvm, Non se la pren­ de più con Wagner. S’interessa meno a Vivaldi, che ora giudica «noioso perché poteva ricominciare seicento volte lo stesso concerto» e agli altri compositori italiani del xvm secolo (compreso Pergolesi), ma piuttosto 1 2 3 4

STRAVINSKY, Entretiens cit., p. 17. Ibid., pp. 14-15. Ibid., p. 15. Cfr. in questa edizione, p. 189.

«Specchi di Stravinsky»

XXXIII

a Monteverdi, Gabrieli, Rore, Willaert a Bach, sempre, a Mozart ed a Beethoven, ma anche a Gesualdo1 2, alla «musica riservata» ed al croma­ tismo del xvi secolo3, alle composizioni per liuto di Adrien Le Roy4, a Machault ed alla musica profana del xiv secolo56 7. Quando gli succede — ormai piu raramente - di utilizzare nella propria musica qualche musici­ sta del passato (Bach o Gesualdo) appare più rispettoso: conservando un certo distacco, con la musica del passato si mostra meno «divoratore» che in altri tempi; ha un'altra maniera di amarla, ora, più rispettosa, ma, in ultima analisi, basata su una conoscenza più intima e profonda. L’adesione alla tecnica seriale non lo induce tuttavia a rinnegare il suo neoclassicismo di qualche anno fa: al contrario, si sforza di spiegarlo e di giustificarlo persino nelle opere più sospette, secondo ciò ch’egli de­ finisce gli «standards d’oggi progressivo-evoluzionistici»: CEdipus Rex, Apollon Musagète, {'Ottetto*. Se negli anni tra il 1930 e il 1945 vi fu un neoclassicismo, Stravinsky pensa di non essere stato il solo a darne l’esempio: «oltre ai propri imitatori, a quelli di Paul Hindemith e a qual­ che altra scuola di minore importanza», tiene a dimostrare che la scuola di Schonberg rappresentava anch’essa un neoclassicismo, se non un acca­ demismo. Riconosce anche - e non senza ragione - che prima del 1914 la mu­ sica ha avuto un periodo di esplorazioni e di scoperte particolarmente attive e in direzioni diverse, con Pierrot lunaire (Schonberg), Jeux (De­ bussy), certe opere di Webern e il Sacre du printemps*, che in seguito vi fu una sclerosi neoclassica generalizzata sino al 1945, quando ebbe ini­ zio un nuovo periodo esplorativo e rivoluzionario «che cominciò preci­ samente con la riscoperta dei capolavori del 1912» ’. Cosi, dunque, non accetta l’opposizione che si volle stabilire tra lui e Schonberg, secondo la quale Schonberg avrebbe indicato ai compositori nuove vie da esplorare mentre lui si sarebbe limitato a rattoppare vecchie barcacce; pure uti­ lizzando materie preesistenti ha la convinzione d’aver fatto del nuovo quanto poteva farlo8. Verso il 1920, Schonberg e Webern — il linguaggio dei quali sembrava più audace del suo — hanno utilizzato, com’egli face­ va, forme musicali storiche; ma mentre egli procedeva in modo franco, i Viennesi avevano «saggiamente» mascherato il loro modo di procede­ 1 Stravinsky, Entretiens cit., p. 68. 2 3 4 5

Cfr. in questa edizione, p. 342. Cfr. in questa edizione, p. 181. Cfr. in questa edizione, p. 305. Cfr. in questa edizione, p. 266. 6 Stravinsky, Dialogues cit., pp. 13-40. 7 Cfr. in questa edizione, p. 186. 8 Stravinsky, Dialogues cit., p. 129.

XXXIV

«Specchi di Stravinsky»

re: «verso il 1920, noi tutti abbiamo esplorato e scoperto una nuova mu­ sica, ma l’abbiamo legata ad una tradizione da cui ci eravamo distaccati con ardore dieci anni prima» \ A proposito di The Rake's Progress, do­ manda se un compositore possa creare in senso innovatore, riutilizzando elementi presi dalla musica del passato, Stravinsky risponde affermativamente, senza esitazione1 2. Senza timore di isolarsi dai sostenitori piu te­ naci delle nuove musiche, assume dunque completamente la- totalità del suo neoclassicismo, dandogli un significato più progressivo di quanto avesse inteso farlo per il passato. Quanto a ciò che ha composto prima del 1914, vuol provare che, contrariamente a quanto è stato detto, le sue Trois pièces pour quatuor non debbono nulla a Schonberg o a Webern3 e pensa che il Sacre ha presentato una innovazione ben più profonda, una rottura più completa col passato di quanto non abbiano potuto fare i tre Viennesi, i quali, alla fine, hanno conservato con la tradizione legami ben più stretti di quanto non abbia fatto lui. Vuole cosi mostrare agli occhi delle giovani generazioni che il vero rivoluzionario è lui, Stravinsky. Nei suoi ultimi scritti Stravinsky vuole giustificare il posto del com­ positore secondo l’orientamento delle innovazioni più importanti del xx secolo; corregge la ristrettezza di certi punti di vista affermati negli scritti precedenti, integra il Sacre, le opere neoclassiche e le opere seriali in un sistema unico e vuol provare ai sostenitori delle musiche nuove che Stravinsky può essere per loro il maestro più degno d’ammirazione, non solamente per l’opera ormai mitica ch’è il Sacre, ma per l’insieme della sua creazione, come per la continua disponibilità al rinnovamento ha sempre mantenuto, restando fedele a se stesso4. Bruxelles, febbraio 1971. 1 STRAVINSKY, Entretiens cit., pp. 52-53. id., Themes cit., p. 49. 3 Cfr. in questa edizione, p. 164. 4 II saggio di Robert Wangermée, che qui si ripubblica per gentile concessione dell’autore, è stato edito per la prima volta, nella traduzione di Domenico de Paoli, dalla «Nuova Rivista Musi­ cale Italiana», III, 1971.

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Nota all’edizione italiana

Il presente volume raccoglie tre opere apparse separatamente dapprima negli Stati Uniti, presso Veditore Doubleday di New York e successivamente ristampate dall’editore Faber and Faber di Londra: Conversations with Igor Stravinsky (1959), Memories and Commentaries (i960), Expositions and Developments (1962). La traduzione di Expositions and Developments è stata condotta sul testo del­ l’edizione americana Doubleday, New York 1962. Sempre nel 1962 comparve da Faber and Faber, London, l’edizione inglese cui talvolta si farà riferimento. Le due edizioni sono sostanzialmente uguali; le differenze, in apparenza vistose, sono do­ vute soltanto a un montaggio diverso, talora, delle stesse domande e delle stesse ri­ sposte. Nell’edizione inglese vi sono alcune note in piu, che vengono qui date; vi compaiono inoltre le Appendici A, B, C; manca però il «Confronto di due critici» che chiude l’edizione americana. Le tre opere sono state tradotte integralmente: si è scelto di accomunarle sotto un titolo unico, volendo soprattutto sottolineare che la struttura che le apparenta è quella del dialogo tra il grande compositore e il suo testimone ed interprete piu vicino. Un secondo volume, di successiva pubblicazione, raccoglierà le quattro ulteriori opere nate ancora dalla collaborazione tra Craft e Stravinsky, ed esattamente Dialo­ gues and a Diary, Themes and Episodes, Retrospectives and Conclusions, Themes and Conclusions (contrazione dei due precedenti con aggiunte varie). Quanto alla grafia del cognome del compositore abbiamo ritenuto di adottare quella dell’edizione originale, giacché vide la luce con l’approvazione dell’autore che implicitamente autorizzava questa traslitterazione dell’originario cognome russo.

Febbraio 1977.

Colloqui con Stravinsky

Gli autori ringraziano Madame de Tinan per il permesso di ristampare le lettere di Claude Debussy; Madame Jacques Rivière per quelle di Jacques Rivière; Edouard Ravel per le lettere di Maurice Ravel; i curatori testamentari dei copyright di Dylan Thomas per le lettere di Dylan Thomas.

Conversazioni con Igor' Stravinsky

Nel Regno del Padre non v’è dramma ma solo dialogo, che prende l’aspetto del monologo. RUDOLPH KASSNER

A Isaiah Berlin

[Tutti i libri nati dalla collaborazione tra Craft e Stravinsky sono dedicati rispettiva­ mente a qualche amico del compositore e in un caso alla moglie Vera. Sia l’edizione ame­ ricana (Doubleday, 1959) sia quella inglese (Faber, 1959) di questo primo libro non portano alcuna dedica che compare invece nella ristampa del 1962 nei Pelican Books].

I.

Il modo di comporre e le composizioni

R. c. : Quando le accadde di rendersi conto della sua vocazione di compositore? i. s.: Non ricordo né quando né come pensai per la prima volta di diventare compositore. Tutto quel che ricordo è che questo pensiero mi venne prestissimo da bambino, molto prima di iniziare studi mu­ sicali veri e propri. r. c.: L’idea musicale: quando la riconosce come tale? i. s.: Quando qualcosa nella mia natura viene soddisfatto da un cer­ to aspetto di figura sonora. Ma molto prima che nascano le idee, comin­ cio a lavorare mettendo in relazione gli intervalli ritmicamente. L’esplo­ razione di queste possibilità avviene sempre al pianoforte. Soltanto dopo aver stabilito le mie relazioni melodiche e armoniche passo alla composizione. La composizione è una ulteriore estensione e organizza­ zione del materiale. r. c. : È sempre chiara nella sua mente dall’inizio dell’idea quale for­ ma di composizione si svilupperà? E riguardo l’idea stessa: è chiaro quale suono strumentale la produrrà? i. s.: Non deve supporre che quando si ha in mente l’idea musicale si veda più o meno distintamente la forma in cui la composizione si può evolvere. Né che il timbro sia già subito presente. Ma se l’idea musicale è un mero gruppo di note, un motivo che viene subito in mente, molto spesso esso è già accompagnato dal suo timbro. R. c. : Lei dice di sé che è uno che fa, non uno che pensa; che il com­ porre non è una sezione del pensiero concettuale; che la sua natura lo porta a comporre musica e che la compone naturalmente, non attraverso atti del pensiero e della volontà. Poche ore di lavoro per un terzo dei giorni degli ultimi cinquant’anni hanno prodotto un catalogo che te­ stimonia come il comporre sia per lei proprio un fatto naturale. Ma come viene incontro alla natura? i. s. : Quando il mio tema principale è stato deciso, so in linea gene­ rale quale specie di materiale musicale gli occorrerà. Comincio a cercare

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Conversazioni con Igor' Stravinsky

questo materiale, qualche volta suonando i maestri del passato (per met­ termi in movimento), altre volte cominciando direttamente a improvvi­ sare le unità ritmiche su una serie provvisoria di note (che può diventare definitiva). Cosi formo il mio materiale costruttivo. r. c. : Quando ottiene la musica che ha impegnato il suo lavoro crea­ tivo, ne è sicuro, ne riconosce sempre istantaneamente la compiutezza, oppure deve talvolta ricercarla per un periodo di tempo più lungo? i. s. : Di solito riconosco la meta. Ma quando non ne sono ben sicuro mi trovo a disagio nel posporre la soluzione e fare assegnamento sul futuro. Il futuro non mi dà mai la garanzia di realtà che ricevo dal pre­ sente. R. c.: Che cos’è la teoria nella composizione musicale? i. s. : Una concezione posteriore. Non esiste. Esistono le composizio­ ni, dalle quali poi la si deduce. Oppure, se questo non è del tutto vero, la teoria ha un’esistenza da sottoprodotto che è impotente a creare o per­ fino a giustificare. Cionondimeno, la composizione implica una profon­ da intuizione teorica. r. c. : Le idee musicali si presentano alla sua mente a caso, durante il giorno o la notte? i. s.: Generalmente le idee mi si presentano quando compongo, e solo molto raramente quando non sono al lavoro. Anzi mi disturbano sempre se mi vengono all’orecchio quando la mia penna non può affer­ rarle e per tenerle in mente sono cosi costretto a ripetermene gli inter­ valli e i ritmi. È molto importante per me ricordare l’altezza assoluta della musica al suo primo apparire: se per qualche ragione debbo tra­ sporla, corro il pericolo di perdere la freschezza del primo contatto e avrò difficoltà a ricatturare la sua attrattiva. La musica mi si è qualche volta presentata in sogno, ma soltanto una volta mi è stato possibile annotarla. Fu durante la composizione delVHistoire du soldat, e fui sorpreso e felice del risultato. Non solo la musica mi apparve ma an­ che la persona che la suonava era presente nel sogno. Una giovane zin­ gara seduta sul ciglio della strada. Aveva in grembo un bambino e per intrattenerlo suonava il violino. Il motivo che continuava a ripetere si svolgeva su tutta la lunghezza dell’arcata, o, come si dice in france­ se, «avec toute la longueur de l’archet». Il bambino era molto entu­ siasta di quella musica e l’applaudiva con le manine. Anch’io ne ero molto soddisfatto, ma specialmente perché ero in grado di ricordarmelo, e gioiosamente inclusi questo motivo nella musica del Petit concert. r. c.: Si riferisce spesso al peso di un intervallo. Che cosa intende dire? i. s. : Mi mancano le parole e poi non sono dotato per questo genere

Il modo di comporre e le composizioni

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di cose, ma forse può essere di aiuto sapere che, quando compongo un intervallo, lo sento come un oggetto (quando cioè lo penso in quel mo­ do), come qualcosa all’infuori di me, il contrario di un’impressione.

Le racconterò il sogno che ho fatto nel periodo in cui componevo Threni. Dopo aver lavorato fino a tardi, una notte andai a dormire con il problema di un intervallo che ancora mi assillava. Sognai di questo in­ tervallo. Era diventato una sostanza elastica che si tendeva esattamente tra le due note che avevo composto, ma al di sotto di queste note, a cia­ scuna estremità, c’era un uovo, un grosso uovo testicolare. Le uova era­ no gelatinose al tatto (le toccai), e calde, ed erano protette da nidi. Mi svegliai sicuro che il mio intervallo era giusto. (Per quelli che vogliono saperne di più del mio sogno, dirò che il tutto era di un colore rosa: sogno spesso a colori. Inoltre ero cosi sorpreso di vedere le uova che immediatamente capii che erano dei simboli. Sempre in sogno andai a cercare sul dizionario «intervallo», ma vi trovai solo una spiegazio­ ne confusa che controllai per davvero al mattino seguente e che risultò altrettanto confusa). r. c.: Mentre compone non pensa mai al pubblico? Esiste qual­ cosa come un problema di comunicazione? i. s.: Quando compongo qualcosa, non posso concepire che non sia in grado di venir riconosciuto e capito per quello che è. Mi servo del linguaggio della musica, e le mie asserzioni nella mia grammatica risul­ teranno chiare al musicista che ha seguito la musica fin dove io e i miei contemporanei l’abbiamo portata. R. c.: Non ha mai pensato che la musica sia come Auden dice «una immagine virtuale della nostra esperienza del vivere come temporale, nel suo duplice aspetto di ricorso e divenire»? i. s.: Se la musica è per me una «immagine della nostra esperienza del vivere come temporale» (e sebbene non verificabile, suppongo che lo sia), dire questo da parte mia, è il risultato di una riflessione, e come tale indipendente dalla musica stessa. Ma questo modo di pensare la musica è per me una vocazione del tutto diversa: come verità in ter­ mini di musica per me è completamente inoperante, mentre la mia è una mente operante. Auden intende la musica «occidentale», oppure, come direbbe lui, «la musica come storia»; l’improvvisazione jazz è il disintegrarsi dell’immagine del tempo e, se ben comprendo «ricorso»

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Conversazioni con Igor' Stravinsky

e «divenire», il loro aspetto è molto diminuito nella musica seriale. «L’immagine della nostra esperienza del vivere come temporale» se­ condo la definizione di Auden (che è anch’essa un’immagine), è al di sopra della musica, forse, ma non impedisce o contraddice l’esperienza puramente musicale. Quello che mi colpisce tuttavia, è scoprire che molta gente pensa al di sotto della musica. La musica è semplicemente qualcosa che ricorda loro qualcos’altro - dei paesaggi per esempio; il mio Apollo a qualcuno rammenta sempre la Grecia. Ma anche nei ten­ tativi più specifici di evocazione, che cosa s’intende per «somigliante» e che cosa sono le «corrispondenze»? Chi, ascoltando i piccoli e perfetti Nuages gris di Liszt, può pretendere che le «nuvole grige» siano causa ed effetto musicali? r. c.: Lavora con in mente una concezione dialettica della forma? Questa definizione è significante in termini musicali? i. s. : Si per entrambe le domande, in quanto — secondo i dizionari l’arte della dialettica è l’arte della discussione logica. La forma musi­ cale è il risultato della «discussione logica» dei materiali musicali. R. c.: Dice spesso che «un artista deve evitare la simmetria ma può costruire in parallelismi». Che cosa intende dire? i. s. : I mosaici del Giudizio Universale a Torcello ne sono un buon esempio. Il loro tema è la divisione, per di più divisione in due metà che suggeriscono metà uguali. Ma, in realtà, ciascuna di esse è il comple­ mento dell’altra, non il suo uguale né il suo specchio, e perfino la stessa linea divisoria non è perfettamente perpendicolare. Da una parte teschi con serpenti a foggia di fulmine nelle cavità orbitali, e dall’altra la Vita Eterna (quelle figure bianche, mi chiedo se Tintoretto non le conoscesse), si equilibrano, ma non in modo uguale. E le dimensioni e le proporzioni, i movimenti e le stasi, le ombre e le luci delle due parti sono sempre variate. La Facciala azzurra di Mondrian (Composizione % 1914) è un esem­ pio più recente di quello che voglio dire. È composta di elementi che tendono alla simmetria ma che in realtà la evitano mediante sottili pa­ rallelismi. Se poi l’idea di simmetria sia evitabile in architettura, o se le sia naturale, questo non lo so. Tuttavia, i pittori che dipingono sog­ getti architettonici e prendono a prestito disegni architettonici ne sono spesso colpevoli. Solo i grandi musicisti sono riusciti ad evitarla in pe­ riodi in cui l’architettura ha incarnato gli ideali estetici, cioè, quando l’architettura era simmetria e la simmetria era confusa con la forma stes­ sa. Di tutti i musicisti della sua epoca Haydn era il più conscio, penso, di come essere perfettamente simmetrici significhi essere completamente morti. Alcuni di noi sono ancora divisi dal sentirsi obbligati in modo illu-

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serio verso la simmetria «classica» da una parte, e dall’altra, dal deside­ rio di comporre esclusivamente in maniera non simmetrica, come gli Incas. r. c. : Considera la forma musicale come in un certo senso matema­ tica? i. s. : È ad ogni modo più vicina alla matematica che alla letteratura — forse non proprio alla matematica stessa, ma certamente a qualcosa co­ me il pensare matematicamente e le relazioni matematiche. (Quanto fuor­ viarne è ogni descrizione letteraria della forma musicale!) Con questo non voglio dire che i compositori pensano in equazioni o in grafici nume­ rici, o che queste cose servano meglio a simbolizzare la musica. Ma il modo in cui i compositori pensano, o almeno il mio, non è, mi sembra, molto diverso dal pensare matematicamente. Già da studente ero con­ sapevole della analogia tra questi due modi di pensare; e, a proposito, la matematica era la materia che più mi interessava a scuola. La forma musicale è matematica perché ideale, e la forma è sempre ideale, sia che sia, come scrisse Ortega y Gasset «un’immagine della memoria o una nostra costruzione». Ma sebbene possa essere matematica, il compositore non deve andare in cerca di formule matematiche. R. c. : Dice spesso che comporre è risolvere un problema. Non è niente di più? i. s. : Seurat disse: «Certi critici mi han fatto l’onore di vedere della poesia in quel che faccio, ma io dipingo seguendo il mio metodo senza nessun altro pensiero in mente». r. c. : Nelle sue composizioni a soggetto greco come Apollo, CEdipus, Orpheus, Persephone, i ritmi puntati sono di grande importanza (l’ini­ zio di Apollo-, l’interludio canonico in Orpheus ; la musica Agli inferi in Persephone-, l’aria Nonne monstrum in CEdipus). L’uso di questi rit­ mi è un riferirsi stilisticamente consapevole al Settecento? i. s.: I ritmi puntati sono ritmi caratteristici del Settecento. Il loro impiego in queste ed altre opere di quel periodo, come per esempio nell’introduzione del mio Concerto per pianoforte, è un riferimento stilistico consapevole. Tentavo di costruire una musica nuova sul clas­ sicismo del Settecento usando i principi costruttivi di quel classicismo (che non posso definire qui) ed anche evocandolo stilisticamente con mezzi quali i ritmi puntati. r. c.: Valéry disse: «Possiamo costruire in modo ordinato solo per mezzo delle convenzioni». Come riconoscere quelle convenzioni, per esempio, nelle liriche con clarinetto e chitarra di Webern? i. s.: Non possiamo certo. Nelle liriche di Webern si riscontra un principio d’ordine interamente nuovo, che a suo tempo sarà riconosciu-

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Conversazioni con Igor' Stravinsky

to e convenzionalizzato. Ma i dieta essenzialmente classici di Valéry non prevedono che si possano creare nuove convenzioni. r. c.: Un romanziere (Isherwood) si lamentò una volta con lei delle proprie difficoltà in una questione tecnica di narrazione. Lei gli consi­ gliò di trovarsi un modello. Lei come segue un modello in musica? i. s.: L’ho descritto proprio ora nel caso dei ritmi puntati del Sette­ cento; ho preso a modello questa invenzione ritmica convenzionale per poter «costruire in modo ordinato». R. c.: Perché ha fatto a meno delle stanghette di battuta nelle Diphonas e nelle Elegias dei Threni? i. s.: Le voci non sono sempre all’unisono ritmico. Perciò, qualsiasi stanghetta di battuta verrebbe a dividere arbitrariamente almeno una linea. Non ci sono tempi forti in questi canoni, in ogni caso, e il diretto­ re deve semplicemente dirigere questa musica come se dirigesse un mottetto di Josquin. Per le stesse ragioni ho pure notato valori dimez­ zati piuttosto che legarli sopra una sbarra di battuta. Questo fatto ren­ de forse la lettura più difficile, ma è una notazione più esatta. R. c.: Per Threni ha preso a modello le Lamentazioni di qualche maestro del passato, come, per esempio, nel caso di Agon alcune dan­ ze da Apologie de la danse di De Lauze ed esempi musicali di Mersenne? I. s.: Ho studiato tutta la musica sacra di Palestrina e le Lamenta­ zioni di Tallis e di Byrd, ma non penso che ci sia qualche «influenza» di questi maestri nella mia musica. r. c. : Perché i compositori contemporanei, a paragone dei composi­ tori dell’ottocento, tendono a usare valori più piccoli, crome invece di semiminime e semicrome invece di crome? La sua musica contiene molti esempi di questa tendenza (il secondo movimento della Sinfonia in do è in crome e semicrome, il finale del Duo concertante è in semicrome). Raddoppiando i valori di questa musica, riscrivendola cioè in semimi­ nime e in crome, la musica quale effetto subirebbe secondo lei? E an­ cora, pensa o vede sempre l’unità di misura quando compone? Non ha mai riscritto qualcosa con notazione di valori diversa rispetto alla pri­ ma stesura? La revisione che lei fece nel 1943 della Danse sacrale dal Sacre du printemps, raddoppia i valori da semicrome a crome; fu per fa­ cilitarne la lettura (la facilita poi veramente)? Crede che la configu­ razione della nota abbia un rapporto con il carattere della musica? I. s.: Non credo sia del tutto giusto presumere un’evoluzione dalle pulsazioni di minima a quelle di semiminima e di croma. La musica con­ temporanea ha creato una maggior estensione e varietà di tempi e una estensione ritmica immensamente maggiore, di qui la maggior esten­ sione e varietà di unità ritmica (si veda qualsiasi tavola di notazione e si

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confrontino i tipi di unità ritmica in uso negli ultimi cinque secoli con quelli in uso oggi). Oggi scriviamo musica in un tempo veloce o in un tempo lento con valori grandi o piccoli secondo la musica. Questa è la sola mia spiegazione. Come compositore associo un certo tipo di musica, un certo tempo di musica, con un certo tipo di unità. Compongo direttamente in questo modo. Non c’è nessun atto di selezione o di trascrizione, l’unità della nota e il tempo appaiono nella mia immaginazione contemporaneamen­ te all’intervallo stesso. Soltanto raramente, invero, ho trovato che la mia originale unità di pulsazione mi abbia portato a difficoltà di notazione. Il Ditirambo del Duo concertante, comunque, è uno di questi esempi. È difficile per me giudicare se uno dei miei lavori trascritto in unità ritmiche più grandi o più piccole, ma suonato nello stesso tempo, mi produca una differenza auricolare. Tuttavia, so che non potrei non es­ sere disturbato guardando la musica nella sua nuova veste, perché la configurazione delle note come uno le scrive è la configurazione della concezione originale stessa. (L’esecutore con il suo diverso modo di ap­ proccio considererà l’intero problema della notazione come una questio­ ne di scelta, ma sbaglia). Credo in una relazione tra il carattere della mia musica e il tipo di unità di nota della pulsazione, e non m’importa che ciò possa essere in­ dimostrabile - mi riesce dimostrabile dal punto di vista del composi­ tore, per il semplice fatto che penso in questo modo. E le conven­ zioni non hanno universalmente operato cosi a lungo tanto da poter negare la possibilità di una qualche relazione tra orecchio ed occhio. Chi potrebbe afferrare su dettatura un brano di musica contempora­ nea in 6/4 e dire se in effetti non sia in 6/8 oppure in 6/16? Il grado di leggibilità. Trascrissi la mia Danse sacrale in valori più grandi per facilitare la lettura (di certo è più leggibile, la riduzione del tempo di prova in orchestra lo dimostra) \ Ma la leggibilità e i valori più grandi di nota vanno insieme solo fino a un certo punto. Quest’idea di musica veloce in note bianche è valida solo per certi tipi di musica (il primo movimento della mia Sinfonia in do, per esempio, e nel Gloria patri del Laudate pueri nei Vespri di Monteverdi) ma questa questio­ ne non può essere dissociata da quella delle unità di battuta e della costruzione ritmica della musica stessa. Forse l’attuale mancanza di convenzioni universali può essere inter­ pretata come una benedizione; l’esecutore non può che trarre profitto 1 Fui altresì costretto a ricopiare il primo movimento del mio Ebony Concerto in crome, dopo che i musicisti jazz, per i quali era stato scritto, si dimostrarono incapaci di leggere le se­ microme.

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Conversazioni con Igor' Stravinsky

da una situazione che lo obbliga a rivedere i suoi pregiudizi e a svilup­ pare la sua versatilità di lettura. r. c.: Metri. Si può raggiungere lo stesso effetto per mezzo degli ac­ centi così come variando i metri? Che cosa sono le stanghette di battuta? i. s.: La mia risposta alla prima domanda è, fino a un certo punto, si, ma questo punto è il grado di regolarità reale nella musica. La stan­ ghetta di battuta è assai di piu di un semplice accento e non credo pos­ sa essere simulata da un accento, almeno non nella mia musica. r. c.: Nella sua musica, l’identità è stabilita tra l’altro mediante mez­ zi melodici e ritmici, ma in special modo mediante la tonalità. Pensa di potere un giorno abbandonare l’identificazione tonale? i. s. : Forse. Possiamo nondimeno creare un senso di ritorno allo stes­ so punto senza la tonalità: la rima musicale può ottenere lo stesso risul­ tato della rima poetica. Ma senza qualche identità la forma non può esistere. r. c. : Che cosa pensa dell’uso della musica come accompagnamento alla recitazione (Persephone}? i. s.: Non me lo chieda. I peccati non si possono annullare, ma solo perdonare.

La serie. r. c.: Considera gli intervalli delle sue serie come intervalli tonali? I suoi intervalli cioè, esercitano sempre un’attrazione tonale? i. s.: Gli intervalli delle mie serie sono attratti dalla tonalità; com­ pongo verticalmente e ciò significa, almeno in un certo senso, compor­ re tonalmente. R. c. : Il fatto di comporre con una serie, come ha influito sul suo pensare armonico? Lavora nello stesso modo: ascolta cioè le relazioni e poi le compone? i. s.: Ascolto certe possibilità e scelgo. Posso creare la mia scelta nella composizione seriale proprio come in qualunque forma contrap­ puntistica tonale. Ascolto armonicamente, certo, e compongo nello stes­ so modo di sempre. R. c. : Cionondimeno, la giga del suo Settimino e i canoni corali del Canticum sacrum sono armonicamente molto più difficili da ascoltare che qualsiasi sua musica precedente. Il comporre con una serie non ha perciò influito sul suo spazio armonico? I. s. : È certo più difficile ascoltare armonicamente la musica di cui lei parla che quella mia precedente; ma qualsiasi musica seriale intesa per

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un ascolto verticale è più difficile da ascoltare. Le regole e le restrizioni della scrittura seriale differiscono di poco dalla rigidità delle grandi scuo­ le contrappuntistiche del passato. Nello stesso tempo ampliano ed arric­ chiscono lo spazio armonico; si comincia a sentire più cose e in modo diverso di prima. La tecnica seriale che uso mi costringe a una disciplina ben maggiore che in passato. R. c. : Pensa che la sua concezione del tempo sia la stessa per il ge­ nere di musica che compone ora e per la sua musica di trentacinque anni fa {Mavra y la Sonata per pianoforte, il Concerto per pianoforte, Apollo)? 1. s. : La mia concezione del tempo passato e presente non può essere la stessa. So che certe parti di Agon contengono musica tre volte tanto, per identica durata cronometrica, che certi altri miei pezzi. Naturalmen­ te una nuova richiesta di maggior ascolto in profondità cambia la pro­ spettiva del tempo. Forse anche l’operazione di memoria in un lavoro a sviluppo non tonale (tonale, ma non sistema tonale del Settecento) è diversa. Noi siamo costantemente situati nel tempo in un lavoro di si­ stema tonale, ma possiamo soltanto «passare attraverso» un lavoro po­ lifonico, sia esso la Missa Hercules Dux Ferrariae di Josquin, sia esso un lavoro di sistema non tonale composto serialmente. R. c. : Trova qualche somiglianza tra la concezione del tempo della musica orientale e quella di certi recenti esempi di musica seriale? 1. s. : Non penso proprio che la natura dell’idea seriale produca delle serie di essenza «orientale». Schonberg era lui stesso un cabalista, certo, ma si tratta semplicemente di una preoccupazione personale. Noi tutti abbiamo notato in lavori seriali una monotonia (non nel senso peggio­ rativo) che chiamiamo «orientale», nel Marteau sans maitre di Boulez, per esempio. Ma il tipo di monotonia che abbiamo in mente è caratteri­ stico di molti generi di musica polifonica. La nostra nozione di ciò che è orientale è una associazione soprattutto di strumentazione, ma anche di disegni ritmici e melodici: un tipo, invero, molto superficiale di asso­ ciazione. Io personalmente non ho consuetudine con alcunché di orien­ tale, e in particolar modo non ho la minima nozione della misura del tempo nella musica orientale. In effetti, la mia disposizione somiglia a quella di Henri Michaux; in Oriente mi riconosco come un barbaro: l’eccellente definizione in­ ventata dai greci dell’Attica per designare la gente che non poteva ri­ spondere in attico.

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La tecnica. c.: Che cos’è la tecnica? i. s.: È l’uomo in toto. Impariamo a usarla ma non possiamo acqui­ sirla dall’inizio; o forse dovrei dire che si nasce con la capacità di ac­ quisirla. Oggi è giunta a significare l’opposto di «cuore», sebbene anche il «cuore», naturalmente, sia una tecnica. Una semplice macchia d’in­ chiostro fatta su un pezzo di carta dal mio amico Eugene Berman la ri­ conosco istantaneamente come una macchia di Berman. Che cosa ho riconosciuto: uno stile o una tecnica? Rappresentano essi la stessa firma dell’uomo nella sua interezza? Stendhal (nelle Passeggiate romane) scri­ veva che lo stile è «il modo che ciascuno ha di dire la stessa cosa». Ma, ovviamente, nessuno dice la stessa cosa perché il dirlo è anche la cosa. Una tecnica e uno stile per dire qualcosa di originale non esistono a priori, ma sono creati dal dire originale stesso. Talvolta di un compo­ sitore diciamo che manca di tecnica. Di Schumann, per esempio, diciamo che non possedeva sufficiente tecnica orchestrale. Ma non crediamo che un maggior corredo di tecnica cambierebbe il compositore. Non è che «il pensiero» sia una cosa e «la tecnica» un’altra, vale a dire l’abilità di tra­ sporre, «esprimere» o sviluppare i pensieri. Non possiamo dire «la tec­ nica di Bach» (io non lo dico mai), e tuttavia, sotto ogni punto di vista, egli ne possedeva piu di chiunque altro; la nostra distinzione diventa ridicola quando si cerchi di immaginare la sostanza musicale di Bach e la sua attuazione. La tecnica non è una scienza che possa insegnar­ si, e non è neppure la cultura, neppure erudizione, neppure cono­ scenza di come fare qualcosa. È creazione, e, essendo creazione, è un fatto nuovo ogni volta. Ci sono altri usi legittimi della parola, natu­ ralmente. I pittori hanno le tecniche dell’acquarello e del guazzo, per esempio, e vi sono significati tecnologici; abbiamo le tecniche per la co­ struzione di ponti e perfino «tecniche per la civilizzazione». In queste accezioni si può parlare di tecniche del comporre: la stesura di una fuga accademica. Ma nella mia accezione, il compositore originale è ancora la sua propria ed unica tecnica. Se sento parlare della «maestria tecnica» di un nuovo compositore, mi interessa sempre il compositore (sebbene i critici usino l’espressione per significare: «però non possiede la cosa piu importante»). La maestria tecnica deve essere di qualche cosa, deve essere qualche cosa. E dal momento che siamo in grado di ri­ conoscere l’abilità tecnica quando non siamo in grado di riconoscere al­ tro, questa è la sola manifestazione di «talento» che io conosca; fino a un certo punto tecnica e talento sono la stessa cosa. Attualmente tutte r.

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le arti, ma specialmente la musica, sono impegnate in «esami della tec­ nica». Secondo me un tale esame deve essere rivolto alla natura dell’ar­ te stessa - un esame che sia nuovo ed eterno ogni volta - oppure è nulla \ r. c.: La sua musica ha sempre un elemento di ripetizione, di osti­ nato. Qual è la funzione àeW* ostinato? 1. s.: Ha una funzione statica - cioè, di antisviluppo; e qualche vol­ ta si ha bisogno di una contraddizione allo sviluppo. Tuttavia, può di­ ventare un espediente viziante e in un certo periodo molti di noi ne abusarono.

Strumentazione. c.: Che cos’è una buona strumentazione? 1. s. : Quando non ci si rende conto che è strumentazione. La parola è una glossa. Pretende che prima si componga la musica e poi la si orche­ stri. Questo è vero, in effetti, nel senso che gli unici compositori che siano orchestratori sono quelli che scrivono musica per pianoforte e poi la trascrivono per orchestra; e questa deve tuttora essere l’attività di un buon numero di compositori, a giudicare dal numero di volte in cui mi è stato chiesto un parere riguardo a quali strumenti pensassi fos­ se meglio affidare certi passaggi che i compositori suonavano al piano­ forte. Come ben sappiamo, la vera musica per pianoforte, che è quanto questi compositori suonano abitualmente, è la più difficile da strumen­ tare. Perfino Schonberg, che fu sempre un maestro della strumenta­ zione (si potrebbe fare un’utilissima antologia della pratica strumentale della sua musica a partire dalla prima lirica dell’op. 22 sino a Von Heute auf Morgen con la sua straordinaria percussione, pianoforte e mandolino), perfino Schonberg inciampò tentando di trasferire all’or­ chestra lo stile pianistico di Brahms (la sua trascrizione per orchestra del Quartetto in sol minore per pianoforte di Brahms), quantunque la sua realizzazione della cadenza nell’ultimo tempo con quei pizzicati arpeggia­ ti sia un colpo magistrale. Non è generalmente un buon segno quando in un lavoro la prima cosa che si noti sia la sua strumentazione; e i compositori in cui si avverte questo fatto - Berlioz, Rimskij-Korsakov, Ravel - non sono i migliori compositori. Beethoven, tra tutti il più r.

1 Per quanto riguarda la mia stessa musica so che i miei primi lavori, Le faune et la bergère e la Sinfonia in mi bemolle mancano di personalità, mentre nello stesso tempo dimostrano una ben precisa abilità tecnica nelPuso dei materiali musicali. Le faune sembra in certi punti Wagner, in altri Giulietta e Romeo di Cajkovskij (ma mai Rimskij-Korsakov, cosa che deve aver inquietato quel maestro), e per niente Stravinsky, a meno di vederlo mediante uno sguardo retrospettivo at­ traverso lenti spesse.

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grande maestro orchestrale nel nostro senso, è raramente lodato per la sua strumentazione; le sue sinfonie sono in ogni senso troppo buona musica e l’orchestra ne è parte troppo integrale. Com’è sciocco sentir dire del trio dello Scherzo Ottava sinfonia-. «Che splendida strumen­ tazione!» e tuttavia, quale incomparabile pensiero strumentale vi è racchiuso. La fama di Berlioz come orchestra tore mi è sempre parsa molto sospetta. Fui educato alla sua musica; questa non fu mai tanto eseguita in nessun’altra parte del mondo \ come nella Pietroburgo dei miei anni di studente, così che mi arrischio a dir questo a tutta la gente di mentalità letteraria responsabile del suo ritorno in auge. Fu un grande innovatore, certo, ed ebbe una perfetta immaginazione dì ogni nuovo strumento da usare, oltre che la conoscenza della tecnica a quel­ lo connessa. Ma la musica che dovette strumentare era spesso scarsa­ mente costruita dal punto di vista armonico. Nessuna abilità orchestra­ le può nascondere il fatto che i bassi di Berlioz siano talvolta incerti e non chiare le voci armoniche mediane. Il problema della distribuzione orchestrale è perciò insormontabile e l’equilibrio è regolato superficial­ mente, dalla dinamica. Questo è in parte il motivo per cui preferisco il piccolo Berlioz a quello grandioso. Molti compositori non si rendono ancora conto che il nostro prin­ cipale corpo strumentale d’oggi, l’orchestra sinfonica, è la creazione di una musica triadico-armonica. Non sembrano essere consapevoli di co­ me la crescita degli strumenti a fiato da due a tre a quattro a cinque dello stesso genere implichi nel contempo una crescita armonica. È estremamente difficile scrivere polifonicamente per questo corpo armo­ nico, ed è per questo che Schonberg nelle sue polifoniche Variazioni per orchestra è obbligato a raddoppiare, triplicare, e quadruplicare le linee. Pure il basso è estremamente difficile da far risaltare acusticamente e ar­ monicamente nelle Variazioni perché è semplicemente la linea piu bassa, non un basso fondamentale. Sebbene l’orchestra normale non sia ancora un anacronismo, forse non può più essere usata normalmente che da compositori anacronistici. I progressi nella tecnica strumentale stanno altresì modificando l’uso dell’orchestra. Noi componiamo tutti per so1 Ricordo una descrizione di Berlioz fatta da Rimskij-Korsakov che, negli anni sessanta, aveva incontrato il maestro francese dopo uno dei suoi famosi concerti a Pietroburgo. Rimskij-Korsakov, allora sui ventitré o ventiquattro anni, era presente al concerto insieme con altri giovani compo­ sitori del gruppo. Essi videro Berlioz - che indossava un frac tagliato piuttosto corto sul dietro dirigere musiche sue e di Beethoven. Poi furono condotti nel retropalco da Stasov, il patriarca della vita musicale di Pietroburgo. Vi trovarono un uomo piccoletto, e secondo le parole di Rimskij «un piccolo uccello bianco con pince-nez», che batteva i denti avvolto in un cappotto fo­ derato di pelliccia e cercava di rannicchiarsi sotto un tubo caldo che attraversava la stanza proprio sopra la sua testa. Si rivolse molto gentilmente a Rimskij: - Voi pure componete musica? -, ma tenne le mani nelle maniche del cappotto come dentro un manicotto.

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listi, strumentisti virtuosi, e il nostro stile solistico è tuttora oggetto di scoperta. Per esempio, Fuso dell’arpa era per lo piu limitato ai glissando o agli accordi sino al recente Ravel. L’arpa può fare i glis­ sando e arpeggiare en masse, ma non può suonare en masse come l’ho usata nella mia Sinfonia in tre movimenti. E, per fare un altro esem­ pio, stiamo appena scoprendo l’uso orchestrale degli armonici, specialmente gli armonici di contrabbasso (ecco incidentalmente uno dei miei suoni prediletti; tendete la trachea ed aprite la bocca di poco più di un centimetro cosi che la pelle del collo diventi come una pelle di tam­ buro, poi picchiate leggermente con un dito sul collo: ecco il suono che intendo). All’inizio della mia carriera il clarinetto era considerato incapace di lunghi passaggi staccati. Ricordo le mie strumentazioni di Chopin per Les sylphides a Parigi nel 1910 e un clarinettista di cattivo umore dir­ mi, dopo aver inciampato in un rapido passaggio staccato (il solo modo in cui potevo concepire il pianismo di Chopin): «Monsieur, ce n’est pas une musique pour la clarinette». Quali strumenti mi piacciono? Vorrei ci fossero molti più buoni strumentisti di clarinetto basso e di clarinetto contrabbasso, di trombone contralto (per Threni e per gli Altenberg Lieder di Berg), di chitarra, di mandolino e di cymbalum. C’è qualche strumento che non mi piace? Ebbene, non amo molto due dei più vistosi strumenti dell’orchestra di Lulu, il vibrafono e il sasso­ fono contralto. Devo ammettere però che il vibrafono ha delle straor­ dinarie abilità contrappuntistiche; e che la personalità da delinquente minorenne del sassofono, stagliantesi sull’immensa decadenza di LulU) costituisce proprio il culmine del fascino di quell’opera. r. c. : È attratto da qualche nuovo strumento: elettrico, orientale, esotico, di jazz, o altro? 1. s. : Naturalmente sono attratto da molti strumenti di solito non usa­ ti in orchestra, specialmente quelli a percussione, ma anche strumenti a corde come quelli giapponesi che sentii a Los Angeles con i ponticelli movibili durante l’esecuzione. E non dimentichiamo il fatto che stru­ menti sinfonici tradizionali come tromba e trombone non sono più gli stessi quando sono suonati da musicisti jazz. Questi ultimi dimostrano maggior varietà di articolazione e di colore di suono, e su certi strumen­ ti, come per esempio la tromba, appaiono più degli esecutori sinfonici a loro agio nelle note alte: i trilli di labbro del trombettista jazz. Non soltanto trascuriamo gli strumenti di altre etnografie, ma anche quelli del nostro più grande compositore europeo. Questa trascuratezza è una delle ragioni per cui le cantate di Bach, che dovrebbero essere al cen­ tro del nostro repertorio, se è necessario avere un repertorio, sono rela-

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tivamente poco eseguite. Non abbiamo gli strumenti per suonarle. Bach aveva intere famiglie di strumenti dove noi ne abbiamo uno solo: famiglie di trombe, famiglie di tromboni, famiglie di oboi, famiglie per ogni tipo di strumento a corde. Noi abbiamo delle semplificazioni e una maggior sonorità; in luogo del liuto, lo strumento forse piu perfet­ to e sicuramente lo strumento piu personale di tutti, noi usiamo la chi­ tarra. Personalmente preferisco l’orchestra d’archi di Bach con le sue viole da gamba, il suo violino e violoncello piccolo, al nostro normale quartetto in cui il violoncello non è della stessa famiglia della viola e del contrabbasso. E se gli oboi d’amore e da caccia fossero diffusi com­ porrei per essi. Com’è incomparabile la scrittura strumentale di Bach. Si può sentir l’odore di resina nelle sue parti per violino, assaporare l’ancia in quelle per oboe. Sono sempre interessato e attratto dai nuo­ vi strumenti (nuovi per me) ma fino ad ora sono stato piu spesso mol­ to sorpreso dalle nuove risorse che compositori dotati d’immaginativa sono riusciti a scoprire nei «vecchi» strumenti. Klee in una annotazione nei Tagebucher (datata maggio 1913) dice: «Und das Mass ist noch nicht voli. Man fiihrt sogar Schonberg auf, das toile Melodram Pierrot Lunaire». E la misura non è ancora colma nemmeno ora. Per esempio, la Terza sonata per pianoforte di Boulez è proprio puramente «pianistica» come uno Studio di Debussy, ma nello stesso tempo utilizza varietà di tocco (attacco) che Debussy non tentò, e scopre con i suoi armonici un intero campo di suoni fino ad ora trascurato. (Questi aspetti del pezzo sono secondari, tuttavia, rispetto alla forma; sempre vicino alle idee di permutazione di Mallarmé, Boulez si sta ora avvicinando a un concetto della forma non dissimile da quello dell’idea di Un coup de dés\ non solo l’impaginatura dello spartito della sua Terza sonata per pianoforte somiglia allo «spartito» del Coup de dés, ma la prefazione di Mallarmé stesso al poema sembra proprio descrivere la Sonata-. «... le interruzioni frammentarie di una frase principale introdotta e continuata... ogni co­ sa accade per riduzione, ipoteticamente; si evita la narrazione...»; Mal­ larmé pensava di prendere a prestito idee dalla musica, naturalmente, e sarebbe stato senza dubbio sorpreso di apprendere che sessant’anni più tardi il suo poema avrebbe impollinato reciprocamente le due arti; la recente pubblicazione del Livre de Mallarmé1 con i suoi sorprendenti diagrammi della matematica della forma, dev’essere stata una confer­ ma magica per Boulez). Uno strumento «vecchio» come il pianoforte mi interessa di più 1 Di Jacques Scherer (Gallimard, Paris 1957), primo studio degli inediti - diari e scritti vari di Mallarmé.

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per esempio delle Ondes Martenot, anche se questa asserzione può da­ re l’impressione che io ritenga lo strumentalismo come qualcosa di separato dal pensiero musicale.

Gesualdo. r. c. : Quale fu il motivo che la spinse a comporre la sesta voce e quel­ la di basso al posto di quelle perdute nel mottetto a sette di Gesualdo? 1. s.: Quando trascrissi in partitura le cinque parti esistenti, il desi­ derio di completare l’armonia di Gesualdo, di mitigare certi suoi malheurs divenne per me irresistibile. Si dovrebbe suonare il pezzo senza aggiunte per capirmi, e dire «aggiunte» non è una descrizione esatta; il materiale esistente fu il mio solo punto di partenza: da esso ricom­ posi il tutto. Le parti esistenti in certi casi impongono limiti precisi, e molto imprecisi in altri. Ma anche se le parti esistenti non escludevano soluzioni accademiche, la conoscenza dell’altra musica di Gesualdo di certo si. Comunque, non ho cercato di indovinare «ciò che Gesualdo avrebbe fatto» — anche se mi piacerebbe poter vedere la stesura origina­ le; ho persino scelto soluzioni che certo non sono quelle di Gesualdo. E benché le seconde e le settime di Gesualdo giustifichino le mie, non è sot­ to questo aspetto che considero il mio lavoro. Le mie parti non sono tentativi di ricostruzione. Vi sono dentro io quanto Gesualdo. Il mot­ tetto sarebbe stato insolito, penso, anche senza di me. La sua forma di metà quasi uguali è insolita, e cosi pure la sua complessa e consistente polifonia: molti mottetti hanno uno stile accordico più semplice, e con tante parti cosi serrate ci si aspetterebbe un trattamento di questo ge­ nere: la musica di Gesualdo non è mai densa. Anche la parte di bas­ so è pure insolita. Ha importanza di basso fondamentale come ra­ ramente in Gesualdo. I suoi madrigali sono quasi tutti sovraccarichi e anche nei mottetti e nei responsi il basso tace più di qualsiasi altra parte. Non penso in questo caso di voler leggere me stesso in Gesualdo, sebbene il mio pensiero musicale sia sempre imperniato sul basso (per me il basso funziona tuttora come la radice armonica anche nella mu­ sica che sto componendo al momento). Ma questo mottetto che potreb­ be essere l’ultima opera di Gesualdo avrebbe potuto condurlo a cose insolite per il semplice fatto di essere il suo unico pezzo per sette voci. (Con lo stesso ragionamento, dubito che lo smarrito volume di madri­ gali a sei voci contenga musica più complessa, più «dissonante» dei vo­ lumi a cinque voci, e il solo esemplare di madrigali di quel libro in nostre mani, Sei disposto, avalla la mia tesi; anche se il suo madriga­

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le giovanile a sei parti, Donna) se m'ancidete, contiene un gran numero di seconde oltre quelle che sono errori di stampa). Vorrei inoltre met­ tere in risalto la drammaticissima simbolizzazione musicale del testo che si presenta nel punto di divisione della forma. Le voci si riducono a tre (sono sicuro che Gesualdo ha fatto qualcosa di analogo), poi, alle parole «sette grazie del paracleto», si spiegano nella pienezza di sette parti polifoniche. Spero che il mio piccolo omaggio a Gesualdo e lo stesso mio interes­ se per questo grande musicista servano a eccitare la brama di altri gesualdini alla ricerca dei suoi lavori perduti, il trio per le tre famose gen­ tildonne di Ferrara, le arie riferite nelle lettere di Fontanelli, e, sopra tutto, i madrigali a sei voci. Queste musiche devono trovarsi in biblio­ teche private italiane. (Quando in Italia si sarà provveduto a una cata­ logazione completa, tutto verrà alla luce; Hotson, lo studioso di Shake­ speare, ha recentemente trovato in una biblioteca degli Orsini una let­ tera in cui un antenato Orsini descriveva le sue impressioni di una rap­ presentazione, alla corte di Elisabetta, di ciò che deve essere stato la «prima» della Dodicesima notte), Gesualdo aveva buone relazioni con gente di Napoli, di Ferrara, di Modena, di Urbino, e anche di Roma (sua figlia sposò il nipote del papa). Cominciamo di qui.

Traduzione. r. c.: Nessun compositore si è interessato più direttamente di lei ai problemi dei testi musicali cantati in traduzioni. Vuole dire qualche cosa a questo riguardo? I. s.: Pubblicate testi e libretti in traduzione, distribuite in prece­ denza sinossi e argomento degli intrecci, fate appello all’immaginazione della gente, ma non cambiate il suono e l’accento di parole che sono state composte appositamente per una certa musica in certi appo­ siti punti. In ogni caso, il bisogno di sapere «che cosa stiano cantando» non vien sempre soddisfatto dal fatto di sentirlo cantare nella propria lin­ gua, specialmente quando quella lingua sia l’inglese. C’è una grande scarsità di scuole ove si insegni a cantare in inglese, almeno in America; gli interpreti vocali di certe produzioni americane di opere in inglese non sembra certo che cantino tutti nella stessa lingua. E «il significa­ to», 1’argument d'etre del traduttore, è soltanto una delle voci in bilan­ cio. La traduzione cambia il carattere di un lavoro e ne distrugge l’unità culturale. Se l’originale è in versi e specialmente in versi di una lingua

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ricca di rime interne, esso può solo essere adattato in senso lato, non tradotto (se non forse, da Auden; i versi di Browning «I could favour you with sundry touches», sono un buon esempio di come suoni straor­ dinario in inglese il verso a doppia rima). L’adattamento implica la tra­ duzione dell’ambiente culturale, e sfocia in quel che io intendo per di­ struzione dell’unità culturale. Per esempio, i «presto» italiani cantati in inglese rischiano più spesso che mai di sembrare musica di Gilbert e Sullivan, anche se questo fatto può dipendere dalle mie orecchie russe di nascita e americane di naturalizzazione e dalla mia mancanza di fa­ miliarità con altri periodi dell’opera inglese (se dopo Purcell e prima di Britten ci sono stati altri periodi di Opera inglese). Un esempio di traduzione che distrugge il testo e la musica si ha nell’ultima parte del mio Renard. Il brano a cui mi riferisco — io lo chia­ mo un pribautki1 — sfrutta una velocità ed un’accentuazione naturali ai russi (ogni lingua ha tempi caratteristici che in parte determinano i tempi musicali ed il loro carattere). Nessuna traduzione di questo bra­ no riesce a tradurre ciò che ho fatto musicalmente con la lingua. E vi è un gran numero di esempi simili in tutta la mia musica vocale russa; ne sono così disturbato che preferisco sentirli in russo oppure niente del tutto. Fortunatamente al latino è ancora permesso attraversare le fron­ tiere: almeno fino ad ora nessuno si è ancora proposto di tradurre il mio CEdipus, i Salmi, il Canticum e la Messa. La presentazione di opere nella loro lingua originale è una manife­ stazione, secondo me, di ricchezza culturale. E, musicalmente parlando, Babele è una benedizione. 1 Una specie di canzone stramba, basata talvolta su sillabe strampalate, talaltra parlata in parte.

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Pietroburgo.

Ricorda il primo concerto al quale assistette? La mia prima esperienza di un’esecuzione musicale pubblica fu al Teatro Mariinskij di Pietroburgo. Le mie impressioni al riguardo si confondono con quel che mi si disse poi, naturalmente, sta di fatto che al­ l’età di sette od otto anni fui portato a vedere Una vita per lo zar. Ci avevano dato uno dei palchi ufficiali e ricordo che era ornato d’amorini alati e dorati. Lo spettacolo del teatro in sé e del pubblico mi sbalordi­ rono e mia madre mi disse in seguito che, mentre osservavo quanto av­ veniva sul palcoscenico, trasportato dal suono dell’orchestra (forse il piu grande brivido della mia vita fu proprio il suono di quella prima orchestra) le chiesi, come in Tolstoj: «Quale dei due è il teatro?» Ri­ cordo anche che Nàpravnik dirigeva l’opera in guanti bianchi. Il primo concerto di cui ho qualche ricordo fu in occasione della pre­ mière di una sinfonia di Glazunov. Avevo nove o dieci anni e a quel tem­ po Glazunov era il nuovo acclamato compositore. Era dotato di straor­ dinarie capacità di orecchio e dì memoria, ma si esagerava un po’ troppo presumendo da questo che dovesse essere un nuovo Mozart: il prodi­ gioso sedicenne era già un accademico bello e buono. Non ebbi alcuna ispirazione da quel concerto. r. c. : Fu impressionato da qualche musicista straniero di passaggio, durante i suoi anni di studio a Pietroburgo? i. s.: Nei primi anni del secolo, molti dei più celebri artisti stranieri che venivano a Pietroburgo si recavano a rendere omaggio a RimskijKorsakov. Negli anni 1903,1904 e 1905 ero a casa sua quasi ogni giorno e perciò incontrai molti compositori, direttori e virtuosi... Rimskij par­ lava francese e inglese, quest’ultimo appreso durante il suo servizio come ufficiale di marina, ma non conosceva il tedesco. Poiché io invece lo parlavo speditamente fin dalla mia infanzia egli qualche volta mi chiedeva di tradurre per lui, quando aveva ospiti tedeschi. Ricordo di aver incontrato in questo modo i direttori d’orchestra Arthur Nikisch e Hans Richter. Quest’ultimo non conosceva che il tedesco e Rimskij, r. c.: l s. :

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poiché non era presente alcun membro della famiglia che parlasse te­ desco, dovette mandarmi a cercare. Quando Richter mi vide aggrottò le ciglia e chiese: «Wer ist dieser Jùngling?» Ricordo anche di aver incontrato Max Reger in quegli anni, a una prova d’orchestra, credo. Provavo ripulsione per lui e per la sua musica in uguale misura. Pure Alfredo Casella venne in Russia in quell’epoca, al principio della sua carriera. Non lo incontrai in quell’occasione, ma seppi di lui da Rimskij : «Un certo Alfredo Casella, un musicista italiano, oggi è venuto a tro­ varmi. Mi ha portato una complicata partitura di incredibili dimensio­ ni, la sua strumentazione delVIslamej di Balakirev e mi ha chiesto di dargli il mio parere e di consigliarlo. Che cosa si poteva dire di una cosa simile? Mi sentii come un bambinetto», e così dicendo sembrava umiliato. Ricordo di aver visto anche Mahler a Pietroburgo. Il suo concerto fu un trionfo. Rimskij era ancora vivo, credo, ma non vi presenziò perché in programma c’era una composizione di Cajkovskij (penso che fosse Manfredi, il pezzo più tedioso che si possa immaginare). Mahler diresse pure qualche frammento di Wagner e, se ricordo bene, una sua sinfonia. Mahler mi fece una profonda impressione con il suo mo­ do di dirigere e con la sua persona. r. c. : Vuole descrivere Rimskij-Korsakov come insegnante? 1. s.: Era un insegnante molto insolito. Benché fosse lui stesso pro­ fessore al Conservatorio di Pietroburgo, mi consigliò di non entrarci; ma al suo posto mi fece il dono prezioso delle sue indimenticabili le­ zioni (1903-906). Queste lezioni duravano poco più di un’ora e avve­ nivano due volte la settimana. L’insegnamento e l’esercitazione alla orchestrazione ne costituivano l’argomento principale. Mi diede da or­ chestrare le Sonate per pianoforte ed i Quartetti di Beethoven, e le mar­ ce di Schubert, e talvolta la sua stessa musica, la cui orchestrazione non era ancora stata pubblicata. Quando gli portavo il lavoro fatto, mi faceva vedere la sua partitura d’orchestra che confrontava con la mia, spiegan­ domi le ragioni del suo modo diverso di procedere. A parte queste lezioni, continuavo i miei esercizi di contrappunto, ma da solo, perché non sopportavo più le noiosissime lezioni di armonia e di contrappunto datemi da un ex allievo di Rimskij-Korsakov. r. c.: Quali musiche sue conobbe Rimskij-Korsakov? Che cosa ne disse? Quali erano i suoi rapporti con la nuova musica: Debussy, Strauss, Skrjabin? 1. s. : Quando gli fu chiesto di andare ad un concerto per sentire del­ la musica di Debussy disse: «L’ho già sentita. È meglio che non ci vada: comincerei ad abituarmici e finirebbe per piacermi». Odiava Richard

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Strauss ma probabilmente per ragioni sbagliate. Diverso era il suo at­ teggiamento verso Skrjabin. Non gli piaceva per niente la musica di Skrjabin, ma alla gente che si mostrava indignata contro di essa diceva: «A me la musica di Skrjabin piace moltissimo». Potè conoscere e bene la mia Sinfonia in mi bemolle, op. i, a lui dedicata, e così la mia suite vocale, Le faune et la bergère, entrambe ese­ guite in un concerto organizzato con il suo aiuto e la sua supervisione. Aveva visto il manoscritto del mio Scherzo fantastique, ma la morte gli impedì di sentirlo. Non mi complimentò mai; infatti era sempre molto riservato e parco di lodi verso i suoi allievi. Ma dopo la sua morte i suoi amici mi dissero che aveva lodato molto la partitura dello Scherzo. r. c.: Pensava alla Vie des abeilles di Maeterlinck come program­ ma per il suo Scherzo fantastique? i. s.: No, scrissi lo Scherzo come un pezzo di «pura» musica sin­ fonica. Le api furono un’idea del coreografo, così come, più tardi, le creature-api del balletto (sulla musica del mio Concerto per archi in re), The Cage, furono idea del signor Robbins. Le api mi hanno sempre affa­ scinato, fui preso da una soggezione reverenziale per loro dopo aver letto il libro di von Fritsch, e terrorizzato da Un altro mondo ci osserva del mio amico Gerald Heard, ma non ho mai tentato di evocarle nel mio lavoro (come avrebbe osato, d’altronde, un allievo di chi aveva compo­ sto il Volo del calabrone?) né sono stato influenzato da esse eccetto forse per il fatto che, sfidando il consiglio di Galeno alla gente anziana (a Marco Aurelio?) continuo ogni giorno a fare la cura del miele. Ma le api di Maeterlinck mi misero quasi nei guai. Un giorno a Mor­ ges ricevetti da lui una lettera allarmante, nella quale mi accusava di in­ ganno e frode. Il mio Scherzo era stato intitolato Les abeilles — un titolo qualunque, dopo tutto — e scelto come soggetto di un balletto che si dava allora al Grand Opera di Parigi (1917). Les abeilles non aveva ri­ cevuto la mia autorizzazione e, naturalmente, non l’avevo visto; ma nel programma si faceva riferimento al nome di Maeterlinck. La faccenda fu definita e infine sul risguardo della mia partitura fu pubblicata un po’ di cattiva letteratura sulle api per soddisfare il mio editore, il quale pensava che una «storia» avrebbe facilitato la vendita della musica. Mi rincrebbe quell’incidente con Maeterlinck perché avevo un rispetto no­ tevole per lui, che conoscevo in traduzione russa. Qualche tempo dopo raccontai l’episodio a Paul Claudel. Claudel pensò che Maeterlinck era stato insolitamente gentile con me: «Molto spesso adiva a vie legali contro gente che gli diceva bonjour. Ha avuto la fortuna di non essere stato querelato per l’uso della parola "uccello”

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nell’UcreZZo di fuoco, dal momento che Maeterlinck aveva scritto per primo L'uccello azzurro» \ L’apicultura mi ricorda stranamente Rachmaninov, poiché l’ultima volta che vidi quell’uomo che incuteva timore, egli era venuto a tro­ varmi nella mia casa di Hollywood portandomi in regalo un mastelletto di miele. A quell’epoca non ero particolarmente amico di Rachmaninov, né penso che altri lo fossero: i rapporti sociali con un uomo del tempe­ ramento di Rachmaninov richiedono molta più perseveranza di quanta ne possiedo io: veniva soltanto a portarmi il miele. È strano che dovessi incontrarlo non in Russia, benché ve lo abbia spesso sentito suonare du­ rante la mia giovinezza, né più tardi in Svizzera dove eravamo vicini di casa, ma a Hollywood. Certa gente ottiene una specie di immortalità proprio dalla totalità con cui possiede o no una certa qualità o caratteristica. La totalità im­ mortalante di Rachmaninov era costituita dal suo fiero cipiglio. Un fiero cipiglio alto due metri. Credo che le mie conversazioni con lui, o piuttosto con sua moglie, poiché lui non parlava mai, fossero tipiche: mme rachmaninov

Qual è la prima cosa che fa al mattino quan­

do si alza? (Questa domanda sarebbe potuta sembrare indiscreta, ma non così visto il modo come la signora la faceva). io

Per un quarto d’ora faccio gli esercizi che mi ha insegnato un ginnasta ungherese maniaco della Kneipp Kur 0, piuttosto, li facevo fino a quando appresi che l’ungherese era morto molto giovane e molto improvvisamente, poi mi sollevo a testa in giù, poi faccio una doccia.

1 Dall’epoca in cui scrissi quel lavoro ho diretto tre esecuzioni dello Scherzo («se sia “Fan­ tastico” o no, sta a noi deciderlo», scrisse un critico francese dopò la première di Pietroburgo di­ retta da Aleksandr Siloti) e fui sorpreso nel constatare che la musica non mi imbarazzava. L’or­ chestra «suona», la musica possiede una leggerezza insolita rispetto alle composizioni dell’epoca, cj sono una o due idee felici, come per esempio la musica per flauto e violino al n. 63 e il brano cromatico dell’ultima pagina. Certo le frasi sono tutte di quattro piu quattro più quattro, il che è monotono, e, ascoltandolo di nuovo, mi pentivo di non aver sfruttato maggiormente il flauto. Però, è una promettente opera a tre. Mi rendo conto adesso di aver preso qualcosa dal Calabrone di Rimskij (numeri 49-50 della partitura), ma lo Scherzo deve più a Mendelssohn, mediato da Cajkovskij, di quanto non debba a Rimskij-Korsakov. Il progresso della tecnica strumentale mi fu illustrato da queste recenti esecuzioni in un par­ ticolare interessante. La partitura originale - scritta più di cinquant’anni fa - fa uso di tre arpe. Ricordo benissimo quanto le tre parti riuscissero difficili agli arpisti della Pietroburgo del 1908. Nel 1930, per una nuova edizione del materiale d’orchestra, ridussi le tre parti a due. Ora mi accorgo che con pochissimi ritocchi la stessa musica può essere eseguita da un solo strumentista, tanto più veloci sui pedali sono gli arpisti d’oggi.

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Rachmaninov Vedi, Sergej, Stravinsky fa la doccia. È straor­ dinario. Sostieni ancora di averne paura? E hai sentito che Stra­ vinsky dice che fa anche gli esercizi? Che ne pensi? Dovresti ver­ gognartene tu che a mala pena fai qualche passeggiatina.

mme

Rachmaninov tace. Ricordo le prime composizioni di Rachmaninov. Erano degli «acque­ relli», liriche e pezzi per pianoforte con la fresca impronta di Cajkovskij. Poi, a venticinque anni, si diede agli «oli» e diventò un vec­ chissimo compositore davvero. Non aspettatevi che sputi su di lui per questo: egli era, come ho detto, un uomo che incuteva timore, e, per di più, ve ne sono molti altri prima di lui su cui sputare. Quando penso a lui, mi pare che il suo silenzio appaia come un nobile contrasto all’autoelogio che è la sola conversazione di tutti gli esecutori e di quasi tutti gli altri musicisti. Per di più, era il solo pianista che abbia visto non fare smorfie. Il che è già molto. r. c.: Quando era allievo di Rimskij-Korsakov, stimava già Cajkovskij come più tardi, negli anni venti e trenta? i. s. : Allora come più in là negli anni m’infastidiva la volgarità trop­ po frequente della sua musica - infastidito nella stessa misura con cui invece apprezzavo la genuina freschezza del talento di Cajkovskij (e la sua inventiva strumentale), specialmente quando la paragonavo con lo stantio naturalismo e dilettantismo dei «Cinque» (Borodin, RimskijKorsakov, Kjui, Balakirev e Musorgskij). r. c.: Qual era l’atteggiamento di Rimskij-Korsakov nei riguardi di Brahms e quando avvenne il suo primo incontro con la musica di Brahms? i. s.: Ricordo di aver letto la notizia della morte di Brahms sul «Tempo Nuovo» (il giornale conservatore di Pietroburgo; mi ci ero abbonato per gli articoli di Rozanov) e l’impressione che mi fece. Ri­ cordo che da almeno tre anni prima avevo suonato quartetti e sinfonie del maestro di Amburgo. Brahms fu la scoperta di mio «zio» Aleksandr Jelacic, marito della sorella di mia madre, Sophie. Questo signore che ebbe un ruolo impor­ tante nel mio primo sviluppo intellettuale, era generale del servizio civile e abbiente. Era un appassionato dilettante di musica che passava giorni interi a suonare il pianoforte. Due dei suoi cinque figli avevano anch’essi inclinazione alla musica e uno di loro oppure io stesso suona­ vamo sempre con lui musica a quattro mani. Mi ricordo d’avere stu­ diato e eseguito con lui in questo modo un quartetto di Brahms, quan­

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do avevo dodici anni. Zio Aleksandr era un ammiratore di Musorgskij e come tale non faceva molto conto di Rimskij-Korsakov. Casa sua era proprio a un passo da quella di Rimskij, e mi capitava spesso, nel passare dall’una all’altra, di faticare a trovare un equilibrio tra le due. A Rimskij non piaceva Brahms. E non era nemmeno wagneriano, ma la sua ammirazione per Liszt lo metteva dalla parte dei partigiani del fronte Wagner-Liszt. r. c.: Quale opinione aveva di Musorgskij quando era allievo di Rimskij-Korsakov? Ricorda qualcosa che suo padre abbia detto su di lui? Come lo considera oggi? 1. s. : Ho molto poco da dire su Musorgskij in rapporto ai miei anni di studio con Rimskij-Korsakov. A quel tempo, essendo influenzato dal maestro che aveva ricomposto quasi tutte le opere di Musorgskij, ripe­ tevo ciò che abitualmente si diceva sul suo «grande talento» e sulla sua «povera maestria musicale», e sugli «importanti servizi» resi da Rimskij alle sue «imbarazzanti» e «impresentabili» partiture. Questo fu prima dei miei contatti con i compositori francesi i quali, naturalmente, si op­ ponevano tutti alle « trascrizioni» di Rimskij. Era più che ovvio, anche da una mente influenzata, che non sarebbe stata più tollerata la meyerbeerizzazione che Rimskij andava apportando alla musica «tecnicamente im­ perfetta» di Musorgskij. Per quel che mi concerne (sebbene oggi abbia pochi contatti con la musica di Musorgskij) penso che malgrado i suoi mezzi tecnici limitati e la sua «ingrata scrittura», le sue partiture originali mostrino un in­ teresse musicale e una intuizione genuina ben maggiori della «perfe­ zione» degli arrangiamenti di Rimskij. I miei genitori mi dicevano spes­ so che Musorgskij era un conoscitore della musica operistica italiana e che accompagnava straordinariamente bene al pianoforte i cantanti di opere liriche italiane. Dicevano anche che i modi di Musorgskij erano sempre cerimoniosi e che era l’uomo più pedante del mondo nelle sue relazioni personali. Era frequentemente ospite nella nostra casa di Pie­ troburgo. r. c. : Spesso lei dirige le Ouvertures di Glinka. È sempre stato appas­ sionato della sua musica? 1. s.: Glinka fu l’eroe musicale russo della mia infanzia. Fu sempre sans reproche e questa è ancora adesso la mia opinione. La sua è una mu­ sica minore, di certo, ma non è così lui; in Russia tutta la musica pro­ viene da lui. Nel 1906, poco dopo il mio matrimonio, con mia moglie e Nikol'skij, mio professore all’università di Pietroburgo, andai a fare una visita di riguardo alla sorella di Glinka, Ljudmila Sestakova. Una vec­ chia signora di novantadue o novantatre anni, era attorniata da domesti-

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ci quasi altrettanto vecchi e ricordo che non provò nemmeno ad alzarsi dalla sua poltrona. Era stata la moglie di un ammiraglio e nel rivolgersi a lei la si apostrofava con un «Sua Eccellenza». Ero emozionato di incon­ trarla perché era stata molto vicina a Glinka. Mi parlò di Glinka e di mio padre morto, che aveva conosciuto molto bene, del circolo KjuiDargomyzskij e del loro furioso antiwagnerismo. Qualche tempo dopo, in ricordo della mia visita, mi mandò un edelweiss d’argento. r. c.: Non incontrò mai Balakirev? i. s. : Lo vidi una volta, in piedi con il suo allievo Ljapunov, duran­ te un concerto al Conservatorio di Pietroburgo. Era un uomo corpu­ lento e calvo, con una testa da calmucco e lo sguardo acuto e penetrante di Lenin. A quell’epoca non era molto ammirato musicalmente - si era nel 1904 o 1905 - e, politicamente, a causa della sua ortodossia, i li­ berali lo consideravano un ipocrita. La sua reputazione come pianista era saldamente confermata da numerosi allievi, tutti, come lo stesso Ba­ lakirev, ardenti lisztiani; mentre Rimskij-Korsakov teneva un ritratto di Wagner sulla sua scrivania, Balakirev ne teneva uno di Liszt. Com­ piangevo Balakirev per le sue crudeli crisi depressive. r. c. : Nella sua autobiografia non dice di aver partecipato o no ai funerali di Rimskij-Korsakov. C’è una ragione? 1. s.: La ragione è che fu uno dei giorni più tristi della mia vita. Ma c’ero anch’io e ricorderò sempre, finché avrò memoria, Rimskij dentro la bara. Era così bello d’aspetto che non potei impedirmi di piangere. La vedova, vedendomi, mi venne vicino e mi disse: — Per­ ché tanta infelicità? Ci resta pur sempre Glazunov -, Fu il commen­ to più crudele che abbia mai sentito e mai odiai di più come in quel mo­ mento.

Djagilev. r. c.: Djagilev che capacità aveva di dare un giudizio musicale? Per esempio, quale fu il suo responso al Sacre du printemps nel sentirlo la prima volta? 1. s.: Djagilev non disponeva tanto di un buon giudizio musicale quanto di un grande fiuto nel riconoscere la potenzialità di successo di un brano di musica o di un’opera d’arte in generale. Nonostante la sua sorpresa quando gli suonai al pianoforte l’inizio del Sacre du printemps {Gli auguri primaverili), nonostante il suo atteggiamento dapprima iro­ nico verso la lunga linea di accordi ripetuti, egli si rese rapidamente con­ to che la ragione non stava in una mia incapacità di comporre musica

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piu variata; capi subito la serietà del mio nuovo discorso musicale, la sua importanza e il vantaggio di volgerla a proprio profitto. Questo, mi sembra, era ciò che pensava sentendo per la prima volta Le sacre. r. c. : La prima esecuzione del Sacre du printemps fu ragionevolmen­ te accurata? Di quella sera del 29 maggio 1913, ricorda qualcosa di più di quanto ha già scritto? 1. s.: Ero seduto nella quarta o quinta fila di destra e l’immagine del dorso di Monteux è oggi più vivida nella mia mente di quella dello stesso palcoscenico. Egli si erigeva manifestamente impervio e sner­ vato come un coccodrillo. Mi pare ancora quasi incredibile che abbia potuto effettivamente trascinare l’orchestra sino alla fine. Lasciai il mio posto non appena iniziarono i rumori pesanti - i rumori leggeri erano cominciati subito dopo l’inizio - e andai nel retroscena dove mi misi alle spalle di Nizinskij che, seduto su una sedia dietro le quinte di destra, appena invisibile al pubblico, gridava dei numeri ai danzatori. Mi chiedevo che diavolo avessero a che fare con la mia musica quei numeri, poiché nello schema metrico della partitura non ci sono né dei «tredici» né dei «diciassette». Da quel che udii, l’esecuzione musicale non fu cattiva. Sedici prove complete avevano dato all’orchestra per lo meno una certa sicurezza. Dopo la «esecuzione» eravamo eccitati, adirati, disgustati e... felici. Con Djagilev e Nizinskij si andò in un ristorante. Ben lungi dal piangere e dal recitare Puskin nel Bois de Boulogne come invece si è formata la leggenda, il solo commento di Djagilev fu: «Esattamente quello che volevo». Aveva di certo un’aria soddisfatta. Nessun altro avrebbe po­ tuto capirne più in fretta il valore pubblicitario ed egli infatti comprese subito quanto di buono era accaduto in questo senso. Molto probabil­ mente aveva già pensato alla possibilità di questo scandalo, quando qualche mese prima, nell’angolo est del salone del Grand Hotel di Ve­ nezia, per la prima volta gli suonai la partitura. R. c.: Non ebbe mai in progetto un «balletto liturgico» russo? E in questo caso, qualcosa di esso non passò nelle Noces? 1. s.: No, quel «balletto liturgico» fu idea esclusiva di Djagilev. Egli sapeva che uno spettacolo a sfondo chiesa-russa avrebbe avuto un enor­ me successo in un teatro di Parigi. Possedeva delle magnifiche icone e dei bellissimi costumi che desiderava mostrare e mi molestò di continuo perché gliene scrivessi la musica. Djagilev non era realmente religioso, né credente, era soltanto profondamente superstizioso. L’idea di portare la chiesa in teatro non lo turbava minimamente. Cominciai a concepire Les nocesy e la forma l’avevo già chiara in testa fin da circa l’inizio del 1914. All’epoca di Sarajevo mi trovavo a Clarens. Avevo bisogno della

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raccolta della poesia popolare russa di Kireevskij, da cui poi trassi il libretto, e decisi di andare a Kiev, Punico posto in cui sapevo di trovarla. Nel luglio di quello stesso anno presi il treno per Ustilug, la nostra resi­ denza estiva in Volinia. Dopo avervi trascorso qualche giorno prose­ guii per Varsavia e Kiev dove trovai il libro. Rimpiango che in quel mio ultimo viaggio, in quel mio ultimo sguardo alla Russia, non andai a ve­ dere il Monastero Vydubitskij che conoscevo ed amavo. Nel viaggio di ritorno la polizia di frontiera era già molto tesa. Arrivai in Svizzera pro­ prio alcuni giorni prima della guerra - grazie alla mia buona stella. Tra parentesi Kireevskij aveva chiesto a Puskin di mandargli la sua collezio­ ne di versi popolari e Puskin gli mandò dei versi con un appunto che di­ ceva: «Alcuni di questi versi sono miei; riesce a distinguerli dagli al­ tri?» Kireevskij non vi riuscì e li usò tutti per la sua raccolta, così che non è da escludere che qualche riga di Puskin si trovi nelle Noces.

Debussy. r. c.: Tra i suoi primi con temporanei, a chi pensa di dovere di più? Debussy? Pensa che i suoi contatti con Debussy lo abbiano fatto cam­ biare? i. s.: Nei primi anni ero svantaggiato dalle influenze che frenavano lo sviluppo della mia tecnica di compositore. Mi riferisco al formalismo del Conservatorio di Pietroburgo, dal quale tuttavia - e per fortuna mi liberai presto. Ma i musicisti della mia generazione ed io stesso, dob­ biamo moltissimo a Debussy. Non penso che vi sia stato un mutamento in Debussy come risultato dei nostri contatti. Dopo aver letto le amichevoli lettere piene di lodi che mi indirizzava (Petruska gli piacque moltissimo) fui sorpreso nel tro­ vare un atteggiamento completamente diverso nei riguardi della mia musica in alcune lettere dello stesso periodo indirizzate ai suoi amici musicofili. Era doppiezza, o era seccato di non essere capace di digerire la musica del Sacre quando invece la generazione più giovane racco­ glieva con entusiasmo? È difficile giudicarlo adesso, a più di quaranta anni di distanza.

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Lettere di Debussy. Sabato, io aprile 1913 80 Avenue du Bois de Boulogne (Lettera speditami a Ustilug).

Caro amico, grazie a lei ho trascorso delle gradevoli vacanze di Pasqua in com­ pagnia di Petruska, del terribile Moro e della deliziosa Ballerina. Imma­ gino che abbia passato dei momenti incomparabili con le tre marionet­ te... e poche cose conosco di piu prezioso del pezzo che lei chiama Tour de passe-passe... C’è in esso una specie di magia sonora, una trasformazione misteriosa di anime meccaniche che diventano umane mediante un incan­ tesimo di cui, fino ad ora, lei sembra essere l’unico inventore. C’è infine un’infallibilità orchestrale che ho trovato soltanto in Parsi­ fal. Comprenderà quel che voglio dire, naturalmente. Andrà molto più in là di Petruska, è certo, però può già essere orgoglioso del risultato di quest’opera. Mi dispiace di ringraziarla cosi in ritardo per il gentile dono della sua partitura. Però la dedica mi dà un posto troppo alto nella maestria di quella musica che entrambi serviamo con lo stesso zelo disinteressato... Sfortunatamente, in questo periodo, sono circondato da gente malata! Specialmente mia moglie che ha sofferto dolori per molti lunghi giorni... Ho persino dovuto fare «l’uomo di casa» e le confesso subito che non ne ho la minima inclinazione. Dal momento che si parla della buona idea di rappresentarla nuova­ mente, mi auguro con piacere di poterla vedere presto qui. Non si scordi la strada che conduce a casa mia dove tutti siamo an­ siosi di rivederla. Molto affezionatamente suo Claude Debussy

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Parigi, 8 novembre1 1913 Non cada dalle nuvole, caro amico, sono soltanto io!!! Certo, se cominciassimo, lei a voler capire ed io a voler spiegare perché non le ho scritto prima, ci cadrebbero i capelli. 1 [Non si capisce perché Debussy, in novembre, aspetti la rappresentazione scenica del Sacre che in realtà era già avvenuta il 29 maggio. Evidentemente vi è un errore di mese o di anno, vedi infatti la nota di Stravinsky stesso a p. 331].

