Civiltà del legno. Per una storia del legno come materia per costruire dall'antichità ad oggi 8849121563

I saggi raccolti nel volume si occupano dell’impiego del legno materiale nell’edilizia, nella fabbricazione di oggetti e

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Civiltà del legno. Per una storia del legno come materia per costruire dall'antichità ad oggi
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CIVILTÀ DEL LEGNO PER UNA STORIA DEL LEGNO COME MATERIA PER COSTRUIRE DALL’ANTICHITÀ AD OGGI

a cura di

Paola Galetti

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© 2004 by CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna

Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, AIE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni per uso differente da quello personale potranno avvenire solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata dall’editore.

Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Paleografia e Medievistica e del Dipartimento di Discipline Storiche dell’Università di Bologna

Coordinamento redazionale: Paola Galetti In copertina: particolare del mese di Dicembre. Trento, Castello del Buonconsiglio, torre dell’Aquila, ciclo dei mesi, parete Nord (XIV-XV secolo).

Galetti, Paola Civiltà del legno. Per una storia del legno come materia per costruire dall’Antichità ad oggi. – Bologna : CLUEB, 2004 175 p. ; 22 cm (Biblioteca di storia agraria medievale / diretta da Bruno Andreolli, Alfio Cortonesi, Massimo Montanari ; 25) ISBN 88-491-2156-3

CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna 40126 Bologna - Via Marsala 31 Tel. 051 220736 - Fax 051 237758 www.clueb.com

zyxwvu zyxwv zy zyxw zyxw INDICE

Pug.

Paola Galetti, Introduzione

...................................................................

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I Sezione - Il legno nell ’edilizia e nella vita quotidiana

Paola Galetti, Le testimonianze scritte e 1 ’usodel legno nell ’ediliziadel Medioevo ...............................................................................................

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Andrea Augenti, Fonti archeologiche per l’uso del legno nell’edilizia medievale in Italia .................................................................................

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Chiara Guarnieri, I l legno nell’edilizia e nella vita quotidiana del medioevo: i risultati degli scavi a Ferrara e nel territorio ferrarese ...

71

Maurizio Biolcati Rinaldi, Le costruzioni in legno nell’area nordica: aspetti tecnici e strutturali ....................................................................

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I1 Sezione - Il legno nella cantieristica navale Marco Bonino, Appunti sul1 ’impiegodel legno nelle costruzioni navali tra antichità e medioevo ........................................................................

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Mauro Agnoletti, Legnami, foreste e costruzioni navali fra X V e XVIII secolo ....................................................................................................

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Introduzione

Il volume raccoglie gli Atti di un convegno su “Civiltà del legno: gli alberi come materia per costruire” che si è tenuto il 7 giugno 2001 presso l’Università degli studi di Bologna, nell’ambito delle attività di ricerca dei Dipartimenti di Paleografia e Medievistica e di Discipline Storiche, del Centro “Luigi Dal Pane” per la storia economica e sociale dell’Emilia Romagna, dei Dottorati di ricerca in “Storia Medievale” e in “Storia d’Europa. Identità collettive, cittadinanza e territorio (età moderna e contemporanea)”. L’incontro, previsto all’interno del seminario biennale interdisciplinare su “Alberi: economia, cultura materiale, immaginario. Le piante legnose coltivate in Italia dal medioevo all’età contemporanea”, coordinato da Massimo Montanari e Franco Cazzola, era rivolto allo studio di alcuni impieghi di una materia prima essenziale fornita dagli alberi: il legno. Molti aspetti della nostra vita quotidiana prevedono un diffuso e vario utilizzo di questo materiale. E questo non solo oggi, ma fin dall’antichità. Vi sono, poi, epoche storiche che più di altre hanno assistito ad un massiccio sfruttamento delle aree forestali e ad un largo impiego del legno per gli usi più diversi. L’età medievale è certamente una di esse. Un mondo di selve, a volte impenetrabili e solo lentamente intaccate dalle opere di colonizzazione, influenzava in quei secoli le condizioni materiali di vita ed anche l’immaginario degli uomini1.

1 J. Le Goff, L’immaginario medievale, Roma-Bari, 1988; V. Fumagalli, L’uomo e l’ambiente nel Medioevo, Roma-Bari, 1992; P. Galetti, Uomini e case nel Medioevo tra Occidente e Oriente, Roma-Bari, 20042.

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Perspicuamente Jacques Le Goff ha sottolineato che “Il Medioevo è per noi una gloriosa collezione di pietre:cattedrali e castelli. Ma queste pietre rappresentano soltanto un’infima parte di quello che c’era. Sono rimaste alcune ossa di un corpo di legno e di materiali ancora più umili e perituri: paglia, mota, impasto di argilla e paglia. Nulla illustra meglio la credenza fondamentale del Medioevo nella separazione dell’anima dal corpo e nella sopravvivenza della sola anima: quello che ci ha lasciato – il suo corpo si è ridotto in polvere – è la sua anima incarnata nella pietra durevole. Ma quest’illusione non deve ingannarci”2. È a questo “corpo di legno” che è dedicata la maggior parte degli approfondimenti contenuti in questo volume: al Medioevo, dunque. E, aggiungiamo, ad alcuni impieghi ben definiti del legno, al di là di tutti i suoi possibili e riscontrabili utilizzi: per costruire case, per fabbricare oggetti e strumenti della vita quotidiana e per costruire navi. L’attenzione è sempre rivolta alle fonti, alle loro diverse tipologie e al loro differente potenziale informativo. D’altronde, si tratta di un libro di storia, che vuole gettare luce su alcuni aspetti della vita degli uomini nel corso del tempo, più che di un libro di storia delle tecniche, anche se questo aspetto non è certamente trascurato al suo interno. Il legno, fin dall’antichità, è stato il materiale naturale più usato dall’uomo per costruire strutture di protezione dagli agenti atmosferici, perché diffuso in natura, leggero, flessibile, facile da lavorare anche con strumenti rudimentali, compatibile con altri materiali. Per il Medioevo e, in particolar modo, per i suoi primi secoli, sia le fonti scritte che quelle materiali (principalmente quelle archeologiche), di cui i due saggi di Paola Galetti e Andrea Augenti mettono in luce il potenziale informativo, testimoniano una larga diffusione di edilizia interamente lignea o mista in tutto l’Occidente europeo ed anche in Italia, sia in ambito rurale che urbano. A partire dal X secolo la situazione iniziò a modificarsi. Nelle campagne il ricorso diffuso e svariato al legno in campo edilizio si protrasse ben al di là dei limiti cronologici del periodo. Da sottoscrivere è quanto Jean Chapelot e Robert Fossier concludevano nel 1980: “Le paysan médiéval dépend avant

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J. Le Goff, La civiltà dell’Occidente medievale, Torino, 1981, pp. 227-228.

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tout du bois”3. Nelle città, invece, l’edilizia in legno continuò ad essere edificata, ma perse di centralità e soprattutto si assistette in molti casi alla marginalizzazione dell’uso di questo materiale, impiegato solo per alcune specifiche funzioni4. E quanto detto vale sia per l’edilizia abitativa che per strutture riferite ad una edilizia di tipo “monumentale”, come castelli e chiese. Un osservatorio privilegiato per quanto concerne l’utilizzo del legno nell’edilizia cittadina è rappresentato dal caso ferrarese, studiato da Chiara Guarnieri. La ricerca archeologica a Ferrara, città fondata ex novo in età altomedievale, ci ha restituito, infatti, materiale medievale abbondante, di ottimale conservazione e reperito in un sito privo di indici di residualità delle stratificazioni archeologiche. Il legno, comunque, ben al di là del periodo medievale ha continuato ad essere impiegato nell’edilizia, variamente, o come materiale complementare o anche come materiale strutturale principale. Questo soprattutto nella tradizione costruttiva delle aree del Nord-Europa, studiate, anche da un punto di vista tecnico, da Maurizio Biolcati Rinaldi. A testimoniare questa tradizione, che risale ben indietro nel tempo5 e si spinge sino ad oggi, stanno i numerosi musei open-air, etnografici locali, sparsi in diversi paesi dell’Europa continentale, settentrionale e insulare6, nonché, e soprattutto, la tradizione architettonica di questi ultimi, che recupera ancora nella contemporaneità modelli antichi. Pensiamo, ad esempio, alla progettazione e alla diffusione di abitazioni unifamiliari con strutture portanti lignee e alla produ-

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J. Chapelot, R. Fossier, Le village et la maison au Moyen Age, Parigi, 1980, p.

255. P. Galetti, Abitare nel Medioevo. Forme e vicende dell’insediamento rurale nell’Italia altomedievale, Firenze, 20033; Ead., Uomini e case, cit.; Ead., Le tecniche costruttive fra VI e X secolo, in La storia dell’Alto Medioevo italiano (VI-X secolo) alla luce dell’archeologia, a cura di R. Francovich, G. Noyé, Firenze, 1994, pp. 467-477; R. Parenti, Le tecniche costruttive fra VI e X secolo, in Ibid., pp. 479-496; S. Gelichi, M. Librenti, L’edilizia in legno altomedievale nell’Italia del Nord: alcune osservazioni, in I Congresso Nazionale di Archeologia Medievale, a cura di S. Gelichi, Firenze, 1997, pp. 215-220; G. P. Brogiolo, S. Gelichi, La città nell’alto medioevo italiano. Archeologia e storia, Roma-Bari, 1998; cfr. anche il saggio di A. Augenti in questo volume. 5 P. Galetti, Uomini e case, cit., pp. 3-30. 6 Ibid., pp. 27, 30. 4

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zione prefabbricata di edifici di questo tipo, variata nelle tipologie e nelle finiture. Nel periodo medievale il legno costituiva, inoltre, il materiale in assoluto di più larga utilizzazione per la fabbricazione di oggetti e strumenti usati nella vita di tutti i giorni. Di legno erano le masserizie e le suppellettili domestiche, oltre che gli attrezzi da lavoro, utili e funzionali per numerose e svariate attività7. Ne abbiamo il ricordo nelle fonti scritte e ne sono stati ritrovati esemplari in interventi di scavo, come ad esempio a Ferrara e nel Ferrarese. Ce lo testimoniano, inoltre, il considerevole numero di artigiani specializzati nella fabbricazione di singole tipologie di oggetti e strumenti, la cui intensa attività fonti scritte di vario genere e tenore ci documentano abbondantemente. Ci si serviva per le attività edificatorie ed artigianali di legni locali, di più facile reperimento, ed anche di legni di importazione. Così come circolavano gli uomini nel Medioevo – probabilmente più di quanto ci immaginiamo –, così circolavano le merci, manufatti e materiali, soprattutto a partire dai secoli della cosiddetta ‘espansione europea’. Il trasporto di uomini e merci avveniva per le vie di terra o per le vie d’acqua, fluviali o marittime. Carri e altri mezzi di trasporto terrestri conoscevano l’impiego esclusivo del legno per la loro fabbricazione, così come le barche e le navi che solcavano fiumi e mari. Il termine stesso ‘legno’ è usato ancora oggi per qualificare e identificare nella sua interezza una barca/nave costruita con tale materiale. Già nel Neolitico si conoscevano le caratteristiche tecniche dei vari tipi di legname e i modi di lavorarli per costruire imbarcazioni, via via perfezionate nel corso del tempo. È a partire dal III secolo d.C. che si verificò un profondo cambiamento nelle costruzioni navali. Per Marco Bonino il fatto evolutivo principale è costituito dal passaggio dalle costruzioni a guscio portante a quelle a scheletro portante, a noi familiari, oltre che da scelte più oculate delle varietà di legni e, più tardi, dai progressi della metallurgia. Solo in età contemporanea si è attuato il passaggio ai moderni bastimenti, nei quali il legno costituisce solo un elemento accessorio o decorativo, o tutt’al più si cerca di realizzare a scopo museale progetti di ricostruzione al vero di imbar-

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Cfr. il saggio di C. Guarnieri; P. Galetti, Abitare, cit., pp. 107-115.

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cazioni antiche, con tutte le inevitabili difficoltà di adattamento dei materiali attuali a costruzioni di altri tempi. Lo sviluppo in età medievale, ed ancora in età moderna, delle grandi marine commerciali e militari ha posto in primo piano il problema dell’approvvigionamento del legname, dell’individuazione delle risorse forestali e della loro qualità, delle relazioni tra zone di produzione ed arsenali e delle tecniche di trasporto dei materiali. Mauro Agnoletti ha esaminato il caso di Venezia tra XV e XVIII secolo, ponendolo a confronto con altre situazioni, come ad esempio Genova. Un caso, quello veneziano, da un certo punto di vista privilegiato, poiché la Serenissima poteva contare su risorse legnose interne ai suoi domini (come il Cadore e la foresta del Cansiglio nelle Prealpi bellunesi), oltre che sulla vicinanza di aree ricche di legname come l’Istria e la Dalmazia. Una gestione attenta, oculata, con capacità previsionali, delle risorse forestali da parte dei governi veneziani ha permesso per lungo tempo di sfruttarle al meglio, in una logica di bosco “domestico”, ecologica ante litteram. D’altronde è attuale anche oggi il problema della difesa delle ampie zone forestali residue del pianeta, della loro preservazione, non disgiunte, però, dal riconoscimento della necessità di un ragionato e programmato sfruttamento del loro potenziale, in quanto fonti di risorse primarie per la vita degli uomini.

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Le testimonianze scritte e l’uso del legno nell’edilizia del Medioevo Paola Galetti

Queste mie considerazioni non sono tanto rivolte a presentare una casistica più o meno completa dei risultati concreti delle ricerche sull’uso del legno nell’edilizia medievale attraverso l’esame delle fonti scritte, quanto piuttosto a riflettere sul potenziale informativo della documentazione scritta, nelle sue diversissime tipologie e sfaccettature, in riferimento al problema storiografico che ci interessa. Vorrei precisare, inoltre, che mi occuperò esclusivamente di quanto le testimonianze scritte ci dicono, o, per converso, non ci dicono, sull’uso del legno come materiale da costruzione impiegato nell’edilizia residenziale, soprattutto privata, trattandosi di una tematica che da anni mi sta appassionando nel corso delle mie ricerche, e che procederò in modo schematico, cercando di evidenziare il diverso carattere informativo sull’uso del legno nelle costruzioni di alcune singole tipologie di fonti scritte. L’attenzione è quindi concentrata solo su alcuni esempi di testimonianze in cui l’informazione consiste in una comunicazione verbale trasmessa mediante scrittura1, nonostante che, allorché si parla di strutture materiali degli insediamenti, inevitabilmente il pensiero corra alla necessità di confrontarsi con fonti di tipo diverso, come quelle archeologiche o quelle artistiche od anche quelle etnografiche2. Solo 1 P. Delogu, Introduzione allo studio della storia medievale, Bologna, 1994, pp. 104-107; R. Dondarini, Per entrare nella storia. Guida allo studio, alla ricerca e all’insegnamento, Bologna, 1999, pp. 110-112. 2 P. Galetti, Abitare nel Medioevo. Forme e vicende dell’insediamento rurale nell’Italia altomedievale, Firenze, 1997, pp. 7-13; G. Romano, Studi sul paesaggio, To-

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la ricomposizione in un quadro unitario delle innumerevoli e disparate, sia per qualità che per quantità, informazioni che tutte queste differenti testimonianze ci forniscono può permettere una ricostruzione ‘tendenzialmente’ completa delle strutture insediative medievali. Su questa linea si pone Chris Wichkam, che, riflettendo sulle relazioni tra storia e archeologia, propone un esempio concreto. La città di Tours, alla fine del VI secolo, nell’opera del suo vescovo, Gregorio di Tours, è presentata come un centro politico importante, attivo, il più importante luogo di culto della Gallia. La città è, però, anche uno dei centri urbani meglio scavati del periodo. Questi scavi ci mostrano “due piccoli insediamenti distanti circa un chilometro, un numero ridotto di chiese e niente altro: a giudicare dall’apparenza, non un centro urbano, inteso in senso economico”. Perciò, “ogni analisi seria di Tours (che in questo caso, fortunatamente, esiste sia dal punto di vista storico che da quello archeologico) deve prendere ambedue queste conclusioni seriamente, nei loro propri termini, prima di tentare di giungere ad una sintesi; è inappropriato concludere che Gregorio ha inventato la sua città, che non deve essere esistita, o gli archeologi non sono stati in grado di trovare ciò che deve essere stato lì perché lo ha detto Gregorio…Rendere il giusto rispetto alle procedure dimostrative di un’altra disciplina, anche quando i risultati sono a prima vista scomodi, spinge verso una sintesi più creativa di quanto faccia ribadire la propria superiorità metodologica”3. Già Marc Bloch, nella sua “Apologia della storia”, aveva scritto che: “Sarebbe una grande illusione immaginare che a ciascun problema storico corrisponda un tipo unico di documenti, specializzato per quell’uso. Al contrario, quanto più la ricerca si sforza di cogliere i fatti profondi, tantomeno può sperare luce da altra fonte che dai raggi convergenti di testimonianze di natura assai diversa”4.

rino, 1991, pp. XXI-XXXIX, 2-84; P. Burke, Testimoni oculari. Il significato storico delle immagini, Roma, 2002; P. Scheuermeier, Il lavoro dei contadini, Milano, 1980. 3 C. Wickham, Edoardo Grendi e la cultura materiale, in “Quaderni Storici”, 110/2 (2002), pp. 323-331, alle pp. 329-330; L. Pietri, La ville de Tours du IVe au VIe siècle, Roma, 1983; H. Galinié, Tours de Grégoire, Tours des archives du sol, in Grégoire de Tours et l’espace gaulois, a cura di N. Gauthier, H. Galinié, Tours, 1997. 4 M. Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, Torino, 1969, p. 71.

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Lo studio del documento scritto ha portato a significativi risultati sulle trasformazioni dell’habitat e della rete insediativa, sulla storia dei centri urbani e delle campagne medievali, pur con una maggiore concentrazione di ricerche sul pieno-tardo medioevo. Relativamente ai secoli dell’alto medioevo, l’interesse per questo indirizzo di ricerca si è sviluppato con un certo vigore soprattutto in quest’ultimo trentennio5. Lo studio del documento scritto ha portato, inoltre, a documentare con forza l’amplissima diffusione del legno come materiale da costruzione nei secoli del medioevo. Un materiale di impiego quasi esclusivo nell’edilizia residenziale altomedievale rurale ed urbana dell’Occidente europeo per l’edificazione delle pareti e degli elementi architettonici accessori e per la copertura dei tetti degli edifici, materiale solo lentamente sostituito nei secoli posteriori al Mille da altri in grado di garantire una maggiore solidità e durata alle strutture6. Prima di procedere schematicamente all’esame di alcune tipologie di testimonianze scritte, vorrei fare un’ultima precisazione metodologica. Come non esiste un unico e specifico tipo di documento utile per ogni singolo problema storico – come diceva Marc Bloch –, così pure il messaggio delle fonti storiche, in primo luogo di quelle scritte, è sempre pluridirezionale, anche se tipologicamente esse forniscono informazioni preferenziali. In ogni tipo di fonte sono presenti molteplici canali informativi; quindi, tutte le fonti ci forniscono messaggi Per la situazione italiana: R. Comba, Le origini medievali dell’assetto insediativo moderno nelle campagne italiane, in Storia d’Italia. Annali 8, Insediamenti e territorio, a cura di C. De Seta, Torino, 1985, pp. 369-404; P. Galetti, Abitare nel Medioevo, cit.; Medievistica italiana e storia agraria, a cura di A. Cortonesi, M. Montanari, Bologna, 2001; A. Cortonesi, G. Pasquali, G. Piccinni, Uomini e campagne nell’Italia medievale, Roma-Bari, 2002. Cfr. anche la ricca bibliografia citata. Per la storia delle campagne medievali attraverso il ricorso a diverse tipologie di fonti, ancora di grande utilità risulta essere: Medioevo rurale. Sulle tracce della civiltà contadina, a cura di V. Fumagalli, G. Rossetti, Bologna, 1980. Per il ruolo determinante di Vito Fumagalli nello studio delle trasformazioni dell’habitat nei secoli del Medioevo: M. Montanari, Ricordo di un maestro. Vito Fumagalli 1938-1997, in “Intersezioni”, XVII/2 (1997), pp. 175-198. 6 P. Galetti, Uomini e case nel Medioevo tra Occidente e Oriente, Roma-Bari, 2001; cfr. anche la bibliografia citata; Ead., Le tecniche costruttive fra VI e X secolo, in La storia dell’alto medioevo italiano (VI-X secolo) alla luce dell’archeologia, a cura di R. Francovich, G. Noyé, Firenze, 1994, pp. 467-477. 5

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sui quesiti che ci poniamo, anche se alcune ci informano meglio su di un problema storiografico, le altre su di un altro. Bisogna interrogarle secondo intendimenti diversi e soprattutto secondo diverse angolature, cercando di separare i differenti piani di comunicazione di messaggi e di lettura degli stessi7. Questo è tanto più vero se partiamo dalla considerazione di una prima tipologia di fonti scritte, quelle che sinteticamente possiamo definire come fonti legislative e normative. Possiamo fare rientrare in questa categoria non solo le codificazioni organiche di leggi promulgate dai sovrani medievali o gli statuti dei Comuni, ma anche testi normativi e dispositivi prodotti nell’esercizio corrente del governo, come, ad esempio, i capitolari carolingi, le costituzioni imperiali e regie. Vi rientra, inoltre, la legislazione e la normativa eccclesiastica (espressa negli atti dei concili, nei decreti papali, nelle raccolte di canoni)8. Informazioni sulle strutture insediative, sui materiali costruttivi e, quindi, anche sul legno, si possono ricavare, ad esempio, dalle codificazioni legislative, che nascono d’altronde da una situazione reale che ci si promette di conservare o modificare. Esse rispecchiano la società che le ha espresse, traducendo molto spesso in norme scritte consuetudini lentamente maturate nel corso del tempo e inoltre regolando nuovi rapporti reali e personali che via via si sono andati definendo. Esse costituiscono perciò una testimonianza anche dell’ambito socioeconomico, oltre che politico e culturale, della collettività a cui erano destinate e nel cui seno si erano venute sviluppando. I secoli dal IV all’VIII conobbero una ricca produzione legislativa. Furono l’epoca delle grandi sistemazioni del diritto romano e delle redazioni scritte dei sistemi giuridici dei popoli germanici. Queste ultime nacquero dalla necessità di integrare lo “ius commune” dell’impero, cioè il diritto romano, con un insieme complesso di leggi e regolamenti che avessero vigore nell’ambito definito di una determinata collettività e che ne rispecchiassero gli atteggiamenti mentali e gli stili di vita nuovi e soprattutto consuetudinari. Nelle

M. Bloch, Apologia, cit., p. 71; V. Fumagalli, Scrivere la storia. Riflessioni di un medievista, Roma-Bari, 1995, p. 6. 8 P. Delogu, Introduzione, cit., p. 105. 7

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“Leges” di diritto germanico manca l’elaborazione stilistica e dottrinale che fu alla base delle grandi compilazioni giuridiche romane. L’atteggiamento culturale delle civiltà germaniche non consentiva infatti di astrarre e idelizzare i concetti del diritto, che rimaneva ancorato alla realtà concreta. Questo spiega l’estrema specificità delle “Leges”, da ricollegarsi inoltre anche al fatto che rappresentavano la redazione scritta di un diritto consuetudinario. In esse emergono, pertanto, in continuazione individui privati e spazi privati. La materia contemplata è molto ricca e variegata e molte disposizioni hanno una tonalità concreta e vivida. Per queste loro caratteristiche sono pertanto di grande utilità – molto di più delle sistemazioni di diritto romano – come testimonianza degli atteggiamenti mentali, delle tradizioni, dei costumi dei gruppi i cui rapporti interni regolavano, oltre che degli aspetti concreti della loro vita associata9. Le leggi di diritto germanico (Visigoti, V-VII secolo; Burgundi, VVI secolo; Franchi, V-inizi IX secolo; Alamanni, VII-VIII secolo; Longobardi, VII-VIII secolo; Bavari, VIII secolo) aprono il sipario su di un’economia silvo-pastorale impressionante. Le ampie distese forestali in cui si muovevano e vivevano i popoli germanici costituivano il quadro di riferimento costante della loro vita e della loro società. Le loro strutture insediative erano soprattutto rurali, in quanto la loro vicenda umana si svolgeva prevalentemente nelle “solitudines” delle foreste, delle campagne; la città, fulcro del mondo romano, rimaneva sullo sfondo, anche in aree profondamente romanizzate. Lo stretto rapporto di integrazione che li legava all’ambiente naturale influenzava i loro stili di vita e i loro atteggiamenti mentali, favorendo anche scelte precise nelle loro tradizioni costruttive e architettoniche. Ne consegue che l’aspetto materiale delle strutture insediative risentiva della realtà ambientale. Gli uomini dovevano fare i conti con quanto avevano a disposizione come materiale costruttivo e dovevano svilupSulle “Leges” di diritto germanico e sul loro apporto allo studio delle strutture insediative cfr. P. Galetti, Le strutture insediative nelle legislazioni “barbariche”, in Edilizia residenziale tra V e VIII secolo, a cura di G. P. Brogiolo, Mantova, 1994, pp. 7-23. Sulle “Leges” di diritto germanico e sul peso della consuetudine: F. Calasso, Medioevo del diritto. I. Le fonti, Milano, 1954; G. Astuti, Lezioni di storia del diritto italiano. Le fonti. Età romano-barbarica, Padova, 1968; M. Bellomo, Società e istituzioni in Italia dal Medioevo agli inizi dell’età moderna, Catania, 1982, pp. 161-176, 189-198; P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Roma-Bari, 1995, pp. 87-93. 9

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pare e perfezionare tecniche di lavorazione adeguate: dunque, il legno come materiale da costruzione prevalentemente ricordato e conseguente sviluppo delle tecniche di carpenteria, attestato da vari indizi, come la segnalazione di artigiani specializzati nelle opere di carpenteria e falegnameria o il ricordo di prodotti lignei di produzione artigianale10. Che tipi di dati significativi possiamo riscontrare in alcune di esse? Prendiamo la legislazione burgunda. La selva è considerata molto importante come riserva di materie prime. Lo sfruttamento dell’incolto boschivo è diritto di tutti. Ciascuno può usufruire delle risorse forestali, “incidendi ligna ad usus suos” o prendendo quella giacente, ad eccezione degli “arboribus fructiferis” e dei “pinis et abietibus” che possono servire come materiale da costruzione; il proprietario lo deve permettere senza richiedere tributi. È interessante qui il rimando a due specifiche essenze arboree segnalate come materiale da costruzione, oltre che all’utilizzo per usi diversi del legno, che era impiegato anche per la realizzazione delle palizzate e degli steccati che racchiudevano i vari nuclei abitativi, che diverse norme tutelavano da eventuali danni ad essi arrecati11. L’importanza del legno è indirettamente confermata anche dalle norme relative ad incendi appiccati a boschi, siepi. Gli incendi sono comunque una casistica di danni prevista spesso in tutte le “Leges”, spia indiretta dell’utilizzo di materiali costruttivi facilmente infiammabili, come il legno, oltre che del loro frequente verificarsi. Le leggi dei Franchi avevano diverse rubriche dedicate alla punizione degli incendi ed alla protezione dei boschi da tagli indesiderati, oltre che relative al furto di legname, genericamente indicato come “materia/materiamen”, adibito ad usi diversi, ma soprattutto alle co10 P. Galetti, Le strutture insediative, cit. Nelle leggi burgunde, allorché si prevedevano le pene pecuniarie per gli omicidi di artigiani specializzati servi, al “carpentarius” veniva attribuito un notevole valore, indizio dell’importanza primaria della mansione da lui svolta nella lavorazione del legno. Cfr. Ibid., p. 18. Leges Burgundionum, ed. a cura di L. R. Von Salis, in M. G. H., Leges Nationum Germanicarum, II/I, Hannover, 1892: Liber Constitutionum, cap.X, pp. 50-51; Lex Romana Burgundionum, tit.II, pp. 125-127. 11 P. Galetti, Le strutture insediative, cit., pp. 17-18. Cfr. Leges Burgundionum, cit.: Liber Constitutionum, cap. XXVIII, pp. 65-66; capp.XLI, XXIII, XXVII, XLVIIII, LXXXIX, pp. 72, 60, 64, 80-81, 109-110; Lex Romana Burgundionum, titt. XIII, XVIII, pp. 137, 142.