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E poi, qui sta accadendo qualcosa di meraviglioso: almeno una volta al giorno tutti parlano di lei. La sua amica Chouchou1 ha composto una fantasia su Petruska da far ruggire le tigri... L’ho minacciata di tortura, ma ella continua, insistendo che lei la «troverà molto bella». Così, come può supporre che non la pensiamo? Ho sempre in mente la nostra lettura al pianoforte del Sacre du printemps, in casa di Laloy12. Mi ossessiona come un magnifico incubo e cerco, invano, di rievocare quell’impressione terrificante. Così aspetto la rappresentazione scenica come un bambino goloso che attende impaziente i dolci promessigli. Non appena avrò una buona copia di ]eux gliela manderò... Vorrei proprio conoscere la sua opinione su questo «badinage in tre parti». A proposito di Jeux, sarà sorpreso che abbia sostituito il titolo a quello che lei preferiva, Il parco. La prego di credere che Jeux è meglio, pri­ ma di tutto perché è più appropriato, e poi perché evoca meglio gli «or­ rori» che accadono fra questi tre personaggi3. Quando verrà a Parigi così che si possa finalmente suonare della buona musica? Molto affezionatamente da noi tre a lei e a sua moglie. Il suo vecchissimo amico, Claude Debussy

315 maggio 1913 Caro amico, il mio telefono non funziona e temo che avrà chiamato inutilmente. Se ha visto Nizinskij e se questi ha firmato le carte le consegni per fa­ vore al mio autista. È urgente che arrivino alla «Société des auteurs » prima delle cinque. Grazie, il suo vecchio Debussy.

(Questo biglietto recatomi dall’autista di Debussy si riferisce ai for­ mulari della «Société des auteurs » che Debussy mi aveva dato perché li 1 La figlia di Debussy, Emma-Claude; che mori un anno dopo suo padre. 2 Che il critico Louis Laloy attribuisce per sbaglio alla primavera del 1913. Ciò che più mi impressionò a quel tempo e che ancora adesso trovo memorabile, durante quella lettura a prima vista del Sacre du printemps, fu il modo brillante in cui Debussy l’esegui al pianoforte. Re­ centemente, sentendo suonare il suo En blanc et noir (di cui uno dei pezzi è dedicato a me) fui colpito dal modo in cui la straordinaria qualità di questo pianismo abbia diretto il pensiero di Debussy compositore. 3 Debussy fu in stretto contatto con me durante la composizione di ]eux e mi consultò spes­ so su problemi di orchestrazione. Considero ]eux un capolavoro orchestrale, sebbene pensi che parte della musica sia «trop Lalique».

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dessi a Nizinskij, coautore scenico di Jeux, In quel periodo vedevo Ni­ zinskij ogni giorno e Debussy sapeva che l’unico modo di raggiungerlo era tramite me...)

4* Parigi, 18 agosto 1913

Caro vecchio Stravinsky, mi scusi il ritardo nel ringraziarla di un’opera la cui dedica mi è inestimabile1. Sono stato preso da un attacco di «gengivite espulsiva». È spiacevole e pericolosa e un giorno svegliandosi si può scoprire che ti sono caduti tutti i denti. Certo, poi ne potrebbe fare una collana. Non è forse molto consolante? La musica del Roi des étoiles è tuttora straordinaria. È probabil­ mente l’«armonia delle sfere eterne» di Platone (ma non mi chieda la pagina). E, tranne che su Sirio o su Aldebaran, non prevedo esecuzio­ ni di questa «cantata per pianeti». Per quanto concerne la nostra più modesta Terra, un’esecuzione si perderebbe nell’abisso. Spero che si sia ristabilito. Abbia cura di sé, la musica ha bisogno di lei. La prego di porgere i miei ossequi alla sua simpatica madre e i miei migliori auguri a sua moglie. Il suo vecchio fedele Claude Debussy

5Parigi, 9 novembre 1913 Caro Stravinsky, poiché si appartiene ancora a certe tradizioni, ci si chiede perché una lettera non riceva risposta...! Ma il valore della musica che ho ri­ cevuto 12 è più importante perché contiene qualcosa di affermativo e di vittorioso. Naturalmente, coloro che sono un po’ imbarazzati dalla sua crescente maestria non hanno trascurato di diffondere dicerie molto discordi - e se non è ancora morto non è per colpa loro. Non ho mai creduto alle dicerie - occorre che glielo dica? - No! Inoltre, non è nep­ pure necessario dirle con quanta gioia ho visto il mio nome associato a una bellissima cosa che con il passar del tempo sarà ancora più bella. Per me, che scendo giù per l’altro versante della collina ma che man­ 1 Avevo dedicato la mia breve cantata Le roi des étoiles (1911) a Debussy. Egli era evidente­ mente rimasto perplesso davanti a quella musica, e aveva avuto quasi ragione nel predire che sa­ rebbe stata ineseguibile - ha avuto soltanto poche esecuzioni in questi ultimi anni e resta in un certo senso la mia composizione più «radicale» e difficile. 2 Gli avevo mandato la partitura del Sacre du printemps.

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tengo tuttavia un’intensa passione per la musica, per me è di partico­ lare soddisfazione dirle quanto ella abbia ampliato i confini dell’am­ missibile nel regno del suono. Mi perdoni l’uso di queste parole pompose, ma esse esprimono esat­ tamente il mio pensiero. Avrà probabilmente sentito della malinconica fine del Théàtre des Champs-Elysées. È davvero un peccato che il solo luogo di Parigi dove si fosse incominciato a suonare della musica onestamente non abbia avuto successo. Posso chiederle, caro amico, che cosa intende fare in proposito? Ho visto Djagilev al Boris Godunov, la sola rappresenta­ zione che ha avuto, e non ha detto nulla... Se mi potrà dare qualche no­ tizia senza essere indiscreto, non esiti. Comunque verrà a Parigi? «Quan­ te domande», mi pare di sentirla dire... Se la infastidisce rispondere... Proprio in questo momento ho ricevuto la sua cartolina - e mi ren­ do conto cosi, caro amico, che non ha mai ricevuto la mia lettera. Me ne dispiaccio molto - sarà probabilmente molto arrabbiato con me. For­ se avrò scritto male l’indirizzo. E per di più Ustilug è cosi lontana. Non andrò a Losanna - per certe ragioni complicate e prive di alcun interes­ se per lei. È una ragione di più perché venga a Parigi — cosi che avre­ mo entrambi la gioia di vederci. Sappia che andrò a Mosca il primo di dicembre. È vero che non ci sarà? Mi creda, per questa ragione il mio viaggio sarà un po’ più pe­ noso. Ho scritto a Kusevickij chiedendogli alcune informazioni neces­ sarie - ma non risponde. Per quel che riguarda la «Société de la musique actuelle» desidero fare del mio meglio per essere cortese e ringraziarli dell’onore che vo­ gliono farmi. Solo che non so se avrò abbastanza tempo di rimanere fino al concerto. Mia moglie e Chouchou le inviano i loro affettuosi pensieri e le chie­ dono di non dimenticare di porgerli a sua moglie. Sempre il suo vecchio devoto Claude Debussy

6. (Cartolina postale). Parigi, 17 novembre 1913

Caro Stravinsky, lei ha acquisito fin da bambino l’abitudine di gio­ care con il calendario e le confesso che la sua ultima cartolina mi ha proprio confuso. Contemporaneamente ho ricevuto un telegramma da Kusevickij in cui mi dice che mi si aspetta a Mosca il 3 dicembre (nuo­ vo stile). Poiché il concerto a Pietroburgo è il io, può ben immaginare

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che non avrò il tempo per fare tutto. È guarito dal suo raffreddore? Spero cordialmente di si. Se non ha niente di meglio da fare le con­ siglio di andare a Mosca. È una città meravigliosa e lei probabilmente non la conosce molto bene. Vi incontrerà Claude Debussy, musicista francese, che le vuole molto bene. Affettuosamente, Claude Debussy

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Parigi, 24 ottobre 1915 Prima di tutto, carissimo amico, voglio dirle che è una grande gioia avere finalmente sue notizie... Ne avevo avute dai suoi amici che, non so per qual ragione, fecero del suo stato di salute e della sua residenza un mistero. Qui da noi le cose procedono un pochino meglio, in altre parole sia­ mo come la maggior parte del popolo francese. Abbiamo la nostra par­ te di dolori, di difficoltà spirituali e domestiche. Ma ciò è naturale ora che l’Europa e. il resto del mondo pensano che sia necessario parteci­ pare a questo tragico «concerto». Perché non partecipano alla mischia anche gli abitanti di Marte? Come lei mi ha scritto: «Ma non riusciranno a coinvolgerci nella loro pazzia». Ciò nonostante c’è qualcosa di pili alto della forza bruta; «chiudere le finestre» alla bellezza è contro la ragione e distrugge il vero significato della vita. Ma si devono aprire gli occhi e le orecchie ad altri suoni quando il rumore del cannone sia cessato! Il mondo deve essere liberato da que­ sta cattiva semenza. Dobbiamo tutti uccidere i microbi della falsa gran­ dezza, della bruttezza organizzata, che, come non ci siamo sempre resi conto, erano semplicemente debolezza. Si avrà bisogno di lei nella guerra contro quegli altri gas, altrettanto micidiali, per cui non esistono maschere. Caro Stravinsky, lei è un grande artista. Sia dunque con tutte le sue forze un grande artista russo. È meraviglioso appartenere a un pae­ se, essere attaccato alla propria terra come il più umile dei contadini! E quando lo straniero lo calpesta come sembrano amare tutte le stupi­ daggini sull’internazionalismo. In questi ultimi anni, quando sentii nell’arte l’odore del miasma «austro-boche», avrei desiderato essere ben più autorevole per gridare i miei motivi d’inquietudine, per avvertire dei pericoli cui si andava in­ contro con tanta credulità. È possibile che nessuno avesse il sospetto

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di come questo popolo complottasse la distruzione della nostra arte cosi come aveva preparato la distruzione dei nostri paesi? E questo antico odio nazionale che finirà soltanto con l’ultimo tedesco! Ma ci sarà mai un «ultimo tedesco»? Me lo chiedo, dal momento che sono convinto che i soldati tedeschi generano altri soldati tedeschi. In quanto ai Nocturnes. Doret (il compositore svizzero) ha ragione, vi ho apportato molte modificazioni. Sfortunatamente sono pubblicati dall’editore Fromont, di Rue du Colysée, con cui non ho più rapporti. Un altro guaio è che in questi tempi non ci sono più copisti in grado di fare un lavoro cosi delicato. Cercherò ancora per trovare il modo di soddisfare il signor Ansermet. Debbo confessare che qui la musica è in una brutta situazione... Serve soltanto a scopi caritatevoli, ma non dobbiamo biasimarla per questo. Sono rimasto qui per più di un anno senza riuscire a scrivere alcun genere di musica. Soltanto durante questi ultimi tre mesi passati al mare con degli amici, ho recuperato le mie facoltà di pensare in ter­ mini di musica. A meno che si sia personalmente coinvolti, la guerra è uno stato mentale che non confà al pensiero. Quell’olimpico egocen­ trico di Goethe è l’unico che potesse lavorare, cosi si dice, il giorno in cui l’esercito francese entrava a Weimar... E poi non ci fu pure Pita­ gora [57'c] ucciso da un soldato mentre stava risolvendo dio sa quale problema? Ultimamente non ho scritto altro che musica pura, dodici études per pianoforte e due sonate per strumenti diversi, nella nostra vecchia for­ ma che, molto generosamente, non ha imposto nessun tetralogico sfor­ zo auditivo. E lei, caro amico, che cosa ha fatto? Non pensi, per l’amor del cie­ lo, di essere obbligato a rispondere a questa domanda. Non glielo chie­ do per volgare curiosità ma per puro affetto. E sua moglie e i figli? Siete in pensiero per loro? Mia moglie ha sofferto molto agli occhi e per un’insopportabile nevralgia reumatica. Chouchou ha il raffreddore; lo fa diventare una cosa molto seria con tutte le attenzioni che rivolge alla sua personcina. È molto difficile sapere quando potremo vederci cosicché non ci re­ sta che la debole risorsa delle «parole»... Dunque, mi creda il suo sem­ pre devoto vecchio Claude Debussy Tutti i nostri più affettuosi pensieri alla suà cara famiglia. Ho rice­ vuto dalla «Société des auteurs » l’informazione che lei mi ha scelto co­ me padrino per la sua iscrizione alla società. La ringrazio.

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Jacques Rivière. r. c.: Lei ha detto che Jacques Rivière, come direttore della «Nouvelle Revue Frangaise», fu il primo critico che abbia intuito il valore della sua musica. Quali erano le sue capacità musicali? I. s.: A una simile distanza di tempo, non sono in grado di rispon­ dere, poiché conoscevo bene Rivière prima della guerra del ’14, ma do­ po non lo vidi più, e in quarantacinque anni i ricordi cambiano colore. Tuttavia posso dire che a quell’epoca considerai la sua critica ai miei balletti come una critica di genere letterario, rivolta più all’insieme del­ lo spettacolo che non alla mia musica. Era proprio amante della musica e i suoi gusti musicali erano genui­ ni e colti, ma se era in grado di seguire l’argomento musicale del Sacre du printemps non sono più in grado di giudicare. Ricordo Jacques Rivière come un giovane alto, biondo, intellettual­ mente energico, appassionato di balletti e nello stesso tempo uomo di profonda vocazione religiosa. Quando vivevo a Ginevra vi veniva di tanto in tanto e questi incontri con lui mi davano sempre molto piace­ re. Dopo la guerra visse quasi completamente appartato, si era rovinato la salute durante gli anni di prigionia in Germania, e morì ancora gio­ vane, un uomo spezzato. Rileggendo le sue lettere sono colpito aj dalla malattia dei francesi per i biglietti di teatro; farebbero qualsiasi cosa pur di non comprarli; se Rivière era così «vivement» interessato al Rossignol perché non si recò lui stesso al «guichet» a scambiare pochi franchi per un biglietto?; e b) dall’evidenza nella quarta lettera di come la moda si fosse rapida­ mente mutata a sfavore di Debussy, l’anno dopo la sua morte.

Lettere di Jacques Rivière. 1.

Editions de la Nouvelle Revue Frangaise 35-37 Rue Madame, Paris 4 febbraio 1914

o , Mio caro Stravinsky, sono piuttosto in ritardo nel dirle quanto le sia grato. Ma le sono stato vicino col pensiero in tutti questi giorni da quando ho cominciato a metter su carta delle idee circa Le rossignoll. 1 Nel gennaio del 1914 ero a Leysin per terminare Le rossignol. Cocteau venne là con la spe­ ranza di persuadermi a collaborate con lui per un lavoro da intitolarsi David, e Djagilev lo segui

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È stato molto gentile a mandare quei due biglietti a Gallimard e a me. Ci hanno fatto molto piacere. Ho intenzione di venire al suo concerto sabato1 e forse potrò strin­ gerle la mano. Mi creda, mio caro Stravinsky... Jacques Rivière

2. Parigi, 25 maggio 1914

Gentile signore, pensa che sia estremamente indiscreto da parte mia chiederle due o tre biglietti per la première del Rossignol? Mi prendo questa libertà solo perché ieri sera ho sentito dire che è disponibile un gran numero di biglietti omaggio. Potrà ben immaginare quanto ci tenga a far sen­ tire a mia moglie quest’opera da cui io stesso prevedo di trarre tanto diletto2. Ma se non è possibile non esiti a rifiutarmeli3. Se potrà otte­ nere i biglietti solo per la seconda rappresentazione, non li rifiuterò di certo, per quanto preferisca naturalmente essere presente alla premiè­ re. Ieri ho ascoltato di nuovo la musica di Petruska, e con profonda emo­ zione. La prego, gentile signore, di scusare la mia importunità e di cre­ dere alla mia amicizia e simpatia. Jacques Rivière 15 Rue Froidevaux, Parigi XIV

3* Parigi, maggio 1914

Gentile signore,

è straordinariamente gentile nell’aver pensato a me e la ringrazio di tutto cuore. Sfortunatamente, quando arrivò il suo telegramma ero via ed è questa la ragione che mi ha impedito di usare il posto offertomi da lei nel suo palco. Riuscii tuttavia a entrare all’Opéra, ma le condizio­ ni in cui sentii Le rossignol furono cosi sfavorevoli che non sono ancora qualche giorno dopo con la precisa intenzione di scoraggiare quello stesso progetto. I rapporti Djagilev-Cocteau non erano ideali a quel tempo, poiché Djagilev non poteva digerire la simpatia di Cocteau per Nizinskij, ma la scusa addotta da Djagilev al suo viaggio fu Le rossignol. Fino ad allora aveva ignorato l’esistenza di quest’opera (per gelosia, perché mi era stata commissionata da un teatro di Mosca) ma di lì a poco la gente che doveva farla rappresentare aveva dichiarato ban­ carotta ed allora egli ne era molto interessato: quelli me l’avevano già pagata (10000 rubli, una somma ingente per il 1909) e lui avrebbe potuto avere l’opera per niente. Ritornammo a Parigi dove suonai Le rossignol per Ravel e un gruppo di amici. Tra questi c’era Jacques Rivière. 1 Non ricordo nulla di quel concerto. 2 Aveva sentito qualcuna delle prove. 3 Sic.

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in grado di giudicarlo propriamente. Ma vedo già che mi promette ma­ gnifiche scoperte con le prossime rappresentazioni. Nuovamente grazie gentile signore, e voglia credere alla mia ammi­ razione e alla mia simpatia. Jacques Rivière

4 . .. c. • 1 Mio caro Stravinsky,

La Nouvelle Revue Frangaise 35-37 Rue Madame, Paris 6 aPrile I9I9

ho pregato Auberjonois1 di dirle quanto piacere mi abbia arrecato la sua lettera. Probabilmente l’avrà fatto, ma la ringrazio nuovamente. Tuttavia è di un’altra faccenda di cui voglio parlarle oggi. Forse lei saprà già che i miei amici hanno deciso di affidarmi la direzione della «Nouvelle Revue Frangaise», che riapparirà il i° giugno. È un onore di cui sono molto orgoglioso, ma è pure un peso non indifferente e una fonte di gravi preoccupazioni. Intendo dirigere l’attenzione della rivista verso i movimenti antimpressionisti, antisimbolisti, e anti-Debussy, che stanno facendosi sem­ pre più netti e che minacciano di prendere la forma e la forza di una nuova e vasta corrente. Sarei estremamente felice se ritenesse possibi­ le esporci in un articolo (lei stesso potrà deciderne le dimensioni) le sue idee attuali sulla musica e sul significato dell’opera alla quale si sta dedicando al momento. Non pensi che qui sia stato dimenticato. Tutti quelli che vedo par­ lano di lei continuamente. L’influenza che Petruska e il Sacre, e cosi pure i suoi più recenti lavori, hanno esercitato sui musicisti più giovani, è ovvia. Un suo articolo verrebbe letto con curiosità e simpatia in tutto il mondo. Per renderle la cosa più facile, potrebbe scriverlo in russo. Se non ha nessuno a portata di mano per tradurlo, potrei incaricarme­ ne io, purché il manoscritto che mi invierà sia molto leggibile. Natural­ mente le sottoporrei la mia traduzione per le correzioni. Non ho biso­ gno di dirle che, anche senza prometterle montagne d’oro, le assicurerei la nostra miglior ricompensa possibile per il suo lavoro. Mi perdoni, la prego, d’aver eseguito soltanto in parte gli incari­ chi che mi ha affidato l’ultima volta che ci si vide a Ginevra. La mag­ gior parte della gente con cui mi disse di parlare non era a Parigi quan1 René Auberjonois, il defunto pittore svizzero che disegnò le scene e i costumi per la prima esecuzione della mia Histoire du saldai.

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do vi tornai, e io stesso ne fui cosi a lungo assente che, quando final­ mente ci tornai, alcune delle sue richieste erano superate. Aspetterò fiduciosamente la sua risposta sperando che non possa essere che favorevole, e con questa convinzione la prego mio caro Stra­ vinsky di credere alla mia più profonda amicizia. Jacques Rivière

PS. Non dimentichi di porgere i miei migliori auguri a Ramuz1 e a Auberjonois. Nel caso incontri difficoltà nell’inviarmi il suo manoscritto a causa dei russi, la prego di informarmene. Conosco qualcuno al Mi­ nistero degli Affari Esteri che potrebbe facilitarne l’invio e ottenerne la necessaria autorizzazione.

5 -

Parigi, 2i aprile 1919

Mio caro Stravinsky,

la sua lettera, naturalmente, mi ha deluso poiché mi priva della sua collaborazione; ma mi ha pure fatto piacere perché sono d’accordo con lei che un vero creatore non dovrebbe perdere il suo tempo a discorrere sulle tendenze e sulle conseguenze della sua arte. Il suo lavoro deve spiegarsi da sé. Tuttavia, se un giorno le prendesse il desiderio di scri­ vere non su di lei ma su di altri, su Debussy per esempio, o sulla mu­ sica russa contemporanea o su qualche altro argomento, pensi allora a me e non dimentichi che le nostre pagine le sono sempre aperte. Con amicizia, suo Jacques Rivière PS. Che cos’è questa nuova «Suite dalPUccello di fuoco», un bal­ letto2?

Ravel. R. c. : Non ha idea di dove si trovi il manoscritto della Chovanscina, riorchestrata da lei e da Ravel? 1 C.-F. Ramuz, il defunto romanziere svizzero, coautore con me del libretto deìTHistoire du soldat. 1 La versione che feci nel 1919 della suite dall’UcceZZo di fuoco, che penso avrebbe anche po­ tuto indovinare.

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I. s.: Lo lasciai a Ustilug durante il mio ultimo viaggio in Russia e perciò suppongo che sia andato perso o distrutto. (Vorrei che qualcuno in viaggio in Volinia nel passare da Ustilug si informasse se la mia casa è tuttora in piedi; non molto tempo fa una persona gentile me ne mandò una fotografia, ma dimenticò di precisare se era sopravvissuta all’invasione nazista e non saprei dire se la fotografia era di prima o di dopo la guerra). Tuttavia, sono sicuro che Bessel l’aveva già incisa in Russia prima della guerra ( 1914). Le incisioni in rame della orchestrazio­ ne perciò le dovrebbero avere gli eredi della ditta russa Bessel. Ricordo un’aspra questione di denaro con Bessel, il quale disse che chiedevamo troppo e aggiunse che «Musorgskij aveva ricevuto soltanto una minima parte di quello che chiedete voi». Replicai che proprio perché avevano dato praticamente nulla a Mu­ sorgskij, proprio perché erano riusciti a far morire di fame il povero uomo, a maggior ragione dovevano pagarci di più. L’idea di chiedere a Ravel di collaborare con me alla strumenta­ zione di Chovanscina fu mia. Temevo di non essere pronto per la stagio­ ne di primavera del 1913 ed avevo bisogno di aiuto. A Djagilev, sfor­ tunatamente, la realizzazione di una buona strumentazione dell’opera e il salvarla dalle mani di Rimskij-Korsakov importava meno della no­ stra versione in quanto nuovo mezzo per esibire Saljapin. Quell’idiota da ogni punto di vista non-vocale, e anche da alcuni di questi, non riuscì a capire l’importanza di una siffatta strumentazione. Rifiutò di cantare e il progetto fu abbandonato. Avevo orchestrato l’aria famosa e banale di Chaklovity, il coro finale e qualcos’altro di cui non mi ricordo più. Musorgskij aveva solo abbozzato, invero solo progettato, il coro finale; cominciai con l’originale di Musorgskij e lo composi prendendo le mos­ se da Musorgskij, ignorando Rimskij-Korsakov completamente. Ravel venne ad abitare da me a Clarens e là si lavorò insieme tutto il marzo e l’aprile del 1913. In quello stesso periodo composi pure le mie Tre liriche giapponesi e Ravel i suoi Trois poèmes de Mallarmé che con­ tinuo a preferire a ogni altra musica sua. Ricordo una gita fatta con Ravel da Clarens a Varese, vicino al Lago Maggiore, per comprare della carta di Varese. La città era molto affol­ lata e non riuscimmo a trovare due camere d’albergo o almeno due letti, così dormimmo insieme in uno solo. Ravel? Quando penso a lui, in rapporto a Satie per esempio, egli appare molto comune. Il suo giudizio musicale era acutissimo, tuttavia, e direi che fu l’unico musicista a capire subito Le sacre du printemps. Era asciutto e riservato e talvolta le sue osservazioni celavano pungen­ ti frecciate, ma mi fu sempre molto amico. Durante la guerra, come

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lei sa, era alla guida di un autocarro o un’ambulanza, ed io lo ammirai molto per questo perché alla sua età e con il suo nome avrebbe potuto avere un posto più facile: oppure starsene a casa. Aveva un aspetto piuttosto patetico in uniforme; cosi piccolo, cinque o sei centimetri più piccolo di me. Penso che Ravel sapesse, entrando all’ospedale per la sua ultima operazione, che non ne sarebbe più uscito. Mi disse: «Possono fare quel che vogliono del mio cranio durante l’effetto dell’etere». Non ebbe ef­ fetto purtroppo ed il poveretto senti che lo incidevano. Non andai a visitarlo all’ospedale e l’ultima volta che lo vidi fu ai funerali. La parte superiore del cranio era ancora fasciata. I suoi ultimi anni furono cru­ deli, poiché perdeva gradualmente la memoria e parte delle capacità coordinatrici; naturalmente ne era del tutto cosciente. Gogol' mori ur­ lando e Djagilev ridendo (e cantando La Bohème che amava schietta­ mente come qualsiasi altra musica), ma Ravel mori gradualmente. Il che è molto peggio.

Lettere di Ravel. i,

Comarques, Thorpe-Le-Soken 13 dicembre 1913 Vecchio: è molto tempo che non ho più avuto nessuna notizia sen­ sazionale sulla sua salute. Tre settimane fa ho sentito parlare della sua morte improvvisa, ma non ne fui troppo colpito perché proprio quella stessa mattina avevo ricevuto una sua cartolina. Delage1 le avrà senz’altro detto che le sue Giapponesi saranno esegui­ te il 14 gennaio insieme con le sue Indiane e le mie Mallarméane... Con­ tiamo sulla sua presenza. Fra tre giorni sarò a Londra e spero di sentir parlare del Sacre. E Le rossignol, canterà presto? I miei rispettosi omaggi alla signora Stravinsky, baci ai bambini, e creda all’affetto del suo devoto Maurice Ravel 1 II compositore Maurice Delage, a quell’epoca mio buon amico. Le mie Tre liriche giappo­ nesi sono dedicate rispettivamente a Maurice Delage, Florent Schmitt e Maurice Ravel.

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St-Jean de Luz 14 febbraio 1914

Caro Igor',

apprendo da Casella1 che Madame Stravinsky è andata a Leysin. Spero sia solo una precauzione. La prego di rassicurarmene. Mi sono rifugiato qui nei pressi del mio luogo di nascita per lavo­ rare, poiché a Parigi il lavoro era quasi impossibile. Baci per me i bam­ bini, e porga i miei rispettosi ossequi a Mme Stravinsky. Creda nell’af­ fetto del suo devoto Maurice Ravel

3*

St-Jean de Luz 26 settembre 1914 Mi dia sue notizie, vecchio mio. Che ne è di lei in tutto questo pa­ sticcio? Edouard2 si è arruolato come autiere. Io non sono stato cosi fortu­ nato. Non hanno avuto bisogno di me. Spero che dopo che avranno rie­ saminato i soldati esonerati, e dopo tutte le misure che prenderò, di es­ sere di ritorno a Parigi, se ne avrò i mezzi. Il pensiero che sarei partito mi ha obbligato a fare il lavoro di cin­ que mesi in cinque settimane. Ho finito il Trio. Ma sono stato costret­ to ad abbandonare i lavori che speravo di finire quest’inverno; La clo­ che engloutiel! e un poema sinfonico: Wien!!3. Ma questo è adesso un argomento fuori luogo. Come sta sua moglie? e i piccoli? Mi scriva subito, mon vieux. Se potesse solo immaginare quant’è penoso essere lontano da tutto! Affettuosi ricordi a tutti. Nessuna notizia dai Benois. Cos’è loro suc­ cesso? Maurice Ravel 1 2 3

II compositore Alfredo Casella e sua moglie vivevano allora a Parigi. Suo fratello. Che poi divenne La valse.

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4’ Parigi, 14 novembre 1914 Cher vieux, sono di ritorno a Parigi... e non mi riadatto per niente. Vorrei più che mai andar via. Non posso più lavorare. Quando arrivam­ mo Maman fu costretta a letto. Ora si è alzata, ma deve seguire una die­ ta priva di albumine. La sua età e le sue inquietudini sono naturalmen­ te la causa di questa condizione. Non ho notizie di Edouard dal 28 di ottobre; un mese intero e non sappiamo che cosa gli sia successo. Delage è ora a Fontainebleau. Di tanto in tanto viene mandato in missione da qualche parte. Schmittl, che si annoiava a morte a Toul, ha finalmente ottenuto il permesso di partire per il fronte. I Godebski2 sono sempre a Carantec. Non ho ancora visto Misia. Mi ricordi alla sua famiglia, cher vieux, mi scriva prestissimo, la pre­ go. Creda nella mia fraterna amicizia. Maurice Ravel

519 dicembre 1914

Vieux, tutto è sistemato: verrà qui e dormirà (scomodamente) nel ripostiglio, era la camera da letto di mio fratello e per lei è stata trasfor­ mata in stanza persiana. Ma venga presto, altrimenti non mi troverà più qui. Lavorerò come autiere. È stato l’unico modo per riuscire a re­ carmi nella città dove dovevo vedere Daphnis et Chloé. Non mi dà no­ tizie di suo fratello. Spero si sia completamente ristabilito. Cerchi di affrettare il suo arrivo. A lei i nostri affezionati pensieri. Maurice Ravel

6. 2 gennaio 1915 Ecco, vieux. Tutto era pronto per dare a lei, nostro alleato, un ap­ propriato benvenuto. La camera persiana con tende alla genovese, stam­ pe giapponesi, giocattoli cinesi, in breve una sintesi della «Stagione russa». Si, c’era perfino un Usignolo meccanico — e lei non viene... Ah, 1 Florent Schmitt. 2 Cipa Godebski, con sua moglie e i bambini, Jean e Mimi. I Godebski (specialmente Misia Godebski Sert) erano buoni amici miei e di Ravel. Il numero di Natale 1956 de «L’CEil» contiene la storia di questa straordinaria famiglia.

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questi slavi capricciosi! Grazie però a questi capricci, ho ricevuto un biglietto da Szàntó \ il quale si dice lieto di sapere che sarò in Svizze­ ra alla fine di gennaio. Le ho scritto che partirò presto, ma dubito che mi mandino dalle sue parti. Attendo notizie sue e di suo fratello e di tutta la sua famiglia. Ac­ cetti, frattanto, i nostri affettuosi auguri per l’Anno Nuovo (Nuovo Stile). Devotamente, Maurice Ravel

716 settembre 1919

Caro Igor', sono desolato di non averla vista. Perché non ha telefonato a Du­ rand2? Le avrebbero dato il mio numero telefonico (St-Cloud 233). Be­ ne, spero di incontrarla presto, fors’anche a Morges perché cercherò di andare da mìo zio prima della fine d’autunno. Continuo a non far niente. Probabilmente sono vuoto. Mi dia presto sue notizie e se viene di nuovo a Parigi cerchi di essere un pochino più sveglio e di fare un pochino meglio. A tutti i miei affettuosi saluti, Maurice Ravel

8.

26 giugno 1923 Caro Igor', le sue Noces sono meravigliose! Mi dispiace di non averne potuto sentire e vedere altre rappresentazioni. Ma è già stato poco saggio l’an­ darci l’altra sera; il piede mi si era di nuovo molto gonfiato e dovrò stare tranquillo almeno fino a domenica prossima. Grazie, mon vieux. Affettuosamente, Maurice Ravel

Satie. c. : Che cosa ricorda di Erik Satie? I. s.: Fu certamente la persona più eccentrica che abbia mai conor.

1 Pianista e compositore, conoscente di tutti noi, fece una trascrizione per pianoforte della Marcia cinese nel mio Rossignol. 1 L’editore.

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sciuto, ma nello stesso tempo anche la più coerente e spiritosa. Avevo per lui una grande simpatia ed egli apprezzava la mia amicizia, credo, e me la ricambiava. Con il suo pince-nez, l’ombrello e le galoches, sembra­ va un perfetto maestro di scuola ma lo sarebbe sembrato ugualmente anche senza queste finiture. Parlava a bassa voce, aprendo appena la bocca, ma pronunciava ogni parola in un modo preciso e inimitabile. La sua grafia è come il suo modo di parlare: accurata e compatta. I suoi manoscritti erano come lui, cioè fin, per dirla come i francesi. Nessuno l’aveva mai visto lavarsi — aveva in orrore il sapone. Invece si strofinava continuamente le dita con la pomice. Fu sempre molto povero, povero per convinzione, penso. Viveva in un quartiere povero e i suoi vicini sembravano apprezzarne la venuta fra loro: lo rispettavano molto. An­ che il suo appartamento era molto povero. Non aveva un letto, soltanto un’amaca. Durante l’inverno Satie riempiva bottiglie con dell’acqua cal­ da e le adagiava in fila sotto l’amaca. Il tutto sembrava una strana specie di marimba. Ricordo che una volta quando qualcuno gli aveva promesso del denaro, egli rispose: «Monsieur, ciò che avete detto non ha incon­ trato orecchie da mercante! » I suoi sarcasmi si basavano sulla dimesti­ chezza col francese classico. La prima volta che sentii Socrate, a una riu­ nione in cui lui stesso lo esegui per noi, alla fine si voltò e disse in per­ fetto linguaggio borghese: — Voilà, messieurs, dames. Lo conobbi nel 1913, credo, in ogni caso lo fotografai in quell’an­ no con Debussy. Fu proprio Debussy a presentarmelo, e Debussy lo «protesse» e gli fu sempre buon amico. In quegli anni mi suonò molte sue composizioni al pianoforte. (Non penso che si intendesse molto di strumenti e preferisco Socrate come lo suonava lui, alla sua goffa partitura per orchestra). Le ho sempre considerate letterariamente piut­ tosto limitate. I titoli sono letterari, e sebbene anche i titoli di Klee sia­ no letterari, non limitano però la sua pittura; quelli di Satie sì, penso, e sono molto meno divertenti dopo la prima volta. Ma il guaio di Socrate è che è noioso metricamente. Come si può sopportare tutta quella rego­ larità? Tuttavia, la musica della morte di Socrate è oltremodo nobile e commovente. L’improvvisa e misteriosa morte di Satie - poco dopo il Socrate - mi commosse altrettanto. Verso la fine della sua vita ricorse alla religione e cominciò a comu­ nicarsi. Lo vidi una mattina dopo che era stato in chiesa e nel suo modo straordinario disse: - Alors, j’ai un peu communiqué ce matin -. Poi si ammalò all’improvviso e mori serenamente poco dopo.

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Schonberg, Berg, Webern.

R. c.: Vuol raccontare il suo incontro con Schonberg a Berlino nel 1912? Parlò tedesco con lui? Fu egli cordiale o scostante? Diresse bene il suo Pierrot? Webern era a Berlino per le prove di Pierrot; ricorda qualcosa di lui? Lei scrisse sulla strumentazione del Pierrot ma non sulFuso degli stretti accorgimenti contrappuntistici né sulla sua polifonia; che ne pensava ahora di queste innovazioni? 1. s.: Djagilev invitò Schonberg a sentire i miei baUetti, L’uccello di fuoco e Petruska, e Schonberg ci invitò a sentire il suo Pierrot lu­ naire. Non ricordo se a dirigere le prove che ascoltai ci fosse Schonberg o Scherchen o Webern. Io e Djagilev parlammo tedesco con Schonberg ed egli fu amichevole e caloroso; ebbi l’impressione che la mia musica lo interessasse, specialmente Petruska. È difficile ricordare le proprie im­ pressioni a distanza di quarantacinque anni; ma di questo mi ricordo molto vivamente: la sostanza strumentale del Pierrot lunaire mi im­ pressionò immensamente. E dicendo «strumentale» non mi riferisco semplicemente alla strumentazione della sua musica ma all’intera strut­ tura contrappuntistica e polifonica di questo splendido capolavoro stru­ mentale. Sfortunatamente non mi ricordo di Webern — benché sia sicuro di averlo almeno incontrato in casa di Schonberg a Zehlendorf. Subito dopo la guerra ricevetti lettere molto cordiali da Schonberg che mi chie­ deva alcuni miei brevi pezzi da includere nei concerti che lui e Webern stavano preparando a Vienna per la Società di esecuzioni private. Poi nel 1925, scrisse dei versi molto cattivi su di me (però l’ho quasi perdonato per averli incastonati in uno straordinario canone a specchio). Non so proprio che cosa fosse avvenuto nel frattempo. r. c. : E Berg, lo conobbe? i. s.: Lo incontrai soltanto una volta a Venezia nel settembre del 1934. Venne a trovarmi nella sala verde della Fenice, dove dirigevo il mio Capriccio per un concerto della Biennale con mio figlio Sulima al pianoforte. Sebbene fosse la prima volta che lo vedevo e per di più per pochi minuti soltanto, ricordo che fui molto colpito dal suo famoso fascino e dalla sua acutezza. r. c.: La sua opinione nei riguardi di Schonberg e la posizione di quel musicista sono state modificate dalla recente pubblicazione dei suoi lavori incompiuti? 1. s.: La sua portata ne esce molto ampliata ma penso che la sua posizione rimanga identica. Tuttavia ogni nuovo lavoro riscoperto di un maestro ridimensionerà il giudizio su di lui in qualche particolare

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- come Eliot dice delle opere minori di Dante che sono interessanti perché sono di Dante, così qualsiasi cosa di Schonberg, un incunabolo come il Quartetto d’archi del 1897, un adattamento come la sua tra­ scrizione del Barbiere di Siviglia per due pianoforti del 1900, per noi sono degni di interesse perché sono di Schonberg. Il lavoro più in­ teressante tra quelli incompiuti è costituito dai tre pezzi per un com­ plesso di strumenti solisti composti nel 1910. Essi ci costringono a riconsiderare il debito di Webern nei riguardi di questo stile strumen­ tale e della dimensione del brano breve ‘. L’ultima di queste opere incompiute, i Salmi moderni del 1950-51, mostra come Schonberg continuasse a esplorare nuove vie e come fino alla sua morte ricercasse nuove leggi di musica seriale. Tra queste pub­ blicazioni postume Mosè e Aronne occupa una posizione a sé stante: mentre gli altri lavori sono incompiuti, questo è incompiuto ma com­ pleto - come nei racconti di Kafka in cui la natura dell’argomento fa sì che la conclusione nel senso comune della parola sia impossibile. Mosè e Aronne è l’opera più ampia della maturità di Schonberg e l’ultima che abbia scritto in Europa. Essa non modifica però la nostra concezione del suo ruolo storico, mentre ciò potrebbe ancora avvenire con La sca­ la di Giacobbe, o almeno le cento battute di quest’opera che si posso­ no eseguire perché complete12: data infatti dal periodo della più im­ portante transizione di Schonberg ed è in realtà l’unica composizione che testimoni del suo lavoro dal 1915 al ’22. L’opera di Schonberg è troppo diseguale perché la si possa considerare nel suo insieme. Per esempio, quasi tutti i suoi testi sono terribilmente brutti, alcuni poi lo sono in modo tale da scoraggiarne l’esecuzione musicale. Poi ancora le sue orchestrazioni di Bach, Handel, Monn, Loewe e Brahms differisco­ no dal tipo di orchestrazione commerciale solo per la superiorità del mestiere; ma non migliori le sue intenzioni. Nel suo arrangiamento di Hàndel è proprio evidente che egli non era in grado di apprezzare la musica con campo armonico «limitato», e mi è stato detto che consi­ derava i virginalisti inglesi e di fatto qualsiasi musica che non presen­ tasse uno «sviluppo armonico» come primitivi. Il suo espressionismo è della specie più ingenua, come ad esempio nelle istruzioni per le luci in Die giuridiche Hand; le sue ultime opere tonali sono tediose quanto le opere di Reger a cui somigliano, e come César Franck, poiché il motivo 1 No, ho sentito nel frattempo molte volte questi pezzi. Non somigliano molto a Webern, e il più interessante di essi, il terzo, è proprio molto diverso da Webern. 2 La scala di Giacobbe adesso la trovo deludente, e i suoi cori a Sprechstimme meno buoni del­ l’inizio di Die gliickliche Hand. Quest’ultimo lavoro è infatti cosi straordinario da diminuire l’originalità non solo della Scala di Giacobbe ma anche di un’opera come Le visage nuptial di Boulez.

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iniziale di quattro note dell’OJe a Napoleone è proprio come Cesar Franck; per di più, la sua distinzione fra la «melodia ispirata» e quella puramente «tecnica» («cuore» in antitesi a «cervello») sarebbe arti­ ficiale se non fosse semplicemente ingenua, quando l’esempio che ci offre della prima, l’Adagio all’unisono del suo quarto Quartetto mi fa racca­ pricciare. Noi - e intendo la generazione che oggi dice « Webern e io» dobbiamo ricordare solo le opere perfette come i Cinque pezzi per or­ chestra (a eccezione dei quali potrei sopportare benissimo la perdita dei primi suoi diciannove lavori), le Herzgewàchse, il Pierrot, la Serenata, le Variazioni per orchestra, e, per la sua formazione orchestrale, il Lied Seraphita dell’op. 22. Per questi lavori spetta a Schonberg un posto tra i grandi compositori. I musicisti prenderanno le mosse da questi la­ vori per un bel po’ di tempo a venire. Questi, insieme ad alcuni lavori di non molti altri compositori, costituiscono la vera tradizione. r. c.: Come considera ora la musica di Berg? 1. s.: Se fossi in grado di penetrarne la barriera dello stile (il clima emotivo di Berg a me radicalmente estraneo) ho il sospetto che egli mi apparirebbe come il costruttore formale più dotato fra i compo­ sitori di questo secolo. Egli trascende perfino il suo più palese mo­ dello. È l’unico infatti che sia riuscito ad attuare forme di vaste pro­ porzioni di sviluppo senza traccia di dissimulazione «neoclàssica». D’al­ tra parte l’eredità che ci ha lasciato contiene ben poco su cui costruire. Egli si trova alla fine di uno sviluppo (e forma e stile non si sviluppano l’una indipendentemente dall’altro per cui si possa pretendere di usa­ re luna e di scartare l’altro) mentre Webern, la sfinge, ci ha lasciato in eredità non solo le sue intere fondamenta ma anche una sensibilità e uno stile con temporanei. Le forme di Berg sono tematiche (da questo punto di vista, come da molti altri, egli è l’opposto di Webern); l’essenza della sua opera è la struttura tematica, e la struttura tematica è responsabile dell’immedia­ tezza della forma. Per quanto complesse e «matematiche», sono sempre forme tematiche «libere» nate da «pura sensibilità» ed «espressione». L’opera perfetta in cui studiare questi aspetti e quella essenziale, insieme con Wozzeck, per lo studio di tutta la sua musica, è costituita dai Tre pez­ zi per orchestra op. 6. In questi pezzi la personalità di Berg è matura e mi sembrano un’espressione più ricca e più libera del suo talento che non le sue composizioni seriali. Se si considera la loro precoce data di composizione - nel 1914 Berg aveva ventinove anni — non si può che pensare ad un miracolo. Mi chiedo quanti musicisti li abbiano scoper­ ti persino oggi, a quarantanni di distanza. In molti punti fanno pensare all’ultimo Berg. La musica della misura 54 in Reigen ad esempio è mol-

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to simile al primo motivo della «morte» nell’aria di Marie nel Wozzeck. Così nella stessa opera la musica dell’annegamento è simile a quella che c’è in Marseh, dalla misura 162 in poi. Il valzer e la musica della misura 50 di Reigen, sono alla maniera del 'Wozzeck come nella Scena della Ta­ verna nel secondo atto, e il trillo con cui Reigen termina, è simile al fa­ moso trillo orchestrale alla fine del primo atto di Wozzeck. L’a solo del violino nella misura 168 della Marseh adombra la musica delle ultime pagine del Wozzeck, e la polifonia ritmica del motivo nella misura 75 dello stesso pezzo sembra una citazione da quell’opera. Ci sono pure delle anticipazioni del Rammerkonzert, per esempio nella configura­ zione della Nebenstimme della misura 55 di Reigen e nell’a solo di vio­ lino e nella successiva musica per fiati. E ciascuno dei tre atti di Lulu si conclude con lo stesso ritmo di accordi usato verso la fine di Reigen. La presenza di Mahler domina un po’ troppo sulla Marsch, ma anche questo pezzo si salva con un finale superbo (niente affatto mahleriano), cioè — e spero che mi si perdoni per questo rilievo - drammaticamente non dissimile dal finale di Petruska-. il climax seguito dalla calma, poi qualche frase spezzata di strumenti solisti, infine la protesta finale delle trombe; l’ultima misura delle trombe è una delle cose più belle che Berg abbia mai fatto. I Tre pezzi per orchestra debbono essere considerati come un tutto unico. Essi costituiscono un tutto drammatico e ciascu­ no dei tre pezzi è tematicamente in rapporto con gli altri (il superbo ri­ torno del tema del Preludium alla misura 160 della Marsch). Anche la forma di ciascuno dei tre pezzi è drammatica. A mio giudizio il più per­ fetto dei tre per concezione e resa è il Preludium. La forma si solleva e si abbassa, ed è circolare e irripetuta. Comincia e finisce con la percus­ sione, e le prime note dei timpani sono già tematiche. Poi il flauto e il fagotto espongono il motivo ritmico principale preparandolo per l’a solo del trombone contralto, uno dei suoni più nobili che Berg e chiunque al­ tro siano mai riusciti a farci sentire in un’orchestra. L’immaginazione e l’abilità orchestrali di Berg sono fenomenali, specialmente nella crea­ zione di blocchi orchestrali, e con ciò intendo dire l’equilibrio dell’inte­ ra orchestra su diversi piani polifonici. Uno dei rumori più straordinari che egli abbia mai immaginato si trova alla misura 89 di Reigen, ma ci sono molte altre invenzioni sonore sorprendenti, l’entrata della tuba alla misura no di Reigen, per esempio, e le misure 49 del Preludium e 144 della Marseh. Appesa alla parete ho una fotografia di Berg e Webern insieme, pres­ sappoco del periodo in cui Berg compose i suoi Tre pezzi per orchestra. Berg è alto, sciolto, persino troppo bello; il suo sguardo è estroverso. Webern piccolo, rigido, miope, guarda verso terra. Berg rivela un’imma­

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gine di sé attraverso il suo ondulato foulard da «artista»; Webern in­ dossa scarpe da contadino, e per di più coperte di fango — fatti questi per me profondamente rivelatori. Nel guardare questa fotografia non posso non pensare che pochi anni dopo ch’era stata presa questi due uo­ mini morirono prematuramente e tragicamente dopo anni di povertà, di incomprensione musicale e infine di bando musicale nei loro propri pae­ si. Vedo Webern che nei suoi ultimi mesi frequentava il cimitero di Mittersill dove fu più tardi sepolto, starsene in serena contemplazione delle montagne — secondo quel che ci dice sua figlia; e vedo Berg nei suoi ultimi mesi presentire che la malattia gli sarà fatale. Confronto il destino di questi due uomini che non prestarono orecchio ai clamori del mondo e che fecero la musica che farà ricordare questo nostro mezzo secolo, lo confronto con le «carriere» di direttori, pianisti, violinisti, tutte vane escrescenze. Allora questa fotografia di due grandi musici­ sti, due puri-di-spirito, herrliche Nienschen^ reintegra il mio senso di giu­ stizia al livello più profondo. c. : Conobbe personalmente Bartók? 1. s.: Lo incontrai almeno due volte in vita mia, una prima volta a Londra negli anni venti e in seguito a New York verso il principio degli anni quaranta, ma non mi riuscì d’avvicinarlo in entrambe le occasioni. Sapevo che musicista importantissimo egli fosse, avevo udito meravi­ glie sulla sensibilità del suo orecchio, e mi inchinavo profondamente alla sua religiosità. Tuttavia non ho mai potuto condividere il gusto1 che egli ebbe durante tutta la sua vita per il folklore natio. Questa devozio­ ne fu certamente sincera e commovente, ma non poteva non dispiacermi nel grande musicista. La sua morte in circostanze di vero bisogno mi ha sempre impressionato come una delle tragedie della nostra società. r. c. : È sempre della medesima opinione da lei espressa nella Poètique musicale^ riguardo all’ultimo Verdi? 1. s.: No. Infatti sono colpito dalla forza, specialmente in Falstaff, con cui egli resistette al wagnerismo, resistette o si tenne lontano da ciò di cui il mondo musicale più avanzato era in balia. La presentazione di monologhi musicali mi sembra più originale in Falstaff che in Otello. Anche la strumentazione, l’armonia e la scrittura delle parti sono ori­ ginali, tuttavia nessuna di esse ha lasciato elementi tali che si venisse a creare una scuola: tanto diversa l’originalità di Verdi è da quella di Wagner. Le doti di Verdi sono pure; ma cosa più notevole delle doti r.

1 [In italiano nel testo].

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stesse, è la forza con cui egli le sviluppa dal Rigoletto al Falstaff) per ci­ tare le due opere che amo di più. r. c.: Ammette ora qualcuna delle opere di Richard Strauss? i.s.: Mi piacerebbe che tutte le opere di Strauss venissero ammesse in un qualunque purgatorio dov’è punita la banalità trionfante. La loro sostanza musicale è povera e scadente; non può interessare un musici­ sta d’oggi. Quell’Ariadne cosi in voga ora? Non posso sopportare i suoi accordi di quarta e sesta: sentendo Ariadne mi vien voglia di urlare. Strauss come persona? Ebbi l’occasione di osservarlo da vicino durante la produzione che Djagilev approntava della sua Leggenda di Giuseppe, ben più da vicino che non altre volte. Diresse la première di quel lavoro e fu a Parigi per un po’ di tempo durante la preparazione. Non volle mai parlarmi in tedesco, sebbene io parlassi meglio il tedesco di quanto lui il francese. Era molto alto, calvo e pieno d’energia, un vero ritrat­ to del bourgeois allemand. Lo osservai durante le prove ed ammirai il suo modo di dirigere. Il suo comportamento verso gli orchestrali non era tuttavia ammirevole e i musicisti lo detestavano cordialmente; ma ogni sua osservazione correttiva era esatta; il suo orecchio e la sua abilità musicale erano inattaccabili. A quell’epoca la sua musica mi ricordava Bocklin e Stuck, e quegli altri pittori di ciò che allora chiamavamo i Verdi Orrori Tedeschi. Sono contento che i giovani musicisti d’oggi siano giunti ad apprezzare le doti lìriche delle melodie del compositore che Strauss disprezzava, e ben più significativo di lui per la nostra musi­ ca: Gustav Mahler. La mia bassa stima per le opere di Strauss è in certo modo compensata dalla mia ammirazione per Hofmannsthal. Ho cono­ sciuto bene questo fine poeta e librettista, a Parigi lo vedevo spesso e l’ultima volta, credo, fu a Berlino in occasione della première del mio CEdipus Rex (dove anche Albert Einstein venne a salutarmi). Hof­ mannsthal era un uomo di enorme cultura e di un fascino molto elegante. Ho letto recentemente di lui, l’anno scorso prima di partire per Hosios Loukas, il suo saggio su quella meravigliosa località, e fui contento di trovarlo ancora buono. I suoi Diari (1922) sono uno dei libri per me più preziosi. r. c. : Ha interesse per l’attuale revival dei maestri italiani del Set­ tecento? 1. s.: Non molto. Vivaldi è molto sopravvalutato - un tipo tedioso che componeva la stessa forma un’infinità di volte. E malgrado la mia predisposizione in favore di Galuppi o di Marcello (dovuta più al libro di Vernon Lee Studi sul Settecento in Italia che alla loro musica), en­ trambi sono compositori mediocri. Per quanto riguarda Cimarosa, mi aspetto sempre che abbandoni i suoi quattro per quattro e si trasformi

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in Mozart, e quando ciò non avviene sono piu esasperato di quanto lo dovrei essere se non fosse mai esistito un Mozart. Rispetto ampiamente Caldara perché Mozart copiò sette suoi canoni; non è che conosca mol­ to la sua musica. Pergolesi? Pulcinella è Punica «sua» opera che mi pia­ ce. Scarlatti è una faccenda diversa ma anche lui variò così poco la forma. Vivendo parte di questi due ultimi anni a Venezia, mi sono trovato esposto a una certa quantità di questa musica. L’anniversario di Goldoni fu occasione per eseguire molte opere su libretto di Goldoni. Rimpiango sempre di non poter apprezzare pienamente Goldoni, con e senza musica — non ne capisco la lingua — ma Goldoni mi interessa più di coloro che lo hanno messo in musica. Al Teatro La Fenice o al Chiostro Verde di San Giorgio tuttavia, tutto piace sempre un po’ di più che al­ trove. La musica «veneziana» che mi piacerebbe riprendere è quella di Mon­ teverdi e dei Gabrieli, di Cipriano e di Willaert, e di tanti altri - persino il grande Obrecht ebbe un periodo «veneziano» — di quel periodo tan­ to più ricco di interesse e a noi tanto più vicino. Per la verità, l’anno scor­ so vi ascoltai un concerto di Giovanni Gabrieli e Giovanni Croce, ma quasi niente rimaneva del significato della loro musica. I tempi erano sbagliati, l’ornamentazione inesistente o quando c’era era sbagliata, lo stile e il pensiero precorrevano quell’epoca di tre secoli e mezzo, e l’or­ chestra era settecentesca. Quando impareranno i musicisti che il criterio d’esecuzione della musica di Gabrieli è ritmico e non armonico? Quando smetteranno di cercare di trarre massicci effetti corali da semplici cam­ biamenti armonici, invece di far risaltare, ben articolate, quelle mera­ vigliose invenzioni ritmiche? Gabrieli è polifonia ritmica.

Dylan Thomas. r. c. : Qual era l’argomento dell’«opera» che aveva progettato di scrivere con Dylan Thomas? i. s. : Non penso si possa dire che il progetto sia giunto fino al punto di avere un tema,- Dylan però ebbe una bellissima idea. Sentii parlare per la prima volta di Dylan Thomas da Auden a New York, nel febbraio o marzo del 1950. Giungendo in ritardo ad un ap­ puntamento, un giorno Auden si scusò dicendo di essere stato occupa­ to ad aiutare un poeta inglese a districarsi da certe difficoltà. Mi parlò di Dylan Thomas. Dopo di che lessi delle sue poesie e ad Urbana nell’in­ verno del 1950 mia moglie andò a sentirlo leggere. Due anni dopo, nel gennaio del 1952, il produttore cinematografico inglese Michael Pow-

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ell venne a trovarmi a Hollywood con un progetto che io trovai mol­ to attraente. Powell propose di fare un breve film, una specie di masque, da una scena dell’odissea; sarebbero state necessarie due o tre arie, pez­ zi di pura musica strumentale e recitazioni di pura poesia, Powell dis­ se che Thomas aveva accettato di scrivere i versi; a me chiese di com­ porre la musica. Ahimè, non c’erano soldi. Ma dov’erano gli angeli, sia pure della specie di Broadway, e perché fondi, borse, fondazioni, com­ missioni, di tanti che ne esistono al mondo, nessuno è messo mai a di­ sposizione dei Dylan Thomas? Mi rincresce che questo progetto non si sia mai realizzato. Il dottore e i demoni prova, credo, che il talento di Dylan avrebbe potuto creare il nuovo mezzo. In seguito, nel maggio del 1953 l’università di Boston propose di commissionarmi la composizione di un’opera insieme con Dylan. In quel periodo mi trovavo a Boston e Dylan che era a New York o a New Haven venne a trovarmi. Appena lo vidi mi resi conto che l’unica co­ sa da farsi era di volergli bene. Lui era nervoso, fumava senza interru­ zione tutto il tempo, e si doleva di violenti disturbi di gotta... «ma pre­ ferisco la gotta alla cura; non permetterò che un dottore mi conficchi nel corpo una baionetta due volte la settimana». La faccia e la pelle avevano il colore e il gonfiore del troppo bere. Era più piccolo di quanto m’aspettassi dalle sue fotografie, poco più di un metro e cinquanta; con un gran ventre e sedere pro tuber anti. Il naso un bulbo rosso e gli occhi vitrei. Bevve un bicchiere di whisky con me dopo di che si sentì più a suo agio, sebbene continuasse a preoc­ cuparsi per sua moglie, dicendo che doveva correre a casa nel Galles «o sarebbe stato troppo tardi». Mi parlò della Carriera di un liber­ tino. Ne aveva sentito la prima trasmissione da Venezia. Conosceva bene il libretto e lo ammirava: « Auden è quello che ha più tecnica di noi tutti». Non so quanto si intendesse di musica, ma parlò delle opere che conosceva e che più gli piacevano, e di ciò che intendeva fare. La «sua» opera avrebbe dovuto trattare della riscoperta del nostro pianeta dopo una catastrofe atomica. Ci sarebbe una ricreazione del lin­ guaggio, e quello nuovo non avrebbe astrazioni; ci sarebbero solamen­ te persone, oggetti e parole. Promise di evitare indulgenze poetiche: - Nessun concetto, me li terrò tutti in testa Mi parlò di Yeats che, di­ ceva, era forse il più grande poeta lirico dopo Shakespeare, e citò a me­ moria il poema col motivo ricorrente «Daybreak and a candle-end». Ri­ mase d’accordo di venire da me a Hollywood appena avesse potuto. Di ritorno là feci costruire una camera apposta per lui, ricavandola dalla nostra sala da pranzo, poiché non avevamo camere per gli ospiti. Rice­ vetti due sue lettere. Gli scrissi a New York il 25 ottobre e gli chiesi di

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comunicarmi i progetti circa il suo arrivo a Hollywood. Ero in attesa di un telegramma che mi annunciasse l’ora del suo arrivo in aereo. Il te­ legramma giunse il 9 novembre. Diceva che era morto. Non mi rimase altro che piangere.

Lettere di Dylan Thomas.

1‘

Caro signor Stravinsky,

The Boat House, Laugharne, Carmarthenshire, Wales, ^u^no

fui molto contento di incontrarla a Boston, anche per poco tempo; e sia lei che la signora Stravinsky non avrebbero potuto essere più gen­ tili con me. Spero si ristabilisca presto. Non ho ancora ricevuto notizie da Sarah Caldwell!, ma ho pensato molto all’opera e ho un bel po’ di idee al riguardo: buone, cattive e caotiche. Appena potrò metter qualcosa su carta mi piacerebbe moltis­ simo, col suo permesso, inviarglielo. Mi sono rotto il braccio proprio prima di lasciare New York due settimane fa, e non sono ancora in gra­ do di scrivere bene. È stata solo una piccola rottura, mi dicono, ma ha fatto un rumore come di fucilata. A me piacerebbe moltissimo - se pensa che le piacerebbe ancora che io lavori con lei; e ne sarei enormemente onorato e pieno di eccitamen­ to - venire in California verso la fine di settembre o ai primi di ottobre. Per lei andrebbe bene? Lo spero. E spero anche che per allora avrò idee più chiare riguardo al libretto. Grazie ancora. Saluti per me sua moglie e il signor Craft. Sinceramente suo, Dylan Thomas

2. T , e . < Caro Igor Stravinsky,

The Boat House, Laugharne, Carmarthenshire, Wales, 22 settembre 1953

la ringrazio moltissimo per le sue due lettere estremamente gentili, e per avermi fatto conoscere la lettera che ha scritto al signor Choate dell’università di Boston. Avrei voluto scriverle a lungo prima, ma aspet1 Dell’Università di Boston.

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tavo di sapere con certezza quando avrei potuto venire negli Stati Uniti; il mio agente di New York, colui che mi può rendere possibile la traver­ sata, è stato terribilmente lento nel combinare le cose. Ho avuto notizie da lui soltanto questa settimana. Ora sono sicuro di essere a New York il 16 ottobre; e dovrò restarvi, per dare alcune letture di poesia e pren­ der parte a un paio di rappresentazioni di un mio breve lavoro teatra­ le, fino alla fine di ottobre. Mi piacerebbe poi, se posso, venire direttamente in California da lei per metterci a lavorare insieme sulla prima fase del nostro lavoro. (Sono sicuro di non aver bisogno di dirle quan­ to sia eccitato dall’idea di mettere per iscritto la parola «nostro». È ma­ gnifico pensarci). Uno dei miei guai principali è naturalmente il denaro. Non ne ho di mio, e la maggior parte di quel che guadagno sembra andarsene per gli studi dei miei ragazzi, che persisteranno nell’invecchiare tutto il tem­ po. La persona che ha organizzato le mie letture in ottobre, presso qual­ che università dell’Est e al Poetry Center di New York, mi paga le spe­ se per e da New York. Ma da là in California dovrò pagarmi il viaggio da solo con quanto mi sarà possibile ricavare da queste letture. Mi auguro che tutto vada bene. Forse mi sarà possibile qualche altra let­ tura o blaterio in California cosi da potermi pagare le spese. (Contavo di poter aggiungere le spese di viaggio ecc. sul fondo originale della commissione dell’università di Boston). Voglio portare con me mia mo­ glie Caitlin che pensa di poter stare da un’amica a San Francisco men­ tre io sarò a Hollywood a lavorare con lei. In ogni caso dovrò organiz­ zare tutto questo nel migliore dei modi e non voglio infastidirla ora con queste faccende. Il denaro per la California arriverà in qualche modo, pregherò che corvi ne lascino cadere un po’ nel deserto. La cosa più importante, lo so, è che io venga da lei il più presto possibile, cosi che si possa incominciare, beh, almeno incominciare, indipendentemente dal risultato. Ci ho pensato moltissimo. Mi è tanto spiaciuto sapere che abbia dovuto restare a letto cosi a lungo; spero che adesso stia veramente bene. Il mio braccio è a posto, cioè del tutto debole come l’altro. A meno che mi scriva nel Galles prima che parta, verso il 7 ottobre, poi il mio indirizzo in America sarà: c/o J. M. Brinnin, Poetry Center, ym-ywha, 1935 Lexington Avenue, New York, 28. Ma in ogni caso le scriverò appena sarò arrivato. Mi auguro moltissimo di incontrarla ancora e di lavorare con lei. E prometto di non parlarne a nessuno (sebbene ciò sia molto difficile). Molto sinceramente, Dylan Thomas

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r. c. : Una volta la sentii descrivere le fugaci visioni dello zar Alessan­ dro III, che lei ebbe da bambino. i. s.: Vidi lo zar molte volte mentre passeggiava con i miei fratelli e la governante lungo le banchine del fiume Mojka a Pietroburgo, o lun­ go i canali adiacenti. Lo zar era un uomo corpulento. Occupava l’intero sedile di un drozki guidato da un cocchiere di troika, grosso ed obeso come lui. Il cocchiere portava un’uniforme blu scuro col petto coperto di medaglie. Sedeva davanti allo zar, ma in posizione elevata sul sedile del conducente dove il suo enorme deretano, simile ad una zucca gigan­ tesca, distava di pochi centimetri dalla faccia dello zar. Lo zar doveva rispondere ai saluti della gente per la strada portandosi la mano destra alla tempia. Poiché tutti lo riconoscevano, egli era costretto a farlo quasi ininterrottamente. Le sue comparse mi davano grande piacere e io le attendevo con ansia. Ci toglievamo il cappello e ricevevamo il cenno di riconoscimento dello zar, sentendoci molto importanti davvero. Vidi pure lo stesso zar durante un’indimenticabile sfilata, una parata che muovendosi verso il Teatro Imperiale Mariinskij passò lungo la no­ stra strada. Era in onore dello scià di Persia e coronava un’importante visita di stato. Ci furono dati posti a una finestra del primo piano della casa del no­ stro parrucchiere. La piu brillante sfilata di ogni sorta di cavalleria ci passò davanti, guardie imperiali, carrozze con granduchi, ministri, ge­ nerali. Ricordo il prolungato rumore come quello di una foresta, gli «urrà» della folla per le strade, giungere a ondate crescenti e sempre più vicine con l’approssimarsi della carrozza isolata dello zar e dello scià. r. c. : Suo padre e Dostoevskij erano amici. Penso che da bambino abbia sentito parlare molto di Dostoevskij? i. s.: Dostoevskij divenne nella mia mente il simbolo dell’artista continuamente bisognoso di denaro. Mia madre ne parlava in questo modo; diceva che cercava sempre d’arraffarne. Dava delle letture delle

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sue opere, finanziate dai miei genitori, che poi si lamentavano di tro­ varle intollerabilmente noiose. A Dostoevskij piaceva la musica e an­ dava spesso ai concerti con mio padre. Tra parentesi, considero tuttora Dostoevskij come il più grande rus­ so dopo Puskin. Oggi che si ritiene che uno riveli tanto di sé a seconda della propria scelta tra Freud o Jung, Stravinsky o Schonberg, Do­ stoevskij o Tolstoj, io sono per Dostoevskij. r. c. : Le ho sentito dire di aver visto Ibsen da «comune mortale». i. s.: Nel maggio del 1905, poco dopo la separazione della Norvegia dalla Svezia, io e mio fratello minore, Gurij, andammo in vacanza in Scandinavia dove rimanemmo circa un mese. Navigammo da Pietrobur­ go a Kronstadt e a Helsingfors, sostando in quest’ultima città per qual­ che giorno ospiti di mio zio, che era il governatore civile della Finlandia. Salpammo poi per Stoccolma, fermandoci il tempo necessario per ve­ dere una rappresentazione delle Nozze di Figaro, e attraverso i canali dei bei laghi svedesi raggiungemmo Goteborg, dove cambiammo battel­ lo per Copenaghen e Oslo. C’era un delizioso clima primaverile a Oslo, freddo ma gradevole. Un giorno sembrò come se tutta la popolazione si fosse riversata nelle strade. Stavamo andando in drozki e l’amico che era con noi ci disse di guar­ dare un uomo piccoletto sul marciapiede alla nostra destra. Era Hen­ rik Ibsen. Portava un cappello a cilindro e aveva i capelli bianchi. Cam­ minava con le mani conserte dietro la schiena. Ci sono delle cose che rimangono fisse negli occhi senza mai scomparire nella parte più riposta della mente. Ibsen mi è rimasto impresso così. r. c.: Ci fu un tempo ch’era amico di D’Annunzio, non è vero? 1. s.: Direi piuttosto che lo vidi molto spesso prima della guerra del ’14, Djagilev però l’aveva conosciuto prima di me; era un grande am­ miratore del nostro Balletto russo. Lo incontrai per la prima volta a Parigi da Mme Golubev, una signora russa della scuola di Mme Récamier — per tutta la durata dei ricevimenti se ne stava su un divano col gomito sollevato e il capo appoggiato alla mano. Un giorno D’Annunzio entrò nel suo salon, un uomo piccolo, vivace ed elegante, molto pro­ fumato e molto calvo (la somiglianza che Harold Nicolson, nel suo libro Some People, trovava tra la sua testa e un uovo è particolarmente esatta). Era un conversatore brillante, veloce e molto divertente, cosi dissimile dalle «conversazioni» dei suoi libri. Ricordo che la mia opera Le rossignol l’aveva molto affascinato; dopo la première che la stam­ pa francese aveva generalmente attaccata, D’Annunzio scrisse invece un articolo in sua difesa, un articolo che vorrei ancora avere. Dopo di allo­ ra lo vidi molte altre volte. Veniva nella mia casa di Parigi, veniva alle

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rappresentazioni del Balletto e ai miei concerti in Francia e in Italia. Poi, improvvisamente, si scopri che il suo gusto esecrabile in letteratu­ ra corrispondeva al gusto esecrabile di Mussolini in ogni altra cosa. Cessò di essere un «personaggio» e di essere divertente. Ma che soprav­ viva o no come autore leggibile, la sua influenza sopravvive tuttora: gli interni di molte case italiane sembrano ancora seguire le descrizioni dei suoi romanzi. Una recente visita al compositore Malipiero ad Asolo, mi ha fatto fortemente ricordare D’Annunzio. Malipiero ha una casa molto straor­ dinaria e non del tutto non dannunziana, un bell’edificio in stile vene­ ziano sul pendio di una collina. Si passa, entrando, sotto un’iscrizione latina e ci si tuffa nella notte più oscura. Il buio è in deferenza a coppie di civette che, da gabbie coperte e riposte in angoli oscuri, emettono le due note

intonate a quelle che Malipiero sta suonando al pianoforte. Nel giardino ci sono i segni dell’affezione per altre pennute creature di Dio: delle gal­ line sono state sepolte in tombe contrassegnate; le galline di Malipiero muoiono di vecchiaia. r. c.: Conobbe Rodin, non è vero? I. s.: Feci la sua conoscenza al Grand Hotel di Roma poco dopo l’inizio della prima guerra mondiale. Djagilev vi aveva organizzato un concerto di beneficenza in cui avevo diretto la Suite da Petruska. Devo confessare che ero più interessato a lui a causa della sua fama che non a motivo della sua arte, verso cui non portavo l’entusiasmo dei suoi nu­ merosi e seri ammiratori. Lo incontrai ancora, qualche tempo dopo, a una rappresentazione dei nostri balletti a Parigi. Mi salutò gentilmen­ te, come se fossi una vecchia conoscenza, e in quel momento ricordai di nuovo l’impressione datami dalle sue dita alla nostra prima stretta di mano. Erano dita morbide, proprio il contrario di quanto mi sarei aspettato, e non sembravano appartenere alla mano di un uomo, non certo alla mano di uno scultore. Aveva una lunga barba bianca che rag­ giungeva l’ombelico del suo lungo e abbottonatissimo soprabito, men­ tre una bianca capigliatura gli copriva interamente la faccia. Stava se­ duto intento a leggere il programma del Balletto russo attraverso il pince-nez mentre la gente aspettava impazientemente che il vecchio gran­ de artista si alzasse per poter passare nella sua fila — non sapendo che era lui. È stato detto che Rodin mi avesse disegnato in uno schizzo. Per

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quanto ne so io non è affatto cosi. Forse l’autore di questa informazione ha confuso con Bonnard che nel 1913 effettivamente mi fece un bel ri­ tratto a inchiostro (perduto, sfortunatamente, con tutto ciò ch’era di mio, nella nostra proprietà in Russia). r. c. : Non ci fu anche la storia di Modigliani che stava facendo il suo ritratto? 1. s.: Si. Non ricordo chiaramente le circostanze, ma so che gli feci visita insieme con Lev Bakst nel 1912 o nel 1913, perché o io o lui op­ pure Djagilev avevamo prospettato di fargli fare un ritratto. Non so bene perché poi non si fece, se perché Modigliani era malato, come so­ vente lo era, o se perché dovetti io andar via con il Balletto. A quell’epo­ ca avevo un’ammirazione immensa per lui1. r. c.: Ancora una domanda sui «pittori». L’ho sentita raccontare una volta del suo incontro con Claude Monet. 1. s.: Non so dove Djagilev avesse trovato quel vegliardo o come fosse riuscito a collocarlo in un palco per uno degli spettacoli del Ballet­ to russo, ma fu là che lo vidi e gli andai a serrer la main. Era dopo la guerra, penso, nel 1922 o nel 1923 e naturalmente nessuno credeva che quello fosse Claude Monet. Aveva una barba bianca ed era quasi cieco. So adesso quel che non avrei creduto allora, cioè che egli stava dipin­ gendo in quel periodo i suoi quadri più importanti, quelle enormi tele quasi astratte fatte di puro colore e di luce (fino a non molto tempo fa ignorate; credo si trovino all’Orangerie, ma un bellissimo quadro di Ninfee, che ora sembra altrettanto buono come qualunque buon quadro di quel periodo, lo vado a vedere al Museo d’arte moderna di New York12 ogni volta che mi trovo in quella città). Il vecchio Monet, canu­ to e quasi cieco non avrebbe potuto impressionarmi di più fosse stato Omero in persona. r. c.: Fu molto spesso con Majakovskij durante il suo famoso viag­ gio a Parigi nel 1922? 1. s.: Si, ma era molto più amico di Prokof'ev che mio. Lo ricordo come un giovane piuttosto tarchiato — aveva ventotto o ventinove anni allora — che beveva più di quel che avrebbe dovuto e che era deplorabil­ mente sudicio, come molti poeti che ho conosciuto. Qualche volta mi ricordo di lui quando vedo una fotografia di Gromyko, benché non sap­ 1 Un mio ritratto fatto da Modigliani è stato scoperto dopo che ho dato alle stampe queste mie osservazioni. È un grande quadro a olio in grigio, nero e avorio, non datato ma simile allo stile del periodo dei ritratti di Max Jacob e di Cocteau. È stato autenticato da esperti come Zborovskij, Schoeller e Georges Guillaume e infine da una dichiarazione di Picasso, che dice: «Je pense que ce tableau est une [rie] portrait de Stravinsky. Cannes, le 18-9-57 (signe} Picasso». Modigliani deve averlo fatto di memoria. Mi rincresce dover ammettere che mi rassomiglia. 2 Ahimè! ho appreso, dopo la stesura di questo testo, che le Ninfee sono state distrutte da un incendio.

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pia dove si trovi questa rassomiglianza. Lo considero un buon poeta, ho ammirato e le ammiro ancora le sue poesie. Insisteva nel parlarmi di mu­ sica quando la sua comprensione di quell’arte era del tutto immagina­ ria. Non parlava francese e perciò quando ero con lui dovevo sempre fargli da traduttore. Ricordo una di queste occasioni, ero tra lui e Cocteau. Il fatto curioso è che trovavo facilmente il frasario francese per tradurre quel che Majakovskij diceva, ma non quello russo per le osservazioni di Cocteau. Il suo suicidio, qualche anno dopo, fu il primo degli choc che in seguito mi sarebbero regolarmente provenuti dalla Russia. r. c.: Raymond Radiguet fu spesso in sua compagnia l’anno prima della sua morte. Come se lo ricorda? i. s.: Lo vidi quasi ogni giorno di quel 1922 che passai a Parigi. Era un giovane silenzioso dallo sguardo sereno e un po’ fanciullesco, ma anche con qualcosa del giovane toro. Era di media statura, bello, di un bello un po’ pederastico ma senza i modi del pederasta. La prima volta che lo vidi era con Cocteau. Ero seduto con Djagilev in un caffè quando loro due apparvero. s. d. Qu’est ce que c’est, ce nouveau true? i. s. Tu l’envies? Radiguet mi colpi immediatamente come persona molto dotata e pos­ sedeva inoltre quell’altra intelligenza, quella del tipo di machine à penser, Le sue opinioni erano immediate e sue, mentre le opinioni di quelli che gli stavano attorno erano troppo spesso «costruite». Ritengo tut­ tora che le sue poesie siano molto buone e che i suoi due romanzi lo sia­ no un po’ meno. Questi ultimi erano autobiografici, naturalmente, e tutti a Parigi sapevano chi era la persona di cui in essi si parlava. Ricordo che quando Radiguet mori (a vent’anni) anche l’uomo che nel romanzo si chiamava il Comte d’Orgel ne fu grandemente afflitto. r. c.: Già che sta richiamando alla mente le cose del passato, vuole descrivere il suo ultimo incontro con Proust? 1. s.: Dopo le premieres di M.avra e Renard nel giugno del 1922, an­ dai ad un ricevimento dato da una mia amica, la principessa Violette Murat. C’era pure Marcel Proust. La maggior parte degli invitati veniva a quel ricevimento dalla mia première all’Opéra, ma Proust veniva di­ rettamente da letto, alzandosi come al solito di sera tardi. Era un uomo pallido, vestito elegantemente e alla francese, portava i guanti e teneva un bastone di canna. Insieme si parlò di musica ed egli espresse il suo grande entusiasmo per gli ultimi quartetti di Beethoven - entusiasmo che avrei condiviso non fosse stato un luogo comune tra gli intellettuali di quel tempo e piu che un giudizio musicale una posa letteraria.

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r. c. : Klee, Kandinskij e Busoni erano presenti alla rappresentazio­ ne a Weimar deìTHistoire du soldat. Ricorda qualcosa di questi signori in quel tempo? i. s. : Rimasi solo per brevissimo tempo a Weimar - giusto il neces­ sario per le prove e la rappresentazione delTHistoire, diretta da Her­ mann Scherchen. Dei tre artisti citati, incontrai solo Ferruccio Busoni, che, durante l’esecuzione, era seduto nel mio stesso palco. Aveva la te­ sta piu nobile e bella che abbia mai visto e rimasi a guardarlo quasi quanto il palcoscenico. Sembrava molto colpito da quel lavoro. Ma se fosse per il testo di Ramuz, per la mia musica o per l’insieme del lavo­ ro, non era facile da determinare, specialmente dal momento che sapevo di essere la sua bète noire della musica. Ora, trentacinque anni dopo, ho una grande ammirazione per la sua visione musicale, per il suo talento letterario e per almeno uno dei suoi lavori, il Doktor Faust. Sfortunata­ mente non incontrai Paul Klee né allora né dopo \ Ebbi invece la buona sorte di conoscere Kandinskij a Parigi negli anni trenta, e lo ricorderò sempre come un aristocratico, un homme de choix. r. c.: L’ho spesso sentita parlare della sua ammirazione per Ortega y Gasset. L’ha conosciuto bene? i. s.: Lo vidi solo una volta, a Madrid nel marzo del 1955, ma ebbi l’impressione di conoscerlo da tempo attraverso le sue opere. Quella sera a Madrid venne nel mio albergo con Mme La Marquise de Slauzol, e insieme bevemmo una bottiglia di whisky e fummo molto allegri. Era un uomo affascinante e molto gentile. Ho spesso pensato fin da al­ lora che dovesse essere consapevole di avere un cancro; infatti mori po­ chi mesi piu tardi. Non era alto ma lo ricordo imponente a causa della sua grossa testa. Il suo busto mi ricordava quello di uno statista o di un filosofo romano e cercai tutta la sera di farmi venire in mente a quale antico romano somigliasse. Parlava un francese vivace ed arrotato con una voce forte, leggermente aspra. Tutto ciò che diceva era vivido. Il Tago a Toledo era «arteriosclerotico»; Cordoba era «un cespuglio di rose ma con i fiori in terra e le radici in aria». L’arte dei portoghesi «è il loro rammentarsi della Cina, di pagode». Dei filosofi suoi contempo­ ranei, parlava con reverenza di Scheier, di Husserl, del suo maestro Cohen, di Heidegger. Della scuola di Wittgenstein diceva: «La filosofia che si autodefinisce Positivismo Logico ora sostiene di essere una scien­ za, ma ciò è solo un breve attacco di modestia». Parlava della Spagna (mi dispiace che i suoi Castelli in Castiglia non siano ancora tradotti in inglese) e si rideva dei sentimenti dei turisti «verso la povera gente che 1 II mio ritratto a matita fatto da Klee è senz’altro un ritratto di memoria.