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struzioni. Abbiamo anche in questo caso a disposizione indizi indiretti e diretti dell’utilizzo del legno come materiale edile12. Nelle leggi longobarde la selva era una realtà da proteggere. Severamente puniti erano i danni inferti agli alberi dei boschi altrui, le cui essenze erano ben conosciute ed elencate nelle loro destinazioni d’uso. Così, ad esempio, la rubrica 300 dell’Editto di Rotari, “De arboribus”: “Si quis rovore aut cerrum, seu quercum quod est modola, hisclo quod est fagia, infra agrum alienum aut culturam seu clausuram, vicinos ad vicinum inciderit, conponat per arborem tremisses duos. Nam itinerans homo si propter utilitatem suam foris clausuram capellaverit non sit culpabilis”. Come pure la rubrica 301: “Si quis castanea, nuce, pero aut melum inciderit, conponat solido uno”; la rubrica 302 “De olivam”: “Si quis olivo capellaverit aut succiderit, conponat solidos tres”13. Vi era una vera e propria scala gerarchica tra le piante, che vedeva al primo posto quelle fruttifere e sfruttabili sul piano alimentare rispetto alle altre. Il legno come materiale da costruzione è chiaramente attestato nelle leggi longobarde. Nella rubrica 282 di Rotari si prevede che “Si quis de casa erecta lignum quodlibet aut scandolam furaverit” deve pagare 6 soldi; nella 283 che “Si quis de lignamen adunatum in curte aut in platea ad casam faciendam furaverit” deve dare sempre 6 soldi, se “in silva dispersum fuerit et furaverit, conponat in actogild”14. Altre rubriche sono estremamente significative sempre in merito al furto di legname, “lignamen”, ed ai danni che potevano venire arrecati a recinzioni artificiali di nuclei abitativi fatte di paletti, di assicelle lignee15. Soluzioni tecniche che prevedevano l’impiego di legno, anche per elementi accessori (oltre ad altri materiali), ma che si ricollegano

P. Galetti, Le strutture insediative, cit., pp. 18-19. Cfr.: Lex Salica, ed. a cura di K. A. Eckhardt, in M. G. H., Leges Nationum Germanicarum, IV, Hannover, 1969: capp. XX/2, VIII/1,2,3, pp. 41-42; Lex Ripuaria, ed. a cura di F. Beyerle, R. Buchner, in M. G. H., Leges Nationum Germanicarum, III/II, Hannover, 1954: cap. 31, p. 84. 13 P. Galetti, Le strutture insediative, cit., pp.20-21. Cfr. Edictus ceteraeque Langobardorum Leges, ed. a cura di F. Blühme, in M.G.H., Fontes iuris germanici antiqui in usum scholarum, Hannover, 1869; Le Leggi dei Longobardi. Storia, memoria e diritto di un popolo germanico, a cura di C. Azzara, S. Gasparri, Milano, 1992. 14 Ibidem. 15 Ibidem: rubb. 286, 287. 12

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a realtà costruttive di una certa importanza, sono suggerite dalla lettura delle rubriche che si occupano dei “magistri commacini”: la 144 e la 145 dell’Editto di Rotari e il “Memoratorium de mercedes magistri comacinorum”, del tempo di Grimoaldo o Liutprando16. Anche la legislazione bavara dà grande importanza alle risorse della selva, in primo luogo al legno: molte rubriche prevedono pene per chi danneggia gli alberi dei boschi di proprietà di altri o per chi si appropria nascostamente di legname da costruzione o lo danneggia, oppure per chi reca danno ai diversi tipi di recinzioni lignee. A questo tipo di dato immediatamente significativo sull’impiego in campo edile del legno, si devono aggiungere altre informazioni indirette, come quelle, numerose, che ci segnalano punizioni severe per chi incendia boschi e soprattutto case17. Un gruppo di norme è particolarmente interessante, in quanto, prevedendo la composizione di danni arrecati agli elementi costitutivi di una abitazione, ce ne fornisce una indiretta descrizione delle particolarità architettoniche, oltre che del materiale costruttivo impiegato. Quest’ultimo è il legno, di cui non si specifica il tipo, ma che sembra essere messo in opera sotto forma di pali, tronchi, variamente connessi. La struttura più probabile che queste norme ci rimandano è quella di un edificio con colonna portante del tetto centrale, con quattro colonne angolari e pareti di tronchi18. Di fatto, le “Leges” di diritto germanico rimandano, direttamente od indirettamente, ad uno sfruttamento massiccio del legno nell’edilizia, in linea con una tradizione costruttiva che si era andata consolidando tra le popolazioni germaniche nel periodo di passaggio da forme di vita nomadiche o seminomadiche a forme stanziali, strettamente integrate nell’habitat naturale19. In età carolingia, alle vecchie leggi “nazionali” di stirpe, di tradizione germanica, si affiancarono i capitolari, che interagirono con le Edictus, cit.; Le leggi, cit. P. Galetti, Le strutture insediative, cit., pp. 21-22. Cfr. Lex Baiuwariorum, ed. a cura di E. Schwind, in M. G. H., Leges, V, Hannover, 1926: titt. XII, capp. 11/12, XXII, capp. III/VI/VII/VIII, I, cap. VI, IV, cap. XX, X, capp. I/III/XVI/XVII, XIIII, capp. I/II/III. 18 Ibid.: tit.X, capp.VII-XIV. Si fa riferimento a tronchi/pali (columnis), a travi (trabibus/spangas), ad assi (asseres) lignei. 19 P. Galetti, Uomini e case, cit., pp. 3-30. 16 17

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prime, dando vita ad un sistema normativo di carattere bipolare: mentre le leggi di stirpe rimasero come norme speciali e personali, la legislazione dei sovrani carolingi venne a porsi, in via esclusiva, come fonte generale e territoriale (principio della personalità del diritto). I capitolari costituivano una legislazione regia, che nel mondo franco trovava il proprio fondamento nel principio del potere di banno del re, vale a dire del potere riconosciuto al sovrano di dare ordini e di farli eseguire coattivamente, infliggendo a chi non li eseguisse o vi trasgredisse una sanzione pecuniaria; proprio avvalendosi di questo potere, i re franchi pretesero di emanare provvedimenti di carattere normativo, e non più meramente esecutivo20. Per la loro stessa natura i capitolari risultano assai meno interessanti e ricchi di dati significativi per il nostro tema, più interessati a regolare l’organizzazione politico-amministrativa e sociale dei territori dell’impero.Tra di essi si distinguevano quelli ecclesiastici da quelli “mundani”, anche se spesso riusciva difficile scindere in modo netto la sfera laica da quella ecclesiastica nelle istituzioni e nell’ideologia stessa dell’impero carolingio21. È comunque un capitolare ecclesiastico del 789, emanato da Carlo Magno, che nel descrivere le attività proibite per i contadini nel giorno del Signore, la domenica, stabiliva che tra esse era ricompresa quella edile, che vedeva i rustici impegnati nella costruzione delle loro abitazioni, mettendo in opera pietra (“petris”) e legno (“arbores”). Questa prescrizione, tra l’altro, verrà poi inserita nelle principali sillogi canonistiche, compilate a partire dall’età carolingia fino alla metà del secolo XII, quando apparve il “Decretum” di Graziano22. Ad una attività di lavorazione del legno, rivolta all’edificazione G. Astuti, Capitolari, in Novissimo Digesto Italiano, II, Torino, 1958, pp. 918925; Id., Lezioni di storia del diritto italiano. Le fonti. Età romano-barbarica, Padova, 1968; E. Cortese, Il diritto nella storia medievale. I. L’Alto Medioevo, Roma, 1995; C. Azzara, I capitolari dei Carolingi, in I capitolari italici. Storia e diritto della dominazione carolingia in Italia, a cura di Id., P. Moro, Roma, 1998, pp. 31-48. 21 Ibidem; G. Tabacco, Sperimentazioni del potere nell’alto Medioevo, Torino, 1993, pp. 45-94. 22 Capitularia Regum Francorum, I, in M. G. H., ed. a cura di A. Boretius, Hannover, 1883, Admonitio generalis, n. 22, pp. 52-62: r. 81, p. 61. Cfr. G. Picasso, Campagna e contadini nella legislazione della Chiesa fino a Graziano, in Medioevo rurale, cit., pp. 381-397, a p. 394. 20

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delle strutture abitative, rimandano anche alcuni capitoli del “Capitulare de villis”, degli inizi del IX secolo, che fissava le regole per una buona organizzazione e gestione dei possessi regi. Il capitolo 45 prevede, infatti, che “unusquisque iudex in suo ministerio bonos habeat artifices”, fra i quali sono annoverati i “carpentarios”, in questo caso artigiani specializzati. Il capitolo 42 prevede, invece, che tra la dotazione della “camera lectaria” di ogni “villa” vi siano anche, tra l’altro, attrezzi da carpentiere e falegname per la lavorazione del legno23. Se le leggi germaniche soffermavano maggiormente l’attenzione sul materiale costruttivo – per noi il legno –, i capitolari, per la loro stessa natura spostano l’attenzione sull’uomo che lo lavora e lo mette in opera. A questo proposito è significativo che capitolari dell’850 e dell’864, prescrivendo i servizi pubblici che erano dovuti dai “liberi homines, exercitales, arimanni”, segnalassero, oltre a quello militare e alla partecipazione ai placiti, anche la manutenzione delle vie di comunicazione e soprattutto dei ponti, che dovevano essere in legno24. E di tale materiale rimasero per lungo tempo, come altre disposizioni legislative più tarde suggeriscono: ad esempio, gli statuti della seconda metà del Trecento del Comune piacentino ricordano ponti lignei su fiumi del territorio importanti per il transito e che si vogliono sostituire con manufatti in pietra25. Nel caso dei due capitolari del IX secolo indicati, il legno fa di nuovo indirettamente la sua comparsa, segnalandosi come diffusamente lavorato e messo in opera, non solo nell’edilizia residenziale. Fra XII e XIII secolo, alla rinascita del diritto romano (conosciuto attraverso la compilazione giustinianea), all’incremento del suo studio nelle università e ad una migliore conoscenza delle sue istituzioni nelle scuole notarili, al suo riconoscimento come diritto comune dell’im-

23 Capitularia, cit., Capitulare de villis, n. 32, capp. 42 e 45, p. 87; B. Fois Ennas, Il “Capitulare de villis”, Milano, 1981: c. 45; c. 42. 24 Capitularia Regum Francorum, II, in M. G. H., ed. a cura di A. Boretius, V. Krause, Hannover, 1897, n. 213, pp. 87-88; n. 273, p. 322; I capitolari italici, cit., n. 39, p. 183. Sui “liberi del re” e la costruzione dei ponti: G. Tabacco, I liberi del re nell’Italia carolingia e postcarolingia, Spoleto, 1966, pp. 102-105. 25 Statuta antiqua Civitatis Placentiae, in Monumenta Historica ad Provincias Parmensem et Placentinam pertinentia, ed. a cura di G. Bonora, Parma, 1860, L. IV, rr. 10, 12,14, 15, 18, 19, 68, 69.

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pero d’Occidente e, quindi, al riconoscimento del suo valore normativo generale in ogni ambito dei rapporti civili, si accompagnò la consapevolezza di una sua insufficienza e, in parte, anche di sue contradditorietà, rispetto alle situazioni della vita sociale che erano maturate nel corso dei secoli. La necessità di integrare lo “ius commune” dell’impero, cioè il diritto romano, con uno “ius proprium”, cioè un insieme complesso di leggi e regolamenti che avessero vigore nell’ambito definito di una determinata “societas”, si impose ai Comuni cittadini e anche ad altre forme associative sorte fra XI e XII secolo (come comunità di castello, di villaggio, confraternite, corporazioni, collegi di notai, università, istituzioni a fini assistenziali, etc.). Il prodotto più tipico e strutturato delle redazioni normative dell’epoca podestarile fu lo statuto, che nella sua forma più definitiva e complessa era un insieme di norme aventi forza di legge, risalenti a momenti diversi dell’attività legislativa comunale, distribuite in un’unica serie continuativa o in un certo numero di grandi sezioni (libri) in funzione della materia. Al suo interno potevano così trovare posto, tra l’altro, la miriade di consuetudini locali che si erano sviluppate sia nelle città che nei territori rurali, come pure tutta la materia criminale, la normativa di polizia urbana e di organizzazione dello spazio urbano e del territorio, le procedure e le competenze delle magistrature comunali, la materia amministrativa, la disciplina dei comportamenti privati, e così via26. Questo carattere degli statuti comunali spiega perché possano fornire dati significativi per la storia della cultura materiale, nello specifico per le strutture materiali degli insediamenti (sulle tipologie abitative, sui materiali, etc.). In questo sono vicini, per l’attenzione puntuale alle situazioni concrete della vita sociale ed all’organizzazione della vita quo-

P. Cammarosano, Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti scritte, Roma, 1991, pp. 151-159. Cfr. anche: F. Calasso, Introduzione al diritto comune, Milano, 1970; G. Fasoli, Edizione e studio degli statuti: problemi ed esigenze, in Fonti medioevali e problematica storiografica, I, Relazioni, Roma, 1976, pp. 173-190; Diritto comune e diritti locali nella storia dell’Europa, Milano, 1980; M. Bellomo, Società e istituzioni, cit., pp. 201-252, 305-323, 339-367, 413-483; V. Piergiovanni, Statuti e riformagioni, in Civiltà comunale: libro, scrittura, documento, Genova, 1989, pp. 79-98; Statuti, città, territori in Italia e Germania tra Medioevo ed Età moderna, a cura di G. Chittolini, D. Willoweit, Bologna, 1989; M. Ascheri, Istituzioni medievali, Bologna, 1994, pp. 216-233, 273-24; P. Grossi, L’ordine giuridico, cit., pp. 127201, 223-235; M. Ascheri, I diritti del Medioevo italiano: secoli XI-XV, Roma, 2000. 26

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tidiana di singoli e gruppi, alle compilazioni di legge di diritto germanico di cui si è parlato. Un loro limite è che ci offrono una panoramica di quelle che erano le scelte di governo in merito alla vita delle collettività interessate da parte degli organismi dirigenti del Comune; quello che non ci dicono è se esse furono o meno applicate o in che grado furono osservate. Solo il confronto con altre fonti può permettere di stabilirlo. Questo è d’altronde un limite di tutte le fonti legislative e normative, che esprimono volontà, intenzioni e non necessariamente realtà, per cui la loro efficacia va ulteriormente verificata, ponendosi come indizi, sintomi dei comportamenti che andavano a regolamentare. L’attenzione al materiale da costruzione degli edifici cittadini ed anche a volte del contado da parte degli “statutarii” è, potremmo dire, una costante all’interno della maggior parte degli statuti, soprattutto laddove siamo in presenza di centri di una qualche importanza. Dopo la vivace e caotica espansione urbana tra XI e XIII secolo, i governi cittadini sentirono l’esigenza di riordinare ed anche pianificare nelle sue linee di sviluppo il tessuto urbanistico. Pertanto, furono presi provvedimenti anche in merito al tessuto edilizio, che si voleva rendere più uniforme, ma soprattutto più solido e resistente e meno facilmente aggredibile da quella calamità costante e diffusissima che erano gli incendi, a volte con effetti particolarmente rovinosi. Ecco, quindi, che si prescriveva ai privati cittadini la sostituzione del materiale da costruzione ligneo (anche nella copertura dei tetti e negli elementi architettonici accessori) con pietra o laterizio, a seconda delle varie zone. Il fatto che costantemente queste indicazioni venissero ripetute in successive redazioni statutarie nel corso del tempo è una spia di quanto ciò avvenisse in realtà molto lentamente e facesse fatica ad affermarsi come scelta costruttiva vincente. “Domus ligneae”, senza troppe specificazioni, scale parimenti “ligneae”, edificate dai “magistri lignaminis” di cui sempre negli stessi statuti si stabilivano in certi casi i salari, indicano l’uso continuativo del legno, che si voleva sradicare nella consuetudine costruttiva, anche se spesso ci si preoccupava del suo approvvigionamento, anche all’esterno del territorio comunale, regolandone l’importazione ed anche, nel caso, l’esportazione27.

27 P. Galetti, Uomini e case, cit., pp. 114-135. Per Firenze, ad esempio: F. Sznura, L’espansione urbana di Firenze nel Dugento, Firenze, 1975, pp. 21, 35-36. Per la cit-

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Passiamo ora a considerare un’altra tipologia di fonti scritte per cercare di evidenziare anche in questo caso quali e quante informazioni essa ci può fornire in merito al nostro tema. Le fonti narrative comprendono tutte le testimonianze che riferiscono di eventi storici in forma espositiva con un intenzionale fine di conservarne e trasmetterne il ricordo. Le forme secondo le quali si presentano sono numerose e diverse28. Tra di esse potremmo includere anche le scritture agiografiche, cioè le testimonianze relative alla memoria ed al culto dei santi. Questa produzione è spesso a metà strada tra la testimonianza storica e la leggenda, ma anche quando non fornisce positive notizie sulle biografie dei santi storici, testimonia comunque gli atteggiamenti sociali nei confronti della santità, i cui modelli non a caso cambiano nel corso del tempo, e dà essenziali informazioni sulla religiosità e la mentalità collettiva, spesso aprendo squarci anche sulla vita, oltre che sulla cultura, di ceti sociali che hanno lasciato poche tracce in altri tipi di fonte29. Se prendiamo in considerazione la letteratura agiografica e prescindiamo dal fatto che si tratta di una letteratura apologetica, volta a tà di Ascoli Piceno: P. Galetti, Città e campagna nelle Marche dei secc. XIV e XV: tipologie e aspetti materiali degli insediamenti, in Istituzioni e società nelle Marche (secc. XIV-XV), Ancona, 2000, pp. 523-535, alle pp. 530-531. Cfr., ad esempio: Statuto del secolo XIII del Comune di Ravenna, ed. a cura di A. Zoli, S. Bernicoli, I, Ravenna, 1904, r. 262 bis, p. 117, rr. CCCXLVIII, CCCXLVIIII, pp. 163-164; Statuti di Bologna dell’anno 1288, ed. a cura di G. Fasoli, P. Sella, II, Città del Vaticano, 1939, L. XII, r. XVIII, pp. 217-218, r. XXXIIII, p. 231, L. X, r. LVII, p. 165; Statuta Ferrariae anno MCCLXXXVII, ed. a cura di W. Montorsi, Modena, 1955, L. II, rr. CCCLX-CCCLXII, pp.187-188, r. CCXXIII, p.128; Statuti della terra della Mirandola e della corte di Quarantola riformati nel MCCCLXXXVI voltati dal latino nell’italiana favella, ed. a cura di F. Molinari, Mirandola, 1888, pp. 10, 11, 37, 212, 222. 28 M. Bloch, Apologia, cit., pp. 66-68; F. Natale, E. Pispisa, Introduzione allo studio della storia medioevale, Messina, 1986, pp. 126-129; L. Gatto, L’atelier del medievista, Roma, 1992, pp. 27-36; P. Delogu, Introduzione, cit., pp. 104-106; R. Dondarini, Per entrare, cit., pp. 111, 117-122. 29 S. Boesch Gajano, Agiografia altomedievale, Bologna, 1976; F. Graus, Hagiographische Schriften aus Quellen der “Prophanen” Geschichte, in Fonti medioevali, cit., pp. 375-396; A. J. Gurevic, Contadini e santi. Problemi della cultura popolare nel Medioevo, Torino, 1986; R. Grégoire, Manuale di agiologia, Fabriano, 1987; A. Vauchez, La santità nel Medioevo, Bologna, 1989; P. Delogu, Introduzione, cit., p. 106; P. Golinelli, Città e culto dei santi nel medioevo italiano, Bologna, 1996; E. Anti, Santi e animali nell’Italia padana. Secoli IV-XII, Bologna, 1998.

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sostanziare un culto molto importante per la chiesa cattolica e con un fine primario didattico e catechetico nei confronti dei fedeli ai quali si rivolge come ammaestramento – non a caso cambiano nel corso del tempo i modelli di santità proposti alla venerazione –, possiamo individuare anche in essa utili canali informativi su aspetti molto concreti della vita degli uomini medievali nei diversi ambiti cronologici e geografici. Anche i testi agiografici parlano quindi di persone e di vita concreta30. Quando l’agiografo racconta e propone al ricordo un miracolo, lo fa in primo luogo per intensificare il senso religioso, spingere all’imitazione del santo presentando un modello ai fedeli, provocare il culto del “vir Dei”, ripetere il ricorso all’intercessione taumaturgica; ma se questo è lo scopo primario dell’agiografo, inevitabilmente quest’ultimo nel narrare l’episodio miracolistico lo contestualizza in una determinata situazione, in un determinato ambito, che ci descrive. Quelli che sono per lui gli elementi accessori, di contorno del racconto, che involontariamente gli sfuggono dalla penna di narratore in quanto familiari perché tratti da un contesto quotidiano di vita, sono invece per noi molto significativi. L’agiografo si ritrova a menzionarli suo malgrado, casualmente facendo riferimento ad una realtà che ha quotidianamente sotto gli occhi e sulla quale, quindi, non conviene neppure dilungarsi; e lo fa utilizzando un lessico che pone allo storico problemi di interpretazione. Lo scoglio della lingua si presenta, d’altronde, inevitabilmente a chi considera tutte le diverse testimonianze scritte, ponendosi come un diaframma interposto tra noi e quel lontano passato e proponendo problemi di interpretazione spesso di difficile soluzione31. Anche dalla fonte agiografica possiamo, quindi, estrarre notizie concrete, relative alla cultura materiale, a oggetti, gesti, usi di tutti i giorni. Facciamo un esempio, prendendo in considerazione la Vita di San Colombano, il monaco irlandese vissuto tra 543 ca. e 615, grande P. Golinelli, Elementi per la storia delle campagne padane nelle fonti agiografiche del secolo XI, in “Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo”, 87 (1978), pp. 1-54; R. Grégoire, Il contributo dell’agiografia alla conoscenza della realtà rurale. Tipologia delle fonti agiografiche anteriori al XIII secolo, in Medioevo rurale, cit., pp. 343-360; E. Anti, Santi e animali, cit. 31 P. Galetti, Abitare nel Medioevo, cit., pp. 39-58. 30

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evangelizzatore e fondatore di importanti monasteri, non ultimo quello di Bobbio nella montagna piacentina. La Vita fu composta da Giona di Susa, monaco a Bobbio poco dopo la morte del santo. Essa ci mostra “l’uomo di Dio” aggirarsi tra le vaste aree forestali che in quel tempo coprivano il territorio europeo, ricercando spesso la solitudine delle zone più selvagge, ma anche la vita in comunità da lui fondate, all’interno delle quali i monaci ci sono presentati impegnati in attività di preghiera e di duro lavoro manuale, nella lavorazione della terra e nell’opera di disboscamento. La selva è il luogo da cui si traggono le risorse primarie, che fornisce il materiale ligneo per costruire gli edifici monastici, eretti dagli stessi monaci, il cui lavoro come boscaioli, carpentieri, falegnami, è ricordato costantemente. Le essenze impiegate nell’attività edificatoria sono elencate (quercia, abete), come pure le tecniche di lavorazione del legname. I monaci spaccavano i tronchi di quercia e di abete con cunei e mazza per ricavarne delle assi, delle travi sgrossate, squadrate, dei pali. Si segnala, quindi, la messa in opera di un prodotto ligneo semilavorato e non stagionato. È comprensibile che questo avvenisse, tenuto conto anche della necessità e delle difficoltà di trasportare il materiale dal luogo di approvvigionamento a quello di costruzione. La fatica del trasporto era spesso alleviata dalla fede nell’aiuto della divina provvidenza32. Ricche di informazioni sulla rete insediativa, ed anche sui suoi caratteri materiali, sono le fonti documentarie. Rientrano in questa categoria i documenti di natura giuridica destinati a istituire e testimoniare in forme legalmente valide diritti e obbligazioni di soggetti pubblici e privati. Tali sono, ad esempio, diplomi, privilegi, bolle, emanati da un’autorità pubblica, laica od ecclesiastica, a favore di singoli beneficiari, oppure accordi, contratti, disposizioni di rilevanza giuridica derivanti dalla volontà di privati che esercitano i loro diritti. D’altronde il Medioevo “costituisce indubbiamente...un’età documentaria; non tanto per la quantità di testimonianze scritte prodotte, che anzi nei suoi secoli più antichi fu scarsa, quanto piuttosto per l’importanza che la documentazione scritta, pubblica e privata, solenne o semplice, eb-

32 Vitae Columbani abbatis discipulorumque eius libri duo auctore Iona, in M. G. H., Scriptores Rerum Merovingicarum, IV, Passiones vitaeque sanctorum aevi merovingici, ed. a cura di B. Krusch, Hannover-Lipsia, 1902, ad esempio pp. 81, 107.

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be comunque e sempre nella società medievale, incline più che a fissare i fatti della vita attraverso precise coordinate cronologiche, a riconoscerli attraverso un fitto reticolato di formule, di consuetudini, di liturgie, il cui ritmo era rigidamente regolato da pochi, ma compreso e osservato da tutti”33. Meno utile per la ricostruzione della realtà materiale delle strutture insediative si presenta la documentazione di carattere pubblico, per sua stessa natura legata ad una precisa definizione di diritti, privilegi, immunità concessi su determinati beni ad enti o privati, più che non alla descrizione delle loro caratteristiche materiali. Molto utili risultano, invece, i variegati e numerosi tipi di documenti privati. Due considerazioni vanno fatte subito: il materiale relativo ai primi secoli del medioevo ci è stato conservato in modo frammentario – e questo non solo per la nostra penisola –; i documenti altomedievali, poi, si presentano ricchi di notazioni particolari, con una loro individualità ben precisa ed una grande ricchezza contenutistica, a differenza di molti di quelli dei secoli successivi, abbondantissimi, ma più ‘standardizzati’, caratterizzati dalla successione e ripetitività dei dati, e, quindi, dal carattere più seriale. L’alto Medioevo, inoltre, fu un periodo di ridotta diffusione dell’uso dello scritto e perciò di scarsa diffusione documentaria, mentre dal XIII secolo in poi in tutta Europa il quadro si modificò del tutto: la produzione di documentazione scritta aumentò enormemente, le tipologie di documenti si articolarono, la funzione giuridica e sociale della documentazione scritta si allargò e i meccanismi della conservazione si differenziarono34. 33 A. Petrucci, Medioevo da leggere. Guida allo studio delle testimonianze scritte del Medioevo italiano, Torino, 1992, p. 5, ed anche pp. 6-16. Cfr. anche: i saggi di C. Brühl, Gli Atti sovrani, di H. Keller, I placiti nella storiografia degli ultimi cento anni, di C. Violante, Lo studio dei documenti privati per la storia medioevale fino al XII secolo, di G. Costamagna, Problemi specifici della edizione dei registri notarili, di M. Berengo, Lo studio degli atti notarili dal XIV al XVI secolo, in Fonti medioevali, cit., rispettivamente alle pp. 19-40, 41-68, 69-129, 131-147, 149-172; F. Natale, E. Pispisa, Introduzione, cit., pp. 129-133; P. Cammarosano, Italia medievale, cit., pp. 49-74, 174-193, 210-258, 267-276; P. Delogu, Introduzione, cit., pp. 105106, 176-204; R. Dondarini, Per entrare, cit., pp. 111, 122-133. 34 C. Violante, Lo studio dei documenti privati, cit.; A. Pratesi, Genesi e forme del documento medievale, Roma, 1987; A. Petrucci, Medioevo da leggere, cit., pp. 9-10; Id., C. Romeo, “Scriptores in urbibus”. Alfabetismo e cultura scritta nell’Italia altomedievale, Bologna, 1992; P. Galetti, Abitare nel Medioevo, cit., pp. 11-13.

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Soprattutto i differenti tipi di documenti privati ci informano sulla diffusa e, per certi versi prevalente, costruzione di edifici abitativi in legno, oltre che di elementi architettonici accessori, nelle campagne e nelle città altomedievali e sulla loro perdurante presenza anche nei secoli seguenti; indirettamente, sui limiti ed i pregi di una architettura lignea; sulle capacità tecniche capillarmente diffuse di lavorazione di questo materiale, appannaggio, quindi, non solo di artigiani specializzati, che pure operavano attivamente; sulle varietà di legno preferito, soprattutto quello di quercia, largamente reperibile, di abete, ma anche di castagno; sulle modalità della sua messa in opera, sotto forma di assi, tavolati, pali, tronchi, pur senza precisarne il grado di rifinitura. Scarsi lumi ci offrono, invece, sulla tecnica del ‘clayonnage’, che da altre fonti sappiamo essere stata molto diffusa, soprattutto in area continentale e nordica. Ci informano, inoltre, sui sistemi di copertura dei tetti con scandole, cioè assicelle lignee, o con altre coperture vegetali, come la paglia od il canniccio. Ci informano, ancora, sui tempi di realizzazione dell’edilizia lignea, che dovevano essere abbastanza brevi, in base alle notazioni ritrovabili nei contratti agrari; sulla sua flessibilità e sostituibilità. Spesso, per l’altomedioevo, è documentata, infatti, la pratica di smontare gli edifici, del tutto o in parte, per poterne riutilizzare gli elementi in diversi contesti. Questo duplice ordine di dati ci fa sospettare che venisse messo in opera nell’edilizia residenziale in gran parte legno verde, non stagionato. Mancano, invece, per l’altomedioevo informazioni precise sui costi del materiale da costruzione, il legno o altro: se notizia abbiamo di prezzi – e non sono molte –, generalmente sono riferite al valore dell’intero edificio, della struttura nel suo complesso, non ai suoi singoli elementi costitutivi. Le cose cambiarono tra Due e Trecento, allorché l’interesse per investimenti immobiliari redditizi spinse molti proprietari, soprattutto cittadini, ad interessarsi alle strutture edili di loro proprietà, migliorandole, riattandole ed in tanti casi edificandole ex novo, utilizzando anche materiali costruttivi più solidi e duraturi del legno, e servendosi di manodopera specializzata35. Su questo processo evolutivo dell’organizzazione degli insedia35 P. Galetti, Abitare nel Medioevo, cit.; Ead., Uomini e case, cit. Cfr. anche la bibliografia segnalata e un classico: J. Chapelot, R. Fossier, Le village et la maison au Moyen Age, Parigi, 1980.