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vive in caverne» aggiungendo che non è per povertà che ci vivono ma per antichissima tradizione. Mostrò acutezza e simpatia quando parlam­ mo degli Stati Uniti - Punico «intellettuale» europeo incontrato in quel viaggio che ne sapesse qualcosa di più oltre a quanto letto in Melville o sulle riviste illustrate. Orgogliosamente mi mostrò una fotografia, che tolse dal suo portafo­ gli, di lui con Gary Cooper presa ad Aspen nel 1949. Disse che Thornton Wilder gli fece da interprete in America ma che il pubblico degli ascol­ tatori capiva già prima della traduzione, «a causa dei miei gesti strava­ ganti». r. c. : Come fu che Giacometti venne a farle dei ritratti a matita? 1. s. : Aveva fatto cinque o sei disegni da mie fotografie prima di ve­ dermi, ma non gli piacevano. In seguito, seduto a pochi passi da me, ne fece un’intera serie, lavorando molto rapidamente e con pochissimi mi­ nuti di effettivo disegno per ciascuno di essi. Mi disse che anche in scul­ tura raggiunge il risultato finale molto in fretta, ma che fa a volte centi­ naia di studi preparatori e poi li rigetta, molto lentamente e su un lungo arco di tempo. Disegnava con una grafite durissima, di tanto in tanto stemperando i tratti con delle gomme da matita. Borbottava continuamente: Non... impossible... je ne peux pas... una téte violente... je n’ai pas de talent... je ne peux pas... Fui sorpreso la prima volta che venne da me, poiché mi aspettavo un «Giacometti» alto e magro. Mi disse che era appena sfuggito ad un fabbricante di automobili che gli offriva una con­ siderevole somma di denaro perché dicesse che le automobili e le scul­ ture sono la stessa cosa, cioè dei bellissimi oggetti. Infatti uno degli ar­ gomenti preferiti di Giacometti era la differenza tra una scultura e un oggetto. «Gli uomini che passeggiano per strada muovendosi in dire­ zioni diverse non sono oggetti nello spazio». «La scultura — diceva — è una matière trasformata in espressione, espressione in cui la natura con­ ta meno dello stile». «La scultura è espressione nello spazio, il che si­ gnifica che non può mai essere completa; essere completo è essere sta­ tico». «Ogni busto è ridicolo; l’intero corpo è il solo tema che si presti alla scultura». La sua conversazione riguardo altri scultori era talvolta sorprenden­ te. Gli piaceva Pigalle, lo considerava il più grande scultore del dix-huitièmey specialmente nel suo monumento in memoria del Maréchal de Saxe a Strasburgo. Preferiva di molto il rifiutato Voltaire nudo a quello famoso e ufficiale di Houdon «a motivo della sua maggior nervosità». Per lui Canova non era veramente uno scultore, mentre Rodin era «l’ul­ timo grande scultore e sullo stesso piano di Donatello (non natural­ mente il Rodin del Balzac e dei Borghigiani di Calais')». Brancusi non era

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affatto uno scultore, diceva, ma «uno che fa oggetti». Mi piace l’opera di Giacometti - ho uno dei suoi quadri pieni di spazio scultoreo appeso alla parete della mia stanza da pranzo — e ho una particolare affezione per lui, per la sua «nervosità». Mi piace il suo carattere come risulta da un fatto che egli stesso mi raccontò. Aveva una grande ammirazione per Klee e una volta sul finire degli anni trenta, quando entrambi vivevano in Svizzera, egli prese finalmente la decisione di andare a fargli visita. Dalla stazione si portò a piedi verso quella che pensava fosse la casa di Klee - era sul versante di una montagna a una certa distanza dalla città ma quando ci arrivò scopri che Klee viveva in realtà ancora piu in su sulla montagna. «Persi il coraggio e non ci andai — avevo avuto il corag­ gio giusto sufficiente per arrivare fin là».

Pittori del Balletto russo.

R. c. : Ricorda la scenografia di Balla per i Fuochi d’artificio? i. s.: Vagamente, ma non avrei potuto descriverla neppure a quel tempo (Roma, 1917) come niente di più che qualche spruzzo di pittura su un fondale altrimenti lasciato vuoto. Ricordo tuttavia che il pubblico ne rimase sconcertato e che quando Balla venne fuori per Finchino non ci furono applausi; il pubblico non sapeva chi fosse, che cosa avesse fatto e perché venisse a inchinarsi. Balla allora si mise una mano in tasca e premette qualcosa che fece fare dei sobbalzi alla sua cravatta a farfalla. Questi trucchi fecero scoppiare me e Djagilev in risa incontrollate - era­ vamo nello stesso palco -, ma il pubblico rimase muto. Balla era sempre divertente e sempre piacevole; alcune delle ore più strambe della mia vita le passai proprio con lui in compagnia dei suoi accoliti futuristi. L’idea di fare un balletto futurista venne a Djagilev, ma decidemmo insieme la scelta dei miei Fuochi d’artificio: erano «mo­ derni» abbastanza e duravano soltanto quattro minuti. Balla ci aveva fatto l’impressione di essere un pittore dotato e gli chiedemmo appun­ to di disegnare una scenografia. Feci presto amicizia con lui subito dopo andando a visitarlo spesso nel suo appartamento romano. Abi­ tava vicino allo zoo, cosi vicino infatti che il suo balcone sovrastava una grossa gabbia. In camera sua si sentivano rumori di animali come a New York in una camera d’albergo si sentono rumori di strada. Il quartier generale del futurismo però era a Milano ed è là che eb­ bero luogo i miei incontri con Balla, Boccioni, Russoio l’intona rumori, Carrà e Marinetti. Milano era per la Svizzera quello che Hollywood è per queste colline, tranne che allora prendere il treno per scendere

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nella città italiana per una rappresentazione serale era più facile di quanto oggi sia l’andare in automobile giù fino a Los Angeles. Per di più nella Milano di quei tempi di guerra i miei pochi franchi svizzeri mi facevano sentire gradevolmente ricco. Durante una delle mie visite milanesi, Marinetti, Russoio, uomo geniale e tranquillo ma con barba e capelli indiavolati, e Pratella, un altro intona rumori, mi offrirono una dimostrazione della loro «Musica Futurista». Cinque grammofoni su cinque tavolini in una grande stan­ za pressoché vuota emettevano rumori digestivi, statici, ecc., notevol­ mente simili alla musique concrète di sette o otto anni fa (quindi forse erano dopo tutto dei futuristi; o forse i futurismi non sono abbastanza progressivi). Feci finta di esserne entusiasta e dissi loro che gruppi di cinque grammofoni con una simile musica, prodotti in massa, si sareb­ bero di certo venduti come i pianoforti da concerto Steinway. Qualche anno dopo quella dimostrazione, Marinetti inventò quelli che chiamava «rumori discreti», rumori da associare a oggetti. Ricor­ do uno di questi suoni (a dire il vero, non era affatto discreto) e l’og­ getto che accompagnava, una sostanza che sembrava velluto ma con la superficie più ruvida che avessi mai toccato. Anche Balla deve aver partecipato al movimento dei «rumori», poiché una volta mi fece un regalo di Pasqua, un dolce in papier-màché che sospirava in modo molto strano nell’aprirlo. L’avvenimento più memorabile di tutti quegli anni di amicizia con i futuristi fu la rappresentazione dei Pirati cinesi, un «dramma in tre at­ ti» che vedemmo insieme a Milano in un teatro di marionette. Fu in­ fatti una delle più straordinarie esperienze teatrali della mia vita. Il teatro stesso aveva una misura da marionette. Un’orchestra invisibile, clarinetto, piano, violino e contrabbasso, suonava un preludio e di tanto in tanto pezzi di musica d’accompagnamento. C’erano delle finestrelle a entrambi i lati del minuscolo palcoscenico. Nell’ultimo atto udimmo cantare e fummo sconvolti a vedere che i canti erano emessi da giganti che stavano in piedi dietro quelle finestre; erano cantanti di normale sta­ tura umana, ovviamente, ma ci eravamo adattati alla scala delle mario­ nette. I futuristi erano assurdi, ma in un modo simpatico, e infinitamente meno pretenziosi di alcuni movimenti successivi che da loro derivarono - meno pretenziosi del surrealismo, ad esempio, che aveva più sostanza; diversamente dai surrealisti erano in grado di ridere delle loro pose di artisti antifilistei. Marinetti stesso era una vera baiala]ka - un chiacchie­ rone instancabile - ma era anche il più gentile degli uomini. Peccato che mi sembrasse il meno dotato dell’intero gruppo - in confronto a Boccio-

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ni, Balla e Carrà, che erano tutti pittori provetti. I futuristi non furono gli aeroplani che volevano essere ma caso mai un simpatico stormo di rombanti «Vespe». r. c. : Fu lei a scegliere Nikolaj Roerich per la scenografia del Sacre du printempsì i. s.: Si. Avevo ammirato le sue scenografie per II principe Igor e avevo immaginato che potesse fare qualcosa di simile per Le sacre ; soprattutto, ero certo che non avrebbe strafatto. Djagilev fu d’accordo con me e, secondo i piani, nell’estate del 1912 incontrai Roerich a Smolensk e lavorai con lui nella casa di campagna della principessa Teniseva, una mecenate dalle idee liberali che aveva aiutato Djagilev. Ho ancora una buona opinione del Sacre di Roerich. Aveva dise­ gnato un fondale di steppe e di cielo, i luoghi dell’Hzc sunt leones im­ maginati dai vecchi cartografi. La fila di dodici ragazze bionde e dalle spal­ le quadrate sullo sfondo di questo paesaggio ne fece un quadro di grande efficacia. Per di più i costumi di Roerich oltre a essere storicamente esat­ ti furono trovati scenicamente soddisfacenti. Incontrai Roerich, barba bionda, occhio da calmucco, naso all’insù, nel 1904. Sua moglie era parente di Mituzov, amico mio e coautore del libretto del mio Rossignol, e li avevo visti spesso nella casa dei Mituzov a Pietroburgo. Roerich vantava la discendenza da Rjurik, VUr-Prinz rus­ so-scandinavo. Vero o non vero che fosse (aveva l’apparenza dello scan­ dinavo, ma queste cose non si possono più dire) era senza dubbio un seigneur. Ebbi molta simpatia per lui in quei primi anni, quantunque non mi piacesse molto la sua pittura che era una specie di Puvis de Chavannes più evoluto. Non fui sorpreso di venire a sapere durante l’ulti­ ma guerra delle sue attività segrete e dei suoi curiosi rapporti con il vice­ presidente Wallace nel Tibet; aveva l’aria di uno che avrebbe dovuto fa­ re o il mistico o la spia. Roerich venne a Parigi per Le sacre, ma ricevette poca attenzione e, dopo la première, scomparve, un po’ deluso credo, ritornando in Russia. Non lo rividi più. r. c.: Fu sua la scelta di Henri Matisse come pittore per le scene del Chant du rossignol^ i.s.: No, la sua collaborazione fu un’idea del tutto di Djagilev. In realtà, io mi opposi, ma in modo troppo diretto (Amiel dice: «Ogni re­ sistenza diretta finisce nel disastro»). La produzione, e specialmente la parte che ne ebbe Matisse, fu un fallimento. Djagilev sperava che Ma­ tisse avrebbe fatto qualcosa di molto cinese e attraente. Egli non fece altro che copiare la Cina dei negozi di Rue de la Boètie. Matisse non solo fu l’autore delle scene, come lei dice, ma anche dei costumi e del sipa­ rietto.

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Non sono mai stato attratto dall’arte di Matisse, ma al tempo del Chant du rossignol lo vidi spesso e come persona mi riuscì molto sim­ patico. Mi ricordo di un pomeriggio insieme a lui al Louvre. Non fu mai un conversatore stimolante, ma si fermò davanti a un Rembrandt e pre­ se a parlarne con grande animazione. A un certo punto estrasse di tasca un fazzoletto bianco e disse: — Quale è bianco, questo fazzoletto o il bianco di quel quadro? Nemmeno l’assenza di colore esiste, ma soltanto il «bianco» oppure il singolo e tutti i bianchi. La nostra collaborazione con Matisse fece arrabbiare moltissimo Pi­ casso: — Matisse! Che cos’è un Matisse? Un balcone con un grosso vaso di fiori rosso che gli cade tutto addosso. r. c. : Ricorda i décors di Golovin per la prima edizione dell’UcceZlo di fuoco? 1. s.: Tutto quel che ne ricordo è che i costumi mi piacquero a quel­ l’epoca. Il sipario era quello dell’Opéra. Non ricordo quanti fondali avesse fatto Golovin, ma sono sicuro che se tornassi indietro a rivedere quell’UrceZZo di fuoco del 1910 li troverei certo assai opulenti. Golovin era piu vecchio di me di parecchi anni e non fu la nostra prima scelta. Djagilev voleva Vrubel', il piu dotato di tutti i pittori russi di quell’epoca, ma Vrubel' stava morendo o diventando pazzo. Prendem­ mo anche in considerazione Benois, ma Djagilev preferì Golovin per il modo con cui aveva realizzato le scene fantastiche di Ruslan\ d’altra parte l’orientalismo di Golovin si accordava più agli ideali di «Mir Iskusstva», la rivista di Djagilev, che non all’orientalismo accademico allo­ ra così popolare. Come pittore di cavalletto Golovin era una specie di puntinista russo. Non ricordo di aver visto Golovin alla prima rappresentazione delVUccello di fuoco. Djagilev probabilmente non aveva abbastanza de­ naro per pagargli il viaggio (io stesso ricevetti 1000 rubli per la musica che mi era stata commessa e per le spese di viaggio e di soggiorno a Pa­ rigi comprese). La prima dell'Uccello di fuoco1 . Me ne stetti nel buio dell’Opéra durante otto prove d’orchestra dirette da Pierné. Il palco­ scenico e l’intero teatro scintillavano alla première e questo è tutto quel che ricordo. r. c.: Come considera Lev Bakst? 1. S. : Nessuno potrebbe descriverlo più concisamente di quanto Coc­ teau ha fatto in una sua caricatura. Eravamo diventati amici fin dal no­ stro primo incontro a Pietroburgo nel 1909, sebbene la nostra conver­ sazione fosse in gran parte costituita dai resoconti di Bakst sulle sue conquiste amorose e dalla mia incredulità: - Andiamo Lev... non puoi aver fatto tutte queste cose —. Bakst portava cappelli, canne, ghette ecc.

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molto eleganti, ma penso che fossero cose escogitate per stornare l’oc­ chio dal suo naso da maschera veneziana. Come altri dandy, Bakst era molto sensibile — e misterioso nella vita privata. Roerich mi disse un giorno che Bakst è una parola ebraica che significa piccolo ombrello. Disse di averlo scoperto a Minsk quando durante un acquazzone udì del­ le persone che dicevano ai bambini di correre a casa a prendere i Bakst e vide poi di che si trattava. Si era parlato di Bakst come scenografo per la mia Mavra, ma una questione di denaro con Djagilev mandò a monte tutto. Nessuno di noi si riconciliò più e ne fui dispiaciuto, specialmente quando solo tre anni dopo a bordo del Paris durante il mio primo viaggio verso gli Stati Uniti, lessi l’annuncio della sua morte sul giornale di bordo. Bakst amava la Grecia e tutto ciò che era greco. Ci andò con Serov (Serov era la coscienza di tutta la nostra cerchia e mi fu amico molto im­ portante in gioventù; persino Djagilev lo temeva) e pubblicò un libro di note di viaggio intitolato Con Serov in Grecia (1922) che dovrebbe essere stato pubblicato in inglese un bel po’ d’anni fa. Di Bakst avevo visto la pittura da cavalletto prima di conoscere la sua produzione per il teatro, ma non mi riuscì di ammirarla. Rappresentava infatti tutti que­ gli aspetti della Russia contro cui il mio Sacre du printemps si propo­ neva di muover rivolta. Però ritengo che la Shéhérazade di Bakst sia un capolavoro, forse il risultato perfetto del Balletto russo dal punto di vista scenico. I costumi, i fondali, il siparietto, avevano coloriture in­ descrivibili — oggi siamo molto più poveri in queste cose. Ricordo che anche Picasso considerò Shéhérazade un capolavoro. Era quella in ef­ fetti la sola realizzazione del balletto che realmente ammirasse: — Vous savez, c’est très spécialiste, mais admirablement fait. r. c.: E Benois? 1. s. : Lo conobbi prima di conoscere Bakst. Era in quell’epoca l’italofilo più colto che avessi mai incontrato, e se non fosse per Eugene Ber­ man lo sarebbe ancora: e Benois e Berman sono molto simili per la lo­ ro origine russa, per il loro interesse per il teatro romantico e la loro italofilia. Benois si intendeva di musica più di ogni altro pittore, benché naturalmente la musica che conosceva fosse quella operistica italiana dell’ottocento. Penso che tuttavia il mio Petruska gli piacesse, o comunque non lo chiamava Petruska-ka, come molti altri della sua generazione. Ma Benois era il conservatore della compagnia e per Petru­ ska faceva un’eccezione. Collaborai con lui prima di Petruska con le due orchestrazioni che costituiscono Les sylphides (dubito molto che questi arrangiamenti pos­ sano ancora piacermi oggi - non m’importa più nulla di quella specie di

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musica per «clarinetto solista»). Ma sebbene mi fosse piaciuto il suo la­ voro per Les sylphides non avrei scelto lui per Petruska basandomi su quell’esperienza. La mia vera amicizia per lui cominciò a Roma nel 1911 mentre stavo ultimando Petruska. Alloggiavamo all’Albergo Italia vi­ cino alle Quattro Fontane e per due mesi si fu insieme ogni giorno. Benois faceva in fretta ad accendersi & amour propre. Il più grande successo di quel tempo era lo Spectre de la rose con Nizinskij, e Benois era palesemente geloso della parte che Bakst aveva in quel successo. Questa gelosia fu causa di un incidente che accadde l’an­ no successivo. Benois stava dipingendo il fondale della cella di Petruska quando Bakst capitò da quelle parti, raccolse un pennello ed incominciò a dargli una mano. Benois giustamente si lanciò su di lui. r. c. : Michail Larionov fu il pittore da lei scelto per Renard? 1. s.: Djagilev lo suggerì per primo, ma anch’io fui d’accordo nella scelta. Come lei sa, composi Renard per la principessa Edmond de Polignac. Nel 1914 ero tagliato fuori dalle rendite delle mie proprietà in Russia e vivevo in Svizzera di un mio piccolo reddito. Djagilev non era in grado di pagarmi nulla in quegli anni di guerra, così accettai una com­ missione di 2500 franchi svizzeri da parte della principessa di Polignac. Djagilev era furioso di gelosia (ma Djagilev era sempre geloso; penso di essere equanime a dire così di lui e certamente lo conobbi abbastanza per poterlo dire ora). Per due anni non accennò mai a Renard, almeno con me (il che non gli impediva di parlarne con altri in questo modo: - Il nostro Igor', vuole sempre denaro, denaro, denaro, e per che cosa poi? Questo Renard è qualche vecchio rimasuglio che si è trovato in qualche suo cassetto). Djagilev venne a farmi visita a Ouchy nel gennaio o febbraio del 1917 e gli suonai Les noces. Pianse (fu molto sorprendente vedere quell’omone piangere), dicendo che mai altra musica l’aveva più com­ mosso, però non mi fece domande su Renard, benché sapesse che l’avevo completato. E sapeva anche che la principessa Polignac non aveva un teatro e che mi aveva commissionato quell’opera soltanto per aiutarmi e che a lui avrebbe affidato la rappresentazione di Renard. (Qualche an­ no dopo la principessa Polignac diede in casa sua un’anteprima di CEdipus Rex eseguita al pianoforte e mi pagò 12 000 franchi che io diedi a Djagilev per contribuire a finanziare la rappresentazione pubblica). Larionov era un enorme tipo di muzik biondo, persino più grosso di Djagilev (Larionov, che aveva un temperamento incontrollato, una vol­ ta buttò a terra Djagilev). Faceva della pigrizia una vocazione, come Oblomov, e noi tutti si pensò sempre che fosse sua moglie Goncarova a fare il lavoro per lui. Cionondimeno era un pittore dotato e i costumi e



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la scenografia ch’egli fece per Renard mi piacciono ancora. Renard fu rappresentato insieme a Mavra, come è noto, ed entrambi i lavori furono preceduti da un grande balletto orchestrale che fece si che i miei pezzi già su scala ridotta sembrassero ancora piu piccoli. Renard non fu un grande successo ma a suo confronto Mavra ne eb­ be ancora meno. Mavra ebbe il pregevole allestimento scenico di Survage, un artista sconosciuto che era stato scelto dopo la lite di Djagilev con Bakst. L’insuccesso di Mavra infastidì Djagilev. Era ansioso di fare im­ pressione su Otto Kahn, che era presente alla première nel palco di Dja­ gilev e che avrebbe dovuto portare la compagnia in America. Il solo commento di Otto Kahn fu: - Mi piace tutta, ma poi «paf» termina troppo in fretta —. Djagilev mi chiese di cambiarne il finale. Natural­ mente rifiutai, e lui non me la perdonò mai. Derain fu un altro pittore del «balletto» che vidi molto in quel pe­ riodo. Mi piaceva la sua parlata parigot, in verità preferivo più lui alla sua pittura, anche se ci sono dei piccoli Derain incantevoli. Era un uomo massiccio — il ritratto che ne fece Balthus gli è molto somigliante - ed un bevitore copioso. Mentre accudiva agli ultimi allestimenti scenici, talvolta si trovavano dei mobili rotti, ma ho sempre trovato Derain molto simpatico. Feci da paciere in una lite tra lui e Djagilev che voleva cambiare qualcosa nella Boutique fantasque. Nei suoi ultimi anni De­ rain era diventato molto solitario e noi non lo si vide più ai concerti e agli spettacoli. Il mio ultimo incontro con lui fu dovuto a una straor­ dinaria coincidenza. Stavo passando in automobile nei pressi di Tolone e feci una sosta per passeggiare in una pineta. M’imbattei in un uomo che in piedi davanti a un cavalletto stava dipingendo: era Derain.

Ora che ho menzionato il nome di Derain vorrei pure accennare al mio sodalizio con qualche altro artista, la maggior parte dei quali aveva rapporti con Djagilev o col Balletto. Penso, ad esempio, a Aleksej Javlenskij. Djagilev me l’aveva descritto al tempo di Pietroburgo come un ardente seguace della nuova scuola di Monaco. Ciò nonostante collaborava alla rivista «Mir Iskusstva»; dico «ciò nonostante» perché Dja­ gilev considerava la scuola di Monaco l’estrema espressione del cattivo gusto boche. Non incontrai Javlenskij in Russia ma in Svizzera. All’inizio della guerra io vivevo a Morges e lui a St. Prex, che è li vicino. Qualche volta facevo una passeggiata coi miei figli dalla nostra casa di Morges si­ no alla sua di St. Prex. Era sempre molto ospitale e il suo studio era una piccola isola di colore russo che deliziava i miei ragazzi. Max Liebermann fu un altro amico, specialmente durante il primo periodo del nostro Balletto a Berlino. Feci la sua conoscenza, e quella di

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Gerhardt Hauptmann, dopo una rappresentazione di Petruska e dopo di allora lo vidi molto spesso. Aveva fama di grande persona di spirito. In un aneddoto che circolava allora, un ritrattista cui era stato commis­ sionato di ritrarre Hindenburg si lamentava con Liebermann della sua incapacità di disegnare i lineamenti di Hindenburg, al che Liebermann esclama: - Ich kann den Alten in den Schnee pissen -. Come sa fu Lie­ bermann che pose la mia candidatura all’Accademia prussiana. Jacques-Emile Bianche fu un altro degli amici dei miei primi anni con Djagilev. Mi fece due ritratti che sono ora al Lussemburgo. Ricordo di quando posavo per lui e di come disegnasse il capo e i lineamenti del viso solo dopo averne studiato il modello per lungo tempo, mentre tutto il resto, il corpo e lo sfondo venivano aggiunti in absentia. Ciò si­ gnificava che le gambe potessero risultare troppo lunghe e il torso troppo capace, o che ci si potesse trovare a passeggiare sulla spiaggia di Deauville, come appunto mi si fa fare in uno di questi ritratti. I volti dipinti da Bianche tuttavia erano di solito accuratamente caratterizzati e questa era la cosa piu importante. Bianche era veramente una fine mouche per le celebrità; venne a farmi il ritratto pressoché il mattino successivo alla première deXPlJccello di fuoco. Robert Delaunay era un altro pittore che vedevo molto spesso a un certo tempo. Parlava molto e fin troppo entusiasticamente dell’«arte moderna», ma era peraltro molto piacevole. Mi fece anche lui un ritrat­ to. Non so che fine abbia fatto ma era certamente migliore di quello cu­ bista fattomi da Albert Gleizes, che consisteva nei miei baffi più quel che ci vuoi mettere. Delauney non lavorò mai per un balletto di Djagilev ma si trovava spesso con lui, e a Madrid, nel 1921, noi tre eravamo tutto il tempo insieme. Vidi Fernand Léger per tutto il periodo Djagilev, ma diventammo più intimi negli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale. Ricordo di un pranzo francese che gli avevamo preparato nella nostra casa di Hollywood nei primi giorni cupi della guerra. Il pranzo si concluse con un pacchetto di sigarette Caporal e Léger fu cosi commosso a vederle che scoppiò in pianto. Il disegno di Léger riproducente un pappagallo che si trova appeso a una parete della nostra stanza da pranzo ci fu dato da lui in quell’occasione. Pavel Celicev lo incontrai a Berlino nel 1922, dove ero andato ad aspettare mia madre proveniente dall’Unione Sovietica (ella aveva fatto molte petizioni fin dal tempo della Rivoluzione per ottenere il permesso di emigrare, l’aveva finalmente ottenuto, ma la partenza della sua nave fu ritardata più di una volta). Celicev aveva talento ed era bello e gli fu facile capire l’importanza di quella combinazione ambience di Dja-

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gilev. Io non fui molto attratto dallo «stile russo» dalla sua prima ma­ niera, ma le sue scene per il balletto Ode di Nabokov mi convinsero del­ le sue capacità. Piu tardi fece della mia Balustrade uno dei miei balletti più soddisfacenti dal punto di vista visivo. Di Marc Chagall ne avevo sentito parlare durante il periodo Djagilev da Larionov, che apparteneva alla cerchia dei pittori russi di Chagall, ma l’incontrai la prima volta a New York. Mia moglie, Vera de Bosset, si era accordata con lui per una mostra dei suoi disegni e schizzi per Aleko nel­ la sua galleria di Hollywood, La boutique. A seguito di ciò, gli facemmo una breve visita nel suo appartamento sul Riverside Drive. Era in lutto per la morte di sua moglie e ogni parola che disse fu un continuo riferirsi a lei. (Mi ricordo adesso che c’era presente il fotografo Lipnickij il qua­ le riprese parecchie fotografie di noi insieme, ma non le ho mai viste). Due o tre anni dopo fu chiesto a Chagall di fare le scenografie ed i co­ stumi per Renard. Mi rincresce molto che egli abbia rifiutato (dicendo, così mi fu riferito, che lui voleva fare soltanto «un lavoro importante di Stravinsky»). Spero tuttora che un giorno voglia fare Renard e Les noces; nessuno potrebbe essere adatto più di lui. L'uccello di fuoco di Cha­ gall fu uno sfoggio fiammeggiante, sebbene forse più riuscito nella pit­ tura delle scene che non nei costumi. Mi fece un ritratto a inchiostro e me lo regalò come ricordo della nostra collaborazione. C’erano altri pittori; Marie Laurencin ad esempio (anche se a me non piaceva la sua pittura couleur de rose; mi piace il rose, certo, ma non fino al punto di esserne emmerdé; ebbi gli stessi guai con il suo gris, dopo che Cocteau le disse: — Marie, tu as inventé les nuances de gris); Constantin Brancusi; Braque (che diede validi consigli a mio figlio Theodore che fa il pittore); André Bauchant (un uomo gentile; l’idea di fargli fare l’allestimento scenico per il mio Apollo fu tuttavia di Djagilev, e la sua scenografia per quel balletto fu molto lontana da quan­ to avevo in mente); Christian Bérard; e Georges Rouault (con il quale mia moglie, Vera de Bosset, lavorò ai disegni del balletto Fils prodigue). r. c. : Deve aver visto spesso José Maria Sert durante il periodo Dja­ gilev, suppongo. i. s.: Sì, ma era sua moglie Misia ad essermi molto più amica e, a dire il vero, non potevo fare a meno di trovare Sert leggermente ridico­ lo. I Sert furono tra i primi che incontrai a Parigi quando vi giunsi nel 1910 (benché non fossero ancora legalmente «i Sert»). Lui conosceva una quantità di «gente interessante», specialmente «gente interessan­ te ricca», ed era molto bravo a ottenere da loro delle commissioni. Cre­ do che fosse diventato un «pittore del Balletto russo» specialmente perché conosceva Fiirstner, l’editore di Richard Strauss. Djagilev vo­

La mia vita, la mia epoca, le altre arti

73

leva che Strauss gli componesse un balletto, e l’unico modo per arrivare fino a lui era tramite Fiirstner. Sert divenne l’ambasciatore del proget­ to e di conseguenza l’autore delle scenografie. Il balletto era, come sa, La leggenda di Giuseppe. Le scene di Sert furono sovrabbondanti e il ri­ sultato non fu uno dei più grandi successi di Djagilev. Sert avrebbe potuto figurare con più incisività nella storia della pit­ tura come soggetto. Uomo grosso dalla barba nera, distintamente dé­ modé ; sarebbe stato un eccellente soggetto per un ritratto di Manet. Il suo comportamento era grandioso e giocava a fare lo spagnolo, però ave­ va una capacità d’ironia che in qualche modo lo redimeva da queste af­ fettazioni. Ricordo che una volta gli chiesi come pensava di poter rimuo­ vere una delle sue enormi pitture murali, e lui mi rispose: «Si aziona una piccola valvola e tutto si sgonfia sino a una centesima parte della sua mi­ sura». Andammo negli Stati Uniti a bordo dello stesso Normandie, negli anni trenta, e l’ultima volta che lo vidi fu negli Stati Uniti. Povero Sert, voleva essere un pittore ma la sua pittura, ahimè, è quelconque. R. c.: Non ha idea dove possa trovarsi il fondale che Picasso fece per Pulcinella? I. s. : Si trovava nella cupola dell’Opéra di Parigi l’ultima volta che ne sentii parlare, e completamente scolorito ad eccezione della luna, il cui giallo era stato in parte rinnovato per opera di un gatto. Suppongo che Djagilev fosse in debito con il direttore dell’Opéra e quando la nostra compagnia si ritirò dopo le rappresentazioni di Pulcinella, il Picasso vi fu trattenuto. Ricordo vagamente di aver incontrato Picasso con Vollard dal mio amico principe Argutinskij verso il 1910, ma non lo conobbi veramente che nel 1917, quando si fu insieme a Roma. Mi piacque subito il suo modo di parlare piatto e senza entusiasmo, e la sua maniera tipicamente spagnola di accentuare ogni sillaba: - He ne suis pas musicien, he comprends riens dans la musique —, tutto questo detto come se non gliene importasse nulla. Si era al tempo della Rivoluzione russa e non si po­ teva più far precedere ai programmi del nostro balletto l’inno impe­ riale. Orchestrai il Canto dei battellieri del Volga per sostituirlo e sul frontespizio del mio manoscritto Picasso dipinse un bel cerchio rosso come simbolo della Rivoluzione. Nello stesso periodo Picasso mi fece un ritratto (il primo; quello con me in poltrona fu fatto invece nel suo appartamento di Rue de la Boètie, e il terzo fu concepito come mutuo regalo mio e di Picasso alla nostra amica Eugenia Erràzuriz). Si era all’Hotel de Russie, vicino a Piazza del Popolo, dove alloggiavano pure molti danzatori del balletto, compresa Olga, la futura moglie di Picasso (Olga, che ne aveva mutato la vita so-

74

Conversazioni con Igor' Stravinsky

ciale; ella aveva molti abiti nuovi di Chanel da sfoggiare, oltre Pi­ casso, e improvvisamente il grande pittore lo si trovava a tutti i ricevi­ menti, a teatro, e ai vari pranzi mondani). Picasso fu sempre molto generoso nel far dono della sua arte. Posseggo una dozzina di suoi lavo­ ri, tra quadri e disegni, da lui regalatimi in varie occasioni, compresi alcuni splendidi disegni a inchiostro di cavalli fatti su buste e un deli­ zioso disegno fallico in forma circolare per una copertina del mio Rag­ time. Si fece insieme delle gite a Napoli (il ritratto che Picasso fece di Mjasin fu disegnato in treno) e là passammo alcune settimane in stretta compagnia. Entrambi fummo molto colpiti dalla Commedia dell’Arte, che vedemmo in un’affollatissima saletta che puzzava d’aglio. Pulcinel­ la era uno zotico ubriacone i cui gesti, e probabilmente anche ogni sua parola se mi fosse riuscito di capirla, erano osceni. Il solo altro episodio che ricordi della nostra vacanza napoletana fu il nostro arresto una sera mentre stavamo orinando contro una parete della Galleria. Chiesi al po­ liziotto di portarci sino al poco distante Teatro San Carlo, per trovare qualcuno che si facesse garante per noi. Il poliziotto acconsenti alla no­ stra richiesta. Poi, mentre tutti e tre ci si dirigeva verso il retropalco, udì qualcuno darci del «maestro» e ci lasciò andare. Il Pulcinella originale di Picasso fu molto diverso dalla pura Com­ media dell’Arte che Djagilev voleva. I suoi primi disegni furono costu­ mi del periodo Offenbach con facce a basettoni al posto di maschere. Quando li mostrò, Djagilev fu molto brusco: — Oh, ce n’est pa ga du tout —, disse e prosegui a spiegare a Picasso come doveva fare. La serata si concluse con Djagilev che buttò a terra i disegni, li calpestò e se ne an­ dò sbattendo la porta. Il giorno seguente Djagilev ebbe bisogno di tutto il suo fascino per riconciliare Picasso profondamente insultato, ma Djagi­ lev riuscì a fargli, fare un Pulcinella da Commedia dell’Arte. Dovrei poi aggiungere che in un primo tempo Djagilev era ugualmente contrario alla mia musica di Pulcinella. Si aspettava una precisa orchestrazione ma­ nierata di qualche cosa di molto edulcorato.

4La musica oggi

R. c. : Che cosa intende dire quando afferma che i critici sono incom­ petenti? i. s.: Intendo dire semplicemente che essi non posseggono neppure gli strumenti per giudicare la grammatica della musica. Non vedono co­ nfò costruita una frase musicale, non sanno come si scrive musica; so­ no incompetenti sulla tecnica del linguaggio musicale con temporaneo. I critici mal informano il pubblico e ritardano la comprensione. Per colpa dei critici molte cose di valore giungono troppo tardi. Per di più, leggiamo spesso delle critiche di prime esecuzioni musicali di nuove composizioni - in cui il critico ne loda o biasima (ma solitamente ne loda) l’esecuzione. Le esecuzioni sono esecuzioni di qualche cosa; non esistono in astratto, separate dalla musica che intendono eseguire. Co­ me può sapere il critico se una composizione musicale che non conosce è eseguita bene o male? R. c.: Che cosa significa per lei il termine «genio»? i. s. : A rigore un termine « patetico»; oppure, in letteratura, un ter­ mine di propaganda usato da gente che non merita opposizione razio­ nale. Letterariamente detesto quel termine e non riesco a leggerlo in opere descrittive senza provarne fastidio. Se già non compare nel Dietionnaire des idées regues, bisognerebbe introdurvelo con le sue rea­ zioni automatiche: Michelangelo e Beethoven. r. c.: Per lei che significato ha la parola «sincerità»? i. s.: È un sine qua non che allo stesso tempo non garantisce nulla. Comunque moltissimi artisti sono sinceri e moltissima arte è cattiva il che non esclude naturalmente che certa arte insincera (sinceramente insincera) sia invece molto buona. D’altronde, la convinzione di essere sinceri non è tanto pericolosa quanto la convinzione di essere nel giusto. Tutti abbiamo la sensazione di essere nel giusto; ma avevamo la stessa sensazione anche vent’anni fa e oggi sappiamo che allora non sempre eravamo nel giusto.

7) Telefonato a Miss Bean. c) Telefonato a Mr Heinsheimer. Il viaggio è stato un incubo. Il volo era stato annullato; fui trasferi­ to su un postale dell’American Airlines che parti alle sette, si fermò dappertutto e giunse a New York alle quattro di stamattina. I pasti, co­ me al solito, avrebbero persino messo a dura prova la pazienza di un finto curato di campagna, può quindi immaginare come mi sentissi, do­ po una settimana della sua sontuosa cucina. Alla fine, naturalmente, so­ no arrivato qui in mezzo a un mucchio di stupide lettere cui rispondere: faccenda che detesto. L’unica consolazione è il piacere di scriverle que­ sta lettera di ringraziamento. Ogni momento del mio soggiorno è stato incantevole, grazie a entrambi, e attendo con impazienza il nostro pros­ simo incontro. Saluti a Vasilij, a Das krankheitliebendes Fraulein, a Popka, a Mme Sokolov, a La Baronessa des Chats, ecc. \ Sempre suo Wystan Auden PS.

Può dare l’accluso biglietto al maestro?

(Biglietto accluso): Du Syllabiste Au compositeur.

Cher Igor' Stravinsky, Memorandum per l’Atto I, Scena I, Je crois que ga sera mieux si c’est un onde inconnu du héros au lieu de son pére qui meurt, parce que comme $a, la richesse est tout à fait imprévue, et la note pastorale n’est pas interrompue par la douleur, 1 Vasilij era il nostro gatto; la «Fraulein amante-della-malattia» è la nostra governante, Evgenija Petrovna; Popka, il nostro pappagallo che, - a quell’epoca ne avevamo quaranta, tra pap­ pagalli e pappagallini - era il favorito di Evgenija Petrovna, e fra loro due esisteva un rapporto simile, in modo allarmante, a quello descritto in Félicité di Flaubert; Mme Sokolov, cara amica e vicina di casa era la moglie dell’attore; la baronessa era Catherine d’Erlanger, un’altra amica e vicina.

2i6

Ricordi e commenti

seulement par la présence sinistre du villain. En ce cas, la girl possèdera un pere, pas un onde. Etes-vous d’accord? Je tiendrai silence pour oui, Wystan Auden

PS. Non le so dire quale piacere sia per me il collaborare con lei. Avevo cosi tanto timore che lei potesse essere una prima donna. Salut au «lavorante».

7 Cornelia Street, New York 14, N.Y., 16 gennaio 1948 Caro Igor' Stravinsky,

accludo qui il primo atto. Come vedrà, mi sono preso un collabora­ tore, un mio vecchio amico, nel cui talento ho la massima fiducia1. Siamo ora a metà del secondo atto, glielo manderò appena ultimato. Ho segnato i punti in cui si può facilmente procedere a tagli del testo se vuole, ma naturalmente, non esiti a fare, lei stesso, i tagli che ritenga opportuni. Col piu caldo ricordo per Mrs Stravinsky e per tutti gli altri. Sempre suo Wystan Auden

Ero contentissimo del primo atto, ma temevo che fosse troppo lungo. Auden telegrafò:

24 gennaio 1948 MOLTE GRAZIE PER TELEGRAMMA SPEDIREMO SECONDO ATTO LU­ NEDI NON SI PREOCCUPI ECCESSIVA LUNGHEZZA SI PUÒ TAGLIARE AD

LIBITUM QUANDO CI INCONTREREMO SPERO VENGA IN MARZO PRIMA MIA PARTENZA SETTE APRILE. WYSTAN AUDEN.

1 Chester Kallman, che infatti scrisse l’ultima parte della prima scena (dopo l’aria «Since it is not by merit») e l’intera seconda scena; la prima scena del secondo atto fino alla fine del­ l’aria di Tom «Vary the song», e l’intera seconda scena; la prima scena del terzo atto (tranne che per la parte tra le quinte di Tom e di Shadow) e la scena del gioco dell’indovinare le carte. Auden, ovviamente, scrisse il resto.

Tre opere

217

7 Cornelia Street, New York 14, N.Y., 28 gennaio 1948

Caro Igor7 Stravinsky, vaici il secondo atto. Mi sembra meglio spostare la scena dell’Asta al terzo atto, cioè dopo l’intervallo. Ho apportato qualche lieve varian­ te alla nostra trama originale in modo da far sì che ogni passo della Carriera del libertino sia unico, cioè:

Bordelt Le plaisir. Baba\ Uacte gratuit. La Machine'. Il désire devenir Dieu. Come già le ho detto nel mio telegramma, non si preoccupi della lun­ ghezza. Una volta che avrà tutto il materiale sott’occhi, potrà farsi un’i­ dea e non sarà difficile procedere a tagli o a variazioni. Sempre suo Wystan Auden

Lo vidi in seguito all’Hotel Raleigh (per l’esattezza nell’« appartamen­ to Lily Pons») a Washington (D.C.), il 31 marzo del 1948. Nel frattempo aveva fatto vedere il libretto ultimato a T. S. Eliot (Eliot vi aveva riscontrato una forma infinitiva errata e un anacroni­ smo: «alluvial», credo, mentre «fluminous» sarebbe stata la parola usa; ta ai tempi di Hogarth). Passammo la giornata a lavorare insieme, e lo rividi la settimana seguente a New York, dopo l’esecuzione della Pas­ sione secondo san Giovanni, in cui Hindemith aveva suonato la parte per la viola d’amore.

7 Cornelia Street, New York 14, N.Y., 22 novembre 1948

Caro Igor' Stravinsky,

sono ritornato da Washington ieri pomeriggio e ho trovato la sua lettera. Accludo un’altra quartina che dovrebbe, credo, venir prima. È difficile con questo metro ottenere un’identità ritmica precisa', per esempio, che importa cosa è leggermente diverso da un po' improvviso, ma sono, spero, abbastanza simili. Nel caso non sia in grado di leggere

218

Ricordi e commenti

ciò che ho scritto a matita sulla partitura, ecco qui la quartina in stam­ patello: SOON DAWN WILL GLITTER OUTSIDE THE SHUTTER AND SMALL BIRDS TWITTER; BUT WHAT OF THAT? SO LONG AS WE’RE ABLE AND WINE’S ON THE TABLE WHO CARES WHAT THE TROUBLING DAY IS AT? 1

Sono molto eccitato da ciò che ho sentito dire da Robert Craft sulla musica. Molto mozartiana, mi dice. Sempre suo, Wystan Auden

Via Santa Lucia 22, Forio d’Ischia, Prov. di Napoli, 28 aprile 1949 Sta soffiando lo scirocco, il che fa si che sia un giorno buono per scri­ vere lettere. Sono arrivato dopo un noiosissimo viaggio proprio prima di Pasqua, al momento in cui la Madonna corre giù per la strada per andare incontro a suo figlio, il tutto a suon di mortaretti. La sua foto­ grafia è appesa in cucina. Spero che il secondo atto vada avanti bene. Continuo a prendermela con Santa Restituta. Affettuosità a tutti, Wystan

7 Cornelia Street, New York 14, N.Y., 24 ottobre 1949 Caro Igor',

la ringrazio molto per la sua lettera. Per distinguere bene Baba, sia nel carattere sia nell'emotività, dai due innamorati, mi sembra che il suo ritmo debba essere più irregolare e più veloce il suo tempo di parlata. Perciò scrivendo la sua parte ho dato a ogni verso di Baba un numero di accenti doppio a paragone dell'e­ quivalente verso di Anne o di Tom. Se constaterà che le ho dato troppi versi, è facile apportare dei tagli. Molte affettuosità a lei e a Vera, venga presto a est. Wystan 1 [Tosto l’alba risplenderà di là dalle persiane | e gli uccelletti cinguetteranno; ma che con­ ta? Purché si sia in salute e il vino in tavola I che importa cosa ci prepara il giorno inquieto?]

Tre opere

219

7 Cornelia Street, New York 14, N.Y., 15 novembre 1949

Caro Igor',

se non ha ancora composto il Trio del secondo atto, scena due, ecco una versione alternativa per la parte di Baba dove le rime si adattano alle altre, che forse preferirà a quanto le avevo inviato \ Non vedo l’ora di sentire Persephone lunedi2. Affettuosità a tutti e due Wystan Baba

I’m waiting, dear... Have done With talk, my love... I shall count up to ten... Who is she? One... Hussy!... If I am found Immured here, dead, I swear... Two... I’ll haunt you... Three... You know you’re bound By law, dear... Four... Before I wed Could I... Five, Six... have... Seven... then Foreseen my sorrow?... Eight, Nine... Ten... O never, never, never,... I shall be cross, love, if you keep Baba condemned to gasp and weep Forever \

Caro Igor',

7 Cornelia Street, New York 14, N.Y., 14 febbraio 1951

la ringrazio molto per la sua lettera. Mi fa piacere sapere che la scena tre del terzo atto sia quasi finita. 1 Infatti mantenni la prima versione. 2 Un concerto diretto da Robert Craft alla Carnegie Hall, in cui Auden lesse un gruppo di sue poesie. 3 [Sto aspettando, caro... Ho finito 1 di parlare, amore... conterò fino a dieci... | chi è quella? Uno... I Ufi... Se sarò trovata I immurata e morta qui, | giuro che... Due... ti perseguiterò I Tre... Lo sai che sei obbligato ì per legge, caro... Quattro... Prima I di sposarmi, avrei... Cinque, Sei... I mai... Sette... potuto prevedere | la sventura... Otto, Nove... | Dieci... | Mai, mai, mai,... | Mi arrab­ bierò, amore, se costringerai I la Baba a piangere e a sospirare I per sempre].

220

Ricordi e commenti

Mr Kallman e io siamo un po’ preoccupati circa la direzione ’. Come può immaginare, noi - come librettisti - siamo interessati al buon an­ damento della messa in scena quanto lei lo è per i cantanti. Se fosse possibile, Kallman e io, vorremmo assistere quali consulen­ ti all’inizio delle prove. Spero faccia un buon soggiorno a Cuba. Affettuosità a tutti, Wystan

Via Santa Lucia 14, Forio d’Ischia, Prov. di Napoli, 9 giugno 1951 Caro Igor', la ringrazio per la sua lettera dello scorso aprile. Sembra che qui ci sia una confusione terribile e spero non si debba avere una rappresen­ tazione raffazzonata con scelta di cantanti e scenografi all’ultimo mo­ mento. Mr Kallman, che ha corretto le bozze del libretto a New York, mi scrive che nella scena uno del secondo atto (p. 85), prima del n. 48, l’indicazione scenica precisa ora che il manifesto di Baba sia visibile al pubblico: di faccia, cioè. È ciò che intende, perché sembrano esserci due obiezioni fondamentali: 1) È fisicamente impossibile mostrare il manifesto in modo tale che sia visibile a tutta la sala. Chi, fra il pubblico, non potrà vederlo si irriterà. 2) Ancora più importante, la rivelazione che Baba ha la barba, a questo punto rovinerebbe l’effetto drammatico del finale della scena due del secondo atto. So che dev’essere spaventosamente occupato, quindi non si disturbi a rispondere a questa mia, a meno che si trovi in violento disaccordo. In attesa di vederla in Italia, Affettuosità a tutti, Wystan Firenze, ottobre 1958 - Kyoto, aprile 1959. 1 Era stato deciso che il Libertino sarebbe stato rappresentato in settembre alla Fenice di Venezia.

Appendice

Prima sceneggiatura per La carriera del libertino di Stravinsky e Auden

Luogo

ATTO I

Personaggi

Azione

Pezzi musicali

Eroe e Ragazza seduti.

Pastorale, come in Teocrito, amore, giovinezza, paesaggio campestre, ecc. (Accennare forse ad Adone?) Benedice (tra sé) la coppia e non vede l’ora che si sposino.

Duetto: tenore e soprano. Trio: tenore, sopra­ no, basso.

Lo Zio chiama in casa la Ragazza.

Recitativo con pianoforte.

SCENA I

Giardino della casa di campagna dello Zio.

Appare lo Zio nel vano dell’ingresso.

Bel pomeriggio pri­ maverile. La Ragazza e lo Zio entrano in casa, lasciando solo l’Eroe.

Appare il Maligno al cancello del giardino. Zufola. Ricompaiono lo Zio e la Ragazza.

Domestico entra con una lettera per l’Eroe.

L’Eroe passeggia per il giardino, can­ ticchiando la melodia del Duetto. La sua voce dilegua in lontananza. Pausa. Sbadiglia. L’Eroe si volta. Scambio di interrogativi e risposte enigmatiche.

II Maligno spiega come la sua carrozza sia rimasta bloccata in mezzo al sentiero. Lo Zio lo invita ad entra­ re. La Ragazza va a prendere del vi­ no. Bevono. Il Maligno propone di brindare al Futuro e dice di poterlo predire. La Ragazza gli chiede di pre­ dirle il suo. Egli lo fa alla maniera di un oracolo delfico barocco. Spinto dalla Ragazza, l’Eroe chiede con riluttanza il suo avvenire. Breve silenzio. Il Maligno zufola. (Maligno : « Leggilo » ). L’Eroe legge la lettera che gli annuneia la malattia del Padre. «Devo andare a Londra». Il Maligno offre i suoi servigi.

Recitativo con orchestra, te­ note e basso. Recitativo con pianoforte.

Aria del basso con commenti solistici.

Recitativo con orchestra, tenore.

224

Luogo

Ricordi e commenti Personaggi

Azione

Pezzi musicali

Concertato in cui l’Eroe parla del Pa­ dre, il Maligno di eredità, la Ragaz­ za e lo Zio di brutti presentimenti per l’avvenire.

Quartetto : soprano tenore basso e basso.

Sipario. INTERLUDIO ORCHESTRALE? ATTO I

SCENA 2

Un Bordello. Tavolo con due sedie. Nel fondo un antico orologio a cucii con l’iscrizione: TEMPUS FUGIT.

Tenutaria, Puttane e Giovanotti in vena di baldoria. Entrano l’Eroe e il Maligno. Sono salu­ tati con grande de­ ferenza dalla Tenu­ taria che li accompa­ gna al tavolo.

Cantano dell’Amor di Guerra e della Guerra d’Amore.

Coro: Marche Militaire.

Il Maligno: «Ne vous dérangez pas, mes amis. Amusez-vous. Dansez». Eroe: «Voglio andare a casa. È tar­ di». Maligno: «Tardi? Mi è facile rime­ diare». (L’orologio batte l’una. L’oologio batte la mezzanotte). Ballano. Maligno all’Eroe: «Fai vedere alla Signora che conosci la lezione». Lo esamina sul Catechismo del Piacere.

Recitativo con pianoforte.

«Ora sei pronto per l’approvazione. Signore e Signori, attenzione, pre­ go». Il Maligno presenta l’Eroe come gio­ vane vergine e ricco. L’eroe canta la Serenata dell’amoro­ so convenzionale. Tutti applaudono e si fanno intor­ no all’Eroe. Tenutaria: «Va-t'en. Ce gasse est à mai». Conduce fuori len­ tamente l’Eroe, cantandogli una poesiola per bambini. Il Maligno zufola.

Giga. Duetto: tenore e basso. Commenti del contralto. Recitativo con orchestra.

Recitativo con orchestra. Aria del teno­ re. Pruits choriques. Aria del contralto.

Sipario. ATTO I

SCENA 3

Come scena 1. Not­ te d’inverno. Pleni­ lunio.

ATTO II

La ragazza esce di ca­ sa, in abito da viag­ gio.

Dice che non ricevendo lettere, teme che l’Eroe l’abbia dimenticata e an­ nuncia la sua intenzione di andarse­ ne da casa per cercarlo a Londra.

Recitativo con orchestra e aria del soprano.

L’Eroe en deshabil­ lé prende la prima colazione.

L’Eroe parla dei suoi debiti, della noia per la vita da scapolo che sta conducendo e si chiede che cosa farà in futuro. Sbadiglia.

Recitativo con orchestra e aria del tenore.

SCENA I

Sala da pranzo dell’Eroe.

Appendice

225

Luogo

Personaggi

Azione

Pezzi musicali

Mattina.

Entra il Maligno zu­ folando.

Maligno: «Ho un regalo per te». Tira fuori una miniatura. Eroe: « Chi è questa Medusa? » Maligno: «La tua futura moglie». Eroe: «Preferirei sposare un porco­ spino». Maligno: «Cambierai idea quando ti dirò chi è». Elenca le sue pro­ prietà. Eroe: «Fammi vedere ancora. No, non credo proprio di potere ». Maligno: «Non sai nulla del Matri­ monio, lascia che ti spieghi, mentre ti vesti». Gli fa lezione su come si sceglie una moglie. L’eroe si eccita sempre di più e si lascia convincere.

Recitativo con pianoforte.

Recitativo con orchestra. Recitativo con pianoforte.

Aria del basso che si tramuta in duetto tra tenore e basso.

Quando ha finito di vestirsi, il Ma­ ligno esclama: «All’altare di Ime­ ne». Escono con bravura. Sipario. ATTO II

SCENA 2

Strada, davanti alla porta di casa dell’Eroe.

Entra la Ragazza. Domestico alla por­ ta.

Crepuscolo.

Sfilata di fornitori.

Arrivano l’Eroe e la Brutta Duchessa in portantina. Servi con torce. Ragazza, Eroe, Brut­ ta Duchessa.

Esprime i suoi timori per la temera­ rietà dimostrata nel trovarsi sola in città. Bussa alla porta. Il Domestico le dice che l’Eroe non è in casa ma che dovrebbe tornare presto. Viene verso la ribalta, in un angolo. Sfilano dei fornitori con pacchi. Pie­ na di timore si chiede che cosa signi­ fichi tutto ciò ed esprime il suo amo­ re. Arrivano l’Eroe e la Brutta Duches­ sa. Con un grido la Ragazza si precipita in avanti, affronta l’Eroe e comincia il combattimento. Ragazza: «Fedifrago, cosi mantieni le tue promesse? »

Eroe: «Lascia che ti spieghi. Che co­ sa debbo dire?» Brutta Duchessa: «Chi è questa Ti­ zia? »

Sipario.

Recitativo di soprano con orchestra. Re­ citativo di so­ prano con pia­ noforte. Aria del sopra­ no. Marche comique.

Trio: soprano, mezzosoprano e tenore.

Ricordi e commenti

226 Luogo

ATTO II

Pezzi musicali

Personaggi

Azione

Eroe e Brutta Du­ chessa durante la pri­ ma colazione.

La Moglie ciarla del piu e del meno; Aria del mez­ l’Eroe le risponde con grugniti di­ zosoprano con stratti. La Moglie si lamenta che lui monosillabi del non l’ascolta e non si cura di lei, tenore. e scoppia in una crisi isterica. L’Eroe si alza e le mette il copriteie­ ra sulla testa. Improvviso silenzio. Ritorna alla sua sedia. Sbadiglia. Entra il Maligno. Fa rotolare un con­ Recitativo con gegno fantastico, che tramuta l’acqua pianoforte. di mare in oro. Eroe: « Che diavolo è quell’arnese? » Maligno: «La tua fortuna. Guar­ Recitativo co­ da». Il Maligno versa dell’acqua nel mico con or­ congegno e gira una manovella, spie­ chestra. gandone il procedimento. Ne esce una pepita d’oro. La porge all’Eroe. « Ecco fatto ». Comincia a insinuargli che cosa si Duetto: tenore può fare con la ricchezza assoluta. e basso. L’Eroe si lascia convincere. Maligno: «Bene, vuoi entrare in af­ Pianoforte re­ fari con me? » citativo. Eroe: «Si». Si stringono la mano. Maligno: «Lo dirai a tua moglie?» Eroe: «Non è necessario» (indican­ dola). «L’ho sepolta». Escono con il congegno.

SCENA 3

Entra il Maligno. Zufolando.

Sipario. INTERLUDIO ORCHESTRALE

ATTO II

SCENA 4

(Come nella scena precedente, tranne che i mobili, ecc., so­ no accatastati come per un’asta e sono coperti di ragnatele.

Coro di cittadini ri­ spettabili giunti per l’asta. La Ragazza.

La Brutta Duchessa non s’è mossa). Pomeriggio.

Banditore e assisten­ ti.

Il Coro canta sentenze morali, men­ tre esamina i vari oggetti.

Coro.

Entra la Ragazza che corre da un gruppo all’altro chiedendo notizie dell’Eroe. Essi rispondono; «È spa­ rito, si è rovinato in una speculazio­ ne, ecc. » Entra il Banditore, monta su una predella, comincia a mettere in ven­ dita lotti di oggetti fantastici. Voci del Coro che offre il suo prezzo. Lotto I Lotto II

Mezzosoprano e coro en chucbotant.

Aria di tenore.

Offerte del co­ ro.

Appendice Personaggi

Luogo

Eroe e Maligno fra le quinte.

227

Azione

Pezzi musicali

Il lotto III è la Brutta Duchessa stessa, indicata come Chose inconnue. Il Banditore le toglie il copri­ teiera dalla testa. Ella riconosce la Ragazza e sbotta in una tirata, accu­ sandola di tutto perché l’Eroe amava soltanto lei. Si sentono, fuori scena, l’Eroe e il Maligno, mentre cantano un grido di strada: Vecchie mogli da vendere. La Brutta Duchessa (alla Ragazza): «Vai da lui se lo vuoi, io non lo vo­ glio». La Ragazza corre fuori. Coro: Quelle histoire.

Aria del mez­ zosoprano che porta a duetto di mezzosopra­ no e soprano. Tenore e basso all’unisono.

Tutti.

Sipario. PRELUDIO ORCHESTRALE

ATTO III

SCENA I

Un Cimitero.

Eroe e Maligno che giocano a dadi su una tomba.

Notte senza stelle.

La Ragazza (fuori scena).

Eroe: «Jem’ennuie». Maligno: «Qu’est-ce que vous désirez maintenant? Le plaisir? » Eroe: «New». Maligno : « La gioire? » Eroe: «No»». Maligno: «La puissance? » Eroe: «Non». Maligno : « Quoi done? » Eroe: «Le passe». L’Eroe canta l’innocenza perduta e l’amore. Maligno: « Joue, alors». Giocano. L’Eroe perde. Maligno: «Mon vieux, c’est fini». Zufola. Si ode la voce della Ragazza in lontananza, canta il suo amore im­ perituro per l’Eroe. Eroe (con grande eccitazione): «Non. Il reste encore une chose. Le futur. Joue». Maligno: «Je refuse». Eroe: «Vous ne pouvez pas. Je le commande. Joue». Un orologio batte la mezzanotte. Maligno : « C’est trop tard ». Eroe: «J’arréte le temps. Ecoute». L’orologio del campanile interrompe il tocco a metà.

Recitativo con orchestra.

Aria del teno­ re.

Aria del sopra­ no (fuori sce­ na).

Ricordi e commenti

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Personaggi

Luogo

Azione

Pezzi musicali

Il Maligno canta con disperazione e sfida del futuro di un amore che non potrà mai avere. Eroe: «Assez. Joue».

Aria del basso.

Giocano. Il Maligno perde. Eroe: «Eh bien. Siffle!». Silenzio. « Siffle!! » Silenzio. «SiffleH!» Il Maligno sprofonda nella tomba. L’orologio finisce di battere i suoi rintocchi. Eroe: «Batti pure i tuoi colpi. Le temps ne m’effraye plus. Pour l’amour il rìy a pas de passe ou de futur, il rìy a que le present. Amant et aimé, je suis VAdonis, le toujours jeune».

Recitativo con orchestra.

Arioso del bas­ so [n?/]

Sipario. ATTO III

Bedlam *.

SCENA 2

Eroe: «Levez-vous, mes amis, couronnez-vous de fleurs. Vénus, reine de Vamour me visiterà ». Coro: «Elle ne viendra jamais ». Eroe: «Elle rrìa fait sa promesse». Coro: «Elle ne la tiendra pas». Eroe e Coro di paz­ Ballano, facendosi beffe di lui. L’Eroe si copre il volto con le mani. zi. Entrano il Guardia­ Guardiano (al Coro): «Allez-vous en». (Coro si ritira). (Alla Ragazza): no e la Ragazza. «Le voilà. N'ayez pas peur. Il rìest pas dangereux. Seulement, il s’imagine VAdonis. Entrez dans son jeu et il sera satisfait». La Ragazza: s’approche du Héros et Esce il Guardiano. l’appelle par son nom. Il lève sa tète. Eroe: «Mia Venere, finalmente, tu es arrivée. Je Pai attendue si longtemps. Ces types là m’ont dit que tu m’as oublié. fronte à ton tròne ». (La conduce alla sua sedia e s’inginocchia ai suoi piedi).

Eroe. Coro.

Manicomio di Londra

A solo del te­ nore e coro.

Danse choquante. Recitativo con pianoforte.

Recitativo con orchestra, te­ nore.

Appendice

Luogo

Personaggi

Entra il Guardiano con lo Zio.

Escono Guardiano, Zio e Ragazza.

Rientra il Coro.

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Azione

Pezzi musicali

«0 Vénus, ma vraie déesse, pardonne-moi mes péchés. J'ai dedaigné ton amour en chassant les ombres stupides. Mais maintenant le sanglier est mort et tout est change. Je sais que je faime cornine tu m’aimes. Pardonne-moi, je f implore ». La Ragazza: «Si tu m'aimes il n’y a rien à pardonner». Tutti e due: «L*amour change - chaque enjer particulier a VElysée mutuelle». Eroe: «Laisse-moi piacer ma téte à tes genoux. Je suis fatigue et je veux dormir. Chante, Vénus, chante à ton enfant». La Ragazza canta una ninnananna. L’Eroe si addormenta. Zio (alla Ra­ gazza, tout simplement): «La storia è finita. Sono venuto per portarti a casa». Ragazza (all’Eroe, aussi très simplementf. « Adieu. Dors tranquillement». Les Héros s’éveille brusquement.

Aria del teno­ re, poi duetto: tenore e sopra­ no.

Eroe: «Où es-tu, Vénus? Où es-tu? Les oiseaux chantent, les fleurs s’ouvrent. C'est le printemps. Viens. Vi­ te. Je veux coucher avec toi ». «Holà, Achille, Hélène, Orphée, Platon, Eurydice, Perséphone. Où est ma Vénus? Vous l’avez volée pendant que je dortnais. Où Vavez vous cachée? » Coro: «Il n’y avait personne ici». Eroe: «Mon cceur se brise. La mort approche. Pleurez, mes amis, pleurez pour moi, I’Adonis le toujours jeune, 1‘Adonis que Vénus a aimé». Coro: «Hous pleurons pour Adonis, le jeune, le beau, que Vénus a aimé».

Recitativo con orchestra.

Eroe, Ragazza, Maligno, Moglie e Zio cantano la morale della favola,

Quintetto.

Recitativo con orchestra. Aria del sopra­ no. Recitativo con pianoforte.

Coro fugato.

Sipario. Epilogo.

Davanti al Sipario.

IL DEMONIO TROVA IMPIEGO PER GLI OZIOSI.

FINE

Esposizioni e sviluppi

A Vera

r. c.: Che cosa ricorda della sua infanzia: i domestici, i primi amici, le impressioni riguardanti i suoi parenti, le prime esperienze a scuola, la prima musica ascoltata e rimastale impressa? Ho notato che lei dor­ me sempre con una luce accesa; ricorda l’origine di questa sua necessità? I. s.: La notte posso dormire soltanto se un raggio di luce penetra nella camera da uno spogliatoio o da una stanza attigua. Ignoro l’origi­ ne di questa necessità, anche se essa risale alla mia prima infanzia, e non posso neppure ricordare la provenienza della luce originale. (In ogni modo non ricordo alcuna luce accesa di notte nel corridoio su cui si af­ facciava la camera che dividevo con mio fratello più piccolo, e sono si­ curo che non era quella del tradizionale lumino ad olio acceso davanti all’unica icona di casa nostra, che si trovava nella camera di mia madre. La luce che cerco ancora di ricordare doveva provenire o dalla stufa di porcellana che era in un angolo della camera - e che sviluppava calore verso l’ora di andare a letto - o dal lampione fuori della mia finestra sul Canale Krukov; e dal momento che le prese d’aria della stufa assume­ vano a volte l’aspetto di facce minacciose, credo che la luce della strada debba essere stata quella che mi tranquillizzava). Qualunque cosa essa fosse, e chiunque fosse lo spauracchio acquattato, questo cordone om­ belicale di luce mi permette ancora, a settantotto anni, di rientrare nel mondo sicuro e racchiuso che avevo conosciuto all’età di sette o otto anni. Ma il mondo di un bambino di quell’età, per lo meno nei contorni, ridiventa «sicuro» al mattino. Il mio mondo cominciava regolarmente alle sette. I corsi al Secondo ginnasio di Pietroburgo non cominciavano che due ore dopo, ma il ginnasio si trovava a un bel tratto di strada da casa. Ero sempre svegliato dalla mia balia Bertha, la persona «più sicu­ ra» del mio mondo, e la sua voce era la più affettuosa che avessi mai udito nella mia infanzia. Spesso, ma non ogni giorno, la sveglia di Ber­ tha si confondeva col fracasso prodotto dal torrenziale scroscio dell’ac­ qua per il mio bagno nell’antica vasca zincata (due gradini più su del

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Esposizioni e sviluppi

pavimento) in fondo al corridoio. Gli odori della cucina raggiungevano questa stanza da bagno e anch’essi mi rivelavano la presenza di un’altra «sicurezza», Caroline, la nostra cuoca finlandese, che fu un’istituzione di famiglia per trent’anni. La colazione era servita dalle domestiche, o da Semen Ivanovic. Non ricordo le domestiche, per la semplice ragione che cambiavano spesso; più crescevo, più mia madre si accertava che fossero più vecchie di me. Semen Ivanovic era un uomo piccolo con un accuratissimo paio di baffi stile militare; era stato in un certo periodo attendente di mio zio Vanja. Lo si notava principalmente per la sua testa calva che ricordava quella di un toro. La sua stanza era un minuscolo abitacolo ricavato sotto la scalinata principale; o, meglio, egli condivideva questo angolino con le pile di libri di mio padre. Ero molto affezionato a Semen Ivanovic che, in cambio, penso mi sostenesse nella maggior parte dei problemi riguardanti l’obbedienza alla mia famiglia. Mi evitò probabilmente in più di una occasione di cadere in disgrazia presso la mia famiglia, ma ricordo distintamente sol­ tanto uno dei suoi salvataggi, quello in occasione della mia prima intos­ sicazione alcoolica. Ero andato a un ricevimento insieme con mio fra­ tello maggiore e alcuni suoi compagni del corso di ingegneria. Avevamo tutti fra i sedici e i diciassette anni e tutti decidemmo di dare prova della nostra maturità (tutti eccetto mio fratello che era tornato a casa prima). A un certo momento un compagno di libagione mi chiese di che sesso fossi, e fu allora che mi accorsi che eravamo tutti ubriachi. Conti­ nuavo a dire: — Non posso andare a casa... Se i miei genitori mi vedes­ sero... - e infatti, passai parte della notte nella stanza di un raccoglitore di dati statistici Kinsey, proprio quella dove (con l’aiuto di mio fratello) mi trovò Semen Ivanovic che in qualche modo riuscì a riportarmi nella mia camera senza che fossi scoperto. Semen Ivanovic visse in casa nostra trent’anni e morì poco prima della rivoluzione, vecchissimo. Un’altra isola di «sicurezza» s’ergeva tra lui e la scuola. Era Zachar, il portiere, un amabile vecchio signore con un’assurda uniforme da mazziere svizzero. Mi sembrava che anche lui fosse stato là da sempre. La scuola era naturalmente molto meno «sicura», benché perfino a scuola ci fossero persone cui ci si poteva affezionare. Al Secondo ginna­ sio mi piacevano particolarmente due ragazzi che, sebbene non fossero parenti, si chiamavano entrambi Smirnov: per distinguerli li chiamava­ mo semplicemente « Smirnov uno» e « Smirnov due». Comunque la persona «più sicura», a scuola, era il prete che pronunciava le noiose preghiere con le quali avevano inizio le lezioni e che teneva un corso di

Esposizioni e sviluppi

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catechismo e di storia della Bibbia chiamato «La Legge di Dio». Que­ sto padre Rozdestvenskij era molto popolare tra i ragazzi, essi però lo tormentavano in modo crudele, e la sua lezione era un caos di disat­ tenzione. (Non so proprio come facesse ad insegnarci qualcosa: «La Legge di Dio» poi!) Non credo di aver dimostrato maggior interesse degli altri ragazzi, e padre Rozdestvenskij deve aver capito che non sa­ pevo un bel niente, ma ciononostante ero uno dei prediletti della sua classe. Lo studio della Bibbia nelle scuole zariste riguardava tanto il lin­ guaggio quanto la religione, dal momento che la nostra Bibbia più che russa era slava. Il suono e lo studio dello slavo mi piacevano e mi dette­ ro forza durante quelle lezioni. (Facendo ora delle considerazioni retro­ spettive, mi sembra che io abbia impiegato la maggior parte dei periodi scolastici in studi linguistici, dagli undici ai diciotto anni col latino e col greco, e fin dai primissimi giorni passati al ginnasio col francese, il te­ desco, il russo e lo slavo, che somiglia al bulgaro moderno. I miei amici mi accusano talvolta di sembrare un etimologista, data la mia abitudine ai confronti linguistici, ma io li prego di essere indulgenti con me, ri­ cordando loro che i problemi linguistici mi hanno ossessionato per tutta la vita - dopo tutto ho perfino composto una cantata intitolata Babel' e che perfino adesso, mezzo secolo dopo aver lasciato il mondo di lingua russa, continuo a pensare in russo e a parlare in altre lingue traducendo). Comunque, malgrado la «sicurezza» che mi veniva da padre Rozdest­ venskij e da pochi compagni, aborrivo il ginnasio e non vedevo Fora di liberarmi per sempre da quella come da qualsiasi altra scuola. Simile ad altri simboli di brutture, il cibo scolastico era immangia­ bile; si organizzavano scioperi studenteschi in segno di protesta, ma senza risultato. Perciò io avevo sempre fame, specialmente perché a ca­ sa nostra non si serviva il tè nel tardo pomeriggio, ma soltanto dopo cena; infatti Semen Ivanovic non portava il samovar e il vassoio con pane e marmellata prima dell’ora di andare a letto. E la nostra routine familiare era interrotta solo quando mio padre cantava al Mariinskij. Nei giorni di rappresentazione la casa intera tremava, perché mio padre diventava teso e irritabile quando si innervosiva, e le rappresentazioni lo innervosivano sempre. (Io sono tale e quale adesso, i giorni dei con­ certi, e quantunque la acredine — dovuta a un bottone di camicia non particolarmente disponibile o a un colletto recalcitrante - sia natural­ mente sempre giustificata, ciò è anche, senza dubbio, un esempio di vero e proprio «comportamentismo»). Nei giorni in cui cantava a teatro mio padre pranzava da solo, sebbene, eccezionalmente, noi tutti pranzassimo talvolta insieme dopo lo spettacolo. Ricordo che me ne stavo seduto

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Esposizioni e sviluppi

accanto alla stufa in camera mia in queste occasioni eccezionali e aspet­ tavo, con una gran fame, il ritorno della sua carrozza. Dopo questi pran­ zi tardivi, mamma o Bertha venivano a trovarci a letto e a sentire le no­ stre preghiere: «Padre Nostro che sei nei Cieli» («Otce nas ize esi na nebesi...» Questo è slavo, perché non lo ricordo in russo). Si, ora ricor­ do, le tende erano sempre aperte per far entrare la luce dal lampione di strada lungo il canale. Anche gli zii, di solito, sono «sicuri», sebbene abbia provato la mia prima delusione nelle braccia di uno di essi; ma per l’esattezza, questo «zio» non era un vero e proprio zio, il che forse spiega tutto. Questi «zii» erano cugini di mia madre, uno artista e due generali. L’artista, djadja (zio) Misa, aveva un carattere mefistofelico, o almeno lo sup­ pongo; in ogni caso sono certo che era troppo scaltro perché fosse «si­ curo». La scuola «Peredviznild» dello zio Misa, una scuola di realisti, si opponeva violentemente al movimento di Djagilev, e in seguito fui messo in difficoltà dalla contraddittorietà dei punti di vista di questa scuola con quelli del mio amico Djagilev, specialmente perché le pareti del nostro appartamento erano tappezzate con quadri dello zio Misa che rappresentavano campi di frumento ucraini, mucche in riva al fiume, ecc. I due generali erano lo zio Vanja, generale di divisione, e lo zio Kolja, che era comandante a Kronstadt, ben noto come inventore di un nuovo tipo di fucile. La delusione ebbe luogo mentre facevo una passeggiatina fra le brac­ cia poco materne di djadja Vanja, quand’egli mi promise che sarebbe apparso un uccellino e nessun uccellino apparve. (Questa veneranda tat­ tica da fotografo è un male grave e penso che dovrebbe essere scorag­ giata perché, sebbene la nostra caduta non sia paragonabile a quella dall’Eden, ciononostante mentre avviene scorgiamo la nostra nudità e co­ minciamo a dubitare dell’assolutezza della nostra «sicurezza»). Comun­ que ciò che più mi è rimasto impresso di quella prima seduta fotografica è l’odore delle spalline di djadja Vanja ed il sapore freddo e metallico dei galloni della sua uniforme, che io succhiavo come caramelle. Il dottor Dusinkin, nostro medico di famiglia, era per me un’altra fonte di «sicurezza». Uomo anziano, generale medico responsabile di un ospedale militare, il dottor Dusinkin veniva regolarmente a casa no­ stra una volta la settimana. Mi sembra di ricordarlo soltanto in unifor­ me e soltanto d’inverno, mentre veniva dalla strada con la barba lucci­ cante di neve. Il dottor Dusinkin mi faceva tirar fuori la lingua, sotto­ porre il petto al suo stetoscopio gelato, raccontargli delle mie fun­ zioni corporali mattutine e ingoiare una pilloletta nera se dicevo di non aver avuto alcun movimento intestinale. Mi ricordo pure del nostro

Esposizioni e sviluppi

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dentista di famiglia, quantunque i dentisti non siano mai «sicuri», na­ turalmente, e costui, tanto per cominciare, era tedesco. Non ricordo il suo nome ma sono sicuro che potrei ancora ritrovare il suo studio vicino alla cattedrale Isakievskij. La «sicurezza» degli amici è eterogenea e probabilmente solo colo­ ro che sono abbastanza vecchi da essere fuori della mischia possono averne i requisiti. Uno dei miei più cari vecchi amici era Vladimir Vasil'evic Stasov, l’allievo di Glinka — aveva suonato con lui a quattro mani ed era perciò una specie di vacca sacra - nonché sostenitore e so­ dale del gruppo russo dei «Cinque». Stasov era di proporzioni gigan­ tesche, con una lunga barba bianca (quand’era pulita) alla «Crono», un minuscolo tocco in capo e un soprabito scuro e sudicio. Anche il suo ge­ stire era vistoso e imponente, per di più urlava sempre. Quando aveva da dire qualcosa di confidenziale, ti posava la sua enorme mano a mo’ di coppa sull’orecchio e vi urlava dentro; noi lo si chiamava «un segre­ to alla Stasov ». Stasov aveva l’abitudine di parlare soltanto di quel che c’è di buono in ogni cosa e di lasciare il male ai fatti suoi. Perciò noi eravamo abituati a dire che « Stasov non parlerebbe male neppure del tempo». Talvolta la sua energia e il suo entusiasmo mi facevano pensa­ re ad un cane ansimante che vorresti coccolare ma che temi ti faccia stramazzare in risposta. Stasov poi aveva conosciuto Tolstoj intimamen­ te, e aveva da raccontarci molti deliziosi aneddoti su di lui. Ci raccontò per esempio che una volta, mentre Tolstoj stava parlando a un gruppo di persone sulla non violenza e sulla non resistenza, qualcuno gli aveva chiesto cosa si deve fare se una tigre ti aggredisce in una foresta. La ri­ sposta di Tolstoj fu: - Fa’ del tuo meglio; succede così di rado. Comunque ricordo meglio Stasov da morto, e non riesco a pensare al suo appartamento senza immaginarmici una bara con Stasov dentro. Quello che però più mi colpì fu il fatto che Stasov sembrava così inna­ turale nella bara, perché aveva le braccia incrociate; era stato invece l’uomo dalle braccia più aperte che potesse esistere. Anche la stanza sem­ brava angusta in modo grottesco per un uomo tanto enorme, benché ciò fosse in parte dovuto alla giornata piovosa; vi eravamo accalcati con l’in­ gombro di soprabiti e di ombrelli. Ricordo che quando la bara fu fatta passare attraverso la porta il direttore d’orchestra Nàpravnik mi si ri­ volse dicendo: «Stanno portando via un pezzo di storia». I ricordi stessi, naturalmente, rappresentano delle «sicurezze»; mol­ to più sicuri degli «originali» e vieppiù facendosi tali nel tempo. Per di più, i ricordi cattivi si possono di solito scacciare quando ricompaiono, mentre quelli buoni si possono nuovamente rovistare nei reliquari pre­ feriti. Le più persistenti immagini della memoria mi tornano in mente IO

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Esposizioni e sviluppi

senza un ordine cronologico. Recentemente, per esempio, ho spesso ri­ visto il Teatro Mariinskij con il portale d’ingresso drappeggiato a lutto al tempo della morte di Cajkovskij. Ricordo come i drappeggi ondeggiassero al vento dell’inverno e qua­ le fosse la mia commozione a quella vista, poiché Cajkovskij era stato l’eroe della mia infanzia. Ho anche spesso ricordato di recente la prima musica che abbia mai udito, una banda di marinai proveniente dalle ca­ serme vicine a casa nostra, alla confluenza del Canale Krukov con la Neva: con i suoi pifferi e tamburi faceva rizzare i capelli. Questa mu­ sica, e quella della banda al completo che accompagnava il cambio del­ le guardie a cavallo, penetrava ogni giorno nella mia nursery, e il suo suono, specialmente quello delle tube, degli ottavini e dei tamburi, co­ stituiva il piacere piu eccitante della mia prima infanzia. Mi rendo con­ to inoltre che il desiderio di imitare questa musica mi portò ai primi sforzi di composizione, poiché cercai di accennare al pianoforte gli intervalli che avevo udito — non appena fui in grado di arrampicarmi sul pianoforte — ma in quel mentre trovavo altri intervalli che mi piacevano di piu, cosa che già allora faceva di me un compositore. La memoria mi ha recentemente portato a pensare anche alle appari­ zioni dello zar Nicola II per le vie di Pietroburgo quando ero ancora un fanciullo e, di conseguenza, anche al mondo politico in cui ero nato. Lo zar, come persona, era una figura incolore, ma i suoi cavalli costi­ tuivano un gran bello spettacolo: uno in testa alla slitta imperiale, con dietro una rete blu per parare la neve, e un secondo che galoppava al fian­ co. Persino a quell’epoca, ovunque lo zar andasse, poliziotti con mantelli grigi lo scortavano ed ordinavano a tutti i passanti: «Circolare, circo­ lare». (Quando il treno privato dello zar passava vicino a una casa di campagna di mia moglie Vera, lei e la sua famiglia erano obbligate a ri­ manere sprangate in casa con gli scuri delle finestre ben chiusi; guardie armate erano appostate lungo tutto il percorso. La carrozza ferroviaria personale dello zar era dipinta di blu, però altre tre carrozze di quel tre­ no speciale erano dipinte dello stesso colore per trarre ancor piu in ingan­ no eventuali attentatori). Altri ricordi però si accalcano mentre parlo di questi: la mia prima visita al circo, il «Cirque Ciniselli», com’era chiamato, dove signore in corsetti rosa montavano a cavallo tenendosi ritte, come in Seurat o in Toulouse-Lautrec; la mia prima visita a Niznij Novgorod, città dalle cupole verdi e dalle facciate bianche, piena di tartari e di cavalli, e del­ l’odore di cuoio, di pellicce e di sterco; la prima volta che vidi il mare, a diciassette anni, il che è sorprendente perché ero nato vicino al mare e vissi accanto al mare per gran parte della mia vita. (Vidi per la prima

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volta il mare dall’alto di una collina di Hungerburg sul golfo di Finlan­ dia, e ricordo il mio stupore nel vedere come questo stretto nastro tra terra e cielo fosse - come certamente dall’alto di una collina - cosi «ver­ ticale»). Molti degli ultimi ricordi di Pietroburgo sono legati a Djagilev. Ri­ cordo spesso la prima volta che vidi il suo appartamento sulla Zamiatnyj Pereulok e ricordo quanto fossi contrariato da una cosi irragionevo­ le quantità di specchi alle pareti. Ricordo anche lui, Djagilev, mentre in­ sieme si andava a far visita ad Aleksandr Benois nel suo appartamento del Vasil'evskij Ostrov; o in barca diretti a un locale notturno dell’iso­ la - l’«Aquarium», la «Villa Rosée» - sulla Neva; e mi pare ancora di vedere Djagilev entrare al ristorante Leiner sulla Prospettiva Nevskij (fu là che Cajkovskij si prese il colera) e inchinarsi a destra e sinistra per salutare la gente come il Baron de Charlus; o mentre si pranza insieme dopo un concerto in un piccolo ristorante pieno di ghiottonerie a base di pesci marinati, caviale, ostriche del Mar Nero e i funghi più deliziosi del mondo. Ricordo pure quanto mi piaceva stare a guardare i gabbiani, spe­ cialmente quando l’acqua si alzava nei fiumi e nei canali; quando la città si specchiava nell’acqua, i pesci galleggiavano in superficie e gli uccelli volteggiavano sempre più bassi. Un bambino non si chiede perché la vista dei gabbiani possa commuoverlo cosi profondamente, ma un uomo anziano sa che essi rammentano la morte, e cosi anche allora quando lui li osservava sulla Neva un pomeriggio di novembre, all’età di sette o otto anni. Non so, com’è che un uomo diventa vecchio? o perché sono vec­ chio, se devo esserlo (ma non voglio), o se «io» sono «lui». Per tutta la vita ho pensato a me stesso come «al più giovane», ed ora, improvvi­ samente, leggo e sento parlare di me come «il più vecchio». E allora rivado con stupore a queste lontane immagini di me stesso. Mi chiedo se la memoria sia verità e so che non può esserlo, ma so che cionono­ stante si vive di ricordi e non di verità. Attraverso però lo spiraglio di luce della porta della mia camera da letto, il tempo si dissolve ed io vedo ancora le immagini del mio mondo perduto. La mamma è andata in camera sua, mio fratello dorme nell’altro letto e tutto è quieto in casa. Il lampione dalla strada riverbera la sua luce nella mia camera e in essa so d’esser io il simulacro che riconosco. r. c.: Quali altri amici oltre Stasov, «sicuri» o «non sicuri», pensa abbiano maggiormente influito sulla sua vita durante gli anni di Pietro­ burgo? 1. s.: Valentin Serov era «sicuro» quanto Stasov, ma anche lui,

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naturalmente, apparteneva a una generazione più anziana. Serov e Vrubel' erano i migliori pittori russi del momento, e un tempo possedevo un ritratto del primo ad opera di quest’ultimo, quadro che per me aveva un valore particolare, perché Serov, come Henry Green, si rifiutava di farsi fotografare. Come già ho detto altrove, Serov era la coscienza del circolo «Mir Iskusstva» l; ma quando Djagilev si riferiva a lui come «la justice elle-méme», lo diceva con rammarico, perché Djagilev voleva peccare. Conobbi Serov fin da quando ebbi i primi rapporti con Rimskij, ed egli fu una delle prime persone che credessero in me e mi incoraggias­ sero nella mia vocazione. Serov ed io abitammo una volta a Roma nello stesso albergo, ed eravamo sempre insieme. Ciò accadde durante il com­ pletamento dell’ultimo quadro di Petruska, per il quale, incidental­ mente, Serov disegnò l’orso. Quando Petruska fu rappresentato a Parigi, Serov assistette a tutte le prove e a tutte le rappresentazioni. Ricordo che un giorno venne da me dicendomi: - Igor' Fédorovic, nessuna mu­ sica mi incanta più di Petruska ma (ti prego di scusarmi) non posso ascoltarla tutti i giorni -. Serov era una sorta di uomo tranquillo che tuttavia usciva in giudizi taglienti, non facilmente contestabili. La mia vita dal 1897 al 1899 fu dominata da un uomo più vecchio di me di otto anni, Ivan Pokrovskij. Andavo ancora al ginnasio quando ci conoscemmo, e lui si era già laureato all’università; era più avanti di me tanto quanto basta perché lo considerassi un’autorità. A quel tempo la mia vita in famiglia era insopportabile (cioè, ancora più insopportabile del solito), e Pokrovskij mi appariva come un fulgido Baudelaire in antitesi all’esprit belge della mia famiglia. Cominciai presto a trascorrere tutto il tempo con lui, a scapito dei miei doveri scolastici. Smisi di ve­ derlo perché ero geloso di suo fratello, che aveva una bellissima amica di cui mi ero segretamente innamorato. Pokrovskij mi fece vergognare di tutti i vecchi idoli e amori che avevo mentre mi indusse a coltivare il gusto per tutto ciò che era francese; lui stesso era un prototipo dell’eurofilo, l’opposto del Bazarov di Turgenev. In musica, tuttavia, non era un semplice dilettante, essendo stato allievo di Ljadov, se ben ri­ cordo. Imparai a conoscere Coppèlla, Lakmé, I racconti di Hoffmann, e molta altra musica di quella specie, suonandola con Pokrovskij a quattro mani. Pokrovskij era magro e tisico, e mori molto giovane di questa ma­ lattia. Sua caratteristica predominante era la capigliatura ribelle, i suoi «cheveux ébourifiés», come dicono i francesi. 1 [Il mondo dell’arte].