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menti in determinate aree, parallelamente alla contrattualistica agraria e, quindi, ad una fonte documentaria, risulta essere di grande utilità una testimonianza a carattere narrativo, cronistico, come i Libri di famiglia/ ricordanze domestiche, prodotti in gran numero in terra toscana e particolarmente in ambito fiorentino per tenere memoria dei propri fatti per se stessi e la propria famiglia ed espressione della crescente familiarità del laicato con la scrittura, perlomeno a partire dal Duecento. Si tratta di una dilatazione da una scrittura di registrazione dei fatti economici a una scrittura memoriale più articolata. Composti da un capofamiglia, aggiornati continuamente o ripresi a intervalli di anni, continuati dai figli, destinati a rimanere all’interno della famiglia, questi testi mantengono una struttura di base comandata dai fatti economici, su cui si innestano altre notizie importanti come memoria familiare generale. Tra le notazioni di carattere economico si registrano, tra l’altro, compravendite, acquisti, soprattutto di possedimenti fondiari, ed anche spese per la sistemazione delle abitazioni su di essi o la loro costruzione. Sono annotati gli esborsi di denaro per gli acquisti, anche se generalmente riferiti all’intera possessione, e per il pagamento della manodopera specializzata assoldata per i lavori edili. Ancora una volta è il manufatto nella sua interezza e con i suoi annessi ad essere valutato economicamente; dopo di ciò, la qualità e quantità del lavoro impiegato nell’attività costruttiva, più che non i singoli materiali messi in opera, fossero essi il legname o altro36. A tale riguardo, di grande ricchezza informativa sono i libri/registri di conti di cantieri per lavori edilizi di una certa rilevanza, come ad esempio quello conservato presso l’Archivio di Stato di Siena relativo ai lavori intrapresi dal Comune senese nel 1357 per il porto di Talamone. In esso sono registrati i salari dei vari artigiani specilizzati – anche dei maestri di legname –, oltre che le spese per l’approvvigio36 A. Petrucci, Medioevo da leggere, cit., p. 57, dove i Libri di famiglia/ricordanze sono annoverati tra le testimonianze scritte usuali, private e spontanee; P. Cammarosano, Italia medievale, cit., pp. 287-291. Cfr. anche: A. Cicchetti, R. Mordenti, La scrittura dei libri di famiglia, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, III, Le forme del testo, 2, La prosa, Torino, 1984, pp. 1117-1159; Id., Id., I libri di famiglia in Italia, I, Filologia e storiografia letteraria, Roma, 1985; G. Cherubini, I “libri di ricordanze” come fonte storica, in Civiltà comunale: libro, scrittura, documento, Genova, 1989, pp. 567-591. Per un esempio: Il Libro di ricordanze dei Corsini (13621457), a cura di A. Petrucci, Roma, 1965.

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namento di vari materiali, tra i quali il legno, che dovevano servire per gli edifici del porto e del fondaco, oltre che per le armature dei lavori – dato che però non si specifica –. In questo caso è possibile stabilire il loro differente costo e, quindi, il loro diverso valore, attraverso la comparazione delle spese, oltre che le differenze di costo del materiale grezzo rispetto a quello già in parte lavorato, diverso per tipologie37. Ma non siamo di fronte in questo caso ad informazioni riguardanti l’edilizia residenziale. Per concludere brevemente queste mie osservazioni, soprattutto relative ad un campione di fonti scritte, per le quali si è cercato di individuare i messaggi più significativi e caratterizzanti per ciascuna di esse in riferimento all’uso del legno nell’edilizia residenziale medievale, mi permetto di ricordare di nuovo quanto si è detto all’inizio del contributo sulla necessità di scoprire e percorrere, in primo luogo, tutti i canali informativi pluridirezionali di ogni testimonianza. In secondo luogo, di rapportare e confrontare tra loro quelli per noi più significativi ed ancora di aprirsi ad una necessaria considerazione di altre fonti, diverse da quelle scritte, per colmare i vuoti conoscitivi, integrare le informazioni e soprattutto comprendere meglio la stessa testimonianza scritta, per dare vita ad una ricostruzione più articolata e completa del passato.

37 G. Cherubini, Attività edilizia a Talamone, in Id., Signori, contadini, borghesi. Ricerche sulla società italiana del basso medioevo, Firenze, 1974, pp. 523-562.

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Fonti archeologiche per l’uso del legno nell’edilizia medievale in Italia Andrea Augenti

Senza alcun dubbio l’archeologia medievale sta individuando da qualche anno un importante filone di ricerca nel ritrovamento e nell’analisi delle strutture in legno. Ad una crescita dei dati archeologici, sintomo di una sempre maggiore accortezza nella conduzione delle indagini dal punto di vista metodologico, si affianca ora la messa a punto di una serie di lavori di sintesi e di sistematizzazione delle informazioni che attestano a chiare lettere questo crescente interesse e costituiscono utili strumenti per indirizzare e stimolare nuove indagini1. Proprio prendendo lo spunto da alcuni dei più recenti di questi lavori intendo concentrare qui la mia attenzione sull’uso del legno come materiale edilizio tra alto e basso Medioevo in Italia, non trascurando la possibilità di far partecipare ad un dibattito che finora interessa prevalentemente l’area settentrionale della penisola anche la fascia centrale e meridionale, per le quali sono in effetti già disponibili alcune significative evidenze. 1. Tra tarda Antichità e alto Medioevo 1.1 L’edilizia abitativa Recentemente le tracce relative all’edilizia abitativa altomedievale sono state ascritte a due grandi insiemi per quel che riguarda le tecni1 Cfr. ad esempio i vari contributi in Brogiolo 1994; Valenti-Fronza 1996; Gelichi-Librenti 1997.

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che costruttive: edilizia “mista” e in legno2. Il legno è presente in entrambi i casi. Nella prima categoria rientrano i resti di edifici realizzati “con materiali e soluzioni costruttive diverse e improvvisate”3. Si tratta di uno dei più vistosi sintomi del processo di destrutturazione iniziato per molte città italiane verso il V secolo, testimonianza dello sforzo effettuato dagli abitanti per rendere possibile la loro permanenza nelle antiche aree urbane4. Questa modalità costruttiva consiste infatti perlopiù nel recuperare parti più o meno estese di edifici in disuso, adattandole a scopo abitativo con l’aggiunta di nuove strutture realizzate in pietra (spesso con materiale di reimpiego), in legno o con entrambi i materiali. Un caso lampante in questo senso è costituito dalle case rinvenute a Brescia nella zona di S. Giulia: alcune di queste sfruttano infatti i resti dei muri dell’edificio romano che le aveva precedute, una domus di età imperiale (fig. 1). In queste costruzioni il legno è utilizzato sotto forma di pali poggiati su basi in pietra, oppure inglobati nei muri perimetrali5. Un altro esempio è quello delle case trovate nel Foro di Luni (SP) (figg. 2-3). L’area centrale della città antica fu abbandonata e la pavimentazione sepolta dai detriti di un’alluvione. La cronologia degli edifici di Luni è analoga a quella degli esempi bresciani: tra la fine del VI secolo e l’inizio del VII vi furono costruite due case, con pareti in argilla in alcuni casi poggiate su muretti a secco (che dovevano quindi fungere da zoccolo) e tetto sostenuto da pali portanti disposti intorno al perimetro dell’abitazione. Una delle strutture sfruttava come base per uno dei muri perimetrali i resti di un portico di età romana6. Al VII secolo si data invece un edificio del centro portuale di ClasBrogiolo-Gelichi 1998, pp. 125-126. Ivi, p. 126. 4 Sui processi di trasformazione della città antica tra tarda Antichità e alto Medioevo v. da ultimi, oltre al già citato Brogiolo-Gelichi 1998 (valido per l’Italia), Christie-Loseby 1996; Brogiolo-Gauthier-Christie 2000. Cfr. anche, specificamente sulle sedi del potere, i saggi raccolti in Gurt-Ripoll 2000. 5 Brogiolo 1993, pp. 90-92. 6 Ward-Perkins 1981. 2 3

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se (RA), impiantato all’interno di un magazzino ormai fuori uso sfruttandone alcune murature ancora affioranti con poche aggiunte (fig. 4). Qui gli spazi tra due pilastri del portico di un magazzino affacciato su un asse viario furono appositamente tamponati con nuove strutture murarie, allo scopo di ottenere un muro perimetrale continuo. I tramezzi che dividevano lo spazio interno del nuovo edificio vennero realizzati in legno7. Edifici costruiti in questa maniera vengono sempre più spesso individuati in molte zone della penisola, segno di una ricerca più analitica ed avvertita rispetto alla necessità di doversi misurare con tracce archeologicamente “deboli” per poter cogliere le trasformazioni dei centri urbani in età tardoantica. È però interessante rilevare come tale evidenza non sia confinata esclusivamente entro le aree urbane. Indagini ben condotte all’interno di impianti rurali hanno infatti messo in luce sistemazioni simili, che suggeriscono una certa specularità tra ambito cittadino e rurale. È sicuramente il caso del sito di Monte Gelato, nell’antico ager Faliscus, posto a 34 km a nord di Roma (fig. 5). Qui, in una villa monumentale di età imperiale, nella seconda metà del VI secolo alcune sistemazioni modificano l’aspetto del portico: si tratta di tramezzi in legno utili a ripartire lo spazio interno. Altri buchi di palo singoli, non meglio interpretati ma molto diffusi presso tutto il sito, testimoniano un uso intensivo del legno in questa fase. Siamo in presenza di tracce relative a sistemazioni di fortuna, che comunque attestano una continuità di occupazione8. È una situazione che del resto si ritrova in molte ville romane con fasi di età tardoantica, come dimostrano svariati esempi in altre zone della penisola9. Ortalli 1991, pp. 179-181. Potter-King 1997, p. 76, dove è aggiunto: “The overriding impression is of a relatively basic existence, perhaps not far removed from subsistence level, for the majority of population”. 9 Cfr. il caso di Nuvolento, in Lombardia: Rossi 1996, p. 38; o quello di Sizzano, in Piemonte: Pantò-Pejrani Baricco 2001, pp. 40-42. Per rirovamenti analoghi fuori d’Italia cfr. ad esempio il caso della Francia meridionale (in particolare la villa di StAndré-de-Codols, presso Nimes): Pellecuer-Pomarèdes 2001, pp. 514-516. Sulle trasformazioni delle ville in Occidente nei secoli dell’alto Medioevo cfr. Arce-Ripoll 2000. 7 8

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La seconda categoria individuata da Brogiolo, come già detto, comprende invece gli edifici costruiti interamente in legno. Questa tipologia edilizia sembra attraversare tutti i secoli dell’alto Medioevo, a giudicare dall’evidenza finora recuperata. Oltre ad alcuni esempi particolari sui quali mi soffermerò tra poco, tra i più importanti rinvenimenti occorre segnalare sicuramente quelli di Ferrara, due case datate al IX-X secolo con struttura sostenuta da pali portanti10. Altrettanto significativi sono i risultati dello scavo di Piadena (MA) (fig. 6). Qui sono stati portati alla luce i resti di un villaggio altomedievale le cui abitazioni mostrano una struttura costituita da quattro pali angolari e due mediani. Le pareti, costruite in assi di legno, erano impostate su travi orizzontali infisse nel terreno (“dormienti”)11. È una soluzione tecnica che si diffonde in modo particolare anche dopo il Mille, come vedremo oltre. 1.2 Grubenhäuser/Sunken Huts: analisi di un tipo edilizio tra etnicità e tradizione locale Alla categoria degli edifici realizzati interamente in legno appartengono anche alcune capanne dalla morfologia particolare rinvenute a Brescia12. Si tratta di due edifici la cui datazione si colloca tra la fine del VI secolo e la metà del VII. Le loro pareti erano realizzate in rami rivestiti da argilla e sostenute da pali portanti infissi nel terreno (fig. 7). Caratteristica peculiare di queste abitazioni era la presenza di un piano seminterrato. Soprattutto quest’ultimo elemento, associato alle altre caratteristiche delle strutture, alla loro collocazione cronologica, nonché alla presenza massiccia di ceramica del tipo longobardo in questo settore di scavo, ha suggerito la possibilità che tali edifici siano da riferire ad una popolazione allogena, come confermerebbero i confronti con le abitazioni dei Longobardi e dei Gepidi in Transilvania (cioè anteriori alla venuta di queste popolazioni in Italia)13. Tale ipotesi trova senza dubbio alcuni validi fondamenti nello spe-

Gadd-Ward-Perkins 1991. Breda-Brogiolo 1984. 12 Brogiolo 1993, pp. 92-93. 13 Ivi, p. 88. 10 11

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cifico contesto bresciano, risultando peraltro molto suggestiva. Prima però di fare assurgere questo caso di studio a indiscusso precedente per utilizzare la tipologia edilizia delle case seminterrate come indicatore etnico ad oltranza, sarà forse il caso di analizzare nel dettaglio l’evidenza disponibile. Le case seminterrate (Grubenhäuser/Sunken Huts) costituiscono senza dubbio un tipo edilizio piuttosto diffuso durante l’alto Medioevo nell’Europa orientale e centro-settentrionale (fig. 8). Edifici di questo tipo erano ampiamente in uso soprattutto presso i popoli slavi – che li impiegavano come abitazione in maniera esclusiva – e quelli di ceppo germanico14; fondamentalmente possono suddividersi in due tipi principali: strutture dotate o prive di un pavimento in assi di legno. Nel primo caso (fig. 9) il settore seminterrato viene ad assumere la conformazione di una sorta di intercapedine, adatta a salvaguardare il pavimento dall’umidità del suolo ed eventualmente utilizzabile come ripostiglio/cantina. Nel caso in cui invece il piano di vita dell’edificio corrisponda direttamente al fondo della fossa (fig. 10), ciò sarà dovuto ad esigenze connesse con il clima: una struttura così conformata è infatti in grado di proteggere i suoi occupanti dal freddo in inverno e da un eccessivo caldo in estate15. È da notare inoltre come questi due tipi si possano trovare talvolta associati – soprattutto in Europa occidentale – nell’ambito dello stesso insediamento. In questo caso è probabile che la tipologia priva di pavimento aggiunto fosse adibita a edificio di servizio, generalmente luogo di attività artigianali. Indirizzano verso questa interpretazione – ad esempio per il sito inglese di West Stow – i rinvenimenti di fuseruole e pesi da telaio, nonché la presenza, sul fondo della struttura, di buchi di palo da riferire a telai del tipo verticale, in uso fino al XIII secolo16. Si tratterebbe quindi, in molti casi, di veri e propri laboratori per la tessitura. Rispetto ad altri ritrovamenti è stato poi supposto anche un impiego delle sunken huts per la lavorazione del formaggio e l’immagazzinamento del latte (attività che necessitano di un buon tasso di umidità)17. Talvolta que-

Chapelot-Fossier 1985, pp. 110-119; Kazanski 1999. Hellström 2001, p. 167. 16 Chapelot-Fossier 1985, p. 119. 17 Ivi, pp. 120-124. 14 15

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ste strutture potevano anche ospitare degli ateliers ceramici (fig. 11)18. In Italia i ritrovamenti di questo tipo di strutture sono poco diffusi. Oltre a quelle bresciane già citate, ne abbiamo due attestazioni in Toscana. La prima a Cosa, nei pressi del Foro, dove sono state trovate due capanne databili tra VI e VII secolo19. La seconda è a Poggibonsi, dove nello scavo della fortezza di Poggio Bonizio è stata rinvenuta una struttura seminterrata a pianta circolare (con un diametro di m 8) con struttura a pali portanti verticali (fig. 12). L’abitazione è databile tra la fine del VI secolo e i primi decenni dell’VIII. Anche in quest’ultimo caso gli scavatori propendono per un’attribuzione ad una etnia allogena (Longobardi) della capanna seminterrata20. Un ritrovamento ancora più recente si profila particolarmente interessante rispetto a questa tematica, e ci permette di approfondirne alcuni aspetti. Mi riferisco a due strutture seminterrate rinvenute in Puglia, presso Supersano (LE)21. Si tratta di una fossa più piccola (m 2.20 x 2.55, prof. 0.35) ed una di dimensioni maggiori (m 6.15, prof. 0.80) (fig. 13). La prima fossa, troppo piccola, non avrebbe potuto essere impiegata a scopo abitativo, destinazione ipotizzabile invece per la seconda se si immagina la presenza originaria di un piano pavimentale in legno collocato al di sopra di essa. La ceramica rinvenuta consente una datazione delle strutture ai secoli VIII-X, ovvero ad un’epoca in cui la Puglia era saldamente in mano all’impero bizantino. In mancanza di ulteriori elementi, si configura dunque perlomeno difficile – pur mantenendo un ragionevole dubbio per via delle caratteristiche multietniche delle compagini statali di quell’epoca – attribuire con certezza le sunken huts di Supersano a popolazioni alloctone. Lo stesso Paul Arthur, l’archeologo che ha effettuato il ritrovamento, indica la possibilità che si tratti di testimonianze “di un’architettura «povera» o contadina che è sopravvissuta in Italia dall’età protostorica sino, almeno, all’alto medioevo, in determinati contesti ambientali”, e prosegue lamentando il fatto che “la mancanza, sinora, di simili

18 È il caso di un rinvenimento presso il sito alano di Kancerka, sul fiume Dniepr (VII secolo): Kazanski 1999, p. 101 e fig. a p. 118 (qui riprodotta a fig. 10). 19 Celuzza-Fentress 1994, p. 602. 20 Valenti 1996, pp. 107-109 e 381-382; Valenti 1999, scheda n. 10. 21 Arthur 1999.

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strutture per il periodo ellenistico e romano, gli anelli mancanti per un discorso di continuità nelle forme dell’architettura tradizionale, può anche essere facilmente spiegata con la limitatezza delle ricerche sull’architettura rurale «povera» di quei periodi in contesti ambientali idonei”22. Concordo in pieno sulla difficoltà denunciate da Arthur per stabilire degli agganci tipologici tra le evidenze di Supersano e quelle di piena età preromana e romana. Penso che sia tuttavia il caso di tenere presente un altro ritrovamento, che può andare a costituire un ulteriore tassello di questo ragionamento a ritroso. Si tratta della fattoria di S. Mario, presso Volterra (PI), un sito rinvenuto nel corso della ricognizione della valle del Cecina e poi sottoposto a indagine di scavo (fig. 14). Questo edificio viene costruito almeno intorno al I secolo d.C., se non prima, e resta in uso fino alla fine del IV, quando si accumulano su di esso i primi strati di crollo. La struttura, a pianta rettangolare, aveva la base dei muri perimetrali in ciottoli di fiume, sulla quale si impostava un alzato ad incannucciata rivestita di argilla. L’elemento più interessante è però il piano di calpestio interno, ribassato rispetto al piano di campagna23. Naturalmente la fattoria di S. Mario non è assimilabile ad una vera e propria sunken hut, ma in ogni caso attesta il ricorso alla soluzione del piano seminterrato fin dall’età antica. Visti in sequenza, i ritrovamenti di S. Mario e quelli di Supersano sembrano indicare proprio la persistenza nella penisola di una tradizione costruttiva locale, che contempla il ricorso alle strutture seminterrate per risolvere problemi eminentemente pratici. C’è ancora molto da fare per intensificare le ricerche su questo argomento, ma è piuttosto chiaro che un’interpretazione in chiave esclusivamente etnica delle sunken huts (ovvero utilizzarle come indicatori di etnicità) resta difficilmente difendibile sulla sola base delle evidenze archeologiche strutturali e in mancanza di ulteriori elementi di giudizio.

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Ivi, p. 175; 176. Motta 1997, pp. 251-252; Regoli-Terrenato 2000, pp. 132-135.

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1.3 L’edilizia “monumentale” Oltre all’edilizia residenziale, durante l’alto Medioevo il legno è impiegato anche in alcune strutture che per comodità potremmo riferire ad una edilizia di tipo “monumentale”. Si tratta in primo luogo delle strutture difensive dei castelli, una tipologia insediativa che notoriamente fa la sua comparsa nella nostra penisola in grande quantità a partire dal secolo X, come indicano a chiare lettere le fonti scritte24. La ricerca archeologica sta appunto fornendo un numero sempre maggiore di informazioni sulla struttura materiale di questo tipo di insediamenti, confermando un uso intensivo del legno per le sistemazioni difensive che in parte già conoscevamo proprio attraverso la documentazione scritta25. Questo è particolarmente evidente in Toscana, dove la ricerca sulle origini e l’evoluzione dell’incastellamento ha registrato progressi notevoli negli ultimi decenni26. Nel caso di Scarlino (GR), ad esempio, oltre alle abitazioni della prima fase insediativa (VII-IX secolo?) era con ogni probabilità costruito parzialmente in legno il muro di fortificazione (fig. 15). In quest’epoca (fine X-XI secolo) all’interno del circuito difensivo trovano posto, tra l’altro, abitazioni realizzate in “tecnica mista”, cioè – come abbiamo già visto – in pietra e legno27. Ancora più interessante è l’esempio di Montarrenti (SI). Una revisione della documentazione di scavo ha recentemente permesso di stabilire alcuni punti fermi nell’evoluzione di questo importante sito della Toscana meridionale. Il castello medievale di Montarrenti fu preceduto da un villaggio fortificato databile tra la metà del VII secolo e la seconda metà dell’VIII. In questa prima fase di occupazione del rilievo le abitazioni – in legno – sono circondate e difese da una palizzata. Quest’ultima sarà sostituita da un muro di fattura piuttosto rozza soltanto in una fase successiva, databile tra la metà dell’VIII ed Settia 1984, pp. 73-188. Ivi, pp. 189-246. 26 Francovich-Ginatempo 2000. 27 Boldrini 1994, pp. 22-23. Un altro esempio di abitazioni in legno di X secolo rinvenute recentemente all’interno di un castello è quello di Campiglia Marittima: Bianchi 2001, pp. 249-250. 24 25

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il IX secolo ed interpretata come relativa ad un villaggio curtense “cum clausura”28. In un’altra regione, l’Emilia-Romagna, è documentato poi il caso del castello di Pontelongo, le cui fortificazioni nel secolo X comprendono una palizzata29. Dunque, anche alla luce dei dati archeologici nell’alto Medioevo i castelli erano almeno in parte costruiti in legno anche nei loro elementi più caratterizzanti – quelli utili per la difesa, intendo –, come l’archeologia va dimostrando in misura crescente. Ma non è questa l’unica forma di edilizia “monumentale” ad essere realizzata con tale materiale, in quel periodo. Uno scavo condotto negli anni ’80 del secolo scorso ha individuato presso Carvico (BG) i resti di una chiesa databile – nella sua prima fase – alla metà del VII secolo (fig. 16.5). Le tracce dell’edificio consistono in alcuni solchi interpretati come possibili indizi dei muri perimetrali (distanti tra loro m 5) e in una serie di buche di palo disposte lungo l’asse centrale della struttura, probabili resti di pali portanti per la copertura. Inoltre è stata portata alla luce una fondazione con andamento curvilineo – poi ripreso dalla successiva fase in pietra della stessa chiesa – costituita da pietre poste di piatto senza legante, sulle quali doveva verosimilmente poggiare un alzato in legno30. Il ritrovamento di Carvico si può considerare in un certo senso pionieristico. Soltanto successivamente ad esso sono state infatti individuate altre chiese in legno altomedievali in Italia, tutte localizzate nell’area settentrionale della penisola. Nella Val d’Adige sono state rinvenute le tracce della prima chiesa di S. Giorgio di Foiana (comune di Lana), un edificio a pianta trapezoidale munito di nartece e ampio mq 22 (fig. 16.8). Le pareti erano sostenute da una struttura a pali portanti di cirmolo infissi nel terreno. La datazione della chiesa è incerta, ma secondo l’ipotesi avanzata da Hans Nothdurfter dovrebbe collocarsi nel VII secolo. Al IX secolo risale comunque la sua sostituzione con un nuovo edificio triabsidato in muratura31. Più grande –

Cantini 2000. Com. personale di S. Gelichi. 30 Brogiolo 1989; Malaguti-Zane 2000. 31 Nothdurfter 2001, p. 132. 28 29

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mq 55 – era la chiesa di S. Valentino a Salonetto, nella stessa valle, anch’essa realizzata in legno nella sua prima fase e munita di nartece (fig. 16.7). Per questo impianto la datazione proposta è all’VIII-IX secolo, mentre la costruzione viene attribuita ipoteticamente ai Baiuvari (presenti in quest’area dal IX secolo). Anche in questo caso l’edificio fu sostituito da un nuovo impianto in pietra, costruito nel X secolo32. La ricerca sulle chiese in legno altomedievali in Italia è attualmente soltanto agli inizi. Per il momento sembra di potere affermare che questo tipo di edifici – per ora trovati soltanto in Italia settentrionale – mostra in generale dimensioni piuttosto ridotte e planimetrie abbastanza semplificate: solo in alcuni casi si riscontra la presenza di un nartece (Lana, Salonetto). La cronologia non è comunque anteriore al VII secolo, a parte un caso (S. Abbondio a Mezzovico, attribuita al VI)33. Inoltre le chiese in legno vengono nella maggior parte dei casi sostituite da edifici in pietra in epoca di non molto successiva. Le chiese in legno, abbondantemente diffuse in Europa centro-settentrionale durante i secoli dell’alto Medioevo ed anche in seguito34, in Italia sembrano potersi interpretare – almeno in alcuni casi – come uno dei primi segnali di una diffusa riorganizzazione dell’insediamento rurale, probabilmente condotta da élites che continuano comunque ad esercitare una forma di controllo sulla popolazione35. Proprio la struttura particolare di questi edifici, realizzata in materiale deperibile, potrebbe aver contribuito pesantemente ad un loro occultamento agli occhi dei ricercatori (evidenze di questo tipo possono infatti essere rinvenute soltanto attraverso uno scavo archeologico di alto livello qualitativo), privandoli così di un prezioso indicatore sociale ed economico per comprendere un aspetto dell’evoluzione delle campagne nel periodo successivo alla fine dell’impero.

Ivi, p. 134. Cfr. Brogiolo 2002, p. 10. 34 Bonnet 1997; Storsletten 2001. Cfr. anche Gauthier 2001 per le attestazioni di queste strutture nelle fonti scritte di età tardoantica (relativamente alla Francia). 35 Cfr. l’interpretazione fornita in Nothdurfter 2001, p. 155, dove viene effettuato un paragone tra le chiese in legno dell’Alto Adige e quelle rinvenute presso le necropoli merovinge tra VI e VII secolo. Su queste tematiche, più in generale, cfr. AugentiTerrenato 2000. 32 33

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2. Dopo l’anno Mille: il basso Medioevo In un recente contributo Sauro Gelichi e Mauro Librenti si sono soffermati sulle costruzioni medievali in legno nell’Italia settentrionale, cercando di mettere in luce alcune linee evolutive di questo settore dell’edilizia. In particolare i due autori hanno rivolto i loro sforzi a chiarire la situazione relativa soprattutto ai secoli IX-XIII, a partire da tre siti emiliani scavati da loro stessi: il castello di Pontelongo, la Sala Borsa di Bologna e Castelfranco Emilia36. Le principali conclusioni del lavoro rivestono un notevole interesse, e si possono così riepilogare: – il X secolo costituisce un momento di cesura rispetto alla tradizione costruttiva precedente: all’edilizia abitativa realizzata con scheletro di pali verticali infissi nel terreno si comincia ad affiancare un nuovo tipo su travi orizzontali (i “dormienti” già visti nelle case di Ferrara), che con il tempo conoscerà una notevole diffusione37; – è possibile riconoscere l’esistenza di elementi realizzati in serie per la realizzazione di edifici in legno (o a tecnica mista), ciò che “potrebbe attestare l’esistenza di un artigianato specializzato nella costruzione di «prefabbricati», elementi utilizzabili anche in strutture profondamente diverse per misura e tecnica”38; – se è vero che dal X secolo nelle città le élites dominanti ricominciano a costruire le loro residenze in pietra (e di lì a poco, a partire dal XII secolo, riprenderà anche la produzione dei mattoni)39, è altrettanto vero che “l’edilizia in legno (o in tecnica mista) non scompare, neppure in ambito urbano, ma perde quella centralità che solo qualche secolo prima ancora manteneva”40. Del tutto condivisibili, alcune di queste considerazioni possono forse essere sostanziate con ulteriori argomenti ed esempi che ne

Gelichi-Librenti 1997. Ivi, p. 216. 38 Ivi, p. 219. 39 V. a questo proposito le considerazioni generali in Parenti-Quiros Castillo 2000 e in Gelichi-Novara 2000. 40 Gelichi-Librenti 1997, pp. 219-220. 36 37

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estendano anche la portata geografica. Vorrei soffermarmi in particolare sul terzo dei punti sopra elencati, poiché la situazione che esso fotografa sembra infatti interessare un’area più ampia che non la sola fascia settentrionale della penisola. In questa direzione spingono ad esempio gli scavi della Crypta Balbi, a Roma. Qui, all’interno dell’esedra del monumento antico, nella seconda metà del XII secolo venne impiantata una struttura a pianta rettangolare, con scheletro costituito da pali portanti verticali (fig. 17). Nell’interpretazione degli scavatori dovrebbe trattarsi, più che di un’abitazione, di un edificio legato ad attività artigianali: lo dimostrerebbe il rinvenimento di svariate scorie. La struttura, quale ne fosse la destinazione, non ebbe una vita lunga: fu spoliata e poi abbandonata tra le fine del XII secolo e l’inizio del XIII41. Questa è una delle poche evidenze archeologiche relative a edifici urbani in legno di epoca bassomedievale. Tuttavia le fonti scritte ribadiscono l’uso del materiale per le abitazioni per quel periodo. È ad esempio il caso di Roma, dove case in legno sono attestate negli atti notarili almeno fino al XIII secolo42. Ma è anche il caso di Salerno, dove nell’XI secolo sono documentate case “lignizie”43, che nel corso del X – è stato calcolato – dovevano costituire il 50% dell’edilizia abitativa44. Insomma, se i rinvenimenti archeologici relativi ad edifici in legno nelle città italiane del basso Medioevo sono piuttosto scarsi, le fonti scritte ne indicano l’esistenza su un vasto territorio della penisola. È quindi presumibile che nuove indagini stratigrafiche riescano in futuro a portare alla luce ulteriori esempi di queste strutture. Appare comunque chiaro come anche nell’Italia centrale e meridionale, nei secoli successivi al Mille, continuò il ricorso all’edilizia in legno nell’ambito di città che stavano comunque mutando sensibilmente il loro paesaggio per via della costruzione di torri e case in muratura. D’altro canto anche i casi citati, che sembrano da rife-

Saguí 1990, p. 56. Hubert 1990, pp. 217-218. 43 Delogu 1977, pp. 131-133. 44 Arthur 2002, p. 47, dove per Napoli è invece ipotizzato un ricorso più esteso al riuso di antichi edifici in pietra. 41 42

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rire a un utilizzo piuttosto sporadico del legno nell’edilizia, confermano la perdita di centralità delle costruzioni in legno nella città bassomedievale. Per chiarire meglio il ruolo di questo materiale nell’edilizia bassomedievale occorre tuttavia tenere conto di un altro aspetto. A ben vedere, un tratto caratteristico di questo periodo consiste infatti nella marginalizzazione dell’uso del legno, cioè di un suo impiego soltanto per alcune specifiche funzioni. Senza alcun dubbio un primo ruolo fondamentale viene assegnato al legno nell’ambito delle coperture. È un ruolo che accomuna gli edifici pubblici a quelli privati, oggi riconoscibile perlopiù mediante tracce archeologiche indirette: i fori per i travi ancora visibili nelle murature. Uno tra i molti esempi possibili è quello della casa di Bologna databile al XIII secolo situata all’incrocio tra via Clavature e via Drapperie, splendidamente ricostruito da Sheila Gibson (fig. 18)45. Un’altra funzione specificamente delegata al legno nel basso Medioevo è poi quella di ampliare lo spazio abitabile di strutture come le torri, sviluppate in altezza piuttosto che in larghezza. Interamente in legno venivano costruiti i ballatoi, ovvero delle estensioni di questi edifici aggettanti verso l’esterno. Soluzioni di tal genere sono ben note perlomeno in Toscana, dove le torri prevedevano fin dall’origine aggiunte di questo tipo (come dimostra la presenza di porte ai piani alti, mediante le quali si garantiva l’accesso a queste estensioni). Ancora una volta, la traccia relativa a tali strutture è leggibile nelle murature superstiti, e può essere nuovamente costituita da semplici fori per i travi che sostenevano e coprivano i ballatoi, o – talvolta – dalla presenza di mensole, utili a rinforzare il sistema di sostegno. Questo sistema è stato indagato nel dettaglio a Pisa, dove si sono individuati numerosi esempi di torri la cui struttura contemplava questa particolare soluzione (fig. 19)46. Alla luce di quanto detto fin qui, l’importanza secondaria delle co-

Claridge-Gibson 1991. Redi 1991. Le fonti scritte attestano il ricorso ad elementi analoghi anche nel Meridione: a Salerno, ad esempio, dove venivano chiamati “meniana” (Delogu 1977, pp. 137-138). 45 46

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struzioni in legno nelle aree urbane, la loro perdita di centralità rispetto al passato, e la marginalizzazione del materiale nell’ambito di un’edilizia ormai sempre più spesso realizzata in pietra e mattoni appaiono in effetti come alcune caratteristiche fondamentali dell’edilizia bassomedievale. 3. Impalcature da cantiere Vorrei concludere con un riferimento ad un uso particolare e mai abbandonato del legno durante l’intero arco cronologico del Medioevo. Si tratta delle impalcature per i cantieri edilizi47. Le due modalità principali per la costruzione di un’impalcatura, ereditate dall’Antichità, rimangono durante il Medioevo quella del ponteggio indipendente (con pertiche che sostengono un tavolato autonomo, non infisso nella muratura) (fig. 20) o ad incastro (con tavolato inserito nella muratura, talvolta mediante travicelli passanti da un lato all’altro della struttura)48. La tipologia più diffusa delle tracce lasciate da queste sistemazioni è sicuramente quella consistente in fori da ponte disposti su linee orizzontali, ad intervalli regolari l’uno dall’altro, e dunque relativa a ponteggi di tipo ad incastro. Studi condotti in altri paesi europei hanno tuttavia dimostrato che nel Medioevo furono talvolta allestiti tipi di impalcature differenti, come nel caso del dongione del castello di Coucy (Francia) (figg. 21-22) o delle torri di quello di Beaumaris (Galles), dove i fori da ponte si dispongono attorno ai corpi di fabbrica a pianta circolare con andamento elicoidale49. Non è escluso che soluzioni analoghe a queste, o comunque diverse dalla tipologia più comune di impalcatura, possano essere individuate in futuro anche in Italia. Inoltre, nel caso di edifici con paramenti realizzati in blocchi le ti-

Non esistono monografie sull’argomento per l’Italia. Utilissimo – con casi di studio francesi, ma ampiamente utilizzabili come confronti anche per altre zone – è Échafaudage 1996. 48 Adam 1988, pp. 84-90; Giuliani 1990, pp. 194-199. 49 Taylor 1988, p. 9. 47

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pologie dei fori da ponte influirono spesso in misura notevole sul taglio della pietra (fig. 23). Si tratta di un elemento da tenere presente per raggiungere una corretta ricostruzione del ciclo di lavorazione della pietra e, più in generale, per una analisi approfondita dell’organizzazione dei cantieri. Mi sembra a questo punto evidente come lo studio delle impalcature a partire dalle loro tracce in negativo, finora non praticato in maniera molto approfondita, possa rivelarsi un argomento fruttuoso e di sicuro interesse, al quale sarà bene nel prossimo futuro rivolgere una particolare attenzione nell’ambito delle indagini di archeologia dell’architettura medievale.

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Fig. 1 – Brescia, S. Giulia. Case costruite in tecnica mista (1, 2, 4, 5) (da Brogiolo 1993).

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Fig. 2 – Luni. Abitazione rinvenuta presso il Foro: pianta (da Ward-Perkins 1981).

Fig. 3 – Luni. Abitazione rinvenuta presso il Foro: ricostruzione (da Ward-Perkins 1981).

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Fig. 4 – Classe. Ricostruzione dell’edificio di VII secolo rinvenuto nel Podere Chiavichetta (da Ortalli 1991).

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Fig. 5 – Monte Gelato. Pianta della fase tardoantica (da Potter-King 1997).

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Fig. 6 – Piadena. Pianta dello scavo (da Brogiolo-Breda 1985).

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Fig. 7 – Brescia, S. Giulia. Casa seminterrata: pianta e ricostruzione (da Brogiolo 1993).

Fig. 8 – Tipologia di sunken huts rinvenute nel villaggio tedesco di Gladbach (da Chapelot-Fossier 1985).

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Fig. 9 – Roisch. Edificio seminterrato con pavimento in assi di legno (da Kazanski 1999).

Fig. 10 – Abitazioni seminterrate di Kortchak e Rachov: piante e ricostruzione (da Kazanski 1999).

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Fig. 11 – Atelier ceramico seminterrato di Kancerka (da Kazanski 1999).

Fig. 12 – Poggibonsi. Pianta dell’abitazione seminterrata (da Valenti 1996).

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Fig. 13 – Supersano. Pianta dei due edifici seminterrati (da Arthur 1999).

Fig. 14 – Podere S. Mario (PI). Ricostruzione della fattoria in età tardoantica (da Regoli-Terrenato 2000).

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Fig. 15 – Scarlino. Ricostruzione dell’insediamento nel X secolo (da Boldrini 1994).

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Fig. 16 – Le chiese in legno dell’Italia settentrionale: tavola sinottica (da Brogiolo 2002).

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Fig. 17 – Roma, Crypta Balbi. Ricostruzione dell’esedra del monumento antico nel XII secolo, con l’edificio medievale in legno (da Saguì 1990).

Fig. 18 – Bologna. Ricostruzione dell’edificio tra via Drapperie e via Clavature (da Claridge-Gibson 1991).

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Fig. 19 – Pisa. Torre con sporti (da Redi 1991).

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Fig. 20 – St Jean de Cerlier. Ricostruzione dell’impalcatura autonoma i cui resti sono stati trovati durante lo scavo dell’edificio (da Échafaudage 1996).

Fig. 21 – Coucy. Il dongione del castello in una ricostruzione di E. Viollet-le-Duc (da Échafaudage 1996).

Fig. 22 – Miniatura da Guyart des Moulins, Historia scholastica, raffigurante una impalcatura elicoidale (da Échafaudage 1996).

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Fig. 23 – Alcune tra le varie possibilità di taglio dei blocchi per consentire l’alloggio degli elementi dell’impalcatura (da Échafaudage 1996).

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Il legno nell’edilizia e nella vita quotidiana del medioevo: i risultati degli scavi a Ferrara e nel territorio ferrarese* Chiara Guarnieri

Il legno costituiva nel periodo altomedievale e medievale il materiale in assoluto di più larga utilizzazione, non solo per l’edilizia1 ma anche per la fabbricazione degli oggetti usati nella vita di tutti i giorni: di legno erano i mobili, le stoviglie, gli attrezzi. Nonostante l’impiego documentato su larga scala, questo materiale solo eccezionalmente lascia traccia di sé nei depositi archeologici, sia perché è destinato quasi sempre al riciclo, ma anche per le intrinseche difficoltà di conservazione, legate a particolari condizioni del terreno. L’Emilia Romagna ha restituito in svariate occasioni strutture e oggetti in legno2, ma nel panorama regionale – e non solo – il territorio ferrarese certamente si pone come un osservatorio privilegiato per quanto concerne l’utilizzo di questo materiale in età altomedievale e medievale, sia in virtù della sua ottimale conservazione ma anche per l’abbondanza della documentazione. Inoltre Ferrara, essendo un centro fondato ex-novo in età altomedievale, risulta essere un prezioso campione – privo di indici di residualità delle stratificazioni

* L’intervento è stato realizzato all’interno di un seminario interdisciplinare sull’utilizzo del legno nel medioevo, di ampio respiro. Si è voluto mantenere il taglio dato alla lezione, improntato ad una certa schematicità e sinteticità dei dati, rimandando gli approfondimenti alla bibliografia 1 Un elenco dettagliato degli edifici in legno rinvenuti in Italia si trova in Poggio Imperiale 1996, pp. 191-217, con relativa bibliografia. 2 Scavi condotti a Fidenza (PR), Bologna, e recentemente nel centro storico di Forlì hanno restituito lacerti di strutture abitative ed oggetti in legno.

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archeologiche – per acquisire dati sull’organizzazione urbana e sulle produzioni artigianali3. 1. Le strutture edilizie 1.1 Edifici La documentazione archeologica riguardante l’edilizia abitativa in materiale deperibile di età altomedievale e medievale è estremamente frammentaria e disomogeneamente diffusa, sia per le ragioni poco sopra evidenziate sia per le difficoltà di definire, sulla base dei pochi dati emergenti dagli scavi, le tecniche costruttive utilizzate. I dati più recenti identificano il legno come materiale costruttivo prevalente dell’edilizia altomedievale nell’area centrale padana; in alcune zone, come ad esempio Ferrara, il suo uso continuò in ambito cittadino anche in età medievale, proseguendo nei contesti rurali fino alle soglie dell’età moderna. Sulla base dei dati di scavo italiani finora editi si sono potuti isolare tre tipologie di edifici in legno4: a) edifici con pali portanti infissi nel terreno; b) edifici con pareti lignee ancorate a travi dormienti orizzontali; c) edifici con pareti appoggiate ad uno zoccolo in muratura. Gli interventi di scavo a Ferrara e nel territorio ferrarese hanno portato in luce edifici di tipologia b) e c); sono stati rinvenuti anche strutture con perimetro in pali portanti (tipologia a), ma l’assenza di elementi che indicassero la presenza di pareti ne ha suggerito una diversa interpretazione (si veda ultra).

3 Poiché la materia da trattare risulta estremamente vasta, per maggiore chiarezza si è preferito dividere l’intervento in due parti, una riguardante le strutture edilizie e di servizio e l’altra relativa ai manufatti. 4 Sull’edilizia in legno in età altomedievale e medievale si veda: Gelichi, Librenti 1997; Brogiolo, Gelichi 1998, pp. 131-135, pp. 146-150

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a) Lo scavo di Via Vaspergolo – corso Porta Reno Lo scavo di via Vaspergolo – corso porta Reno5, svoltosi tra il 1993-94, è l’indagine urbana che ha restituito la più cospicua documentazione riguardante edifici in legno. Si tratta di uno scavo estensivo realizzato in una delle zone di più antica frequentazione urbana; le prime strutture lignee rinvenute si datano dalla seconda metà del X secolo – momento a cui risale la prima occupazione della zona – e raggiungono senza soluzione di continuità la seconda metà del XII secolo, quando iniziarono ad essere sostituite da edifici in muratura. La datazione delle strutture è stata formulata non solo su base stratigrafica ma anche tramite analisi dendrocronologiche e al radiocarbonio. La maggior parte delle strutture abitative, che si collocano tra l’inizio del XI e la metà del XII secolo, presentano una pianta rettangolare o quadrata con pavimenti in battuto e focolari a fiamma libera; non sono state rinvenute partizioni interne ma sembra che questo fatto sia sostanzialmente dipeso dalla conservazione parziale delle strutture. Gli edifici esaminati presentano differenti sistemi costruttivi sia per le strutture portanti che per gli alzati. Sebbene non sia possibile effettuare una precisa distinzione riguardo l’utilizzo delle diverse tipologie degli edifici, sembra lecito ipotizzare che le strutture di servizio siano distinte dalla presenza dei soli pali portanti mentre le abitazioni presentino il perimetro caratterizzato dall’esistenza di dormienti e pali portanti (strutture 1, 2, 7.2, 8). In particolare nel caso delle strutture 2 e 7.2 (Fig. 1) le travi erano poste tra i pali angolari, mentre la struttura 1 presentava un’alternanza di travi orizzontali e pali (intelaiatura detta a dormiente interrotto). Per quanto riguarda gli alzati questi potevano essere realizzati con paletti ed argilla pressata, (struttura 7.1), o con assi posati orizzontalmente o ancora con graticci ed argilla pressata. Una tecnologia più evoluta si può ipotizzare per le strutture 1 e 2, i cui dormienti presentavano scanalature destinate ad ospitare le assi per un alzato. La struttura 7.2 aveva invece un dormiente liscio: non sappiamo che tipo d’alzato presentasse ma si può forse ipotizzarne che fosse simile al coevo edificio 8; quest’ultimo presentava un alzato realizzato con assi verti-

5 Sull’intervento di scavo: Guarnieri, Librenti 1996; per l’analisi delle strutture lignee: Guarnieri 1997.

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cali scanalate, incastrate tra loro ed infisse direttamente nel terreno, a fianco del dormiente (Fig. 2). Quest’ultimo genere di alzati viene definito di tipo Stabbau; si tratta di pareti formate da assi verticali di diversa foggia, incastrate in una trave dormiente incassata nel terreno o in un basamento in muratura; ampiamente attestati nel nord Europa tra il IX e il XII secolo, questa tipologia di alzati è documentata per la prima volta in Italia nello scavo di via Vaspergolo a Ferrara e in via Vinarola ad Argenta (si veda ultra in nota). Le assi della struttura ferrarese (struttura 8), datata al XII secolo, sono in olmo, a sezione ogivale, incastrate l’una nell’altra. Gli elementi rinvenuti ad Argenta appartengono al tipo è più evoluto di Stabbau, che prevede l’assemblaggio delle assi ad incastro; sono in faggio comune e l’analisi del contesto di scavo permette di datarli tra il 1275-1325. Gli Stabbau sono un prodotto sufficientemente elaborato che potrebbe far pensare ad una produzione specialistica e seriale, visto anche l’enorme volume richiesto dai mercati urbani. Ritornando alle strutture di via Vaspergolo, possiamo osservare che, per quanto riguarda le essenze impiegate, è risultato quasi esclusivo l’utilizzo della quercia (quercus robur) per la realizzazione di pali portanti (resistente, di lunga durata ed inalterabile agli agenti atmosferici); la scelta dell’ulmus per realizzare l’alzato della struttura 8 corrisponde ad una scelta tecnologica precisa, in quanto legno pesante, elastico, resistente, di buona durata e facile da lavorare. b) Altri rinvenimenti a Ferrara e nel territorio La documentazione archeologica ferrarese in questi anni si sta arricchendo di nuovi dati che restituiscono l’immagine di una città caratterizzata dalla presenza di edifici lignei di aspetti assai diversificati, presenti nel contesto cittadino almeno fino all’inizio del XIV secolo. Si elencano di seguito i siti che hanno restituito documentazione in proposito: • Corso Porta Reno – via Ragno, scavo 1981-19846: L’indagine ha permesso di individuare una serie di edifici lignei, databili tra il IX e il XII secolo. I primi edifici, utilizzati probabilmente come ripari

6 Sullo scavo si veda Gadd, Ward-Perkins 1991. Per gli scavi di via Vaspergolo (FE) e di via Vinarola ad Argenta si veda Guarnieri, Librenti 1996.

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(nn. 1, 2) sono caratterizzate da robusti pali angolari; anche l’edificio n. 3 (Fig. 3), definito da 6 pali di sostegno e con tracce di separazione degli ambienti interni, non era probabilmente utilizzato come abitazione. È dal X secolo che sull’area venne costruita una vera propria casa caratterizzata da una struttura a telaio impostata su travi orizzontali, che subì nel corso del tempo numerosi rifacimenti (Houses 4, 8, 11, 13). Tra i vari edifici il meglio conservato è la House 13, edificata nel corso del XII secolo, che possedeva almeno una latrina (Room D) e tre ambienti (Rooms B, C, E), due dei quali prospicienti un’area di passaggio (A). I pavimenti si presentavano in terreno battuto ed erano presenti anche diversi focolari alcuni dei quali caratterizzati da un piano in mattoni. Sono stati ipotizzati vari tipi di alzato: a tavole sovrapposte e ad assi disposte verticalmente a fianco del dormiente, forse collegate tramite incastro. Questa casa fu rimpiazzata alla fine del XIII secolo da un edificio in mattoni. • Piazzetta Castello7: Indagini condotte nel 1992 nell’area a sud del Castello Estense hanno portato in luce due strutture, probabilmente realizzate con alzati lignei, datate tra la fine del XIII secolo e l’inizio del successivo; anche queste strutture presentavano i piani pavimentali in battuto e tramezzature lignee utilizzate per la divisione degli ambienti, consuetudine che fu mantenuta anche quando, agli inizi del XIV secolo, gli edifici furono soppiantati da strutture in laterizio. • C.so Porta Reno 22-288: i sondaggi realizzati nel 1994, hanno portato in luce porzioni di edifici lignei appartenenti a diverse fasi comprese tra il XII e la fine del XIII secolo. La struttura meglio individuata, databile alla metà del XIII secolo, poggiava su travi orizzontali – analogamente alle strutture 1,2 7.2 di via Vaspergolo – era pavimentata in battuto e presentava il focolare a fuoco libero realizzato entro fossetta. L’edificio fu sostituito da casa in muratura tra la fine XIII ed inizio XIV secolo. • Ex Palazzo della Ragione, piazza Trento-Trieste9: (fig. 4) dell’edificio, anteriore alla metà del XIII secolo, è venuto in luce un lato costruito con la tecnica dei dormienti alternati a pali, simile a quella Librenti 1992, pp. 22-24. Sui risultati del sondaggio si veda Cincotti, Guarnieri et al. 1998, pp. 228-233. 9 Ibidem, pp. 233-237. 7

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utilizzata in Via Vaspergolo per la struttura 1 e forse per la struttura 8; la scanalatura presente sul dormiente era probabilmente destinata ad ospitare alzati orizzontali o verticali di tipo Stabbau. • Argenta (FE), via Vinarola-Aleotti10: tra i materiali rinvenuti nel riempimento di un fossato – chiuso tra il terzo venticinquennio del XIII secolo ed il primo quarto del secolo successivo – sono venuti in luce tre frammenti di pareti lignee riconducibili ad elevati di tipo Stabbau; i frammenti di alzato sono realizzati in faggio comune (Fagus sylvatica) ed appartengono alla tipologia più evoluta di Stabbau, che prevede l’assemblaggio delle pareti tramite assi ad incastro11. Il rinvenimento di Argenta documenta la diffusione di questa tecnica costruttiva anche in piena età medievale, analogamente a quanto emerso anche per gli altri siti urbani esaminati. a. Considerazioni sulle tipologie rinvenute I dati di scavo esposti dimostrano come Ferrara, anche in piena età medievale, conservasse un consistente numero di edifici lignei, posizionati anche in zone centrali e realizzati con tecniche costruttive diversificate. Traccia di tale varietà si trova anche nei documenti coevi che descrivono varie tipologie di edifici che sembrano implicare un’ampia casistica di soluzioni costruttive: nei diversi documenti la casa viene di volta in volta definita come gratizata, paredata, de cannis, partim murata et partim de assidibus, clausa cum columnellis, fasciata de cannis, quattruor columnis de ligno edificata12. Purtroppo queste definizioni non trovano immediata corrispondenza con le diverse tecnologie costruttive messe in luce con gli scavi. Qualche aiuto per ricostruire l’aspetto degli alzati può venire dall’iconografia: ad esempio, nel Museo di Castelvecchio a Verona è conservato un dipinto che mostra in un paesaggio campestre due tipologie di edifici: una casa in muratura e due case a telaio ligneo, con probabili pareti in arSullo scavo di veda Il tardo medieovo ad Argenta 1999. In particolare gli elementi di Argenta rientrano nel tipo caratterizzato dall’alternanza di assi a sezione ogivale con un solo lato scanalato, con assi a sezione rettangolare con scanalatura su entrambi i lati. In questo caso si tratta di elementi che dovevano essere incassati in una trave dormiente o su di un basamento in muratura: Chapelot-Fossier 1985, pp. 268-281. 12 Bocchi 1976, p. 13; Faoro 1999 passim 10

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gilla pressata e tetto in frasche. Di notevole interesse anche la datazione del quadro, compresa tra il 1499 e il 1500 che attesta l’attardamento in ambiente extraurbano di strutture edilizie in materiale deperibile, dato confermato anche dalle fonti. Nel momento di passaggio dalla tecnica ad intelaiatura lignea a quella in laterizio, periodo che dev’essere durato un certo lasso di tempo, l’aspetto della città non era quindi uniforme, ma vedeva convivere strutture in laterizio accanto a edifici in legno oppure a strutture realizzate in tecnica mista. Potrebbe adombrare l’esistenza di un edificio realizzato con quest’ultimo sitema – fondazioni in laterizio ed alzato in materiale “leggero” – la struttura 9 rinvenuta nello scavo di via Vaspergolo, datata alla metà del XII secolo. Questo edificio, caso unico in tutto lo scavo, presenta le fondazioni ad arco; queste furono rifatte per ben due volte nel giro di breve tempo, per poi essere abbandonate poco dopo a favore di fondazioni in muratura piena. Questa peculiarità potrebbe forse suggerire l’esistenza un alzato leggero, interamente ligneo o con telaio ligneo ed argilla pressata. L’utilizzo del legno nell’edilizia non fu abbandonato neanche quando si passò al laterizio, perché a questo materiale fu riservato il compito di definire le tramezzature degli spazi interni. Per quanto concerne la scelta delle essenze, i dati degli scavi hanno individuato l’uso quasi esclusivo per i pali portanti della quercia, legno resistente ed inalterabile dagli agenti atmosferici. L’olmo e il faggio comune, utilizzati per gli alzati di tipo Stabbau – tecnologicamente raffinati – hanno anch’essi caratteristiche di elasticità e resistenza. Non così è invece per il pioppo, legno facilmente deperibile, utilizzato per la maggior parte degli alzati di via Vaspergolo appartenenti a strutture che non denotavano soluzioni costruttive tecnologicamente raffinate così come gli alzati di tipo Stabbau. b. Il passaggio tra l’edilizia in legno a quella in mattone; qualche ipotesi sulla cronologia. I primi edifici interpretabili come abitazioni sono stati rinvenuti in via Vaspergolo e sono databili alla prima metà del XI secolo; queste strutture, unicamente in legno, arrivano senza soluzione di continuità alla metà del XII secolo, momento da cui si assiste ad un lento ma progressivo aumento delle costruzioni in mattoni che occuparono completamente l’area intorno alla metà del XIII secolo. Gli edifici li-

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gnei rinvenuti negli altri interventi urbani si datano tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, segno quindi che in questo momento la città, anche nelle zone più centrali, aveva ancora abitazioni in legno che convivevano con altre in laterizio. Forse il passaggio tra i due tipi di tecnologie costruttive potrebbe essersi concluso sul finire del XIV secolo; a questo proposito è di un certo interesse registrare un brano – di indubbio carattere encomiastico – riferito alle opere di rifacimento ed abbellimento della città realizzate proprio in questo periodo da Nicolò II d’Este (1361-1388); nel brano si sottolinea come il marchese avesse pavimentato strade in sassi (di fiume) e mattoni e sostituito gli edifici in legno con altri in mattoni13. Non resta che registrare questa notizia in attesa che le ipotesi proposte possano trovare conferme o smentite dai risultati dei prossimi nuovi scavi. 1.2 Strutture di servizio Il legno, oltre ad essere il protagonista dell’edilizia medievale è stato ampiamente utilizzato anche per la realizzazione di tutta una serie di strutture definite di servizio: anche in questo caso lo scavo di via Vaspergolo ha restituito un buon numero di esemplificazioni. Le tettoie e i ripari sono caratterizzati da pali portanti anche di notevoli dimensioni ma sono prive di battuti pavimentali e di pareti che ne chiudano la struttura. Le latrine, che troviamo all’esterno delle case, consistevano una buche più o meno ampie foderate da tavole ad incastro e spesso ricoperte da assi. Vari e numerosi gli steccati lignei (Fig. 5), costruiti con svariate tecniche più o meno sofisticate. Si va dai semplici paletti infilati nel terreno e fermati da assicelle orizzontali, utilizzati soprattutto come contenimento di un grande immondezzaio, ai veri e propri steccati intrecciati (Fig. 6) il cui utilizzo era enormemente diffuso nel medioevo. Per fabbricarli venivano utilizzati i polloni di salice raccolti a primavera; i rametti, non scortecciati, erano piantati nel terreno con l’aiuto di un asta di ferro a distanza regolare. Si procedeva poi ad intrecciare i rami più lunghi in senso ortogonale:

13 “ …….Ferrariam illimem ac salubrem reddidit, vicos lateribus ac saxo starvit, domos asseritias pro lapideis dimisit”: Faoro 1998, p. 297.