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Stepan Mituzov fu l’amico più intimo che ebbi durante i miei primi anni di compositore. Anche lui era di parecchi anni più vecchio di me, ma i nostri rapporti erano più quelli di due colleghi e amici che non quelli tra maestro e discepolo. Mituzov era un dilettante delle arti in genere. L’avevo incontrato tempo addietro all’età di sedici anni poiché era amico intimo della famiglia Rimskij-Korsakov, ma la nostra amicizia cominciò soltanto l’anno successivo a quello della morte di mio padre. (Mio pa­ dre, nel suo ultimo anno di vita, era semiparalizzato, e tutta la famiglia restava a casa per la maggior parte del tempo). Mituzov diventò per me una specie di tutore letterario e teatrale in uno dei momenti più grandi del teatro russo. Andammo insieme a vedere i lavori di Cechov (con Ol'ga Knipper nel Giardino dei ciliegi. Le tre sorelle, Zio Vanja} al tem­ po in cui questi lavori ottenevano il loro primo grande successo; andam­ mo pure a vedere lavori di Ostrovskij, di Molière (in russo), di Shake­ speare (con la Komissarzevskaja nella parte di Ofelia e di Desdemona, quest’ultima data in russo, in contrapposizione a Salvini, il cui Otello era invece recitato in italiano), di Aleksej Tolstoj {Fèdor Ivanyc}; di Gor'kij (I bassifondi}, di Tolstoj (IZ potere delle tenebre}, di Fonvizin, di Griboedov {La sfortuna di essere intelligente, che rividi giorni fa a Hollywood recitato da emigrati russi, tra cui alcuni dei più bravi erano miei giardinieri). Frequentavamo pure il teatro stabile francese (Théàtre Michel), dove si dava raramente Racine ma molto spesso dei cattivi lavori moderni: Scribe, Mounet-Sully, Rostand e anche di peg­ gio. Ricordo di avervi visto Lucien Guitry. Mituzov era anche un appas­ sionato di pittura moderna, ma in Russia, l’unica pittura significativa di quel tempo era quella che faceva capo al «Mir Iskusstva» di Djagilev. (Avevo visto quadri di Cézanne e di Matisse in una mostra di opere provenienti da Mosca, vidi però pochi altri quadri moderni prima del mio primo viaggio a Parigi nel 1910, allorché acquistai subito due Pi­ casso, rimasti-, purtroppo, nella mia casa a Ustilug1). Mituzov era un compagno allegro e colto ed aveva uno speciale talento nell’inventare parole nuove, ma impubblicabili, per melodie vecchie e rispettabili. Me ne ricordo ancora alcune per Die schone NLullerin12. 1 [Nell’edizione inglese compare qui la nota seguente: «Un pittore che mi interessava mol­ to - fu forse il più dotato rappresentante della Scuola russa agli inizi di questo secolo - era il li­ tuano M. K. Curlonis. Io stesso comprai un suo bel quadro nel 1908, spintovi in parte da Benois. Rappresentava una fila di piramidi, dal tono pallido e delicato, madreperlaceo, in fuga verso un orizzonte, ma in crescendo, non nel diminuendo della prospettiva ortodossa. Il quadro fu, in effetti, parte della mia vita, e lo ricordo ancora molto chiaramente, anche se è andato perduto cinquan­ tanni fa a Ustilug. Romain Rolland era interessato al lavoro di questo artista e ricordo di avergli parlato di Curlonis in Svizzera»]. 2 [Nell’edizione inglese anche qui vi è una nota: «Un canguro è nudo ma ha una tasca»].

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r. c. : Cosa ricorda di Pietroburgo, i luoghi da visitare, i suoni, gli odori della città, i palazzi, la gente, gli avvenimenti di ogni stagione, le feste, la vita per le strade? Cosa le piaceva maggiormente di Pietrobur­ go, e fino a che punto ritiene che la città abbia influenzato la sua musica? i. s.: I rumori di Pietroburgo sono tuttora racchiusi nell’involucro della mia memoria. Mentre nel mio caso le immagini visive mi torna­ no in mente soprattutto sotto la spinta di inattesi cambiamenti e com­ binazioni, i rumori, invece, una volta registrati, paiono rimanere co­ me in uno stato di disponibilità immediata; e mentre il riscontro che do alle cose viste è soggetto all’esagerazione, ad una osservazione er­ rata e alle creazioni e distorsioni della memoria stessa (un ricordo è un intero cartello di interessi acquisiti)., le mie reminiscenze sonore sono esatte: lo dimostro, dopo tutto, ogni volta che compongo. I rumori delle strade di Pietroburgo sono rimasti particolarmente vivi nella mia mente, forse per il fatto che, dato che conducevo una vita molto casalinga, ogni rumore del mondo esterno mi pareva memo­ rabile ed attraente. I primi suoni impressi nella mia coscienza furono quelli dei drozki sulle pavimentazioni stradali a ciottoli o a cubetti di legno. Di queste carrozze a cavalli soltanto poche avevano i cerchioni delle ruote in gomma, e quelle poche costavano il doppio; la città intera cigolava dello stridio del ferro delle ruote di quelle altre. Ricordo pure il rumore dei tram a cavalli e, in modo particolare, lo stridore che face­ vano nello svoltare l’angolo vicino a casa nostra e il rumore delle fru­ state che davano ai cavalli per far loro aumentare la velocità quando dovevano attraversare il ponte del Canale Krukov. (I ponti più ripidi richiedevano talvolta l’uso di cavalli supplementari che si potevano trovare in posti di noleggio dislocati in tutta la città). I rumori delle ruote e dei cavalli, e le grida e gli schiocchi delle fruste dei cocchieri, devono aver permeato i miei primi sogni; in ogni caso costituiscono il primo ricordo che mi sia rimasto delle strade della mia infanzia. (Il fra­ casso delle automobili e dei tram elettrici, due decenni dopo, fu molto meno memorabile, e riesco a ricordare con difficoltà l’aspetto meccaniz­ zato della città allorché nel 1911 la vidi per l’ultima volta. Ricordo però il mio primo viaggio in automobile. Fu nel 1907, ed il veicolo era un taxi di fabbricazione americana. Detti all’autista una moneta d’oro da cinque rubli e gli dissi di scarrozzarmi per l’importo di quel denaro: una mez­ z’ora, come accadde). Anche le grida dei venditori ambulanti sono ben vive nella mia men­ te, specialmente quelle dei tartari (benché, in verità, più che gridare essi bofonchiassero. Chalat, eh alai, erano soliti dire, chalat che nella

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loro lingua significava una specie di vestaglia). Solo raramente parlavano russo, e il roco gracchiare della loro lingua era per noi un invito irresi­ stibile al dileggio. (I tartari, con la loro carnagione glabra, in quell’epo­ ca tanto baffuta e con quelle loro rigide costumanze maomettane - non bevevano mai alcool - furono sempre per me oggetto di mistero e di fascino). In contrasto con loro, i russi pronunciavano ad alta voce ogni sillaba fin troppo distintamente e con fastidiosa risoluzione. Traspor­ tavano le loro mercanzie su vassoi che tenevano in bilico sul capo, cosa che li costringeva a far ondeggiare le spalle e a caracollare in equilibrio perfetto; era più interessante guardarli che ascoltarli. Vendevano pure prjaniki (focaccine del tipo che i tedeschi chiamano Pfefferkuchen) e morozenogo (gelati) per le strade. «Ne pozelaete ’l'morozenogo? » («Vo­ lete gelati?») era un grido familiare da bel tempo nella nostra strada. (Anche nella mia strada a Hollywood sento un analogo grido di richia­ mo, o piuttosto, e ahimè, una specie di cantilena «musicale»; la mia ultima azione su questa terra potrebbe diventare quella della «Morte dell’uomo allegro»). Altri commestibili siffattamente rumoreggiati era­ no i mirtilli, o kljukva, il principale prodotto della tundra (ricordo an­ cora la vecchia baba contadina che li vendeva); e poi le mele, le pere, le pesche e persino le arance. (Pompeimi e banane erano sconosciuti allora a Pietroburgo e non li assaggiai se non molti anni dopo, a Parigi). Il più memorabile grido di strada era però quello dell’arrotino: Ritenuto

Tempo (presto)

To - èit' no-zi, noz-ni-cy; brit-vy pra-vit'1

I più forti rumori diurni della città erano il frastornio delle campane proveniente dalla cattedrale NikoTskij, vicina alla nostra casa e quello del segnale di mezzogiorno dalla Fortezza Pietro e Paolo — un orologio per l’intera popolazione - ma io ricordo con maggiore nostalgia il suono di una fisarmonica in una strada di periferia in un deserto pomeriggio do­ menicale, oppure quello vibrante e metallico di un’orchestra di balalaike in un ristorante o in un caffè. Un ultimo memorabile esempio, in absurdum di musique concrète, era il suono del telefono di Pietroburgo. Produceva un tintinnio persino più rude di quello che ci tocca subire oggigiorno. (Infatti suonava esatta­ mente come le battute di apertura del secondo atto del Rossignol). La [Arrotate i vostri coltelli e forbici, affilate i vostri rasoi].

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prima telefonata che abbia mai fatto fu, incidentalmente, per chiamare Rimskij-Korsakov e le famiglie Stravinsky e Rimskij-Korsakov furono tra le prime della città a installare quel flagello. Una città la si ricorda anche per i suoi odori. Nel caso di Pietroburgo, essi erano soprattutto collegati alle carrozze a cavalli. Queste odoravano gradevolmente di pece, di cuoio e di cavalli. Tuttavia, l’odore più forte proveniva di solito proprio dal cocchiere. («Que hombre », si diceva di un cocchiere particolarmente puzzolente, i cui olezzi di sudicio avevano impregnato strati di stoffa spessi quanto quelli d’una mummia e cam­ biati con la medesima frequenza). Il mio senso olfattivo era condizionato dal feltro del baslyk, o cappuccio, che ero obbligato a portare durante i mesi invernali, e il mio palato conserva un forte puzzo residuo di fel­ tro fradicio. L’odore prevalente della città ritornava comunque sol­ tanto in primavera, con il disgelo dei fiumi e dei canali, odore però che non sono in grado di descrivere. (Nel caso di qualcosa di così per­ sonale come un odore, la descrizione, che dipende da un confronto, divie­ ne impossibile). Un altro aroma che permeava la città e, in realtà, tutta la Russia, era quello di un tabacco chiamato machorka (da «mejor», «il migliore»); fu in origine importato (probabilmente dalla Spagna, attra­ verso l’Olanda) da Pietro il Grande. Il profumo di quel tabacco mi piace­ va moltissimo, e continuai a fumarlo anche in Svizzera durante la guerra e in seguito finché ebbi la possibilità di comprarlo. Quando andai ad abitare in Francia, nel 1920, me ne portai dietro una grossa riserva. (Forse è il momento di accennare ai gusti raffinati della città — alle sue specialità tipiche - i gamberi [d’acqua dolce], gli sterletti, gli zakuski, di cui non trovai mai più l’eguale altrove. Incidentalmente, il mio risto­ rante preferito a Pietroburgo era il Dominique, e fu là che Djagilev mi tenne per la prima volta un «discorso serio sul mio avvenire»). Mentre non pretendo di essere attendibile sul ricordo dei colori, rammento però che Pietroburgo era una città color ocra (nonostante il rosso di qualche edificio prominente quale il Palazzo d’inverno e il Palazzo Anickov), e quantunque non sia in grado di descrivere i colori, posso dire che spesso, a Roma, mi sono tornati in mente i colori della mia città natale. Ciò perché anche l’architettura di Pietroburgo, oltre il colore, era italiana, e italiana non solo per imitazione ma per il la­ voro personale di architetti come Quarenghi e Rastrelli. (Ho spesso riflettuto sul fatto che la mia nascita e l’educazione ricevuta in una città neoitaliana — piuttosto che semplicemente slava od orientale - debba essere parzialmente ma profondamente responsabile dell’indirizzo cul­ turale della mia vita susseguente). La stilizzazione e l’abilità artigianale italiane si possono riscontrare in qualsiasi lavoro dell’epoca della Gran­

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de Caterina, sia esso un edificio, una statua, oppure un objet d’art. E i palazzi erano eseguiti non soltanto su progetti italiani, ma anche con ma­ teriale italiano (marmo, per esempio). Persino nel caso del comune materiale da costruzione di Pietroburgo, granito o mattoni del luogo, le superfici esterne venivano stuccate e intonacate con colori italiani. Gli edifici che preferivo erano la Borsa; il monastero Smol'nyj (di Rastrelli; durante la Rivoluzione divenne il quartier generale di Lenin); il Tea­ tro drammatico Aleksandrinskij (ora chiamato Teatro Puskin); il Pa­ lazzo d’inverno ; l’Ammiragliato, con la sua bella guglia; ma soprat­ tutto il Teatro Mariinskij. Quest’ultimo era per me una fonte di deli­ zia, nonostante lo vedessi molto spesso, e camminare da casa nostra attraverso la Oficerskaja fino alla UHca Glinka, da dove potevo vederne la cupola, mi faceva struggere di orgoglio, come cittadino di Pietro­ burgo. Entrare nell’azzurro e oro di quella profumatissima sala era per me come entrare nel tempio più sacro. Pietroburgo era una città d’isole e di fiumi. Questi ultimi venivano chiamati per lo più Neva - Neva Grande, Neva Piccola, Piccola Neva Grande, Neva Intermedia, e così via - gli altri nomi di fiumi mi sfug­ gono. Il traffico dei battelli e la vita del porto sono tuttavia meno vivi nel mio ricordo di quanto ci si potrebbe aspettare, a causa dei lunghi in­ verni bloccati dal ghiaccio. Ricordo il riapparire dei battelli nei canali al ritorno improvviso della nostra primavera russa, ma la loro immagine è meno viva di quella dei corsi d’acqua trasformati in strade per le slitte. Questi radicali mutamenti equinoziali influivano anche in altra maniera sull’aspetto della città, e non soltanto sull’aspetto ma anche sulla salute delle persone, perché ad ogni illusorio accenno di primavera seguiva una epidemia di influenza, e al minimo segno di rialzo della temperatura ap­ parivano torme di zanzare. Il più impressionante mutamento scenogra­ fico avveniva verso Pasqua. In Russia la settimana che precede la Set­ timana Santa era nota come Settimana del Salice, e il salice sostituiva la palma, nella Domenica delle Palme. Fasci di salici dai vistosi nastri erano in vendita in tutta la città durante quelle due settimane. Pietroburgo era anche una città dalle piazze larghe e spaziose. Una di queste, il Campo di Marte, avrebbe potuto essere la scena di Petruska. Vi si concentravano i festeggiamenti del Martedì Grasso e poiché le rappresentazioni di marionette facevano parte dei divertimenti di Car­ nevale, fu là che vidi per la prima volta il mio «Petruska». Sul Campo di Marte venivano installate le «Montagne Russe» - ottovolanti per slit­ te -, e tutto il popolo minuto vi accorreva per andare sulle slitte, ma lo spettacolo più bello era quello delle slitte trainate dagli alci. Queste eleganti creature erano portate in città durante il Carnevale da contadini

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finlandesi, che le noleggiavano alla gente in festa. Facevano parte di un realistico mondo fiabesco, la cui bellezza perduta ho cercato più tardi di riscoprire, specialmente in Hans Christian Andersen (Le rossignol, Le baiser de la fée). (Devo pure accennare al fatto che imparai ad an­ dare in bicicletta sul Campo di Marte, quantunque, ovviamente, in una stagione più calda). Un’altra piazza attraente era quella del Mercato del Fieno, dove centinaia di carri si ammassavano per rifornire il gran nu­ mero di equini della città; andare là era ricordarsi della campagna. Ma le passeggiate più animate che facevo a Pietroburgo erano quel­ le sulla Prospettiva Nevskij, uno spazioso viale lungo tre miglia pieno di vita e di movimento lungo tutto il percorso. C’erano il bel Palazzo Stroganov (di Rastrelli); la chiesa luterana (che Balakirev, ortodosso devoto, soleva chiamare Chiesa dei calzoni capovolti);

ÈLÉ la cattedrale Kazanskij, con il suo semicerchio di colonne a imitazione di quello di San Pietro a Roma; la Duma (il Municipio); la Gostinnyj Dvor (il Palazzo dei Mercanti), un isolato a portici con centinaia di ne­ gozi; la Biblioteca pubblica; il Teatro drammatico; e il Palazzo Anickov, residenza dello zar Alessandro III. La Prospettiva Nevskij era usata tal­ volta per le parate militari e di altre manifestazioni imperiali, e ricordo di esserci stato portato da piccolo a vedere lo zar o qualche sovrano stra­ niero in visita ufficiale oppure qualche capo di governo o di stato. In una di quelle processioni vidi il francese Sadi Carnot, che in seguito diventò popolare a causa del suo assassiniox. Quel luogo era anche l’are­ na principale per gli appuntamenti amorosi, e di notte era pieno di grues, ufficiali e studenti erano i loro principali clienti. (Lev Bakst, in una lettera del 1915 a Morges, mi diceva: «... ricordi quando sulla Prospet­ tiva Nevskij, in una bella, bianca notte russa, le puttane dipinte di por­ pora ti gridavano dietro, "Uomini, dateci delle sigarette”». I bordelli invece erano mantenuti da Puffmutters provenienti da Riga). Quando cerco di ricordare Pietroburgo, mi vengono in mente due cit­ tà differenti, una illuminata a gas, l’altra a luce elettrica; l’odore del gas e del kerosene pervade tutti i ricordi dei miei primi otto anni di vita. (Ma dovrò di nuovo parlare dei ricordi casalinghi che ho di Pie­ troburgo, poiché in quella città, più che in qualsiasi altra, la vita si svolgeva in casa. Ricordo, per esempio, che avevo l’abitudine di sof1 Debussy mi raccontò una volta di aver composto una parte di Pelléas in una stanza in cui la carta da parati era composta di ritratti ovali in serie di Sadi Carnot.

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fiate su una moneta da cinque copechi e di tenerla ferma sul vetro ge­ lato della finestra della mia camera, finché la brina si scioglieva, e mi apriva uno spiraglio sul mondo esterno). Le luci elettriche - o meglio gli archi oscillanti di carbonio — fecero la loro prima comparsa sulla Prospettiva Nevskij. Erano di un colore piuttosto pallido e non erano neppure molto forti, Pietroburgo però era una città troppo nordica per avere bisogno di molta illuminazione: gli inverni splendevano di luce abbagliante per via della neve, e le primavere erano luminose a causa dell’aurora boreale. Ricordo che in una notte di maggio, mentre prepa­ ravo gli esami per l’università, fui in grado di lavorare fino alle quattro del mattino senz’altra illuminazione che quella delle luci nordiche. Pietroburgo fa talmente parte della mia vita che ho quasi paura di rovistare oltre in me stesso, per timore di scoprire quanto di me le sia tuttora legato, ma anche queste poche reminiscenze possono dimo­ strare che si tratta della città cara al mio cuore più di qualsiasi altra al mondo. r. c. : Ricorda qualcosa della prima infanzia passata a Lzy? i. s. : Il nome Lzy comprendeva in realtà due villaggi, Lzy Grande e Lzy Piccolo, chiamati cosi quantunque fossero entrambi ugualmente piccoli. Questi Lzy erano circondati da foreste di betulle, a cento o più miglia a sud-est di Pietroburgo. Le fresche brezze provenienti dalle vi­ cine Alture Valdye ne facevano un luogo di soggiorno estivo alla moda, ed uno sbocco per la borghesia di Pietroburgo, i miei genitori compresi, che vi' trascorreva i mesi caldi. Sebbene vi avessi trascorso soltanto un’estate, quella del 1884, il mio ricordo dei Lzy non è per sentito dire. Vi tornai nel 1902 venendo da Samara, e vi abitai con Rimskij-Korsa­ kov che era venuto a Lzy a causa della sua asma. Vladimir, figlio di Rimskij, era stato a Samara con me e mi aveva pregato di accompagnar­ lo. Appena Rimskij mi vide, mi incoraggiò a prendere lezioni di musica. Mi diede da orchestrare alcune pagine del Signor governatore, l’opera che stava componendo, e le sue critiche ai miei sforzi costituirono le prime lezioni che ebbi da lui. Difficilmente avrebbe potuto essere più gentile e meglio disposto verso di me di quanto sia stato in quella set­ timana, per questioni musicali e non musicali. Non l’avevo mai visto in uno stato d’animo cosi felice e raramente mi sarebbe capitato in segui­ to di rivederlo cosi. Gli dissi dell’estate che avevo passato a Lzy durante la mia infanzia, e andammo insieme in cerca della casa di mio padre, an­ che se, naturalmente, non sarei stato in grado di riconoscerla se l’avessi­ mo trovata. Ricordo comunque che ci si imbattè in un cottage disabitato con un pianoforte che attirò l’attenzione di Rimskij il quale lo definì «un pianoforte in la».

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Può immaginare come ricordassi il Rimskij di quei felici giorni esti­ vi del 1902 quando sei anni dopo mi portai a Lzy per incontrarmi con la sua bara e accompagnarla a Pietroburgo. Avevo appreso la notizia della sua morte ad Ustilug e avevo telegrafato ai suoi figli perché mi venissero incontro a Blagoe, capolinea ferroviario. (Anche una delle proprietà di famiglia della mia futura moglie Vera de Bosset si tro­ vava incidentalmente a poche verste da Blagoe). Da Blagoe andammo in carrozza fino a Lzy, dove potei rivedere quel viso che soltanto poco tempo prima avevo baciato a Pietroburgo e quelle labbra mute che mi avevano benedetto mentre intraprendevo la composizione dei Fuo­ chi d'artificio \ Ma torniamo al mio mondo di Lzy nel 1884. Il sospetto che potessi avere un talento musicale nacque proprio là. Le donne del villaggio di Lzy, tornando a casa la sera dai campi, cantavano una affascinante e ri­ posante canzone che mi tornava alla mente nelle prime ore della sera, nei momenti più impensati della mia vita. La cantavano all’ottava — na­ turalmente non armonizzata — e le loro voci acute e stridule somiglia­ vano al ronzio di miliardi di api. Non sono mai stato un bambino pro­ digio né ho mai avuto una memoria eccezionale, ma questa canzone mi è rimasta impressa indelebilmente fin da quando l’ho udita. La go­ vernante mi aveva portato a casa dal villaggio, dove mi aveva scarroz­ zato per un intero pomeriggio, e i miei genitori, che stavano cercando di invitarmi a parlare, mi chiesero che cosa vi avessi visto di bello. Rispo­ si che avevo visto i contadini e che li avevo sentiti cantare, e cantai quel­ lo che loro avevano cantato :

Furono tutti meravigliati e sorpresi per quel mio recital, e sentii mio padre sottolineare che avevo un orecchio meraviglioso. Ero natural­ mente compiaciuto del successo e devo essermi gonfiato come un pavone. Che si debba comunque attribuire la mia carriera soltanto alla precoce percezione che amore e lode si possono conquistare attraverso un’esibi­ zione di talento musicale — come certi psicanalisti oggi cercheranno sen­ za dubbio di provare — è tutt’altra faccenda. r. c.: Che cosa ricorda delle estati trascorse a Peciskij durante l’in­ fanzia? 1 [Nell’edizione inglese vi è qui la seguente nota: «La tomba di Rimskij, costruzione consi­ derevole con una croce di Malta, fu progettata da Nikolaj Roerich. Mi recai molte volte a visitarla»].

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1. s.: I ricordi di Peciskij sono in complesso poco felici e li rivivo senza alcun piacere; però, Peciskij è per lo meno tanto importante quan­ to Ustilug nel panorama del mio passato, e perciò tenterò di farmi ve­ nire in mente tutto quello che posso. Peciskij è un villaggio nella provincia di Podolia, a circa quattrocento miglia a sud di Ustilug e a circa quindici verste da Proskurov, capoluo­ go di quella zona e importante nodo ferroviario sulla linea Galizia-Vien­ na. (Incidentalmente, Proskurov è esattamente a nord di lasi, in Roma­ nia, dove nel 1917 mori mio fratello Gurij). La sorella di mia madre, Ca­ therine, possedeva una grande proprietà a Peciskij, e fu là che passai le estati del 1891 e del 1892. Ricordo che Peciskij era un posto noio­ so, ma che a trenta miglia di distanza si trovava la città di Jarmolincy, animata e pittoresca e ben nota per le sue fiere. In realtà la grande fiera di Niznij Novgorod, che vidi in seguito, non mi colpì piu delle mostre dell’artigianato contadino e dei concorsi di bestiame e soprattutto di ce­ reali — Jarmolincy si trovava in mezzo allo sterminato oceano del grano ucraino — delle fiere di Jarmolincy. Per di più durante i periodi di fiera, i costumi dei contadini erano di un’allegria sgargiante e i contadini stes­ si erano ugualmente vivaci e attraenti. Là le gare di ballo erano il mio svago principale, e là vidi per la prima volta la prisjadka (danza dei tal­ loni), che in seguito utilizzai nella scena dei cocchieri in Petruska; la kazacèk (danza dei calci), anch’essa immessa in Petruska; e la trepak. Udii pure molta musica contadina a Peciskij, per quanto si trattasse per lo più di musica di fisarmoniche. (Altri generi di musica erano presso­ ché sconosciuti perché Jarmolincy e Peciskij erano comunità prettamen­ te contadine senza una classe borghese e senza negozi. Esistevano nelle vicinanze accampamenti di zingari, la cui musica non potetti mai ascol­ tare; i miei genitori mi avevano terrorizzato nei riguardi degli zingari, dicendomi: «Ti rapiranno e ti porteranno lontano e non potrai mai più rivedere né la mamma né il papà»... e ci erano talmente riusciti che ne ho paura ancora adesso). Vivere a Peciskij era molto triste per me. I miei genitori dimostrava­ no apertamente la loro predilezione per mio fratello, maggiore, Roman. Io avevo un gran bisogno di affetto, ma nessuno degli adulti che era in­ torno a me se ne accorgeva (cosa che, suppongo, spiega perché, durante tutta la mia vita, sia sempre stato più sollecito nel dare affetto a bambini e animali piuttosto che ad adulti). Mia zia Catherine era una donna di­ spotica che non riuscì mai a dimostrarmi neppure un po’ di gentilezza, benché, per essere giusti, le sue possibilità in questo settore fossero li­ mitate in maniera così allarmante da non lasciar adito ad alcuna elargi­ zione. Le energie della zia Catherine erano interamente assorbite, an-

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che in quel periodo, dal compito di rovinare la vita di sua nuora, una donna affascinante, nata Ljudmila Ljadov, nipote del compositore. Zia Catherine alla morte del figlio - cioè del marito di Ljudmila - aveva re­ quisito Aleksej, figlio di Ljudmila, situazione questa che vorrei parago­ nare a quella di Beethoven e di suo nipote, se non fosse per il fatto che zia Catherine era totalmente sprovvista di talento musicale. Eppure, nono­ stante ciò zia Catherine non costituiva il pericolo piu terribile di Peciskij. Questo onore era prerogativa di una certa signorina Paula Vasil'evna Vinogradova, governante mia e di Gurij, l’essere più pestifero dei miei primi anni d’infanzia. Noi non abbiamo mai avuto molto successo con le governanti. La prima che riesco a ricordare era francese e di bell’aspetto, e per questa ultima ragione, suppongo, non rimase a lungo. La seconda era inglese, ma non ricordo quasi nulla di lei. All’Inghilterra succedette la Svizzera nel­ la persona di una zitella dalla bruttezza aggressiva che dimostrava fin troppo interesse nel guardare noi ragazzi nella vasca da bagno. Quando i miei genitori scoprirono questa ed altre inclinazioni, ella fu sostituita da una certa Vinogradova, una intellettualoide che ci tormen­ tava con lo studio. Questa Vinogradova era la donna meno femminile che abbia mai veduto. La sua capigliatura era acconciata alla bubikopf, le mani erano rosse ed umidicce, le unghie sempre rosicchiate in modo disgustoso. Per di più era in uno stato di perpetua agitazione e se alla zia Catherine o a qualche ospite veniva in mente di rivolgermi una do­ manda sugli studi, si piazzava al mio fianco, mi lanciava una torva oc­ chiata e partoriva nervosamente la risposta. Un episodio che risale al tempo in cui ero sotto la tutela della Vinogradova mi riempie ancora di umiliazione, e perfino adesso lo rievoco con disagio dal fondo del tele­ scopio della mia memoria. Una sera, mentre stavamo pranzando, mio padre, che raramente mi rivolgeva la parola, mi chiese improvvisamente quale nuova parola francese avessi imparato. Arrossii, esitai, mi lasciai uscir di bocca parquà (pourquoi), e mi misi a piangere. Tutti si misero a ridere e a pren­ dermi in giro, i miei genitori, i miei fratelli, Bertha, la virago Vinogra­ dova, e persino Semen Ivanovic, che ci stava servendo. Sono passati da allora tre quarti di secolo e tutti coloro che avevano riso sono morti. Non posso però dimenticarmene e perdonarli non ha più senso, ades­ so. (Che questo episodio contribuisca a farmi avere quel mal di testa di cui ancora soffro spesso al momento di andare a tavola: un esempio di quel che Freud chiamava un Entfremdungsgefuhlì'} Non ritornai a Peciskij nelle estati successive al 1892. I miei geni­ tori mi permisero invece di accompagnarli in Germania, ed io ero ben

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contento di lasciare ai miei fratelli l’ospitalità di zia Catherine. L’ultima volta che vidi Peciskij fu nel 1895. Mi trovavo con i miei genitori a Bad Homburg quando arrivò da Peciskij la notizia della morte di Ro­ man, mio fratello maggiore. Prendemmo il primo treno in partenza. (Ricordo ancora che facevo da interprete a mio padre nella stazione ferroviaria di Vienna; egli infatti parlava il polacco ma non il tedesco). Eravamo attesi a Proskurov da carrozze e percorremmo quelle quindici verste che ci separavano dalla casa della zia Catherine in silenzio. Roman è sepolto a Peciskij. R. c. : Non fu a Peciskij che conobbe la sua futura moglie, Cathe­ rine Nossenko? 1. s. : Si, ma preferirei non parlarne adesso: temo di tradire qualcosa di sacro. Fin dal primo momento che passammo insieme sembrò che en­ trambi ci rendessimo conto che un giorno ci saremmo sposati (o così almeno ci dicemmo l’un l’altro in seguito). Forse fummo sempre più come fratello e sorella. Io ero un bambino profondamente solo e avevo bisogno di una sorella proprio mia. Catherine, che era cugina di primo grado, entrò nella mia vita come una specie di sorella a lungo desiderata, quando avevo dieci anni. Da allora in poi, fino al giorno della sua morte fummo estremamente uniti, più uniti di quanto non siano a volte due amanti, poiché dei meri amanti possono essere estranei l’uno all’altra, nonostante vivano insieme e si amino per tutta la vita. (Infatti i miei più violenti amori d’adolescente furono con altre ragazze, nessuna delle quali avrebbe potuto essermi vicina quanto Catherine. Incidentalmente, durante tutta la mia vita mi sono sentito più vicino alle donne che agli uomini, e preferisco la compagnia delle donne. Sotto questo aspetto mi sento latino, non anglosassone, e preferisco una sala da tè a un club in­ glese, perché quest’ultimo mi appare come un grosso incubo, al pari di una caserma o di un convento). A Peciskij Catherine è stata per me l’amica e la compagna di giochi più cara, e da allora ha continuato ad es­ serlo fin quando ci siamo sposati. Il nostro fidanzamento fu annunciato a Ustilug nell’ottobre del 1905. Le interruzioni delle comunicazioni che seguirono al decreto zarista di agosto e all’ammutinamento del Potèmkin avevano reso difficili i viaggi e io ebbi molte difficoltà a trovare un treno che mi riportasse sano e sal­ vo a Pietroburgo. A quell’epoca Pietroburgo era piena di soldati ar­ mati dappertutto, e per un certo periodo anche i servizi postali furono interrotti. Catherine Nossenko era nata a Kiev nel 1881, ed aveva passato la sua infanzia in quella città. Dal 1903 al 1906, nei tre anni precedenti il nostro matrimonio, visse invece a Parigi dove studiava canto. Aveva

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una voce da soprano fragile ma attraente, e la musica fu certamente una delle cose importanti della sua vita. Era anche una straordinaria calligrafa musicale, e divenne infatti la mia migliore copista degli anni suc­ cessivi; ho ancora un’elegante partitura di Renard copiata da lei. (Si diceva pure che sua sorella Ljudmila fosse «musicale» — ridicola espres­ sione — ma a lei ed al resto della sua famiglia, cosiddetta «musicale», oc­ corse un bel po’ di tempo prima di riconoscere qualche musica mia co­ me tale). Un ordinamento imperiale proibiva il matrimonio tra cugini di primo grado. Dovemmo perciò trovare una specie di prete di contrabbando alla Graham Greene: un prete cioè che ci sposasse senza chiedere quei docu­ menti che avrebbero comprovato la nostra parentela. Scoprimmo l’ec­ clesiastico corruttibile nel villaggio di Novaja Derevnja (Nuovo Villag­ gio), vicino a Pietroburgo. Vi andammo con due carrozze il 24 gennaio (Pii del vecchio calendario giuliano) del 1906, e ci sposammo a mezzo­ giorno. Non era presente nessun parente, e i nostri unici accompagnatori furono i miei testimoni, Andrej e Vladimir Rimskij-Korsakov che si in­ ginocchiarono con noi e tennero sopra le nostre teste le corone nuziali fatte d’oro e di velluto. Quando tornammo a casa dopo la cerimonia, Rimskij stava sulla porta ad aspettarci. Invocò su me le benedizioni del cielo, tenendo sopra la mia testa un’icona che poi mi diede come regalo di nozze. (Un altro regalo di nozze fu il dono del suo insegnamento; an­ che se, in verità, egli non avesse mai accettato denaro da me prima del mio matrimonio). Partimmo poi per la stazione Finlandia, dove pren­ demmo il treno per Imatra, una specie di piccolo Niagara finlandese, meta agognata degli sposi novelli. Imatra era gelida e bianca, e men­ tre le cascate più abbondanti si gettavano ugualmente sulle scogliere, le più piccole erano in ibernazione sotto forma di ghiaccinoli. Rimanem­ mo a Imatra due settimane a fotografar cascate e a farci portare su slitte tirate da cavalli. La musica del Raune et bergère stava maturando nella mia mente, e quando ritornammo a Pietroburgo cominciai a metterla giù sulla carta. r. c. : Ricorda qualcuna di quelle passioni giovanili cui ha fatto allu­ sione poco fa? 1. s.: Di cos’altro ci si ricorda cosi bene? La più seria di esse fu co­ munque crudelmente unilaterale. Si chiamava Lidia Walter ed era figlia di un medico, professore in una clinica vicina a casa nostra. Fu mio fratel­ lo Gurij a conoscerla per primo, essendo compagno di scuola di suo fra­ tello. Cominciai col far visita ai Walter ogni giorno, e non ci volle molto perché mi innamorassi follemente di Lidia. Quando non potetti più controllare la mia passione, le mandai una lettera dichiarandole la verità.

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Non dormii tutta la notte in attesa di una risposta, e quando, il mattino seguente, arrivò la sua rosea busta, tremavo al pensiero di aprirla. La sua risposta era gentilmente concepita, ma tutt’altro che rosea. Ero troppo giovane, diceva, e, com’ebbi ad aggiungervi io, troppo insignificante. Dopo di che non la rividi piu. Due anni dopo (avevo sedici anni quando Lidia mi respinse) mi innamorai di una compagna di scuola di Catherine che era venuta con lei a Ustilug. Si chiamava Kuksina e la trovavo gra­ ziosa, ma si trattò di un amore estivo che dimenticai con il primo vento dell’inverno e con una deludente rapidità. L’oggetto della mia ultima passione giovanile fu la principessa Putjatina, sorellastra del mio più in­ timo amico, Stepan Mituzov. (La madre di Mituzov si era risposata e il suo secondo marito era appunto il principe Putjatin). Avevo allora ventun anni e, naturalmente, ero di gran lunga più raffinato. Non ci furono dichiarazioni estatiche. r. c.: Chi furono i suoi primi insegnanti di musica? 1. s.: La mia prima insegnante di pianoforte fu una certa mademoi­ selle Snetkova del Conservatorio. Era stata raccomandata a mio padre dal professor Solov'èv, anche lui del Conservatorio, compositore di Cor­ delia, un’opera in cui mio padre aveva cantato in un ruolo importante. Avevo allora nove anni, e penso di essere rimasto con lei un paio d’anni. Ricordo che mi parlava dei preparativi che si svolgevano al Conservatorio per i funerali di Cajkovskij (nel 1893), ma non ricordo di aver imparato da lei alcunché di musica. Il mio primo maestro di armonia fu Fédor Akimenko, anche lui allievo di Balakirev e di Rimskij. Compositore di una certa originalità, Akimenko era considerato da molti come un talento promettente; ri­ cordo che quando arrivai a Parigi per L’uccello di fuoco, i musicisti fran­ cesi mi sorpresero con le loro domande sulle sue composizioni. Non lo trovavo simpatico, comunque, e non rimasi a lungo con lui. Il mio insegnante successivo, Vasilij Kalafaty, era piccolo, con una faccia scura da greco e con enormi baffi neri. Kalafaty era anche compo­ sitore, benché le sue qualità di insegnante fossero maggiori e più evi­ denti. Gli esercizi che mi faceva fare erano i soliti, i vari generi di con­ trappunto, invenzione e fuga, l’armonizzazione di melodie per canto corale; ma li correggeva in maniera diversa dal solito, esatta al massimo. Era molto esigente per quanto riguardava la condotta delle parti e di­ sdegnava i «nuovi accordi interessanti» che stanno soprattutto a cuore ai giovani compositori; era un uomo silenzioso che raramente andava al di là di un «si», «no», «bene», «male». Quando gli veniva sollecitato qualcosa di più di quei monosillabi, rispondeva: «Ma tu stesso dovresti sentire perché». Kalafaty mi insegnò a ricorrere al mio orecchio come al

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primo ed ultimo collaudo, e di questo gli sono grato. Lavorai con lui per piu di due anni. In quel periodo di studi preliminari con Akimenko e Kalafaty im­ piegavo la maggior parte del tempo libero ad ascoltare le prove d’orche­ stra e le rappresentazioni operistiche. Mio padre aveva ottenuto una tessera che mi permetteva di assistere a quasi tutte le prove del Teatro Mariinskij, anche se ero costretto a presentarmi ogni volta a un colon­ nello delle guardie per farla rinnovare. Quando avevo sedici anni pas­ savo almeno cinque o sei sere la settimana all’opera. Rimskij si faceva vedere spesso in teatro, ma io non gli avevo ancora parlato mai. Arrivai a conoscere molti dei principali cantanti e molti orchestrali, comunque, e diventai particolarmente amico dei due direttori, Victor Walter e Wolf-Israel. Wolf-Israel prese parte a una specie di cospirazione per aiutarmi a ottenere delle sigarette. (Avevo cominciato a fumare all’età di quattordici anni, ma i miei genitori si accorsero che fumavo soltanto due anni dopo). Un giorno Wolf-Israel si fece prestare una sigaretta proprio da Rimskij-Korsakov e me la dette dicendomi, «Ecco la siga­ retta di un compositore». La fumai lo stesso; nessun souvenir è rima­ sto schiacciato fra le copertine dei miei libri. r. c. : Ricorda il primo incontro con Rimskij-Korsakov? I. s.: Lo conobbi ufficialmente durante una prova di Sadko, benché, naturalmente, l’avessi visto in pubblico e in privato innumerevoli volte nel decennio precedente. All’epoca di quell’incontro avevo quindici o sedici anni, ma non posso ricordarne i particolari — forse perché quella lontana incarnazione della musica russa era per me una figura familia­ re, o forse perché ritenevo quell’incontro inevitabile. Inoltre però, per Sadko, l’atmosfera del teatro e l’eccitamento e la tensione che si provano assistendo alle prove di un’opera nuova suscitavano in me ogni sorta di emozioni; nessun uomo avrebbe potuto impressionarmi tanto quanto l’opera, neppure se ne fosse stato il compositore. Può anche darsi che Rimskij si fosse degnato di interessarsi a me perché in quel periodo egli era eccezionalmente pieno di premure nei riguardi di mio padre. L’ese­ cuzione che aveva fatto mio padre della scena dell’ubriaco nel Principe Igor' era una delle caratterizzazioni che avevano avuto maggior successo in quell’opera, e Rimskij aveva composto una scena analoga, in Sadko, espressamente per lui. D’altronde non posso neppure dire quando avessi visto Rimskij-Kor­ sakov per la prima volta. Ho cercato di classificare i primi ricordi visivi che lo riguardavano, ma non mi riesce di fissarli in un ordine preciso. Quando un rapporto è cosi stretto come quello che io avevo con Rimskij, è difficile stabilire fili conduttori cronologici; d’altronde, io sono in gra­

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do di addentrarmi nella memoria soltanto in maniera frammentaria e inaspettata. Ricordo vagamente Rimskij che veniva a casa nostra per chiedere a mio padre di cantare Varlaam nella sua versione di Boris Go­ dunov, e ho un’altra vaga immagine di lui che, all’incirca nello stesso periodo, entrava al Conservatorio d’inverno, con un cappello da «boiar­ do» e una suba (pelliccia). Quando fu costruito il Conservatorio ave­ vo cinque o sei anni, e ciò deve essere accaduto soltanto poco tempo dopo. Gli stretti legami che esistettero fra me e Rimskij furono stabiliti nell’estate del 1900, a Neckarsgemunde vicino Heidelberg, dove An­ drej Rimskij-Korsakov era studente. Trascorrevo le vacanze con i miei genitori a Bad Wildungen, che è là vicino, quando il fratello di Andrej, Vladimir, mio compagno di corso all’università di Pietroburgo, mi in­ vitò a stare qualche giorno da lui. Durante questa visita mostrai a Rim­ skij le mie prime composizioni, brevi pezzi per pianoforte, «andanti», «melodie», e cosi via. Avevo vergogna di fargli perdere tempo, ma ero anche assai desideroso di diventare suo allievo. Guardò quei miei teneri sforzi con grande pazienza, e poi disse che se continuavo il mio lavoro con Kalafaty potevo anche andare da lui due volte la settimana per ave­ re delle lezioni. Ero talmente pazzo di gioia, infatti, che non soltanto mi dedicai agli esercizi che Kalafaty mi aveva dato, ma riempii persino parecchi quaderni supplementari prima della fine dell’estate. Comunque Rimskij fu molto cauto, sia allora che in seguito, nel complimentarmi o nell’incoraggiarmi con l’uso approssimativo della parola «talento». Infatti l’unico compositore del quale lo avessi mai sentito parlare come molto dotato era suo genero, Maksimilian Stejnberg, che era uno di quei tipi effimeri vincitori di premi e da prima pagina di giornale nei cui oc­ chi brucia eternamente la presunzione come una lampadina elettrica in pieno giorno. r. c. : Ricorda la sua prima comparsa in pubblico come pianista? 1. s. : Come solista, no; suonai i miei Quattro studi da qualche parte, nel 1908 credo, ma non ricordo in quale occasione. Almeno quattro an­ ni prima di questa esibizione come solista, comunque, mi presentai in pubblico per la prima volta come accompagnatore di un suonatore di corno inglese. Il concerto faceva parte delle Serate di Musica Contem­ poranea, e il compositore era un russo nuovo di cui ho dimenticato il nome. Avevo acquisito una sostanziale esperienza di accompagnatore prima di quel concerto, cionondimeno ero nervoso. Non ricordo se suonai bene o male, Nikolaj Cerepnin però mi disse in seguito che il mio tempo lento «aveva quasi fatto morire di asfissia il povero cornista» — osservazione che mi offese profondamente. Il concerto aveva avuto

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luogo in una piccola sala dove in seguito avrebbero avuto luogo i Vendredis Polonskij. La mia attività di accompagnatore era un semplice espediente eco­ nomico. I collaboratori pianistici potevano guadagnare anche cinque rubli l’ora, somma che poteva sostenere benissimo il confronto con i miei assegni familiari. Accompagnavo perciò i cantanti. E all’età di diciannove anni diventai pure l’accompagnatore del noto violoncellista Eugene Malmgreen. Per ogni stucchevole ora di accompagnamento al suo repertorio violoncellistico da salotto, le mie fortune materiali subi­ vano un incremento di dieci rubli. (Trentacinque anni dopo, una delle nipoti di Malmgreen, Vera de Bosset, diventava mia moglie. Appresi allora che un altro zio della signorina de Bosset, un certo dottor Ivan Petrov, era stato pure lui violoncellista, e aveva suonato in duo con Anton Cechov, un altro violoncellista dilettante).

Non avrei comunque potuto fare carriera come pianista — abilità a parte - a causa della mancanza di ciò che chiamo «la memoria dell’ese­ cutore». Credo che i compositori (e i pittori) usino la loro memoria in modo selettivo, mentre gli esecutori devono essere in grado di assimi­ lare «il tutto com’è», come un apparecchio fotografico; credo infatti che la prima impressione della memoria di un compositore sia già una com­ posizione. (Però non so se altri compositori-esecutori lamentino que­ sta difficoltà). Dovrei anche ammettere che il mio punto di vista sul sistema dell’esecutore di «imparare a memoria» è psicologicamente sba­ gliato. Mandare a memoria un concerto o una sinfonia è problema di nessun interesse per me, né posso simpatizzare con la mentalità di co­ loro cui ciò interessa. Per quanto riguarda la memoria del compositore citerò l’esempio di Schonberg che, dopo aver interrotto la composizio­ ne di Moses und Aron per un lungo periodo di tempo, si lamentava del­ la sua incapacità di ricordare ciò che aveva già scritto. Anche a me succes­ se qualcosa di analogo quando componevo il secondo movimento del mio Concerto per pianoforte e orchestra. Un giorno alcune pagine del ma­ noscritto scomparvero misteriosamente e quando cercai di riscriverle, mi accorsi di non poter ricordare quasi niente di ciò che avevo scritto. Non so fino a qual punto il movimento pubblicato differisca da quello che si era perduto, ma sono sicuro che sono molto diversi l’uno dall’altro. La mia memoria come esecutore è qualche cosa di diverso, ma è anch’essa, a suo modo, poco attendibile. Ho già raccontato come alla prima ese­ cuzione di quel mio concerto per pianoforte ed orchestra fossi costretto a chiedere al direttore di suggerirmi il tema del secondo movimento. (Evidentemente un grosso problema psicologico è implicato in questo

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movimento). Un’altra volta, mentre suonavo lo stesso concerto, mi venne un fallo di memoria perché improvvisamente fui ossessionato dall’idea che il pubblico fosse una specie di collezione di bambole in un’enorme prigione circolare. Un’altra volta ancora, la mia memoria si congelò per­ ché improvvisamente avevo notato il riflesso delle mie dita sul legno lu­ cido del bordo della tastiera. Anche i vapori dell’alcool intaccano la mia memoria esecutiva - fui moderatamente ebbro almeno due volte mentre suonavo quel concerto per pianoforte e orchestra — poiché sono troppo assorbito dal problema di essere ben cosciente, e la parte automatica del mio congegno mnemonico si guasta. Che sia o non sia un pianista, comunque, il pianoforte è il centro del­ la mia vita e il fulcro di tutte le mie scoperte musicali. Ogni nota che scrivo viene provata su questo strumento, e ogni rapporto fra una nota e l’altra è preso a sé e vi è ascoltato ripetutamente. (Il processo avviene come al rallentatore, oppure come quelle registrazioni dei richiami de­ gli uccelli riprese a velocità molto ridotta). R. c.: Vuole chiarire i vincoli di parentela che esistevano fra la sua famiglia e il poeta Jakov Petrovic Polonskij? 1. s. : Nikolaj Jelacic, che era mio cugino e il maggiore dei cinque fra­ telli Jelacic, aveva sposato Natalie Polonskij, figlia del famoso poeta. (Nikolaj era un buon pianista e ricordo che la notte di San Silvestro del 1899, trascorsa con gli Jelacic a casa loro, Nikolaj accompagnò mio pa­ dre al pianoforte nei Lieder di Schumann. Che notte felice fu quel­ la e quanto importante ci sembrò il sorgere del nuovo secolo! Ricordo che al ricevimento parlammo di politica anti-inglese, a causa della guer­ ra contro i boeri). Che ricordi bene quelle nozze è dovuto principal­ mente al fatto che i miei genitori mi avevano ordinato per la cerimonia un’alta uniforme, un completo rigido dal bavero bordato d’argento, una camicia, e una boutonnière. A quell’epoca avevo undici anni ed ero mol­ to orgoglioso di quell’abito nuovo. Nikolaj doveva avere il doppio della mia età, o doveva essere abbastanza adulto, si potrebbe pensare, per non mettersi a stuzzicarmi, invece non era così. Ricordo che quado ci in­ vitò a vedere il suo nuovo appartamento dopo la cerimonia nuziale, i suoi modi erano diretti a provocare invidia e a ricordarmi la sua innata superiorità. Ricordo pure una osservazione beffarda che fece quando la famiglia Jelacic venne ad accompagnare la nostra famiglia alla stazione. I commiati erano a quell’epoca faccende talvolta molto elaborate. Si por­ tavano ceste di cibo e di vino, e amici e parenti si disponevano a visite animate. Quando finalmente il treno partiva, si allineavano tutti sul mar­ ciapiede o sul treno e sventolavano fazzoletti. (Tipico contrasto con il presente, quando si è accompagnati all’aeroporto da gente che viene a

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proporre una polizza per l’assicurazione sulla vita). Proprio nel mo­ mento in cui eravamo pronti a dirci addio, Nikolaj se ne uscì con una di quelle domande complicate che amava tanto, per costringermi a fare una «gaffe»: «Igor', la limitazione del tuo orizzonte mentale sta aumen­ tando o diminuendo?» Risposi «Aumentando», naturalmente, e, natu­ ralmente, quei mostri di Jelacic squarciarono l’aria con i loro cachinni. Vidi spesso Polonskij fino a diciassette anni, quando lui mori. Era un poeta del periodo Zemcuznikov, contemporaneo è collega di Leskov, Do­ stoevskij, Fet e Majkov. Benché grigio e curvo quando Io conobbi, Po­ lonskij era ancora un bell’uomo. Cosi come lo ricordo, portava sempre un plaid sulle spalle; l’unica volta che lo vidi in abito da sera fu quando era nella bara. Dopo la sua morte, sua moglie Joséphine organizzò in sua memoria tè letterari diventati presto famosi dappertutto come «Les Vendredis Polonskij». I russi amano molto questo genere di trattenimento - tè e risonanze rimate - ma le smorfie e le voci esaltate dei poeti erano insopportabili per me e, in ogni modo, ho il sospetto che Mme Polonskij astutamente mettesse del sodio nel tè per renderlo scuro come quello della migliore qualità. r. c.: Un’altra domanda di carattere familiare. Ho consultato recen­ temente alcune carte geografiche della Polonia e ho notato che lo Strava è un affluente del fiume Niemen e non della Vistola, e cheli fiume «Sulima» non esiste (cfr. Ricordi e commenti). Ha scoperto anche lei qual­ che ulteriore notizia genealogica? I. s.: Un certo dottor Grydzewsky, direttore di un settimanale po­ lacco in esilio pubblicato a Londra, mi ha gentilmente fatto rilevare che Sulima è il nome di un blasone polacco1 usato da Zawisza Czarny, l’eroe della battaglia di Grunwald, come pure da un ramo della famiglia Stra­ vinsky. Il dottor Grydzewsky mi ha anche informato che un certo Igna­ tij Stravinskij, molto probabilmente mio trisavolo, fu menzionato da Niesiecki nel 1778 come podkomorzy litewski, cioè come «ciambel­ lano lituano», e che un altro Stravinskij, Stanislav, fu famoso nel xvm secolo come uno dei congiurati dell’Ordine degli avvocati che organiz­ zarono il fallito rapimento di Stanislao Augusto. Questo Stanislav Stra­ vinskij fuggi allora a Roma, entrò a far parte di un ordine religioso, ri­ tornò nel ducato di Varsavia come prete nel distretto di Augustov e scrisse le sue memorie. Non posso comunque dire se fosse mio parente o no. , 1 Una mezz’aquila nera in campo giallo, e sotto tre rocce in campo rosso, sull’elmo un’altra mezz’aquila nera. Ho questo cimiero sul sigillo di un anello fatto fare per me da un gioielliere della Rue de Castiglione. Il sigillo mi fu dato a Varsavia nel 1924.

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r. c.: Ha ereditato la sua bibliofilia da suo padre? Quale genere di libri raccoglieva suo padre? Quale fu il primo libro che suscitò in lei un’impressione profonda? 1. S.: La biblioteca di mio padre conteneva settemila-ottomila volu­ mi, la maggior parte dei quali di storia e di letteratura russa. Era comun­ que una biblioteca famosa e di grande valore, perché conteneva alcune prime edizioni delle opere di Gogol', di Puskin e di Tolstoj, come pure quelle dei poeti russi minori. Fu considerata cosi importante da essere dichiarata Biblioteca nazionale dopo la rivoluzione, e a mia madre fu dato il titolo di bibliotecaria nazionale, Bibliotekarsa Stravinskaja. (I li­ bri almeno non furono né confiscati né rimossi, e di questo sono grato al governo di Lenin. Inoltre il governo di Lenin permise a mia madre di emigrare nel 1922, e poco dopo la morte di Lenin, io, «tovarisc Stravin­ sky», fui invitato da tovarisc Lunacarskij del ministero della Pubblica Istruzione a tenere concerti a Leningrado. La mia musica fu eseguita in Russia durante tutto il periodo della Nep). Da bambino leggevo continuamente, credo però che il primo libro che mi colpisse nel modo che lei intende fu quello di Tolstoj intitolato Infanzia, fanciullezza e adolescenza. Scoprii nella biblioteca di mio pa­ dre Shakespeare, Dante e i classici greci - tutti in russo — ma queste furono scoperte fatte poco prima dei vent’anni. Ricordo di essere stato furiosamente infiammato dalla lettura di CEdipus Rex, nella traduzione di Gnedich, credo. Conobbi poi personalmente il traduttore di Dante, Peter Isaiah Weinberg, poiché era amico di Polonskij e frequentatore assiduo dei Vendredis. Le due figlie di Weinberg furono poi anche no­ stre vicine e amiche, a Nizza. (Weinberg conosceva affascinanti aneddo­ ti su Tolstoj e, secondo lui, ogni bambino del villaggio di Jasnaja Poljana somigliava a Tolstoj. Weinberg ne spiegava il perché dicendo che Tolstoj non era stato bello da giovane, e voleva perciò fare all’amore da vecchio come per una specie di «vendetta»). r. c. : Cosa ricorda della morte e dei funerali di suo padre? 1. s. : Per me, la sua morte è l’unico momento vero che ho del ricor­ do di mio padre, e quel momento è tutto ciò che mi resta ora di lui. Noi anticipiamo mólte volte con il pensiero la morte dei nostri genitori, ma quell’evento è sempre diverso da come lo avevamo immaginato, ed è sempre un colpo. Mi resi conto che mio padre stava per morire dopo una visita ufficiale — sul letto di morte — da parte del direttore dei teatri im­ periali, VsevolozskijAppena Vsevolozskij arrivò, vidi in lui un emissario della morte e cominciai ad accettare l’idea della morte. Vsevolozskij, il grande aristocratico, l’amico di Cajkovskij, l’artista — disegnava costu­ mi — era una figura imponente e monumentale, anche se adesso per de­

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scriverlo potrei solo dire che portava un monocolo quadrato, e a volte un curioso pince-nez triangolare:

Mio padre morì il 21 novembre (secondo il vecchio calendario; il 4 dicembre secondo quello nuovo) del 1902, Dopo morto, il suo corpo divenne freddo come un pezzo di carne, fu rivestito con l’abito da sera e fotografato; ciò fu fatto di notte, naturalmente. Ma, appena mi resi conto della sua morte, mi sentii profondamente turbato dal manichino di quell’uomo adorato che giaceva nella stanza accanto. Cosa dobbiamo pensare dei cadaveri? (La descrizione che fa Musil di un identico stato d’animo provato da Ulrich alla morte di suo padre è, per inciso, una del­ le cose più brillanti deìTUomo senza qualità}. Il corteo funebre si mos­ se da casa nostra in un giorno intempestivamente umido. La tomba era al Cimitero Volkov. (Mio padre fu poi traslato al Cimitero delle Suore Novelle). Erano presenti artisti e direttori del Teatro Mariinskij, e Rim­ skij era al fianco di mia madre. Dopo un breve ufficio funebre, la tomba fu spruzzata d’acqua santa e di terriccio. In Russia il lutto era solenne e austero, e le veglie di tipo gaelico erano sconosciute. Tornammo a ca­ sa, ciascuno nella propria camera, a piangere da soli. R. c. : Vuole descrivere il villaggio e la gente di Ustilug e il tragitto da Pietroburgo a Ustilug? E quali musiche vi compose? 1. s. : Ustilug - usty significa «bocca» — è il nome di un villaggio alla confluenza di un fiumicello, il Luga, con un fiume più grande, il Bug. «Villaggio» tuttavia è parola eccessiva perché Ustilug non era altro che un mesteckoy un abitato grande abbastanza per giustificare la presenza di un impiegato postale e di un gendarme. Negli anni 1890 il dottor Gabriel Nossenko, cognato di mia madre, (e dal 1906 mio suocero) vi comprò una distilleria e parecchie migliaia di ettari di terra. Questa proprietà dei Nossenko era circondata da fore­ ste, fiumi, e campi di grano, ed il suo clima era assai salubre, cosa che spiega la ragione per la quale ero stato mandato là insieme con mio fra­ tello Gurij, durante le estati dal 1896 al 1900 La casa dei Nossenko si trovava sulla provinciale per Vladimir-Vollynskij, vicino al villaggio di Ustilug. Dopo il mio matrimonio feci costruire una nuova casa proprio sulle rive del Luga, a circa un chilometro dal villaggio vero e proprio di 1 Ho detto «mandato» perché mio fratello ed io vi abitavamo soli con le cugine Nossenko, Catherine e Ljudmila, mentre i miei genitori andavano a Peciskij. Eravamo sorvegliati dalla zia delle nostre cugine, Sof'ja Velsovskij, una donna severa, e da due domestiche polacche libidinose. (La madre di Catherine era morta di tubercolosi).

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Ustilug. Caratteristica di questa casa, costruita secondo mie precise in­ dicazioni, erano due ampi camini con due comignoli, e un terrazzo che dava sul fiume. Dal 1907, anno in cui essa fu terminata, fino al 1914, quando fui tagliato fuori dalla Russia a causa della guerra, vissi là al­ meno per gran parte di ogni estate. Ustilug era un rifugio per com­ porre, inoltre vi avevo fatto trasportare da Pietroburgo il mio Bechstein a coda. In realtà, là non c’era altro da fare perché, anche se ero diventa­ to un canottiere e andavo a remare ogni giorno sul fiume, non imparai a nuotare. (I miei genitori, temendo malattie, mi avevano inculcato il terrore dell’acqua perché da bambino avevo avuto numerose pleuriti, ma comunque mi considerarono disastrosamente predisposto a qualsiasi malattia fin dal giorno della mia nascita). La popolazione di Ustilug — circa quattromila anime — era tutta ebrea. Era una comunità ebraica alla Isaak BabeF o alla Chagall, la comunità più tranquilla e affettuosa che si possa immaginare. Ero molto benvoluto dagli abitanti perché i Nossenko avevano dato loro un pezzo di terra per costruirvi un cimitero e perché mia moglie vi aveva fondato una piccola clinica e chiamato un dottore a dirigerla. (Il dottore, un intellettuale polacco di nome Stanislas Bachnitzky, e l’ispettore locale delle foreste erano il nostro unico «mondo»). Ustilug era una comunità religiosa. Gli uomini avevano la barba, riccioli alla pejsy, e vestivano con lunghi cappotti lapserdak. Poteva anche trattarsi di una comunità non rigoro­ samente ortodossa, perché ricordo una festa nuziale in cui gli ospiti dan­ zavano tenendo in mano lampade a petrolio anziché candelabri. Ero particolarmente legato ad un uomo di Ustilug, un certo signor Bernstejn, che era emigrato in America, vi aveva fatto fortuna, ed era tornato ad Ustilug per diventare la persona più importante del mestecko e pro­ prietario della sua attività più prosperosa, una fabbrica di mattoni. Que­ sto signor Bernstejn era meglio conosciuto sotto il nome di Zolotye Zuby — «Denti d’Oro» — ma benché avesse in effetti molti denti d’oro, quel riferimento voleva andare molto al di là dei denti. Acquistai da lui i mattoni e gli altri materiali necessari alla costruzione della mia nuova casa, e ricordo ancora il giorno in cui egli venne a definirne l’acquisto. Avevo cominciato a discutere i suoi prezzi piuttosto rudemente con mio cognato, in francese e in sua presenza quando egli improvvisamente mi disse, — Gospodin Stravinsky, può parlare in francese e io non la capirò, devo però avvertirla di non parlare in inglese cosa che miparve un abilissimo rimprovero. Non ricordo se fosse stato lui oppure un’altra persona del villaggio a regalarmi un violino, in ogni caso però ricordo che fu proprio a Ustilug che imparai a suonare un piccolo vio­ lino. La mia Sinfonia in mi bemolle e due dei miei Studi per pianoforte

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furono composti nella vecchia casa dei Nossenko a Ustilug. I Fuochi d’artificio, il Chant funebre, il primo atto del Rossignol e lo Zvezdoliki furono scritti nella nuova casa, l’ultimo pezzo immediatamente prima e, per poco tempo, durante la composizione del Sacre du printemps. Non potrei dire esattamente quanta parte del Sacre risalga al periodo di Usti­ lug, dal momento che non ne ho piu nessun abbozzo, ma so che trovai la melodia iniziale del fagotto poco prima di lasciare Ustilug per Clarens. (Regalai i miei abbozzi del Sacre, elegantemente rilegati, a Misia Sert po­ co dopo la première). Ustilug era a due giorni e mezzo di viaggio da Pie­ troburgo, ma i vagoni erano spaziosi e l’andatura lenta; perciò il viaggio era piuttosto confortevole. La stazione di testa, a Pietroburgo, era la Sta­ zione Varsavia, un edificio in stile italiano che era pure il punto di par­ tenza per Berlino e per Parigi. I treni piu lussuosi avevano scomparti­ menti privati, ma gli scompartimenti potevano essere riservati anche nelle carrozze ordinarie. I pasti, serviti in località prestabilite lungo la linea ferroviaria, costituivano la parte più piacevole del viaggio. I came­ rieri — per lo più tartari — indossavano lunghi grembiuli bianchi e sgam­ bettavano in su e in giù, come infermieri in un pronto soccorso, al primo sbuffo della locomotiva che si stava avvicinando. Anche il cibo era ec­ cellente; in Russia paragonare un ristorante a quello di una stazione fer­ roviaria, voleva dire fare un complimento al ristorante stesso. A questi buffet si potevano trovare vini di Crimea e champagne del Caucaso, co­ me pure una gran quantità di buone cose da mangiare. Le fermate prin­ cipali erano quella di Brest-Litovsk e quella di Kovel', a oltre centoquaranta verste più a sud. A Kovel', i passeggeri dovevano trasbordare per prendere una linea secondaria per Vladimir-Vollynskij. Da VladimirVollynskij a Ustilug, una dozzina di verste, l’unico mezzo di trasporto era costituito da una carrozza a cavalli e, dopo il 1912, da un’automobile. Lo ricordo come un viaggio infido, a causa della strada sabbiosa; una volta mi ci bloccai con un’automobile. r. c. : Vuole esaminare la funzione che la religione ha avuto nella sua vita e nella sua musica? Perché, per esempio, ha scritto una Messa catto­ lico-romana mentre appartiene alla Chiesa greco-ortodossa? Qual era lo sfondo religioso della sua famiglia, quale fu l’educazione religiosa rice­ vuta nella sua infanzia, e quali sono state le ulteriori «evoluzioni della sua esperienza religiosa»? i. s. : Non ritengo che i miei genitori fossero credenti. Ad ogni modo non erano praticanti e, a giudicare dalla mancanza di importanti discus­ sioni in casa su questo argomento, non dovevano coltivare forti senti­ menti religiosi. Comunque il loro atteggiamento deve essere stato più di indifferenza che di opposizione, dal momento che il minimo accenno di

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empietà li scandalizzava. Ricordo che un giorno a mio padre fu data copia del blasfemo poemetto di Puskin Sull’Annunciazione e che mio padre, con imprecazioni altrettanto blasfeme, lo gettò nel caminetto. I miei genitori sotto certi aspetti erano anticlericali, è vero, ma il loro atteg­ giamento non era altro che una manifestazione tipica della loro classe sociale in quell’epoca, il che aveva ben poco a che fare con la religione. (Vorrei anche aggiungere che nel loro caso ciò aveva ancor meno a che vedere con la nuova corrente di liberalismo. I miei genitori non furono mai liberali, in nessun senso della parola). Fui battezzato a Oranienbaum a mezzogiorno, poche ore dopo la mia nascita, da un prelato della Chiesa ortodossa russa. I miei genitori ave­ vano chiamato un religioso perché dicesse le preghiere, mi spruzzasse con acqua consacrata e mi segnasse una croce sulla fronte con l’olio con­ sacrato (questo succedeva anche il mercoledì delle ceneri); secondo le usanze della Chiesa russa, i neonati gracili venivano a volte battezzati sommariamente, in questo modo. (Il fatto della mia gracilità, stabilito fin dalle prime ore di vita, fu sostenuto durante tutta la mia giovinezza finché divenne per me un modo di pensare condizionante; e ancora ades­ so, sano e robusto ottuagenario che conduce una vita strenua ed attiva, mi trovo a pensare che sono troppo gracile e farei meglio a fermarmi). In modo più cerimonioso entrai a far parte della Chiesa russa il 29 giu­ gno (vecchio «stile»), nella cattedrale Nikol'skij di Pietroburgo. Por­ tato là in un cassetto di scrivania - non avevo ancora un culla - fui de­ nudato, coperto d’unguento come una contadina che va sposa e, mentre il prete mi teneva con una mano bocca e naso, immerso in una vasca. Queste abluzioni sacramentali mi spaventarono e provocarono una rea­ zione intestinale (un presagio, come in realtà accadde, di un disturbo che mi è durato tutta la vita). Nonostante alcuni atteggiamenti dei miei genitori, i digiuni e le fe­ ste del calendario ecclesiastico venivano strettamente osservati in casa, ed io avevo l’obbligo di frequentare i servizi sacri e di leggere la Bibbia. La chiesa scelta dai miei genitori era la cappella di una scuola militare situata non molto lontano da casa. Mi recavo là per tutte le devozioni usuali, e alla cattedrale Kazanskij per solennità importanti. Di tutti quei miei anni di praticante, comunque, ricordo solamente un’unica esperien­ za che vorrei chiamare religiosa. Un giorno, all’età di undici o dodici an­ ni, mentre stavo aspettando il mio turno davanti alla grata del confes­ sionale1, cominciai ad armeggiare impazientemente con la fibbia della 1 II rito della cresima non esiste nella Chiesa ortodossa, il che significa che la Comunione può essere somministrata al piu piccolo e meno ragionevole dei bambini. Ricordo il gusto delle minuscole particelle di prosphora - pane per la comunione imbevuto di vino greco dolce - che

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cintura; portavo l’uniforme scolastica, gli stivaletti neri e il caffettano nero con la fibbia d’argento siglata «SP2G» - «(San) Pietroburgo, Se­ condo Ginnasio». Improvvisamente il prete uscì da dietro la grata, mi prese le braccia e me le spinse sui fianchi. Il suo gesto non era mosso da rimprovero, comunque, e anzi egli fu talmente dolce e pieno di grazia che per un momento fui sopraffatto dal senso di ciò che Henry Vaughan chiamava le «fitte, ma abbaglianti tenebre» (di Dio). (Perché questo so­ lo istante, completo nella sua cornice — l’ora del giorno, la luce dell’am­ biente, la voce sussurrata del confessore, l’improvvisa, straordinaria coscienza di me stesso — è sopravvissuto nella mia memoria?) Ero anche profondamente commosso da una festività annuale della Chiesa, quella delle cerimonie dell’Epifania, durante la quale lo zar Alessandro III battezzava una croce nella Neva. Diversamente dalla maggior parte delle festività ecclesiastiche ufficiali, che sono degenerate in qualcosa di simile alle feste civili nazionali, l’Epifania era occasione di vera solennità. In quella stagione il fiume era una strada di ghiaccio \ ma vi veniva fatta un’apertura che permetteva allo zar di immergervi una grossa cro­ ce d’argento assicurata a una grossa catena d’argento. Si recitavano al­ cune preghiere, e tutti i presenti si inginocchiavano nella neve o sul ghiac­ cio. Questo spettacolo era cosi commovente che anche lo spettatore piu agnostico, credo, si sarebbe dovuto commuovere. Lo zar e i suoi ufficia­ li in uniformi grige e colbacchi — quello dello zar aveva una striscia ros­ sa con una croce d’oro - il metropolita, gli archimandriti, i sacerdoti e la folla presente, erano tutti straordinariamente pittoreschi, in contrasto con il cielo invernale e con la bianca superficie del fiume. Tutta la scena è adesso quanto allora viva nel mio ricordo. Comunque a quattordici o quindici anni cominciai a criticare la Chiesa e a ribellarmi ad essa, e prima che lasciassi il ginnasio l’avevo completamente abbandonata (rottura che perdurò per almeno tre de­ cenni). Non posso ora valutare gli eventi che, alla fine di quei trent’anni, mi fecero scoprire la necessità della fede religiosa. Non ci arrivai per ragionamento. Sebbene ammiri la struttura del pensiero teologico (la prova di sant’Anselmo, per esempio, in Fides quaerens intellectum}, esi preti officianti mi versavano in bocca col cucchiaio; esse non avevano per me, per lo meno nel mio stadio di infante che vagisce e vomita, piu significato di un qualsiasi dolciume. 1 Schettinare sulla Neva era uno dei più grandi piaceri della mia infanzia, ma essere scar­ rozzato con le slitte da una parte all’altra del fiume a rimorchio dei contadini finlandesi che ve­ nivano a Pietroburgo per guadagnare in questo modo pochi copechi invernali, era per me una gioia persino più grande. Il ghiaccio era spesso parecchie decine di centimetri - fatto che vi aiuterà a immaginare il fracasso che esso faceva al primo accenno del disgelo primaverile. Allora il rumore era talmente forte che a stento si poteva discorrere, e come ho già detto, il disgelo era per me il momento più straordinario ed eccitante dell’anno.

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sa è per la religione non piu di ciò che gli esercizi di contrappunto sono per la musica. In questioni religiose non credo ai ponti della ragione né tantomeno a qualsiasi forma di estrapolazione; l’impossibilità di dedurre degli «assoluti» dall’« esperienza» è una faccenda che ritengo sia stata risolta da Kant molto tempo fa Posso dire comunque che durante qualche anno prima della mia at­ tuale «conversione», avevo coltivato come uno stato d’animo di accet­ tazione leggendo i Vangeli e altra letteratura di argomento religioso. Quando traslocai da Biarritz a Nizza, un certo padre Nicola, della Chiesa russa, entrò nella mia vita (e persino in casa mia); per un perio­ do di cinque anni fu praticamente un membro della famiglia. Ma le influenze intellettuali e sacerdotali non furono per me di importanza pri­ maria. Incidentalmente, l’ultima lettera che Djagilev mi scrisse1 2 an­ drebbe letta tenendo presente la mia religiosità ritrovata; prima di acco­ starmi alla comunione gli avevo scritto, dicendogli della mia intenzione di rientrare nella Chiesa. (Può darsi che Jacques Maritain abbia esercitato una influenza su me in quel periodo, quantunque in modo non diretto, e certamente egli non ebbe alcun ruolo nella mia «conversione»; fino a poco tempo pri­ ma dei più recenti avvenimenti lo conoscevo solamente attraverso i suoi libri; diventammo amici nel 1929, al tempo del mio Capriccio per pia­ noforte e orchestra. Maritain era di una erudizione sorprendente, e ben­ ché lo fosse in maniera riservata, stare con lui voleva dire imparare. Non l’ho più visto dal 1942, quando venne a una mia conferenza all’Università di Chicago. Provo molto rincrescimento per questa separazione e per la perdita della sua carità intellettuale. Sarei curioso di sapere co­ sa direbbe ora del milieu divin di Teilhard de Chardin, per esempio, op­ pure della santa Caterina da Genova del barone von Hiigel, oppure de­ gli scritti del riscoperto compatriota di Hiigel, Abraham a Sancta Clara). Forse il fattore più determinante nella decisione di ritornare alla Chiesa russa, piuttosto che convertirmi a quella romana, fu il fattore linguistico. La lingua slava usata nella liturgia russa è sempre stata la lingua in cui recitavo le preghiere, sia da piccolo che adesso. Fui un au­ tentico praticante della Chiesa ortodossa dal 1926 al 1939, e ancora, più tardi, in America, e quantunque fossi venuto meno a quelle pratiche nell’ultimo decennio - più per pigrizia che per scrupoli intellettuali - mi ritengo ancora un russo ortodosso. 1 La possibilità - o validità - di un approccio ontologico viene dimostrata da Max Scheier in Vbw Ewigen ini Menscben, argomentazione fenomenologica che cionondimeno ammette resi­ stenza di un Dio personale, come pure quella di un ens a se. 2 In Ricordi e commenti.

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Perché allora composi una Messa cattolico-romana? Semplicemente perché volevo che la mia Messa fosse usata liturgicamente, il che era francamente impossibile nella Chiesa russa, dal momento che la tradi­ zione ortodossa bandisce qualsiasi strumento musicale dai propri servi­ zi religiosi - e dal momento che io posso sopportare il canto senza ac­ compagnamento solo nella musica armonicamente più primitiva. La mia Messa è stata sin ora usata piuttosto raramente nelle Chiese catto­ liche, ma ciò nonostante lo è stata. La mia Messa fu sollecitata in parte dalla lettura di alcune Messe di Mozart che avevo trovato in un negozio di musica usata di Los Angeles nel 1942 o ’43. Appena mi misi a suonare queste dolcezze peccamino­ se del periodo operistico rococò, seppi che avrei dovuto scrivere una Messa, una Messa vera però. Tra parentesi, sentii per la prima volta la Messa di Machault un anno dopo che la mia era stata composta, per cui non fui influenzato nella mia Messa da alcuna musica «antica» né fui guidato da alcun esempio. Nel 1944, mentre componevo il Kyrie e il Gloria, mi trovavo spesso in compagnia di Franz Werfel. Fin dalla primavera del 1943, quell’illustre poeta e drammaturgo cercò di convincermi a scrivere la musica per il suo film Bernadette. L’idea e il testo mi attraevano, e se le condi­ zioni commerciali e quelle artistiche non fossero state così compietamente a favore del produttore del film, avrei potuto accettare. Avevo comunque già composto la musica per la scena della «Apparizione della Vergine», e questa musica divenne il secondo movimento della mia Sin­ fonia in tre movimenti. (Il primo movimento della sinfonia fu compo­ sto nel 1942; pensavo allora di farne un concerto per orchestra). Werfel era persona dotata di un acuto senso critico musicale: quando gli mo­ strai la mia Ode *, da poco composta, notò subito che il primo movimen­ to era «una specie di fuga con accompagnamento». Provavo rispetto e ammirazione per lui anche per le altre sue qualità, naturalmente, e so­ prattutto per il suo grande coraggio e per il suo senso dell’umorismo. Werfel era una persona molto attraente, con occhi grandi, lucidi e ma­ gnetici (erano anzi i più begli occhi che avessi mai visto, mentre i suoi denti erano i più orribili). Durante la guerra fummo reciprocamente e 1 Anche il movimento centrale della Ode era stato originariamente concepito per un film. Gli agenti di Orson Welles mi avevano spinto a comporre la musica per il suo Jane Eyre, e poiché ero affascinato da quel libro e dalle Brontè in generale, composi questo pezzo per una scena di caccia. Tutte le mie abortite musiche per film, - i Norwegian Moods (così impropriamente chiamati a causa della mia scarsa conoscenza dell'inglese - preferisco chiamarli Quatre pièces à la norvégienne), la Egloga {Ode), il movimento centrale della Sinfonia del 1945, e lo Scherzo à la russe appartengono agli anni 1942-44.

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regolarmente ospiti nelle nostre rispettive case. Ricordo di averlo visto per l’ultima volta a casa sua una sera in cui era con noi anche Thomas Mann. Poco tempo dopo mi trovai a compiangerlo nella sua camera mortuaria, occasione che mi fece trovare per la prima volta in trentatre anni di fronte al volto irato, tormentato e ardente di Arnold Schonberg. r. c. : Thomas Mann (in Die Entstehung des Doktor Eaustus, in data agosto 1943)1 accenna a una serata da Werfel durante la quale lei parlò di Schonberg. Se ne ricorda? 1. s.: Credo di si e anzi mi pare di aver espresso l’opinione che il Pierrot lunaire dovrebbe essere registrato senza la voce recitante in mo­ do che l’acquirente del disco possa aggiungervi da sé gli ululati, un disco del tipo «fatelo da voi». Comunque associavo Werfel meno a Schon­ berg che a Berg e a Kafka (egli li aveva conosciuti bene entrambi), e ricordo qualche suo discorso su di loro. A Mann piacevano molto le di­ scussioni musicali, e il suo tema preferito era quello che la musica è l’ar­ te piu distaccata dalla vita, l’arte che non ha bisogno di nessuna espe­ rienza. Mann aveva l’aspetto di un professore, ritto e quasi rigido sul collo, la mano sinistra infilata spesso nella tasca della giacca. Il ritratto che disegna di se stesso in Saggio autobiografico, e la personalità che emerge dalle sue Lettere a Paul Amann non sono — per me — oltremodo gradevoli, ma le persone virtuose non sempre sono gradevoli, e Thomas Mann era virtuoso: cioè, coraggioso, paziente, gentile, sincero; penso fosse pure profondamente pessimista. L’avevo conosciuto fin dal primo periodo Djagilev a Monaco, dove era venuto per assistere alle rappre­ sentazioni del nostro Balletto, e lo rividi di nuovo durante gli anni ven­ ti a Zurigo. Mi piace comunque la descrizione che fa di mia moglie nel seguente resoconto di una serata passata insieme con lui a Hollywood: «... una conversazione che ebbi con Stravinsky a un ricevimento in casa nostra è rimasta nella mia memoria con notevole chiarezza. Parlammo di Gide - Stravinsky esprimeva le sue idee in tedesco, in francese e in inglese - poi delle " confessioni ” letterarie come prodotto delle diverse sfere culturali, la greco-ortodossa, la latino-cattolica, la protestante. Se­ condo Stravinsky Tolstoj era essenzialmente tedesco e protestante... La moglie di Stravinsky è una "belle russe”, assolutamente bella, un esem­ pio di bellezza tipicamente russa in cui la qualità di simpatia umana rag­ giunge l’apice». (Mia moglie, Vera de Bosset, è bella però non ha una sola stilla di sangue russo nelle vene). r. c. : Quali furono i suoi legami personali con la famiglia Cajkov1 [Trad. it. Romanzo di un romanzo, Mondadori, Milano 1952; Il Saggiatore, Milano 1972, che comprende anche il Saggio autobiografico di cui si parlerà poco piu avanti].

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skij, e per quale ragione difese la musica di Cajkovskij — le sue trascri­ zioni della Bella addormentata (1921 e 1941), le sue esecuzioni della musica di lui, la dedica di Mavra, e Le baiser de la fé e? 1. s.: Cajkovskij aveva dato una sua fotografia con dedica a mio pa­ dre per la sua interpretazione del drammatico ruolo del monaco nell’I^cantatrice, e questa fotografia era considerata l’oggetto più prezioso dello studio di mio padre. Cajkovskij ha lasciato una descrizione di una interpretazione fatta da mio padre, incidentalmente, in una lettera alla signora von Meck (del 18 ottobre 1887): «... I cantanti migliori furono Slavina e Stravinsky. Un eccezionale scoppio di applausi e di unanimi consensi fu strappato da Stravinsky a tutto il pubblico col monologo del secondo atto; la sua esecuzione dovrebbe servire da modello a tutte le future rappresentazioni». (Slavina era il primo contralto del Mariinskij, e buona amica di mio padre. Ricordo le sue visite a casa nostra, in com­ pagnia di un’amica misteriosa e mascolina, Kocubej, nome talmente ari­ stocratico da rendere impensabile il premettervi un titolo). Devo anche dire che quando Cajkovskij morì, due cugini di mia madre, i conti Litke, stettero con lui accanto al letto per la veglia funebre; e che mio padre fu uno di coloro che portarono la bara del compositore, e l’unico scelto a deporre la corona di fiori sul sarcofago. Modest Cajkovskij, fratello di Pètr Il'ic, era straordinariamente so­ migliante al compositore e io, naturalmente, vedevo in lui il composito­ re. Fui presentato a Modest quindici anni circa dopo la morte di Pètr Il'ic, a una esposizione del «Mir Iskusstva» di Djagilev, e negli anni successivi, specialmente a Roma mentre ultimavo Petruska, ebbi occa­ sione di conoscerlo bene. Conobbi pure Anatolij, altro fratello di Cajkov­ skij, la cui somiglianza fisica con il compositore era però scarsa. Mio pa­ dre e Anatolij erano amici di scuola e di conseguenza quando incontrai Anatolij a Vienna nel 1912, dopo molti anni, non fece che parlarmi di mio padre. (Per inciso, ricordo che allora a Vienna, ad una rappresenta­ zione di Petruska, vidi l’arciduca Ferdinando, colui che due anni dopo fu assassinato a Sarajevo; e a Budapest vidi l’intera famiglia reale che in­ dossava le pittoresche uniformi ungheresi a una rappresentazione delVUocello di fuoco). Djagilev riprese il pas de deux dalla Bella addormentata nel 1912, credo, con Nizinskij e Karsavina che danzavano, e quei quattro pezzi co­ sì riproposti ebbero un successo immediato. È difficile cominciare un revival di Cajkovskij con il pas de deux, naturalmente, ma io so che fui deliziato — e sorpreso di essere deliziato — dalla musica. I numeri del pas de deux sono identici a quelli che orchestrai nel 1941 per il Ballet Theatre, per inciso, benché nel 1941 lavorassi soltanto sulla base di una

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riduzione per pianoforte e della mia povera memoria; dovetti inventa­ re quello che non mi era possibile ricordare sulle scelte strumentali pro­ prie di Cajkovskij. Quella strumentazione era stata commissionata per un’orchestra che aveva dovuto ridurre il proprio organico a causa della guerra. Il mio rapporto personale con la musica di Cajkovskij cominciò nel 1921 quando, dietro incitamento di Djagilev, contribuii con due orche­ strazioni alla ripresa della Bella addormentata, Cajkovskij aveva deciso di fare dei tagli dopo la prima rappresentazione, alcuni dei quali sugge­ ritigli dallo stesso zar Alessandro HI. I numeri eliminati non compari­ vano nella partitura d’orchestra, e perciò Djagilev mi chiese di stru­ mentarli attraverso la riduzione per pianoforte. Essi sono la variation d’Aurore del secondo atto:

e V entr’acte symphonique che precede il Finale del secondo atto:

r*r r 1

Oltre a ciò, feci parecchi cambiamenti nella orchestrazione di Cajkov­ skij della Danza Russa nell’ultimo atto. L’entr’acte symphonique era la sequenza di un sogno danzato davanti al sipario. Lo zar la considerava noiosa e io ero d’accordo con lo zar, Djagilev però ne aveva bisogno per avere il tempo di mettere su la scena. Lavorare su questi numeri, a pre­ scindere da ciò che potessi pensare della musica, mi dette la voglia di comporre Le baiser de la fée. Anche il mio opus seguente, Mavra} opera buffa in un atto dedicata «alla memoria di Cajkovskij, Glinka e Puskin», mi fu ispirata dalla ripresa della Bella addormentata. Infatti Ma­ vra fu concepita all’Hotel Savoy di Londra, nella primavera del 1921, durante la progettazione della ripresa della Bella addormentata. Avevo pensato che La casa di Kolomna di Puskin fosse un buon soggetto per un’opera buffa, e avevo chiesto al giovane Boris Kochno di trarne un libretto d’opera. Kochno era stato buon amico di Djagilev un anno pri­ ma, ma in seguito non godeva più di quei favori instabili. Aveva un do­ no particolare per la versificazione e la sua Mavra è per lo meno mu­ sicale nel senso migliore della parola (in russo, in ogni modo). Lo schema dell’azione con l’ordine di successione dei numeri fu elabora­ to insieme da noi due a Londra, dopo di che mi ritirai ad Anglet per aspettare la fine della stesura del libretto e comporne la musica. La pri­ 11

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ma parte della partitura che composi fu l’aria di Parasa, e l’ultima fu la ouverture. Utilizzai principalmente strumenti a fiato, sia perché sem­ brava che la musica dovesse fischiettare come fischiettano gli strumenti a fiato, sia perché essa conteneva qualche spunto di «jazz» — specialmente il quartetto - che sembrava richiedere il suono di una «band» piu che quello di una «orchestra» ’. Quando ÌAavra fu terminata, Djagi­ lev ne organizzò un’anteprima all’Hotel Continental. Accompagnai i cantanti al pianoforte, ma mi accorsi che la mia musica deliberatamente démodé scandalizzava Djagilev, e che gli era disperatamente preoccu­ pato per la rappresentazione. Infatti la rappresentazione fu un insuc­ cesso, provocato dalle ragioni che ho già citato e alle quali vorrei an­ cora aggiungere l’atteggiamento ostile proprio di Djagilev verso la Nizinska regista. Comunque, dal punto di vista dell’allestimento scenico, il guaio consisteva nel fatto che i cantanti non erano in grado di realiz­ zare le idee coreografiche di Mile Nizinskaja. Niavra è cajkovskijana sia per il periodo sia per lo stile (nel senso che si tratta di pomesciki, musica per gente di città o per piccoli pro­ prietari terrieri, che è l’opposto di musica folklorica), ma la dedica a Cajkovskij era anche un gesto propagandistico. Volevo mostrare una Russia diversa ai miei colleghi non russi, specialmente a quelli francesi, i quali erano, a mio parere, saturi dell’orientalismo da ente turistico della mogucaja kucka, la «potente combriccola», come Stasov soleva chiamare il gruppo dei Cinque. Infatti mi stavo ribellando contro il carattere pittoresco della musica russa e contro coloro che non voleva­ no accorgersi come il pittoresco venga prodotto con dei piccoli trucchi. Cajkovskij era il più grande talento di tutta la Russia e, ad eccezione di Musorgskij, il più genuino. I suoi meriti, secondo me, consistevano nella eleganza (i balletti; ritengo Cajkovskij essenzialmente composito­ re di balletti anche quando scrive delle opere) e nel senso dell’umori­ smo (le variazioni degli animali nella Bella addormentata-, posso preci­ sare quello che intendo per senso dell’umorismo in musica con un solo esempio, e l’esempio secondo me più completo è quello di Parla il poe­ ta di Schumann). Questo è il Cajkovskij che intendevo indicare, ma 1 Questo elemento «jazz» fu percepito da Jack Hilton, direttore di una band inglese, che di conseguenza ottenne da me il permesso di fare un arrangiamento della scena centrale dell’opera, del duetto e del quartetto, per la sua combinazione di sassofoni-e-cosf-via. Il signor Hilton diresse effettivamente questo pot-pourri di Ntavra all’Opéra di Parigi (!) nel 1932 (credo). Fu un orri­ bile fiasco, poiché i componenti dell’orchestra cercarono di eseguire la musica «rigorosamente». Hilton aveva semplicemente trascritto la musica per la sua combinazione di strumenti - e Mavra non può figurare in un programma «jazz». Hilton era un uomo gentile e simpatico, ma credo proprio di non aver mai assistito ad un concerto più stravagante di quello.

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anche questo Cajkovskij veniva deriso come un’assurdità sentimentale e, naturalmente, è deriso ancora adesso. Le baiser de la fée cominciò forse a lievitare in me fin dal 1895, du­ rante il primo viaggio che feci in Svizzera, quantunque ricordi di esse­ re stato allora affascinato maggiormente dagli inglesi che vennero a os­ servare la Jungfrau coi telescopi. Nel 1928 Ida Rubinstejn mi com­ missionò la composizione di un intero balletto. Il trentacinquesimo anniversario della morte di Cajkovskij cadeva nel 1928 - l’anniver­ sario era stato ricordato nelle chiese russe di Parigi — e perciò io conce­ pii l’omaggio al mio compatriota come un lavoro commemorativo. Scel­ si La regina delle nevi di Andersen perché faceva pensare a un’allegoria dello stesso Cajkovskij. Il bacio che la fata dà al bambino sul tallone è anche il segno della predilezione delle muse al momento della nascita di Cajkovskij (anche se la musa non rivendica Cajkovskij nel giorno del suo matrimonio, come invece faceva con il giovane nel balletto, ben­ sì quando egli è al culmine dei suoi mezzi espressivi). Le baiser fu com­ posto a Talloires tra l’aprile e il settembre del 1928. L’unica regola che seguii nello scegliere le musiche fu quella di non utilizzare nessun pezzo che fosse già stato orchestrato da Cajkovskij : cioè la mia scelta avrebbe dovuto basarsi sulla sua musica pianistica e vocale. Circa me­ tà di quella musica mi era già familiare; gli altri pezzi erano nuove sco­ perte. Al momento attuale ricordo soltanto vagamente qual è la musi­ ca originale di Cajkovskij e quale la mia. Comunque, per quel che ri­ cordo, ecco le attribuzioni esatte:

1. 2. 3. 4. 5. 6.

7. 8. 9. io. 11.

Inizio, Berceuse di Cajkovskij. La melodia del n. 2 è mia. La musica del n. 11 è mia. Una figura del n. 18 e al n. 23 proviene dalla melodia Serata d’inverno, Opus 54 n. 7, di Cajkovskij. La musica del n. 27 è mia. L’inizio del secondo quadro è la Humoresque di Cajkovskij, ma il quartetto d’archi è lo sviluppo che ne ho fatto io, e l’intera parte iniziale del quadro è la mia Bearbeitung. Il n, 63 è «Il muzik che suona la fisarmonica» di Cajkovskij. La musica del n. 70 è mia, ma quella nel n. 73 è di Cajkovskij. La valse è la Nata valse di Cajkovskij. Un. 99 è sviluppo mio. La musica del n. 108 è mia. Volevo imitare la fée Carabosse e 1’entr'acte sympbonique della Bella addormentata.

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12. L’inizio del terzo quadro è di nuovo musica mia ad imitazione nuovamente dell’entr’acte della Bella addormentata. 13. Un. 131’è un pezzo per pianoforte di Cajkovskij, ma lo svilup­ po ritmico alla seconda battuta del n. 134 è mio. (L’ascoltatore può confrontare questo sviluppo con il mio Orpheus al n. 50). Il n. 158 è una mia imitazione della famosa variazione della Bella addormentata. 14. La melodia della seconda e della terza battuta del n. 166 è di Cajkovskij, ma la parte dell’arpa è mia. Anche la cadenza del n. 168 è mia. 15. Le Variazioni del n. 175 e la coda del 181 sono entrambi pezzi miei. 16. Il n. 205 è «Nient’altro che cuore solitario». 17. Non ricordo se il 213 è mio oppure di Cajkovskij, ma l’a solo del corno alla fine è mio. Le baiser de la fée causò la rottura definitiva della mia amicizia con Djagilev. Non volle perdonarmi il fatto di aver accettato la commissio­ ne fattami da Ida Rubinstejn e, sia privatamente sia a mezzo della stampa, condannò a tutta voce il balletto e me. («Notre Igor' aime seulement l’argent». Infatti Mme Rubinstejn mi aveva pagato 7500 dol­ lari per Le baiser e mi avrebbe pagato in seguito la stessa somma per Perséphone). Djagilev però era seccato con me anche per un’altra ra­ gione. Desiderava ardentemente che applaudissi al genio del suo piu recente prodigio, cosa che non mi sentivo di fare per la semplice ragio­ ne che il suo più recente prodigio non era affatto un genio. I rapporti tra noi perciò si ruppero completamente, e il nostro ultimo incontro fu cosi strano che qualche volta penso che non sia successo a me ma l’abbia invece letto in qualche romanzo. Un giorno di maggio del 1929 entrai alla Gare du Nord di passaggio per Londra. Tutt’a un tratto vidi Dja­ gilev, il suo nuovo prodigio e Boris Kochno che lo accompagnavano a Londra. Djagilev, accorgendosi che non poteva evitarmi, si rivolse a me con imbarazzata gentilezza. Ci recammo separatamente nelle nostre cabine della carrozza letto, ed egli non usci dalla sua. Non lo rividi più. r. c. : Due settimane prima della morte di Cajkovskij suo padre can­ tò nella rappresentazione del cinquantesimo anniversario della com­ posizione di Ruslan e Ljudmila, e so che proprio a quella rappresenta­ zione lei vide Cajkovskij nel foyer. Cos’altro ricorda di quella serata? 1. s. : Fu la serata più eccitante della mia vita e del tutto inaspettata, Questa sezione ha una certa affinità con lo scherzo della sinfonia Manfred.

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perché non avevo assolutamente nessuna speranza di poter assistere a queU’opera; si vedevano raramente ragazzi di undici anni a importanti avvenimenti mondano-sociali. L’anniversario del mezzo secolo di Rus­ lan era stato dichiarato festa nazionale, comunque, e mio padre deve aver ritenuto che quell’occasione fosse importante per la mia educa­ zione. Proprio poco prima dell’inizio della rappresentazione, Bertha irruppe in camera mia dicendo: - Presto, presto, andiamo anche noi —. Mi vestii rapidamente e fui issato sulla carrozza da mia madre. Ricordo che quella sera il Mariinskij era addobbato con molta profusione, e profumato in modo gradevole, ed io potrei ritrovare ancora adesso il mio posto a teatro; in realtà l’occhio della mia memoria balza su di esso come la limatura del ferro su una calamita. La rappresentazione era stata preceduta da una particolare cerimonia e da una parata; il po­ vero Glinka, che era solamente una specie di Rossini russo, era stato beethovenizzato e monumentalizzato come una gloria nazionale. Guar­ dai la rappresentazione attraverso un piccolo binocolo di madreperla di mia madre. Durante il primo intervallo scendemmo dal nostro palco al piccolo foyer ’. Improvvisamente mia madre mi disse: - Igor', guarda, ecco Cajkovskij -. Guardai e vidi un uomo con capelli bianchi, grandi spalle e retro corpulento, e questa immagine è rimasta nella retina della mia memoria per tutta la vita. Dopo la rappresentazione fu dato un ricevimento a casa nostra e il busto di Glinka, che stava su un piedistallo nella camera da musica di mio padre, fu inghirlandato per l’occasione e ornato di candele. Ricor­ do pure che si fecero brindisi a base di vodka e che fu servito un grande pranzo. (Ciò che invece non riesco a spiegare è il fatto che io vi parteci­ passi, dal momento che doveva essere proprio molto tardi; Ruslan è un’opera in cinque atti, e gli intervalli al Mariinskij erano abbastanza lunghi da permettere di consumare portate consecutive di un pranzo tra un atto e l’altro. La rappresentazione iniziava alle otto, e non poteva es­ sere terminata prima della mezzanotte). La morte di Cajkovskij, avvenuta due settimane dopo, fu un grave colpo per me. Incidentalmente, la fama del compositore era talmente grande che, allorché si seppe che egli si era preso il colera, il governo pubblicava regolari bollettini sul decorso della sua malattia. (Non tutti però sapevano chi fosse. Quando andai a scuola e tutto terrificato an­ nunciai ai miei compagni che Cajkovskij era morto, uno di loro volle sapere a quale classe appartenesse). Ricordo due concerti commemora1 Alcune persone vi si stavano già dirigendo.

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tivi, uno al Conservatorio diretto da Rimskij (ne conservo ancora il bi­ glietto d’ingresso), e l’altro alla «Reunion des Nobles», diretto da Nàpravnik, che includeva la Patetica. Il ritratto del compositore compariva sulla copertina di quest’ultimo programma ed era listato a lutto. r. c. : Ricorda i cambiamenti cronologici delle sue abitazioni, la geo­ grafia dei suoi domicili principali? i. s.: Nel maggio del 1910, quando lasciai Pietroburgo e il mio appartamento sulla Prospettiva Inglese — dove avevo composto L} uc­ cello di fuoco — non avevo il minimo sospetto che avrei rivisto la mia città natale solo una volta e solo per pochi giorni. Non potevo neppure credere che sarei andato ad abitare in Svizzera, benché ricordassi con te­ nerezza quel paese fin dai tempi della mia infanzia. Avevo accompagnato i miei genitori a Interlaken nell’estate del 1895, ed eravamo poi tornati in Svizzera parecchie volte negli anni successivi. La Svizzera a quel tem­ po era considerata dai russi un luogo alla moda, e i miei genitori non facevano che obbedire a quella moda. In seguito, dopo la première delVUccello di fuoco, provai il desiderio di visitare quella Svizzera che avevo conosciuto nella mia infanzia e di conseguenza verso la fine del 1910 traslocammo a Chardon Jogny, un villaggio situato intorno alla seconda fermata della funicolare sopra Vevey. Di là, poco tempo do­ po, ci trasferimmo a Clarens, dove vivemmo en pension all’Hotel Chatelard. Nel 1913 abitammo di nuovo in questa casa-albergo ed io com­ posi là le mie Liriche giapponesi. (A quel tempo Ravel viveva con sua madre all’Hotel des Crètes, situato ai piedi della collina e vicino alla stazione, e noi eravamo sempre insieme. Il grande avvenimento della mia vita di allora fu l’esecuzione di Pierrot lunaire che avevo sentito a Berlino nel dicembre del 1912. Anche Ravel fu subito contaminato dal mio entusiasmo per Pierrot, mentre Debussy, quando gliene parlai, si limitò a squadrarmi senza dire nulla. Fu per questo che Debussy scris­ se in seguito al suo amico Godet che «Stravinsky sta pericolosamente passando du coté de Schonberg»?) Nel frattempo, dal 1911 al 1913, abitammo alla pension Les Tilleuls (I Tigli) situata dietro lo Chatelard ma più in alto, sulla collina; fu là che composi il Sacre. Al principio del 1914 andammo ad abitare per due mesi a Leysin, perché si pensava che una maggiore altitudine si confacesse alla salute di mia moglie. Cocteau venne a farci visita insieme con Paulet Thévenaz, un giovane pittore svizzero per il quale provava molto interesse in quel periodo; Thévenaz fece un ritratto a me e uno a mia moglie. Nel luglio di quel­ l’anno ci spostammo in uno chalet del bois de Melèze vicino a Salvan, nel Valais du Rhone, casa che prendemmo in affitto dai contadini del

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luogo; ero stato a Londra verso la fine di giugno per le rappresenta­ zioni del Rossignol e da Londra tornai a Salvan, dove composi Pri­ bautki ed i Tre pezzi per quartetto d'archi. Alla fine d’agosto tornam­ mo a Clarens ed affittammo La Pervenche, un cottage vicinissimo a Les Tilleuls; fu là che cominciai Les noces. Traslocammo di nuovo nella primavera del 1915, questa volta a Chateau d’Oex, a est di Montreux. Questo nuovo cambiamento doveva essere una vacanza, ma durante la permanenza a Chateau d’Oex cominciai a comporre Renard. Inoltre du­ rante il nostro soggiorno colà avvenne il terremoto di Avezzano ed io ricordo di essere stato svegliato bruscamente durante il sonno e di aver visto la mia armoire saltellare verso di me come un uomo dalle mani e dai piedi legati. Da Chateau d’Oex andammo ad abitare nella Villa Rogievue a Morges, dove rimanemmo fino al 1917. Al principio del 1917 ci trasferimmo in un appartamento al secondo piano della Maison Bornand, sempre a Morges (2, Rue St. Louis), una costruzione del xvn se­ colo cui fu poi aggiunta, nel cortile, - io la vidi qualche anno fa — una statua di Paderewski. (Ero stato per anni vicino di Paderewski a Mor­ ges, ma non avevo mai fatto la sua conoscenza; mi si disse poi che, allor­ ché gli chiesero se desiderava conoscermi, egli rispose: - Non, merci; Stravinsky et moi, nous nageons dans des lacs bien differents —). Sola­ mente una vacanza estiva interruppe un soggiorno durato tre anni in questa nostra ultima residenza svizzera: trascorremmo infatti l’estate del 1917 in uno chalet vicino ai Diablerets. La Svizzera rappresentò lo stadio ciclistico della mia vita. Là la bi­ cicletta fu infatti il mio principale mezzo di locomozione, e ne divenni un esperto: ero capace di andare senza tenere il manubrio. Pedalai più di una volta per tutto il tratto tra Morges e Neuchatel con il mio amico Charles-Albert Cingria, fermandoci en route a Yverdon per bere il sin­ cero vin du pays, e ripartire poi un po’ barcollanti. Lasciammo definitivamente la Svizzera nell’estate del 1920, trasfe­ rendoci prima a Carantec in Bretagna, e poi, in autunno, nella casa di Gabrielle Chanel a Garches, vicino a Parigi. Garches fu la nostra abita­ zione per tutto quell’inverno e fino alla primavera del 1921, allorché ci trasferimmo in una casa sul mare ad Anglet presso Biarritz. Biarritz ci piacque cosi tanto, che affittammo una casa nel centro della città (Villa des Rochers) e ci rimanemmo fino al 1924. Durante la permanenza a Biarritz divenni una specie di aficionado, e assistetti alla corrida ogni volta che mi fu possibile. Ero con il mio amico Artur Rubinstein ad una corrida a Bayonne nel tragico momento in cui un toro caricò una banderilla che volò in aria e poi trafisse al cuore il console generale del

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Guatemala che si trovava in piedi vicino al recinto e che mori sul colpo. Sempre a Biarritz firmai un contratto della durata di sei anni con la Com­ pagnia Pleyel di Parigi, contratto con il quale mi impegnavo a trascri­ vere tutte le mie composizioni per la loro pianola, la Pleyela, in cambio di tremila franchi al mese e dell’uso di uno dei loro studi di Parigi. Rima­ nevo anche a dormire in questo studio Pleyela e addirittura vi invitavo gente, per cui penso che esso possa essere considerato come una delle mie «residenze». (Le mie trascrizioni per la Pleyela, esercizi dimenticati e senza scopo, rappresentarono centinaia di ore di lavoro e furono di gran­ de importanza per me a quell’epoca. Il mio interesse per le pianole da­ tava dal 1914, quando ne avevo visto la prima dimostrazione all’Aeolian Company di Londra. La Aeolian mi scrisse durante la guerra per of­ frirmi un discreto compenso in cambio di una composizione originale per pianola. L’idea di essere eseguito da rulli di carta perforata mi divertiva, ed ero attratto dal meccanismo di quello strumento. La mia Etude per pianola fu composta nel 1917, ma non dimenticai quello strumento neanche più tardi. Quando sei anni dopo cominciai il mio lavoro di tra­ scrizione per Pleyel, mi feci prestare uno dei loro strumenti per studiarne direttamente il meccanismo. Scoprii che il problema più importante con­ sisteva nell’applicazione restrittiva dei pedali, provocata dalla divisione in due parti della tastiera; era come il Cinerama o come una pellicola mo­ strata da due proiettori: metà dall’uno, metà dall’altro. Risolsi il pro­ blema impiegando due segretarie che sedevano ai miei fianchi mentre io rimanevo in piedi davanti alla tastiera; dettavo loro via via che trascri­ vevo, da destra a sinistra, e a ciascuna di esse alternativamente. La mia esperienza con questo strumento schizoide deve avere influenzato la mu­ sica che allora componevo, per lo meno quando si trattava di rapporti di tempo e di sfumature di tempo: anzi di mancanza di sfumature di tem­ po. Dovrei ancora aggiungere che molte delle mie trascrizioni per Pleye­ la, specialmente quelle di opere vocali come Les noces e i canti russi, fu­ rono virtualmente ricomposte per quello strumento). Ci trasferimmo a Nizza nel 1924, al bel et age di una casa al 167 di Boulevard Carnot. La prima cosa che accadde a Nizza fu che i miei quat­ tro bambini presero tutti la difterite. E a Nizza cominciò il periodo auto­ mobilistico della mia vita. (E fini. Avevo pensato di essere un abile au­ tomobilista, prima con la mia Renault e in seguito con la mia Hotchkiss, ma non fui mai capace di guidare a Parigi e non ebbi mai il coraggio di guidare negli Stati Uniti, dove, comunque, cominciò per me il periodo dell’aeroplano). Risiedemmo a Nizza fino alla primavera del 1931, quan­ tunque fossimo andati al Lac d’Annecy (Talloires) durante l’estate 1927, 1928 e 1929, e ad Echarvines les Bains (Dauphine), nello Chalet des

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Echarvines, durante Pestate del 1930. All’inizio del 1931 ci trasferimmo da Nizza allo Chateau de la Vironnière, vicino Voreppe (Grenoble). Vi abitammo tre anni, ad eccezione dell’inverno 1933-34, che passammo in una casa ammobiliata di Rue Viet a Parigi. Verso la fine del 1934 andam­ mo ad abitare al 123 di Rue du Faubourg St-Honoré a Parigi e questo fu l’ultimo e il piu infelice recapito europeo, a causa della morte di mia moglie, della mia figlia maggiore e di mia madre. (Divenni cittadino francese il io giugno 1934. L’anno successivo Paul Dukas morì e i miei amici francesi mi spinsero a sollecitare la mia elezione al suo seggio all’Institut de France. Ero contrario a quell’idea, ma Paul Valéry mi incoraggiò a tentare parlandomi dei privilegi go­ duti dagli accademici. Andai rispettosamente a rendere visita a Mau­ rice Denis, a Charles-Marie Widor, e ad altri attempati elettori di quel genere, ma fui orribilmente sconfitto a favore di Florent Schmitt - co­ sa che riuscì quasi a capovolgere la mia opinione che le accademie siano costituite da cattivi artisti che cercano di distinguersi con l’eleggerne in seguito alcuni buoni — tipico caso degli onorandi che onorano gli ono­ rati). Nel settembre del 1939 venni in America. La nave, la S S Manhattan, era affollata, come il traghetto di Hong-Kong; la mia cabina era occu­ pata da altri sei passeggeri, quantunque ognuno di noi sette avesse pa­ gato per una cabina singola. A bordo c’era anche Toscanini, però io non lo vidi. Si diceva che si fosse rifiutato di entrare nella sua cabina che ospitava anch’essa altri sei passeggeri, e che dormisse nella sala di ritro­ vo della nave oppure, come il capitano Achab e in preda allo stesso fu­ rore, andasse su e giù per i ponti. Da New York, dove arrivammo il 30 settembre, andai a Cambridge, dove vissi fino a dicembre nella « Gerry’s Landing», la confortevole casa di Edward Forbes, uomo gentile e colto che somigliava in modo notevole a suo nonno, Ralph Waldo Emerson; questo fu il periodo delle mie conferenze a Harvard. In dicembre an­ dai a dirigere alcuni concerti a San Francisco e a Los Angeles, tornai poi a New York per incontrarmi con la mia futura moglie, Vera de Bosset, che arrivò da Genova con il Rex il 13 gennaio. Ci sposammo a Bedford nel Massachusetts, il 9 marzo del 1940 (il matrimonio ebbe luogo nella casa del dottor Taracuzio, un russo che era professore a Harvard), e an­ dammo ad abitare all’Hotel Hemenway (a Boston) fino a maggio. Da Boston andammo a New York e a Galveston in nave, e di là fino a Los Angeles in treno. Avevo pensato di andare ad abitare da qualche parte nell’orrendo ma vivo agglomerato di Los Angeles fin dal tempo del mio primo viaggio, nel 1935, prima di tutto per ragioni di salute, poi perché Los Angeles mi pareva il luogo più adatto d’America per cominciare la

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mia nuova vita. Nell’agosto del 1940 entrammo negli Stati Uniti dal Messico come facenti parte della quota di immigrazione russa, e subito cominciammo a richiedere i documenti necessari per la naturalizzazio­ ne. Ricordo che uno degli ufficiali addetti agli uffici dell’immigrazione mi chiese se volevo cambiare nome. Era la domanda più inaspettata che avessi mai sentito, e mi misi a ridere, al che l’ufficiale disse : — Be’, la mag­ gior parte di loro lo fa —. Diventammo cittadini statunitensi il 28 dicem­ bre 1945. (Edward G. Robinson era venuto a testimoniare la mia iden­ tità, ma nel procedimento legale si scoprì che pure lui era stato residente illegale, per ragioni tecniche, negli ultimi quarant’anni). I miei ultimi re­ capiti sono stati: 124 South Swall Drive, Beverly Hills, dal maggio al novembre del 1940 (dove terminai la Sinfonia in do); Chateau Marmont, Hollywood, dal marzo all’aprile del 1941; e infine l’ultima, la più lun­ ga, la più felice e, vorrei sperare, la dimora conclusiva — anche se sono ancora un viaggiatore accanito, in ogni senso della parola — anche que­ sta a Hollywood. r. c.: Quale repertorio concertistico e operistico ascoltò a Pietro­ burgo, e, soprattutto, quali composizioni di nuovi autori come Strauss, Mahler, Debussy, Ravel, ricorda di avervi ascoltato? 1. s. : Mi trovai per la prima volta di fronte alla musica di Strauss nel 1904 o 1905, con Ein Heldenleben, Zarathustra, Till Eulenspiegel, e Tod und Verklarung, tutti eseguiti a Pietroburgo nell’anno successivo, ma quest’ordine inverso di presa di conoscenza distrusse qualsiasi ap­ prezzamento positivo che avrei potuto altrimenti formarmi. Il magnilo­ quente e il rodomontesco di quel primo Heldenleben mi furono utili solo come un emetico. Sentii Salome e Elektra a Londra nel 1912, diret­ te da Strauss in persona, ma non vidi altre opere di Strauss fin dopo la guerra quando assistetti per caso alle rappresentazioni di Der Rosenkavalier e di Ariadne in Germania. Ammirai l’evocazione musicale di quella catatonica Valchiria, Elettra, senza ammirare la musica. (Voglio dire la musica che esprime gli stati d’animo di Elettra, proprio prima dell’entrata di Crisotemide e più oltre quando invoca « Orest, Orest»). Ho rispetto per la tecnica teatrale di tutte le opere di Strauss che cono­ sco (specialmente, forse, per quella del Capriccio *), ma non mi piace la musica sciropposa, e penso di essere equo nel non riconoscere a Strauss 1 La gioiosa fuga del Capriccio e il duetto italiano che la precede mi piacciono piu di qual­ siasi altra cosa di Strauss. Pure il coro dei servi verso la fine va avanti bene per qualche battuta. (Anche se Verdi riesce mille volte meglio in questo genere di cose, e questo accenno a Verdi è sufficiente per constatare fino a che punto il Capriccio sia opera di un epigono). La principale critica che muovo al Capriccio è che la sua musica mi soffoca. Strauss non sa né come né quan­ do usare la punteggiatura. La sua muscolatura è priva di misura.

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alcuna influenza sulla mia formazione musicale. Mahler diresse la sua Quinta sinfonia a Pietroburgo. Come ho già detto altrove, fui molto colpito da Mahler come persona. La sua Quarta sinfonia, nell’insieme, è tuttora il lavoro che preferisco fra quelli scritti in questa forma. Debussy e Ravel venivano eseguiti raramente nel decennio precedente L'uccello di fuoco, ma quali e quante fossero le esecuzioni che avevan luogo, erano tutte dovute agli sforzi di Aleksandr Siloti *, paladino della musica nuova, degno di essere ricordato; fu Siloti che persuase Schon­ berg a dirigere nel 1912 il suo Pelleas und Melisande a Pietroburgo. Le esecuzioni che Siloti fece dei Nocturnes e dell’Après-midi d’un faune di Debussy furono tra gli avvenimenti più importanti della mia giovinez­ za. L’après-midi d’un faune fu eseguito tra schiamazzi, fischi e risate, ma l’effetto di quell’incantevole a solo del flauto, del lungo silenzio, degli arpeggi dell’arpa e dei corni, specialmente dopo tutto quel baccano post-wagneriano, non ne fu distrutto. Un fatto che potrà sorprendere è che sentii La mer per la prima volta soltanto nel 1911 o 1912, a Parigi, diretta, credo, da Monteux. (Fu Debussy che mi condusse a quell’esecu­ zione. Ricordo che passò a prendermi con una nuova automobile, il cui chassis era ricoperto di vìmini, e ricordo che un autista stava accanto a Debussy e non si rimetteva il berretto in testa fin che quest’ultimo non fosse salito in macchina. Ravel lo canzonava moltissimo per questo, ma il tenore di vita di Debussy, dopo aver sposato la Bardac, era molto fastoso. Ricordo pure che durante l’intervallo Debussy mi parlò della prima esecuzione della Mer. Mi disse che i violinisti, durante le prove, avevano imbandierato la punta dei loro archetti con fazzoletti, in segno di scherno e di protesta). La mia conoscenza delle opere pianistiche e vocali di Debussy, al tempo di Pietroburgo, era molto scarsa. La musi­ ca pianistica di Ravel invece mi era più nota, e non soltanto la musica pianistica. La maggior parte dei musicisti della mia generazione consi­ deravano la Rhapsodie espagnole, anch’essa diretta da Siloti, come il dernier cri in fatto di sottigliezza armonica e di brillantezza orchestrale (nonostante ciò sembri adesso incredibile). Nessuno però, né Ravel, né Mahler, né Debussy, né Strauss era tenuto in tanta considerazione per quintessenza di modernità quanto Aleksandr Skrjabin il nostro genio locale. Il Poème divin, Prometheus, e il Poème de l’extase, quei casi gra­ vissimi di enfisema musicale, come pure la più interessante Sonata n. 7, erano ritenuti all’ultima moda come il Mètro parigino. 1 Siloti, nato in Crimea ma di origine genovese, era un uomo cordiale e generoso. Gli sono profondamente grato per i suoi sforzi a favore della mia musica in Russia sia prima sia dopo la Rivo­ luzione.

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Però esecuzioni di nuova musica esplorativa di questo genere erano piuttosto eccezionali. La musica «nuova» di cui per lo più ci nutrivamo era costituita dalle sinfonie e dai poemi sinfonici di Vincent d’Indy, Saint-Saèns, Chausson, Franck, Bizet. Nel regno della musica da camera, i compositori francesi «moderni» eseguiti più spesso erano Roussel e Fauré. (In seguito feci la conoscenza di Roussel, a una rappresentazione dell’Uocello di fuoco, e da allora restammo amici fino alla sua morte. Co­ nobbi pure Fauré, al tempo della sua Fénélope, che avevo sentito nel maggio del 1913, poco prima della première del Sacre. Ravel mi presen­ tò a lui a un concerto alla Salle Gaveau. Vidi un anziano signore dai ca­ pelli bianchi, sordo e dal viso molto cordiale: infatti per la sua gentilez­ za e per la sua semplicità veniva paragonato a Bruckner). Il repertorio delle orchestre di Pietroburgo di quegli anni era depri­ mente. I classici dei nostri concerti erano i poemi sinfonici di Liszt, Raff e Smetana, le ouverture di Litolff {Maximilien Robespierre), Berlioz, Mendelssohn, Weber, e Ambroise Thomas, i concerti di Chopin, Grieg, Bruch, Vieuxtemps, Wieniawski. Haydn, Mozart e Beethoven erano ese­ guiti, naturalmente, però male, e sempre con i soliti pochi pezzi, sempre gli stessi. Non sentii mai in Russia le molte sinfonie di Haydn che ades­ so costituiscono la mia gioia, e neppure le serenate per strumenti a fiato di Mozart o la Messa in do minore (per esempio) - in verità, le esecuzio­ ni mozartiane erano limitate a tre sinfonie, sempre le stesse. Dei sinfoni­ sti più recenti venivano eseguite la Antar di Rimskij e la Seconda di Bo­ rodin, con la massiccia proporzione di dodici a uno rispetto a una sin­ fonia di Brahms o di Bruckner. (Imparai a conoscere la musica di Bruckner fin dall’infanzia suonandola a quattro mani con mio zio Jela­ cic, ma non imparai mai ad amarla)1. Le rappresentazioni di opere raggiungevano talvolta un alto livello a Pietroburgo, e la stagione operistica età di gran lunga più interessante di quella sinfonica, ma sebbene avessi visto a Pietroburgo Figaro e Don Giovanni, non sentii mai una nota del Serraglio, di Cosi o del Flauto magico. Anche Don Giovanni veniva mal eseguito, ma allora non prova­ vo alcuna ispirazione per le rappresentazioni di Mozart fin quando, mol­ 1 Non ho ancora imparato ad amare Bruckner, sono arrivato però a rispettarlo e penso che l’Adagio della sua Nona sinfonia debba essere considerato uno dei pezzi piu sinceramente ispirati fra quelli scritti in forma sinfonica. In verità, Mahler sembra essere molto meno originale di Bruckner quando si conosce questa musica, e nessun compositore di quel periodo è tanto personale come armonista quanto Bruckner (cfr. le battute 8.5-86 del flauto e dei violini; le tube tenori alla lettera P; il suono da organo di chiesa alla lettera O; e tutta la straordinaria parte finale, battute 219235). Sorpassate sono pure le ripetizioni cosi caratteristiche delle prime sinfonie, ripetizioni tipi­ che del nevrotico coercitivo che doveva anche adempiere un certo numero di iterazioni musicali per poter soddisfare la sua nevrosi.

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ti anni dopo, non sentii Alexander von Zemlinsky dirigere Figaro a Pra­ ga. Di Rossini conoscevo solamente il Barbiere. Mio padre aveva spesso cantato la parte di Gessler nel Guglielmo Teli, ma non sentii mai quel­ l’opera in Russia (e neppure altrove, in effetti, prima degli anni trenta, quando fu rappresentato a Parigi, suppergiù nello stesso periodo in cui fu rappresentata L’italiana in Algeri, quest’ultima cantata dalla Supervia). Norma era l’unica opera di Bellini che si rappresentava a Pietroburgo, ai tempi della mia giovinezza, e Lucia e Don Pasquale le uniche opere di Donizetti; mi ricordai dell’a solo della tromba nel Don Pasquale - quan­ to tempo fa! — quando scrissi II libertino. Considero tuttora Donizetti come un compositore trascurato che nei suoi momenti migliori - l’ulti­ ma scena di Anna Bolena - è buono tanto quanto il miglior Verdi de l’époque. Tra le opere di Verdi, Traviata, Trovatore, Rigoletto, Aida, e - insolita fortuna - Otello, venivano rappresentate, non però Falstaff, naturalmente, e neppure Don Carlos, o Fin ballo in maschera o La forza. Verdi era sempre oggetto di controversie a Pietroburgo. Cajkovskij ave­ va molta ammirazione per lui, ma il gruppo di Rimskij lo avversava. Quando con Rimskij parlavo in modo ammirato di Verdi, questi mi lan­ ciava lo sguardo che mi lancerebbe Boulez se gli proponessi di far suo­ nare le mie Scènes de ballet a Darmstadt. Comunque però nessuna delle opere cui ho accennato finora era cosi popolare come Allegre comari di Nicolai (sentii mio padre cantare in quest’opera un mucchio di volte); seguiva poi Manon di Massenet (Debussy mi stupì, negli anni seguenti, con la sua difesa di quest’opera stucchevole); poi ancora La sposa ven­ duta, Der Freischutz, Carmen, Faust di Gounod, Cav e Pag1; e quella specie di Monumenti musicali a Vittorio Emanuele II tipo Les hugue­ nots, L’africaine, e Le prophète. Le opere di Wagner (a eccezione di Parsifal1, che a quell’epoca era rappresentato soltanto a Bayreuth) ve­ nivano allestite, naturalmente, e cantate in russo. Penso di dover aggiun­ gere che Tristano era una delle opere preferite dallo zar Nicola IL Chi sa perché? Avevo sentito parlare di questo gusto inaspettato dello zar anche dal fratello della zarina, a un pranzo a Magonza nel 1931 o nel I932‘. Gli allestimenti operistici più vivi ed eccitanti erano comunque quel­ li di lavori di compositori della scuola russa: le opere di Glinka soprat­ tutto, ma anche quelle di Dargomyzskij, di Rimskij, di Cajkovskij, di1 2 1 [Si tratta ovviamente di Cavalleria e di Pagliacci^} 2 Conoscevo il Parsifal, quantunque solamente in partitura, e ne subii l’influenza fin dal 1908 (la parte lenta del mio Scherzo fantastico proviene proprio dalla musica del Venerdì Santo). Vidi poi il Parsifal a Bayreuth nel 1911, e a Monaco verso la metà degli anni venti.

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Borodin, e di Musorgskij. Sentii Boris1 molte volte, naturalmente, ma non nella versione originale. Subito dopo, come popolarità, veniva Prin­ cipe Igor'. (Borodin, incidentalmente, era buon amico di mio padre). Le opere di Cajkovskij che ricordo meglio erano Evgenij Onegin, Le pantofole d'oro, e la Dama di picche, ma di quest’ultima la migliore rappresentazione che abbia mai visto fu quella di Dresda negli anni ven­ ti, diretta da Fritz Busch. Credo di aver visto tutte le opere di Rimskij. Ricordo a ogni modo di aver visto Sadko, Mlada, Snegurocka, Mozart e Salieri, La notte di Natale, Kitez, Zar Saltan, Pan Voevoda (Il si­ gnor Governatore}, e Le coq d'or. Alcune parti del Coq d'or, ascoltate prima che l’opera venisse rappresentata pubblicamente, sono ancora vi­ ve in me, per il fatto che ero sempre a fianco di Rimskij. Le coq d'or era diventato un motivo d’incontro per studenti e liberali, poiché era stato proibito parecchie volte dalla censura zarista; la sua rappresentazione, quando si realizzò effettivamente, non avvenne al Mariinskij, bensì in un teatro privato della Prospettiva Nevskij. Rimskij non mostrò alcun in­ teresse per la piega politica della faccenda (per quanto non potesse es­ serne del tutto distaccato). Credo fosse troppo irrimediabilmente in­ namorato del soprano Zabela che cantava la parte della Regina di Shymakhan, per interessarsi d’altro. (Zabela era la moglie del pittore Vrubel'. Talvolta cantava melodie di Rimskij in riunioni mondane, e quando ciò accadeva il compositore quasi sveniva dal piacere). Un particolare della vita musicale di Pietroburgo era la chiusura dei teatri durante la Quaresima, che allora diventava stagione degli ora­ tori; Quaresima ed oratori sono degni l’uno dell’altro. La dannazione di Paust, il San Paolo di Mendelssohn, la Peri di Schumann, il Requiem di Brahms, le Stagioni e la Creazione', queste erano le offerte annuali. (Sono rimasto sorpreso e sconcertato da una recente esecuzione della Creazione a Los Angeles, nonostante i cori che anticipano quelli di Pidelio e nonostante la sua eterna chiarezza. La monotonia formale - che costituisce il limite di quel genere di composizioni - e la vacuità del­ l’arte ancien regime quando tende al grandioso, sono eccessive persino in Haydn). Tra gli oratori di Hàndel eseguiti, ricordo meglio il Messia e Giuda Maccabeo. (La fama di Hàndel rappresenta per me un altro 1 Qualcosa del Boris è passato nella mia prima opera, nella scena dell’imperatore sul letto di morte, che è certamente la scena migliore del Rossignol, cosi come l’aria della Morte e la folkloreggiante Berceuse, sono certamente quanto di meglio c’è in quella musica. Le rossignol prova for­ se soltanto che avevo ragione nel comporre balletti mentre non ero ancora pronto per scrivere una opera nonostante esistesse già qualche germe come l’idea del duetto maschile (tra ciambellano e bonzo) che avrei sviluppato in seguito in Renard, CEdipus, nel Canticum sacrum e in Tbreni, e la figura in sedicesimi dell’interludio del pescatore alla fine del primo atto, che è puro Baiser de la fée.

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enigma, e ho pensato molto a lui recentemente, dopo aver ascoltato Bal­ dassarre. L’esecuzione di Baldassarre non era sotto molti aspetti priva di difetti, naturalmente, soprattutto perché aveva solo due tempi, uno ve­ loce e l’altro lento. Ma, esecuzione a parte, la musica fa spesso assegna­ mento sulla stessa esposizione fugata, sullo stesso ovvio semicerchio di tonalità, sullo stesso ristretto spazio armonico; e quando un pezzo co­ mincia con un soggetto cromaticamente piu interessante, Hàndel di­ mentica costantemente di svilupparlo e di sfruttarlo; non appena sono presenti tutte le voci, la regolarità, armonica o di altra natura, domina su tutti gli episodi..In due ore di musica mi trovài a contatto di un solo stile, ma non provai mai quelle scosse meravigliose, quelle improvvise modulazioni, quegli inaspettati cambiamenti armonici, quelle cadenze sospese che fanno la gioia di ogni cantata di Bach, come ad esempio questo do naturale della Ich bin vergnugt\

Le invenzioni di Hàndel sono esteriori; egli può attingere alle ine­ sauribili riserve degli allegri o dei larghi, ma non può portare avanti un’idea musicale attraverso un grado sempre piu intenso di sviluppo).

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L’unica opera importante di Bach che potei ascoltare a Pietroburgo fu un’unica esecuzione della Passione secondo san Matteo, Questo catalogo della vita musicale di Pietroburgo è naturalmente incompleto, ma non sarebbe meno deprimente anche se fosse più parti­ colareggiato. Alcune omissioni sono più importanti delle inclusioni. Ascoltai molte volte Hansel e Gretel ma mai Fidelio. Il Principe Igor' era molto popolare, mentre non si rappresentava affatto II flauto magi­ co. Nei nostri concerti si eseguivano Grieg, Sinding, e Svendsen, ma non più di tre o quattro sinfonie di Haydn. Il Eobgesang di Mendelssohn e la Santa Elisabetta di Liszt erano generi primari di consumo, mentre non si eseguivano affatto la Passione secondo san Giovanni o la Frauer Ode. I miei orizzonti, quando ero bambino, venivano ampliati da viag­ gi in Germania, ma principalmente nel campo della musica leggera; ri­ cordo di aver visto, per esempio, Die Fledermaus e lo Zigeunerbaron a Francoforte quando mio zio Jelacic mi ci portò all’età di dieci anni, ma soltanto quando cominciai a viaggiare con Djagilev ebbi l’occasione di sentire molte opere nuove, e durante un solo anno trascorso sotto la sua egida sempre appassionata devo aver visto e udito più cose che nel­ l’intero decennio passato a Pietroburgo. (Incidentalmente, Djagilev era un cultore di Gilbert e Sullivan, e nei viaggi che facevamo a Londra pri­ ma della guerra quatti quatti si andava insieme a vedere I pirati di Pen­ zance y Patience, lolanthe, ecc.). Il primo commento che posso fare su questo elenco di spettacoli è plus que qa change plus c’est la mème chose ; l’idea repertoristica è ri­ masta la stessa anche oggi, benché la sua sostanza sia stata lievemente modificata Il secondo è che i contatti più proficui che ebbi con la mu­ sica nuova avvennero sempre all’estero e furono sempre fortuiti - Pier­ rot lunaire a Berlino, per esempio, benché in tutta franchezza debba ri­ levare che in Svizzera, durante i dieci anni che vi trascorsi, non abbia sentito nessuna musica nuova interessante e ben poca ne sentissi in se­ guito a Parigi. (Persi l’occasione di sentire la première parigina dei 1 Deploro la tendenza nei programmi dei concerti a separare la nuova musica dalla vecchia, e io stesso cerco, fin dove è possibile, di includere nei miei programmi musiche di tutti i periodi. Secondo me, il Vespro e V Incoronazione di Poppea dovrebbero essere eseguiti fianco a fianco con la Serenata di Schonberg; V Oratorio di Natale di Schiitz dovrebbe essere ascoltato insieme con il Kammerkonzert di Berg; la messa Praeter rerum seriem di Cipriano o la Messa festiva per l'inco­ ronazione di Vincenzo Gonzaga di Wert con i cori di Kafka di Kfenek; l’/hr/r di Handel o le anti­ fone di Martin Peerson (O God That No Time Doest Despise) accanto all’organistica Messe de la Penitence di Messiaen; pezzi di Sweelinck, Buxtehude, Byrd accanto a Differences di Berio o al Quintetto con clarinetto di Brahms; i mottetti Mariani di Tallis e la Missa cuiusvis toni di Ockeghem con il mio Sermon, a Narrative, and a Prayer.

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Cinque pezzi per orchestra di Schonberg nel 1922, e la première mon­ diale della sua Suite per sette strumenti nel 1927). E mentre vidi al suo primo apparire a Berlino la Dreigroschenoper \ semplicemente perché mi trovavo là, non vidi Wozzeck se non nel 1952. Quando però paragono il mondo musicale della mia giovinezza alla situazione attuale, in cui dischi di musiche nuove possono essere incisi pochi mesi dopo il completamento di una composizione, e in cui tutto il repertorio musicale è costantemente a portata di mano, non rimpiango il mio passato. L’esperienza che ebbi a Pietroburgo era piu limitata ma diretta, cosa che la rendeva forse piu rara e piu preziosa. Seduto nel buio del teatro Mariinskij, giudicavo, vedevo e udivo tutto direttamente e le mie impressioni erano immediate e indelebili. E dopo tutto, il mondo di Pietroburgo, nei due decenni precedenti L'uccello di fuoco, era un luogo molto eccitante in cui vivere. R. c. : Quali musiche di altri compositori ha diretto durante le sue tournées concertistiche? 1. s.: L’elenco è breve e temo che non sia molto significativo, dal momento che non indica nessuna tendenza o nessun gusto particolari. Le organizzazioni concertistiche mi hanno generalmente richiesto pro­ grammi interamente composti di musiche mie, per cui le occasioni di poter dirigere musiche di altri compositori sono state rare. Di solito vi è stato incluso un pezzo di un altro compositore quando il tempo per provare e preparare l’esecuzione di un altro mio lavoro era scarso. Però le opere che ho diretto furono scelte proprio da me, salvo due eccezio­ ni. Queste eccezioni furono l’ouverture àeAL Anacreonte di Cherubini, che Mengelberg mi aveva persuaso a dirigere per la semplice ragione che l’orchestra la conosceva e non c’era tempo per provare; e la Settima sin­ fonia di Schubert, che provai una volta a Milano per Scherchen, ma che non diressi in pubblico. Alcuni lavori di altri compositori furono inclu­ si nei miei programmi perché capitava che fossero nel repertorio dei so­ listi che vi partecipavano: l’ultimo Concerto per violino in re maggiore di Mozart, per esempio, il Concerto per violino di Cajkovskij, il Con­ certo per pianoforte in sol maggiore K. 453 di Mozart, il Concerto per pianoforte di Schumann, il Concerto per violoncello di Schumann, e il Concerto di Falla. Ho poi diretto spesso la Seconda sinfonia di Caj1 Feci la conoscenza di Weill a questa rappresentazione, e la coltivai in seguito, a Parigi, al tempo di Mahagonny e di Der Jasager, lavori che furono entrambi recitati, senza alcun allestimento scenico, in casa della contessa de Noailles e che io ammirai. Vidi Weill anche a Hollywood durante la guerra, e andai a congratularmi con lui in palcoscenico dopo la première di Lady in the Dark.

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kovskij1 e occasionalmente la Terza, ma non difendo, per questo, la causa di lavori costruiti in modo cosi accademico; fu un semplice ripie­ go dovuto alla loro durata e al tempo limitato per le prove, ma essi me­ ritano di essere ascoltati se non altro per essere bilanciati con le ultime sinfonie. Una volta diressi pure la Sesta sinfonia di Cajkovskij con l’or­ chestra di Filadelfia a Princeton, e persino la suite dello Schiaccianoci. La Serenata di Cajkovskij è un lavoro che mi piace molto ancora oggi, e l’ho diretto in parecchie occasioni. Ho anche diretto esecuzioni del Concerto brandeburghese n. 3, l’ouverture della Grotta di Fingai, l’ou­ verture della Turandot di Weber, la Kamarinskaja e l’ouverture del Ruslan di Glinka, il poema sinfonico Sadko di Rimskij, la Serenata di Mozart per archi e timpani, L'apprendista stregone, e Nuages e Fétes di Debussy. Temo però che le mie grandi ambizioni di direttore d’or­ chestra non si realizzeranno mai; eccole comunque: dirigere le prime quattro sinfonie e l’ottava di Beethoven, e, nel campo operistico, Fidelio. r. c. : Ricorda in quali circostanze diresse i due pezzi di Debussy? 1. s.: Li diressi a Roma, credo, nel 1932. L’organizzazione romana dei concerti mi aveva chiesto di dirigere «qualcosa di francese», il che naturalmente non poteva voler dire che Debussy. Comunque, quello che maggiormente ricordo di quel concerto fu il fatto che Mussolini mi mandò a chiamare e che io dovetti andare da lui. Fui portato nel suo studio a Palazzo Venezia, un lungo salone con un’unica grande scrivania che aveva ai lati brutte lampade moderne. Un uomo tarchiato e pelato mi aspettava. Appena mi avvicinai, Mussolini alzò gli occhi e disse: - Bonjour, Stravinsky, asuye-ez-vous — (asseyez-vous)'. il suo francese era corretto, ma la pronuncia era tipicamente italiana. Indossava un abi­ to scuro. Chiacchierammo un po’ sulla musica. Mi disse che suonava il violino, e io subito mi trattenni dal fare riferimento a Nerone. Fu calmo e sobrio, ma non estremamente cortese: nel congedarmi infatti dis­ se: — La prossima volta che verrete a Roma, venite a trovarmi, e io vi ri­ ceverò -. In seguito mi ricordai che aveva occhi crudeli. Infatti evitai di andare a Roma proprio per quella ragione fino al 1936. In quell’anno stavo provando con l’orchestra di Santa Cecilia quando comparve il conte Ciano che m’invitò a far visita a suo suocero. Ricordo di aver par­ lato a Ciano di una mostra di pittura italiana che in quel periodo si te­ neva a Parigi, e di aver espresso inquietudine per la sicurezza di quei 1 Questa sinfonia può ancora serbare qualche fascino se si tagliano le ripetizioni letterali del finale e se è eseguita con un certo senso dello stile; il fraseggio di tre battute dello Scherzo, per esempio, deve essere reso molto chiaro, e il ritmo caratteristico da marcia y J" J. J | J deve essere eseguito cosi y SI yj! IJ

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quadri in viaggi oltremare. Ciano borbottò qualcosa in risposta e disse: - Oh, abbiamo chilometri di cose simili -. Mussolini questa volta era circondato da un’assurda fastosità. Era in uniforme e per tutto il tempo fu un continuo via vai di personaggi militareschi. Fu più gaio e fanfaro­ ne della prima volta e i suoi gesti erano persino più ridicolmente teatra­ li. Aveva letto la mia autobiografia1 e a questo proposito borbottò qual­ cosa. Mi promise anche di venire al mio concerto. Gli sono grato di non aver mantenuto la promessa. r. c. : Vuol cercare di ricordare quali strumentisti, cantanti, diretto­ ri d’orchestra la colpirono maggiormente durante gli anni passati a Pie­ troburgo? 1. s.: Il primo che mi viene in mente è Leopold Auer, probabilmen­ te perché lo vidi più spesso di qualsiasi altro esecutore, ma anche perché fu molto gentile con me. Auer era «Solista di Sua Maestà», il che voleva dire suonare le parti solistiche nel Lago dei cigni per il Balletto impe­ riale. Ricordo di averlo visto entrare nella fossa orchestrale del Mariinskij, suonare al violino i suoi a solo (in piedi, come a un concerto), e poi uscirne di nuovo. La tecnica di Auer era magistrale, naturalmente, ma come accade spesso ai virtuosi, andava sprecata in musiche di se­ cond’ordine. Poteva suonare più volte i concerti di Vieuxtemps e di Wieniawski, ma si rifiutava di eseguire quelli di Cajkovskij e di Brahms. Auer si divertiva a parlare dei «segreti» della sua arte, e spesso si van­ tava di aver suonato ottave un po’ stonate «per aiutare il pubblico ad accorgersi che sto proprio suonando delle ottave». I nostri rapporti furo­ no sempre buoni, e continuai a vederlo anche in seguito durante viaggi all’estero (l’ultima volta fu a New York nel 1925, quando ci fotografa­ rono insieme con Kreisler). Sophie Menter, Josef Hofmann, Reisenauer, Paderewski, Sarasate, Ysaye, e Casals sono gli esecutori che ricordo al tempo della mia giovi­ nezza, e fra questi mi colpirono maggiormente Ysaye e Josef Hofmann. Andai una volta a trovare Ysaye durante un viaggio a Bruxelles negli anni venti, e gli dissi che ero rimasto commosso da giovane a Pietro­ burgo per il suo modo di suonare. Non feci mai la conoscenza di Sara­ sate, ma conobbi il suo amico Granados a Parigi, ai tempi dell 'Uccello di fuoco. (Granados e Albéniz erano allora le celebrità dei salotti pa­ rigini, e tutti avevano l’aria di considerarli come una specie di Schiller e Goethe spagnoli. Granados, personaggio dalla faccia scura e cespu­ gliosa, portava addosso una cintura portamonete carica d’oro. Cosa 1 [Chroniques de ma vie (2 voli.), Denoèl et Steel, Paris 1935 e 1936, trad. it. Cronache della mia vita, Minuziano, Milano 1947].

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che, senza dubbio, lo aiutò a colare a picco col Sussex, anche se, come cittadino di un paese neutrale, i tedeschi dovettero pagarlo a peso d’oro). Conobbi bene Hofmann, e il suo modo di suonare fu motivo di vero entusiasmo negli anni in cui mi interessavo al mio pianismo personale. Andammo insieme negli Stati Uniti sul Rex nel 1935, e al­ lora mi accorsi che aveva un carattere querulo e che beveva molto, cosa che peggiorava il difetto precedente. Non gli piaceva la mia mu­ sica, naturalmente, ma non mi aspettavo che me lo dicesse in faccia, come fece una sera in cui era al massimo della sincerità dovuta all’alcool, do­ po avermi sentito dirigere il mio Capriccio (a Rio de Janeiro, nel 1936). Non ricordo quasi nessun concerto di cantanti solisti a Pietroburgo, probabilmente perché i recital vocali sono per me una vera tortura. An­ dai comunque a sentire Adelina Patti, ma soltanto per pura curiosità, dal momento che, a quell’epoca, quella minuscola donna dalla smaglian­ te parrucca color arancio sembrava sbuffare come una pompa di bici­ cletta. I cantanti che ricordo erano tutti cantanti d’opera e l’unico no­ me famoso era quello di Saljapin. Uomo di grosso talento musicale e teatrale, Saljapin, nel suo periodo migliore, fu un esecutore straordina­ rio. Nella Pskovitjanka mi fece un’impressione maggiore che in qual­ siasi altra cosa, ma Rimskij non era d’accordo. («Cosa debbo fare? Ne sono l’autore, ed egli non presta alcuna attenzione a ciò che dico»). Le caratteristiche negative di Saljapin cominciarono ad apparire solamen­ te quando gli accadde di eseguire troppo spesso lo stesso ruolo, come Boris per esempio, nei cui panni divenne, a ogni successiva rappresenta­ zione, sempre più istrionico (in russo non esiste l’equivalente di gigio­ ne). Saljapin era anche un dotatissimo narratore di storielle, e all’età di ventuno, ventidue e ventitré anni, lo vedevo spesso da Rimskij e mi divertivo molto ai suoi racconti. Saljapin subentrò a mio padre come primo basso del Teatro Mariinskij, e ricordo la rappresentazione del Principe Igor nella quale mio padre spiegò al pubblico questo avvicen­ damento con un gesto, poiché sia mio padre che Saljapin venivano a rin­ graziare insieme, mio padre nel ruolo dell’ubriacone e Saljapin in quello del Principe. Mi vengono in mente tre tenori del Mariinskij: Sobinov, leggero e lirico, un Lenskij ideale; Ersov, tenore «eroico» e un Siegfried fuori del comune (cantò in seguito il Pescatore nell’allestimen­ to petroburghese del mio Rossignol); e Nikolaj Figner, l’amico di Caj­ kovskij e re dell’opera a Pietroburgo. Le principali cantanti erano Felija Litvin, che cantava Briinnhilde in modo soprendentemente brillante, sorprendente perché aveva una bocca piccolissima; e Marija Kuznecov, un soprano drammatico che era molto appetitosa da vedere oltre che da ascoltare.

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Ho già puntualizzato come il direttore d’orchestra che mi ha più col­ pito sia stato Gustav Mahler. Il che deve attribuirsi in parte al fatto che egli era anche compositore. I direttori più interessanti (benché, ovvio, non necessariamente i più abili o i più travolgenti) sono compositori, perché essi sono gli unici a poter avere una forza di penetrazione vera­ mente nuova della musica. I direttori d’orchestra che attualmente han­ no fatto maggiormente progredire la tecnica della direzione d’orchestra (comunicazione fra musicisti) sono infatti Boulez e Maderna: entram­ bi compositori. Quelle patetiche persone che sono i direttori d’orche­ stra di carriera, non possono calcare le orme di questi uomini perché sono solamente direttori di orchestra, e ciò porta con sé che essi si fer­ meranno sempre a un certo punto, in una qualche particolare nicchia del passato. C’erano naturalmente altri buoni direttori d’orchestra Motti, il cui Siegfried mi aveva molto colpito, Hans Richter, ecc. - ma la direzione di un’orchestra è qualcosa di molto simile a un circo, e talvolta è difficile distinguere un acrobata da un musicista. Nikisch, per esempio, dirigeva molto più per il pubblico che per la musica, i suoi programmi erano tutti concepiti in modo da assicurargli un successo personale. (Incontrai una volta Nikisch per strada nei pressi del Conser­ vatorio, poco dopo essergli stato presentato. Dovette aver riconosciuto qualcosa di me, probabilmente il mio grosso naso, sta di fatto che corse il rischio e disse: — Es freut mich so Sie zu sehen, Herr Bakst -). Ma la star dei direttori locali di Pietroburgo era Nàpravnik. Poiché i Nàpravnik e gli Stravinsky abitavano in case contigue, vedevo quasi ogni gior­ no quell’eminente direttore e lo conobbi molto bene. Mio padre aveva cantato nella sua opera Dubrovskij e noi a quel tempo eravamo in rap­ porti di amicizia con lui. Comunque, come succede alla maggior parte dei direttori d’orchestra di professione, la cultura di Nàpravnik era pri­ mitiva e il suo gusto poco sviluppato. Uomo piccolo ed energico, dal buon orecchio e dalla buona memoria, egli era padrone assoluto del Tea­ tro Mariinskij. Il suo ingresso in palcoscenico per un concerto o nella fossa orchestrale per un’opera, era davvero grandioso, ma ancora più emozionante era il suo gesto nell’atto di togliersi il guanto sinistro. (I direttori d’orchestra portavano allora guanti bianchi, per accrescere la visibilità dei loro movimenti - o almeno cosi dicevano; la mano sinistra di Nàpravnik, comunque, veniva usata soprattutto per aggiustarsi il pince-nez). Nessuna strip-teaser al momento della caduta dell’ultimo indumento fu mai osservata più attentamente di Nàpravnik mentre si spogliava di quel guanto. r. c. : Quali sono i suoi ricordi sulle circostanze che riguardano la composizione e la prima rappresentazione deWHistoire du soldat? Qua­

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le fu la fonte del libretto, quali idee teatrali furono sue e quali di C.-F, Ramuz? 1. s.: L’idea dell’Histoire du soldat mi venne nella primavera del 1917, ma non potei svilupparla a quel tempo, poiché ero ancora occu­ pato con Les noces e con l’incarico di ricavare un poema sinfonico dal Rossignol. L’idea di comporre uno spettacolo drammatico per un thea­ tre ambulant mi era comunque venuta in mente più di una volta fin dal­ l’inizio della guerra. Il genere di lavoro che immaginavo avrebbe do­ vuto essere cosi circoscritto nel numero degli esecutori da consentire rappresentazioni in un circuito di villaggi svizzeri, e così semplice nella trama del racconto da essere facilmente capito. Scoprii il mio soggetto in un racconto di Afanas'ev, quello del soldato e del Diavolo. Nella storia che mi colpì, il soldato raggira il Diavolo e lo induce a ubriacarsi di vodka. Gli dà poi da mangiare una manciata di pallini di piombo, facendogli credere che sia caviale, per cui il Diavolo li ingoia con in­ gordigia e muore. Trovai in seguito altri episodi delle avventure tra il Diavolo e il soldato e cominciai a lavorare cercando di cucirli insieme. Soltanto l’ossatura del lavoro è di Afanas'ev-Stravinsky, comunque, poiché la stesura finale del libretto va accreditata al mio amico e colla­ boratore C.-F. Ramuz. Lavorai con Ramuz, traducendogli riga per riga il mio testo russol. Le storie del soldato di Afanas'ev vennero raccolte dalle reclute con­ tadine reduci dalle guerre russo-turche. Quelle storie sono perciò cri­ stiane, e il Diavolo è il diabolus della cristianità, una persona, come sempre nella letteratura popolare russa, anche se persona dai molti tra­ vestimenti. La mia idea in origine era quella di trasporre il periodo e lo stile del nostro spettacolo in una epoca senza tempo e pur sempre nel 1918, calare i personaggi in molte nazionalità e in nessuna, senza di­ struggere lo «status» religioso-culturale del Diavolo. Perciò il soldato dell’allestimento originale era vestito con l’uniforme di soldato semplice svizzero del 1918, mentre l’abbigliamento del lepidotterofilo, e specialmente la foggia dei capelli erano quelli del periodo 1830. Perciò i nomi di luoghi come Denges e Denezy sembrano «vaudois» come assonan­ za, ma in effetti sono immaginari; questi regionalismi ed altri ancora - gli attori introducevano pure un po’ di patois del Canton de Vaud — potevano essere cambiati secondo il luogo in cui avveniva la rappresen­ tazione e, infatti, io incoraggio tuttora chi allestisce questo spettacolo a localizzarlo e, volendo, ad abbigliare il soldato con un’uniforme anche 1 [Nell’edizione inglese vi è qui la seguente nota: «Forse preferisco VHistoire nella versio­ ne tedesca. Mi rincresce di non aver visto la rappresentazione viennese con Harald Kreuzberg che faceva il Diavolo e Curd Jurgens il Soldato»].