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in questo modo si ottenevano staccionate molto solide ma nel contempo elastiche all’urto. Queste caratteristiche rendevano questo tipo di strutture lo strumento privilegiato per la separazione di proprietà e spazi domestici: ne abbiamo abbondanti testimonianze nell’iconografia medievale e rinascimentale. Tale era la sua importanza che la siepe intrecciata fu adottata da Lionello e Borso d’Este come impresa personale, il paraduro14, allusiva delle opere di bonifica da loro realizzate nelle valli di Comacchio. Nello scavo di via Vaspergolo questi “paraduri” furono utilizzati sia per realizzare le divisioni interne degli edifici ma anche come intelaiatura per costruire alzati realizzati con argilla pressata. Ad Argenta invece questo tipo di steccati, alternati a file di grossi pali, furono impiegati per compattare il terreno di un fossato per poi procedere alla sua bonifica. 2. I manufatti Questa seconda parte dell’intervento intende sinteticamente illustrare gli oggetti in legno utilizzati nella vita quotidiana medievale ritrovati negli interventi di scavo a Ferrara e nel ferrarese. Occorre innanzitutto sottolineare come sussista una certa difficoltà a creare tipologie datanti per questo tipo di oggetti sia per la scarsità dei rinvenimenti – fortemente condizionati dalle condizioni di giacitura – sia per l’intrinseca scarsità del materiale che veniva quasi sempre riciclato come combustibile. A questo si aggiunge che gli oggetti lignei – dal momento che funzione ed ergonomia sono comprovate – non perseguendo particolari esigenze estetiche o formali, presentano forme che rimangono inalterate nel tempo e che si ritrovano uguali in diverse aree geografiche ed ambiti culturali. La varietà dei manufatti e la loro capillare diffusione nel medioevo si rispecchia anche nel considerevole numero di artigiani specializzati nella fabbricazione delle singole tipologie di oggetti: dal plebiscito di Ferrara del 1310 conosciamo l’esistenza di costruttori di botti (cerclari), di mastelli (mastellari), di fusi (fusari), di scodelle (scutellari), di cesti (cestari). Nel 1596 dalla

14 Il termine con cui viene identificata questa impresa, è una voce dialettale e significa paratoia.

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registrazione fiscale della Camera Estense risultano 149 legnaioli, tra cui sono menzionati alcuni conchellari (fabbricanti di ciotole?), carradori (fabbricanti di carri e carrette) e mastri da tesselli e legname, forse artigiani che potevano essere specializzati nella fabbricazione di oggetti ad incastro; all’interno di quest’ultima categoria vi erano alcuni mastri da tasselli di pioppa e non piallati, mestiere che forse individua chi preparava la materia prima per gli artigiani specializzati e che sottolinea ulteriormente quanto fosse parcellizzata la specializzazione di chi si occupava di legname. L’utilizzo di oggetti in legno era estesamente ed uniformemente diffuso a tutti i livelli sociali: ne è un esempio l’inventario dei beni di Nicolò III d’Este (1436) che elenca numerosi oggetti in legno destinati ai più svariati utilizzi15. Nel medesimo secolo per la venuta a Ferrara dell’imperatore Federico III furono commissionate a Cristivallus scodellarius 7000 oggetti in legno tra cui 3575 taglieri, 1350 piadene pizole de legno e 400 ciotole16. Numerosissime le essenze utilizzate: in genere i legni locali, come il salice e il pioppo – di più facile reperimento – erano destinate ai manufatti minori edi più largo consumo, mentre i legni più nobili e resistenti – anche d’importazione – erano invece preferiti per i lavori di carpenteria o per la fabbricazione di mobili. Questo è il dato che si evince dalle analisi dei materiali di scavo e che risulta anche dalla lettura di alcuni documenti del XVI secolo17 che menzionano l’importazione a Ferrara di essenze pregiate tramite via fluviale. Paradigmatico della eterogeneità degli oggetti lignei che venivano quotidianamente utilizzati è lo scavo di Argenta; l’indagine ha restituito 151 oggetti, realizzati con 22 essenze diverse18. Il legno più utilizzato è risultato essere il pino (pinus pinaster e pinus pinea) con cui vennero fabbricati vari oggetti per la tavola (cucchiai e spatole) ma soprattutto doghe per mastelle e secchi: si tratta di un legno di notevole resistenza, ma di difficile lavorazione per il suo contenuto di resina. Molto utilizzati anche il pioppo e il salice, essenze di facile lavorazio-

Pardi 1908, pp. 40-41. Sull’argomento si veda: Gelichi 1995, pp.93-95; Guarnieri 1999, pp. 136-137. 17 Guarnieri 1999, p. 137. 18 Sull’argomento si veda: Forlani, Mancini, Marchesini 1999. Un altro scavo che ha restituito un alto numero di oggetti è quello di via Vaspergolo - Corso Porta Reno. 15 16

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ne ma estremamente deperibili, destinati principalmente alla fabbricazione di ciotole e piatti. Alcuni legni, come il bosso, il biancospino e la fusaria, per le caratteristiche intrinseche di durabilità e resistenza erano impiegati unicamente per la fabbricazione di oggetti realizzati ad intaglio, come i pettini, o destinati ad una notevole usura come fusaiole e fusi. Il legno di quercia era invece quasi unicamente utilizzato nella carpenteria, come si è visto sia per gli edifici di Ferrara, oppure per compattare il terreno paludoso così come è accaduto per la bonifica del fossato di Argenta. Le tecniche di fabbricazione di questi oggetti19, peculiari di diverse categorie di artigiani, possono essere così riassunte: 1.connessione di fondi e doghe trattenuti da cerchiature, tecnica utilizzata per la realizzazione di botti, secchi e mastelle; 2. tornitura: sono realizzati con questa tecnica la maggior parte dei recipienti per la tavola come ciotole e piatti; 3. intaglio: tecnica che è utilizzata soprattutto per la realizzazione di pettini; 4. escavazione: sono realizzati con questa tecnica alcuni vassoi e la maggior parte degli oggetti destinati ad attingere liquidi come cucchiai e spatole; 5. connessioni con incastri o chiodi: si tratta in genere di lavori di carpenteria e di mobilio 6. curvatura di fogli: con questa tecnica si ottenevano scatoline e contenitori Il rinvenimento italiano di età medievale che ha restituito il più cospicuo numero di oggetti è senz’altro quello di via Vinarola-Aleotti ad Argenta20; il contesto di provenienza, databile tra il 1275 e il 1325, offre una visione sincronica del variegato panorama degli oggetti lignei

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Sulle diverse tecniche di lavorazione del legno si veda: Mannoni, Mannoni

1976. 20 Un altro scavo che ha restituito un ingente numero di oggetti lignei, in corso di studio da parte della scrivente, è quello di via Vaspergolo a Ferrara; in questo caso i materiali sono invece provenienti da contesti databili tra il X e il XV secolo e ci restituiscono quindi una sequenza diacronica della produzione. Altri scavi condotti a Ferrara ed in altre località della regione (Parma, Forlì, Ravenna, Cesena) hanno restituito oggetti in legno, ma in un numero sempre limitato alla decina di unità.

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utilizzati in questo momento. Per una maggiore chiarezza espositiva si è preferito dividere gli oggetti secondo categorie funzionali21: 2.1. Oggetti per la tavola e la cucina Nello scavo di Argenta sono numerosi gli oggetti utilizzati sulla tavola o nella cucina. Si tratta di vassoi, scatoline, immanicature per coltelli, cucchiai, spatole, tappi ma soprattutto piatti e ciotole, che sono gli oggetti maggiormente attestati negli scavi. La forma ricorrente, anche in altri rinvenimenti emiliani (Ferrara, Cento, Sorrivoli, Finale Emilia, Forlì) è emisferica con orlo arrotondato e piede a disco; l’essenza più utilizzata è il pioppo, legno morbido e di scarsa durata, scelta quindi dettata dalla facilità di reperimento, dal basso costo e dalla semplicità di lavorazione; alcuni esemplari presentano lettere impresse a fuoco, probabili marchi di fabbricazione. L’utilizzo di queste stoviglie convive con la presenza di forme aperte, soprattutto ciotole, in ceramica di produzione veneta (metà XIII sec.) per poi lentamente scemare con l’aumentare della produzione di forme aperte in ceramica ingubbiata graffita (intorno al 1375). 2.2. Oggetti di uso personale I pettini sono per la maggior parte realizzati in bosso, legno duro che permetteva il lavoro d’intaglio; alcuni esemplari sono invece ottenuti con biancospino e fusaggine, anch’esse essenze con le medesime caratteristiche del bosso. L’impugnatura è ottenuta dallo spazio non lavorato tra le due file di denti, utilizzati sia per districare i capelli che per liberarli dai parassiti; la forma del pettine, rettangolare o quadrata con doppia fila di denti, era funzionale ed ergonomica e per questo motivo rimane inalterata dall’età romana a circa un cinquantennio di anni addietro, quando prevalse l’uso di allineare i denti su di un’unica fila. Numerose le suole, realizzate in pioppo, ma anche in pino e sughe-

21 Per un maggiore approfondimento dell’argomento e per i singoli confronti relativi all diverse tipologie degli oggetti si rimanda a Guarnieri 1999.

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ro. Si tratta di veri e propri zoccoli che erano calzati come sovrascarpe sia da uomini che da donne, in modo tale che le calzature vere e proprie, in pelle morbida, non si sporcassero. Questo tipo di scarpa non copriva quindi il calcagno ma presentava solamente alcune strisce di cuoio o stoffa per essere trattenuta al piede. Ci restituisce un’immagine di questo tipo di calzature la tavola che raffigura la Musa Erato, proveniente dallo Studiolo di Belfiore a Ferrara, ora conservata alla Pinacoteca Nazionale di Ferrara. Lo scavo di via Vaspergolo a Ferrara ha restituito un oggetto di uso personale che la momento è un unicum22: si tratta di uno specchio a supporto ligneo entro un contenitore sferico, anch’esso in legno, datato tra la metà XIV e l’inizio del XV secolo. L’oggetto si smonta in 3 parti (Fig. 7): ciascuna semisfera copre un disco sulle cui facce è stato incollato uno specchio. Realizzato in ontano nero, essenza locale di facile tornitura, presenta la superficie dorata23 e una serie di placchette realizzate in una lega di stagno e piombo raffiguranti coppie di amanti, musicanti ed animali. Per la sua forma l’oggetto era forse custodito in un contenitore o poggiato su di un supporto. A questo proposito è interessante notare che nell’inventario di Nicolò III del 1436 sono segnalati vari spechi de legno con cornici dorate contenute in cassette decorate con le armi estensi. Come si diceva si tratta di un oggetto unico: di diffusione comune erano invece gli specchi piani, di cui un esemplare è stato rinvenuto nel medesimo contesto (fig. 8). 2.3. Oggetti per il gioco Le pedine da gioco potevano essere realizzate con materiali preziosi, come l’avorio, ma più comunemente con frammenti ritagliati di vasellame oppure con il legno. Nell’inventario estense del 1436 si trovano una serie di pedine in legno per gli scacchi. Le due pedine rinvenute ad Argenta sono in noce e frassino, legni resistenti e di facile lavorazione; forse una terza pedina era stata ricavata ritagliando una corteccia di zucca da vino.

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Sull’oggetto si veda: Guarnieri 2000. Si tratta di un foglio di stagno su cui è stata stesa una vernice dorata.

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2.4. Utensili ed attrezzi: Numerosi gli utensili per la filatura, come fusi e fusaiole. Questi oggetti non hanno subito alcun cambiamento di forma nel corso del tempo. Solamente il fuso – a partire dal XIV secolo – fu soppiantato, ma non sostituito, dai mulinelli che porteranno alla meccanizzazione della filatura. Per la fabbricazione di fusi era tradizionalmente utilizzato un legno chiamato fusaggine (Euonymus sp.), con caratteristiche peculiari di resistenza e durabilità. Le fusaiole sono state realizzate invece in quercia, pino, tasso. Particolarmente interessante è il rinvenimento, nel medesimo contesto, di due strumenti utilizzati proprio per la fabbricazione di oggetti in legno: si tratta di un mazzuolo, lo strumento più usato da carpentieri, falegnami ed intagliatori, e di un’ascia a zappa, utilizzata per ricavare superfici rotonde. Tra gli altri utensili rinvenuti vi era uno o più rastrelli, documentati dalla presenza dei denti. 2.5. Elementi di mobilio La presenza di numerosi mobili è indiziata nello scavo di Argenta dall’altissimo numero dei chiodi per carpenteria e di cunei e pioli in legno; gli elementi di mobilio presenti nella casa medievale erano infatti caratterizzati da tavole a giuntura semplice fissate con chiodi oppure collegate tra loro ad incastro con pioli e cunei. Il legno utilizzato per la costruzione dei mobili è abbastanza vario e comprende sia legno semiduri o duri, pesanti, flessibili, di notevole durata ma di facile lavorazione come la quercia, il tasso, l’olmo, il cipresso, ma anche legni “poveri” come il pino e il pioppo. In particolare il cipresso veniva specificatamente utilizzato per cassapanche che contenevano abiti e biancheria, perché il suo odore penetrante non è gradito alle tarme e ai tarli, caratteristica quest’ultima che ha in comune con il tasso. Tra i frammenti di mobilio, di non facile identificazione data la loro frammentarietà, di segnala parte di un fianco di cassone in cipresso che presenta tracce della copertura in metallo e le connessure realizzate con cunei in legno.

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2.6. Elementi per falegnameria In questo gruppo sono stati riuniti vari manufatti utilizzati soprattutto nei lavori di carpenteria: si tratta di cunei, utilizzati per rendere solide le commessure tramite forzamento oppure di cavicchi e pioli, di forma cilindrica o conica, utilizzati come elemento di connessione tra le tavole; le essenze utilizzate a questo scopo potevano essere dure, per resistere alla compressione – come fusaria, bosso – o semidure per adattarsi alla cavità senza forzo (frassino, cipresso).

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Fig. 1 – Ferrara, via Vaspergolo-corso Porta Reno. Struttura 7/2, planimetria.

Fig. 2 – Ferrara, via Vaspergolo-corso Porta Reno. Struttura 8, planimetria.

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Fig. 3 – Ferrara, corso Porta Reno-via Ragno, scavi 1981-84, House 3.

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Fig. 4 – Ferrara, ex palazzo della Ragione, edificio ligneo.

Fig. 5 – Ferrara, via Vaspergolo-corso Porta Reno. Steccato ligneo.

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Fig. 6 – Ferrara, via Vaspergolo-corso Porta Reno. Steccato intrecciato.

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Fig. 7 – Ferrara, via Vaspergolo-corso Porta Reno; specchio sferico ad intelaiatura lignea.

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Fig. 8 – Ferrara, via Vaspergolo-corso Porta Reno; specchio piano ad intelaiatura lignea.

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Le costruzioni in legno nell’area nordica: aspetti tecnici e strutturali Maurizio Biolcati Rinaldi

1. Il legno e le costruzioni Il legno, fin dall’antichità, è risultato il materiale naturale più usato dall’uomo per costruire strutture di protezione dagli agenti atmosferici e dagli aggressori. Molto diffuso in natura, il legno ben si presta a soddisfare le esigenze più diverse, presentando caratteristiche di leggerezza e di facilità di lavorazione anche con strumenti rudimentali, buona resistenza meccanica sia a flessione che a compressione pur essendo un materiale anisotropo, grande compatibilità con i materiali accessori (come la paglia, le scorze d’albero, l’argilla) usati per riempire gli spazi fra le aste lignee portanti, e tali proprietà consentono la costruzione di strutture altrimenti irrealizzabili. Sulla base della cultura arboricola gli studiosi individuano tre tipi di costruzioni diffuse dal neolitico ai giorni nostri: le palafitte sull’acqua, proprie delle civiltà stanziali dedite a caccia e pesca; le tende, collegate all’allevamento mobile di bestiame; le capanne, con diverse forme planimetriche e altimetriche, collegate ad un’economia agricola. Sono tre concezioni strutturali diverse che dimostrano l’abilità dell’uomo di individuare il tipo di legno da impiegare per scegliere quello più adatto alle esigenze della vita quotidiana. La palafitta è una struttura rigida, con pali infissi stabilmente nel terreno posto sotto il livello dell’acqua lacustre, con un piano di calpestìo continuo costituito da tronchi legati assieme, su cui sorgono capanne rigidamente connesse. Le capanne, a cupola, cilindriche, coniche, quadrangolari, sono

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realizzate con sistemi costruttivi a gabbia, rivestiti con argilla e paglia, foglie, fronde, che sfruttano l’elasticità del materiale e delle legature di connessione con funi, giunco, cuoio, per resistere alle sollecitazioni orizzontali; possono essere leggermente infisse nel terreno o seminterrate come nelle regioni artiche. Le tende, invece, presentano forme diversissime: tensostrutture di pelli di capra, sorrette da poche aste lignee verticali, ancorate al terreno con continuità (la tenda dell’Africa settentrionale e del Mediooriente); strutture lignee a cupola o a botte, differenziate staticamente in struttura portante e rivestimento di stuoie o pelli (la tenda medioorientale); strutture di forma cilindrica poligonale con pareti autoportanti in traliccio diagonale costituto da sottili rami di salice spaccati (lo yurt asiatico); strutture composte da tre o quattro pali principali incrociati in alto a 3/4 dell’altezza, al cui vertice si appoggiano altri pali secondari (in numero di 15-20) a formare vani con diametro variabile da 3,5 a 6 metri, rivestite di pelli, e facili da smontare e trasportare (il tipee nordamericano). Il passaggio all’uso dei tronchi sovrapposti in senso orizzontale a formare strutture massicce, leggermente sgrezzate o squadrate a facce parallele e a spigoli vivi, costituisce un salto di qualità tecnologica che viene applicato in ambito militare (fortificazioni, macchine da guerra) e civile (abitazioni, apparecchi di sollevamento, ecc.), e su questa base si trovano i primi tentativi di trasformare la conoscenza intuitiva della statica delle costruzioni in scienza. Si vedano gli studi di Leonardo da Vinci sul rapporto fra altezza e luce delle travi appoggiate o gli studi di Galileo sulla resistenza di una mensola incastrata, anche se solo con Navier se ne comprenderà a fondo il comportamento strutturale. 2. L’edificio intelaiato Mentre in alcune civiltà il legno è diventato presto un materiale complementare alla pietra o al laterizio, venendo impiegato nelle coperture e nei solai oltre che nelle finiture, in altre civiltà il legno è rimasto per lungo tempo quale materiale strutturale principale e per esse ancora oggi la costruzione lignea è un elemento caratterizzante molto più di quello murario.

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Il significato culturale di questo materiale da costruzione è tanto importante e sentito nel Nord-Europa che sono sorti numerosi musei all’aperto ove vengono raccolte case di legno originariamente sparse sul territorio, a testimonianza delle tradizioni di un popolo. Con queste finalità sono sorti, ad esempio, musei ad Arhus in Danimarca, a Djurgarden in Svezia, a Seurasaari in Finlandia, a Neu Anspach in Germania, a Brunico in Italia. Nella tradizione costruttiva delle aree del Nord-Europa il legno riveste un ruolo fondamentale non solamente nell’edilizia minore (le case in pietra nel XV secolo erano ancora una eccezione), ma anche nell’edificazione di castelli e chiese che fin verso il 1100 erano unicamente di legno. Le abitazioni, in particolare, vengono costantemente costruite in legno per molti secoli e l’impiego di questo materiale è così intimamente legato alla cultura dell’abitazione nordeuropea che ancora oggi moltissime case unifamiliari vengono costruite con strutture portanti lignee, tanto che, in particolare, una parte consistente del mercato tedesco è occupata da ditte che hanno organizzato una produzione prefabbricata di questi edifici e sono in grado di offrire una vastissima gamma di tipologie e di finiture. Nella storia dell’architettura del legno assume grande rilievo l’edificio cosiddetto “intelaiato”, diffuso dall’arco alpino alla Scandinavia, per un periodo di tempo che si può stimare lungo almeno tutto il secondo millennio, come testimonia la casa intelaiata più antica trovata in Germania, della quale si hanno precise notizie e accurati rilievi: essa risale al 1319, ma la sua articolazione strutturale, la sua leggerezza formale ed il decoro accentuato fanno ritenere che sia il prodotto maturo di una lunga esperienza costruttiva. L’edificio con struttura lignea portante è costituito da pareti intelaiate parallele alla facciata incrociate con altre pareti intelaiate perpendicolari per formare una struttura spaziale composta da telai incrociati che forniscono rigidezza all’edificio. Il montante ligneo, infatti, è un elemento strutturale monodirezionale che, al contrario della pietra che è autoportante nella costruzione di una parete, richiede di essere sostenuto diritto da altre aste inclinate, né consente di costruire nodi rigidi, come nei telai di calcestruzzo, per cui si rende necessario costruire sistemi di aste (orizzontali, verticali, inclinate) completamente connesse per creare pareti.

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La parete intelaiata è costituita da: a) un’asta piana orizzontale inferiore o di sostegno, detta soglia, che, per distribuire il peso della parete, viene appoggiata con continuità per tutta la sua lunghezza su un basso muro sottostante necessario per isolare la costruzione dall’umidità del terreno; b) ritti verticali, detti candele o stili, che determinano l’altezza della parete e possono essere ritti d’angolo – posti agli angoli o alle estremità delle pareti, sono generalmente più grossi perché maggiormente caricati ed indeboliti da due incastri –, e ritti di legamento – posti nei punti di incontro di due pareti, sono più grossi dei ritti di porta, dei ritti di finestra e dei ritti intermedi perché appartengono contemporaneamente a più pareti –; c) un’asta piana superiore, detta cappello, appoggiata sui ritti posti molto vicini fra loro onde evitare sforzi di flessione notevoli; d) elementi obliqui, detti legamenti o saette, che uniscono i ritti alle aste piane inferiori con una varietà di forme tipiche delle epoche e delle aree culturali; e) i traversi, realizzati con aste corte orizzontali che impediscono il disassamento dei ritti e possono assumere la funzione di architrave o di davanzale delle aperture. Per fornire qualche indicazione dimensionale delle aste, in generale si può affermare che nelle abitazioni con altezze di piano di 3,003,60 m. i ritti hanno spessore almeno di 15-18 cm., mentre nelle strutture in cui subiscono anche sollecitazioni orizzontali, come i granai, si impiegano spessori di 21-24 cm. almeno per altezze di 4,50-5,50 cm. Il cappello è generalmente dello spessore della parete a meno che non debba reggere una trave, per cui dipende dall’interasse dei ritti. I controventi, che congiungono soglia, cappello, ritti e impediscono i movimenti autonomi alle componenti orizzontali e verticali, richiedono una suddivisione della parete secondo riquadri molto ampi ed hanno inclinazioni ricorrenti di 1:2 per pareti basse e di 1:3 per pareti alte. I traversi intermedi si distribuiscono in modo che i riparti non superino i 1,50-1,80 mq., ed i traversi di davanzale sono spesso realizzati in legno di quercia, più resistente all’umidità. Nel Nord-Europa si sono mantenute poche abitazioni antiche e quelle conservate mostrano differenze secondo la regione di provenienza ed il periodo di costruzione; si trovano anche case comuni per le quali si può affermare con sicurezza che discendono da una forma originaria che si è abbandonata nel tempo. Nell’esposizione seguente si riportano le caratteristiche tipologi-

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che e tecnologiche fondamentali delle abitazioni secondo il periodo di costruzione, limitando l’indagine allo stile sassone che è stato il più diffuso e tanta influenza ha avuto sugli stili francofono e celtico. 3. Le forme originarie della casa colonica sassone L’edificio rurale tradizionale presenta un unico corpo di fabbrica isolato a pianta quadrata comprendente in modo quasi indifferenziato l’abitazione, la stalla e lo spazio per attività lavorative. Originariamente la costruzione è bassa, suddivisa in tre navate da due file intermedie di pilastri e la copertura è unica (fig. 1). Di questa prima fase non rimangono esempi. Nell’evoluzione successiva, come si rileva nelle antiche case coloniche della Bassa Sassonia, viene in primo luogo ricavato un corridoio nella navata laterale dell’edificio, poi viene portata avanti una vera e propria trasformazione della pianta: l’ultimo intercolonnato dell’edificio viene costruito più largo e, a separare gli spazi fra le colonne, si aggiungono in parte tramezzi realizzati con assito ed in parte greppie (fig. 2). Con queste modificazioni l’edificio risulta articolato in una camera passante per uso abitativo e contenente il focolare F, in una stanza di lavoro usata soprattutto come aia coperta D, ed in due spazi laterali S destinati al ricovero degli animali. Le camere superiori S1 e S2, ricavate longitudinalmente nelle navate laterali, vengono utilizzate in parte come camere da letto per i servitori ed in parte come deposito degli utensili e delle suppellettili. La famiglia del padrone di casa dorme verosimilmente sopra la zona del focolare. Nel sottotetto B è ricavato il deposito dove vengono accatastati il fieno ed i frutti del raccolto. Le camere S1 e S2, raggiungibile attraverso scale a pioli, sono aperte e fornite di parapetto sul lato verso la stanza di lavoro, la quale quindi occupa un doppio volume attraversato solamente da alcune passerelle poggianti sopra le travate. L’edificio, dotato di tre accessi di cui uno ampio per le stalle, è caratterizzato da una scarsa illuminazione interna per evitare dispersioni di calore attraverso le finestre e non è fornito né di camino né di vano scala. Fino all’inizio del secolo attuale si trovavano ancora numerose te-

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stimonianze di questa seconda fase che corrisponde alla casa colonica sassone più antica e rappresenta fino verso l’anno 1000 il tipo più diffuso nelle regioni di lingua tedesca. In una fase successiva, evoluzione naturale di quella precedente, l’edificio mantiene sostanzialmente in pianta una eguale distribuzione degli spazi funzionali, ma subisce l’aggiunta di tre stanze poste dietro la camera passante. Mentre all’inizio si ripetono in sezione soluzioni simili a quelle precedenti, solo più tardi viene alzata la copertura rendendo le stanze più comode e più accoglienti (fig. 3). Questo tipo edilizio si trova anche in Franconia ed in Alemagna. Nei tipi di case coloniche finora analizzati le pareti sono formate da telai portanti lignei, tamponate con stecche di legno ed argilla, mentre il tetto viene coperto con paglia. 4. La casa urbana Nei casi in cui viene abbandonata l’economia rurale la casa colonica riproposta in un tessuto urbano subisce inevitabili trasformazioni: non sono più necessarie le stalle e lo spazio interno di lavoro, per cui non ha ragion d’essere la camera passante, che per altro sarebbe stata resa più buia per la vicinanza delle altre costruzioni. La casa di città mantiene ancora un impianto quadrato o rettangolare, con le stalle che si trasformano in stanze e con la camera di lavoro che rimane come secondo spazio posto a metà del fronte strada della casa e che diventa la sala H, l’ambiente più importante per gli abitanti. In essa rimane il focolare e vi si pone trasversalmente una galleria, raggiungibile attraverso una scala, che rende agevole l’accesso ai piani superiori (fig. 4). Il tetto, molto ripido, è costituito da falde unite al piano di appoggio per mezzo di travi scanalate atte a garantire collegamenti rigidi, e spesso viene suddiviso in diversi piani intermedi per creare spazi necessari alla conservazione delle derrate ed impiegabili all’occorrenza come magazzini utili al mestiere del proprietario. Dai tipi edilizi illustrati si sviluppano nel tempo altre soluzioni per ampliamento o per semplificazione. Così, ad esempio, quando necessitano più spazi si aggiungono corpi di fabbrica laterali o posteriori ed

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il lotto può comprendere una corte privata (fig. 5 e 6); talvolta l’ampliamento può aversi anche in altezza con l’aggiunta di un piano che talora è uno spazio unico utilizzato come salone delle feste (fig. 7). La semplificazione, invece, può avvenire o con l’eliminazione di un terzo della pianta per cui la sala si trova lateralmente e non al centro dell’edificio, oppure può aversi con un ulteriore taglio del secondo spazio della sala per cui la casa rimane composta dalla sala e da quattro stanze (fig. 8). Compare di frequente nel medioevo anche la casa per due famiglie, suddivisa da una parete centrale continua (fig. 9). Le case di città, al pari di quelle rurali, sono costruite in legno per tutto il Medioevo e solo nelle regioni soggette ad una forte influenza romana si trovano esempi di abitazioni in pietra sia nel periodo medioevale che in quello rinascimentale. 5. L’arte sassone di costruire col legno nel periodo gotico primitivo È conosciuto solo un esempio che si fa risalire al periodo del gotico primitivo e la cui datazione per lungo tempo è stata incerta, tanto che lo stesso Violet-le-Duc l’assegnava ancora all’XI-XII secolo. L’edificio (fig. 10) fu costruito nel 1319 a Marburg dopo che una parte della città venne distrutta da un incendio, e potè essere datato con precisione solo durante la sua demolizione avvenuta nel 1875. La casa in oggetto comprende due alloggi suddivisi in verticale senza interruzione da una parete, e si sviluppa su tre piani. A piano terra è scomparsa la sala ed al posto della camera passante è inserito un angusto vestibolo accanto al quale si trova la scala. In un piano superiore, nella zona a, è sistemata una latrina. Apparentemente nell’edificio abitavano due artigiani, per cui la stanza W veniva utilizzata con ogni probabilità come laboratorio (fig. 11). L’aspetto più interessante dell’edificio riguarda la tecnica costruttiva, che, per altro, è stata caratteristica di tutto il periodo protogotico ed ha fortemente influenzato lo sviluppo dell’architettura di facciata. I montanti si innalzano in un pezzo unico per tutti e tre i piani fino a raggiungere l’altezza complessiva di m. 8,70 e sono collegati insieme da corte traverse orizzontali sulle quali poggiano le travi portanti; queste, a loro volta, si gettano a sbalzo oltre le traverse stesse definendo ad ogni piano con la loro posizione un nuovo limite della facciata