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più remota nel tempo, purché simpatica al pubblico. Il nostro soldato, nel 1918, fu capito in modo molto preciso come vittima del conflitto mondiale allora in atto, nonostante la neutralità dello spettacolo per al­ tri aspetti. L'Histoire du soldat resta il mio unico lavoro teatrale con un riferimento al mondo contemporaneo. L’espediente del narratore fu adottato per soddisfare il bisogno di avere una specie di intermediario nelle due direzioni; cioè qualcuno che fosse un illusionista-interprete in mezzo agli stessi personaggi, e nello stesso tempo un commentatore tra il palcoscenico e il pubblico. L’in­ tervento del narratore nell’azione dello spettacolo fu comunque uno sviluppo ulteriore, un’idea presa da Pirandello. Fui attratto da quell’i­ dea, ma io sono sempre attratto dalle situazioni nuove, e quelle del tea­ tro costituiscono per me gran parte del suo fascino. Il ruolo del danza­ tore fu pure un concepimento successivo. Penso che dovessimo temere che lo spettacolo, senza la danza, sarebbe stato monotono. Le ristrettezze economiche previste per l’allestimento de\LHistoire originaria mi costrinsero a usare un gruppo ristretto di strumenti, ma questa restrizione non fu una limitazione perché le mie idee musicali erano già orientate verso uno stile strumentale solistico. La scelta degli strumenti fu influenzata da un avvenimento molto importante per la mia vita di allora, la scoperta del jazz americano. (È stato fatto notare che Le piège de Meduse [1913] di Satie presenta una combinazione di strumenti molto simile a quella deU'Histoire, ma io non conoscevo af­ fatto Le piège de Meduse}. Il gruppo strumentale d^Ltìistoire è si­ mile a quello della jazz band perché ogni famiglia strumentale - archi, legni, ottoni, percussione - è rappresentata da entrambi i componenti sia acuti sia gravi. Gli stessi strumenti sono quelli legali nel jazz, a ecce­ zione del fagotto che ho usato al posto del sassofono. (Il sassofono è più torbido e più penetrante del fagotto e perciò lo preferisco nelle combinazioni orchestrali, cosi come per esempio è usato da Berg nel Concerto per violino, o da Schonberg, specialmente il sassofono bari­ tono, in Von Heute auf Morgen}. L’impiego della percussione va anche considerato come manifestazione del mio entusiasmo per il jazz. Acqui­ stai gli strumenti in un negozio di musica di Losanna imparando a suo­ narli mentre componevo. (NB. L'altezza sonora dei tamburi è estremamente importante, e gli intervalli tra registri alti, medi e bassi devono avere il minor scarto possibile; l’esecutore deve fare altresì attenzione affinché nessun tamburo faccia pesare la propria «tonalità» sull’intero gruppo). La mia conoscenza del jazz si basava unicamente su qualche foglio di musica stampata, e dal momento che non avevo mai sentito nessuna esecuzione di quella musica ne adottavo lo stile ritmico non

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secondo la maniera in cui veniva suonata, ma secondo quella in cui era scritta. Potevo comunque immaginarmi il suono del jazz, o perlomeno così mi piaceva pensare. Il jazz a ogni modo significava un suono total­ mente nuovo nella mia musica, e THistoire segna la mia rottura defini­ tiva con la scuola orchestrale russa nella quale ero stato allevato. (Co­ rn’è diverso il mio jazz da quello di Lulu e di Der Wein, mentre forse non è molto diverso, poniamo, da quello della Terza sonata per violino di Ives). Se ogni buon pezzo di musica è caratterizzato da una propria particolarità sonora - Le marteau, per esempio, ha il suono di cubi di ghiaccio che tintinnano insieme in un bicchiere, e Refrain di Stockhau­ sen quello dei profondi gorgoglìi e dei forti disturbi atmosferici del­ la musica elettronica — allora i suoni caratteristici dell’Histoire sono lo stridore del violino e le interpunzioni dei tamburi. Il violino è l’ani­ ma del soldato, e i tamburi sono la diavoleria. La prima idea tematica per THistoire fu la melodia di trombatrombone all’inizio della Marcia. Nel comporla può darsi che sia stato influenzato dalla canzone popolare francese Marietta, ma, anche se così fosse, questo sarebbe il solo materiale melodico preso a prestito di tutta la composizione. Uno dei motivi principali:

è molto simile a quello del Dies Irae, naturalmente, ma questa somi­ glianza non mi passò neanche per la mente mentre componevo (il che non vuol dire che quella breve lugubre aria non possa essersi suppurata nel mio «inconscio»). E non mi ero neppure consacrato a un piano di lavoro a carattere internazionalista, cioè un rag-time «americano», un valzer «francese», un corale nuziale «tedesco-protestante», un pasodoble «spagnolo». Quest’ultimo pezzo, il pasodoble, mi fu comunque suggeri­ to da un episodio cui assistetti davvero a Siviglia. Mi trovavo per strada con Djagilev durante le processioni della settimana santa e ascoltavo con molto piacere un piccolo complesso «da corrida», composto di cornetta, trombone e fagotto. Stavano suonando un pasodoble. Improvvisamente una grossa banda di ottoni scese nella strada tuonando l’ouverture del Tannhauser. Il pasodoble ne fu sommerso, ma anche il Tannhàuser fu interrotto dalle grida di una zuffa. Uno dei suonatori di pasodoble aveva chiamato puttana la Madonna-bambola della grossa banda. Non dimen­ ticai piu il pasodoble. Vorrei anche segnalare il fatto che durante la composizione della

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Histoire du soldat, Tristan Tzara insieme con gli altri iniziatori del mo­ vimento dada cercò di convincermi a unirmi a loro. Non vedevo alcun futuro nel dada, né sapevo cosa farmene in musica di quel movimento; e quantunque la parola «dada», al mio orecchio russo suonasse come «si, sì», quello che i dadaisti andavano dicendo equivaleva piuttosto ad un «no, no» (senza offesa per il compositore del Canto sospeso). I da­ daisti, pensavo, non erano artisti, ma sicofanti dell’arte, benché l’unica cosa che di Tzara non mi garbava era il suo nome di battesimo. L’unico esempio dada in musica è quello di John Cage. La prima rappresentazione Histoire du soldat avvenne in un pic­ colo teatro vittoriano di Losanna. Le spese per l’allestimento furono so­ stenute da Werner Reinhardt, un signore altruista che pagò tutti e tutto, e che in fine mi co'mmissionò anche la musica. (In segno di ap­ prezzamento gli diedi il mio manoscritto e composi per lui le Trois pieces pour clarinetti. egli era clarinettista dilettante. Reinhardt in se­ guito mi comprò gli schizzi delle Noces per 5000 franchi svizzeri). Ma benché la rappresentazione fosse sicura dal punto di vista finanziario, non avevamo alcuna garanzia che il pubblico venisse a vederla. Per questa ra­ gione decisi di cercare aiuto presso la granduchessa Elena, che allora viveva a Ouchy. Il suo patrocinio e il suo intervento avrebbero impli­ cato la presenza di tutta la colonia di aristocratici russi a Ouchy come pure quella dei principali membri dei vari corpi diplomatici accreditati a Berna. Una persona che faceva parte dell’entourage di Paderewski com­ binò l’incontro, e quando ricordai a Sua Altezza che suo padre il gran­ duca Vladimiro (che avevo visto spesso per strada durante la mia infan­ zia) aveva accordato cosi generosamente il suo patrocinio a Djagilev, ella accettò subito la mia proposta e comprò parecchi palchi. U Histoire di­ ventò una faccenda molto mondaine e la rappresentazione ebbe un consi­ derevole successo. Dovemmo però accontentarci di una sola rappresen­ tazione perché il giorno dopo la spagnola colpì Losanna e tutti i luoghi pubblici furono chiusi d’autorità. Non vidi più una rappresentazione delPHistoire per cinque anni. Le scene erano state disegnate ed eseguite da René Auberjonois, pit­ tore locale, amico mio ed intimo di Ramuz. Il sipario esterno consisteva in un velo su cui erano dipinti due zampilli di fontane con una barca in bilico su ciascuno di essi. I siparietti per la minuscola scena interna era­ no una serie di tele cerate dipinte che contenevano raffigurazioni scelte di proposito senza alcun rapporto con l’argomento dell*Histoire — una balena, un paesaggio, ecc. Queste tele cerate venivano arrotolate a mano come gli scuri delle finestre o le carte geografiche a scuola. Le idee per i costumi erano mie e di Auberjonois. La principessa indossava calze ros­

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se e un tutù bianco, il narratore un frac e il soldato, come già ho detto, l’uniforme di soldato semplice dell’esercito svizzero del 1918. I trave­ stimenti del Diavolo erano quattro. Appariva dapprima come lepidotterofilo, con un abbigliamento che includeva accessori tipo una casquette con visiera verde e una rete per farfalle. (L’idea di questo travestimen­ to, incidentalmente, era dovuta al fatto che si riteneva che i lepidotterofili fossero essi stessi dei farfallacei, talmente intenti alla ricerca dei loro esemplari da non accorgersi d’altro; questo particolare interesse del « lepido tterofilo» per il soldato diventa perciò insolito e sospetto). Il secondo travestimento del Diavolo era da mercante di bestiame svizzero­ francese; nella nostra rappresentazione quest’abito era costituito da una lunga giacca blu che gli arrivava fino alle ginocchia e da un cappello blu scuro. La terza apparizione avveniva in un travestimento da vecchietta con scialle marrone e capuchine. In realtà, questa vecchietta è una mez­ zana, e i ritratti che tira fuori dal suo canestro vanno intesi come esibizio­ ne di certe beltà a noleggio. Questa, ad ogni modo, era l’Histoire originale; in successive rappre­ sentazioni apparvero vecchiette più innocenti che privavano l’episodio della sua particolarità essenziale. Il quarto vestito, per la scena del risto­ rante, è il frac. Qui il Diavolo beve fino a ubriacarsi, mentre il soldato si riprende furtivamente il suo violino; questo, naturalmente, è l’episo­ dio originale di Af anas'ev sul quale l’Histoire fu concepita. Alla fine dello spettacolo il Diavolo si rivela nelle sue vere sembianze, coda biforcuta e orecchie appuntite. La direzione dell’allestimento scenico della prima rappresentazione fu opera di Georges e Ljudmila Pitoèff, quantunque i movimenti stessi fossero già stati elaborati da Ramuz e da me. Pitoèff recitò nella parte del Diavolo e sua moglie mimò e danzò quella della Principessa. Pitoèff aveva un accento russo fin troppo spiccato, pensavo, anche se proprio con questo suo difetto egli otterrebbe oggi un successo realistico, per lo meno negli Stati Uniti. Tutti i problemi riguardanti la direzione di quello spettacolo furono causati dalla esiguità del palcoscenico interno che non era più grande di due poltrone accoppiate: come il problema attuale dei primi piani televisivi. Io avevo trentadue anni e Ramuz ne aveva quaranta quando ci in­ contrammo per la prima volta: in un ristorante di Losanna; mi si pre­ sentò come un ammiratore di Petruska. Ramuz era l’uomo più gentile del mondo (tranne con sua moglie, che era stato obbligato a sposare e che continuava a chiamare mademoiselle, anche davanti agli amici, con voce secca e dura), e il più allegro (impressione non facilmente deducibile dai suoi libri). Il lavoro che svolgemmo insieme nel preparare la versione

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francese del mio testo russo fu una delle più piacevoli associazioni lette­ rarie della mia vita. Se parlo di Ramuz, però, devo nominare anche un al­ tro caro amico e compagno intimo di quel periodo, Charles-Albert Cingria, uno studioso errante, una specie di troubadour in bicicletta, che improvvisamente scompariva per andare in Grecia o in Italia e che al­ trettanto improvvisamente ricompariva qualche mese dopo, povero e affamato come il vacuum di Torricelli. Cingria era quasi sempre ubriaco e si appassionava solamente di neumi, ma era anche il più divertente e affettuoso compagno del mondo. r. c.: John Cage unico esempio dada in musica? Vuole sviluppare questa sua asserzione? 1. s.: Voglio dire «dada-in-spirito» naturalmente, poiché considero il signor Cage un fenomeno tutto americano, mentre il dada storico non mostrava certo quelle che ritengo siano spiccate caratteristiche america­ ne. Avendo già detto quel tanto, comunque, mi trovo imbarazzato nel ravvisare proprio queste caratteristiche nel signor Cage; e d’altronde la geografia sociale e l’eredità nazionale, benché utili a spiegare innume­ revoli questioni secondarie, non aiutano a scoprire la natura dell’origina­ lità. (Il signor Cage è proprio un originale; un equivoco, tutte quelle barbe ai suoi... no, non vorrà certo chiamarli «concerti»). Ma quali che siano gli attributi americani che il signor Cage esemplifica, credo che essi siano responsabili in profonda misura del suo straordinario succes­ so in Europa. Non è questo, dopo tutto, il tema caro a Henry James del­ l’innocenza americana e dell’esperienza europea? È soltanto perché il signor Cage fa delle cose che gli europei non osano fare e le fa con natu­ ralezza ed innocenza, e non come cosciente montatura? Qualunque sia la risposta, nessun gioco di prestigio, nessun trabocchetto sono mai stati scoperti nelle sue esibizioni; in altre parole, non vi è nessuna «tradi­ zione», non soltanto non vi sono né Bach né Beethoven, ma neppure Schonberg o Webern. Questo fatto è davvero impressionante, e non meravigliatevi se l’uomo seduto accanto a voi dice sehr interessane Ma dobbiamo ritenere il fenomeno Cage uno sviluppo puramente musicale? Oppure anche come sviluppo niente affatto musicale? Non sarebbe meglio parlare di «meta-musica», meglio, ad ogni modo, della spiegazione «non-soltanto-arte-ma-anche-un-modo-di-vivere» che viene ora tirata fuori per giustificare qualsiasi cosa? Non ho risposta a queste domande, e posso solo attestare il mio apprezzamento personale — e i li­ miti di questo apprezzamento. Mi sono piaciute molte cose che il signor Cage ha fatto, e sempre quando viene eseguito accanto alle opere di gio­ vani zelanti, la sua personalità attrae e la sua arguzia trionfa; può anno­ iare e deludere, ma non mi provoca mai lo sdegno che mi provocano gli

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altri. I «limiti» del mio apprezzamento sono causati dall’incompren­ sione di quello che si vuol intendere con l’espressione «musica aleato­ ria». (Per quel che mi riguarda, credo di capire parte dell’atteggiamento nei riguardi della conoscenza, splendidamente descritto in una discus­ sione di teoria dell’informazione, come «una stratificazione arboriforme di congetture». Forse simpatizzo persino con quei compositori che cre­ dono di «esprimere» questo «aspetto dello Zeitgeist» in termini musi­ cali. Ma non capisco questa concezione della musica o «musica», co­ me presto saremo obbligati a scrivere). Un altro ostacolo all’apprezza­ mento solleva il problema del proprio temperamento. Io soffro nel sentire un’esposizione di avvenimenti musicali presentati in un tempo radicalmente diverso dal mio; il movimento lento àeXT Ottava sinfonia di Bruckner, per esempio, è troppo lento per il mio temperamento mentre quello di Erwartung è troppo veloce. (Devo ascoltare più volte una pagina di Erwartung prima di poterne percepire ogni aspetto, men­ tre in Bruckner mi trovo mentalmente a voltar pagina rispetto al pun­ to effettivo d’ascolto). Il mio temperamento e quello del signor Cage sono irrimediabilmente mis-cage-nated1 e le sue esecuzioni rappresenta­ no sovente, per me, la frustrazione del tempo stesso. r. c. : Ha accennato alla Terza sonata per violino di Charles Ives; che cosa pensa della musica di Ives? 1. s. : Cominciai a conoscere la musica di Ives nel 1942, credo, quan­ do i miei amici della Costa occidentale, Sol Babitz e Ingolf Dahl, esegui­ rono una sua sonata per violino e pianoforte alle Evenings-on-the-Roof di Peter Yates (oggi chiamate Monday Evening Concerts, la serie più interessante di concerti di musica da camera sia antica sia nuova degli Stati Uniti); insisto sulla data e sul luogo perché generalmente si ritie­ ne che Ives sia stato scoperto dal grosso pubblico soltanto dopo la guer­ ra e all’est. Poco dopo, e nello stesso genere di programmi, ricordo di aver ascoltato un’altra sonata per violino, la sonata per pianoforte det­ ta «Concord», un quartetto per archi, e parecchie melodie12. Mi piace­ rebbe poter dire che fui attratto da ciò che ascoltavo, poiché rispettavo Ives per la sua inventiva e per la sua originalità, e volevo che la sua mu­ sica mi piacesse. Ma mi sembrò di qualità molto disuguale, mal propor­ 1 [Mis-cage-nated sta per miscegenated, cioè prodotti da razze mescolate, con in piu, nel gio­ co, piu grafico che fonetico, l’implicazione di gabbia, prigione, cioè il significato deUa parola cage]. 2 Non è questo il luogo per fare un catalogo delle invenzioni sempre brillanti e talvolta belle che si possono trovare nelle canzoni di Ives, vorrei però incoraggiare i cantanti a dare uno sguardo ad alcuni esempi, come a Aeschylus and Sophocles, A Farewell to Land, On the Anti­ podes, Hymn, The Innate. A mio gusto lo Ives peggiore è quello delle melodie democratiche po­ liticizzanti e delle imitazioni dei Lieder (l’adattamento musicale di Ich grolle nicht di Heine), cosi come il migliore è quello delle liriche che hanno per tema la natura.

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zionata e senza forza di stile; i pezzi migliori - le Tone Roads, per esem­ pio, - erano sempre i più brevi. Da allora le occasioni di conoscere Ives sono state più frequenti, e quantunque molto probabilmente ripeterei le stesse obiezioni, penso di percepire ora le qualità identificanti che ren­ dono quelle obiezioni di scarsa importanza. Oggi il pericolo è pensare che Ives sia un mero fenomeno storico, «Il grande anticipatore». Egli è cer­ tamente molto più di un fenomeno storico, ma cionondimeno le sue anticipazioni continuano a stupirmi. Si consideri, per esempio, il Solilo­ quy, or a Study in yths and Other Things. La linea vocale di questa piccola melodia somiglia a quella dei T)rei Volkstexte di Webern, quan­ tunque quella di Ives sia stata composta più di un decennio prima dei pezzi di Webern. Le retrogradazioni sono del genere di cui si occupava Berg nel Rammerkonzert e in P)er Wein, quantunque il «Soliloquio» fos­ se stato composto più di un decennio prima dei pezzi di Berg. Gli espe­ dienti ritmici come quelli di «4 nel tempo di 5», si pensa generalmente siano stati scoperti dalla cosiddetta generazione post-weberniana, Ives però anticipa questa generazione di ben quarantanni. La stessa idea del­ l’intervallo, l’idea dell’esposizione aforistica, e lo stile pianistico puntano tutti nella direzione dei compositori più recenti e più accettati, e l’uso della rotazione e di clusters (si veda anche la melodia Majority) fanno venire in mente certi sviluppi tecnici degli anni cinquanta. Ma Ives aveva già oltrepassato i «limiti della tonalità» più di un decennio prima di Schonberg, aveva scritto musica che utilizzava la politonalità quasi vent’anni prima di Petruska, e aveva sperimentato gruppi poli-orche­ strali mezzo secolo prima di Stockhausen. Ives viveva però nella Nuova Inghilterra rurale, dove non esistono le Donaueschingen e le Darmstadt, e dove l’«autorevole opinione musicale» del momento non poteva in­ coraggiare una musica come la sua. Il risultato di questo incidente di nascita fu che le sue opere non furono eseguite e che egli non potè svi­ lupparsi come avrebbe potuto, benché, per essere esatti, Arnold Schon­ berg fosse l’unico musicista vivente che avrebbe potuto capirlo, e ben­ ché fosse a migliaia di miglia di distanza e quasi altrettanto distante culturalmente. Ives fu un uomo originale, un uomo dotato, un uomo coraggioso. Onoriamolo attraverso le sue opere. r. c. : L’ho talvolta sentita sostenere che «musica e matematica sono simili». Vuol chiarire questa sua affermazione? 1. s.: Non è naturalmente affar mio, sostenere «affermazioni» del genere, dal momento che per me la matematica è un rompicapo e non sono in grado di definire il termine «simile»; tutto ciò che dico è pura congettura. Ciononostante «so» che musicisti e matematici lavorano entrambi in base a presentimenti, congetture ed esempi; che le loro

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scoperte non sono mai puramente logiche (forse non affatto logiche in se stesse), e che queste scoperte sono astratte in senso analogo. «So» an­ che che musica e matematica «similmente» non sono in grado di pro­ vare la propria consistenza, «similmente» incapaci di distinguere tra l’universale e il particolare, e «similmente» dipendenti da criteri este­ tici piuttosto che da criteri utilitari. Infine sono perfettamente «con­ scio» che entrambe sono ipotesi piuttosto che verità (fatto scambiato comunemente per arbitrarietà). Si possono formulare altre «similarità» con una terminologia più con­ creta: per esempio, il confronto tra la concezione matematica e quella musicale della «serie ordinata», o l’idea dell’elemento indispensabile di identità (l’elemento della forma che non modifica gli altri elementi né si modifica quando si combina con loro). Riferisco semplicemente - sen­ za poterlo verificare - che alcuni compositori rivendicano ormai di aver scoperto applicazioni musicali della teoria di determinazione, teoria del gruppo matematico, e dell’idea di «struttura» nella topologia algebrica. I matematici penseranno certamente che tutto questo è molto ingenuo, e a ragione, ma io ritengo che qualsiasi indagine, ingenua o no, sia de­ gna di attenzione, se non altro perché conduce a problemi di vasta por­ tata — cioè all’eventuale formulazione matematica della teoria musicale e finalmente a uno studio empirico dei fatti musicali - voglio dire cioè i fatti dell’arte della combinazione, com’è appunto la composizione. Ma qualunque sia la scelta che un musicista opera sui modi di consi­ derare tali sviluppi, egli non può ignorare il fatto che la matematica gli offre nuovi strumenti di costruzione e di disegno. Il musicista deve an­ dar piano con la scienza, naturalmente, poiché la scienza è sempre neu­ trale e, come saggiamente dice E. H. Gombrich, «l’artista ricorrerà alle sue scoperte a suo rischio e pericolo». Il musicista però dovrebbe essere in grado di trovare nella matematica una materia di studio complemen­ tare, un’appendice (a lui utile come lo studio di un’altra lingua è utile al poeta) \ Di recente ho trovato per caso due pensieri del matematico Marston Morse che esprimono la «similarità» tra musica e matematica molto meglio di quanto abbia cercato di fare io. Il signor Morse si interessa naturalmente solo di matematica, ma i suoi pensieri si applicano all’ar­ te della composizione musicale con molta più esattezza di qualsiasi al­ tra dichiarazione a me nota di musicisti: «La matematica è il risultato di misteriosi poteri che nessuno capisce, e in cui il riconoscimento incon1 Immagino che qualunque compositore d’oggi proverebbe lo stesso diletto che ho provato io nel leggere il classico libro di W. S. Andrew, Magic Squares and Cubes, su cui il signor Milton Babbitt attirò la mia attenzione.

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scio della bellezza giucca di certo una parte importante. Tra un’infinità di configurazioni il matematico sceglie un modello per il solo amore del­ la bellezza e lo cala sulla terra». R. c.: Ha detto che la musica è una «astrazione»? Che «la musica è impotente a esprimere una cosa qualsiasi»? - che cosa intendeva dire con quella sua citatissima osservazione? Non è d’accordo sul fatto che la musica è un’arte comunicativa, nel senso delle forme simboliche di Cassirer, e pertanto puramente espressiva? i.s.: Quella battuta superpubblicizzata sull’espressione (o non espressione) era semplicemente un modo di dire che la musica è sopraper­ sonale e superreale e come tale va oltre i significati verbali e le descrizio­ ni verbali. Era diretta contro il concetto che un brano di musica sia in realtà un’idea trascendentale «espressa in termini» musicali, con l’impli­ cazione da reductio ad absurdum che tra i sentimenti di un compositore e la loro trascrizione musicale debbano esistere esatti correlativi. Era un parere improvvisato e fastidiosamente incompleto, ma persino i critici piu ottusi avrebbero potuto vedere che non negava l’espressività musi­ cale, ma soltanto la validità di un certo tipo di asserzione verbale circa l’espressività musicale. Incidentalmente sostengo ancora quell’osserva­ zione, anche se oggi la rivolterei cosi: la musica esprime se stessa. Il lavoro di un compositore sta proprio nell’incarnazione dei suoi sentimenti e, naturalmente, si può pensare che li esprima o li simboleg­ gi (anche se la consapevolezza di questo atto non riguarda il composito­ re) . Più importante è il fatto che la composizione è qualcosa di comple­ tamente nuovo al di là di quelli che si possono chiamare i sentimenti del compositore. E poiché lei parla di Cassirer, non ha forse detto da qual­ che parte che l’arte non è un’imitazione, ma una scoperta della realtà? La mia obiezione dunque alla critica musicale è che essa abitualmente si rivolge verso ciò che suppone sia la natura dell’imitazione (quando in­ vece dovrebbe insegnarci a imparare e amare la nuova realtà). Una nuo­ va composizione musicale «è» una nuova realtà. (Su un altro piano, naturalmente, una composizione musicale può essere «bella», «religiosa», «poetica», «dolce» o tante altre superfluità che chi ascolta può trovare per definirla. Benissimo. Ma quando qual­ cuno asserisce che un compositore «cerca di esprimere» un’emozione alla quale poi quel qualcuno fornirà una descrizione verbale, ciò significa svilire parole e musica). (Recentemente il problema dell’«espressione» è stato affrontato in modo nuovo e avvincente da Osgood, per fare un esempio, nel libro The Measurement of Meaning, Urbana 1957. La sua opinione è che noi ten­ diamo a sistemare tutte le espressioni aggettivali in una «matrice strut-

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turata» delimitata da certe semplici dimensioni fondamentali o polarità, di cui il principio yin e yang potrebbe considerarsi un esempio. Analisi statistiche indicano che la gente concorderà su una qualità espressiva di un pezzo di musica, per esempio, nei termini delle dimensioni fondamen­ tali del concetto originale, appaiando concetti verbali secondo una scala progressiva di aggettivi contrastanti. Noi siamo obbligati a scegliere con­ cetti che si corrispondono quando non ve n’è alcuno che sembri tale ma, è questo il punto, secondo l’analisi statistica ci troviamo d’accordo su alcune sorprendenti proprietà. Con il metodo di Osgood è del tutto pos­ sibile giungere alla conclusione che il preludio del Parsifal è «blu» piut­ tosto che «verde»). R. c.: Una domanda sulle forme e sui significati... i. s.: Mi scusi se la interrompo, ma vorrei ricordarle che compositori e pittori non sono dei pensatori di concetti; ciò che un Picasso o uno Stravinsky hanno da dire sulla pittura o sulla musica non ha assolutamente alcun valore in base alla provenienza. (Quantunque ci piaccia moltissimo parlare concettualmente). Il compositore opera mediante un processo percettivo, non concettuale. Egli percepisce, seleziona, or­ ganizza, e non è affatto consapevole a che stadio significati di diversa spe­ cie e pregnanza si sviluppino nel suo lavoro. Tutto ciò che sa o di cui si cura consiste nel percepire il contorno della forma, poiché la forma è tutto. Egli non può dire niente sui significati. Cos’è che dice quel genti­ luomo francese in Tutto è bene ciò che -finisce bene di Shakespeare? «Può darsi che sappia ciò che è...» r. c.: E una domanda sui giudizi qualitativi... i. s.: Mi scusi ancora una volta, per favore, ma anche questa non è una faccenda che riguardi i compositori, riguarda gli esteti. Sono d’ac­ cordo con lei, l’estetica professionale non ha mai avuto molto successo, e la vera regola è sempre una regola soggetta alla moda o al gusto. (Non un vero gusto, naturalmente, cosa che Djagilev possedeva e che Edward Fitzgerald chiamava «il femminile di genio»). La storia dell’arte è cer­ tamente più interessante a causa di queste mode per nulla arbitrarie, comunque, e a ogni modo, è improbabile che l’estetica possa mai scon­ figgere il «ma io preferisco...» individuale. Si può dire che un pezzo di musica sia superiore a un altro per un numero di ragioni qualsiasi: può essere «più ricco di contenuto», più profondamente «commovente», più sottile nel suo linguaggio musicale, ecc. Queste opinioni sono tutte quantitative, comunque; cioè, non sono essenziali né vere. Un pezzo è essenzialmente superiore a un altro, soltanto per la qualità dell’emozio­ ne che lo pervade, e quelle «strutture perfette» che si propongono di impegnare maggiormente le facoltà dell’ascoltatore (di nuovo quantità)

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sono di per sé senza importanza. (E qui segue un elenco di aggettivi che non so trovare e che, se anche li trovassi, non userei). R. c.: Ha avuto qualche esperienza con strumenti a quarti di tono? 1. S.: Ricordo di aver suonato un pianoforte a quarti di tono alla Hochschule di Berlino, a quattro mani con Hindemith, negli anni ven­ ti. Ricordo anche la sorpresa provata nell’accorgermi di quanto rapida­ mente il nostro orecchio ci si abituasse. Ma avrei proprio dovuto sor­ prendermi? Un quarto di tono dopo tutto è una divisione considerevole del tono, ed altrettanto sensibile quanto mezza linea su un termometro. Più tardi, nel 1930, conobbi Alois Hàba dopo un concerto che avevo diretto a Praga. (Questo concerto mi dette l’occasione di ricevere la più entusiastica accoglienza che abbia mai ricevuto, fatta eccezione per il Messico, incidentalmente, e durante il mio soggiorno a Praga fui trat­ tato con estrema gentilezza sia da Benes sia dal presidente Masaryk; quest’ultimo era un uomo alto, un tipo di slavo letterato-intellettua ­ le che era in grado di parlare russo con l’aiuto della figlia, sempre pre­ sente per aiutarlo a tradurre). Hàba mi fece l’impressione di un musi­ cista serio, e ascoltai la sua conversazione e la sua musica — in ogni caso, la sua conversazione - con interesse. Da allora ho continuato a pensare ai quarti di tono, ma ho evitato di usarli. Dopo tutto, sentiamo continuamente quarti di tono non intenzionali, e c’è un disco del Concer­ to per violino di Schonberg dove il violinista non fa altro che suonare quarti di tono. La più bella eccezione, il perfetto sfruttamento dell’ef­ fetto dei quarti di tono avviene nel Kammerkonzert di Berg, natural­ mente, poiché in quest’opera esso è perfettamente preparato da una frase a toni interi, una frase diatonica e una frase cromatica; le distin­ zioni sono chiare, convincenti ed efficaci. (Ma non si era già interessato Ives all’accordatura a quarti di tono molto tempo prima di qualsiasi altro compositore e, non aveva già scritto della musica a quarti di tono ben prima dei suoi colleghi europei?) R. c.: Vuol parlare dei problemi tecnici implicati nella sua «ricom­ posizione per strumenti» di tre madrigali di Gesualdo? 1. s.: L’idea di comporre una traduzione strumentale dei madrigali di Gesualdo mi venne in mente fin dal 1954, ma esaminandoli meglio arrivai alla conclusione che quella musica aveva un carattere unicamente vocale e abbandonai il progetto come irrealizzabile. Ritornando a quel­ l’idea nel febbraio del i960, cominciai a suonare tutta la sua musica sa­ cra1 e i madrigali degli ultimi libri fin che trovai tre pezzi che avrei 1 Ritenevo che la maggior parte della musica sacra fosse troppo statica ritmicamente e troppo densa e grave nella tessitura per poter permettere una trascrizione strumentale. 12

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potuto per lo meno concepire in forma strumentale. Mi fu subito chia­ ro che alcuni tipi di figura melodica erano in contraddizione col carat­ tere che un trattamento strumentale richiede: gruppi di note rapide in sedicesimi, per esempio. Dal momento che non volevo cambiare il pro­ filo della musica, evitai madrigali di quel genere. Sotto certi aspetti, perciò, la mia strumentazione si può considerare come un tentativo di stabilire una distinzione fra «strumentale» e «vocale». Una volta trovati i pezzi realizzabili, mio primo problema fu quello di scegliere e progettare i registri e le tessiture strumentali. Gli strumenti devono muoversi in su e in giù e poi ancora in su, e non rimanere sempre nello stesso pascolo delle cinque parti vocali. Secondo problema era quel­ lo che riguardava le differenze di tavolozza tra vocale e strumentale; la musica non può essere semplicemente «trascritta per strumenti», natu­ ralmente, ma va nuovamente immaginata. I problemi ritmici non erano meno importanti. La ricchezza di Gesualdo è più evidente in campo ar­ monico che in campo ritmico. La sua musica può essere troppo gonfia e troppo uniforme, per lo meno traducendola letteralmente per un mezzo strumentale moderno. Nel primo dei tre pezzi rielaborati {Asciugate i begli occhi, libro V) ho condensato la musica in frasi di tre più due in due occasioni, là dove Gesualdo aveva scritto tre più tre. Ma la mae­ stria di Gesualdo nel costruire la frase è evidente anche qui, come mo­ strerà un esame delle battute 10-17 della parte del soprano, consideran­ do lo sviluppo del motivo, la costruzione degli intervalli e la variazione ritmica. Da parte mia non ho alterato il ritmo né ho aggiunto altro lavoro di sviluppo sia nel secondo sia nel terzo madrigale. L’elemento di rilievo del primo di questi madrigali {Ma tu, cagion, libro V) è dato da traspo­ sizioni all’ottava e da una rotazione delle combinazioni strumentali. Penso che il carattere della musica venga trasformato dal timbro e dal­ l’articolazione degli ottoni e degli strumenti ad ancia doppia nella mia versione, cosicché il madrigale è diventato una pura e semplice canzo­ na strumentale. Nell’ultimo madrigale {Beltà poi, libro VI, pezzo che deve essere sembrato ai suoi tempi come il punto di saturazione del cromatismo) non mi parve possibile portare alcuna modificazione al disegno ritmico di Gesualdo. Perciò, per dare un effetto di maggior movi­ mento - come pure per mostrare un’analisi diversa della musica - divisi l’orchestra in gruppi di archi, ottoni, legni e corni (strumenti questi ul­ timi ermafroditi), e praticai l’ochetus nella musica da gruppo a gruppo; dopo tutto l’ochetus è un artificio ritmico. Dobbiamo avvicinarci alla musica di Gesualdo attraverso l’arte della condotta delle voci. Il sistema armonico di Gesuaido fu scoperto e perfe­

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zionato mediante le invenzioni della condotta delle voci, e la sua armonia è sorretta dalla sua condotta delle voci esattamente come la vite è sor­ retta da un traliccio. Me ne resi conto io stesso qualche mese prima di comporre il Monumentum, quando mi misi a inventare le parti andate perdute dei mottetti canonici Da Pacem Domine e Assumpta est Maria. Quell’armonista radicale si dimostrava un contrappuntista abile ma mol­ to ancorato alla mentalità tradizionalista; Josquin, Willaert, Brumel, Lassus, e un certo Arrigo tedesco (cosi Lorenzo de’ Medici chiamava Heinrich Isaac) usarono tutti artifici canonici o di altro genere contrap­ puntistico musicando il testo di Da Pacem, e il cantus firmus adottato da questi compositori è lo stesso che adotta Gesualdo. Il mio Monumentum l’intenzione di commemorare il quarto centenario di uno dei musicisti più personali e più originali mai nati alla mia arte (poiché Gesualdo è un compositore istintivo, involontario). r. c.: Parlando di Gesualdo e del «cromatismo radicale» del xvi se­ colo, vuol dire qualche cosa sul nuovo libro di Edward Lowinsky Tona­ lity and Atonality in Sixteenth Century Musici 1. s.: Il libro del professor Lowinsky è uno studio della logica armo­ nica di quei maestri del xvi secolo, le cui esplorazioni musicali porta­ rono al di là dei confini della modalità e alla scoperta del «libero» mon­ do armonico, che, quantunque tagliato e modellato, è ancora il cam­ po armonico in cui si muove il compositore d’oggi. Il libro del profes­ sor Lowinsky è pure uno studio sul formarsi e sullo sviluppo della «to­ nalità» moderna, cioè di quella settecentesca del modo maggiore e mi­ nore, degli artifici che sorreggono le forme a grande campata della sonata classica. Viene esaminata naturalmente la «tonalità di cadenza» e la sua estensione a ritroso, per cosi dire, verso i punti corrispondenti di riposo armonico. La jrottola ed il villancico sono studiati per il loro ruolo nello sviluppo della «tonalità». (Il professor Lowinsky dimostra, per inciso, come la forma spagnola sia stata più flessibile di quella italiana). Ma per me il punto più interessante dell’esposizione del professor Lowinsky è quello in cui dice che lo sviluppo della tonalità è connesso allo sviluppo della musica per danza, cioè, delle forme strumentali. Gli esempi musi­ cali indicano che fin dal 1500 alcune forme di musica per danza richiede­ vano la ripetizione della cadenza «chiave» in altri punti della forma. «La ripetizione e la simmetria possono essere presenti o no nella musica mo­ dale, ma esse sono parte integrante della tonalità, — conclude il profes­ sor Lowinsky. - Insieme con l’accentuazione regolare esse fanno parte in­ tegrante, naturalmente, dell’arte della danza...» (Posso indicare un con­ fronto con l’uso che io ho fatto della ripetizione della tonalità nelle par­

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titure per balletti, e al contrario lo sviluppo, in Threni, per esempio, di una specie di «atonalità triadica»?) Il libro del professor Lowinsky continua con gli ormai ben noti argo­ menti a favore dell’uso pratico del temperamento a semitoni che permi­ se, fin dai primi anni del secolo sedicesimo, gli scambi enarmonici (argo­ mento che mi convince completamente). Il libro prosegue poi con argo­ menti che riguardano il rapporto fra testo e musica al sorgere del cro­ matismo. (Anche io sono affascinato da tutto il problema delle «imma­ gini tonali» cosi, per esempio, nella tarda musica tonale l’« amore ri­ cambiato» esige il modo maggiore, mentre l’« amore non ricambiato» il modo minore - perversioni a parte - mentre al principio dell’era «tona­ le», associazioni del genere non erano mai fissate con tanta precisione. Ciononostante, esse non erano rigide: Schubert poteva essere infelice e «non ricambiato» per mezz’ora in sol maggiore senza alcun imbarazzo. Ho usato io stesso immagini simili, per esempio nella «falsa relazione» di tritono per il falsus pater di (Edipus Rex). Nuova per me è invece la discussione sulla statistica; sono però asso­ lutamente d’accordo con la conclusione che ne trae il professor Lowin­ sky: «Finché si potrà dimostrare che quella tendenza era significativa per quell’epoca e feconda di sviluppi futuri, non mi sembra argomento di decisiva importanza il sapere se essa lo era nella misura del dieci, quindici o venti per cento». O invero persino in una percentuale molto minore. Il professor Lowinsky tradisce tendenze hegeliane quando asserisce che «la modalità implica una visione del mondo essenzialmente stabile, mentre la tonalità ne implica una essenzialmente dinamica». (E l’«ato­ nalità» schònberghiana, il punto di vista del flusso continuo?) Ma le sue delineazioni geografico-culturali sono una parte vitale del libro. Egli dimostra che i fiamminghi tendevano ad attenersi al contrap­ punto e alla modalità mentre invece «l’impeto creativo per il nuovo lin­ guaggio armonico e per la moderna tonalità provenne dall’Italia...» Si rifà ai francesi a proposito del loro gusto ben noto per il «licenzioso» modo ionico (di cui si ha notizia per lo meno fin dal 1529); confrontan­ do la letteratura virginalistica inglese e tedesca, egli conclude dicendo che quella inglese è «a un livello piu alto di ambizione artistica». «La letteratura virginalistica inglese si muoveva in un campo situato tra i modi vecchi e nuovi, e quella curiosa fusione fra pensiero tonale e mo­ dale dà alla musica virginalistica elisabettiana una ricchezza e un fascino suoi propri». La materia trattata nello studio del professor Lowinsky è forse per 1 [Si tratta dei cosiddetti « madrigalismi »].

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me la più emozionante nella storia della musica, e il suo metodo è Puni­ co modo di «scrivere di musica» che apprezzo. r. c. : Le interessa fare qualche commento sulla situazione musicale contemporanea, sulle caratteristiche della musica più recente che ha ascoltato, per esempio; oppure sulle ultime partiture da lei esaminate; sui problemi dei giovani compositori; sulla questione della critica musi­ cale; sulla condizione delle registrazioni discografiche neha musica con­ temporanea? 1. s.: La musica più «recente» che abbia esaminato nell’ultimo anno è quella contenuta nel primo volume delle intavolature per liuto di Adrien Le Roy (1551) (trascritta dal mio amico André Souris e pubbli­ cata a Parigi dal Centre national de la recherche scientifique nel i960). Principal^ caratteristica di questa musica è il fatto che ogni pezzo è pu­ ro godimento. Per quanto riguarda i problemi dei giovani compositori, penso sia lecito chiedersi se siano più grandi ora che in altri periodi - a meno che, naturalmente, non si consideri la domanda come una petitio principii ten­ dente a insinuare che i compositori possano essere prodotti in massa. Mi è recentemente successo di sfogliare un gran numero di partiture di studenti che concorrevano a un premio. Posso comunque riferire ben poco di questa esperienza, tranne il fatto che le attuali imitazioni di «Cologne & Company» non mi sembrano migliori di quelle di ieri che vanno sotto l’etichetta di «Stravinsky & Hindemith». La musica che ho potuto esaminare mostrava ciò che i rispettivi compositori pensava­ no di altra musica. Nel migliore dei casi poteva essere una buona cri­ tica musicale. (Ritengo, d’accordo con Auden, che l’unico valido eserci­ zio di critica debba avvenire nell’arte e per mezzo dell’arte, cioè, nel pastiche o nella parodia; Le baiser de la fée e Pulcinella sono critiche musicali di questo genere, benché siano anche più di questo). Nessuna di quelle musiche andava, comunque, cosi tanto al di là delle varie in­ fluenze e dei vari stili da poter diventare un vero fatto critico. Fu un po’ sorprendente scoprire poi che così tante partiture scimmiottassero le mode di una decina di anni fa. La serie saltava fuori di solito in modo imbarazzante nelle prime due battute, e dopo l’enunciazione della serie cominciava la solita routine di fugati e di canoni, cioè i più noiosi e ovvii espedienti in mano agli inesperti. (Persino Webern, avendo lasciato di­ ventare troppo scoperto il canone nel primo movimento del Quartetto op. 22) non può evitarci l’impressione che si stia seguendo un gioco a rincorrersi troppo prolungato. E l’esposizione fugata del secondo movi­ mento della Sinfonia di Salmi non è nell’insieme troppo ovvia, troppo regolare e troppo lunga?) Come sono infantili però tutte quelle frasi ri­

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petute e quegli espedienti di sviluppo nella musica di questi aspiranti compositori e quanto informe o incolto è il loro modo di sentire. Com­ porre non può essere cosi facile. La via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni. Le incisioni fonografiche? Quando penso che un disco o un nastro magnetico di una nuova composizione musicale può avere un potere (un’influenza) superiore di parecchie migliaia di volte a quello di una esecuzione dal vivo, quel disco o quel nastro diventano oggetti vera­ mente terrificanti. Attualmente, negli Stati Uniti, non si vendono più di tremila-cinquemila dischi della musica che ho composto recentemen­ te (Mouvements; A Sermon, a Narrative and a Prayer; The Flood); men­ tre deWUccello di fuoco la cifra di dischi venduti è tra trentamila e cin­ quantamila copie. Queste cifre possono essere fin troppo ottimistiche e sovrabbondanti, naturalmente, e sono certamente provvisorie, ma in­ dicano per lo meno che soltanto una piccolissima parte della popolazio­ ne interessata alla musica desidera tenersi al corrente delle novità (sco­ perta questa non molto sorprendente, dal momento che gli ascoltatori hanno sempre preferito riconoscere piuttosto che conoscere). Se però metto a confronto questo piccolo pubblico con il ristretto numero di cortigiani che patrocinavano la musica di Marco da Gagliano, per esem­ pio, la mia situazione mi appare meno sconfortante. I trenta cortigiani di Marco e i miei tremila acquirenti di dischi rappresentano la medesi­ ma élite nel medesimo rapporto e nella medesima proporzione con l’in­ tera popolazione, e quantunque questa élite possa aumentare di nume­ ro, essa non riuscirà mai a crescere in proporzione. Comunque la breve probabilità di vita offerta da un disco è divenuta un deterrente per il compositore - direttore d’orchestra perché egli sa che il cammino della innovazione tecnica cancellerà perfino la migliore delle esecuzioni musicali. Il disco dello scorso anno è altrettanto démodé del­ l’automobile dello scorso anno. In realtà, l’interesse effettivo per una nuova incisione fonografica non dura più di sei mesi; subito dopo su­ bentra la tendenza a lasciarla cadere in disuso, e dopo un anno arriva la morte completa, nonostante i trattamenti geriatrie! dei tecnici del suono. E quale esecutore può ascoltare le proprie registrazioni più di una volta, ammesso che gli riesca di ascoltarle, specialmente nel campo della musi­ ca nuova, dove gli «standard» di esecuzione cambiano cosi rapidamen­ te che un’incisione risulta fuori moda (con l’urgente bisogno cioè di migliorie) il giorno stesso in cui viene distribuita? E ancora, sembra che anche una nuova incisione (cioè già fuori moda) di musica nuova valga la pena di essere realizzata quando si pensa a tutti quei giovani musicisti di Reno, Spokane, Tallahassee, New York, e altre città di

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provincia, i quali possono ascoltare migliaia di esecuzioni della Sinjonia dal Nuovo Mondo, ma non potranno mai ascoltare se non su dischi pietre miliari della musica contemporanea quali Die Jacobsleiter o Pii selon Pii, quel sontuoso ma squilibrato montage sonore, (Incidentalmen­ te, sarebbe molto interessante leggere un’indagine e un’analisi statisti­ ca sulle vendite discografiche di una delle maggiori società, anche se la Columbia, grazie a Goddard Lieberson, il quale impedisce che la Sezione Vendite detti legge alle sezioni Artisti e Repertorio, è l’unica Compa­ gnia che attualmente promuova la causa della musica contemporanea). In quanto a Fratello Criticus, non voglio guastarmi l’umore, né sciu­ pare il mio libro, parlando qui dì lui. R. c. : Vuol parlarci della sua ri-composizione di Pergolesi in Pulcinellaì Inoltre, da cosa nacque quell’idea - perché proprio Pergolesi? — e cosa ricorda della storia di quel lavoro? 1. s. : Il suggerimento che mi condusse a Pulcinella mi venne da Dja­ gilev, un pomeriggio di primavera, mentre si stava passeggiando insie­ me in Place de la Concorde: - Non protestare per ciò che sto per dirti. So che hai molto successo presso i tuoi colleghi d’oltralpe - disse con agghiacciante disprezzo - ma ho un’idea che penso ti divertirà più di qualsiasi altra cosa essi possano proporti. Vorrei che tu dessi uno sguar­ do a una musica deliziosa del Settecento pensando magari di orchestrarla per un balletto -. Quando disse che il compositore era Pergolesi, pensai che fosse diventato matto. Conoscevo Pergolesi unicamente attraverso lo Stabat Mater e La serva padrona, e benché avessi appena veduto una rappresentazione di quest’ultima a Barcellona, Djagilev sapeva che non ne ero stato affatto entusiasta. Gli promisi comunque di dare un’occhia­ ta a quella musica, e di fargli sapere la mia opinione. La guardai e me ne innamorai. Comunque la selezione definitiva dei pezzi di Pergolesi derivò solo in parte dagli esempi propostimi da Djagilev, e in parte da quelli già pubblicati; mi suonai però tutto il Per­ golesi disponibile prima di fare le mie scelte. Il primo passo era quello di fissare un piano di azione e una sequenza di pezzi d’accompagnamen­ to. Djagilev aveva trovato a Roma un libro di storie su Pulcinella. Stu­ diammo insieme questo libro e insieme scegliemmo alcuni episodi. La costruzione definitiva dell’intreccio e l’ordine dei pezzi danzati furono fatti a tre, da Djagilev, da Leonid Mjasin e da me, lavorando tutti e tre insieme. Il libretto però - o l’argomento, dal momento che Pulcinella è più una «action dansante» che un balletto - non proviene dalle stesse fonti dei testi delle parti cantate; questi ultimi furono tratti da due opere e da una cantata. Come nelle Noces, i cantanti non si identificano con i personaggi see-

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nici. Essi cantano melodie «in carattere» — serenate, duetti, trii — come fossero numeri interpolati. Pulcinella fu il canto del cigno degli anni passati in Svizzera. Fu com­ posto in una piccola soffitta della Maison Bornand a Morges, una stan­ za in cui erano ammassati un cymbalum, un pianoforte, un harmonium, e un’intera cuisine di strumenti a percussione. Cominciai a comporre direttamente sui manoscritti di Pergolesi, come se stessi correggendo un mio vecchio lavoro. Cominciai senza preconcetti né atteggiamenti estetici, e non avrei potuto fare alcun pronostico sul risultato. Sapevo benissimo che non avrei potuto produrre una «contraffazio­ ne» di Pergolesi perché le mie abitudini propulsone sono cosi diverse; tutt’al più potevo ripetere Pergolesi con il mio accento personale. Che il risultato fosse in un certo senso una satira era forse inevitabile — chi avrebbe potuto trattare quel materiale nel 1919 senza farne una sati­ ra? - ma anche questa osservazione è a posteriori; non mi misi a com­ porre una satira e naturalmente Djagilev non avrebbe mai pensato a una possibilità del genere. Quello che Djagilev voleva era solo una or­ chestrazione elegante, e nient’altro, e la mia musica dovette provocargli un tale choc che per un bel po’ andò in giro con uno sguardo che faceva venire in mente «Il Secolo Decimottavo Offeso». In realtà, comunque, la cosa più notevole di Pulcinella non consiste tanto nel rilevare quanto sia stato aggiunto o cambiato, ma quanto poco. Se avessi avuto una concezione a priori dei problemi concernenti la ri-composizione di un lavoro del Settecento, essa sarebbe stata quella di convertire in un modo o nell’altro brani operistici e da concerto in brani per danza. Cominciai perciò a esaminare Pergolesi cercando pezzi «ritmici» piuttosto che «melodici». Non dovetti andare molto lontano, naturalmente, per scoprire che questa distinzione non esisteva affatto. La musica del Settecento, strumentale o vocale, sacra o profana, è in un certo senso tutta musica per danza. (La tradizione esecutiva ignora que­ sto fatto! Ad esempio, in una famosa registrazione di un eminente di­ rettore che prova la Sinfonia «Linz», si sente continuamente quel diret­ tore1 invitare l’orchestra a «cantare» e mai a «danzare». Il risultato è che il semplice contenuto melodico della musica viene gravato di un rau­ co sentimentalismo tardo Ottocento, che essa non può tollerare, mentre il movimento ritmico diventa enfatico). Pulcinella fu la mia scoperta del passato, l’epifania attraverso la quale tutto il mio lavoro ulteriore divenne possibile. Fu uno sguardo all’indietro naturalmente, - la prima di molte avventure amorose in 1 [Bruno Walter con la Columbia Symphony Orchestra: disco cbs S 77413].

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quella direzione - ma fu anche uno sguardo allo specchio. A quell’epoca nessun critico lo capi, e io fui attaccato di conseguenza per essere un pasticheur, fui rimproverato per aver composto musica «semplice», biasimato per aver disertato il «modernismo», accusato di aver rinun­ ciato alla mia «vera eredità russa». Gente che non aveva mai sentito gli originali di Pergolesi, o non se ne era mai interessata, gridò al «sacrile­ gio»: «I classici sono nostri. Si lascino stare i classici». Per tutta quel­ la gente la mia risposta fu ed è ancora la stessa: Voi «rispettate», io amo. Picasso accettò l’incarico di disegnare i décors per la stessa ragione per cui io avevo accettato di mettere insieme la musica - perché ci di­ vertiva farlo — e Djagilev provò per le sue scenografie lo stesso choc che aveva provato per i miei suoni. La scena di Picasso era una veduta volu­ metrica di case con balconi in stile spagnolo. Essa copriva solamente in parte l’immenso palcoscenico deU’Opéra di Parigi ed era inquadrata dalla sua stessa cornice (piuttosto che da quella dell’Opéra). I costumi erano semplici. Sei Pulcinella facevano la loro comparsa nello svolgersi del balletto. Essi erano tutti vestiti con costumi bianchi rigonfi e porta­ vano calze rosse. Le donne indossavano corsetti neri, e camicette rosse a strisce, con frange nere e pompon rossi. Quando i musicisti parlano fra loro dei capolavori della loro arte, viene sempre il momento in cui qualcuno pensa di spiegare le proprie idee mettendosi a cantare; invece di dire, per esempio, «Tre crome di sol seguite da una minima di mi bemolle», canterà l’inizio della Quinta di Beethoven. Difficilmente si possono definire meglio i limiti della cri­ tica. Anch’io preferirei «cantare» Pulcinella piuttosto che cercare di parlarne. r. c. : Quali sono le fonti testuali di Noces? Quando cominciò a com­ porne la musica, e perché essa le prese tanto tempo prima di essere ulti­ mata? Come descriverebbe lo stile del libretto? 1. s. : Mi resi conto di avere in progetto un lavoro corale sul soggetto di un matrimonio di contadini russi fin dal 1912; il titolo, Svadebka, Les nocesy mi venne in mente quasi contemporaneamente al progetto stesso. Via via che la mia concezione si sviluppava, cominciai a vedere che essa non indicava la drammatizzazione di un matrimonio o l’accom­ pagnamento di uno spettacolo nuziale inscenato con musica descrittiva. Era invece mio desiderio presentare del materiale nuziale effettivo at­ traverso dirette citazioni di versi popolari (cioè non letterari). Attesi due anni prima di scoprire nelle antologie di Afanas'ev e di Kireevskij la fonte desiderata, ma questa attesa fu ben ricompensata, poiché la for­ ma di cantata coreografica della musica mi fu suggerita anche dalla let-

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tura di queste due grandi riserve della lingua e dello spirito russi. Sia Renard sia Uhistoire du soldat furono adattamenti presi da Afanas'ev, Les noces furono quasi interamente ricavate da Kireevskij. Les noces sono una serie di tipici episodi nuziali raccontati mediante citazioni tipicamente discorsive. Queste ultime, sia che si tratti delle pa­ role della sposa o dello sposo o dei genitori o degli ospiti, sono sempre conformi al rituale. Come collezione di cliché e di citazioni di tipici detti nuziali, possono essere paragonate ad una di quelle scene di Ulysses in cui sembra che il lettore senta di sfuggita frammenti di conversazione privi del filo conduttore. Les noces però possono anche essere parago­ nate a Ulysses in un senso più ampio, nel senso cioè che entrambi i la­ vori cercano di presentare gli avvenimenti piuttosto che descriverli. Nelle Noces non esistono ruoli individuali, ma solamente voci soli­ stiche che impersonano ora un tipo di personaggio e ora un altro. Così il soprano della prima scena non è la sposa, ma semplicemente la voce di una sposa; la medesima voce è associata alla parte dell’oca nella sce­ na finale. Analogamente, le parole del fiancé vengono cantate da un tenore nella scena dei preparativi a casa dello sposo, ma alla fine da un basso; e le due voci di basso senza accompagnamento nella secon­ da scena, benché possano suggerire, secondo la musica che cantano, una effettiva lettura della cerimonia nuziale, non vanno identificate con quelle di due preti. Anche i nomi propri che compaiono nel testo, tipo Palagaj e Saveljuska, non corrispondono a nessuna persona in particolare. Furono scelti unicamente per il loro suono, le loro sillabe, e il loro ca­ rattere tipicamente russo. Les noces sono anche — forse persino princi­ palmente - un prodotto tipico della Chiesa russa. Si sentono lungo tutto il lavoro invocazioni alla Vergine e ai santi. Tra questi ultimi, i nomi di Cosma e Damiano compaiono più spesso degli altri. Essi erano rico­ nosciuti in Russia come santi propiziatori del matrimonio, ed erano adorati dal popolo come divinità del culto della fertilità. (Ho letto che in alcune chiese dellTtalia del Sud si trovano ancora oggetti fallici fatti dai contadini, accanto alle immagini di Cosma e Damiano). Legare con nastri rossi e blu le trecce della sposa era naturalmente un’usanza religioso-sessuale, e cosi pure annodare trecce intorno alla testa per in­ dicare lo stato di donna sposata. Nella collocazione storica delle Noces (primi anni dell’ottocento), comunque, certe usanze si protraevano più per amore del rituale che per il rituale stesso. I pianti della sposa, nella prima scena, non avvengono necessariamente per un vero dispiacere per la prossima perdita della verginità ma perché, secondo il rituale, ella deve piangere. (Anche se l’avesse già perduta e non vedesse l’ora... do­ veva piangere lo stesso).

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Chiunque voglia giungere a un vero apprezzamento di questo lavoro deve conoscerne non solo le usanze culturali ma anche quelle linguisti­ che. La parola «rosso», per esempio, nell’ultimo quadro è un’esclama­ zione che vale quella di «bello»; non è dunque un semplice riferimento cromatico. «La tavola è rossa» e «la tavola è bella» sono due espressio­ ni equivalenti. Anche la parola lusenki è una parola in rima, anzi il di­ minutivo di una parola in rima; non ha alcun «senso» l. A un certo pun­ to, la tradizione vuole che qualcuno dica : « Gor'ko (è amaro) ». Sentendo questo, lo sposo deve baciare la sposa, dopo di che l’intera brigata dice «Il vino è dolce». Questo gioco prende poi, nelle vere nozze contadine, una piega oscena, allorché un uomo guarda fisso nel suo bicchiere di vi­ no e dice: — Vedo un seno ed è gor'ko -, poi bacia quel seno per farlo diventare dolce, e cosi via sempre piu in basso. Mi chiedo però se un lavoro come Les noces possa rivelarsi del tutto a chi non sia russo. In versificazioni musicali di questa specie, una traduzione che rispetti la sonorità delle parole è impossibile e una traduzione alla lettera, anche se possibile, risulterebbe come filtrata attraverso un vetro scuro. La scena del Banchetto nuziale si vale largamente di citazioni e di sprazzi di conversazione. L’ascoltatore che non sia russo dovrebbe capire che, prima di tutto, in questa scena il cigno e l’oca sono personaggi popo­ lari e che le voci solistiche che li impersonano e li citano riprendono un tradizionale gioco popolare. Cigni ed oche volano e nuotano entram­ bi e, per queste ragioni, hanno fantastiche storie da raccontare sui cieli e sulle acque, storie che, per inciso, sono come lo specchio delle super­ stizioni contadine. (Mi riferisco, nelle Noces, ai versi del soprano che cominciano così: «Salii un giorno in alto e vidi il mare...») «Cigno» e «oca» però si riferiscono anche allo sposo e alla sposa. Sono espressioni popolari di tenerezza come «mia colombella» o «topolino mio». La prima rappresentazione scenica delle Noces (al Theatre Sarah Bernhardt nel giugno del 1923) fu nel complesso compatibile con la mia concezione ritualistica e impersonale del lavoro. Come ho già detto al­ trove, la coreografia si esprimeva in termini di blocchi e di masse; le per­ sonalità individuali non emergevano, non potevano emergere. Il sipario non veniva usato e i danzatori non lasciavano la scena neppure durante il lamento delle due madri, una tipica espressione del rituale di lamen­ tazioni che presuppone una scena vuota; è unicamente la musica a dar vita alla scena e a ogni altro suo cambiamento, dalla casa della sposa a quella dello sposo fino alla chiesa. 1 Ho aggiunto qui queste citazioni dopo aver letto il saggio di C. S. Lewis su questa parola nel suo libro Studies in Words; libro che mi ha fatto venir voglia di mandare al macero il mio.

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Ma benché e la sposa e lo sposo siano sempre presenti in scena, gli ospiti possono parlare di loro come se non ci fossero (stilizzazione non dissimile da quella del teatro Kabuki). Nella prima rappresentazione, i quattro pianoforti occupavano gli angoli della scena, erano perciò sepa­ rati dal gruppo delle percussioni, dal coro e dai cantanti solisti che si trovavano nella fossa d’orchestra. Djagilev basò questa disposizione su motivi estetici — quelle quattro nere sagome elefantiache erano un’ulte­ riore attrattiva ai décors - mentre la mia idea iniziale era che l’intera compagnia di musicisti e danzatori restasse insieme sulla scena come partecipanti alla stessa stregua. Cominciai la composizione delle Noces nel 1914 (un anno prima di Renard) a Clarens. La musica era composta nella forma pianistica fin dal 1917, ma non fu completata nella sua veste orchestrale definitiva se non tre mesi prima della première, cioè sei anni dopo. Nessun’altra mia opera ha subito tante metamorfosi strumentali. Completai il primo qua­ dro per un’orchestra dall’organico di quella del Sacre du printemps, e poi decisi di dividere in gruppi i vari elementi strumentali - archi, legni, ottoni, percussione, tastiere (cymbalum, clavicembalo, pianoforte) — e di mantenere questi gruppi separati sul palcoscenico. In una versione successiva cercai di mettere insieme pianole con complessi di strumenti che comprendevano cornette e flicorni. In seguito, un giorno del 1921, a Garches, mentre ero ospite di Gabrielle Chanel, improvvisamente mi resi conto che un’orchestra formata da quattro pianoforti avrebbe pienamente soddisfatto tutte le mie necessità. Sarebbe stata nello stes­ so tempo perfettamente omogenea, perfettamente impersonale, e per­ fettamente meccanica. Quando per la prima volta suonai Les noces a Djagilev - nel 1915, nella sua casa di Bellerive, vicino a Losanna — egli pianse e mi disse che era la creazione più bella e più tipicamente russa del nostro Balletto. Penso che amasse Les noces più di qualsiasi altro mio lavoro. Per questo quell’opera è dedicata a lui. R. c.: Quali sono le fonti letterarie dei testi dei suoi cori russi, The Saucers1? 1. s.: «Saucers» è oggi una parola molto di moda — nel senso cor­ rente di «oggetti volanti non identificati» — ma il titolo russo originale, Podbljudnye, tradotto letteralmente dal tedesco Unterschale, non ha un equivalente altrettanto letterale in inglese. (« Saucer-readings » [Lettu­ re] o « Saucer-riddles » [Indovinelli], entrambi più vicini come signifi­ 1 [Quattro cori paesani russi che hanno per sottotitolo Soucoupes in francese e The Saucers in inglese. Saucer = sottocoppa, piattino; flying saucer - disco volante].

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cato, sanno anche di foglie di tè e/o di Gerald Heard). Cori di questo genere venivano cantati dai contadini mentre gli indovini leggevano lo­ ro le impronte digitali sul fondo di piattini anneriti di fumo. I testi che ho usato sono di Afanas'ev; ci fui spinto dalle loro qualità ritmico-musicali fin dalla prima lettura. A giudicare dai nomi di località, Cigissy e Belo-ozero, ritengo che quei testi fossero in origine tipici della Russia settentrionale (below zero — sotto zero - infatti). Probabilmente pro­ vengono dai dintorni di Pskov, ma che il sortilegio del piattino fosse caratteristico o no di quella regione russa, proprio non saprei dire. Com­ posi uno di quei cori subito dopo aver terminato i Pribautki e proprio prima di iniziare Les noces. Vennero eseguiti tutti e quattro a Ginevra nel 1917, diretti da Vasilij Kibal'cic, un funzionario consolare russo che era anche musicista scrupoloso e direttore del coro della Chiesa russa di Ginevra. R. c. : Vuole parlarci delle origini — testuali, strumentali e teatrali di Renard? 1. s.: La raccolta di Afanas'ev contiene per lo meno cinque differen­ ti storie di Renard, nelle quali quella mentitrice rabelaisiana viene presa e assicurata alla giustizia da un gatto e da un caprone. Scelsi una di quel­ le storie e ne ricavai un libretto, ma appena cominciai a comporre la musica mi accorsi che il mio testo era troppo breve. Ebbi allora l’idea di ripetere l’episodio del «salto mortale». Il gallo è tentato due volte, e due volte cade nelle fauci di Renard nella mia versione, e questa ripe­ tizione era un caso estremamente felice perché la ripresa della forma è l’elemento principale dello scherzo. Il titolo della mia rustica favola era in origine Skazka o petuche, lise, kote i barane, «Racconto del gallo, della volpe, del gatto, e del caprone». Finii il libretto sul principio del 1915 e la musica verso la fine di quell’anno. Renard si ispirava anche alla gusli, strumento inusitato che viene portato dal caprone nell’ultima parte del lavoro, e imitato nell’orchestra dal cymbalum con risultati buoni anche se imperfetti. Le gusli sono ora diventate un vero pezzo da museo, ed erano già cadute in disuso anche ai tempi della mia infanzia a Pietroburgo. Questo strumento è una specie di delicata balalajka dalle corde di metallo, assicurato con una cinghia al collo dell’esecutore come il vassoio di una sigaraia di nightclub. Il suono che emette è deliziosamente vivo e brillante, ma anche molto poco consistente, e chi, ahimè, suona oggi la gusli («Gusli» significa «mu­ sica per strumento a corda suonato da tocco umano». Fa parte del lato burlesco di Renard il fatto che questo strumento da suonare con mano leggerissima venga invece suonato dai piedi fessi del caprone. La mu­ sica gusla — «plink, plink...», per inciso, fu la prima parte di Renard

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che composi). Un giorno, verso la fine del 1914, sentii per la prima volta suonare un cymbalum, in un ristorante di Ginevra e decisi che avrei potuto usarlo al posto della gusla. Il cymbalista che lo suonava, un certo Racz, mi aiutò cortesemente a trovare uno di quegli strumen­ ti, che comprai e mi portai dietro durante tutti gli anni che passai in Svizzera. (In realtà me lo portai anche a Parigi, dopo la guerra). Im­ parai a suonare il cymbalum e ad amarlo, e composi Renard «su» esso (come normalmente compongo «su» un pianoforte), con due bacchet­ te in mano, annotando via via che componevo. Utilizzai poi il cymbalum anche nel mio Ragtime per undici strumenti, e cosi pure in versioni in­ complete del Chant dissident e delle Noces. La musica di Renard comincia con dei versi. Avevo già scoperto una tecnica nuova - per me -, nel comporre canti su testi popolari russi: Pri­ bautki l, le Berceuses du chat, L'orso (una cantilena per bambini), Tilimbom, The sparrow, Geese and Swans, The Flea, Chanson à compter1. Al­ cuni di questi canti, ma specialmente ì Pribautki, furono composti duran­ te i primi giorni della guerra del 1914 o proprio poco prima; e sono i pro­ genitori diretti di Renard. La parola pribautki indica una forma di poesia popolare russa, il cui piu vicino parallelo in inglese è il limerick \ Signifi­ ca «il raccontare», pri è il latino pre, e baut deriva dall’infinito del russo antico «dire». I Pribautki sono sempre molto brevi — abitualmente non piu di quattro versi. Secondo la tradizione popolare essi derivano da un tipo di gioco in cui qualcuno dice una parola, un altro ne aggiunge un’al­ tra, e poi un terzo e un quarto la sviluppano, e così di seguito, con estrema rapidità. Anche Tilimbom*, la Chanson à compter, e ChicherYacher [szc] sono canti-giochi-filastrocche di questo genere, come, ad esempio, il vostro «trenta, quaranta, la gallina canta»; e, come in «tren­ ta, quaranta», lo scopo del gioco è quello di acchiappare ed eliminare chi arriva ultimo e chi è piu lento. Una caratteristica importante della poesia popolare russa consiste nel fatto che gli accenti della poesia par-1 234 1 I Pribautki dovrebbero essere cantati soltanto da una voce maschile. Li composi pensando alla voce baritonale di mio fratello Gurij, e io stesso ho cantato questo ciclo di canti in piccole riu­ nioni di amici; alcuni punti devo cantarli all’ottava inferiore, e quantunque la mia voce non sia uno degli strumenti piu altisonanti del mondo, qualità sonora a parte, la mia esecuzione è per lo meno permeata di autenticità. Tra parentesi, canto sempre tutta la mia musica vocale quando la compongo ed essa è tutta composta «sulla» mia voce. Sono sicuro che anche Orlando, Gombert e Ockeghem facevano lo stesso. Non erano prima di tutto cantori? 2 I diretti progenitori di questo gruppo di canti furono i Trois souvenirs de mon enfance, che scrissi nel 1906: ricordo per lo meno di averli suonati per Rimskij in quell’anno. I Souvenirs si valgono di testi popolari, e il terzo si basa su parole senza un particolare significato e puramente onomatopeiche. I Souvenirs vennero pubblicati nel 1913 e orchestrati nel 1933 per un film fran­ cese che non venne mai distribuito. 3 [Il limerick, dal nome della città irlandese omonima, è una stanza di cinque versi, caratteriz­ zata da toni umoristici e spesso assurdi]. 4 Tilimbom venne orchestrato nel 1923 per un concerto con la cantante Vera Janacopulos.

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lata vengono ignorati quando la poesia è tradotta in canto. Accorgermi delle possibilità musicali insite in questo fatto è stata una delle scoperte della mia vita che più mi ha rallegrato; ero come un uomo che scopre improvvisamente che le sue dita si possono piegare sia nella falange sia nella falangetta. Noi tutti conosciamo quei giochi di società in cui una stessa frase può essere portata ad assumere significati diversi se vengono messe in evidenza parole diverse. (Cfr. per esempio la dimostrazione che Kierkegaard dà di come la frase «Tu amerai il prossimo tuo» possa cam­ biare di significato a seconda che si ponga l’accento sulla parola «tu» o «amerai» o il prossimo « tuo». S. K. : Works of Love). In Renard, i suoni sillabici all’interno della parola, come pure l’accentuazione di quella pa­ rola nella frase, vengono trattati in questo modo. Renard è musica di fo­ nemi, e i fonemi sono in traducibili. La carriera esteriore di Renard è presto detta. Nell’aprile del 1915, la principessa Edmond de Polignac mi commissionò la composizione di un lavoro da poter eseguire nel suo salon. Questo fatto accadde nel periodo in cui ero andato a Parigi a dirigere L'uccello di fuoco per una manifesta­ zione benefica organizzata dalla Croce Rossa; avevo già cominciato a comporre Renard. Le circostanze legate a quella commissione mi aiutaro­ no a stabilire la dimensione dell’organico orchestrale, ma anche quel requisito era stato lasciato alla mia libera scelta — non intendevo certo fare qualcosa sulla scala dei Gurre-Lieder, ma avrei potuto utilizzare una formazione orchestrale più grande di quella di cui mi valsi poi effettiva­ mente. La musica venne composta rapidamente, la Marcia fu l’ultima parte della partitura che completai. Progettai io stesso la messa in scena, tenendo sempre presente che Renard non doveva essere confuso con una opera. Gli attori debbono essere acrobati che danzano, e i cantanti non debbono assolutamente essere identificati con essi; il rapporto tra le parti vocali e i personaggi scenici è lo stesso delle Noces e, proprio come nelle Noces, gli esecutori, musicali e mimici, devono trovarsi tutti insieme sul palcoscenico, con i cantanti in mezzo al gruppo strumentale. Per di più, Renard non ha bisogno di alcuna tirata simbolica. È un banale racconto morale, niente più. La satira religiosa (la volpe che si traveste da monaca; le monache in Russia erano considerate intoccabili) non è tanto satira quanto garbata ironia e «bello scherzo». Renard non fu mai rappresen­ tato nel salon della princesse, né lo suonai mai in quel salon al piano­ forte per una riunione di ospiti, come feci invece per il mio Concerto per pianoforte e per CEdipus Rex. Comunque, quando la composizione fu terminata, la princesse venne a farmi visita e mi portò un regalo che ho tuttora, un bocchino per sigarette di penne di struzzo e d’oro. (Era fatto come una pipa e la sigaretta veniva introdotta perpendicolarmente nel­

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l’incavo del fornello). Molti anni dopo ella scrisse questo resoconto del­ la visita: «Stravinsky mi chiese di andare una sera a pranzo da lui e venne a prendermi a Losanna per accompagnarmi durante quella mezz’ora di viaggio in treno che si impiega da Losanna a Morges. Si era preso una casa a Morges, dove viveva con la moglie e la famiglia, composta di nu­ merosi bambini pallidi e biondi. Tutto era coperto dalla neve ed era una notte di luna, tranquilla, chiara, silenziosissima e non molto fredda. Ri­ corderò sempre l’impressione felice che ebbi quando Stravinsky mi fece entrare in quella casa, poiché essa mi apparve come un albero di Natale, vivacemente illuminata e decorata con quei caldi colori che il Balletto russo ci aveva portato a Parigi. Madame Stravinsky era una figura straordinaria: pallida, sottile, pie­ na di dignità e di grazia, ella mi diede subito l’impressione di una no­ biltà di razza e di una grazia che furono poi confermate da tutto ciò che fece negli anni seguenti. Nel calore di quella sua casa affascinante sem­ brava come una principessa di un racconto di fiabe russo: circondata dai suoi delicati bambini, che erano allora, naturalmente, molto piccoli. Quantunque però tutto fosse così accogliente e gentile, in quella famiglia aleggiava un’atmosfera di tragedia che risultò poi essere fin troppo giu­ stificata, dal momento che tutti, più o meno, erano soggetti a soffrire di disturbi polmonari, cosa che è terminata in maniera pietosa per Madame Stravinsky e per una delle sue figlie piuttosto di recente. Non potrò mai dimenticare quella deliziosa serata passata a Morges: la tavola era vivacemente illuminata con candele colorate, e coperta di frutti, fiori e dolci di ogni colore. Ih pranzo fu uno splendido modello di cucina russa, preparato con cura da Madame Stravinsky e composto di ogni specie di zakuski, poi di borse, di teneri sterletti coperti da una de­ liziosa gelatina e serviti con una salsa perfetta, di varie portate di vola­ tili e di ogni sorta di dolci; e tutto ciò fu cosi festoso da non poter esse­ re mai dimenticato». r. c. : Fino a quale punto si raffigura la messa in scena di un lavoro teatrale mentre ne compone la musica? Per esempio, quando aveva ter­ minato soltanto il prologo del Diluvio, aveva già idee concrete sulla sua realizzazione scenica? i. s. : La mia prima idea per II Diluvio — che cioè gli esseri celestiali debbano cantare mentre quelli terrestri debbano semplicemente parla­ re — fu una concezione teatrale. La successiva intenzione preliminare fu che II Diluvio dovesse essere un pezzo caratterizzato dalla danza, una sto­

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ria raccontata sia dalla danza sia dalla narrazione. E infatti sono andato avanti con questa idea: anche il Te Deum è un pezzo di danza, un corale in un tempo veloce di danza. La prima difficoltà che incontrai fu nel cer­ care di immaginare la caratterizzazione musicale di Dio - fintanto che non mi dimenticai delle «profondità» e diventai un compositore di teatro che faceva un lavoro di teatro. Capii allora che Dio doveva can­ tare sempre nello stesso modo, allo stesso tempo, e decisi di farlo ac­ compagnare dapprima soltanto da strumenti di registro grave, finché non mi accorsi che ciò sarebbe potuto diventare molto monotono. Un’altra idea preliminare fu che si dovessero vedere durante l’intero lavoro ba­ gliori improvvisi di luce e che ogni lampo significasse qualcosa di nuovo e di diverso. Non so cosa salterà fuori da quest’idea, ma penso mi debba essere venuta in mente contemporaneamente al progetto delle cadenze musicali. Queste ultime sono particolarmente forti in questa musica; sentivo il bisogno di segni di interpunzione musicale molto precisi. (L’ascoltatore deve avere una sensazione molto precisa della posizione - posizione topografica - in questa musica). L’idea che Dio dovesse es­ sere cantato da due bassi, e Satana da un tenore acuto leggermente pe­ derastico (in ogni modo, Satana è sessualmente meno «sicuro» di Dio) mi venne un po’ dopo. Satana cammina su un tappeto di musica com­ plessa e sofisticata, tra parentesi - a differenza di Dio - e la sua vanità viene espressa, fino a un certo punto, dalla sincope. La musica che accom­ pagna la confessione delle sue ambizioni è anche, se ne renderà conto, la musica che accompagna la sua caduta. E Satana ritorna alla fine del lavoro. Anche lui è eterno, e questa sua apparizione finale deve sembrare inevitabile, non soltanto per amore di una carrellata con­ clusiva. La mia «Rappresentazione del Caos» non è molto diversa da quella di Haydn. Ma che cosa vuol poi dire «Caos»? «Cose senza forma»? «Ne­ gazione della realtà»? Questa è fraseomania - e presuppone qualcosa che vada al di là dei limiti della mia misera capacità di immaginazione. Come si può rappresentare il caos in musica? Scelsi alcuni elementi, intervalli e accordi di quarte. Il mio «materiale del Caos» è limitato, d’accordo, e non potevo far durare molto a lungo il mio Caos. All’inizio del Te Deum — pezzo che suona «bizantino» (alle mie orecchie) e che, in un certo senso, ma per pura coincidenza, richiama alla mente un ben noto canto bizantino pentatònico - comincio la mia costruzione seriale. (Cosi si può anche pensare che «caos» sia come l’antitesi di «seriale»). Quando cominciai a pensare a Noè, lo vedevo come una specie di su­ pervisore: di imprenditore edile. Egli - e Dio in lui - dirige la costru­ zione dell’arca. Le sue direttive vengono eseguite dai suoi figli e dalle

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loro mogli; l’arca, dopo tutto, non fu costruita da una nazione o da una comunità, ma da una singola famiglia. (Ho un po’ il tono della pubbli­ cità che dice «Chi fa da sé fa per tre»?) Il pubblico non deve vedere l’arca, naturalmente, né i materiali da costruzione, né tanto meno qual­ siasi altro oggetto inerente alla costruzione. Il pubblico vede solamente i costruttori (danzatori) che portano tra­ vi e assi invisibili e che martellano chiodi inesistenti. Avevo già imma­ ginato alcuni movimenti dei danzatori - gli uomini che si mettono sulle spalle corde immaginarie, le donne che si curvano, danno strattoni e ti­ rano — e avevo pensato che i danzatori avrebbero dovuto continuare il ritmo della musica durante i silenzi della musica stessa. Il diluvio deve essere altissimo, e non fortissimo, pieno ed alto, soffocato, impedito nel «respiro», ma non rumoroso. Quasi agli inizi della composizione decisi che gli unici attori dovevano essere otto danzatori che alternativamente rappresentassero un gruppo di angeli e la famiglia di Noè. Gli angeli dovevano essere vestiti in mo­ do da mostrare i loro volti e tre ordini di ali ripiegate (i Serafini). Gli an­ geli dovevano curvarsi, girarsi, oscillare da destra a sinistra, ma non cambiare mai di posto - e naturalmente non correre, non saltare, non vo­ lare, e neppure spiegare le loro ali. Dovevano anche essere sessuati, qualunque cosa ne dica la teologia: quattro uomini e quattro donne. Na­ turalmente non è che si debbano vedere specifiche caratteristiche sessua­ li, ma soltanto differenze di statura; e questo per esigenze coreografiche. Né Dio né Satana compaiono. Il pubblico sente parlare di loro, la loro storia è antica e familiare. Noè invece si vede. Continuo proprio a non sapere come vestirlo, a parte il fatto che sono sicuro che dovrebbe avere una barba (probabilmente una barba assira a balze) e che non dovrebbe somigliare a Raymond Duncan. Secondo me, la Bibbia, come tutti i miti, non pone limiti di epoca in un senso visivo. (Per questo ho ancora cosi poche idee riguardo alla forma scenica del Diluvio). Sceglierò forse qualcosa di «realistico» e di «rappresentabile»; l’acqua è una cosa reale, dopo tutto, e cosi pure la terra, la luce, le tenebre e gli animali. Il «realismo» però è anche una faccenda di stile. Ho avuto subito un’idea precisa sulla conversazione tra Noè e Dio. Secondo questa idea, il pubblico deve vedere Noè di schiena, e, secondo i movimenti che fa verso destra o verso sinistra, vedrà anche la sua bar­ buta silhouette. Mai, comunque, in questa scena si vedrà il suo volto. Lo sguardo di Noè è naturalmente rivolto verso il cielo. Dio lo si sente, ma resta invisibile. (Non dimentichi che sto progettando i preliminari di un lavoro teatrale e che parlo unicamente in termini teatrali!) Ma le scene del Diluvio sono un vero problema — le scene sono sempre, per me, il

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peggiore dei problemi - e forse sbaglio nel cercare equivalenti scenici allo stile della musica, del testo e della danza. Il narratore dovrebbe essere in grado di immedesimarsi nei perso­ naggi. In un primo tempo avevo pensato di utilizzare parecchie voci, ma una massa di voci disincarnate risulta confusa. Il testo? Be’, una parte è semplicemente buona, ma gran parte di esso è meravigliosa: «Un’abile bestia... A mia conformazione e sembianza». La parola «con­ formazione» ha una gravità specifica ben maggiore della parola «forma», e «sembianza» è meno ampollosa di «immagine» (come sembra povera a paragone la parola francese ressemblance)-, la definizione «sembianza» è zoologica1. «Un’abile bestia», è pure la definizione più giusta e avan­ zata dell’essere umano che abbia mai trovato. (Si confronti questo testo semplice e anonimo con la descrizione esistenzialistica di Pico della Mi­ randola che è quasi della stessa epoca: «A te, o Adamo, noi non abbia­ mo dato né una precisa dimora, né un tuo proprio aspetto, né alcuna spe­ cifica funzione, cosicché qualsiasi dimora o aspetto o funzione tu elegga per te, lo godrai e lo possiederai secondo tua confacente elezione e vo­ lontà. Noi non abbiamo fatto di te né cosa celeste né cosa terrena, né mortale né immortale, cosicché essendo tu tuo stesso foggiatore e arte­ fice, tu possa farti secondo quella somiglianza che più propendi assu­ mere». Perché ho intitolato questo lavoro II Diluvio invece di Noè? Perché Noè è pura storia. Come un autentico antidiluviano, egli è una grande curiosità naturalmente, ma una curiosità collaterale. E persino come «uo­ mo eterno», il secondo Adamo, l’immagine di Cristo del Vecchio Testa­ mento - secondo gli agostiniani -, egli è meno importante della Cata­ strofe Eterna. Il Diluvio è anche La Bomba1. r. c. : Che altro ricorda delle circostanze che riguardano la composi­ zione e le prime rappresentazioni àeWlJccello di fuoco, Petruska e Le sacre du printemps, e come considera oggi questi suoi tre lavori più po­ polari? 1. s.: Un filosofo contemporaneo scrive: «Quando Descartes disse “penso”, può darsi che avesse una sua certezza; ma nel momento in cui aggiunse “ dunque sono ” egli si affidava alla memoria e può darsi sia stato1 2 1 [Stravinsky dice shape e likeness', che avremmo potuto volgere, seguendo la versione della Bibbia comunemente accreditata, in «immagine e somiglianza», ma poiché subito critica form e image nonché ressemblance, ci siamo trovati in... imbarazzo]. 2 Le suddette osservazioni, fatte en passant, risalgono ai primi stadi della composizione del Diluvio. Le lascio stare come sono, soltanto perché possono permettere di gettare uno sguardo furtivo sulle macchinazioni preliminari della garrula mente di un vecchio compositore teatrale. Ho cercato, non senza difficoltà, di mantenere II Diluvio molto semplice come musica: dopo tutto mi era stato commissionato dalla televisione, e non potevo considerare cinicamente quella com­ missione.