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sulla strada secondo superfici parallele successive (fig. 12). Le travi principali aggettanti sono poste a fianco dei montanti e si appoggiano sulle traverse orizzontali, che diventano così esse stesse travi portanti e debordano dalla facciata sottostante rispettivamente di 50 cm., 45 cm., 25 cm. a partire dal piano inferiore. I montanti non terminano sotto le travi orizzontali continue di piano in quanto si elevano fino alla sommità dell’edificio: l’impiego di un unico montante continuo per tre piani è una chiara reminiscenza della casa monopiano, ma presenta l’indubbio vantaggio di poter erigere la costruzione e di coprire il tetto in tempi brevi, per lavorare all’asciutto durante la successiva costruzione delle pareti. Per ricevere il montante della facciata sporgente sulla strada viene inchiavardato un puntone inclinato St all’asse del montante composto, cioè all’asse di un montante secondario posto davanti a quello strutturale continuo (fig. 13). La costruzione principale dei montanti della parete di facciata non è quindi in grado di provvedere da sola a sostenere la parete di chiusura anteriore, la quale rimane, per così dire, appesa alla struttura principale, ma si rende necessario sdoppiarla introducendone una nuova per ogni singolo piano. L’affinamento della tecnica costruttiva del tempo è dimostrato, inoltre, dal fatto che i montanti anteriori secondari venivano spesso immorsati alle travi orizzontali e non sostenuti con cavicchi (fig. 14). I montanti anteriori presentano sempre una dimensione più modesta di quelli principali: si pensi che nella casa di Marburg i primi sono profondi 15 cm. mentre i secondi misurano 22 cm. Le traverse di facciata e quelle longitudinali parallele alle travi principali sono unite ai fianchi dei montanti col sistema a tenone e mortisa e sotto le tasche ricavate nelle colonne sono poste piccole mensole di testa a completamento del preciso sistema di collegamento dei traversi orizzontali ai montanti; l’irrigidimento dell’incastellatura viene ulteriormente rafforzato per mezzo di cavicchi di legno (fig. 15). Le traverse longitudinali entrano profondamente nei montanti per dare solidità alla struttura e sono sfalsate rispetto a quelle di facciata per evitare una sovrapposizione dei fori dei cavicchi. Qualora non fosse stato possibile ricavare mensole inferiori, caso frequente dato che nel passato il legname non si trovava già segato sul

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mercato ma veniva scelto dal carpentiere battendo il tronco ancora intero, per mantenere l’efficacia del collegamento era consuetudine inserire un angolare di ferro oppure una mensola di legno, dato che travi e montanti venivano costruiti abbastanza larghi da ricevere un collegamento ad incastro (fig. 16). L’assito del solaio è inserito con una calettatura nelle travi, decorate a smusso, e su di esse viene steso uno strato di argilla ricoperto con piccole piastrelle di cotto (fig. 17). La decorazione della testa delle travi portanti e delle travi orizzontali trasversali mostrano forme semplici, tipiche del periodo. Il parapetto di legno della finestra è collegato ad incastro nel montante secondario ed è fissato con un chiodo di legno (fig. 18). I cavicchi di legno precedentemente nominati sono piantati con un martello da legno e la formazione del foro non viene eseguita nel mezzo ma vicino al bordo dell’asta, così come il foro nel montante non viene formato nel centro, poiché il legno da cui si ricava il cavicchio non è abbastanza robusto da superare la forza di coesione del nucleo delle fibre longitudinali dei montanti. Il foro nel traverso ed il corrispondente foro nel montante vengono bloccati l’uno contro l’altro con una piccola massa, per mezzo della quale il chiodo della traversa si avvince al montante. Per mantenere intatta la fibra di legno e garantirne la durezza il chiodo viene ricavato per spaccatura e non per taglio. Nella giunzione fra legni posti obliquamente è preferibile ricorrere ad una unione a mezzo legno (fig. 19) piuttosto che al sistema a tenone e mortisa (fig. 20), in quanto la pressione del vento aumenta la flessione della cornice di testa causando facilmente la fuoriuscita del cavicchio; è il chiodo ligneo, infatti, che deve rispondere da solo alle sollecitazioni di trazione ed il cavicchio è generalmente troppo piccolo per non avere tolleranze significative nel foro. Il collegamento a mezzo legno, invece, fornisce una notevole sicurezza, sia perché l’aggancio del dente migliora la sua stabilità, sia perché l’esecuzione ermetica del collegamento è maggiormente controllabile di quella del sistema a tenone e mortisa. L’esigenza di creare una partizione nei grandi riquadri di facciata delimitati dai pilastri e dalle traverse ha indotto a creare una croce lignea costituita da un montante e da due traversi, tutti di legno debole (fig. 21). Le pareti esterne sono completate inserendo un graticcio di

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vimini sul quale viene spalmata argilla impastata con paglia ed uno strato finale di intonaco in malta di calce dello spessore di almeno 1215 mm. (fig. 22). Questo sistema di tamponamento avviene secondo un’antica tradizione sassone: il graticcio è costituito da bastoni spaccati (e non tagliati), inseriti nelle scanalature lasciate nelle traverse, ed intrecciati con vimini assecondando l’ondulazione della loro piegatura naturale. Il successivo riempimento, costituito da un impasto di argilla e paglia e posto in opera spalmandolo sia dall’interno che dall’esterno, rimane arretrato di circa 15 mm. rispetto alla superficie della struttura lignea, in modo che l’intonaco, inserito successivamente, rimanga solidale con la struttura stessa (figg. 23 e 24). Nel Nord della Germania i riempimenti delle pareti venivano spesso realizzati con laterizi, materiale molto diffuso in quelle zone, mentre nelle aree nord-occidentali venivano impiegati anche frammenti di pietra naturale. Le pareti laterali sono irrigidite mettendo all’esterno tavole di legno forte di 6 cm. di spessore, disposte in foglio trasversalmente ai montanti ed alla superficie intelaiata, e collegate con precisione (fig. 25). Le tavole non rimangono in vista e quindi non si presenta alcuna elaborazione formale sui fianchi dell’edificio che si inoltrano nel vicolo laterale, di solito angusto: deborda solamente il gocciolatoio del tetto. Poiché le tavole venivano aggiunte in un secondo tempo, si poteva prevedere di usare il cavicchio di buona qualità solo da una parte, mentre dall’altra parte si poteva mettere solo un cavicchio più piccolo, poiché il chiodo ligneo doveva essere “cacciato dentro” con forza e la struttura principale lignea non poteva accogliere ulteriormente la grossezza di un normale cavicchio. Nel periodo gotico primitivo cominciano a diffondersi le decorazioni sull’intonaco: si traccia, raschiando l’intonaco, un modello che ha generalmente origine nei tempi passati ma che può essere riproposto ancora oggi per la sua originalità. La malta di calce dopo un primo rinzaffo viene resa ruvida passandoci sopra con un piccolo ramoscello e su questa superficie scabra viene inciso il contorno del disegno, non di rado un viticcio, con un coltello; infine viene modellato il fregio stesso con segno netto e a superficie levigata, seguendo il bordo tracciato in precedenza. A superfi-

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cie ancora umida vengono colorati di bianco il bordo tratteggiato e liscio della superficie ed il fregio, mentre il fondo ruvido restante riceve un qualche colore naturale scuro proprio del modello. Può anche succedere, all’opposto, che il fondo sia liscio e che il fregio rimanga ruvido. 6. Il periodo tardogotico dal XV alla prima metà del XVI secolo La pianta della casa è generalmente a forma di semplice rettangolo, anche se in taluni casi si rilevano angoli obliqui o piante articolate. In questi casi la parete divisoria posta tra la costruzione principale e le pertinenze è sempre interamente realizzata con cornici intelaiate e traverse per impedire una deformazione della struttura di base. Le travi vengono poste ad una distanza minima di un metro e superano luci di cinque metri, mentre in caso di larghezze maggiori della casa l’impalcato viene rinforzato con travi di sostegno o con travi portanti, a loro volta sostenute da puntelli intermedi (fig. 26). Anche le pareti laterali, oltre a quella anteriore principale, vengono fatte debordare dal perimetro di base, per cui si rende necessario lasciare in direzione longitudinale una trave che ha il compito di sostenere la parete esterna ad essa parallela collegandola ad una o più travi trasversali di ancoraggio e di supporto per la parete stessa. Tale ancoraggio non è però sufficiente per sorreggere il frontone sull’angolo, per cui viene ordita una trave portante a punta ancorata alla trave diagonale più vicina, la cosiddetta trave di scambio (fig. 27). L’edificio è dunque costruito da una struttura autoirrigidente nella quale le pareti interne non hanno mai importanza strutturale, e quindi possono essere installate o spostate secondo le necessità contingenti. Dal XV secolo in poi il vecchio principio costruttivo di impiegare colonne a tutt’altezza viene abbandonato e ad ogni piano si erigono nuovi pilastri. Fanno eccezione gli edifici nei quali la sala occupa due piani: in questo caso si possono avere due soluzioni distinte facilmente individuabili in sezione. Nel caso in cui il primo piano sia già sovraedificato, le colonne delle campate laterali sono collegate con opportuni cavicchi alle colonne portanti della sala per mezzo di travature inchiavardate S (fig. 28), mentre qualora sopra il primo piano non si sia an-

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cora costruito, la tecnica costruttiva segue l’impostazione vista nel caso dell’edificio protogotico. All’esterno risulta evidente la diversa impostazione delle due soluzioni: nel primo caso, le colonne della sala si innalzano per due piani, mentre nelle campate laterali i due piani sono manifestamente autonomi (fig. 29); nel secondo caso, invece, le colonne attraversano due piani e questo fatto è rimarcato dagli spinotti delle travi inchiavardate, cioè delle travi che passano attraverso le colonne portanti e vengono fissate in testa con una zeppa, rendendo in questo modo portante anche tutta la travatura (fig. 30). La calettatura di questi piani intermedi doveva essere particolarmente efficace per impedire la deformazione delle pareti, le quali venivano rinforzate da tutt’e due le parti della sala con un incastro. Tale costruzione riecheggia l’antica casa contadina sassone. La travatura portante dei piani superiori nel XV secolo sporge di circa 50 cm., e questo notevole aggetto delle travi necessita di un sostegno che viene realizzato con mensole della stessa larghezza della trave e del montante e ad essi unite con cavicchi. L’intima unione della struttura viene inoltre garantita attraverso cavicchi di legno che collegano le travi trasversali continue S alle travi portanti in aggetto, e queste, a loro volta, all’intelaiatura R. Ulteriore collegamento fra questi elementi costruttivi viene realizzato con un legno pieno F, posto trasversalmente, che alloggia in una scanalatura della trave principale (fig. 31). Le teste delle travi sono sagomate in modo più o meno articolato e spesso sono finemente decorate sugli spigoli (fig. 32). Anche i bordi delle travi trasversali e le mensole presentano una grande varietà di soluzioni ornamentali, non di rado figurate (fig. 33). Nelle abitazioni più antiche risulta interessante il sistema di isolare la parte di pavimento aggettante: sull’assito, realizzato con tavole di legno forte, viene steso uno strato di argilla ricoperto a sua volta con tavelle di cotto (fig. 34). Il riempimento dello spazio compreso fra il pavimento e l’intelaiatura lignea portante si realizza o con argilla compresa fra due strati di assicelle, successivamente intonacate all’esterno, oppure con muratura di laterizi. L’angolo sporgente dell’edificio viene costruito con una struttura più complessa dei casi precedenti: esso è formato con una trave ad incastro G collegata con cavicchi ad una piccola trave ripartitrice W, a sua volta unita, sempre con cavicchi, ad una trave principale longitu-

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dinale ed a una secondaria, corta e posta trasversalmente. Alla trave W sono collegate due corte travi ad incastro K che distribuiscono lo spazio intermedio posto tra l’angolo e la trave successiva (fig. 35). Il montante d’angolo è fabbricato in legno forte e la sua base si incastra sulle due travi più esterne poste perpendicolarmente. Una seconda soluzione asimmetrica dell’angolo si ottiene sovrapponendo tre livelli successivi: nel primo sono posizionate la intelaiatura R, le travi ad incastro S e le travi di sostegno T; nel secondo si trovano le travi portanti B che sono il corrispondente delle travi orizzontali della facciata laterale; il terzo livello è occupato dalla trave orizzontale S1 della facciata anteriore (fig. 36). La parete è suddivisa da un parapetto di legno sagomato, sopra il quale si innalzano le finestre occupanti una larghezza pari al modulo della cornice che è generalmente di 80-90 cm. Talvolta le finestre sono raggruppate in due, tre o più e nelle strade anguste la parete modulare viene risolta con una fila continua di aperture come nelle cosiddette case-lanterna (fig. 37). Durante la costruzione delle pareti, oltre alla tessitura orizzontale e verticale della struttura portante, vengono posizionate anche delle diagonali per evitare deformazioni. Si riscontrano tre tipi di controvento: uno che si ferma al parapetto, uno che si estende per tutta l’altezza del piano ed un tipo misto derivante dalla composizione dei due precedenti. Quando la controventatura è limitata alla cornice inferiore del parapetto, un modo semplice per ottenere un irrigidimento efficace è quello di mettere due traverse per ogni campata in modo che abbiano due estremità contro il parapetto e le altre due poste inferiormente a contatto fra loro (fig. 38). All’incontro fra le traverse viene lasciato un solo buco per il cavicchio e non due, separati da una nervatura, in quanto l’ultimo ad essere inserito rischia di venire strappato via. Il parapetto, a sua volta, può essere incastrato nelle colonne e nei traversi, oppure incavicchiato. Altri due modi ancora più semplici di controventare la struttura sono quelli riportati in fig. 39, anche se si trovano esempi di impiego di forme più rigide a croce di S. Andrea (fig. 40) con la sovrapposizione incrociata di traversi oppure addirittura con una croce di S. Andrea sovrapposta ad una disposizione a rombo (fig. 41). I traversi di controventatura hanno lo stesso spessore della parete (cm. 18 circa) e talvolta presentano profili sagomati. I controventi a

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tutt’altezza sono limitati nelle colonne d’angolo ed in quelle di unione, sulle quali si appoggiano le travi principali, in quanto i montanti di unione vengono scelti più robusti di quelli intermedi (figg. 42, 43). Il controvento d’angolo è sempre rivolto verso l’esterno in modo da rinforzare la colonna e quanto più la sua inclinazione è marcata, tanto più efficace risulta la sua azione di irrigidimento, al punto che spesso si è preferito spingere il traverso fino alla base della colonna più vicina. Al di sopra del punto di contatto della traversa è disposto di frequente una seconda traversa, ad esempio inserita fra il controvento ed il telaio, che contribuisce ad impedire la deformazione del montante (fig. 44). La traversa corta viene usualmente decorata scolpendovi sopra una piccola figura geometrica. La tipica figura realizzata della forma della controventatura a tutt’altezza è chiamata “l’uomo”. Il legno impiegato per formare i traversi di irrigidimento è poco pregiato, in quanto si utilizza della quercia, che spesso presenta fusti ricurvi, la parte meno interessate per le strutture portanti. Un’altra forma di controventamento viene realizzata in tempi successivi con la modifica di una traversa a crociera, che viene ad occupare tutta la cornice: poiché il riquadro in questo caso risulta molto grande, la crociera viene spesso interrotta sia con semplici travette orizzontali che si incrociano con essa, sia combinandola con una forma romboidale di un’altra partizione (fig. 45). In questo caso il parapetto non appare, perché esso disturberebbe la figura così sorta del riquadro d’angolo, né sarebbe possibile tecnicamente, sovrapporre tre strati di legno. Il continuo ampliamento dei piani dell’abitazione che si è verificato nel tempo ha imposto un ingrandimento del tetto a due falde, a causa della necessità di disporre di spazi di servizio sempre più ampi: anche il timpano, quindi, acquista in imponenza arricchendo i prospetti delle case. Il solaio di copertura della casa borghese è regolarmente un solaio a travi scanalate, cioè a travi che realizzano un incastro con le travature del tetto, e non sono collegate solo con cavicchi, poiché questi rischiano nel tempo di essere espulsi (fig. 48). I solai a travi scanalate vengono coperti con assito e suddividono lo spazio del tetto in diversi piani utilizzabili come magazzini.

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Quando il peso utile diventa molto oneroso, le travi del compluvio devono essere rinforzate con arcarecci che a loro volta vengono sostenute dal cavalletto del tetto, che può essere di tipo inclinato o verticale. Con struttura inclinata di copertura si intende il caso in cui la funzione portante è assolta dal cavalletto formato dalle travi inclinate secondo le falde del tetto (fig. 46), mentre nella cosiddetta struttura verticale di copertura il peso del tetto grava su una serie di portali sovrapposti i cui montanti sono la prosecuzione dei montanti principali dell’edificio e le cui traverse orizzontali scandiscono la successione dei piani contenuti nel sottotetto (fig. 47). Nel primo caso il cavalletto si evidenzia contro la parete del timpano e gli spazi interni sono completamente liberi da strutture, e quindi interamente utilizzabili; nel secondo caso, invece, la struttura portante si mostra nella sua rigida scansione, che si ripete anche all’interno in corrispondenza dei piani paralleli in cui sono contenuti i montanti e che quindi suddivide inevitabilmente il vano interno, rendendolo un po’ meno sfruttabile. Nel caso della struttura inclinata di copertura le terzere nei timpani lisci con pendenze ripide sono visibili, un po’ sporgenti sulla facciata e si collegano con cavicchi ai montanti. Talora per sostengo delle terzere della parte posteriore, oltre all’incavigliatura, viene aggiunta una cornice di testa. In questo caso il montante mediano viene proseguito in un pezzo unico fino alla sommità del frontone. Quando invece anche i timpani sono sporgenti i piani del tetto debordano di regola per non più di 20 cm., mentre, come detto in precedenza, gli aggetti dei vari piani della casa sono di circa 50 cm. Nel XII secolo i tetti a due spioventi vengono mantenuti abbastanza piatti con una inclinazione sull’orizzontale di circa 45°, ma già all’inizio del XIV secolo i tetti vengono costruiti più ripidi di circa 60° e talvolta anche di più, mentre solo nel XVIII secolo tornano ad avere una pendenza più contenuta. 7. La casa rinascimentale sassone Lo stile rinascimentale nell’Europa del Nord si diffonde solo nel XVI secolo, ma nell’architettura delle case in legno l’influsso è limi-

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tato ad aspetti decorativi, mentre la tipologia e la tecnologia costruttiva rimangono fondamentalmente gotiche. Dal punto di vista costruttivo si sviluppano in particolare due innovazioni che già avevano incominciato ad apparire nel tardo-gotico: l’incastro al posto dei cavicchi e la disposizione di legno pieno nelle pareti esterne al posto delle tavole. Le travi principali vengono incastrate nel telaio per mezzo di un dente che ne impedisce il movimento: il dente della testa delle travi su cui si regge la traversa ha la forma di coda di rondine per impedirne lo slittamento ed inoltre non viene ricavato sulla metà della testa della trave, per ottenere un falso spigolo facilmente rimovibile (fig. 50). L’impiego del legno pieno per il tamponamento esterno al posto delle tavole diventa una soluzione praticabile se viene diminuito il peso della facciata, e per questo motivo la misura corrente dell’aggetto nel Rinascimento viene contenuta in circa 30 cm. L’unione fra legno pieno e travi è realizzato per mezzo di una guida a risega che va ad inserirsi in una scanalatura ricavata nel fianco delle travi (fig. 51). Le teste delle travi semplici mantengono forme gotiche mentre nelle travi più decorate il rinnovamento delle forme passa attraverso la modificazione dei profili tradizionali che possono essere di tre tipi, ad arco, a toro ed a scanalatura sagomata, ma che spesso vengono scolpite con una punta a quattro facce. Anche le travi orizzontali sono ornate con ricche decorazioni spesso abbinate alle forme riportate sulle mensole esterne, mentre i pilastri presentano talvolta motivi ornamentali autonomi (fig. 49). Caratteristiche dei primi anni del periodo rinascimentale è la formazione del parapetto sul quale viene riportato un profilo piallato che continua sopra i montanti. Nel caso in cui la trave del davanzale delle finestre sia posta più in basso dei corrispondenti parapetti sulla parete piena, il profilo piallato ne segue l’andamento (fig. 52). Le controventature vengono realizzate come nel periodo gotico, ma spesso le forme dei traversi sono arcuate. Anche il profilo delle finestre rimane gotico, mentre l’amore per l’ornamento tipicamente rinascimentale e la padronanza formale dell’insieme porta ad usare tavolati intagliati o ad inserire nei riquadri pieni rosette e formelle riccamente decorate.

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8. La casa in legno sassone del barocco e del XVIII secolo Nel periodo barocco si ha un progressivo impoverimento dell’arte di costruire con il legno. La devastazione di molti boschi di querce avvenuta durante la guerra dei trent’anni impone l’impiego di legno più debole, e questo fatto ha grande influenza sulla tecnica costruttiva: viene ridotta la luce delle travi principali, che passa dai 5-5,5 m. del periodo gotico ai 3-4 m. attuali, dal momento che non può essere diminuito il sovraccarico utile; si incominciano ad abbandonare i profili piallati dei parapetti, a tralasciare le decorazioni delle finestre, ad escludere il tamponamento di legno pieno, a diminuire l’aggetto dell’ossatura portante, che nel XVII secolo si riduce a 15 cm., tanto che non sono più necessarie le mensole sottostanti (fig. 53). L’impoverimento della struttura portante è così marcato che per le ossature in legno spesso vengono impiegate travi che non mantengono gli spigoli squadrati per tutta la loro lunghezza fino dopo il collegamento a cavicchio, e che necessitano della formazione di una sella per ottenere una superficie regolare nell’appoggio sull’intelaiatura pur se questo artificio diminuisce l’altezza della testa delle travi. L’economia sulla struttura lignea giunge al punto che le travi orizzontali vengono appoggiate direttamente sul montante evitando ogni impiego superfluo di legno, e viene reintrodotta di nuovo la vecchia tecnica dell’incavigliatura, in quanto la ridotta sezione delle travi non può sopportare nessun altro indebolimento attraverso incastri e dentature, mentre sul collarino delle travi orizzontali si riportano decorazioni economiche e possibilmente piene di effetto (fig. 49). Con la diffusione del classicismo si incomincia a considerare meno nobili le facciate lignee e si afferma la tendenza ad intonacare le vecchie forme, ricoprendo la superficie intonacata con disegni di pietra squadrata ed antichi modelli figurati.

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Bibliografia Schaefer Carl, “Die Holzarchitektur von XIV bis XVIII Jahrhundert”, Berlin, 1889. Wasmuth Erns, “Die Holzarchitektur Deutschlands vom XIV-XVIII Jahrhudert”, Berlin 1896. Schaefer Carl, “Ein altes Denkmal der Holzbaukunst. Zentralblatt der Bauverwaltung”, Berlin, 1903. Wege Gustav, “Der gotische Fachwerksbau in Halberstadt”, Berlin, 1913. Lempp Rudolf, “Das alte Rathaus in Esslinger”, Esslinger a.M., 1926. Schaefer Carl, “Deutsche Holzbaukunst”, Dresden, 1937.

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Appunti sull’impiego del legno nelle costruzioni navali tra antichità e medioevo Marco Bonino

La poesia ellenistica, nel suo indulgere sugli oggetti, ha in varie riprese considerato il materiale per la costruzione delle navi come se avesse una doppia esistenza: quella dell’albero sui monti e quella della tavola in opera. Due esempi sono illuminanti. Apollonio Rodio cita a più riprese il legname per la costruire le navi, al momento dell’abbattimento, durante la sua raccolta ed in cantiere ed attribuisce ad Atena stessa il compito di sovrintendere al taglio del legname per costruire la nave Argo1. Con l’artificio della tavola parlante Apollonio dà al materiale una nuova esistenza, che nasce dopo la posa in opera e riassume in sé la vita della nave2. Catullo supera la pedanteria di Apollonio ed immagina che la tavola di legno dello scafo abbia conservato in sé la forza del vento che a suo tempo faceva mormorare le cime degli alberi e l’abbia trasferita alla carena rendendola più reattiva alle sollecitazioni3. Queste sarebbero solo immagini poetiche, se non considerassimo come la parola “legno” abbia identificato in modo particolare l’intera costruzione, e cioè la barca o la nave, ancora quando il legno era materia prima del tutto generale anche per l’edilizia o per gli strumenti di lavoro4. Quindi una considerazione che ha una base quasi animistica, ma soprattutto una rispondenza pratica di esigenze e caratteristiche specifiche per le costruzioni navali. Le Argonautiche, I, 109-111; I, 1003-1005; soprattutto II, 1187-1189. Le Argonautiche, I, 526-527; IV, 580-586. 3 Phaselus ille quem videtis hospites vv. 3-5, 13-15. 4 Dante, Purg. XXX, 58-60; Par. II, 1-4. 1 2

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Al di là del fatto poetico o di una particolare considerazione nei riguardi del legno, è utile riprendere alcuni aspetti dell’uso del legname per costruire barche e navi, perché costituiscono un corollario importante per le tecniche costruttive. Quanto qui riportato è basato sulle osservazioni da parte del tecnico più che del botanico, di fronte ad una statistica non molto ampia per l’età antica ed ancor meno per quella medioevale: le ricerche future potranno ampliare e correggere questi argomenti. Costruzioni arcaiche La documentazione in nostro possesso sull’impiego del legno nelle costruzioni navali mostra che dal Neolitico è maturata una conoscenza approfondita delle caratteristiche tecniche dei vari tipi di legnami e del modo di lavorarli; l’abbondante disponibilità non ha costretto ad operare scelte specifiche molto diversificate, perciò nei siti preistorici abbiamo una predominanza di legno di quercia, apprezzato per la compattezza e la resistenza in condizioni di alta umidità5. Un segno di questa situazione è forse dato dalla scelta del legname nelle costruzioni navali arcaiche, in cui la monospecie appare predominante. Il caso dell’Egitto può essere molto specifico, ma anche lì troviamo costruzioni monospecie, sia di legname autoctono, che di legname importato, a partire dall’acacia ricordata da Erodoto6, dalla stele di Palermo7, e dai modelli del Medio Regno fino al cedro delle imbarcazioni di Cheope e di Sesostri, ed ai modelli del Nuovo Regno8. In ambedue i casi le condizioni dell’Egitto hanno giocato un ruolo determinante: localmente non vi erano essenze diverse dall’acacia che fossero utili per la costruzione di barche, anche se con forti limitazioni per le dimensioni delle tavole utilizzabili. Quando iniziò l’importazione di le-

5 Un esempio dell’età del bronzo: L. Simone, 1996, La palafita dei Lagazzi, in “Bollettino di archeologia subacquea”, N. 3, Roma, pp. 11-14. 6 Hist. II, 96. 7 Ch. Boreux, 1925, Etudes de nautique egyptienne,Il Cairo, p. 120, B. Landström, 1970, Ships of the Pharaos, Newton Abbot, n. 80, pag. 26. e nota 2. 8 B. Landström, 1970, Ships of the Pharaos cit; Ch. Boreux, Etudes, cit. 1925; R. Steffy, 1994, Wooden ship building and the interpretation of shipwrecks,Texas A& M, pp. 23-36.

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gname dal Libano per le costruzioni di pregio si ricadde nella monospecie, date le buone caratteristiche del cedro, ma d’altra parte si mantenne la tecnica costruttiva sviluppatasi con l’impiego di legname corto, appunto l’acacia, perché con essa si utilizzava al massimo il legname importato, anche gli sfridi, perché il cedro non era disponibile indefinitamente e doveva avere un costo rilevante. L’impiego di una sola specie per tutte le parti dell’imbarcazione non fu proprio solo dell’Egitto. I ritrovamenti di sutiles naves di epoche tra il VI secolo a.C. ed il I d.C. hanno mostrato costruzioni interamente di quercia e questo è stato messo in relazione con le caratteristiche di tenacia e di resistenza alle screpolature, che era necessaria per la serie di fori praticati al bordo delle tavole da cucire. Ma il relitto di Gela, fatto interamente di pino9, fa riconsiderare questa spiegazione e propone invece una scelta di una uniformità legata sì alla disponibilità di legname, ma anche ad una forte tradizione costruttiva, che comunque faceva ritenere inutile diversificare i tipi di legname per le diverse parti strutturali dell’imbarcazione, una volta che il guscio, la parte portante dello scafo, fosse stato eseguito. Le strutture interne tra l’altro non avevano uno stretto contatto con il guscio, soprattutto negli esemplari più antichi (VI secolo: Bon Porté, Giglio, Marsiglia), ma mantenevano la sezione poligonale e tonda che era adatta alle legature. Esemplari più recenti di sutiles naves avevano invece le strutture interne a sezione rettangolare (Comacchio, Cervia), simile a quella delle imbarcazioni più evolute. Ma a Comacchio troviamo un modo caratteristico di tagliare il legname per farne le strutture interne: i madieri del fondo sono tagliati da tavole, anche nelle parti estreme che ne iniziano la curvatura, mentre gli staminali delle fiancate sono ricavati, come ci aspetteremmo, da stortame naturale10. I madieri così tagliati mostrano due aspetti: una discreta disponibilità di legname, dato l’evidente spreco che il ricavare forme curve da tavoloni compor-

9 P. Pomey, 1981, L’épave de Bon Porté et les bateaux cousus, in «The Mariner’s Mirror», V. 63, pp.225-251; P. Pomey 2001, in “Tropis”, VI, Atene, pp. 425-437; C. Beltrame, 1996,, La sutilis navis del Lido di Venezia, in Navalia, archeologia e storia, Savona, pp. 31-53; R. Panvini, 2001, Il relitto greco-arcaico di Gela, Caltanissetta.p. 13 sgg. 10 M. Bonino, Tecnica costrutiva e architettura navale, proposte per la ricostruzione, in F. Berti (curatrice), Fortuna maris, la nave romana di Comacchio, Bologna 1990, pp. 35-42

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ta, e una scarsa considerazione per la robustezza delle stesse parti curve del madiere. La resistenza delle strutture era quindi distribuita sul fondo piatto e sulle fiancate senza che ci fosse stato un collegamento molto robusto tra le due parti. Pare che la diversificazione delle essenze sia comparsa quando al posto della legature delle sutiles naves si posero le biette fermate da cavicchi, questo avvenne per gradi a partire almeno dal XIV Sec. a.C11. ma si diffuse con generalità nel Mediterraneo tra il VI ed il V secolo a.C. Riguardo all’attrezzatura disponibile in età arcaica per le costruzioni navali, superando lo stadio neolitico, troviamo asce e scuri (con taglio parallelo trasversale rispetto all’impugnatura), scalpelli, seghe e seghetti, documentati dal contenuto di stipi rinvenuti ad esempio in Sardegna e nel Bolognese12. Il trapano aveva una punta piuttosto grossa che tendeva a scheggiare la tavola e funzionava ad archetto; miglioramenti delle tecniche d’intaglio del legno, con scalpelli a lama stretta e trapani con la punta più affilata che non scheggiava il legno e poi la sega a telaio e la pialla furono apporti dell’età classica. In ambito arcaico l’attrezzatura più usata era l’ascia ed il trapano, come ci dice anche Omero13, ma è chiaro dai relitti più antichi di sutiles naves che con scalpelli venivano praticati gli inviti e le finiture per i fori per le cuciture. Certamente si usavano strumenti geometrici come il cordino, la riga, la squadra ed il punteruolo, con cui si tracciava la posizione delle ordinate all’interno del guscio (Marsiglia, Place Jules Verne). Costruzioni classiche I tipi di legnami citati dal Torr14 sulla base delle fonti letterarie hanno avuto una sostanziale conferma dall’archeologia, che ha mo-

11 Relitto di Ulu Burun, notizia in R. Steffy, 1994, Wooden ship building, cit. p. 36-37. 12 F. Lo Schiavo, 1997 L’albero, il legno, gli strumenti per la lavorazione in età nuragica, in VII settimana della cultura scientifica, Sassari, pp. 83-86; M. Cristofani (curatore), 1985, Civiltà degli Etruschi, catalogo della Mostra, Firenze, pp. 73-75. 13 Odissea, V, 240 sgg. 14 C. Torr, 1964, Ancient ships, ristampa, Chicago, p. 31 sgg,; P. A. Gianfrotta-P. Pomey, 1980, Archeologia subacquea, Milano, pp. 268-271.; C. Meucci, 1993, Il re-

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strato un uso più ampio della quercia, uno minore del faggio ed una maggiore molteplicità di specie e del resto, come diceva lo stesso Torr, si spazia tra epoche e situazioni geografiche diverse. Innanzi tutto si riconoscono alcune specie di pregio usate per parti che richiedevano particolare attenzione per la robustezza e la durata e che si distinguevano da legni più economici e dalle prestazioni inferiori. Tra le specie pregiate vi erano la quercia, il leccio, l’olmo, il cipresso, il pino d’Aleppo, il larice, l’abete, il pino silvestre il noce, il faggio, il frassino e il cedro, a volte il gelso; tra le specie meno pregiate abbiamo il pioppo, il platano, il tiglio, l’abete ed il pino in tagli di seconda scelta, il pino marittimo e l’ulivo. La scelta di una specie sola per guscio e strutture continuò ad essere praticata con continuità ed i numerosi ritrovamenti documentano sia l’uso di legni resinosi che di latifoglie (olmo, quercia). Quest’ultimo pare sia stato meno comune in Italia in età romana e quanto Cesare ci dice sulle navi dei Veneti rivela amore per la cronaca, ma fors’anche una certa meraviglia15. È una conferma di come al di là delle Alpi le costruzioni tutte di quercia fossero consolidate nella tradizione che chiamiamo celtica e poi nordica, dalla barca di Lubiana, di Neuchâtel, fino a quelle di Zwammerdam, di Bruges e di Londra16 e poi lungo tutta l’evoluzione che porterà alle navi vichinghe ed alle tradizioni scandinave recenti. I ritrovamenti lungo il Reno ed il Danubio suggeriscono che dove l’influenza romana era maggiore si poteva usare legno resinoso per il fasciame (Oberstimm)17. litto di Torre Flavia a Ladispoli, in “Bollettino di archeologia subacquea”, a. I, Roma, pp. 17-67; P. Sibella, 1999, La Giraglia dolia shipwreck, Corsica, France, Ist Cent. A.D. “Archeologia delle Acque” a. 1, N.2, Forlì, pp. 39-52; R. Meiggs, 1983, Trees and timber in the ancient world, Oxford University Press. 15 De Bello Gallico, III, 10 sgg. 16 B. Arnold, 1975, The Gallo. Roman boat from the bay of Bavaix, Lake of Neuchatel, Switzerland, in “The International Journal of Nautical Archaeology”, n. 4, London, pp. 123-126.; G. Salemke, 1973, Die Ausgrabung eines Binnensee Transoprtsschiffes, Schiffsarchaeologie von 1890 aus Laibach, in “Das Logbuch”, N. 9, 1, Brema, pp. 21-24; D. Ellmers, 1978, Shippig on the Rhine during the Roman period: the pictorial evidence, in “Council for British Archaeology, Research Report” N. 24, Londra, pp. 1-11; P. Marsden, 1996, Classical Mediterranean shipbuilding outside the Mediterranean, in “Tropis”, IV, Atene, pp. 297-310. 17 B. Pferdehirt, 1995, Das Museum für antiche Schiffahrt, Mainz p. 7; O Höckmann, 1990, Roman Danube vessel from Oberstimm, Germany, in “Tropis”, II, Atene, pp. 215-223.

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Nell’area mediterranea per le strutture si preferisce il legno di quercia o legni simili (olmo, leccio) e per il fasciame legni resinosi (larice, pino), ma vediamo anche che la barca della Luque B era fatta tutta di larice e quella della Borsa di Marsiglia era fatta con fasciame di larice e di pino e le strutture anch’esse di pino La barca di Monfalcone, aveva le ordinate di noce, forse una raffinatezza, ma non molto rara18. Le biette che cucivano il guscio di fasciame erano di quercia o di faggio, i cavicchi di quercia verde, di bosso, di faggio, il gelso o perfino di ulivo Quando poi si è trattato di eseguire delle riparazioni alle strutture, ecco che la varietà di tipi di legname diventa ancora più ampia, anche quando le strutture originarie erano di legno più adatto quali la quercia o l’olmo. A complicare il quadro vediamo che il relitto di St. Gervais III aveva le strutture fatte con non meno di otto tipi di legni e la barca a remi C di Pisa S. Rossore con cinque, tra cui il fico, che riteniamo quanto mai inadatto per le strutture19. La nave grande di Fiumicino ha una scritta TRITVTA che pare accennare alla sua costruzione usando materiale di recupero20 e la cosa è in accordo con l’eterogeneità dei materiali a cui si accennava prima. È quindi una situazione molto articolata di cui comunque si può ritrovare un filo logico. Oltre agli utilizzi generali per strutture e fasciame accennati prima, l’analisi accurata da parte dei ricercatori francesi sui relitti rinvenuti in Provenza21 ha sottolineato come il guscio portante abbia avuto un ruolo determinante nella scelta di legname, in genere pregiato, diversamente dalle strutture interne, la cui scelta appare eterogenea e meno curata. Ma si può andare oltre: in alcuni casi è possi18 J.M.Gassend, 1982, Le navire antique du Lacydon, Marsiglia; L. Bertacchi, 1975, Rinvenimento di un’imbarcazione romana a Monfalcone e suo trasporto ad Aquileia, in «Aquileia Chiama», a. XXII, giugno 1975, pp. 6-10. 19 F. Guibal, P. Pomey, 1998, L’utilisation du matériau-bois dans la construction navale antique: analyse anatomoque et dendrochronologique, in «Meditérranée antique: pèche, navigation, commerce» Paris, ed. CTHS, pp. 159-175; G, Giachi, S. Lazzeri, S. Paci, 2000, Il legno usato per la costruzione delle imbarcazioni: indagini preliminari, in S. Bruni (curatore), Le navi antiche del porto di Pisa, Pisa. pp. 80-86. 20 V. Scrinari, 1979, Le navi del porto di Claudio, Roma, p. 37, inv. 37797; G. Boetto, 2000, The late Roman Fiumicino I wreck: reconstructing the hull, in IX Int. Symposium on Boat and Ship Archaeology, Venezia, atti in corso di preparazione. 21 F. Guibal, P. Pomey, 1998, L’utilisation du matériau-bois cit.

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bile riconoscere le fasi costruttive del guscio e notare una diversa importanza progettuale delle strutture interne di uno stesso scafo, a seconda del tipo di legname impiegato. A: spicchi longitudinali attorno alla chiglia (Fig. 1) La nave della Borsa di Marsiglia ha il guscio costruito in almeno quattro fasi: la posa della chiglia con le ruote alle estremità, il primo spicchio del guscio attorno ad essa e poi il secondo ed il terzo, identificabili dalla direzione da cui sono stati piantati i cavicchi, alternativamente da fuori e da dentro; queste fasi corrispondevano anche all’inserimento delle parti di strutture interne che man mano si completavano dopo la crescita del guscio. Vediamo che furono prese in considerazione le esigenze di resistenza dei singoli spicchi: prima il larice ed il cipresso, poi il pino e poi il pino silvestre. Evidentemente si tese a rendere più robusta la parte inferiore dello scafo (larice e cipresso) e quella più vicina alle cinte (pino silvestre), lasciando lo spazio intermedio ad un’essenza meno robusta (pino). È il concetto che abbiamo notato a Comacchio, con la resistenza del guscio concentrata sul fondo e sulla parte alta della fiancata. Se consideriamo il taglio delle tavole che compongono il guscio, esse ovviamente seguivano la forma degli spicchi secondo lo schema della fig. 1, ma anche la loro giunzione di testa seguiva uno schema ricalcato sulle sezioni di riferimento usate per determinare la forma dello spicchio e di tutto lo scafo. Così a Fiumicino i giunti di testa delle tavole del primo spicchio corrispondono all’ordinata di riferimento delle estremità22; è forse un passo verso una diversa concezione delle parti portanti o delle fasi di montaggio, ma è comunque chiaro che la scelta ed il taglio del legname sono stati fortemente influenzati da questi concetti. B: strutture interne della parte centrale e delle estremità (Fig. 2) La molteplicità di specie usate per le strutture interne dipende spesso da riparazioni e tiene conto della funzione della struttura specifica all’interno del sistema, che generalmente consideriamo omogeneo. Così la nave di Pisa del II Sec. a.C. e poi la nave grande di Fiumicino ed in parte quella della Borsa di Marsiglia hanno ben differen22 M. Bonino, 1989, Notes on the architecture of some Roman ships: Nemi and Fiumicino, in “Tropis” I, pp. 37-53.

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ziata la parte centrale tra le sezioni di riferimento da quelle alle estremità. I legni più pregiati sono per le sezioni di riferimento e per la parte centrale, mentre alle estremità abbiamo dei riempitivi per le parti dello scafo per cui non si reputava necessario realizzare strutture molto robuste. Si individuano e confermano in questo modo quali siano stati i punti cruciali per la definizione delle forme geometriche dello scafo e della loro funzione strutturale. Vediamo quindi la quercia al centro e poi l’olmo, e poi verso le estremità frassino, abete, ma anche il pioppo e perfino il fico, come nel relitto C di Pisa. Nella nave grande di Fiumicino troviamo una distribuzione analoga con evidenziata la posizione della sezione ausiliaria23. La scarsa qualità di alcune ordinate conferma che la cura maggiore era prestata al guscio esterno e questo è confermato anche dalla presenza di materiale non rifinito usato per le ordinate, come se fossero poste come riempitivo. È il caso della nave di Grado24 e poi ancora della Madrague des Giens, della Borsa di Marsiglia e di Pisa, in cui accanto a ordinate regolarmente a sezione rettangolare troviamo spezzoni che ancora conservano la sezione rotondeggiante del ramo originario e per di più conservano parte dell’alburno e della corteccia. Evidentemente non erano considerate elementi portanti che valesse la pena di lavorare con la cura che metteremmo noi in siffatte strutture. Ma questo non deve far pensare ad approssimazione: si trattava invece di una scelta oculata del materiale adatto alla funzione strutturale, la stessa scelta a cui si sono attenuti i costruttori nel selezionare il tipo di compattezza e di resistenza. Per costruire le parti “nobili” dello scafo si è scelto il legname dalla crescita più lenta e regolare, con gli anelli di crescita molto vicini, inoltre le fibre erano più rettilinee perché gli alberi crescevano in ambienti diversi da quelli attuali, in boschi più fitti, paragonabili a quelli della Sila o tra la Campania ed il Pollino. Troviamo ancora parti curve tagliate da tavole, come si era visto a Comacchio, in vari relitti ritrovati in Provenza, al Titan siamo in condizioni simili, ma alla Chrétienne e alla Madrague des Giens la dispo-

G. Boetto, 2000, The late Roman Fiumicino I wreck, cit. P. Dell’Amico, 2001, La nave romana di Grado, in “Navis”, N. 2, Sottomarina, pp. 36-65. 23 24

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nibilità di materiale non consentiva di eseguire diversamente madieri a doppia curva25. Non ci sono noti i prezzi dei vari tipi di legname, ma dalla eterogeneità e dal taglio appare chiaro come anche anticamente l’elemento costo avesse avuto la sua importanza. Aspetto che dovrà essere discusso ed approfondito in quanto, se da una parte è evidente dalla distanza tra i luoghi di raccolta ed i cantieri (soprattutto per legni come il larice, l’abete ed il pino silvestre), dall’altra non pare che nell’antichità vi sia stata una penuria particolare di legname, almeno nelle nostre zone. Nei racconti di età ellenistica sulle navi eccezionali, come la Syrakosia di Gerone II o la tesserakontera di Tolomeo Filopatore26 si è evidenziata la gran quantità di legname per costruirle o per vararle, si ha comunque l’impressione che queste costruzioni non abbiano causato un disastro ecologico. Per la prima si è reperito il materiale dalle falde dell’Etna, salvo l’immenso albero trasportato dalla Calabria per realizzare l’albero maestro, sono comunque distanze non indifferenti. Le navi di Nemi furono costruite con materiali provenienti dall’Appennino27 e le caratteristiche dendrologiche delle parti mostrano che furono tratte da alberi cresciuti lentamente in ambienti abbastanza ombreggiati da far crescere in altezza anche le querce, cioè in boschi piuttosto fitti, che potevano fornire i materiali alti e rettilinei, con ramificazioni adatte per ricavarne le parti curve delle strutture. Andando avanti con il tempo qualche problema dovette esserci lo si intuisce dall’episodio in cui Teodorico utilizzò la foresta sul Delta del Po per la costruzione dei mille dromoni usati per l’assedio di Ravenna. Mille è molto probabilmente un’esagerazione letteraria, ma il numero fu comunque cospicuo ed un tale prelievo eseguito su terreni privati (ullo obsidente, ma pochi si sarebbero potuti opporre) e sulle proprietà imperiali dovette lasciare radure difficilmente recuperabili28.

Gianfrotta, Pomey, 1980, Archeologia subacquea, Milano, pp. 270-271. Ateneo, Deipnosophistai, V, 206; V, 204. 27 G. Ucelli, 1950, Le navi di Nemi, Roma, pp 143-146 riporta alcune parti di C. Sibilia, 1931, Ricerche botaniche sul legname delle navi di Nemi, in Atti del II Congresso di Studi Romani. 28 Cassiodoro, Variae, VI, 16 sgg. Anche altre operazioni militari provocarono simili guasti, come nel caso dell’assedio di Gerusalemme da parte di Tito, v. Giuseppe Flavio De bello Judaico, V, 6.2. 25 26

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Il medioevo Il fatto evolutivo principale che segna un passaggio tra due epoche diverse per le costruzioni navali in Italia è stato quello dalle costruzioni a guscio portante a quello a scheletro portante, a noi familiare. Tra i vari aspetti che intervengono in questa fase occorre ricordare la metallurgia ove l’uso esteso del carbone ha consentito di mantenere sotto controllo le leghe di ferro meglio che con i bassi fuochi dell’antichità, tanto che l’uso di realizzare con il bronzo particolari di precisione man mano diminuì. Nel campo delle costruzioni navali, gli attrezzi usati per la lavorazione del legno acquistarono definitivamente la forma e le caratteristiche tramandate dalle tradizioni recenti, in cui il filo degli attrezzi da taglio (asce, scalpelli e sgorbie, punte di trapano, pialle) era più resistente di quello che si poteva ottenere con le parti analoghe fucinate in età romana. Il controllo migliore della quantità di carbonio nelle leghe ha avuto il risultato di fornire un materiale più affidabile anche per i chiodi di ferro, per cui non fu più raro trovarli a contatto con l’acqua marina, cosa che nell’antichità si cercava di evitare, preferendo soprattutto il rame. A partire da circa il III secolo d.C. quindi le costruzioni navali cominciarono ad essere gradualmente concepite come uno scheletro rivestito dal fasciame, questo ha comportato una maggiore importanza della struttura interna, sia dal punto di vista geometrico che da quello della robustezza, rispetto a quella che aveva nell’antichità. Si dovette perciò utilizzare il legname in modo più uniforme sia nella scelta, (quercia, olmo) che nella realizzazione delle varie parti, per cui non troveremo più, in generale, la varietà di legni che avevamo visto nelle strutture dell’antichità e scomparvero in generale le essenze resinose dalle strutture, anche se qualche esemplare è sopravvissuto fino alle tradizioni recenti29. Nel relitto di Marsala, del XII secolo, le riparazioni di ordinate originariamente di quercia vennero fatte di olmo, di castagno e di noce30, che sono essenze pregiate, solo il paramezzale è in pioppo, essenza 29 J. Bozanic, 1998, La spedizione del progetto ‘Ars halieutica’, in M. Marzari (curatore) Navi di legno, Grado, pp. 335-342. 30 A. Mariani Ferroni, C. Meucci, 1996, I due relitti arabo-normanni di Marsala, in “Bollettino di archeologia subacquea”, Roma a. II-III, N. 1,2, pp. 283-350 e tavole separate.

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appunto “povera”, ma anche per questo si può ricordare il giudizio del Canale, il quale afferma che il pioppo è utilizzato dove non si doveva scivolare, a differenza, ad esempio del noce, che bagnato, diventa scivoloso. Per la costruzione dei remi nel Rinascimento e fino ad oggi si usò di preferenza il faggio ed il frassino, invece del pino antico e su questo mi piace ricordare un altro passo del Cristoforo Canale il quale è favorevole a continuare ad usare il faggio e l’acero per i remi, ma non vuole contraddire il classicismo del Vettor Fausto, quando propone di usare l’abete od il larice e allora usa la scappatoia di dichiarare questi ultimi adatti per momenti di emergenza31. In generale comunque, pur mantenendo la scelta della quercia o di simili essenze per le strutture, non vi furono regole fisse per le altre parti; documenti veneziani32 e genovesi33 tra il Quattrocento ed il Cinquecento ci parlano di forniture di sola quercia per costruire gli scafi delle galee. La nave di Contarina, la barca di Porto Fuori (circa 1300)34 e di Logonovo (circa 1400)35 confermano questo criterio, con fasciame, strutture e paramezzale di quercia, mentre i dormienti e le cinte sono di pino e di larice e così saranno le barche tradizionali adriatiche come il bragozzo, la paranza, la brazzera, il trabaccolo e lo schiletto dove si privilegia la stabilità e la durata del fasciame. Analogamente le barche del Lario, che hanno forti caratteri bizantini (nav, gondola, combàll), erano completamente di legno di castagno36. Tuttavia la diversificazione tra legno di quercia e legni resinosi che era iniziata nel periodo classico pare consolidarsi nel tempo. Pare, ma è da confermare, che la necessità di una scelta più uniforme per le specie da impiegare sia stata soddisfatta da una maggiore Cristoforo Canale, Della Milizia.Marittima, Venezia 1541, Roma 1930, p. 79 F. C. Lane, 1965,Navires et conbstructeurs à Venise pendant la Renaissance, Paris, p. 204, nota 2. 33 F. Ciciliot, 2001, Della navis Lomellina e del suo carico, in “Navis”, Sottomarina, N. 2, pp. 12-35. 34 M. Bonino, 2000, Una barca medioevale rinvenuta a Porto Fuori, Ravenna, in “Archeologia delle acque”, Forlì, II, N. 4, pp. 48-53. 35 M. Bonino, 1978, Archeologia e tradizione navale tra la Romagna e il Po, Ravenna, p. 64, pp. 72-73. 36 M. Bonino, 1984, La tecnica costruttiva navale romana, esempi e tipi dell’Italia settentrionale, in Plinio, i suoi luoghi, il suo tempo, Soc. Archeologica Comense, Como, pp. 187-226. 31 32

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disponibilità di legno (soprattutto di quercia), non solo per le condizioni ambientali, ma anche per le importazioni. Dal Trecento al Cinquecento cominciarono a stabilirsi condizioni climatiche ed ambientali più simili alle nostre attuali, per cui gli stati marinari dovettero far fronte ad un progressivo rarefarsi delle risorse boschive con ulteriori importazioni e con una politica protezionistica e rigide opzioni su aree boschive specifiche, come il Cadore37 e la Liguria38. Una minore disponibilità del legno per eccellenza, appunto la quercia, ha fatto sì che fosse sostituita, quando tecnicamente possibile, con altre essenze locali, in Italia settentrionale il castagno, il noce, il pesco, il gelso o la robinia, in Italia centro meridionale si preferiva il gelso ed il noce. Alcuni usi locali furono certo più antichi della rarefazione delle querce, data l’ampia disponibilità o la specificità delle parti, come il ginepro per le ordinate dei battèlli comacchiesi e ravennati, o la radice di noce per le forcole. La scomparsa delle monòssili Di queste imbarcazioni si ignora l’origine e la loro scomparsa da noi pare avvenuta senza che abbiano lasciato tracce sensibili nelle imbarcazioni successive39; invece nel Nord Europa l’evoluzione dalla monòssile alle navi vichinghe, tramite aggiunta di tavole del fondo e delle fiancate è ben documentata. Comunque esse erano usate fin dal neolitico ricavandole da un mezzo tronco o da un tronco, generalmente di quercia (a volte olmo o castagno, ma comunque sempre legno a fibra compatta); dopo avere cimato e sgrossato un albero, dall’intero tronco o dalla metà spaccata longitudinalmente; si scolpiva la forma esterna dell’imbarcazione, poi la si scavava esclusivamente con attrezzi da taglio, con un lavoro che poteva durare una settimana al massimo. Tali imbarcazioni risultavano molto leggere e maneggevoli40 ed il principio fu applicato anche a F. Ch. Lane, 1965, Navires et constructeurs, cit. pp. 206, nota 5. Ad esempio, ricordo una grida del 3 giugno 1661: il magistrato dell’Arsenale vieta il taglio di legname nel boschi pubblici, Archivio di Stato di Genova, Camera N. 2742. 39 Vi sono solo accenni strutturali nelle barche dell’Italia centrale interna ed in Dalmazia. 40 Vegezio, De rei militari, III, 7, ripreso da Leone, Tactica, XVII, 13. 37

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galleggianti non agibili per imbarcazioni plurime. I vantaggi in termini di tempo di costruzione e di praticità si scontrano però con il grande spreco di materiale e presto si sono confrontate con le imbarcazioni con tavole e con esse abbiano convissuto per molto tempo. Questa convivenza ha fatto sì che, dall’età del ferro (Bertignano) e poi soprattutto dal Medioevo in poi, le monòssili siano state conformate ad imitazione delle barche di tavole contemporanee, con fondo e fiancate accuratamente piatte o strutture in rilievo scolpite nello stesso blocco di legno41. Lo spreco di materiale però ad un certo punto dovette essere determinante, si riconosce infatti la concomitanza della scomparsa della monòssile con la rarefazione dei querceti; in Italia settentrionale abbiamo anche l’esplicita proibizione, emessa da parte della Repubblica di Venezia fin dalla seconda metà del Quattrocento42, di abbattere querce senza l’autorizzazione di un rappresentante dell’Arsenale. Si continuarono comunque ad abbattere querce per costruzioni civili, per costruire i sandon dei mulini galleggianti43, per farne botti o torchi per spremere uva ed olio e la proibizione non fu così rigida come il Senato veneziano avrebbe voluto, infatti i ritrovamenti di monòssili mostrano che la scomparsa fu graduale: la più recente rinvenuta nella pianura padana è dell’inizio del XVII secolo (Casalmoro, MN). In zone dove non vigevano tali proibizioni od il materiale era più disponibile queste imbarcazioni durarono più a lungo, come in Italia Centrale ove ne rimase qualche esemplare fino alla bonifica delle Paludi Pontine ed in Dalmazia dove gli ultimi zoppoli e le barche della stessa famiglia continuarono ad essere usati fino agli anni Cinquanta del Novecento. Legname antico e legname moderno Attualmente si stanno realizzando molti progetti per ricostruire al vero imbarcazioni antiche ed una delle difficoltà concettuali è quella 41 M. Bonino, 1983, Le imbarcazioni monòssili in Italia, in “Bollettino del Museo Civicodi Padova”, Padova, A. 72, pp. 51-77. 42 F. Ch. Lane, 1965, Navires et constructeurs, cit. pp. 206-216. 43 M. Bonino, 2001, Il sandòn di Albaredo d’Adige, caratteristiche e confronti, in La ruina de’ modenesi, i mulini natanti di Concordia sulla Secchia, Concordia sulla Secchia, pp. 119-132.