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tratto in inganno». Faccio mio questo avvertimento! Non sentendo­ mi sicuro di come le cose sembravano o erano mi affiderò unicamente «alla parte migliore della mia memoria può-darsi-sia-stata-tratta-in-inganno». Avevo già cominciato a pensare dLLLJccello di fuoco fin dal momento del mio ritorno a Pietroburgo da Ustilug nelPautunno del 1909 \ anche se non ero ancora ben certo che mi sarebbe stato commissionato (co­ sa che, in effetti, non successe fino a dicembre, cioè piu di un mese dopo che ne avevo cominciata la composizione; ricordo quando Djagilev mi telefonò per darmi il via; e ricordo il suo stupore quando gli dissi che avevo già iniziato a comporre). Nei primi giorni di novembre ero parti­ to da Pietroburgo per una daca di proprietà della famiglia Rimskij-Kor­ sakov che si trovava a circa settanta miglia a sud-est della città. Ci an­ davo per una vacanza che mi permettesse di respirare l’aria fresca e nevosa di quelle foreste di betulle, ma cominciai invece a lavorare all’Uccello di fuoco. Andrej Rimskij-Korsakov era con me in quel periodo, co­ me pure spesso nei mesi successivi; per questo L'uccello di fuoco è dedicato a lui. L’introduzione, fino alla figura fagotto-clarinetto della se­ sta battuta fu composta in campagna, cosi come alcune annotazioni per le parti ulteriori. Tornai a Pietroburgo nel mese di dicembre e vi rimasi fino a marzo, fin quando cioè terminai la composizione. La partitura d’or­ chestra fu completata un mese dopo, e il tutto fu inviato a Parigi per po­ sta verso la metà di aprile. (La partitura porta la data 18 maggio, ma allo­ ra stavo semplicemente ritoccando alcuni particolari). L’uccello di fuoco non mi attraeva come soggetto. Come tutti i ballet­ ti narrativi, richiedeva musica descrittiva di un genere che non vole­ vo proprio scrivere1 2. Non mi ero ancora rivelato come compositore e non avevo ancora il diritto di criticare l’estetica dei miei collaboratori, però li criticavo ugualmente, e anche in modo arrogante, anche se forse la mia età (avevo allora ventisette anni) risultava più arrogante di quanto io non fossi. Soprattutto non potevo sopportare l’assunto che la mia musica fosse un’imitazione di quella di Rimskij-Korsakov, specialmente perché in quel periodo ero in piena rivolta contro il povero Rimskij3. Comun­ que, se dico che non ero poi così desideroso di accettare quella commis­ 1 Dopo aver completato il primo atto del Rossignol. 2 Si veda, per esempio, il dialogo tra Koscej e lo zarevic Ivan (al n. no), dove la musica è letterale come in un’opera. 3 Mi sembra ora che i due caratteri ereditari di Rimskij e di Cajkovskij compaiono in eguale misura neìVUccello di fuoco. L’elemento Cajkovskij è più «operistico» e più «vocale» (vedere i numeri 12, 45, 71), anche se vi compaiono due pezzi di danza alla Cajkovskij, cioè Le principesse con le mele Loro e la breve danza del n. 12. Il carattere Rimskij invece traspare in modo più pronun­ ciato nell’armonia e nel colore orchestrale (benché abbia cercato di superarlo con i vari effetti di pon­ ticello, col legno flautando, glissando e frullato).

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sione, è perché, in verità, le mie riserve sul soggetto erano anche una di­ fesa a priori per la mancanza di sicurezza sulle mie capacità. Djagilev pe­ rò, da buon diplomatico, aggiustò tutto. Venne un giorno a farmi visita, con Fokin, Nizinskij, Bakst e Benois. Quando tutti e cinque ebbero pro­ clamato la loro fiducia nel mio talento, cominciai a crederci anch’io e accettai. Fokin viene di solito accreditato come il librettista deWUccello di fuoco, ricordo però che tutti noi, e specialmente Bakst, che era il prin­ cipale consigliere di Djagilev, contribuimmo con varie idee alla progetta­ zione dello scenario; vorrei pure aggiungere che Bakst fu responsabile dei costumi tanto quanto Golovin1. Per parlare della mia collaborazione con Fokin, dirò che studiammo insieme il libretto, episodio per episodio, fin quando mi resi conto delle precise dimensioni che avrebbe dovuto assumere la mia musica. Nonostante le sue tediose omelie, che si ripetevano ad ogni incontro, sul vero ruolo della musica che non doveva essere se non un accompa­ gnamento alla danza, imparai molto da Fokin, e da allora lavorai con i miei coreografi in quel modo. Mi piacciono le richieste precise. Ero naturalmente lusingato dalla promessa di una esecuzione della mia musica a Parigi, e la mia emozione, arrivando in quella città diret­ tamente da Ustilug verso la fine di maggio, non avrebbe potuto essere più grande. Questi ardori comunque si raffreddarono alquanto alla prima prova d’insieme. L’espressione «Prodotto russo per l’esporta­ zione» sembrava essere stampigliata dappertutto, sul palcoscenico e sulla musica. Soprattutto le scene mimiche erano molto brutali in questo sen­ so, ma io non potevo dire nulla perché erano proprio quelle che più piacevano a Fokin. Ero anche molto seccato nello scoprire che non tutte le mie annotazioni sulla partitura erano ritenute oracolistiche. Pierné, il direttore d’orchestra, manifestò una volta il suo disaccordo con me per­ fino di fronte a tutta l’orchestra. Avevo scritto in un punto (al n. 90), un non crescendo, misura precauzionale abbastanza comune nella mu­ sica degli ultimi cinquantanni, ma Pierné mi disse: - Giovanotto, se non volete un crescendo, non scrivete nulla. Il pubblico della prima era molto luccicante, ma nella mia memoria è rimasto più vivo l’abbondante profumo che permeava la sala; al con­ fronto l’eleganza meno sgargiante del pubblico di Londra, della quale ebbi la possibilità di rendermi conto in seguito, sembrava quasi deodo­ rizzata. Presi posto nel palco di Djagilev dove, durante gli intervalli, era un andirivieni di celebrità, artisti, nobili vedove, anziane ninfe egerie 1 I décors di Golovin andarono perduti o distrutti durante la guerra 1914-18. Quegli scenari erano come tappeti persiani.

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del Balletto, scrittori, maniaci del balletto. Incontrai per la prima volta Proust, Giraudoux, Paul Morand, Saint John Perse, Claudel (col quale, anni dopo, fui quasi per collaborare a un adattamento musicale del Libro di Tobiolo) AVUccello di fuoco, benché non ricordi se alla prima o alle repliche. Fui pure presentato a Sarah Bernhardt, che se ne stava seduta su una sedia a rotelle nel suo palco privato, abbondantemente velata e terribilmente in apprensione al timore che qualcuno la riconoscesse '. Dopo un mese di tale compagnia fui ben felice di ritirarmi in un vil­ laggio sonnolento della Bretagna. All’inizio della rappresentazione venne un momento di comicità inat­ tesa. Djagilev aveva avuto la brillante idea di far sfilare sul palcoscenico cavalli veri: al passo, per essere esatti, con gli ultimi sei ottavi della battuta 8. Quelle povere bestie entrarono benissimo a tempo, ma poi cominciarono a nitrire e a impennarsi, e uno di essi, miglior critico che attore, lasciò un maleodorante biglietto di visita. Il pubblico scoppiò a ridere, e Djagilev decise di non correre piu quei rischi nelle rappresenta­ zioni successive. Ancora adesso mi sembra incredibile che abbia potuto ricorrere anche una sola volta a un espediente simile, ma quell’incidente fu poi dimenticato tra l’acclamazione generale per il nuovo balletto1 2. Fui chiamato in palcoscenico per fare il mio inchino al termine dello spettacolo, ed ebbi parecchie chiamate da parte del pubblico. Ero ancora in palcoscenico quando fu calato l’ultimo sipario, e vidi venire verso di me Djagilev con un uomo misterioso dalla doppia fronte, che mi fu pre­ sentato come Claude Debussy. Il grande compositore mi parlò cortese­ mente della mia musica, e terminò con un invito a pranzare con lui. Qualche tempo dopo, quando eravamo seduti entrambi nel suo palco a una rappresentazione di Pelléas, gli chiesi che cosa avesse realmente pen­ sato dell’UcceZZo di fuoco. Mi disse: — Que voulez-vous, il fallait bien commencer par quelque chose —. Sincero, ma non estremamente lusin­ ghiero. Poco tempo dopo la prima deìPUccello di fuoco mi diede la sua ben nota fotografia (quella di profilo) con la dedica «à Igor7 Stravinsky en tonte sympathie artistique». Io invece non fui cosi sincero nei riguardi di quel lavoro che stavamo allora ascoltando. Pensavo che Pelléas fosse nell’insieme una gran barba, e nonostante molte pagine meravigliose3*. 1 Conobbi anche Réjane (parlando di attrici), e ricordo ancora di essere stato a pranzo con lei al Chapon Fin di Bordeaux, nel 1915. Era ancora una bella donna, nonostante i suoi cinquantot­ to anni. 2 Erano cavalli neri. Nel corso del balletto, in un punto chiamato Lever du jour, compariva un corteo di cavalli bianchi, non ricordo però che cosa fosse successo allora, dal momento che le trombe fra le quinte erano anch’esse completamente fuori tempo. I cavalli non potevano essere più sconcertati di quanto lo fossi io. 3 Ricordo che durante gli intervalli di Pelléas, la gente nei ridotti si prendeva gioco di quello stile di recitazione e intonava scambi di piccole frasi à la Pelléas.

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Ravel, al quale L'uccello di fuoco piacque, anche se meno di Petruska o Le sacre, me ne spiegò il successo attribuendolo al fatto che il terreno era stato spianato, almeno in parte, dall’ottusità musicale del precedente spettacolo di Djagilev, cioè del Pavilion d'Armide (di Benois e Cerepnin). Il pubblico parigino desiderava un assaggio avant-garde, cosa che L'uccello di fuoco aveva (almeno secondo Ravel). A questa spiega­ zione vorrei aggiungere che L'uccello di fuoco appartiene agli stili ti­ pici del suo tempo. Ha più vigore della maggior parte della musica fol­ klorica di quel periodo, ma nello stesso tempo non è molto originale. Queste sono le condizioni migliori per avere successo. Questo successo, comunque, non si limitò a Parigi. Quando ebbi selezionato una suite dei pezzi migliori, e li ebbi forniti di finali da concerto, la musica dell’UcceZZo di fuoco venne eseguita in tutta Europa e divenne proprio uno dei lavori più popolari del repertorio orchestrale (fatta eccezione per la Russia: per lo meno, non ve la sentii mai eseguire come, per le stesse ragioni, non sentii mai nessun mio lavoro posteriore ai Fuochi d'artificio). L’organico orchestrale AeWUccello di fuoco era prodigalmente nu­ meroso, ma io ero più fiero di alcune parti dell’orchestrazione che della stessa musica. I glissandi dei corni e dei tromboni producevano una gran­ dissima sensazione sul pubblico, naturalmente, ma questo effetto, per lo meno quello del trombone, non era una mia originalità Rimskij aveva usato glissandi di trombone credo in M.lada, Schonberg nel suo Pelleas und Melisande, e Ravel nell’Heure espagnole. Per me l’effetto più im­ pressionante àeWUccello di fuoco era verso l’inizio il glissando sugli armonici naturali degli archi, che l’accordo dei contrabbassi fa schizzare come una girandola. Ero molto compiaciuto di avere scoperto quell’effet­ to, e ricordo ancora la mia emozione nel farlo notare ai figli di Rimskij, di cui uno era violinista e l’altro violoncellista. Ricordo anche lo stupo­ re di Richard Strauss quando lo sentì due anni dopo a Berlino. (L’ottava supplementare che si ottiene abbassando di un tono l’accordatura della corda mi dei violini, dà alla versione originale un suono più corposo). Ma come posso parlare da autore che si confessa, nei riguardi àAVlJccello di fuoco, dal momento che i miei sentimenti verso quest’opera sono unicamente quelli di un critico (anche, se, per essere sincero, il mio at­ teggiamento critico sussisteva già nel momento stesso in cui la stavo componendo)? Lo Scherzo alla Mendelssohn-Cajkovskij (Le principesse e le mele d'oro), per esempio, non mi soddisfaceva. Ci tornai sopra ripe­ tutamente, ma non potei fare di meglio, e rimane un imbarazzante han­ dicap orchestrale, anche se non so esattamente in cosa consista. Ho già 1 L’ormai famoso glissando del trombone verso l’inizio della danza di Koscej venne ag­ giunto da me soltanto nel 1919.

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criticato comunque un paio di volte L’uccello di fuoco nelle mie revi­ sioni del 1919 e del 1945, e queste critiche musicali dirette mi paiono piu eloquenti delle parole. Il mio atteggiamento è troppo critico? L’uccello di fuoco contiene una maggiore invenzione musicale di quanto sia in grado di vederci (o lo voglia)? Vorrei che fosse così. Fu sotto certi aspetti una partitura fe­ conda ai fini del mio sviluppo nei quattro anni successivi \ ma i pochi frammenti contrappuntistici che vi si possono trovare - nella scena di Koscej, per esempio, — provengono da accordi tonali, e questo non è vero contrappunto (anche se, credo di dover aggiungere, sia proprio questa l’idea che Wagner ha del contrappunto, nei Meistersinger). Se nell’Uccello di fuoco esiste una costruzione interessante, la si può tro­ vare nel modo con cui sono trattati gli intervalli, per esempio nel susse­ guirsi di terze maggiori e minori nella Berceuse, nell’introduzione e nella musica di Koscej (quantunque il pezzo più felice della partitura sia, senza dubbio, quello della prima danza Bell’Uccello di fuoco in 6/8). Quando qualche povero candidato al dottorato deve setacciare minu­ ziosamente le mie opere giovanili in cerca di «tendenze seriali», penso che questo genere di cose possa essere classificato come un Ur esempio12. Anche dal punto di vista ritmico il Finale, credo, possa essere citato come la prima apparizione di irregolarità metriche nella mia musica: le battute in 7/4 suddivise in 1,2, 3; 1,2; 1,2/1, 2; 1,2; 1,2, 3, ecc. Ma questo è tutto. Il resto della storia Bell’Uccello di fuoco e privo di avvenimenti im­ portanti. Vendetti il manoscritto nel 1919 a un certo Jean Bartholoni, ex croupier di Montecarlo, ricco e generoso, che si era ritirato a vivere a Ginevra. Bartholoni ne fece poi dono al Conservatorio di Ginevra; tra parentesi, egli diede anche una grossa somma di denaro a una ca­ sa editrice inglese per l’acquisto della musica che avevo composto du­ rante gli anni di guerra (Les noces, Renard, L’histoire du soldat com­ prese). La ripresa fattane da Djagilev nel 1926, con scena e costumi della Goncarova, mi piacque meno del primo allestimento; degli alle­ stimenti successivi ho già riferito altrove. Vorrei aggiungere che L’uc­ cello di fuoco è stato un sostegno nella mia vita di direttore d’orche­ stra. Il mio debutto come direttore avvenne appunto con quest’opera (l’intero balletto) nel 1915, in occasione di una manifestazione be­ 1 Si confronti il n. 191 con la musica del Moro di PetruSka] l’uso delle Tuben wagneriane al n. 105, l’arrivo di Koscej, con l’uso di quegli strumenti nel Sacre du printemps] la musica del n. 193 e quella della seconda battuta nel n. 47 col Rossignol. 2 In effetti, ho già ricevuto ben sei lettere che mi informano che il primo esacordo del mio Epitapbium proviene da una melodia delVUccello di fuoco.

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nefica della Croce Rossa a Parigi, e da allora l’ho diretto quasi un mi­ gliaio di volte, ma anche se lo dirigessi dieci volte tanto non potrei mai dimenticare il ricordo del terrore che provai nel dirigerlo quella prima volta. Per completare il quadro, oh sì!, non mancherò di dire che un giorno, in una carrozza-ristorante delle ferrovie americane, un tizio mi rivolse la parola chiamandomi, con molta serietà, «Mister Fireberg» \

Nel luglio del 1910, dopo le prime rappresentazioni ocello di fuoco, andai ad abitare con la mia famiglia in un albergo situato in ri­ va al mare a La Baule (vicino a St-Nazaire). In quella località composi e in parte orchestrai i miei canti su poesie di Verlaine. L’unico altro «av­ venimento» che ricordi di quella estate passata in Bretagna fu che un giorno, mentre me ne stavo su uno scoglio in riva al mare, pescai un’ara­ gosta. Udii un rumore particolare, sottile, stridulo, guardai e scoprii del­ le antenne scure, che sfregavano la roccia vicino al mio piede. Le afferrai e le tenni ben ferme e, quantunque l’aragosta cercasse di divincolarsi, me la mangiai, due ore dopo, à la mayonnaise. Verso la fine del mese di ago­ sto tornammo in Svizzera in una pensione vicino a Vevey, e in settembre in una clinica di Losanna per il parto di mia moglie. Anch’io abitavo nel­ la clinica, ma avevo inoltre preso in affitto, sull’altro lato della strada, una soffitta-studio dove cominciai a comporre Petruska. Il 23 settembre assi­ stetti alla nascita di una chiazza azzurra avvolta nella placenta, simile all’apparato respiratorio di una creatura proveniente dallo spazio: mio figlio minore. In quel periodo avevo già scritto quasi tutto il secondo quadro, che era la prima parte che composi; ricordo infatti che quando Djagilev e Nizinskij vennero a farmi visita qualche giorno dopo1 2, fui in grado di suonargliene una parte notevole. Appena mia moglie potè muo­ versi, ci installammo a Clarens, dove in un’altra soffitta stile Rousseau, composi la Danse russe del primo quadro. Il nome «Petruska» mi venne in mente un giorno che passeggiavo lungo il guai di Clarens. In ottobre traslocammo di nuovo, questa volta a Beaulieu (vicino a Nizza), e là composi la parte rimanente del primo quadro, tutto il terzo, e gran parte del quarto. Verso la fine del marzo successivo ave­ 1 [Cioè signor Montagna di fuoco, invece di signor Uccello di fuoco, l’opera per cui Stra­ vinsky era noto al grande pubblico]. 2 A Losanna e non a Clarens come sta scritto nella mia autobiografia \Cbroniques de ma vie, 2 voli., Denoel et Steel, Paris 1935, 1936]. La cronologia del secondo volume non è sempre attendibile, mi rincresce dirlo, il che rappresenta una delle ragioni della presente tetralogia di mie Conversazioni. (Altra ragione è il mio desiderio di parlare in modo diretto di un certo nu­ mero di argomenti, e di saltare dall’uno all’altro, senza perdere il tempo da dedicare alla com­ posizione per scrivere un «libro». La mia autobiografia e la Poetica musicale [Poétique musicale, Le Bon Plaisir, Librairie Plon, Paris 1952], incidentalmente, entrambe scritte per mezzo di altre persone - Walter Nuvel e Roland-Manuel, rispettivamente - sono molto meno simili a me, con tutti i miei difetti, di quanto non siano le mie conversazioni; o così credo).

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vo terminato i tre quarti della partitura orchestrale dell’intero balletto e l’avevo mandata a Kusevickij che aveva acconsentito a pubblicare qualsiasi musica gli avessi mandato. Ricordo ben poco dei mesi passati a Beaulieu. Lavorai molto a Petruska nonostante il fòhn debilitante e quasi continuo. In dicembre tornai a Pietroburgo per studiarne lo sce­ nario con Benois. Fu una visita sconvolgente. L'uccello di fuoco aveva radicalmente cambiato la mia vita, e quella città che fino a pochi mesi prima ritenevo la più grande del mondo, mi sembrò tristemente piccola e provinciale (come un bambino che pensa che il pomello della porta della sua camera sia qualcosa di grosso e di importante ma, in seguito, si stupisce di non poter conciliare l’oggetto effettivo con il ricordo che ne ha). Una notte, dopo il mio ritorno a Beaulieu, feci un sogno orribile. Pensavo di essere diventato gobbo e svegliatomi oltremodo dolorante mi scoprii incapace di stare in piedi o perfino di sedere in posizione erettal. Quel malanno fu diagnosticato come una nevralgia intercostale dovuta ad avvelenamento da nicotina. Mi ci vollero parecchi mesi per ricupe­ rare le forze. Da Beaulieu, scrissi ad Andrej Rimskij-Korsakov pre­ gandolo di cercare e di mandarmi una copia della chanson popolare russa che volevo utilizzare in Petruska (ai numeri 18,22,26-29, con cla­ rinetti e celesta). Mi mandò la musica, però adattandovi parole facete nel­ l’intenzione, ma che in effetti mettevano in discussione il mio diritto di usare tale «robaccia». Quando Petruska venne eseguito in Russia, fu molto schernito dal clan dei Rimskij-Korsakov, e specialmente da An­ drej, che arrivò perfino a scrivermi una lettera apertamente ostile1 2. Vidi Andrej solamente una volta dopo quell’«incidente». Fu nel giugno del 1914, quando venne a Parigi con mio fratello Gurij, lui per vedere l’alle­ stimento di Djagilev del balletto Le coq d'or, e Gurij per vedere Le rossignol. Fu, incidentalmente, anche l’ultima volta che vidi Gurij. Un buon amico del periodo trascorso a Beaulieu, al quale voglio dedicare qui qualche parola di omaggio, fu il defunto Aga Khan. Gio­ vanotto snello e schizzinoso quando Djagilev mi presentò a lui la prima volta - Djagilev gli faceva la corte per il suo denaro, naturalmente, e mi spingeva costantemente a chiedergliene -, l’Aga Khan fu sempre mol­ to cortese e aimable. Sembrava molto distante dietro i suoi occhiali neri 1 Quale che sia il ruolo dei sogni in rapporto alla memoria e alla intuizione (si pensi agli espe­ rimenti di Kleitman e di Demant, all’università di Chicago, fatti con elettrodi e strumenti di re­ gistrazione), credo siano stati la base di innumerevoli soluzioni riguardanti la mia attività composi­ tiva. Singolare caratteristica dei miei sogni è che cerco sempre di sapere l’ora e che mi viene sempre di guardare verso il mio orologio da polso, solamente per accorgermi che non c’è. I miei sogni sono il mio apparato digerente psicologico. 2 Andrej divenne in seguito direttore del «Contemporaneo musicale», rivista fondata da Pierre Souvtchinsky nel 1915. Il tono dei suoi articoli era molto freddo nei miei riguardi.

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e non prendeva mai parte ai nostri scherzi, si interessava però molto al Balletto. Ricordo che era con me a Montecarlo il giorno in cui per la prima volta tentai la fortuna ai tavoli da gioco (e, incidentalmente, vinsi abbastanza da pagare un conto del dentista e comprarmi uno chic parapluie), Era anche con me un’altra volta quando scoprii che non po­ tevo diventare un giocatore d’azzardo per il motivo che detesto il rim­ pianto. E infine eravamo ancora insieme quando si apprese dell’affon­ damento del Titanic, Ricordo anche che mi condusse con la sua «limou­ sine» da Montecarlo a Nizza e di là per la Comiche al mio albergo di Beaulieu. Un altro ricordo del mio soggiorno a Beaulieu è collegato al fatto che vidi per la prima volta un aeroplano. Ero sceso un giorno a Montecarlo con Djagilev quando vedemmo un biplano volare basso attraverso la baia. Presi a guardarlo pieno di meraviglia, ma Djagilev con tono molto snob disse: - Suppongo che domani farai meraviglie davanti a un taxi Gli aeroplani erano cose di tutti i giorni per Djagilev. Nell’aprile del 1911 mia moglie tornò in Russia con i bambini mentre io raggiunsi Djagilev, Nizinskij, Fokin, Benois e Serov a Roma. Questi miei collaboratori furono entusiasti della musica quando gliela suonai (ad eccezione, naturalmente, di Fokin); con il loro incoraggiamento allora necessario, composi la fine del balletto. La risurrezione del fantasma di Petruska fu idea mia, non di Benois. Avevo concepito la musica bitonale del secondo quadro come un insulto che Petruska fa al pubblico, e avevo voluto il dialogo bitonale delle trombe verso la fine, per mostrare che il suo fantasma insulta ancora il pubblico. Ero, e sono ancora, più fiero di queste ultime pagine che di qualsiasi altra cosa di quella partitura (ben­ ché mi piacciano ancora abbastanza i «sette ottavi» del primo quadro ’, «cinque ottavi» del quarto, l’ultima parte della scena del Moro, e l’inizio del primo quadro; Petruska però, come L’uccello di fuoco e Le sacre du printemps, è già sopra vissuto a mezzo secolo di popolarità distruttiva, e se oggi non suona fresco come, per esempio, i Cinque pezzi per orchestra di Shónberg e i Sei pezzi di Webern, ciò è in parte dovuto alla negligen­ za che per cinquant’anni ha protetto i pezzi viennesi). Djagilev voleva che cambiassi le ultime quattro note pizzicate a beneficio di «una fine tonale», come bizzarramente si espresse, benché due mesi dopo, quando 1 Secondo una gentile comunicazione di Robert Craft, Stravinsky si riferiva qui alle battute in 7/8 assegnate ai flauti, oboi e trombe nell’ambito del tempo generale di 3/4 (per es. nella terza battuta del numero 4). Ma ciò esisteva soltanto nella versione originale di Petruska. Nella versione riveduta del 1947 Stravinsky sostituì la misura anomala di flauti, oboi e trombe con una normale pausa di semicroma all’interno della misura generale di 3/4, per amor di semplicità e per facilitare la lettura agli orchestrali; ed è ben singolare che l’autore, ripensando dopo tanti anni a Petruska, ricordi con soddisfazione proprio un particolare che aveva sacrificato.

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Petruska divenne uno dei piu grandi successi del Balletto, negasse poi quella sua critica precedente. Il grande successo di Petruska fu una sorpresa. Avevamo tutti il ti­ more che la sua posizione sfavorevole nel programma producesse effet­ ti disastrosi; particolari difficoltà di allestimento scenico avevano richie­ sto che fosse rappresentato come primo pezzo dello spettacolo, e, tut­ ti dicevano,, non si poteva avere successo ad inizio di programma. Da parte mia temevo anche che i musicisti francesi, specialmente Ravel, che si irritava per qualsiasi critica mossa al gruppo dei «Cinque» russi, ritenessero la musica di Petruska proprio una critica simile - come, d’al­ tronde, lo era. Il successo di Petruska, comunque, mi fu molto utile perché mi diede una assoluta fiducia nel mio orecchio proprio mentre stavo per iniziare Le sacre du printemps. A una rappresentazione di Petruska al Theatre du Chàtelet fui pre­ sentato a Giacomo Puccini. Puccini, uomo imponente e di bell’aspetto anche se un po’ troppo dandy, fu subito molto cortese con me. Aveva detto a Djagilev e ad altri che la mia musica era orribile ma, nello stesso tempo, piena di talento. Quando, dopo il Sacre, mi presi il tifo e mi misi a letto, prima in un albergo e in seguito in un ospedale di Neuilly, Puccini fu una delle prime persone che venne a farmi visita; Djagilev invece, che aveva terrore che glielo attaccassi, non venne mai a trovarmi, pagò però le spese dell’ospedale. Avevo parlato con Debussy della musica di Puc­ cini e ricordo che - contrariamente alla biografia di Puccini di Carner Debussy la rispettava, come d’altronde anch’io. Puccini era un uomo affettuoso, un gentleman affabile e democratico. Parlava un italo-francese un po’ pesante, come il mio russo-francese, ma nonostante questo e nonostante la distanza musicale che intercorreva fra noi, non ci furono ostacoli alla nostra amicizia. Ho talvolta pensato che Puccini non si fos­ se dimenticato del tutto dell’a solo di tuba di Petruska quando scrisse la musica dello Schicchi, sette battute prima del numero 78. Ricordo anche una colazione in casa di Debussy poco tempo dopo la prima rappresentazione di Petruska, e con particolare piacere. Bevem­ mo champagne e mangiammo su un raffinatissimo denteile couvert. C’era anche Chouchou, potei cosi constatare che i suoi denti erano esattamen­ te come quelli di suo padre, cioè come zanne. Dopo colazione ci raggiun­ se Erik Satie, e io fotografai i due compositori francesi insieme, mentre Satie fotografò me con Debussy. In quella occasione Debussy mi regalò un bastone da passeggio con incise le nostre iniziali in monogramma. In seguito - durante la mia convalescenza dal tifo - mi offri un bellissimo portasigarette. Debussy era leggermente più alto di me, ma molto più pesante. Parlava con voce bassa e tranquilla, e la fine delle sue frasi era

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spesso impercettibile (il che non era poi un gran male, dal momento che esse contenevano spesso frecciate riposte e trappole verbali). La prima volta che andai a fargli visita a casa sua, dopo L’uccello di fuoco, parlam­ mo delle liriche di Musorgskij e ci trovammo d’accordo sul fatto che esse contenevano la miglior musica di tutta la scuola russa. Mi disse di aver scoperto Musorgskij sfogliando alcune musiche che giacevano inton­ se sul pianoforte di Mme von Meck. Non gli piaceva Rimskij, che defi­ niva «un accademico volontario, la specie peggiore». In quel periodo Debussy era interessato in special modo all’arte giapponese. Ebbi l’im­ pressione, però, che non fosse altrettanto interessato alle nuove cose mu­ sicali; la mia apparizione sulla scena musicale sembrò essere uno choc per lui. Durante la guerra lo vidi molto raramente, e le poche visite che gli feci furono estremamente penose. Il suo sottile, dignitoso sorriso era scomparso, e la sua pelle era di­ ventata giallastra e incavata; era difficile non vedere in lui il futuro ca­ davere. Gli chiesi se aveva sentito i miei Tre pezzi per quartetto d’ar­ chi (eseguiti proprio allora a Parigi). Pensavo gli sarebbero piaciute le ultime venti battute del terzo pezzo, poiché esse sono fra le mie cose mi­ gliori scritte in quel periodo. Ma egli non le aveva sentite, e in verità, non aveva sentito quasi niente della musica nuova. Quella visita fu proprio triste, e anche Parigi era grigia, stranamente calma e senza luci né movimento. Non fece alcun accenno al pezzo di En blanc et noir che aveva scritto per me, e quando ne ricevetti la musica a Morges, verso la fine del 1919, fui molto commosso e mi fece molto piacere constatare quanto quella composizione fosse riuscita. Anche quando composi le Sin­ fonie alla memoria del mio vecchio amico ero molto commosso e, mi si permetta di dirlo, anch’esse sono «una composizione riuscita».

Note: 1. La mia trascrizione dei Tre movimenti da Petruska per pianoforte solo risale all’agosto 1921. Artur Rubinstein, cui avevo de­ dicato la mia Piano Rag-Music — sperando di incoraggiarlo a suonare musica contemporanea - mi pagò la generosa somma di 5000 franchi per quella trascrizione. (Djagilev mi aveva dato solamente 1000 rubli per l’intero balletto). La ragione, incidentalmente, per cui non ho mai ese­ guito in pubblico quei Tre movimenti è molto semplice: l’inadegua­ tezza della tecnica pianistica della mia mano sinistra. 2 . Riscrissi Petruska nel 1947 con il duplice scopo di poterne avere il copyright e di adattare quel lavoro all’organico di orchestre di media grandezza. Fin dalla prima esecuzione di quella partitura avevo desi­ derato di rendere più chiaro l’equilibrio del suono orchestrale in alcu­ ni punti, e apportare altri miglioramenti alla strumentazione. L’orche­

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strazione della versione 1947 è, credo, molto piu accorta, benché mol­ ta gente ritenga che la musica originale e quella della revisione siano come due strati geologici che non si fondono.

L’idea di comporre Le sacre du printemps mi venne mentre stavo ancora lavorando all’Uccello di fuoco. Avevo sognato una scena di un rituale pagano in cui una vergine, scelta per il sacrificio, danzava da so­ la fino alla morte. Questa immagine non venne però accompagnata da nessuna idea musicale concreta, e dal momento che di lì a poco dovevo sentirmi totalmente preso da un’altra concezione puramente musicale che cominciò rapidamente a concretarsi in quello che ritenevo un Konzertstuck per pianoforte e orchestra, mi misi a lavorare a questo pezzo. Avevo già parlato a Djagilev del Sacre prima che venisse a trovarmi a Losanna, alla fine di settembre del 1910, ma egli non sapeva ancora nien­ te di Petruska, che era allora ciò che io chiamavo il Konzertstuck, rite­ nendo che lo stile della parte pianistica facesse pensare alla marionetta russa. Ma Djagilev, sebbene possa essere rimasto scontento di non sen­ tire musica per «riti pagani», ascoltò con piacere Petruska e mi incorag­ giò a svilupparlo in un balletto prima di intraprendere la composizione del Sacre du printemps, e non mostrò alcun disappunto. Nel luglio 1911 \ dopo le prime rappresentazioni di Petruska, partii per la proprietà di campagna della principessa Teniseva nei dintorni di Smolensk per incontrarmi con Nikolaj Roerich e progettare lo scenario del Sacre du printemps-, Roerich conosceva bene la principessa, ed era impaziente di farmi vedere le sue collezioni di arte etnica russa. Partii dunque da Ustilug per Brest-Litovsk, dove scoprii che avrei dovuto at­ tendere due giorni il primo treno che proseguisse per Smolensk. Corrup­ pi perciò il macchinista di un treno merci perché mi lasciasse salire su un carro bestiame; dove, tuttavia, mi trovai solo con un toro! Questo toro era legato soltanto con una fune, e neppure in maniera molto rassi­ curante, e quando cominciò a farsi minaccioso e a sbavare mi barricai dietro la mia unica piccola valigia. Devo aver avuto un aspetto singolare a Smolensk, quando ebbe termine quella corrida e quando scesi con in mano il mio bagaglio costoso (o per lo meno non da vagabondo) e spaz­ zolandomi abiti e cappello, ma devo anche aver dato l’impressione di chi si è alleggerito di un peso. La principessa Teniscev mi ospitò nella fo­ resteria servita da domestici vestiti di belle uniformi bianche con cin­ ture rosse e stivali neri. Mi misi al lavoro con Roerich e dopo pochi giorni il piano dell’azione e i titoli delle danze erano composti. Mentre 1 La data che si trova in Conversazioni con Igor' Stravinsky è inesatta.

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eravamo là, Roerich fece anche lo schizzo dei suoi famosi fondali di tipo polovtsiano, e disegnò i costumi ispirandosi ai costumi veri che si trova­ vano nella collezione della principessa. A quel tempo, per inciso, il ti­ tolo del balletto era Vesna svjascennaja-. Primavera sacra, o Primavera santa. Le sacre du printemps, il titolo datogli da Bakst, andava bene sola­ mente in francese. In inglese, The Coronation of Spring è molto piu vi­ cino al mio intento originale di quanto non sia The Rite of Spring. Cominciai ad avere idee tematiche del Sacre du printemps subito dopo essere tornato a Ustilug: i temi degli Augures printaniers, la pri­ ma danza che stavo per comporre. Ritornando in Svizzera in autunno, andai ad abitare con la mia famiglia in una pensione di Clarens e con­ tinuai a lavorare. Quasi tutto il Sacre du printemps fu scritto in una mi­ nuscola stanza di quella casa, in un piccolo studio lungo due metri e mezzo e largo altrettanto, il cui unico mobilio era costituito da un piccolo pianoforte verticale che suonavo sempre con la sordina (la­ voro sempre al pianoforte mettendo la sordina), da un tavolo e da due sedie. Composi dagli Augures printaniers alla fine della mia prima parte e scrissi in seguito il Preludio iniziale. Era nelle mie intenzioni che il Preludio dovesse rappresentare il risveglio della natura, lo stridere, il rosicchiare, il dimenarsi di uccelli e bestie. Le danze della seconda parte furono composte nell’ordine in cui com­ paiono nella partitura, e anche molto in fretta, fino alla Danse sacrale, che continuavo a suonare, ma che non sapevo, in un primo momento, come realizzare. La composizione di tutto il Sacre fu terminata, in uno stato di esaltazione e di spossatezza, all’inizio del 1912, e la maggior parte della strumentazione - lavoro soprattutto meccanico, perché quan­ do compongo la musica compongo sempre anche la strumentazione - fu scritta in partitura entro la fine della primavera. Le pagine finali della Danse sacrale furono completate soltanto verso il 17 novembre; ricor­ do bene quel giorno, poiché avevo un terribile mal di denti che andai poi a farmi curare a Vevey. Dopo di che partii per Parigi e andai a suo­ nare il Sacre a Debussy o meglio, con Debussy (nella mia trascrizione per due pianoforti) *. Mi ero affrettato a finire il Sacre poiché volevo che Djagilev lo al­ lestisse nella stagione 1912. Alla fine di gennaio andai a Berlino, dove allora si trovava il Balletto, per discuterne con lui la rappresentazione. Lo trovai molto turbato per lo stato di salute di Nizinskij, ma benché mi 1 La terza lettera che Debussy mi inviò e che fu pubblicata in Conversazioni con Stravinsky con la data 8 novembre 1913, contiene un errore di stampa. Deve leggersi 8 novembre 1912, natu­ ralmente, come è chiarito dalla frase «è per questo che aspetto la rappresentazione scenica» [vedi nota a p. 31].

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parlasse di Nizinskij per ore intere, tutto ciò che disse riguardo al Sacre fu che non poteva assolutamente allestirlo per il 1912. Resosi conto del mio disappunto, cercò di consolarmi invitandomi ad accompagnare il Balletto nei suoi prossimi viaggi, cioè a Budapest, a Londra e a Venezia. Visitai con lui quelle città, che erano allora tutte e tre nuove per me, e tutte e tre mi divennero da allora molto care. La vera ragione che mi fece accettare con tanta disinvoltura il rin­ vio dell’allestimento del Sacre, comunque, fu che avevo già cominciato a pensare alle Noces. In quell’incontro a Berlino, Djagilev mi aveva in­ coraggiato a impiegare un’orchestra enorme per il Sacre, promettendo che l’organico orchestrale del nostro Balletto sarebbe stato molto aumen­ tato nella stagione successiva. Non sono sicuro che la mia orchestra sa­ rebbe stata altrimenti così grande. Che la prima rappresentazione del Sacre du printemps sia stata ac­ compagnata da uno scandalo è un fatto notorio. Comunque, per quanto ciò possa sembrare strano, io stesso non mi aspettavo una simile esplo­ sione. Le reazioni dei musicisti che venivano alle prove d’orchestra non la facevano certo presagire \ e lo spettacolo scenico non appariva tale da dover far scoppiare una rivolta. I danzatori avevano provato per mesi e sapevano benissimo quel che facevano, anche se spesso quel che face­ vano non aveva niente a che vedere con la musica. «Conterò fino a qua­ ranta mentre tu suoni, - mi diceva Nizinskij, - e vedremo dove ci in­ contreremo». Non arrivava a capire che, benché potessimo a un certo punto incontrarci, questo non voleva dire necessariamente che fossimo andati insieme durante il percorso. Anche i danzatori seguivano piu la battuta di Nizinskij che quella della musica. Nizinskij contava in rus­ so, naturalmente, e poiché i numeri russi oltre il dieci sono polisillabi - diciotto, per esempio, è vosemnadcat' — nei tempi veloci né lui né gli altri potevano tener dietro alla musica. Fin dall’inizio della rappresentazione si sentirono moderate prote­ ste contro la musica. Poi, quando il sipario si apri sul gruppo di Lolite con gambe a X e lunghe trecce, che saltavano su e giù (Danse des adolescentes), la tempesta scoppiò. Dietro di me gridavano — Ta gueule -. Udii Florent Schmitt urlare: - Taisez-vous garces du seizième le «garces» del sedicesimo arrondissement erano, naturalmente, le si­ gnore più eleganti di Parigi. Comunque il tumulto continuava, e pochi 1 Debussy, nonostante il suo ulteriore, ambiguo atteggiamento («C’est une musique nègre»), alle prove si mostrava entusiasta. In verità, avrebbe dovuto esserne compiaciuto, poiché il Sacre deve più a Debussy che a chiunque altro, tranne me, sia nella sua parte migliore (il Preludio) sia in quella più debole (la musica della seconda parte tra la prima entrata delle due trombe soliste e la Glorification de l’Elue).

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minuti dopo lasciai furioso la sala; ero rimasto fino ad allora seduto nelle prime file a destra vicino all’orchestra, e ricordo di aver sbattuto violen­ temente la porta. Non sono mai più stato arrabbiato come allora. Quella musica mi era talmente familiare! Mi piaceva molto e non potevo capire perché gente che non l’aveva ancora sentita volesse protestare in anti­ cipo. Arrivai con furia dietro il palcoscenico, dove vidi Djagilev che fa­ ceva manovrare le luci in sala nell’ultimo sforzo di far tornare la calma in teatro. Per tutto il resto della rappresentazione stetti dietro le quinte vi­ cino a Nizinskij reggendolo per le code del frac, mentre lui in piedi su una sedia urlava dei numeri ai danzatori, come un timoniere. Ricordo con maggior piacere la prima esecuzione in concerto del Sa­ cre che avvenne l’anno successivo, un trionfo che i compositori rara­ mente assaporano. Non sta a me dire se le acclamazioni dei giovani che riempivano il Casino de Paris significassero più che un semplice rove­ sciamento del verdetto formulato con cattive maniere l’anno precedente, ma a me sembrò molto di più. (Tra parentesi, Saint-Saèns, uomo basso e sottile - potevo vederlo bene — venne a questa esecuzione; non so chi fu a inventare la storia che, sì, era venuto alla première, ma se ne era andato via presto). Dirigeva ancora Monteux e questa volta la realizza­ zione musicale fu la migliore possibile. Monteux era piuttosto incerto sulla programmazione del Sacrel, dato il precedente scandalo, ma nel frattempo aveva avuto un grande successo con una esecuzione di Petru­ ska, ed era fiero del suo prestigio fra i musicisti (P avant-garde', anch’io pensavo che rispetto a Petruska Le sacre fosse più sinfonico, più pezzo da concerto. Mi lasci dire qui che Monteux, esempio quasi unico fra i direttori d’orchestra, non immiserì mai Le sacre né lo ridusse a pre­ testo di glorificazione personale, e continuò a dirigerlo per tutta la vita con la più grande fedeltà. Alla fine della Danse sacrale l’intero pubblico balzò in piedi ad applaudire. Andai sul palcoscenico ed abbracciai Mon­ teux, che era un fiume di sudore; fu l’abbraccio più salato della mia vita. Numerosa folla travolse il palcoscenico. Fui issato su anonime spalle e portato in strada e di là fino a Place de la Trinité. Un poliziotto si introdusse a forza tra la folla per raggiungermi e per cercare di protegger­ mi, e fu proprio questo guardiano della legge che Djagilev scelse per rac­ contare in seguito la storia nella sua versione: «Il nostro piccolo Igor' pretende ora di essere scortato dalla polizia dopo i suoi concerti, come un pugile professionista». Djagilev era sempre invidioso in modo im­ maturo di tutti i successi che potevo riportare fuori dell’ambito del suo Balletto. 1 II concerto comprendeva anche un Concerto di Mozart suonato da Enesco e il Doppiò Con­ certo di Bach suonato da Enesco e da un violinista di cui ho dimenticato il nome. 13

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Dopo quella del 1913, ho visto soltanto una versione scenica del Sacrey quella che Djagilev fece allestire nel 1921. Musica e danza erano stavolta piu coordinate di quanto non lo fossero nel 1913, ma la coreo­ grafia (di Mjasin) era di un carattere troppo ginnico e dalcroziano per piacermi. Mi resi conto allora che preferisco Le sacre come pezzo da concerto. Diressi per la prima volta il Sacre nel 1928 registrandolo per la Columbia inglese. Dapprima ero piuttosto nervoso, trattandosi di un pezzo difficile; ma in realtà quelle famose difficoltà, che consistevano solo nel mero avvicendamento del battere in due e in tre, si rivelarono una leggenda dei direttori d’orchestra; Le sacre è scabroso ma non è difficile, e lo chef d'orchestre è poco più di un agente meccanico, un battitore di tempo che spara con la sua pistola all’inizio di ogni sezio­ ne ma lascia che la musica scorra da sola. (All’estremo opposto stanno i Tre pezzi per orchestra di Berg, nei quali la musica dipende al massimo dalle sfumature del direttore). Il mio esordio pubblico col Sacre av­ venne l’anno successivo ad Amsterdam, con il Concertgebouw, dopo di che lo diressi regolarmente in ogni parte d’Europa. Una delle esecu­ zioni più memorabili che feci in quegli anni fu quella alla Salle Pleyel, alla presenza del presidente della repubblica Poincaré e del suo primo ministro Herriot. Nel 1938 ricevetti dall’ufficio di Disney in America la richiesta di un permesso per l’utilizzazione del Sacre in un film di cartoni animati. Quella richiesta era accompagnata dal cortese avvertimento che, qua­ lora il permesso fosse stato rifiutato, la musica sarebbe stata utilizzata ugualmente. (Le sacre, essendo «russo», non aveva il copyright per gli Stati Uniti). I produttori del film volevano comunque mandarlo anche all’estero (cioè nei paesi che avevano accettato il copyright di Berna), e perciò mi offrivano 5000 dollari, somma che dovevo fare il favore di accettare. (Anche se, in realtà, quella cifra sarebbe presto diventata una sciocchezza a causa delle percentuali di una dozzina di famelici intermediari). Vidi poi quel film con George Balanchine in uno studio di Hollywood durante il periodo natalizio del 1939. Ricordo che qualcu­ no voleva darmi una partitura e, quando dissi che avevo già la mia, quel qualcuno mi disse «Ma è tutto cambiato». Lo era proprio. La strumen­ tazione era stata migliorata da bravate tali come il far suonare i glissandi dei corni a un’ottava superiore nella Danse de la terre. Anche l’ordine di successione dei pezzi era stato scompigliato, e i più difficili erano stati eliminati (ma neanche questo riuscì a salvare l’esecuzione musicale, che era esecrabile). Non dirò nulla del complemento visivo, perché non vo­ glio mettermi a criticare una sequela incessante di imbecillità; dirò e

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ripeterò soltanto, comunque, che il punto di vista musicale di quel film dava adito a un pericoloso equivocol. Ho fatto per due volte una revisione di alcune parti del Sacre, prima nel 1921 per la ripresa che ne fece Djagilev, e poi nel 1943 (solamente la Danse sacrale) per una esecuzione (mai realizzatasi) della Boston Sym­ phony Orchestra. Le differenze tra queste revisioni sono state molto di­ scusse, benché non siano ben conosciute o spesso neanche percepite. In almeno due danze la lunghezza delle battute era più lunga nella partitu­ ra originale del 1913; a quell’epoca cercavo di far corrispondere le bat­ tute al fraseggio. Fin dal 1921, comunque, la mia esperienza esecutiva mi aveva portato a preferire divisioni più piccole (cfr. Y Evocation des ancètres). Le battute più corte si rivelavano più agevoli sia per il di­ rettore sia per l’orchestra e semplificavano molto la scansione della mu­ sica. (Recentemente pensavo a un problema simile leggendo una quartina dei Sonetti a Orfeo. Il poeta scrisse i versi di quella lunghezza, oppure, come credo, li tagliò a metà in un secondo tempo?) Sebbene il mio inten­ to principale nel rivedere la Danse sacrale fosse quello di facilitarne l’e­ secuzione per mezzo di un’unità di battuta più facile da leggere, anche 1 Al Direttore della « Saturday Review » 25 West 45th Street, New York 36, N.Y.

4 febbraio i960

Signore, una lettera stampata sulla «Saturday Review» del 30 gennaio i960, cita il Signor Walt Disney come segue: «Quando Stravinsky venne nello studio... fu invitato a conferire con [il] di­ rettore d’orchestra... e con [il] commentatore... e quando gli furono mostrati i primi abbozzi dei disegni, disse di essere "eccitato” dalle possibilità di quel film... fu d’accordo su certi tagli e rior­ dinamenti e quando gli fu mostrato il prodotto finito, usci dalla sala di proiezione visibilmente commosso... e gli pagammo la somma di 10000 dollari e non di 5000». In realtà, il mio contratto, datato 4 gennaio 1939 e firmato dal mio procuratore legale di New York, dichiarava che le «Walt Disney Enterprises» mi pagavano la somma di 6000 dollari per l’utilizzazione del Sacre du printemps e che 1000 dollari di questo onorario dovevano essere pagati all’editore per il noleggio del materiale d’orchestra. Il mio cachet, lordo, come già avevo detto, fu di .5000 dollari. Quel contratto dichiarava inoltre che il Sacre sarebbe stato registrato tra il 2_5 marzo ed il 20 aprile del 1939. In quel periodo mi trovavo in un sanatorio per tuberco­ lotici nei pressi di Chamonix. Non potevo, davvero, non potevo proprio aver conferito con il di­ rettore della sezione musicale né con il commentatore del film; e infatti lasciai il sanatorio una sola volta in parecchi mesi di degenza, per dirigere Persephone al Maggio fiorentino. L’asserzione che mi sia recato in due differenti occasioni negli studi di Disney, una per vedere gli schizzi pre­ liminari e un’altra per vedere il film ultimato è anch’essa falsa. Ci sono andato una volta sola, come ho scritto. Sono stato ricevuto dal signor Disney, fotografato con lui, mi furono mostrati disegni e abbozzi del film ormai finito e, infine, il film stesso. Ricordo di aver visto la negativa del film L'apprendista stregone, di essermici divertito e di averlo detto. Che possa aver espresso la mia approvazione sul trattamento che era stato usato alla mia musica mi sembra molto impro­ babile (anche se, naturalmente, spero di essere stato cortese). L’equivoco del signor Disney fu forse simile a quello di un compositore che una volta invitò un amico mio a sentire la musica del­ la sua nuova opera. Quando quel compositore ebbe finito di suonargli la prima scena e venne il momento di fare dei commenti, tutto ciò che il mio amico seppe dire fu: - E poi che cosa succe­ de? -, al che il compositore disse: - Oh, come sono contento che le piaccia. Igor’ Stravinsky

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la strumentazione venne cambiata - perfezionata, credo — in parecchi modi. La musica del secondo gruppo di corni, per esempio, è notevol­ mente semplificata nella versione ulteriore — non ero mai soddisfatto delle parti dei corni — e la nota del corno con sordina che segue le cinque note dell’a solo di trombone è affidata in questa versione alla tromba bassa molto più forte. Anche le parti degli archi sono state radicalmen­ te riscritte. Gli amateur della versione più vecchia rivendicano di essere disturbati dal fatto che l’ultimo accordo sia stato cambiato. Non ero mai stato soddisfatto di questo accordo; prima era un rumore mentre ora è un’aggregazione di altezze sonore ben distinte. Continuerei comunque in eterno a rivedere la mia musica se non fossi troppo occupato a com­ porne dell’altra, e sono ben lontano dall’essere soddisfatto di tutto nel Sacre. (Le parti dei primi violini e dei flauti nel Cortege du sage, per esempio, sono bilanciate male). Non seguii nessun sistema particolare nella composizione del Sacre du printemps. Quando penso agli altri compositori di quell’epoca che mi interessano - Berg, che è sintetico (nel miglior senso della parola), Webern, che è analitico, e Schonberg che è l’uno e l’altro - quanto più teorica sembra la loro musica in confronto al Sacre-, e questi com­ positori erano sostenuti da una grande tradizione, mentre dietro al Sacre du printemps esiste pochissima tradizione diretta. Mi era di aiuto il solo orecchio. Sentivo e scrivevo ciò che sentivo. Sono il vaso d’ele­ zione attraverso il quale è passato il Sacre.

Santa Fé - Rio de Janeiro, luglio-settembre i960.

Appendice

Poco più di una calamità su una delle loro case (Confronto di due critici) Bartholomeus il (a Ionesco) Confessa i suoi errori? Ionesco (con sforzo) Ah si, signori... si... la mia igno­ ranza, i miei errori... Chiedo loro perdono!... chie­ do proprio perdono... non chiedo che di essere istrui­ to... (Si batte il petto) Mea culpa! Mea maxima cul­ pa! Bartholomeus ih (a Bartholomeus 1 e a Bartholo­ meus II) Che sia sincero? Ionesco (con calore e convinzione) Oh si!... lo giu­ ro!... Bartholomeus il A peccatore pentito, misericordia. IONESCO (confuso) Oh, grazie... grazie... Sono buoni loro, signori! Bartholomeus i (a Bartholomeus II) Non ceda al­ la tentazione della bontà! Vedremo in seguito se è veramente sincero. ionesco Oh sì, sono sincero. BARTHOLOMEUS Hi Che lo provi, con la sua opera. BARTHOLOMEUS I No, non con la sua opera. BARTHOLOMEUS il L’opera non conta. BARTHOLOMEUS i Contano solo i principi. BARTHOLOMEUS il Cioè a dire, ciò che si pensa di un’opera. BARTHOLOMEUS i Giacché l’opera in se stessa... BARTHOLOMEUS li Non esiste... BARTHOLOMEUS i È in ciò che si pensa... eugène ionesco,

L’improvviso dell*Alma ( Improvvisazione)

Una soluzione al problema di che fare del Fratello Criticus sarebbe quella che i compositori pubblicassero la loro rivista. Questa dovreb­ be essere meno esclusivamente propagandistica di quelle che esistono attualmente (penso a certi periodici degli editori) e dovrebbe adempiere a uno scopo del tutto diverso; ma dovrebbe soprattutto essere una ri­ vista di compositori: cioè una rivista professionale. L’ostacolo fonda­ mentale a un’impresa di questo genere non è naturalmente il denaro, ma il tempo che si richiederebbe ai compositori per redigerla, e la pro­ babile non propensione dei compositori stessi a scrivere. Quali dovreb­ bero essere i compositori redattori? Dovrebbero anzitutto esservi rap­ presentati parecchi gruppi di età diverse, e i loro punti di vista conse­ guenti o individuali (e non conseguenti). Chi è qualificato a scrivere? Chi, in verità, fra i compositori, sa scrivere? I vecchi statisti, gente co­ me Virgil Thomson, Robert Gerhard, Ernst Kfenek, Roger Sessions, sono i più capaci e i più precisi nella loro integrità di parola. Nel grup­ po seguente e ancora vicino ai più anziani, i primi nomi che mi vengono in mente sono quelli di Milton Babbit, Elliott Carter, George Perle, Ar­ thur Berger, e, nel gruppo di gente di mezza età, Boulez. Non sono abbastanza al corrente del lavoro di giovani di cui si parla come Peter Maxwell Davies, Dieter Schonbach, Giacomo Manzoni, per potermi qualificare a raccomandarli, ma so che il punto di vista della lo­ ro generazione va espresso. In fine, se critici non compositori risultano indispensabili a una impresa di tal genere, potrei anche raccomandarne alcuni: Lawrence Morton e Joseph Kerman. Quale consiglio si può offrire ai promotori di una rivista di questo genere? Dunque, Dio impedisca che si fondi una pubblicazione dedi­ cata esclusivamente alla musica americana o alla musica americana come fatto isolato. Suggerimento positivo però è che ogni numero dovrebbe comprendere la traduzione di alcuni scritti teorici non ancora pubblica­ ti in inglese (per esempio i saggi di Schenker, di Simon Sechter, e di Frie­ drich Waismann sufie analisi linguistiche). Vorrei anche raccomandare

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ai redattori di evitare il nuovo gergo. (Penso a «Die Reihe», che è senza dubbio piena di «futuro», ma che è anche, ed egualmente piena di glos­ solalia). Quando la critica musicale sarà in mani relativamente competenti, gli ignorantoni professionali, quel flagefio costituito dai recensori-giorna­ listi si sentiranno costretti a lasciare il campo? Penso di no, ma chiedo al lettore di pensare alla necessità di questa iniziativa attraverso il mio esame delle prestazioni di due recensori del genere. Il Numero Uno è im­ piegato in un giornale di New York, e il Numero Due nella rivista popo­ lare piu sofisticata d’America. Dal momento che non posso arrivare fi­ no al punto di immortalare gente simile facendone il nome, li chiamerò qui, rispettivamente H. P. Langweilich e S. W. Deaf (l’uniformità di lin­ gua è impossibile dal momento che il nome «Taub» è già stato usato) \ Entrambi sono colpevoli di pubblica ignoranza — colpa certamente me­ no scusabile di quella di aver intossicato l’opinione pubblica — e di aver preteso di sapere qualcosa mentre non sanno un bel nufia. «Per lo meno [la Sinfonia] evitava di usare la scala dodecafonica e la sua caratteristica pedanteria» («New Yorker», 26 dicembre 1959). Questa strampalata osservazione ricorre in una delle solite estasiate critiche fatte da Deaf alle solite spaventose mediocrità. È diretta con­ tro il compositore che piu di qualsiasi altro ha rivendicato al mondo del­ la musica un nuovo modo di valutazione. Questa osservazione rivela l’incapacità del suo autore a pronunciare un qualsiasi giudizio musicale (e Deaf non è mai patrocinatore ma sempre giudice). Devo spiegarmi me­ glio? Neanche il lettore più distratto può non sapere che una scala, in sé, non è che un materiale costruttivo; che non può essere «pedante» né usata in modo pedante, tranne che da un Czerny, forse. La «scala dode­ cafonica» cui si suppone che quel recensore voglia riferirsi — cioè quel­ la di Schonberg — è la stessa scala usata da Mozart e da quasi tutti gli altri compositori. Come ci si può oggi occupare «professionalmente» (nel senso di «essere pagati per» farlo) di giornalismo musicale senza sapere che Schonberg non inventò né usò una «scala» nuova? È venuto per i musicisti il momento di protestare, e non dovevo essere io il primo a farlo, ma quella gente davvero sfortunata che Deaf encomia. (I giganti di Deaf sono Giannini, Jello Doio12, Gian Carlo, ecc.; i nani sono invece Schonberg e l’autore di questi scritti). Paragonare Deaf con Langweilich, comunque, significa scoprire dei meriti persino nefio stesso Deaf. (Questa bella coppia non possiede un 1 [In tedesco taub vuol dire, corte deaf in inglese, sordo. Langweile> sempre in tedesco, si­ gnifica noia]. 2 [5ic/]

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mercato comune, a parte il fatto che Langweilich compare occasional­ mente nella rubrica Block That Metaphor del brillante periodico su cui scrive Deaf). Deaf è per lo meno leggibile, e può anche essere divertente. Per di piu, tende a parlare in prima persona, cioè dice «secondo me». Le sue opinioni perciò sono sempre al livello del «non mi piace» e - ben­ ché non riesca a capire perché ci si debba interessare ai «mi piace» o ai «non mi piace» di gente simile - questo è forse ancora il livello più accettabile. Langweilich, in confronto, scrive in un modo cosi atroce che il lettore è in grado di seguirlo solamente perché conosce anticipatamen­ te i suoi intenti maliziosi. E anche la competenza musicale di fondo di Langweilich è talmente dubbia, che il più famoso direttore d’orchestra americano ebbe una volta a dichiarare pubblicamente che questo Lang­ weilich non era in grado di distinguere i bemolli dai diesis. Ora, non è che mi diverta molto fare liti sarcastiche di questo genere (quanto più bello sarebbe, come scrisse Montesquieu dei suoi critici, non «abbat­ terli rudemente al suolo, ma spingerli delicatamente nell’abisso») ma il tono ad hoc delle citazioni di Langweilich richiede proprio questo at­ teggiamento. «Stravinsky che per tutta la sua vita è stato un apertissimo opposi­ tore della pura simonia dodecafonica ne diventa ora un assertore». A parte il fatto che una «pura simonia dodecafonica» non esiste e non po­ trebbe esistere, l’espressione è da ignoranti quanto la «pedanteria del­ la scala dodecafonica» di Deaf. Io, come la maggior parte dei musicisti, me ne ero reso conto, e cominciai a capire la tecnica delle composizioni seriali di Schonberg solamente negli ultimi quindici anni. Nessuno dei due riferimenti a Schonberg e al suo lavoro, che avevo espresso quando Schonberg era ancora vivo (in libri pubblicati nel 1935 e nel 1941) era poco lusinghiero, né poteva prestarsi al significato che Langweilich mi attribuisce slealmente. «Stravinsky... non è il miglior direttore delle sue opere... ma quegli eccellenti musicisti... avevano soltanto bisogno dell’attacco iniziale per andare avanti da soli». Questa è una sciocchezza immorale. Nessuna orchestra al mondo può «andare avanti da sola» per più di cinque battute dei miei Mouvements (a questo lavoro infatti si riferisce la suddetta osservazione), e soltanto un direttore molto abile può renderlo bene fino in fondo. «...Guardo al sistema dodecafonico come a un modo di comporre legittimo, logico, utile e che ha prodotto capolavori genuini... gli ultimi pezzi di Stravinsky che vanno sotto questa denominazione sono scritti con abilità impareggiabile...» Millanteria ampollosa. Langweilich non sa nulla del «sistema dodecafonico», neppure di quello cui egli sembra pen­ sare e che non esiste. L’espressione «sistema dodecafonico» suona as-

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Esposizioni e sviluppi

surda a un musicista d’oggi almeno quanto «esaurimento nervoso» al­ l’orecchio di un medico. Né d’altronde Langweilich può parlare della mia abilità compositiva dopo aver sentito una sola volta un pezzo complesso come i Mouvements. «Guardo a...» davvero. «Uno dei nuovi lavori di Stravinsky [Epitaphium, Double Canon, Movements] dura meno di mezzo minuto, l’altro, due o tre, e il nuovo chef d} oeuvre, un lavoro per pianoforte e orchestra, forse dodici... Vi si possono discernere molti eccellenti sprazzi di genio...» La misura quan­ titativa è proprio quella di una mente primitiva, ma anche dal punto di vista quantitativo la tendenza generale della mia musica recente è quella di scrivere pezzi più lunghi (Threni, Agon, Il Diluvio). Gli «sprazzi di genio» sono una blague naturalmente, poiché Langweilich non può par­ larne seriamente con cognizione di causa, ma gli «sprazzi di genio» sa­ rebbero stati eccellenti in ogni caso, non è vero? Chef d’oeuvre è tipica­ mente da rettile. «I microscopici pezzi di Stravinsky sono vieux jeu», naturalmente. «Webern li fece cinquantanni fa». E «Webern aveva un cuore, lo Stra­ vinsky della Sinfonia di Salmi aveva un cuore, ma lo Stravinsky di oggi ha soltanto cervello». Buon vecchio Webern! Vecchio cattivo cervello! Ma i miei microscopici pezzi sono di un vieux jeu molto più vecchio di cinquant’anni, e soltanto una persona completamente sorda alla musica potrebbe sentirvi il Webern di cinquant’anni fa. Langweilich è molto infastidito dai «membri intransigenti della set­ ta». Questa gente cattiva non viene nominata (e d’altronde non po­ trebbe esserlo dal momento che «la setta» è del tutto immaginaria), ma invece la brava gente viene identificata, sono coloro che hanno «fatto uso della tecnica dodecafonica pur rimanendo sommi compositori in pro­ prio»: Dallapiccola, Riegger, Sessions. Chi è che appartiene allora alla setta? Schonberg, Berg, Webern? Ma il loro linguaggio è diventato quel­ lo della maggioranza. Allora sono Boulez, Berio e compagnia? Sicura­ mente anche Langweilich sa che in realtà questi compositori sono re­ sponsabili del declino di ciò che egli immagina sia il «sistema dodeca­ fonico», e perfino la «tecnica seriale». «Tutti sanno che Stravinsky è il più egocentrico autocrate dei musi­ cisti». Garantito dai sondaggi demoscopici Gallup, senza dubbio. «Tut­ ti sanno...», introduzione classica del demagogo, significa natural­ mente che «nessuno ne sa niente». Tra parentesi, un autocrate non egocentrico sarebbe, per prendere a prestito una frase del periodico di Deaf, «The Neatest Trick Of The Week». Venne poi l’affaire Gesualdo, e con esso il mistero di come una per­ sona provvista di una sia pure rudimentale educazione musicale possa

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scrivere in modo cosi stupido di cose talmente ovvie. «Gesualdo è tutta emozione e poca logica» - Langweilich ha più confidenza con l’iper­ bole che con l’aritmetica — «tutto impulso e poco calcolo». Ma dal mo­ mento che Langweilich vanta ripetutamente la mia abilità, allora, per essere coerente con se stesso, dovrebbe fare almeno credito alla mia capacità di riconoscere l’abilità altrui. La musica di Gesualdo è squisi­ tamente logica e perfettamente calcolata, naturalmente. Langweilich si interessa meno alla musica che alla polemica nei riguardi della musica, comunque, e nel caso di Gesualdo cerca semplicemente di nascondere una solenne dichiarazione che fece in passato: «I madrigali di Gesual­ do vanno considerati solamente come madrigali da lettura poiché la loro scrittura orribile, tormentata e antivocale rende pressoché impos­ sibile la loro esecuzione da parte di un gruppo vocale». (E Langweilich non sembra neppure avere il sospetto che i pezzi che aveva ascoltato non fossero madrigali, ma modesti mottetti contrappuntistici). Ed ora che i giornalisti più intelligenti hanno imparato che non è possibile dare un giudizio sulla precisione con cui vengono presentate le prime esecuzioni di brani complessi di musica nuova (cioè di musica che non possono avere ancora visto né udito), nessuno si sorprenderà nel constatare come invece Langweilich prenda subito posizione. Lang­ weilich ci assicura che il Trio postumo di Webern, il più difficile da seguire fra i lavori di quel maestro, venne «suonato con bella precisio­ ne». Ora io, essendo in possesso dell’unica partitura esistente, dopo molte audizioni e molto studio, io solo posso dire che, in effetti, quel Trio fu eseguito neanche lontanamente con bella precisione. Ma, per es­ sere del tutto corretto con Langweilich, bisogna rilevare che, se egli lo­ dava qualcosa era solo per denigrarne un’altra (in questo caso: la can­ tata Aus der Tiefe di Bach ed il Ballo delle ingrate). Il Ballo ha «alcune magnifiche melodie ma anche recitativi interminabili», dice Langwei­ lich — come se i «recitativi» fossero meno degni di nota delle «melodie» — ma è un pezzo di «antiquariato ricercato» (frase che costituisce una confessione notevolmente ingenua dell’incredulità dell’autore sulla pro­ pria attività di «musicologo»). Langweilich liquida il capolavoro di Bach con le parole «giovanile e minore». La cantata è molto maggiore, naturalmente (a meno che Langweilich non volesse riferirsi al fatto che è in «sol minore»); e, in ogni caso, che fosse «giovanile» Langweilich lo apprese solamente leggendo una nota del programma e non filologi­ camente, tramite l’evidenza musicale. «Giovanile» in genere, equivale a «buono», nel campo delle cantate, e ciò appartiene al genere di cose che Langweilich dovrebbe sapere. Altrove, con un’altra ingiuria dal tono anche più pusillanime, Lang-

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Esposizioni e sviluppi

weilich informa i suoi lettori che Stravinsky è «un dilettante in fatto di fedeltà musicale», che Stravinsky «non ha alcuna vera filosofia, né etica, né sistema musicale», che Stravinsky è «un po’ limitato... un po’ superficiale». Orbene Stravinsky spera di essere solamente un po’ su­ perficiale, ma di certo è molto limitato. Quanto alla mia «filosofia», essa, naturalmente, è la mia musica, e grazie a Dio non ho nessun — che frase — «sistema musicale». (Ma cos’è poi che preoccupa tanto quel­ l’uomo, quale complesso di inferiorità è alla radice di tale esacerbazione?) Il povero lettore di queste puntigliose geremiadi deve in primo luogo indovinare a quali soggetti si riferiscano alcuni pronomi, e poi cercare di tenere il passo con un uomo il quale, non essendo sicuro del­ le sue parole, ne usa continuamente due al posto di una: «generalizza­ zioni assolute», «madrigali vocali», «strana aberrazione», «labirinto intricato», ecc. Ecco una sua tipica «frase»: «Al di là di Stravinsky puoi andare a tutte le sottigliezze e le sublimità che egli non offre, ma non puoi cercargli un senso recondito» (e nella riga seguente, la mia letteratura è carica di «enigmatiche profondità»). E Langweilich sem­ bra avere anche poca memoria, poiché conclude il suo catalogo di giu­ dizi pieni di ignoranza con la dichiarazione che «Stravinsky sarà giudi­ cato dai posteri...» Infine poi i necessari complimenti che fa sono i più scortesi di tutti gli insulti: «Stravinsky ha una vera percezione della musica» Uzc); i «pensieri sulla musica» di Stravinsky sono «assolutamente professionali». Nell’agosto 1955, un telegramma di Leopold Stokowski da Santa Barbara mi annunciava la sua intenzione di farvi eseguire la mia Messa, in memoria del critico musicale del «New York Times», deceduto pro­ prio allora. Stokowski non sembrava rendersi conto che il critico di quel «Times» aveva provato particolare antipatia per la mia Messa e ne ave­ va sparlato in modo abietto. Per un momento, e finché la memoria non mi ebbe restituito il senso della giustizia, pensai che avrei dovuto in­ formarlo. Decisi comunque di non farlo e anzi fui molto soddisfatto del­ l’esecuzione di Stokowski, anche se non fui effettivamente presente tra gli accompagnatori di quel funerale. Altre persone dovrebbero fare loro questo avvertimento e tenere in tasca un appunto che dica: «Quando verrà il momento, non suonate Stravinsky». Negli ultimi anni è stato possibile attuare in Inghilterra una poli­ tica liberale nei riguardi della nuova musica grazie a una generazione più giovane e intelligente che è entrata a far parte della stampa musicale. Di conseguenza, Londra è diventata una grande capitale della musica con­ temporanea. New York potrebbe e dovrebbe fare altrettanto, dal mo­ mento che vanta un numero di valenti strumentisti maggiore di qualsia­

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si altra città del mondo. New York però deve in primo luogo ripulire la sua classe giornalistica. Deve sbarazzarsi del culto del luogo comu­ ne che attualmente incoraggia e che si accumula su gente come quella che ho qui descritto; esattamente come la sporcizia si accumula negli aspirapolvere.

Indici delle composizioni di Stravinsky e dei nomi

Indice delle composizioni di Stravinsky

Agon,io,84,342. Apollon Musagète, xxxiii, 9,13, 72, 90,123. Ave Maria, 209 n, 210 n. Baiser de la fée (Le), xvn, 117, 125, 246, 268, 269, 271, 272, 282 n, 305. Berceuses du chat (Les), 166, 314.

Cantata, xm, 94. Canticum sacrum ad honorem Sancti Marci nominis, 12, 21, 86, 88, 282 n. Capriccio per pianoforte e orchestra, 47, 165 n, 265, 288. Carriera del libertino (La), vedi Rake’s Progress (The). Chant dissident, 314. Chant du rossignol (Le), 67,123. Ch?nt funebre (per la morte di Rimskij-Korsa­ kov), 132, 136, 262. Concerto in mi bemolle (Dumbarton Oaks), xvii, 150. Concerto per archi in re, 24. Concerto per pianoforte e orchestra, xvn, 9, 13, 90,133,158, 236,315. Concerto per violino, xvi, xvn. Credo, 209 n. Diluvio (II), vedi Plood (The). Double Canon, 342. Duo concertante, io, 11.

Ebony Concerto, un. Epitaphium, 171, 324 n, 342. Etude (per pianola), 276. Faune et la bergère (Le), 15 n, 24, 113,120,133, 232. Flood (The), xxx, 306, 316, 319, 342. Four Norwegian Moods, 167,174, 266 n. Fuochi d’artificio, 64, 113,133, 137, 262, 323.

Greeting Prelude for the eightieth birthday of Pierre Monteux, 16 j.

Histoire du soldat (L’), 6, 39 n, 40 n, 62, 81, 124,183, 289-94, 310, 324.

Impressioni norvegesi, vedi Four Norwegian Moods.

Jeu de cartes, xvn, 90,120. Mavra, xvn, 13, 61, 68, 70, 133, 268-70. AfexM, 21, 88, 266, 344. Monumentum pro Gesualdo di Venosa ad CD annum, 303. Mouvements, 172, 173, 306, 341, 342.

Noces (Les), xxm, xxiv, 29, 30, 43, 69, 72, 83, 121, 127, 129, 142, 163, 168, 169, 183, 273, 276, 290, 293, 307, 30915, 324, 332. Octuor, vedi Ottetto. Ode, 266 e n. CEdipus Rex, xvn, xvm, xxxm, 9, 21, 32, 69, 90, 208 n, 239, 282 n, 304, 313. Oiseau de feu (L‘), xxm, 40 e n, 67, 71, 72, 113-17, 123,133,136-40,137,163 n, 166, 233, 268, 274, 279, 280, 283, 287, 306, 313, 319-27, 329, 330. Orpheus, 9. Ottetto, xvii, xxxm, 87. Pastorale, 133 n. Pater Noster, 209 n, 210 n. Petit concert, vedi Histoire du soldat (L’). Persephone, 9, 12, 148, 149, 203-10, 219, 333 n. Petruska, xm, xxm, 30, 31, 32, 38, 39, 47, 30, 39, 68, 69, 71,113-17,121, 123, 133,140,142, 132, 164-66, 193, 194 n, 240, 243, 249, 268, 294, 297, 3T9, 323, 324 n, 325-30, 333Piano Rag-Music, 329. Pièces faciles, 164,166. Pribautki, 144 e n, 166, 273, 313, 314 e n. Pulcinella, xn, xvn, 33, 73, 74, 122 n, 123, 133, 162, 303, 307-9.

Quattro canti russi, 166. Quattro cori paesani russi, 166, 312 e n. Quattro studi per pianoforte, 233, 261. Ragtime, 156, 314. Rake’s Progress (The), xn, xvn, xxiv, xxxiv, 90, 204, 211-20, 223-29, 281. Renard, xvi, 21, 61, 69, 70, 72, 90, 108, 121, 122 n, 124, 142, 163, 169 n, 183, 202 n, 232, 273, 282 n, 310, 312-13, 324. Roi des étoiles (Le) (Zvezdoliki), 33 e n, 133 n, 262.

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Indice delle composizioni di Stravinsky

Rossignol (Le), 37, 38 e n, 42, 45 n, 58, 66, 130, 156, 193-95, 197, 201, 243, 246, 262, 275, 282 n, 288, 290, 320 n, 324 n, 326.

Sacre du printemps (Le), xm, xx, xxi, xxm, xxiv, xxxni, xxxiv, io, 28-30, 31 n, 32 e n, 33 n, 37, 39, 41, 66, 68, 77, 86, 90, 108, 112 n, 118-20, 123, 140, 142, 153, 165 n, 166, 170, 180, 185 e n, 193 e n, 199-201, 203, 262, 274, 280, 312, 319, 323, 324 n, 327, 328, 330-36. Salmi, vedi Sinfonia di Salmi. Scènes de ballet, 281. Scherzo alla russa, 174, 266 n. Scherzo fantastiche, 24,115, 137, 281 n. Sermon, a Narrative and a Prayer (?1), 284 n, 306. Settimino, 12. Sinfonia di Salmi, 21,153, 165 n, 305, 342. Sinfonia in do, io, 11, 278. Sinfonia in mi bemolle, 15 n, 24, 135, 261. Sinfonia in tre movimenti, 17, 85, 108, 266 e n. Sinfonie di strumenti a fiato, 90, 165 n, 185, 329. Sonata per pianoforte, 13. Suite (II), 139.

Te Deum, xxx, 317. Threni id est lamentalo Jeremiae Prophetae, 7, io, 17, 83 n, 88, 174, 282 n, 304, 342. Tre liriche giapponesi, 41, 42 n, 90, 144, 274. Tre movimenti (da Petruska), 329. Trois pièces pour clarinette, 293. Trois pièces pour quatuor, xxxiv, 164, 275, 329. Trois souvenirs de mon enfance, 314 n. Uccello di fuoco (L'), vedi Oiseau de feu (Z/).

Indice dei nomi

Abraham a Santa Clara (Johannes Ulrich Meger­ le), 265. Adorno, Theodor Wiesengrund, xxiv. 310,313. Afanas'ev, Aleksandr Nikolaevic, 290, 294, 309, Akimenko, Fèdor Stepanovié, 253, 254. Albéniz, Isaac, 287. Alessandra, regina di Gran Bretagna e Irlanda, 157. Alessandro III, imperatore di Russia, 57, 109, 246, 264, 269. Alfonso XIII, re di Spagna, 123,157. Amiel, Henri-Frédéric, 66. Andersen, Hans Christian, 139, 246, 271. Andreev, Leonid Nikolaeviè, in. Andrew, W. S., 298 n. Anseimo d’Aosta, santo, 264. Ansermet, Ernest, xxn, 36,108. Apel, WiUi, 184. Arenskij, Anton Stepanoviè, 137,138. Argutinskij, Vladimir, principe, 73. Aristofane, 212. Auberjonois, René, 39 e n, 40, 293. Auden, Wystan Hugh, 7, 8, 21, 53, 54, 204, 211-20, 223, 305. Auer, Leopold, 104, 287. Babbitt, Milton, 184, 298 n, 339. Babelz, Isaak Emmanuilovic, 261. Babitz, Sol, 296. Bach, Johann Sebastian, xvi, xvn, xix, xxvm, xxx, xxxin, 14, 18, 48, 85, 91, 107, 108 n, 112, 120, 177, 181, 184, 195, 196, 200, 283, 284, 295,333 n, 343. Bachnitzky, Stanislas, 261. Bakst, Lev, 60, 67-70, 204, 246, 321, 331. Balakirev, Milij Alekseevic, 26, 28, 166 n, 246, 253. Balanchine, George, pseudonimo di Georgij Melitonovic Balancivadze, 116,123,143, 334. Balla, Giacomo, 64-66. Bal'mont, Konstantin Dimitrievic, 141,154. Bardac, Emma, 279. Bartholoni, Jean, 324. Bartok, Béla, 51, 80. Bauchant, André, 72. Baudelaire, Charles, 240. Beardsley, Aubrey Vincent, xxv. Beecham, Thomas, 156, 194 e n, 195.

Beethoven, Ludwig van, xv, xvi, xxvm, xxxm, 15, 16 n, 23, 61, 75, 91, 107-9, II2> 148, 176178, 200, 250, 280, 286, 295, 309. Beljaev, Mitrofan Petrovic, 112,113,136. Bellini, Vincenzo, xvn, xvm, 281. Benes, Edvard, 301. Benois, Aleksandr Nikolaevic, 67-69, 115, 194199, 201, 202 e n, 239, 241 n, 321, 323, 326, 327. Berard, Christian, 72. Berg, Alban, xxvi e n, 17, 47, 49-51» 80, 81, 84, 91, 133, 134, 170, 171, 176, 267, 284 n, 291, 297, 301, 334» 336, 342. Berger, Arthur, 339. Berio, Luciano, 168, 284 n, 342. Berlioz, Hector, 15,16 e n, 280. Berman, Eugene, 14, 68. Berners, Gerald Hugh Tyrwitt, Lord, 155-57. Bernhardt, Sarah, 322. Bizet, Georges, 280. Blanche, Jacques-Emile, 71. Blok, Aleksandr Aleksandrovic, 155. Blumenfeld, Felix Michajlovic, 135, 136. Boccioni, Umberto, 64. Bócklin, Arnold, 52. Bohlen, Charles, 107. Bolm, Adolphe, 123. Bonnard, Pierre, 60. Borodin, Aleksandr Porfir'evic, 26,166, 280, 282. Bosch, Hieronymus, pseudonimo di Hieronymus van Aecken, 89. Bosset, Vera de, vedi Stravinsky, Vera. Boulez, Pierre, xn, xxiv e n, xxvi, 13, 18, 48 n, 91-93, 185 n, 186, 188, 281, 289, 339, 342. Brahms, Johannes, 15, 26, 48, 107, 112, 176, 280, 282, 284 n, 287. Brancusi, Costantin, 63, 72. Braque, Georges, 72. Britten, Benjamin, xxvm, 21. Bronte, Charlotte, 266 n. Browning, Robert, 21. Bruch, Max, 280. Bruckner, Joseph Anton, 112, 280 e n, 296. Brumel, Antoine, 89, 303. Busch, Fritz, 282. Busch, Wilhelm, 116. Busoni, Ferruccio Benvenuto, 62, 76. Buxtehude, Dietrich, 284 n.

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Indice dei nomi

Byrd, William, io, 284 n. Byron, George Gordon, Lord, 105.

Cage, John, xxvm, 182 n, 293, 295, 296. Cajkovskij, Anatolij Il'ic, 268. Cajkovskij, Modest Il'ic, 268. Cajkovskij, Pètr Il'ic, xvi-xvm, 15 n, 23, 25 n, 26, 82, 86, 106, 109, in, 132, 134, 135, 137, 138, 165, 166, 193 n, 238, 239, 253, 25$, 268273, 281, 282, 285-87, 320 n, 323. Caldaia, Antonio, 53. Caldwell, Sarah, 55. Calmo, Andrea, 181. Calvocoressi, Michel Dmitri, 155 n, Canova, Antonio, 63. Cardano, Gerolamo, 179. Carmen Sylva, pseudonimo di Elisabetta di Wied, regina di Romania, 158. Carnet, Mosco, pseudonimo di Mosco Cohen, 328. Carnot. Marie-Fran^ois-Sadi, 246 e n. Carol, re di Romania, 158. Carré, Carlo, 64, 66. Carter, Elliott, 78, 339. Casals, Pablo, 287. Casella, Alfredo, 23, 43. Cassirer, Ernst, 299. Caterina II, imperatrice di Russia, detta la Gran­ de, 103, 245. Cecchetti, Enrico, 115,116. Cecchetti, signora, 115. Cechov, Anton Pavloviè, 175, 241, 256. Celicev, Pavel, 71. Cerepnin, Nikolaj Nikolaevic, 143, 255, 323. Cerniceva, Ljubov', 123. Cézanne, Paul, 241. Chagall, Marc, 72, 261. Chanel, Gabrielle, detta Coco, 74, 275, 312. Chaplin, Charlie, 175. Char, René, 189 n. Chausson, Ernest, 280. Cherubini, Luigi, 285. Choate, 55. Cholodovskij, Kirill, 103. Chopin, Fryderyck Franciszek, 17, 109,140, 280. Ciano, Galeazzo, conte di Cortellazzo, 286. Cimarosa, Domenico, 52. Cingria, Charles-Albert, xvin, 104, 275, 295. Cipriano, vedi Rore, Cipriano de. Claudel, Paul, 24, 150,152, 209, 322. Clausewitz, Karl von, 137. Clemens non Papa, pseudonimo di Jacobus Cle­ ment, 181. Clementi, Muzio, 109. Cocteau, Jean, 37 n, 38 n, 60 n, 61, 67, 72, 124, 274. Cohen, Hermann, 62. Coleridge, Samuel Taylor, 179. Compere, Loyset, 89. Cooper, Gary, pseudonimo di Frank J. Cooper, 63. Cordier, Baude, 173. Couperin, Francois, 91,112.

Craft, Robert, xi, xn e n, xx, xxiv e n, xxvi, xxvm, xxxi, 55, 218, 219 n, 327 n. Croce, Giovanni, detto Chiozzotto, 53. Cunard, Lady, 156. Curlonis, Mikalojus Kostantinas, 241 n. Czarny, Zawisza, 258. Czerny, Karl, 340.

Dahl, Ingolf, 296. Dalcroze, Emile, vedi Jacques-Dalcroze, Emil. Dallapiccola, Luigi, 86, 342. D’Annunzio, Gabriele, 58, 59, 204. Dante Alighieri, 48, 153, 259. Dargomyzkij, Aleksandr Sergeevic, 28, 137, 281. Davies, Peter Maxwell, 339. Debussy, Claude-Achille, xxvn, xxxm, 18, 23, 30, 31-36, 37, 39, 46, 82, 112, 128, 140, 153, 194, 203, 204, 246 n, 274, 278, 279, 281, 286, 322, 328, 329, 331 e n, 332 n. Debussy, Emma-Claude, 32 n. Delage, Maurice, 42 n, 164. Delaunay, Robert, 71. Delius, Frederick, 194 n. Denis, Maurice, 277. Deplus, Guy, 176. Derain, Andre, 70. Descartes, René, 151, 319. Dickens, Charles John Huffam, m. Disney, Walt, 334, 335 n. Djagilev, Sergej Pavlovic, xiv, xxv, 28, 29, 34, 37 n, 38, 41, 42, 47, 52, 58-61, 64, 66, 67, 69-74, 81, 103, 106, 114-31, 140-43, 153, 155, 156, 161, 162, 164, 169, 175, 193-95, 196 n, 200, 201, 236, 239-41, 244, 265, 267-70, 272, 284, 292, 293, 300, 307-9, 312, 320-35. Donizetti, Gaetano, 281. Donatello, Donato di Bette Bardi, detto, 63. Doret, Gustave, 36. Dostoevskij, Fedor Michajlovic, 57, 58, 106, in, 119, 202, 258. Dubuffet, Jean, 122. Dukas, Paul, 112, 277. Duncan, Raymond, 318. Duschkin, Samuel, xvi. Dusinkin, 236. Einstein, Albert, 52. Eisenhower, Dwight David, 170. Eliot, Thomas Stearns, 48, 86. Elena, granduchessa, 293. Elisabetta I, regina d’Inghilterra, 20. Emerson, Ralph Waldo, 277. Enesco, George, 333 n. Erigena, vedi Scoto Erigena, Giovanni. Erlanger, Catherine, baronessa d’, 215 n. Errazuriz, Eugenia, 73. Esterhézy, Miklos, 161,162. Everardi, 104. Falla, Manuel de, 126,152,153, 285. Fauré, Gabriel, 280. Ferdinando d’Asburgo, arciduca d’Austria, 268. Fet, Afanasij Afanas'evic, 258. Figner, Nikolaj, 288.

Indice dei nomi Fitzgerald, Edward, 300. Flaubert, Gustave, 215 n. Fokin, Michail, 113, 116, 122, 127, 144, 321, 327. Fokina, Vera, 123. Fontanelli, Alfonso, 20. Fonvizin, Denis, 241. Forbes, Edward, 277. Franck, Cesar-Auguste, 48, 49, 280. Freud, Sigmund, 58, 179, 250. Fritsch, von, 24. Furman, Roman, 103. Fiirstner, Adolph, 73.

Gabrieli, Andrea, xxxin, 53. Gabrielovna, Ekaterina, 196,197,199, 201. Galeno, Claudio, 24. Gallimard, Gaston, 38. Galuppi, Baldassarre, detto il Buranello, 52. Gazzelloni, Severino, 176. Gerhard, Robert, 339. Gesualdo, Carlo, principe di Venosa, xxxiii, 19, 20,181, 301, 302, 343. Gesù Cristo, 122. Giacometti, Alberto, 63, 64. Gide, André, 147-49, 203-10, 267. Gilbert, William Schwenck, 21, 284. Giraudoux, Jean, 322. Glazunov, Aleksandr Konstantinovic, 22, 28, 113 e n, 116, 133 n, 135. Gleizes, Albert-Léon, 71. Glinka, Michail Ivanovic, xvn, 27, 28j 237, 269, 273, 281, 286. Gluck, Christoph Willibald von, xvn. Godebski, Cipa, 44 e n, 152. Godebski Sert, Misia, 44 e n, 147, 203, 262. Godet, Robert, 274. Goethe, Johann Wolfgang von, 36. Gogol', Nikolaj Vasil'eviè, 42,106, 202, 259. Goldoni, Carlo, 53,195, 201. Goléa, Antoine, xxiv e n. Golovin, Aleksandr Jakovlevic, 67, 197 n, 321 e n. Gombert, Nicolas, 314 n. Gombrich, Ernst H., 298. Goncarova, Natal]a Sergeevna, 69, 324. Gor'kij, Maksim, pseudonimo di Aleksei Maksimoviè PeSkov, in, 241. Gorodeckij, Sergej Mitrofanovic, 112, 127, 154, 155. Gounod, Charles-Francois, 281. Granados y Campina, Enrique, 287. Gray, May, 105. Green, Henry, 240. Greene, Graham, 252. Greiter, Matthias, 181. Griboedov, Aleksandr Sergeevic, 241. Grieg, Edvard Hagerup, 280, 284. Grigor'ev, Sergei Alekseevic, 120 e n. Groddeck, Georg, 214. Gromyko, Andrej Andreevic, 60. Grydzewsky, 238. Guillaume, Georges, 60 n. Guitry, Lucien, 241.

353

Hàba, Alois, 301. Hahn, Reynaldo, 153,154. Hamsun, Knut, pseudonimo di Knut Pedersen, in. Handel, Georg Friedrich, xvi, xvn, 48, 282, 283, 284 n. Hardy, Thomas, 92. Hassler, Hans Leo, 181. Hauptmann, Gerhardt, 71, in. Haydn, Franz Joseph, xvi, 8, 84, 88, 89, 91, 109,161, 176-78, 280, 282, 284, 317. Heard, Gerald, 24, 313. Heidegger, Martin, 62. Heine, Heinrich, 296 n. Herbert of Cherbury, George, 86. Herriot, Edouard, 334. Hilton, Jack, 270 n. Hindemith, Paul, xxvn, xxxiii, 176, 183, 209, 217, 301,303. Hindenburg, Paul Ludwig von Beneckendorff, 71. Hitler, Adolf, 81. Hodeir, André, xxiv e n. Hoffmann, Ernst Theodor Amadeus, 116, 139. Hofmann, Josef, 287, 288. Hofmannstahl, Hugo von, 32. Hogarth, William, 211, 213, 217. Honegger, Arthur, xxvm. Hotson, Leslie, 20. Houdon, Jean-Antoine, 63. Hiigel, Friedrich, barone von, 263. Hugo, Victor-Marie, 209. Huizinga, Johan, 181. Humplik, Josef, 170. Husserl, Edmund, 62. Huysmans, Joris-Karl, 141. Huxley, Aldous, 133, 211.

Ibsen, Henrik, 38, in. Indy, Vincent d’, 112 e n, 280. Ionesco, Eugène, 337. Isaac, Heinrich, 303. Isherwood, Christopher, 10. Ives, Charles Edward, xxvn, 182, 292, 296 e n, 297. Izvol'skij, Aleksandr Petrovic, 118.

Jacob, Max, 60 n. Jacques-Dalcroze, Emil, 130 e n. James, Henry, 293. Janacopulos, Vera, 144, 314 n. Javlenskij, Aleksej, 70. Jelacic, Aleksandr, 26,106,107,133. Jelacic, Nikolaj, 237, 238. Johnson, Ben, 124. Jone, Hildegard, 170. Josquin, Josse Des Près, detto, 10, 13, 89, 91, 173,303. Joyce, James, 130. Jung, Carl Gustav, 38. Jurgens, Curd, 290 n. Jusupov, Nikolaj Feliksovic, m. Kafka, Franz, 48, 267, 284 n. Kahn, Otto, 70.

354

Indice dei nomi

Kalafaty, Vasilij, 253-55. Kallman, Chester, 216 n, 220. Kandinskij, Vasilii Vasil'evic, 62. Kant, Immanuel, 265. Karlovna Benois, Anna, 201 e n. Karsavina, Tamara, 108,123, 268. Kasperova, 109, no. Kerman, Joseph, 339. Kibal'èiè, Vasilij, 313. Kierkegaard, Sòren Aabye, 315. Kireevskij, Pètr Vasil'evic, 30, 309, 310. Kjui, Cezar Antonoviè, 26, 28, 136, 137, 166. Klee, Paul, 18, 46, 62 e n, 64,150. Klukovskij, 155. Knipper-Cechova Ol'ga Leonardovna, 241. Kochno, Boris, 269, 272. Koklova, Olga, 73. Komissarzevskaja, Vera Fedorovna, 241. Kreisler, Fritz, 287. Kfenek, Ernst, 96,176, 284 n, 339. Kreuzberg, Harald, 290 n. Kusevickij, Sergej Aleksandrovic, 34, 113, 127, 128, 199, 200, 326. Kuznecov, Marija, 288.

Lagerlof, Selma, in. Laloy, Louis, 32 e n. Larionov, Michail Fèdorovic, 69, 72,175. Lasso, Orlando di, 89,93,181, 303, 314 n. Lassus, vedi Lasso, Orlando di. Laurencin, Marie, 72. Lauze, F. de, 10. Lawrence, David Herbert, 79,194 n. Lee, Vernon, pseudonimo di Violet Paget, 52. Léger, Alexis Saint-Léger, detto Saint-John Per­ se, 322. Léger, Fernand, 71. Leibowitz, René, xxm e n. Lenin (Ul'janov), Vladimir Il'ic, 28, 245, 259. Leonardo da Vinci, 122. Le Roy, Adrien, xxxiii, 305. Leskov, Nikolai Semènovic, 106, 258. Lewis, Clive Staples, 311 n. Liebermann, Max, 70, 71. Lieberson, Goddard, 307. Lifar, Serge, 123. Liszt, Franz von, 8, 27, 28,140, 280, 284. Litke, conti, 268. Litolff, Henry, 280. Litvin, Felija, 288. Ljadov, Anatolij Konstantinovic, 138, 139, 141, 165, 240. Ljadov Nossenko, Ljudmila, 250, 252, 260 n. Ljapunov, Sergej Michajlovic, 28. Loewe, Johann Karl Gottfried, 48. Lopokova, Lydia, 123. Lowinsky, Edward, 180 n, 181, 303, 304. Lunadarskij, Anatolij Vasil'evic, 259. Luzzaschi, Luzzasco, 181. Machault, Guillaume de, xxxiii, 266. Macque, Jean de, 181. Maderna, Bruno, 289.

Maeterlinck, Maurice, 24,139. Mahler, Gustav, xxvi n, 23, 50, 52, 135, 278, 279, 280 n, 289. Majakovskij, Vladimir Vladimirovic, 60, 61, 142. Majkov, Apollon Nikolaevic, 258. Malatesta, Sigismondo, 163. Malipiero, Gian Francesco, 59Mallarmé, Stéphane, 18 e n, 143. Malmgreen, Eugene, 256. Manet, Edouard, 73. Mann, Klaus, 167. Mann, Thomas, 267. Manzoni, Giacomo, 339. Marcello, Benedetto, 52. Marco Aurelio, imperatore romano, 24. Marco da Gagliano, 181, 306. Mardzanov, Kote, pseudonimo di Konstantin Aleksandrovic Mardzanisvili, 197, 201. Maria di Sassonia Coburgo-Gotha, regina di Ro­ mania, 157,158. Marinetti, Filippo Tommaso, 64, 65, 169. Maritain, Jacques, 265. Masaryk, Tomas Garrigue, 301. Massenet, Jules-Emile-Frédéric, 281. Matisse, Henri, 66, 67, 241. Meek, Nadezda Filaterovna von, 268, 329. Medici, Giovanni de’, 163. Medici, Lorenzo de’, granduca di Toscana, detto il Magnifico, 303. Mejerchol'd, Vsevolod Emilevic, 197 n. Melville, Herman, 63. Mendelssohn-Bartholdy, Felix, 25 n, 109, 280, 282, 284,323. Mengelberg, Josef Willem, 285. Menter, Sophie, 287. Merezkovskij, Dmitri j Sergeevic, 154. Mersenne, Marin, 10. Messiaen, Olivier, xxvm, 176, 284 n. Mestrovic, Ivan, 127 e n, 129. Michaux, Henri, 13. Michelangelo Buonarroti, 75,122. Milhaud, Darius, xxv. Mirskij, principe, 154. Mituzov, Stepan, 66,112, 165,197 e n, 241, 253. Mjasin, Leonid Fèdoroviè, 74,119, 122,123, 129, 307, 334Modigliani, Amedeo, 60 e n. Molière, Jean-Baptiste Poquelin, detto, 241. Mondrian, Piet, 8. Monet, Claude, 60. Monn, Georg Mathias, 48. Montéclair, Michel Pignolet de, 112. Montesquieu, Charles-Louis de Secondar, baro­ ne di La Brède e di, 341. Monteux, Pierre, xxn, 29, 165, 194, 203, 279, 333Monteverdi, Claudio, xvn, xxxm, 11, 53, 112. Moore, George Edward, 179. Morand, Paul, 322. Morse, Harold Marston, 298. Morton, Lawrence, 339. Motti, Felix, 289. Mounet-Sully, Jean-Sully Mounet, detto, 241.

Indice dei nomi Mozart, Wolfgang Amadeus, xvn, xxxin, 22, 53, 107, 109, 177, 178, 182, 188, 280, 285, 286, 333 n. Murat, Violette, 61. Musil, Robert, 260. Musorgskij, Modest Petrovic, 26, 27, 41, 194, 270, 282, 328, 329. Mussolini, Benito, 59, 286. Nabokov, Nicolas, 72. Nàpravnik, Eduard Francevic, 22, 108, 237, 274, 289. Nicola II Romanov, imperatore di Russia, 238, 281. Nicolai, Otto, 281. Nicolson, Harold, 58, 157. Nikisch, Arthur, 22, 289. Nikol'skij, Vladimir Vasil'evic, 27. Nizinskaja, Bratislava (Bronislava Nizinska), 117, 121,122, 270. Nizinskij, Vaclav Fomic, 29, 32, 33, 38 n, 69, 115-19, 121-23, 127, 129 e n, 196 e n, 268, 321,325,327,331-33. Noailles, Anne-Elisabeth, contessa Mathieu de, 285 n. Nossenko, Catherine, 103, 251, 260 n. Nossenko, Gabriel, 260. Nurok, A. P., 200. Nuvel, Walter, 126,127,141,195 e n, 325 n.

Obrecht, Jacobus, 53, 91. Ockeghem, Jan van, 89, 91, 284 n, 314 n. Olga, vedi Koklova, Olga, Omero, 60. Orfl, Cari, 186. Orlando, vedi Lasso, Orlando di. Orsini, famiglia, 20. Ortega y Gasset, José, 9, 62. Orwell, George, pseudonimo di Eric Blair, 121. Osgood, 299, 300. Ostrovskij, Aleksandr Nikolaevic, 134, 241. Paderewski, Ignacy Jan, 275, 287, 293. Palestrina, Giovanni Pierluigi da, 10. Patti, Adelina, 288. Pavlova, Anna, 114, 115, 123. Peerson, Martin, 284 n. Pergolesi, Giovan Battista, xvn, xxxn, 53, 161, 307-9. Perle, George, 339. Petipa, Marius, 114. Petrov, Ivan, 256. Picasso, Pablo Ruiz y, xxvi, 60 n, 67, 68, 73, 74,92,155,241,300,309. Pico della. Mirandola, Giovanni, conte di Con­ cordia, 319. Pierné, Gabriel, 67, 321. Pietro I, imperatore di Russia, detto il Grande, 244. Pigalle, Jean-Baptiste, 63. Piltz, Maria, 118, 123. Pirandello, Luigi, 291. Pitagora, 36.

355

Pitoeff, Georges, 294. Pitoeff, Ljudmila, 294. Plotino, 89. Poggioli, Renato, 154 n. Poincare, Raymond, 334. Pokrovskij, Ivan, 112, 240. Polignac, principessa de, 69, 147, 153, 315. Polonskij, Jakov Petrovic, 257-59. Polonskij, Josephine, 258. Polonskij, Natalie, 257. Ponti, Carlo, 156. Poulenc, Francis, xxvi n. Pound, Ezra Loomis, 163. Powell, Michael, 53, 54. Pratella, Francesco Balilla, 65, 169. Prokof'ev, Sergej Sergeevic, xxvn, 60, 127, 130, 140-44, 169. Proust, Marcel, 61, 153, 322. Puccini, Giacomo, 328. Purcell, Henry, 21, 156, 172, 181, 204. Puskin, Aleksandr Sergeevic, 29, 30, 58, 134, 209, 259, 263, 269. Putjatin, principe, 253. Putjatina, principessa, 253. Puvis de Chavannes, Pierre, 66,

Quarenghi, Giacomo, 244. Rachmaninov, Sergej Vasil'evié, 25, 26, 94, 106, 200. Racine, Jean, 241. Racz, Aladar, 314. Radiguet, Raymond, 61. Raff, Joseph Joachim, 280. Ramuz, Charles-Ferdinand, 40 e n, 62, 144 n, 147, 152, 209, 290, 293-95. Rasputin, Grigori j Efimovic, in. Rastrelli, Bartolomeo Francesco, 244-46. Ravel, Edouard, 43, 44. Ravel, Maurice, 15, 17, 38 n, 40-45, 112, 123, 140, 147, 153, 194, 195, 203, 274, 278-80, 323,328. Rayleigh, John William Strutt, Lord, 179. Reger, Max, 23, 48, 112. Reinhardt, Werner, 293. Reisenauer, Alfred, 287. Réjane, pseudonimo di Gabrielle-Charlotte Réju, 322 n. Rembrandt, Harmenszoon van Rijn, 67. Renan, Ary-Cornélis, 107. Richter, Hans, 22, 23, 289. Richter, Nikolaj, 112. Riegger, Wallingford, 342. Rilke, Rainer Maria, 152 n. Rimskij-Korsakov, Andrej Nikolaevic, 106, 133, 252, 255, 320, 326 e n. Rimskij-Korsakov, Michail, 105. Rimskij-Korsakov, Nadezda, 133 e n. Rimskij-Korsakov, Nikolaj Andreevic, 15 e n, 16 n, 22, 23, 25 n, 26-28, 41, 103, 105, 106, 109, in, 113, 132-36, 137-41, 166 e n, 240, 241, 244, 247, 248 e n, 252-55, 260, 274, 280282, 286, 288, 320 e n, 323, 329. Rimskij-Korsakov, Sophie, 133.

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Indice dei nomi

Rimskij-Korsakov, Vladimir, 107, 133, 247, 252, 255. Ripon, Lady, 118,157. Rivière, Jacques, 37-40. Robbins, Jerome, 24. Robinson, Edward G., pseudonimo di Emanuel Goldenberg, 278. Rodin, Auguste, 59, 63. Roerich, Nikolaj Konstantinoviè, 66, 68, 195, 196, 248 n. Rogers, Shorty, 83. Roland-Manuel, pseudonimo di Roland-AlexisManuel Levy, 325 nRolland, Romain, 151, 152 n, 241 n. Romains, Jules, pseudonimo di Louis Farigoule, 152. Romanov, Boris, 194. Roosevelt, Anna Eleanor, 167. Rore, Cipriano de, xxxni, 53,181, 284 n. Rossetti, Stefano, 181. Rossini, Gioacchino, xvn, 177> 281. Rostand, Edmond, 241. Rouault, Georges, 72. Roussel, Albert, 280. Rozanov, Vasilij Vasil'eviè, 26. Rozdestvenskij, 235. Rubinstein, Artur, 275, 329. Rubinstejn, Anton Grigor'evic, 109,140. Rubinstejn, Ida, 117,125, 204-8, 271, 272. Russoio, Luigi, 64, 65. Saint-John Perse, vedi Léger, Alexis Saint-Léger. Saint-Saèns, Camille, 280, 333. Saljapin, Fèdor Ivanoviè, 41,166 n, 288. Salvini, Tommaso, 241. Sanin, Aleksandr, 194, 201. San Martino Valperga, Enrico, 128,130. Santayana, George, 214. Sarasate y Navascués, Pablo de, 287. Satie, Erik, 41,43, 46, 291, 328. Scarlatti, Alessandro, 53. Scheier, Max, 62, 265 n. Schenker, Heinrich, 339. Scherchen, Hermann, 47, 62, 285. Scherer, Jacques, 18 n. Schloezer, Boris de, xxm. Schmitt, Florent, 42 n, 44 e n, 277, 332. Schoeller, 60 n. Schonbach, Dieter, 339. Schonberg, Arnold, xxiv-xxvi, xxvm, xxxm, xxxiv, 13, 15, 16, 18, 47-49, 58, 8o, 81, 84, 89, 91, 162, 164, 165 n, 174, 176, 180, 185 e n, 256, 267, 279, 284 n, 285, 291, 295, 297, 301, 323» 327, 336, 340-42. Schubert, Franz, 23,109,140, 285, 304. Schumann, Robert Alexander, 14, 109, 257, 270, 282, 285. Schiitz, Heinrich, 91,182, 284 n. Scoto Erigena, Giovanni, 89. Scott, Walter, in. Scribe, Augustin-Eugène, 241. Sechter, Simon, 339. Serov, Valentin Aleksandrovic, 68, 239, 240, 327.

Sert, José Maria, 72, 73, 205. Sessions, Roger, 176, 339, 342. Sestakova, Ljudmila, 27. Seurat, Georges, 9, 238. Shakespeare, William, 20, 54, 203, 204, 241, 259, 300. Shaw, George Bernard, 150. Sibelius, Jean, 80. Siloti, Aleksandr Il'iè, 25 n, 279 e n. Sinding, Christian, 284. Skorochodova, Aleksandra Ivanovna, 103. Skrjabin, Aleksandr Nikolaeviè, 23, 24, 139-41, 279. Smetana, Bedfich, 280. Socrate, 122. Sokolova, Lydia, 123, 215 e n. Sokolov, Madame, vedi Sokolova, Lydia. Souris, André, 305. Souvtchinsky, Pierre, xx, xxvi n, xxx, 326 n. Spalding, Albert, 165 n. Stanislao Augusto Poniatowski, re di Polonia, 258. Stasov, Vladimir Vasil'eviè, 16 n, 237, 239, 270. Stein, Gertrude, xxvi, 92. Stejnberg, Maksimilian Oseeviè, 106, 133, 255. Stendhal, pseudonimo di Henri Beyle, 14. Sternfeld, Frederick W., 166 n. Stockhausen, Karlheinz, xxvn, 77-79, 91-93, 182-84,188, 292, 297. Stokowski, Leopold, 344. Strauss, Johann, xvn. Strauss, Richard, 23, 24, 52, 72, 73, 80, 120 e n, 128, 278, 279, 323. Stravinskij, Ignatij, 103, 258. Stravinskij, Stanislav, 258. Stravinsky, Gurij, >8, 105, 106, 108, 131, 135, 249, 250, 260, 314 n, 326. Stravinsky, Jurij, 105,106, no. Stravinsky, Marija Milena, 199 e n. Stravinsky, Roman, 105, 106, 249, 251. Stravinsky, Svjatoslav Sulima, 47. Stravinsky, Théodore, 72,150. Stravinsky, Vera, 72, 143, 156, 216, 218, 231, 238, 248, 256, 267, 277. Strindberg, Johan August, ni. Stuck, Franz von, 52. Suchodolskij, 201. Sudejkin, Sergej Jur'evic, 202. Sudermann, Hermann, in. Sullivan, Arthur Seymour, 21, 284. Supervia, Conchita, 281. Survage, Léopold, 70. Svendsen, Johan Severin, 284. Sweelinck, Jan Pieterszoon, 284 n. Szantó, Tivadar, 45.

Tallis, Thomas, 10, 93, 284. Taneev, Sergej Ivanovic, 138,140. Teilhard de Chardin, Pierre, 265. Teniseva, principessa, 66, 330. Thévenaz, Paulet, 274. Thomas, Charles-Louis-Ambroise, 280. Thomas, Dylan, 53-55. Thomson, Virgil, 339.

Indice dei nomi Thurn und Taxis, principessa von, 152 n. Tintoretto, Iacopo Robusti, detto il, 8. Tolstoj, Aleksej Konstantinovic, 202 e n, 241. Tolstoj, Sofia Bers, contessa, 138. Tolstoj, Lev Nikolaevic, 22, 58, 124 n, 209, 237, 241, 259, 267. Tommaso da Kempis, 179. Torricelli, Evangelista, 295. Toscanini, Arturo, 177,178,193, 277. Toulouse-Lautrec, Henri de, 238. Turgenev, Ivan Sergeevic, 240. Twain, Mark, pseudonimo di Samuel Langhorne Clemens, in. Tzara, Tristan, 293.

Ubaldo di Saint-Aimand, 89. Valéry, Paul, 9, io, 147-51, 209. Varèse, Edgar, xxvn, xxvin, 170. Varlic, 135. Vaughan, Henry, 264. Velsovskij, Sofia, 260 n. Verdi, Giuseppe, xiv, xvm, 51, 278 n, 281. Verlaine, Paul, 106, 122, 325. Vicentino, Nicola, 184. Vieuxtemps, Henri, 280, 287. Villiers de l’Isle-Adam, Philippe-Auguste-Mathias, conte di, 141. Vinogradova, Paula Vasil'evna, 250. Vivaldi, Antonio, xvn, xix, xxxn, 52. Vladimiro, granduca, 293. Volkonskij, S. M., 117. Vollard, Ambroise, 73. VrubeF, Michail Aleksandrovic, 67, 240, 282. Vrubel', Zabela, 282. Vsevolozskij, Ivan Aleksandrovic, 259.

Wagner, Wilhelm Richard, xiv, xv, xvm, xxm, xxxii, 15 n, 23, 27, 28, 51, 109, 137, 187, 200, 281, 324. Waismann, Friedrich, 339. Walter, Lidia, 252, 253. Walter, Victor, 254. Wangermée, Robert, xi. Weber, Cari Maria von, xvn, 116, 280, 286. Webern, Anton, xm, xxiv, xxv, xxvm, xxxnxxxiv, 9, 47-51, 78, 80, 81, 83, 87, 91-94, 150, 163, 164, 170-72, 175, 176, 184-86, 188, 295, 297, 305, 327, 336, 342, 343Weill, Kurt, 285 n. Weinberg, Peter Isaiah, 259. Welles, Orson, 266 n. Werfel, Franz, 266, 267. Wert, Jakob van, 181, 284 n. White, Eric Walter, xi n, 166 n. Whiteman, Paul, 174. Widor, Charles-Marie, 277. Wieniawski, Henryk, 280, 287. Wihtol, Joseph, 139. Wilder, Thornton, 63. Willaert, Adrian, xxxm, 53, 180, 181, 184, 303. Williams, William Carlos, 214. Wittgenstein, Ludwig Joseph, 62.

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Woicikowski, Leon, 123. Wolf-Israel, 254. Woolf, no.

Yates, Peter, 296. Yeats, William Butler, 54, 214. Ysaye, Eugène, 287. Zarlino, Gioseffo, 184. Zborovskij, Leopold, 60 n. Zemcuznikov, Aleksej Michajloviè, 202, 258. Zemlinsky, Alexander von, 281.

Finito di stampare il 4 aprile 1981 per conto della Giulio Einaudi editore s. p. a. presso le Industrie Grafiche G. Zeppegno & C. s. a. s., Torino

Ristampa identica alla precedente del 19 marzo 1977 c. l. 4693-8

Saggi

i raimondo craveri, Voltaire politico del­ l’illuminismo. 2 paolo treves, Biografia di un poeta. Mau­ rice de Guérin. 3 Zino Zini, I fratelli nemici. Dialoghi e mi­ ti moderni. 4 pier Silverio leicht, Corporazioni roma­ ne e arti medievali. 5 johan huizinga, La crisi della civiltà. 6 Ettore ciccoTTi, Profilo di Augusto. 7 Angelina la piana, La cultura americana e l’Italia. 8 gertrude stein, Autobiografia di Alice Toklas. 9 niccolò tommaseo, Diario intimo. io rudyard kipling, Qualcosa di me. Per i miei amici noti e ignoti. ii gregorio maranón, Amiel, o della timi­ dezza. i2 cesare de lollis, Scrittori francesi dell’Ottocento. 13 egmont colerus, Piccola storia della ma­ tematica da Pitagora a Hilbert. 14 tommaso parodi, Giosuè Carducci e la letteratura della nuova Italia.

15 luigi Salvatorelli, Pio XI e la sua ere­ dità pontificale. 16 siro Attilio nulli, I processi delle stre­ ghe. 17 Pietro pancrazi, Studi sul D’Annunzio. 18 Niccolo tommaseo, Cronichetta del Sessantasei. 19 augusto rostagni, Classicità e spirito mo­ derno. 20 Bernard fa¥, La massoneria e la rivolu­ zione intellettuale del secolo xvin. 2i Walter pater, Mario l’epicureo. 22 GEORGE MACAULAY TREVELYAN, La rivolu­ zione inglese del 1688-89. 23 Adolfo 0M0DE0, La leggenda di Carlo Al­ berto nella recente storiografia.

24 aldo mautino, La formazione della filo­ sofia politica di Benedetto Croce. 25 frank thiess, Tsushima. Il romanzo di una guerra navale. 26 johan huizinga, Erasmo. 27 futabatei scimei, Mediocrità. 28 Adolfo omodeo, Vincenzo Gioberti e la sua evoluzione politica. 29 Giacomo savarese, Tra rivoluzioni e rea­ zioni. Ricordi su Giuseppe Zurlo (17591828). 30 sven hedin, Il lago errante. 31 e. r. hughes, La Cina e il mondo occiden­ tale. 32 carlo cattaneo, L’insurrection de Milan e le Considerazioni sul 1848. 33 carlo pisacane, Saggio su la Rivoluzione. 34 j. hersch, L’illusione della filosofia. 35 will winker, Fugger il ricco. 36 madame de rémusat, Memorie. 37 PAOLO SERINI, Pascal. 38 carl Gustav jung, Il problema dell’in­ conscio nella psicologia moderna. .39 luigi bandini, Domo e valore. 40 Mario Praz, La carne, la morte e il dia­ volo nella letteratura romantica. 41 cesare de laugier, Concisi ricordi di un soldato napoleonico. 42 pierò martinetti, Ragione e fede. Saggi religiosi. 43 lev Tolstoj, Carteggio confidenziale con Aleksandra Andréjevna Tolstàia.

44 luigi Salvatorelli, Pensiero e azione del Risorgimento. 45 fjòdor dostojevskij, Diario di uno scrit­ tore (1873). 46 Bernhard bavink, La scienza naturale sul­ la via della religione. 47 Charles de Montesquieu, Riflessioni e pensieri inediti (1716-1755).

48 CLEMENS VON METTERNICH, Memorie. 49 emilio lussu, Marcia su Roma e din­ torni. 50 Giacomo perticone, Due tempi. Note e ricordi di un contemporaneo. 51 Werner Heisenberg, Mutamenti nelle ba­ si della scienza. 52 nikolàj berdjajev, La concezione di Dostojevskij. 33 h. w. rììssel, Profilo d’un umanesimo cristiano. 54 bruno zevi, Verso un’architettura organi­ ca. Saggio sullo sviluppo del pensiero ar­ chitettonico negli ultimi cinquantanni. 55 carlo levi, Cristo si è fermato a Eboli. 56 Alexander Werth, Leningrado. 57 felice balbo, L’uomo senza miti. 58 cesare pavese, Dialoghi con Leucò. 59 emilio lussu, Un anno Sull’Altipiano. 60 julien benda, Le democrazie alla prova. Saggio sui principi democratici. 61 Mario praz, Motivi e figure. 62 BERNHARD PAUMGARTNER, Mozart. 63 augusto monti, Realtà del Partito d’Azione. 64 carlo sforza, Panorama europeo. Appa­ renze politiche e realtà psicologiche. 65 harold j. Laski, Fede, ragione e civiltà. Saggio di analisi storica. 66 Mario soldati, America primo amore. 67 norman cousins, L’uomo moderno è an­ tico. 68 Lucio lombardo-radice, Fascismo e anti­ comunismo. Appunti e ricordi 1935-194569 walter lippmann, La giusta società. 70 paul hazard, La crisi della coscienza eu­ ropea. 71 Filippo Buonarroti, Congiura per l’egua­ glianza o di Babeuf. 72 carlo levi, Paura della libertà. 73 luigi sturzo, L’Italia e l’ordine interna­ zionale. 74 THOMAS BABINGTON macaulay, La con­ quista dell’india. 75 Wilhelm ròpke, La crisi sociale del no­ stro tempo. 76 emilio sereni, Il capitalismo nelle cam­ pagne (1860-1900). 77 samuel bernstein, Filippo Buonarroti. 78 w. goethe e f. schiller, Carteggio. 79 robert g. vansittart, Insegnamenti del­ la mia vita. 80 Adolfo OMODEO, Aspetti del cattolicesimo della Restaurazione. 81 felice balbo, Il laboratorio dell’uomo. 82 matthew Arnold, Cultura e anarchia. 83 johan huizinga, Homo ludens.

84 kurt hildebrandt, Platone. La lotta del­ lo spirito per la potenza. 85 iljà ilf e evghénij petròv, Il paese di Dio. 86 Sherwood Anderson, Storia di me e dei miei racconti. 87 aldo garosci, Storia della Francia mo­ derna (1870-1946). 88 ernest hemingway, Morte nel pomerig­ gio. 89 O. MAENCHEN-HELFEN e B. NICOLAJEVSKI, Karl Marx. 90 barbara Wootton, Libertà e pianifica­ zione. 9i GioviTA SCALVINI, Foscolo Manzoni Goe­ the. Scritti editi e inediti. 92 Pierre lecomte du nouy, L’avvenire del­ lo spirito. 93 ruggero zangrandi, Il lungo viaggio. Con­ tributo alla storia di una generazione. 94 gustavo a. wetter s. j., Il materialismo dialettico sovietico. 95 leone ginzburg, Scrittori russi. 96 bruno zevi, Saper vedere l’architettura. Saggio sull’interpretazione spaziale del­ l’architettura. 97 peter viereck, Dai romantici a Hitler. 98 FRANCO VENTURI, lean laurès e altri sto­ rici della Rivoluzione francese. 99 max weber, Il lavoro intellettuale come professione. TOO kkkl marx e Friedrich engels, Manife­ sto del Partito Comunista. IDI Igor markevitch, Made in Italy. 102 Silvio guarnieri, Carattere degli italiani. 103 marcel Raymond, Da Baudelaire al sur­ realismo. 104 josif stalin, Il marxismo e la questione nazionale e coloniale. 105 emmanuel mounier, Che cos’è il perso­ nalismo? I06 Thorstein veblen, La teoria della classe agiata. Studio economico sulle istituzioni. 107 aleksàndr i. herzen, Passato e pensieri. I08 henri lefebvre, Il materialismo dialet­ tico. 109 Christopher caudwell, La fine di una cultura. HO p. m. s. blackett, Conseguenze politiche e militari dell’energia atomica. III luigi russo, De vera religione. Noterelle e schermaglie, 1943-1948. 112 Silvio spaventa, La giustizia nell’ammi­ nistrazione. II3 massimo D'AZEGLio, I miei ricordi. II4 Georges lefebvre, L’Ottantanove. II5 Filippo turati e anna kuliscioff, Car­ teggio, vol. I. Maggio 1898 - giugno 1899.

n6 EISENSTEIN, BLEIMAN, KOSINZEV, IUTKEviò, La figura e Parte di Charlie Chaplin. 117 MARCELLO SOLERI,.MeOTOH>. 118 Georges friedmann, Problemi umani del macchinismo industriale. 119 George Thomson, Eschilo e Atene. 120 Christopher caudwelL, Illusione e real­ tà. Saggio sulle origini della poesia. 121 massimo mila, L'esperienza musicale e l'estetica. 122 bertrand russell, Storia delle idee del secolo xix. 123 giaime piNTOR, Il sangue d'Europa (19391943). 124 hector berlioz, L'Europa musicale da Gluck a Wagner. 125 hugh j. SCHONFIELD, Il Giudeo di Tarso. Ritratto eterodosso di Paolo. 126 CARLO levi, L'Orologio. 127 gyòrgy lukAcs, Saggi sul realismo. 128 s. m. Eisenstein, Tecnica del cinema. 129 Etienne gilson, Eloisa e Abelardo. 130 Enrico falqui, Prosatori e narratori del Novecento italiano. 131 aldo Capitini, Nuova socialità e riforma religiosa. 132 pierò Gobetti, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia. 133 Giuseppe squarciapino, Roma bizantina. Società e letteratura ai tempi di Angelo Sommaruga. 134 Arrigo cajumi, Pensieri di un libertino. 135 erick eyck, Bismarck. 136 bruno zevi, Storia dell'architettura mo­ derna . 137 marc bloch, Apologia della storia. 138 andré gide, Viaggio al Congo e Ritorno dal Ciad. 139 pierò Gobetti, Coscienza liberale e classe operaia. 140 gaston baty e rené chavance, Breve sto­ ria del teatro. 141 barrows dunham, Miti e pregiudizi del nostro tempo. 142 ernest Hemingway, Torrenti di primave­ ra. Storia romantica in onore di una gran­ de razza al tramonto. 143 john maynard keynes, Politici ed econo­ misti. 144 guido aristarco, Storia delle teoriche del film. 145 beniamino dal fabbro, Crepuscolo del pianoforte. 146 bruno snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo e altri saggi. 147 Georges Sadoul, Storia del cinema. 148 cesare pavese, La letteratura americana e altri saggi.

149 benjamin farrington, Francesco Bacone filosofo dell'età industriale. 130 Lettere di condannati a morte della Re­ sistenza italiana (8 settembre 1943-25 aprile 1945)131 carlo l. RAGGHiANTi, Cinema arte figura­ tiva. 132 louis de saint-just, Frammenti sulle Istituzioni repubblicane seguito da testi inediti. 153 Giovanni GioLiTTi, Discorsi extraparlamen­ tari. 134 Giorgio graziosi, L'interpretazione musi­ cale. 155 Arnold rose, I negri in America. 136 lewis jacobs, L'avventurosa storia del ci­ nema americano. 137 cesare pavese, Il mestiere di vivere (Diario 1935-1950). 138 morelly, Codice della Natura. 139 béla balàzs, Il film. Evoluzione ed es­ senza di un'arte nuova. 160 aneurin bevan, Il socialismo e la crisi in­ ternazionale. 161 c. w. ceram, Civiltà sepolte. Il romanzo dell'archeologia. 162 estes kefauver, Il gangsterismo in Ame­ rica. 163 john middleton Murry, Shakespeare. 164 Antonina Vallentin, Il romanzo di Goya. 163 Roberto battaglia, Storia della Resisten­ za italiana (8 settembre 1943 - 25 aprile 1945)• 166 IVANOE BONOMi, La politica italiana dopo Vittorio Veneto. 167 Filippo turati e Anna kuliscioff, Car­ teggio, vol. V. Dopoguerra e fascismo (1919-22). 168 Lettere dei Macchiatoli. 169 gyòrgy lukAcs, Il marxismo e la critica letteraria. 170 Raffaele ciampini, Gian Pietro Vieusseux. I suoi viaggi, i suoi giornali, i suoi amici. 171 Ludovico Geymonat, Saggi di filosofia neorazionalistica. 172 dina bertoni joviNE, Storia della scuola popolare in Italia. 173 luigi rognoni, Espressionismo e dodeca­ fonia. 174 james boswell, Diario londinese ( 17621763)' 173 II diario di Anna Frank. 176 robert jungk, Il futuro è già cominciato. 177 f. 0. matthiessen, Rinascimento ameri­ cano. Arte ed espressione nell'età di Emer­ son e Whitman. 178 Lettere di condannati a morte della Re­ sistenza europea.

179 eugène delacroix, Diario (1804-1863). i8o d. livio bianco, Guerra parmigiana. 181 franco venturi, Saggi sull’Europa illu­ minista. I. Alberto Radicati di Passerano. 182 Isacco ed ernesto artom, Iniziative neutralistiche della diplomazia italiana, nel 1870 e nel 1915183 Theodor w. adorno, Minima moralia. 184 Roberto cessi, Martin Lutero. 185 henry Francis Taylor, Artisti, principi e mercanti. Storia del collezionismo da Ramsete a Napoleone. 186 luigi preti, Le lotte agrarie nella valle padana. 187 léon Poliakov, Il nazismo e lo sterminio degli Ebrei. 188 max j. Friedlander, Il conoscitore d’arte. 189 sirO Attilio nulli, Erasmo e il Rinasci­ mento. 190 HANS mayer, Thomas Mann. 191 ALESSANDRO PASSERIN D'ENTRÈVES, Dante politico e altri saggi. 192 Norberto bobbio, Politica e cultura. 193 roman vlad, Modernità e tradizione nel­ la musica contemporanea. 194 Mario untersteiner, Le origini della tragedia e del tragico. Dalla preistoria a Eschilo. 195 Tommaso fiore, Il cafone all’inferno. 196 carlo levi, Le parole sono pietre. Tre giornate in Sicilia. 197 c. w. ceram, Il libro delle rupi. Alla sco­ perta dell’impero degli Ittiti. 198 gyòrgy lukAcs, Breve storia della lettera­ tura tedesca dal Settecento ad oggi. 199 erich auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale. 200 Tibor mende, Conversazioni con Nehru. 201 franco fortini, Asia Maggiore. Viaggio in Cina. 202 ADA gobetti, Diario partigiano. 203 angelos angelopoulos, L’atomo unirà il mondo? 204 franco venturi, Il moto decabrista e i fratelli Poggio. 203 Cristoforo m. negri, I lunghi fucili. Ri­ cordi della ritirata di Russia. 206 carlo falconi, La Chiesa e le organizza­ zioni cattoliche in Italia (i945~i955)207 carlo levi, Il futuro ha un cuore antico. Viaggio nell’Unione Sovietica. 208 Giovanni ferretti, Scuola e democrazia. 209 carlo casalegno, La regina Margherita. 210 Frederick pollock, Automazione. 211 pasquale jannaccone, Scritti e discorsi opportuni e importuni (1947-1955)212 Adolfo venturi, Epoche e maestri dell’ar­ te italiana.

213 morus, Gli animali nella storia della ci­ viltà. 214 Roberto GUiDucci, Socialismo e verità. 215 cesare brandi, Elicona III-IV. Arcadio o della Scultura. Eliante o dell’Architet­ tura. 216 No al fascismo a cura di ernesto rossi. 217 felice del vecchio, La chiesa di Can­ neto. 218 Francois fejtò, Ungheria 1943-1937. 219 PIERRE FRANCASTEL, Lo Spazio figurativo dal Rinascimento al Cubismo. 220 Leonard woolley, Il mestiere dell’archeo­ logo. 221 Danilo dolci, Inchiesta a Palermo. 222 guido Calogero, Scuola sotto inchiesta. Saggi e polemiche sulla scuola italiana. 223 cesare brandi, Elicona IL Celso o della Poesia. 224 Manlio dazzi, Carlo Goldoni e la sua poetica sociale. 223 armando gavagnin, Vent’anni di resisten­ za al fascismo. 226 egon corti, Ercolano e Pompei. Morte e rinascita di due città. 227 PIETRO SECCHIA e CINO MOSCATELLI, Il Monte Rosa è sceso a Milano. La resisten­ za nel Biellese, nella Valsesia e nella Valdossola. 228 Ultime lettere da Stalingrado. 229 Edmund Wilson, I manoscritti del Mar Morto. 230 robert jungk, Gli apprendisti stregoni. 231 ROMAN VLAD, Strawinsky. 232 primo levi, Se attesto è un uomo. 233 Alberto nirenstajn, Ricorda cosa ti ha fatto Amalek. 234 marcus Cunliffe, Storia della letteratu­ ra americana. 235 vance Packard, I persuasori occulti. 236 Alexander werth, Storia della Quarta Repubblica. 237 marcel proust, Giornate di lettura. Scritti critici e letterari. 238 Mario tosino, Passione per l’Italia. 239 william h. prescott, La Conquista del Messico. 240 ernesto n. rogers, Esperienza dell’archi­ tettura. 241 Leonard woolley, Ur dei Caldei. 242 Eugenio levi, Il comico di carattere da Teofrasto a Pirandello. 243 Gillo dorfles, Il divenire delle arti. 244 leo spitzer, Marcel Proust e altri saggi di letteratura francese moderna. 243 Theodor w. adorno, Filosofia della musi­ ca moderna.

246 filippo turati e anna KULisciOFF, Car­ teggio, vol. VI. Il delitto Matteotti e l’Aventino (1923-25). 247 J. j. lador-lederer, Capitalismo mondia­ le e cartelli tedeschi tra le due guerre. 248 ANGELO MARIA RIPELLINO, Majakovskij C il teatro russo d’avanguardia. 249 arturo Carlo jemolo, Società civile e so­ cietà religiosa (1955-1958). 250 carlo levi, La doppia notte dei tigli. 251 Ambroise vollard, Quadri in vetrina. 252 GAETANO SALVEMINI, Italia scombinata. 253 Mario einaudi, La rivoluzione di Roose­ velt, 1932-1952. 254 aldo GAROsci, Gli intellettuali e la guerra di Spagna. 255 Alois riegl, Arte tardoromana. 256 JEAN rostand, L’uomo artificiale. 257 carl Gustav jung, La simbolica dello spi­ rito. Studi sulla fenomenologia psichica con un contributo di Riwkah Schàrf. 258 massimo mila, Cronache musicali 19551959. 259 John chadwick, Lineare B. L’enigma del­ la scrittura micenea. 2Ó0 Frederick antal, La pittura fiorentina e il suo ambiente sociale nel Trecento e nel primo Quattrocento. 2ÓI william h. whyte jR, L’uomo dell’orga­ nizzazione. 2Ó2 La cultura italiana del ’900 attraverso le riviste, vol. I. «Leonardo», «Hermes», «Il Regno». 2Ó3 Erwin PISCATOR, Il teatro politico. 2Ó4 Eugenio battisti, Rinascimento e Ba­ rocco. 205 Walter binni, Carducci e altri saggi. 266 La cultura italiana del ’900 attraverso le riviste, vol. III. «La Voce» (1908-1914). 267 luigi Salvatorelli, Leggenda e realtà di Napoleone. 268 Comandante ad Auschwitz. Memoriale autobiografico di Rudolf Hòss. 269 ladislao mittner, La letteratura tedesca del Novecento e altri saggi. 270 Danilo dolci, Spreco. Documenti e in­ chieste su alcuni aspetti dello spreco nel­ la Sicilia occidentale. 271 Alberto caracciolo, Stato e società civi­ le. Problemi dell’unificazione italiana. 272 robert jungk, Hiroshima, il giorno dopo. 273 renato birolli, Taccuini (1936-1959). 274 Corrado maltese, Storia dell’arte in Ita­ lia 1785-1943. 275 Adolfo 0M0DE0, Libertà e storia. Scritti e discorsi politici. 276 h. h. stuckenschmidt, La musica mo­ derna.

277 massimo l. salvadori, Il mito del buon­ governo. La questione meridionale da Ca­ vour a Gramsci. 278 Theodor h. gaster, Le piu antiche storie del mondo. 279 II diario di David Rubinowicz. 280 GEOFFREY Bibby, Le navi dei Vichinghi e altre avventure archeologiche nell’Europa preistorica. 281 Ferdinando salamon, Il conoscitore di stampe. 282 ANTONINA VALLENTIN, Storia di Picasso. 283 La cultura italiana del ’900 attraverso le riviste, vol. IV. «Lacerba», «La Voce» (1914-1916). 284 Federico zeri, Due dipinti, la filologia e un nome. Il Maestro delle Tavole Barbe­ rini. 285 Ingmar bergman, Quattro film'. Sorrisi di una notte d’estate, Il settimo sigillo, Il posto delle fragole, Il volto. 286 1. a. Richards, I fondamenti della critica letteraria. 287 raffaello giolli, La disfatta dell’Otto­ cento. 288 Ippolito NiEvo, Lettere garibaldine. 289 Julius von schlosser, L’arte del Medio­ evo. 290 gùnther anders, Essere 0 non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki. 291 luigi Salvatorelli, Unità d’Italia. Saggi storici. 292 lanfranco GARETTI, Ariosto e Tasso. 293 vance Packard, I cacciatori di prestigio. 294 p. m. s. blackett, Le armi atomiche e i rapporti fra Est e Ovest. 295 Trentanni di storia italiana (1915-1945). Dall’antifascismo alla Resistenza. 296 Alfredo parente, Castità della musica. 297 nikolàj lébedev, Il cinema muto sovie­ tico. 298 lev TROTSKij, Scritti 1929-1936. 299 cesare brandi, Carmine o della Pittura. 300 Gioachino belli, Lettere Giornali Zibal­ done. 301 nuto revelli, La guerra dei poveri. 302 Alfredo todisco, Viaggio in India. 303 Gillo dorfles, Simbolo comunicazione consumo. 304 danilo dolci, Conversazioni. 305 harold acton, Gli ultimi Medici. 306 La cultura italiana del ’900 attraverso le riviste, vol. V. «L’Unità», «La Voce po­ litica» (1915). 307 Racconti di bambini d’Algeria. 308 Lionel trilling, La letteratura e le idee. 309 Walter benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti.

3io Erwin panofsky, Il significato nelle arti visive. 311 peter szondi, Teoria del dramma mo­ derno. 312 Giorgio pano, Saggio sulle origini del lin­ guaggio. 313 Heinrich schliemann, La scoperta di Troia. 314 bertolt brecht, Scritti teatrali. 315 natalia ginzburg, Le piccole virtù. 316 William gaunt, L'avventura estetica. 317 Enrico CASTELNUOvo, Un pittore italiano alla corte di Avignone^ Matteo Giovannetti e la pittura in Provenza nel seco­ lo XIV. 318 ATTILIO MILANO, Storia degli ebrei in Ita­ lia. 319 john Golding, Storia del cubismo (19071914)320 Lettere della Rivoluzione algerina. 321 P. A. QUARANTOTTI GAMBINI, Sotto il cielo di Russia. 322 fred k. prieberg, Musica ex machina. 323 Mortimer wheeler, La civiltà romana oltre i confini dell1 impero. 324 La cultura italiana del '900 attraverso le riviste, vol. VI. «L'Ordine Nuovo» (1919-1920). 325 Giorgio melchiori, I funamboli. Il ma­ nierismo nella letteratura inglese contem­ poranea. 326 Claudio MAGRis, Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna. 327 michele ranchetti, Cultura e riforma religiosa nella storia del modernismo. 328 Konstantin s. stanislavskij, La mia vi­ ta nell'arte. 329 cesare cases, Saggi e note di letteratura tedesca. 330 rosario romeo, Dal Piemonte sabaudo al­ vitalia liberale. 331 frank lloyd Wright, Testamento. 332 Antonio la penna, Orazio e Videologia del principato. 333 benvenuto Terracini, Lingua libera e li­ bertà linguistica. Introduzione alla lingui­ stica storica. 334 Adolfo OMODEO, Lettere 1910-1946. 335 FRANCA PIERONI BORTOLOTTI, Alle origini del movimento femminile in Italia (18481892). 336 Roberto «ammanco, Dialogo sulla socie­ tà americana. 337 HERBERT MARCUSE, ErOS e civiltà. 338 leone ginzburg, Scritti. 339 paolo SPRiANO, Uoccupazione delle fab­ briche. Settembre 1920. 340 victor w. von hagen, La Grande Strada del Sole.

341 paul Goodman, La gioventù assurda. 342 Tristan tzara, Manifesti del dadaismo e Lampisterie. 343 Giovanni previtali, La fortuna dei primi­ tivi. Dal Vasari ai neoclassici. 344 vance Packard, Gli arrampicatori azien­ dali. 345 Danilo dolci, Verso un mondo nuovo. 346 Sergej m. ejzenStejn, Torma e tecnica del film e lezioni di regia. 347 Vittorio lugli, Pagine ritrovate..Memo­ rie fantasie e letture. 348 Mario GiovANA, Resistenza nel Cuneese. Storia di una formazione partigiana. 349 PAUL ROTHA e RICHARD GRIFFITH, Storia del cinema. 350 Lamberto vitali, L'opera grafica di Gior­ gio Morandi. 351 MICHELANGELO ANTONIONI, Sei film. 352 luigi Salvatorelli, Miti e storia. 353 Carlo levi, Tutto il miele è finito. 354 Ernst h. GOMBRiCH, Arte e illusione. Stu­ dio sulla psicologia della rappresentazione pittorica. 355 Giovanni macchia, Il mito di Parigi. Sag­ gi e motivi francesi. 356 angelo maria ripellino. Il trucco e l'a­ nima. I maestri della regia nel teatro rus­ so del Novecento. 357 Gillo dorfleS, Nuovi riti, nuovi miti. 358 MARIO SILVESTRI, IsonZO 1917. 359 Giuseppe galasso, Mezzogiorno medieva­ le e moderno. 360 augusto monti, I miei conti con la scuola. 361 eugène ionesco, Note e contronote. Scrit­ ti sul teatro. 362 j. Christopher herold, Bonaparte in Egitto. 363 Giorgio guazzotti, Teoria e realtà del Piccolo Teatro di Milano. 364 Antonio cederna, Mirabilia Urbis. Crona­ che romane 1957-1965. 365 claire-éliane engel, Storia dell'alpini­ smo. Ih appendice Cento anni di alpini­ smo italiano di Massimo Mila. 366 Leonard woolley, Un regno dimenticato. Storia di una scoperta archeologica. 367 barry ulanov, Storia del jazz in America. 368 Vladimir ja. propp, I canti popolari russi. Con una scelta di canti a cura di Gigliola Venturi. 369 Sergio DONADONi, Arte egizia. 370 ROLAND BARTHES, Saggi critici. 371 Frank lloyd Wright, La città vivente. 372 Studi e documenti del tempo fascista: Al­ berto aquarone, L'organizzazione dello Stato totalitario.

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Charles f. delzell, I nemici di Mussolint.

374 giulio carlo argan, Walter Gropius e la Bauhaus. 375 nuto revelli, La strada del davai. 376 Theodor w. adorno, Wagner. Mahler. 377 Edward h. carr, Sei lezioni sulla storia. 378 erich kuby, 1 russi a Berlino. La fine del Terzo Reich. 379 Geoffrey bibby, Quattromila anni fa. Un quadro della vita nel mondo durante il se­ condo millennio a. C. 380 F. w. Deakin e g. r. storry, Il caso Sorge. 381 Giorgio bassani, Le parole preparate e al­ tri scritti di letteratura. 382 gar alperovitz, Un asso nella manica. La diplomazia atòmica americana: Potsdam e Hiroshima. 383 luigi rognoni, La scuola musicale di Vienna. Espressionismo e dodecafonia. 384 G. Francesco malipiero, Il filo d'Arian­ na. Saggi e fantasie. 385 karl Lowith, Saggi su Heidegger. 386 e. j. hobsbawm, I ribelli. Forme primiti­ ve di rivolta sociale. 387 BONAVENTURA tecchi, Goethe scrittore di fiabe. 388 andré breton, Manifesti del Surrealismo, 389 EMILIO sarzi amadé, Rapporto dal Viet­ nam. 390 Danilo dolci, Chi gioca solo. 391 Mario tronti, Operai e capitale. 392 Edoardo sanguineti, Guido Gozzano. In­ dagini e letture. 393 Umberto saba, Lettere a un’amica. 394 michele pantaleone, Mafia e droga. 395 edgar snow, L’altra riva del fiume. La Ci­ na oggi. 396 La storia dell’arte raccontata da E. H. Gombrich. 397 lev TROTSKij, La rivoluzione permanente. 398 serge mallet, La nuova classe operaia. 399 augusto illuminati, Sociologia e classi sociali. 400 john beckwith, L’arte di Costantinopoli. Introduzione all’arte bizantina(330-1453 ). 401 garrett mattingl Y, L’invincibile Armada. 402 vance Packard, La società nuda. 403 Autobiografia di Malcolm X. 404 william l. shirer, Diario di Berlino (1934-1947) ■ 405 boris pasternak, Lettere agli amici geor­ giani. 406 albert ducrocq, Cibernetica e universo. Il romanzo della materia.

407 carl th. dreyer, Cinque film-. La Passio­ ne di Giovanna d’Arco, Vampiro, Dies irae, Ordet, Gertrud, seguiti da tutti gli scritti sul cinema. 408 Maurice blanchot, Lo spazio letterario. 409 carlo DIONISOTTI, Geografia e storia della letteratura italiana. 410 anouar abdel-malek, Esercito e società in Egitto 1952-1967. 411 johan huizinga, La civiltà olandese del Seicento. 412 victor serge, L’Anno primo della rivolu­ zione russa. 413 Antonio giolitti, Un socialismo possibile. 414 luigi capello, Caporetto, perché? La 2a armata e gli avvenimenti dell’ottobre 1917. 415 Antonio ghirelli, Storia del calcio in Italia. 416 cesare brandi, Struttura e architettura. 417 Richard hofstadter, Società e intellettua­ li in America. 418 RUDOLF e MARGOT WITTKOWER, Nati sotto Saturno. La figura dell’artista dall’Anti­ chità alla Rivoluzione francese. 419 gyòrgy lukacs, Marxismo e politica cul­ turale. 420 john Kenneth galbraith, Come uscire dal VietNam. Una soluzione realistica del più grave problema del nostro tempo. 421 william sheridan Allen, Come si diven­ ta nazisti. Storia di una piccola città 1930I935422 augusto monti, Scuola classica e vita mo­ derna. 423 JOHN KENNETH GALBRAITH, Il UUOVO Stato industriale. 424 Giorgio Fano, Neopositivismo, analisi del linguaggio e cibernetica. 425 rObert jungk, La grande macchina. I nuo­ vi scienziati atomici. 426 Gillo dorfles, Artificio e natura. 427 miguel barnet, Autobiografia di uno schiavo. 428 antonin artaud, Il teatro e il suo dop­ pio. Con altri scritti teatrali e la tragedia «I Cenci». 429 mario silvestri, Il costo della menzo­ gna. Italia nucleare 1945-1968. 430 Pierre boulez, Note di apprendistato. 431 Adolfo omodeo, Momenti della vita di guerra. Dai diari e dalle lettere dei caduti 1915-1918. 432 ernesto N. Rogers, Editoriali di architet­ tura. 433 c. w. ceram, I detectives dell’archeologia. Le grandi scoperte archeologiche nel rac­ conto dei protagonisti.

434 Lamberto vitali, Un fotografo fin de siede. Il conte Primoli. 435 laurence Thompson, 1940: Londra bru­ cia. 436 ved mehta, Teologi senza Dio. 437 RAFFAELE amaturo, Congetture sulla «Notte» del Parini. In appendice i ma­ noscritti ambrosiani criticamente ordinati. 438 FERDINANDO BOLOGNA, Novità SU Giotto. Giotto al tempo della cappella Peruzzi. 439 Theodor w. adorno, Il fido maestro sosti­ tuto. Studi sulla comunicazione della mu­ sica. 440 michele pantaleone, Antimafia: occasio­ ne mancata. 441 Gisela m. A. richter, L'arte greca. 442 Arnold Hauser, Le teorie dell'arte. Ten­ denze e metodi della critica moderna. 443 william hinton, Panshen. Un villaggio cinese nella rivoluzione. 444 Vittorio strada, Tradizione e rivoluzione nella letteratura russa. 445 Mario BORTOLOTTO, Fase seconda. Studi sulla Nuova Musica. 446 Jacques m. vergès, Strategia del proces­ so politico. 447 Nikolaus pevsner, L'architettura moder­ na e il design. Da William Morris alla Bauhaus. 448 carl th. dreyer, Gesù. Racconto di un film. 449 paul rozenberg, Vivere in maggio. 450 jane jacobs, Vita e morte delle grandi cit­ tà. Saggio sulle metropoli americane. 451 norman cohn, Licenza per un genocidio. I «Protocolli degli Anziani di Sion»: sto­ ria di un falso. 452 Maurice blanchot, Il libro a venire. 453 GIAN CARLO ROSCIONI, La disarmonia pre­ stabilita. Studio su Gadda. 454 Leonard r. palmer, Minoici e micenei. L'antica civiltà egea dopo la decifrazione della lineare B. 455 michele pantaleone, Mafia e politica 1943-1962. 456 paul PHILIPPOT, Pittura fiamminga e Ri­ nascimento italiano. 457 George c. vaillant, La civiltà azteca. Nuova edizione riveduta a cura di Susan­ nah B. Vaillant. 458 Giovanni romano, Casalesi del Cinque­ cento. L'avvento del manierismo in una città padana. 459 vance Packard, Il sesso selvaggio. I rap­ porti sessuali oggi. 460 massimo l. salvadori, Gramsci e il pro­ blema storico della democrazia.

461 frank Popper, L'arte cinetica. L'immagi­ ne del movimento nelle arti figurative. 462 denis bablet, La scena e l'immagine. Saggio su Josef Svoboda. 463 j. eric s. Thompson, La civiltà maya. 464 Ezio Raimondi, Metafora e storia. Studi su Dante e Petrarca. 465 louis a. christophe, Abu Simbel. L'epo­ pea di una scoperta archeologica. 466 lev TROTSKij, I problemi della rivoluzio­ ne cinese e altri scritti su questioni in­ ternazionali 1924-1940. 467 Lionello venturi, La via dell'Impressio­ nismo. Da Manet a Cézanne. 468 Leonardo sciascia, La corda pazza. Scrit­ tori e cose della Sicilia. 469 Ernst h. gombrich, A cavallo di un ma­ nico di scopa. Saggi di teoria dell'arte. 470 Enrico FUBiNi, Gli enciclopedisti e la mu­ sica. 471 nuto revelli, L'ultimo fronte. Lettere di soldati caduti 0 dispersi nella seconda guerra mondiale. 472 Danilo montaldi, Militanti politici di base. 473 I fratelli di Soledad. Lettere dal carcere di George Jackson. 474 bruno zevi, Saper vedere l'urbanistica. Ferrara di Biagio Rossetti, la prima città moderna europea. 475 karol górski, L'Ordine teutonico. Alle origini dello stato prussiano. 476 Frederick antal, Studi su Fuseli. 477 robert havemann, Domande Risposte Domande. Autobiografia di uno scienzia­ to marxista. 478 paolo fossati, L'immagine sospesa. Pit­ tura e scultura astratte in Italia, 1934-40. 479 Simone de Beauvoir, La terza età. 480 Felix KLEE^Vita e opera di Paul Klee. 481 Claudio’ magris, Lontano da dove. Jo­ seph Roth e la tradizione ebraico-orien­ tale. 482 bobby seale, Cogliere l'occasione! La sto­ ria del Black Panther Party e di Huey P. Newton. 483 alan gardiner, La civiltà egizia. 484 Vincenzo di benedetto, Euripide: teatro e società. 485 franco corderò, L'Epistola ai Romani. Antropologia del cristianesimo paolino. 486 philippe jullian, Oscar Wilde. 487 Frances a. yates, L'arte della memoria. 488 roman ghirshman, La civiltà persiana an­ tica. 489 v. Gordon childe, L'alba della civiltà eu­ ropea.

490 l. n. gumilev, Gli Unni. Un impero di nomadi antagonista dell'antica Cina. 491 Allen Ginsberg, Testimonianza per il processo di Chicago, 1969. 492 Jean-Luc Godard, Cinque film’. Fino al­ l'ultimo respiro, Questa è la mia vita, Una donna sposata, Due o tre cose che so di lei, La Cinese. 493 Vittorio lugli, La cortigiana innamorata e altri saggi. 494 F. w. d. deakin, La montagna piu alta. L'epopea dell'esercito partigiano jugo­ slavo. 495 william Hinton, Buoi di ferro. La rivo­ luzione nell'agricoltura cinese. 496 basil davidson, La civiltà africana. Intro­ duzione a una storia culturale dell'Africa. 497 Francis Donald klingender, Arte e rivo­ luzione industriale. 498 bjórn kurtén, Non dalle scimmie. 499 ANTONIO faeti, Guardare le figure. Gli il­ lustratori italiani dei libri per l'infanzia. 500 c. w. ceram, Il primo americano. Archeo­ logia e preistoria del Nordamerica. 501 Lionello venturi, Il gusto dei primitivi. 502 paolo fossati, Il design in Italia 19451972. 503 samuel mines, Gli ultimi giorni dell'u­ manità. Sopravvivenza ecologica o estin­ zione. 504 Ernst h. gombrich, Norma e forma. Stu­ di sull’arte del Rinascimento. 505 Vladimir markov, Storia del futurismo russo. 506 edgar SNOW, La lunga rivoluzione. 507 aldo pomini, Il ballo dei pescicani. Sto­ ria di un forzato. 508 Danilo dolci, Chissà se i pesci piangono. Documentazione di un'esperienza educa­ tiva. 509 Alexander werth, L'Unione Sovietica nel dopoguerra 1945-1948. 510 bruno zevi, Spazi dell’architettura mo­ derna. 511 luigi Salvatorelli, Vita di san France­ sco d'Assisi. 512 gunter grass, Viaggio elettorale. Discor­ si politici di uno scrittore. 513 gustave glotz, La Città greca. 514 angelo maria ribellino, Praga magica. 515 Antonio GfflEELLi, Storia di Napoli. 516 bertolt brecht, Scritti sulla letteratura e sull'arte. 5T7 GILLO dorfles, Dal significato alle scelte. 518 Nadar. Testi di Nadar, Jean Prinet e An­ toinette Dilasser, Lamberto Vitali. Con 100 fotografie di Nadar e altri documenti.

519 Andreina griseri e Roberto gabetti, Ar­ chitettura dell'eclettismo. Un saggio su G. B. Scheilino. 520 ugo duse, Gustav Mahler. 521 Luis bunuel, Sette film: L'età dell'oro, Nazarin, Viridiana, L'angelo sterminatore, Simone del deserto, La via lattea, Il fascino discreto della borghesia. 522 Luciano bellosi, Buffalmacco e il Trion­ fo della Morte. 525 c. p. fitzgerald, La civiltà cinese. 524 cesare brandi, Teoria generale della cri­ tica. 525 Sergio solmi, Saggio su Rimbaud. 526 Giuseppe galasso, Potere e istituzioni in Italia. Dalla caduta dell'impero romano a oggi. 527 elaine morgan, L'origine della donna. 528 h. r. hays, Dalla scimmia all'angelo. Due secoli di antropologia. 529 tomàs maldonado, Avanguardia e razio­ nalità. Articoli, saggi, pamphlets, 1946I974530 vance Packard, Una nazione di estranei. 531 arturo schwarz, La Sposa messa a nudo in Marcel Duchamp, anche. 532 Arnold schoenberg, Analisi e pratica mu­ sicale. Scritti 1909-1950. 533 Federico fellini. Quattro film: I Vitel­ loni, La dolce vita, 8lk, Giulietta degli spiriti. 534 gianni rond olino, Storia del cinema d'a­ nimazione. 555 Frances fitzgerald, Il lago in fiamme. 536 J. innes miller, Roma e la via delle spe­ zie. Dal 29 a. C. al 641 d. C. 557 Wilfrid mellers, Musica nel Nuovo Mon­ do. Storia della musica americana. 538 gustave glotz, La civiltà egea. bertolt brecht, Scritti teatrali.

559 1.

Teoria e tecnica dello spettacolo 19181942. ^40 n. «L'acquisto dell'ottone», «Breviario di estetica teatrale » e altre riflessioni 1937-1956541 ni. Note ai drammi e alle regie. 542 robert jungk, L'uomo del millennio.

543 p. A. allum, Potere e società a Napoli nel dopoguerra. 544 Julian beck, La vita del teatro. L'artista e la lotta del popolo. 545 whazaìa hinton, La guerra dei cento giorni. Rivoluzione culturale e studenti in Cina. carlo rag chianti, Arti della visione. 546 1. Cinema. 547 n. Spettacolo.

548 Gian Carlo ferretti, «Officina». Cultu­ 377 Mario mieli, Elementi di critica omoses­ suale. ra, letteratura e politica negli anni cin­ quanta. 378 MARIO ISNENGHI, Giornali di trincea ( 19131918). 549 Erwin panofsky, Studi di iconologia. Ite­ mi umanistici nell’arte del Rinascimento. 379 Giorgio agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale. 550 luigi magnani, Beethoven nei suoi qua­ 580 yvonne kapp, Eleanor Marx. derni di conversazione. I. Vita famigliare (1833-1883). 551 susan sontag, Interpretazioni tendenzio­ 11. Gli anni dell’impegno (1884-1898). se. Dodici temi culturali. 552 Frederick antal, Classicismo e romauli­ 581 Georges duby, La domenica di Bouvines. 27 luglio 1214. cismo. 333 lalla romano, Lettura di un’immagine. 582 luigi Longo, Continuità della Resistenza. 554 Lionello venturi, Come si comprende la 383 Arnold Hauser, Sociologia dell’arte. pittura. Da Giotto a Chagall. 1. Teoria generale. 11. Dialettica del creare e del fruire. 333 ROBERTO GABETTI e CARLO OLMO, Le Corni. Arte popolare, di massa e d’avanguar­ busier e «L’Esprit Nouveau ». dia. 556 nino pirrotta, Li due Orfei. Da Polizia­ no a Monteverdi. 384 aline b. saarinen, I grandi collezionisti americani. 557 folco portinari, Le parabole del reale: 385 Antonio ghirelli, Napoli italiana. Romanzi italiani dell’Ottocento. 558 Michail alpatov, Le icone russe. Proble­ 586 paolo matthiae, Ebla. Un impero ritro­ vato. mi di storia e d’interpretazione artistica. 339 Edoardo SANGUiNETi, Giornalino 1973- 387 Ludovico zorzi, Il teatro e la città. Saggi sulla scena italiana. 1975560 romano bilenchi, Amici. Vittorini, Rosai 588 Sergio solmi, Saggi sul Fantastico. Dal­ l’antichità alle prospettive del futuro. e altri incontri. 561 Nicola CHIAROMONTE, Scritti sul teatro. 389 Ernst h. gombrich, Immagini simboliche. Studi sull’arte nel rinascimento. 562 Marco Cavallo. A cura di Giuliano Scabia. Una esperienza di animazione in un ospe­ 390 salvatore settis, La «Tempesta» inter­ pretata. Giorgione, i committenti, il sog­ dale psichiatrico. getto. 563 Gillo dorfles, Il divenire della critica. 391 BERNHARD PAUMGARTNER, Mozart. 564 luigi aurigemma, Il segno zodiacale del­ lo Scorpione nelle tradizioni occidentali 392 albe steiner, Il mestiere di grafico. dall’antichità greco-latina al Rinascimento. 393 angelo maria ripellino, Saggi in forma di ballate. Divagazioni su temi di lettera­ 365 roger gentis, Guarire la vita. tura russa, ceca e polacca. 566 albert ducrocq, Il romanzo della vita. 394 LUIGI MAGNANI, La musica in Proust. 367 johannes br0Ndsted, I Vichinghi. 393 Giovanni preVitali, La pittura del Cin­ 568 c. a. burlano, Montezuma signore degli quecento a Napoli e nel vicereame. Aztechi. 596 Uno sguardo privato. Memorie fotogra­ 569 r. w. Hutchinson, L’antica civiltà cretese. fiche di Francesco Chigi. A cura di Èva Paola Amendola. 570 cesare brandi, Scritti sull’arte contempo­ ranea. 397 jean-paul ARON, La Francia a tavola dall’Ottocento alla Belle Epoque. 371 luigi magnani, Goethe, Beethoven e il demonico. 398 anacleto Verrecchia, La catastrofe di Nietzsche a Torino. 572 Federico zeri, Diari di lavoro 2. 573 edgar snow, La mia vita di giornalista. 399 félix guattari, La rivoluzione moleco­ lare. Un viaggio attraverso la storia con tempo­ ranea. 600 timothy j. clark, Immagine del popolo. Gustave Courbet e la rivoluzione del ’48. 574 Francesco arcangeli, Dal romanticismo 601 sarah b. pomeroy, Donne in Atene e all’informale. Roma. 1. Dallo «spazio romantico» al primo 602 frank WILLETT, Arte africana. Novecento. il. Il secondo dopoguerra. 603 robert jungk, Lo stato atomico. 575 II melodramma italiano dell’ottocento. 604 Rosita levi pisetzky, Il costume e la Studi e ricerche per Massimo Mila. moda nella società italiana. 576 IGOR7 STRAVINSKY e ROBERT CRAFT, Collo­ 605 mauro cristofani, L’arte degli Etruschi. qui con Stravinsky. Produzione e consumo.

6o6 Ingmar bergman, Sei film: Luci d’inver­ no. Come in uno specchio. Il silenzio. Il rito. Sussurri e grida. Persona. 607 Ottavia Niccoli, I sacerdoti, i guerrieri, i contadini. 608 Gian carlo ferretti, Il mercato delle let­ tere. Industria culturale e lavoro critico in Italia dagli anni cinquanta a oggi. 609 linda nochlin, Realismo. La pittura in Europa nel xix secolo. 610 cesare brandi, Scritti sull’arte contempo­ ranea. II. 611 carlo levi, Quaderno a cancelli. Con una testimonianza di Linuccia Saba e una nota di Aldo Marcovecchio. 612 Edoardo sanguineti, Giornalino secondo 1976-1977613 Lamberto vitali, Il Risorgimento nella fotografia. 614 Antonia mulas, San Pietro. 615 carlo ragghianti, Arti della visione. in. Il linguaggio artistico. 616 AARON scharf, Arte e fotografia. 617 Manlio brusatin, Venezia nel Settecen­ to: stato, architettura, territorio. 618 franco mancini, L’illusione alternativa. 619 hugh trevor-roper, Principi e artisti. Mecenatismo e ideologia in quattro corti degli Asburgo (1517-1633). 620 Manfredo tafuri, La sfera e il labirin­ to. Avanguardie e architettura da Piranesi agli anni ’70. 621 maria CALf, Da Michelangelo all’Escorial. Momenti del dibattito religioso nell’arte del Cinquecento. 622 Gillo dorfles, L’intervallo perduto. 623 luigi magnani, L’idea della Chartreuse. Saggi stendhaliani. 624 Vittorio foa, Per una storia del movi­ mento operaio. 625 HUGH honour, Neoclassicismo. 626 cesare brandi, Disegno della pittura ita­ liana. 627 massimo mila, L’arte di Verdi. 628 Villaggi operai in Italia. La Val Padana e Crespi d’Adda. 629 Francesco ARCANGELI, Giorgio Morandi. 630 GIORGIO avigdor,Mario Gabinio fotografo.

La vita, le opere, le idee, le polemiche, gli incontri, i pro­ blemi della musica: un vivace capitolo autobiografico che illumina l’intera vicenda culturale del nostro secolo.

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