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di adattare i materiali attuali alle costruzioni antiche44. Non si tratta di usare materiali diversi dal legno, od essenze sostanzialmente diverse da quelle originarie, ma sta il fatto che, anche quando si usano gli stessi tipi di legname ora abbiamo condizioni e prestazioni diverse. Se si ricostruiscono imbarcazioni di piccole dimensioni il problema non si pone, come nel caso della nave greca Kirenia II o delle navi vichinghe, ma quando si pensa di ricostruire barche e navi di lunghezza superiore ai 20 m, allora intervengono fattori piuttosto seri. In primo luogo la taglia delle tavole: la nave di Comacchio aveva tavole lunghe fino a 18-20 m, e non era una nave particolarmente grande, ma se pensiamo alle navi di Nemi, abbiamo bagli di un sol pezzo lunghi anche 20 m con sezioni trasversali rilevanti e spezzoni della chiglia di non meno di 14 m. Sono taglie molto rare oggigiorno e la disponibilità di legname non è tale da consentirci di usare le stesse pezzature; si dovrebbero abbattere querce vecchie di non meno di 250 anni e questo oggigiorno non è accettabile dal punto di vista ecologico. Anche se si trovasse materiale di dimensioni analoghe a quelle antiche, i costi aumenterebbero a livelli insopportabili per questi progetti perché le taglie commerciali sono attorno agli 8 metri ed il fuori taglia ha un prezzo maggiore; per di più per spezzoni di dimensioni maggiori si deve ricorrere ai trasporti eccezionali. Ma anche avendo risolto questi problemi di costo, ci si dovrà rivolgere all’estero; ora l’area mediterranea ha subito un depauperamento irreversibile, è molto rarefatto il pino d’Aleppo e le specie del genere quercia sono sempre più rare, per cui il reperimento del materiale per la ricostruzione al vero di navi di dimensioni medio-grandi è più difficile. Ci si può rivolgere all’Europa centrale e settentrionale ma anche lì la quercia ha. avuto un certo regresso45, la silvicoltura scandinava per molti anni ha privilegiato pini ed abeti e solo recentemente ha reintrodotto specie dalla crescita più lenta46, inoltre nei boschi scandinavi la quercia rag-

J. Coates, 1995, Experimental boat and ship archaeology: principles and method, in IJNA, Vol. 24.4 London, pp. 293-301.; M. Bonino 2001, Tre progetti di ricostruzione di navi antiche, in “Navis”, 2, Sottomarina, pp. 8-11. 45 Progetto Malmökogg, Svezia: ricostruzione di due cocche del XIV sec. Per una di queste ho visto un tronco di quercia compatto del diametro di un metro e mezzo, forse un’eccezione (www.malmokogg.nu). 46 Mi riferisco alla silvicoltura per uso industriale, di cui ho esperienza diretta da cartiere svedesi e finlandesi fornitrici di carta alla Tetra Pak. 44

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giunge dimensioni inferiori a quelle che in passato raggiungeva nell’area mediterranea. Attualmente vi è una certa disponibilità di legnami esotici provenienti specialmente dall’Africa o dal Nord America, che possono essere forniti in taglie abbastanza grandi ed alcune specie sono meno soggette a screpolarsi, per cui è possibile, tenendo conto dei costi, usarli per costruire parti di navi di dimensioni mediograndi. Bisogna però scegliere la specie, la stagione del taglio e la stagionatura in modo che le caratteristiche di densità e di resistenza non si discostino sostanzialmente da quelle dei legni nostrani che si vogliono sostituire. Qualunque soluzione venga adottata, ci si troverà comunque nella situazione di usare tavole più corte di quelle originarie e questo porta inevitabilmente a dover eseguire delle giunte che danno luogo a caratteristiche meccaniche diverse da quelle dei materiali antichi originari. Con i metodi attuali di giunzione, i materiali compositi hanno una resistenza superiore a quella dei pezzi unici aventi le stesse dimensioni e questo può compensare la resistenza intrinseca tendenzialmente inferiore, ma si tratta sempre di adattamenti da cui si può valutare la resistenza delle costruzioni originali solo per estrapolazione. Nel caso della trireme Olympias si sono volute evitare al massimo tali giunte, ma i materiali locali (pino, quercia, abete, cedro, cipresso ed altri) non erano più disponibili nell’area mediterranea, per cui si sono usati altri legnami con densità e caratteristiche meccaniche non molto diverse da quelle originarie, quali il pino dell’Oregon (usato anche per i remi) e l’iroko47. Per la chiglia della prima nave di Nemi48 si è usato un tipo di legname simile a quello originario (rovere dell’Appennino campano, e pino d’Aleppo della stessa provenienza per l’akrostolion) per riprodurre finché possibile i materiali e le tecniche e perché si è previsto che le parti sarebbero state in vista ai visitatori del Museo di Nemi per qualche tempo prima della costruzione vera e propria. Ma non fu pos-

47 J. Coates, 1990, Research and engineering aspects of reconstructing the ancient Greek trireme warship, in SNAME Transactions, Vol. 98, London, pp. 239-262, p. 254: departures from autenticity. 48 Quanto qui riportato per la ricostruzione della prima nave di Nemi è risultato dall’esperienza della ricostruzione della chiglia, realizzata nel cantiere navale Speranza-Di Donato di Torre del Greco. Devo a Mattia Di Donato, prezioso collaboratore nella ricostruzione, molte delle osservazioni qui riportate.

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sibile rispettare la taglia originaria e questo ha reso necessario eseguire due tipi di giunzioni: quelle originarie di testa o con il dardo di Giove, ben visibili e quelle per comporre gli spezzoni per raggiungere le misure originarie. Queste ultime sono state fatte a palella ed a dente, abbastanza compatte ed uniformi da notarsi meno, in quanto il pezzo originario sarebbe dovuto essere continuo, si è però evitato di rivestire il giunto, perché la composizione delle parti è necessaria e deve essere documentata. Le fasi successive saranno ancora più complesse, perché i torelli sono spessi 15 cm ed il fasciame da 10 a 6 cm e le pezzature dovranno essere distribuite in modo che le giunte siano sfalsate il più possibile. Il tempo di stagionatura e di montaggio hanno avuto una parte importante durante la costruzione e la permanenza della chiglia della prima nave di Nemi di fronte al Museo. Notizie storiche ed usi tradizionali mostrano che da una parte si usava anche legno verde non stagionato soprattutto per le specie caducifoglie, ma per le conifere era necessario togliere la linfa dai tronchi, tenendoli immersi jn acqua e poi asciugarli con la stagionatura vera e propria, altrimenti la resina avrebbe dato problemi di attacco da parte delle muffe e difficoltà di trattamento con pece o con encausto. I legni di caducifoglie, come la quercia, non davano questi problemi, anzi spesso era meglio utilizzarli freschi per evitare la fessurazione in cantiere; questa aumenta passando dalla quercia, alla rovere, all’olmo, al leccio ed al cerro, che si fessura di più. I trattamenti ed i tempi ottimali quindi non possono essere uguali per tutti, soprattutto ora che i tempi di costruzione non sono confrontabili con quelli antichi e questo porta a conseguenze sullo stato di stagionatura. Nel caso della chiglia della prima nave di Nemi le parti di rovere sono state stagionate per un mese e mezzo e poi, dopo il montaggio, sono rimaste a lungo all’aperto e con gli sbalzi di temperatura e di umidità che caratterizzano il piazzale antistante l’ingresso al Museo delle Navi Romane e si sono screpolate vistosamente, costringendo a ripetere trattamenti con olio di lino. Problemi simili sono stati comunque incontrati anche in passato, ad esempio quando si impiegarono due anni, dal 1626 al 1628, per costruire la nave Vasa a Stoccolma, che era completamente di quercia. Per ovviare alle screpolature più vistose e per quanto detto sopra, è proponibile perciò che, nella continuazione della costruzione della prima nave di Nemi, che le parti originariamente di quercia e non a vista possano essere in legno esotico con caratteristiche meccaniche

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simili49. Comunque l’uso di altre essenze nella ricostruzione navale non deve essere sostituzione con materiali concettualmente diversi, altrimenti se ne stravolge completamente la natura. È il caso dell’impiego recente del compensato marino per costruire, sulla Laguna Veneta, barche dalle forme tradizionali; se questo risponde ad esigenze economiche, segna però la fine dell’utilizzo del legno per le costruzioni navali come ci è stato tramandato dai nostri antenati ed in larga parte la fine della tradizione.

49 Si è proposto l’azobè (Lophira alata) anche per ragioni di costo, ma ha un peso specifico e caratteristiche meccaniche molto superiori a quelle della quercia; conviene orientarsi sul movingui (Distemonanthus benthamianus), sempre che il costo non renda la nostra rovere più competitiva. L’iroko è un buon sostituto, ancorché resinoso, ma per questo occorre controllare la stagione del taglio, che è determinante per le sue prestazioni.

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Fig. 1 – Schema di impiego di legni diversi per gli spicchi del guscio portante (Borsa di Marsiglia) e giunzione di testa delle tavole in corrispondenza delle sezioni di riferimento (Fiumicino).

Fig. 2 – Impiego di legni diversi per le strutture interne, schema dai relitti di Pisa (II sec.a.C.) e di Fiumicino (III sec.d.C.).

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Fig. 3 – ipotesi su alcuni aspetti evolutivi dell’impiego di legname per costruire navi e barche in Italia.

140 Monospecie (o genere predominante) Cheope, 2500 a.C. Cedro Dashur XIV s.a.C. Cedro Gela (sutilis n.) VI a.C. Pino Kirinia, IV sec. a.C. Pino Luque Larice Cavalière Pino Yassi Ada II, VIII s.d.C. Cipresso Monòssili dal neolitico al sec. Quercia, XVII (episodi nel XX) castagno Bon Porté (sutilis n.) VI a.C. Quercia Lido di VE (sutilis n.) I d.C. Rovere Comacchio (sutilis n.) I d.C. Olmo Cervia (sutilis n.) V d.C. Pomposa (sutilis n.) XI d.C. Pisa II sec. a.C.

Navi dei Veneti, I s.a.C. Neuchâtel, II s.d.C. Blackfriars, III s.d.C. Zwammerdam, III s.d.C. County Hall, V s.d.C. Mainz, V. s.d.C. Tradizione nordica dalle navia vichinghe in poi Fiumicino, III sec.d.C. Pisa F II s.d.C. Barche del Lario, di tradizione bizantina Porto Fuori, 1300 Contarina 1300 Logonovo, 1400

Rovere Quercia Quercia Quercia Olmo Quercia Quercia Leccio ? Quercia, ontano Castagno

Rovere Rovere Rovere Quercia Quercia, Quercia olmo Mahdia, I s.a.C. Olmo Galea genovese 1500 Quercia Madrague des Giens I-II s.a.C. Olmo, quer- Galea veneziana 1470 Quercia cia, noce Pisa B I s.d.C. Quercia Sandon per mulino, Quercia dall’VIII al XIX secolo Giraglia I sec.d.C. Quercia, Barche adriatiche: paranza Quercia olmo, faggio bragozzo, trabaccolo Plurispecie Chiglia Fasciame ordinate Cinta Marsala, III s.a.C. Acero, Frassino Pino Olmo Dramont A I s.a.C. Pino Pino Olmo Pisa C I s.d.C. Olmo o leccio Pino, abete 5 specie Pisa D post. V. s.d.C. Leccio Pino, abete Leccio Nemi, I s.d.C. Quercia Pino Quarcia quercia, abete Cap d’Esterel Pino d’Aleppo Pino silvestre Quercia Borsa di Mars, II d.C. Cipresso, larice Larice, pino Pino Laurons I Quercia Larice, pino Pino, noce Laurons II, II s.a.C. Quercia Pino, abete, Pino, acero, faglarice gio, quercia, noce Luque B Larice Cedro St Gervais II Pino d’Aleppo Pino, abete Quercia, pino Ladispoli, I sec. d.C. Pino Larice, abete Quercia, olmo Ravenna, V sec. d.C. Quercia Abete Quercia Pino Oberstimm, II s.d.C. Quercia Pino Quercia Pantano Longarini V d.C. Quercia Cipresso Quercia Cipresso Yassi Ada I, IV-V d.C. Cipresso Pino Olmo Cipresso Marsala, relitti A e B, XII Quercia Abete Quercia, olmo, Quercia Sec. noce, castagno carpino

Fig. 4 – Tabella riassuntiva sui tipi di legnami di alcune imbarcazioni, non sono indicati tutti i relitti, ma si tratta di una proposta di classificazione (in due parti: monospecie e plurispecie).

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Quercia Rovere Olmo Leccio Castagno Noce Pino d’Aleppo Pinus nigra Pino marittimo Abete rosso Larice Cedro Cipresso Faggio Frassino Pino dell’Oregon Douglas Iroko Azobè Movingui Framire Teak

Densità al 12% di Modulo elastico a Umidità, Kg/dm3 flessione, al 12% N/mm2

0,67, 0,70 0,70 0,56, 0,66 0,71 0,58 0,60 0,58 0,52, 0,55 0,35, 0,63 0,35, 0,45 0,47, 0,63 0,48 0,48 0,73 0,57, 0,67 0,43-0,55 0,55 0,66 1,06 0,73 0,49 0,69

11400-16600 16000 12060 15800 12000 14300 11500 16000 15300 13000 16000 7500 12150 11650 10850-15800 16300 12000 15000 17400 11800 9100 11700, 16300

Resist. a rottura a Resist. a rottura a flessione, al 12% flessione al 12% N/ mm2 N/mm2 (carico  alle fibre) (carico // alle fibre)

9,7-10,0 9,0 8,0 8,5 7,0 9,0 4,5 9,4 8,9 8,4 6,9 8,5 8,9 9,0 11,6 7,8-8,9 7,0 – 22,7 16,2 8,9 19,0

5,2 5,0 4,8 4,8 4,0 5,0 3,0 5,3 5,1 4,8 4,0 5,1 5,0 5,6 5,3 4,3-4,7 4,2 – 9,6 6,4 4,3 8,3

Fig. 5 – Caratteristiche fisico-meccaniche indicative ed estrapolate per alcuni tipi di legno, la variabilità può arrivare al 20% dei valori, a seconda delle condizioni di crescita.

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Fonti: M. Caironi,, 1999, Il legno come materiale strutturale, dispensa del Politecnico di Milano. L. Baldassini, 2000, Vademecum per disegnatori tecnici, 18^ edizione, Milano, p C-8, 9, valori di densità. J. H. Perry, 1963, Chemical engineers’ handbook, McGraw Hill, par. 23, riporta i dati dell’US Forest Products Laboratory, in leggero difetto sia per la densità che per le caratteristiche meccaniche. M.F. Ashby - D.R.H. Jones, 1998, Engineering materials, Vol. 2, Butt. Heinem. Oxford, Cap 26. Tabelle tecniche sui legni africani fornite da Da-Trabois ed inviate da Mattia Di Donato, Torre del Greco. Tra le varie fonti vi è spesso incongruenza tra le unità di misura ed i valori possono essere approssimati per eccesso o per difetto a seconda degli scopi: ho dovuto mediare ed approssimare molti di questi dati. Fattori di correzione: 1 Kg/cm2 = 1 lb/inch2 x 0.0703; 1 N/mm2 = 1 Mpa = 2 10,2 Kg/cm ; 1 Kg/cm2 = 0,098 Mpa.

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Legnami, foreste e costruzioni navali fra XV e XVIII secolo Mauro Agnoletti

Introduzione Nonostante il lento progredire delle ricerche sull’argomento, appare sempre più chiara l’impossibilità di interpretare la storia delle grandi marine comunali e militari italiane senza prendere in considerazione l’essenzialità dei rapporti con la materia prima “legno” e quindi con le risorse forestali. Tutte le città per le quali i collegamenti via mare erano un elemento primario svilupparono una complessa catena di relazioni che coinvolgevano le zone di produzione con gli arsenali, in cui la qualità e dislocazione delle risorse forestali, le tecniche di trasporto del legname e le tecniche delle costruzioni navali erano elementi di un quadro tecnologico di cruciale importanza per i loro destini. Non è nelle possibilità e nelle intenzioni di questo saggio affrontare in modo organico questa materia, cercheremo quindi di dare solo alcune indicazioni facendo riferimento soprattutto a Venezia, ma fornendo elementi di confronto relativamente ad altre marine, ciascuna delle quali cercò di trovare una sua risposta al problema “legno” nel corso dei secoli. Per l’Italia il problema legno assume un ruolo particolarmente rilevante già nel tardo medioevo ma sarebbe errato pensare che dove non fossero presenti grandi foreste non potessero svilupparsi grandi flotte; in realtà, sia il caso dell’Olanda nel XVI-XVII secolo, che non aveva alcuna risorsa forestale interna ma possedeva la più grande marina del mondo1, e poi dell’Inghilterra che certo non ne aveva in misura ade1 Sembra che la flotta olandese fosse composta da almeno 10.000 imbarcazioni nel 1697, vedi: Silvy Leligois P. (1962), Origine et importance des bois acheminés

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guata all’importanza assunta dalla sua flotta, sono sicuramente emblematici della capacità di risolvere il problema dell’approvvigionamento, ma anche della possibilità di poter contare sulla vicinanza di risorse di legname pressoché illimitate nei paesi Scandinavi e nelle Repubbliche Baltiche2. Nel nostro paese la collocazione delle risorse legnose in zone montuose lontane dalla rete stradale rese necessaria l’elaborazione di complessi rapporti mercantili che coinvolgevano istituzioni pubbliche, nobiltà, ceti popolari, ma anche di sistemi tecnici di notevole complessità, caratterizzati da un largo uso di manodopera, e anche dallo sfruttamento spesso ottimale delle risorse energetiche e delle caratteristiche naturali del territorio. Da questo punto di vista la situazione di Venezia appare privilegiata rispetto a quella di altre città italiane, potendo contare su risorse legnose interne in parte sufficienti alle sue esigenze, e sulla vicinanza di zone piuttosto ricche di legnami quali la Dalmazia e l’Istria, che permettevano comunque di rifornire con una certa continuità almeno la marina militare. Ciò in parte giustifica la netta supremazia della marina veneziana fino verso il XVI secolo, la quale non solo doveva guardarsi dalla minaccia sempre presente dal “Turco”, ma anche dalla concorrenza della sua rivale ad occidente, cioè Genova. Per questa città il problema del legname era forse più grave, si può dire infatti che già dal XV-XVI secolo la cantieristica genovese appare sempre più svincolata dalla dotazione di risorse interne, con un processo che porterà infine all’acquisto del legname nel Mare del Nord per le costruzioni in conto terzi nei cantieri liguri del XVIII secolo. Con lo sviluppo delle nuove grandi navi commerciali e militari, le cose cambiarono molto anche a Venezia, mettendo in crisi soprattutto la sua flotta di galere, ormai obsoleta, senza che nessuna nuova flotta possa sostituirsi ad essa. par eau vers la Hollande aux XVII et XVIII Siécles, Revue Forestiere Francaise, n. 6, p. 516. 2 L’esportazione di legname per le costruzioni navali da queste zone è ben documentata ed in progressiva crescita dalla fine del XVI in poi. Vedi: M. North, Trade and production of timber and timber by-products in the Baltic region, 1575-1775, in Istituto Internazionale di Storia Economica “F. Datini”, Atti della XXVII Settimana di Studi: L’uomo e la Foresta, secc. XIII-XVIII, Prato 8-13 Maggio 1995, a cura di S. Cavaciocchi, Collana Atti delle settimane di studi ed altri convegni n. 27, Firenze 1996, 883-894.

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Le qualità di legname Un primo elemento importante per comprendere il problema del legno nelle costruzioni navali è quello relativo alla qualità delle risorse legnose in relazione alle necessità costruttive. Molti sono i tipi di legname impiegati per le navi e vi è senz’altro una evoluzione che contraddistingue il loro uso, sia in relazione alla progressiva scarsità di alcune specie, sia per gli assortimenti richiesti. Nelle zone temperate del nostro emisfero la principale distinzione in fatto di specie legnose è quella fra conifere e latifoglie, anche se in campo navale questa aveva senso soprattutto rispetto al loro impiego per l’opera viva, per l’opera morta e per le alberature. In sostanza, la discriminante principale era quella fra i legnami adatti a resistere al contatto con l’acqua, quindi per il fasciame e la chiglia quasi sempre quercia, ed il resto, che poteva consentire soluzioni molteplici. In effetti, tutte le principali marine europee, da quelle dei mari del nord a quelle del Mediterraneo, assegnano un ruolo dominate alla querce (rovere e farnia), ma non dobbiamo pensare a distinzioni troppo rigide, visto che l’uso delle conifere per il fasciame è comunque ben documentato, per la buona resistenza di molte specie all’immersione prolungata in acqua marina. Sotto il profilo tecnologico il problema principale era quello della resistenza ad un forte deterioramento dovuto sopratutto all’attacco di molluschi, crostacei e funghi, fra i più importanti dei quali sono senz’altro da ricordare le teredini3. Tali molluschi, conosciuti anche dai greci e dai romani, erano considerati un vero flagello per la loro capacità di costruire una miriade di gallerie che arrivavano a compromettere totalmente la struttura legnosa. La resistenza agli attacchi era legata non solo alla durabilità intrinseca della specie legnosa adottata, ma anche alla salinità, temperatura dell’acqua e all’illuminazione, tanto da giustificare differenze significative nella durata delle imbarcazioni in navigazione in zone tropicali, nel mediterraneo o nei mari del nord. Un elemento importante per valutare sia la complessità delle

3 Vedi: A. Gambetta, E. Orlandi, Note su alcuni organismi che deteriorano il legno immerso nel Mar Tirreno. Contributi Scientifico – Pratici vol. XV, C.N.R., Firenze, 47-71.

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costruzioni navali che il problema della ricerca dei legnami adatti è il fatto che fino allo sviluppo di giunti in ferro, verso il XVIII secolo, l’ossatura delle imbarcazioni (sostanzialmente le ordinate e i dritti di poppa e prua, paramezzali più un discreto numero di altri assortimenti), era costituita da pezzi curvi, per i quali si cercava di sfruttare le curvature naturali dei rami degli alberi. A Venezia essi venivano definiti genericamente con il termine di “stortami”, ma nel catasto Surian appaiono ulteriori denominazioni quali “volta da coscia” e “volta da gamba”, oltre alle ulteriori definizioni che appaiono nelle belle tavole della terminazione del 1777. In Liguria i maestri d’ascia dell’arsenale erano detti “maestro di garibo”, termine di origine araba col significato di arco o curva, e con questo nome erano denominate anche le sagome lignee usate per individuare nel bosco le piante da abbattere, ma un termine simile era usato anche in Francia per descrivere i boschi da stortami, chiamati “bois de gabarit”4. Le specie quercine impiegate per l’ossatura e per il fasciame esterno erano soprattutto la farnia o rovere farnia (Quercus peduncolata A.DC), e la rovere vera cioè (Quercus sessiliflora A.DC), che costituivano circa la metà dei legnami impiegati nelle galere venziane. La farnia, amante dell’umidità del suolo e di poca luce, si trovava soprattutto nella pianura e lungo l’estuario veneto-friulano e avendo il legno più resistente all’acqua era preferita nelle costruzioni navali, ma era anche la più ricercata per la pastorizia a causa delle sue ghiande dolci. La rovere, meno esigente di umidità nel suolo, era maggiormente diffusa nei rilievi collinari (Colli Euganei, Colli Berici, Asolano, Montello, Feltrino), ma bisogna comunque considerare la frequente sostituzione di questa specie con la roverella e la difficoltà di distinguere gli ibridi fra le due specie. Il 40% del legname restante era invece costituito da conifere, sopratutto abete rosso (Picea excelsa) e larice (Larix decidua Mill.) escludendo le alberature, mentre il rimanente 10% era costituito da faggio, usato per i remi. Il larice poteva arrivare al 20-25% della quota delle conifere, se era possibile ottenerlo data la sua robustezza e la migliore capacità di resistenza all’umidità. Le conifere venivano dalle zone alpine: l’alto bellunese, il Friuli e il Trenti-

4 Vedi J. Boudriot, Chene et vaisseaux royaux, in: a cura di A. Corvol, Forêt et Marine, l’Harmattan, Paris, 1999, p. 341.

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no, ma le alberature venivano anche dall’Appennino Tosco-Romagnolo, mentre il faggio arrivava dalle Prealpi bellunesi. Importanti differenze si rilevano osservando le specie utilizzate a Genova, dove accanto alla querce si usano notevoli quantità di faggio, mentre l’abete sembra assumere un ruolo molto secondario. Nella fornitura di “square” necessaria per una nave di 18 metri del 1699 si osserva che la rovere rappresenta il 43% rispetto al rimanente tutto di faggio. Una differenza significativa, visto che quasi tutte le liste dei legnami riportate da Gatti per la marina genovese mostrano discrete quantità di faggio, che a Venezia era solo utilizzato per i remi. L’uso del faggio come specie per il fasciame esterno certo non poteva dirsi ottimale, come confermato anche dalla cantieristica francese, in cui si ricorreva ad esso solo in periodi di penuria di querce o in casi particolari. Fu infatti largamente impiegato nella costruzione della flotta di Boulogne con cui Napoleone progettava l’invasione dell’Inghilterra5, ma tale specie certo non poteva distinguersi per una grande resistenza all’acqua di mare. Il suo uso dava luogo a numerosi inconvenienti, come descritto per una nave genovese del 1670 in cui la ridotta percentuale di rovere impiegata nella costruzione è indicata come causa principale dei problemi di deterioramento dello scafo6. La scarsa presenza di rovere è senz’altro da imputarsi ad una minore disponibilità di questa specie, un dato strutturale della cantieristica ligure, infatti le tavole di faggio costavano la metà di quelle di rovere nel XVII secolo, che doveva essere sempre reperita in località lontane dai cantieri navali. Interessante a questo riguardo è invece il largo uso di rovere che viene fatto presso l’Arsenale di Napoli nella seconda metà del XVIII secolo indicato in tabella 1. La rovere costituisce l’82% del totale, mentre vi è una totale assenza del faggio e un ruolo minoritario dell’abete, che anche assieme al pino laricio e al pino, porta ad appena il 12,5% la quota totale di conifere7. 5 In effetti l’uso del faggio sembra sconsigliato per i fasciami dell’opera viva, soprattutto per la minore durabilità rispetto alla rovere,ma anche a conifere quali il pino o il larice. Per quanto riguarda la notizia sulla flotta di Boulogne vedi J.M. Ballu, Bois de Marine, Gerfaut, 2000, p. 58-59. 6 Per tutte le notizie sulla cantieristica genovese citate in questo articolo vedi: L. Gatti, Navi e Cantieri della repubblica di Genova (XVI-XVIII) secolo, Brigati, Genova, 1999, p. 37. 7 M. Gangemi, Des arbres pour un arsenal royal: Naples fin de XVIIIe siecle, in a cura di A. Corvol, cit. 41-61. L’autore fornisce anche una lista di località con le quan-

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Tab 1 – Specie legnose impiegate nelle costruzioni navali nell’Arsenale di Napoli fra 1779 e 1783. Rovere

Pino laricio

Pino

Abete

Olmo

Leccio

Pioppo

82,1%

5,2%

4%

3,3%

2,4%

2%

1%

Ciò testimonia che quando si poteva contare su quercia in abbondanza, essa era preferita nelle costruzioni, mentre si cercava di utilizzare altri tipi di legname se tale risorsa scarseggiava, nonostante questo il legname di conifera poteva comunque presentare buone caratteristiche. Le conifere potevano essere scelte fra numerose specie quali abete bianco, abete rosso, larice, varie specie di pino, vista la loro funzione di supporto per le strutture interne e la possibilità di impiegarle a contatto con l’acqua. Come abbiamo detto non mancano eccezioni importanti a queste indicazioni, come nel caso portoghese descritto in un trattato del XVI secolo, in cui la sughera assume un ruolo principale per l’ossatura, in sostituzione della quale potevano essere utilizzate il leccio e sembra addirittura l’olivo. La spiegazione per una scelta in qualche modo non in linea con quelle degli altri cantieri navali europei, come osservavano gli stessi portoghesi, sembrava dovuta alla diversa qualità delle querce (non sappiamo se rovere o farnia) presenti in Portogallo. Il clima e la natura del suolo rendevano tali specie inadatte alle costruzioni navali, mentre invece il portamento delle sughere e del leccio si dice fornisse abbondanti quantità di pezzi curvi. Una osservazione di un certo interesse e da approfondire, ma in parte confermata dalla diffusione di pascoli arborati di sughera e leccio nella penisola Iberica, con sviluppo di piante con chiome adatta a tale funzione, che si affianca ad una altrettanto interessante concernente l’uso del castagno, sia per l’ossatura che per i fasciami, seppure con alcune precauzioni relative ai difetti di questo legname. Altra diversità, anche se più comprensibile da un punto di vista tecnologico, appare l’uso del pino domestico per i fasciami e il pino marittimo preferito invece per l’opera morta. Queste informazioni se non altro risolvono il dub-

tità di legname da esse provenienti, molto utile per ricostruire una geografia delle risorse meridionali.

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bio relativo al fatto che né il leccio, né la sughera sono adatte a fornire tavoli lunghe per il fasciame. Non è d’altra parte pensabile che una marina transoceanica come quella portoghese, potesse non appoggiarsi ad appropriate conoscenze tecniche8.

Quantità di legname ed estensione dei boschi Una delle maggiori difficoltà per il calcolo della quantità e qualità di legname necessarie alla costruzione di un’imbarcazione è la scarsità di descrizioni esaurienti di tutti i pezzi necessari, ed anche la mancanza di notizie sulle quantità e qualità necessarie per i molti tipi di imbarcazione in dotazione soprattutto alle marine commerciali nei vari periodi storici. Le marine commerciali e militari mediterranee del ’500 vedono il predominio delle galere, i cui modelli si erano notevolmente evoluti rispetto a quelli dell’età classica, risultando più lunghe delle triremi romane e meglio costruite, anche se in realtà le tecniche romane consentivano di costruire navi anche di 80 m di lunghezza9. La grande galera da trasporto veneziana dei primi del ’500 era considerata la più bella nave da trasporto del mondo10; era lunga 40-50 metri, poteva trasportare circa 250 ton. di mercanzie e circa 200 uomini di equipaggio fra vogatori e cannonieri, e rappresentava in modo efficace il prodotto di un periodo considerato come l’apogeo dell’Arsenale veneziano11. Per la flotta militare di Venezia dominata dalle galere

E. Rieth, La selection des bois selon le livro de fabrica das naos (1570-1580) de Fernando Oliveira, in: a cura di A. Corvol, Forêt et Marine, l’Harmattan, Paris, 3340. 9 Illuminanti a questo riguardo le notizie sulle navi romane di Nemi, anche se riferite a modelli costruiti per scopi particolari, mentre invece le triremi da guerra potevano arrivare ad una lunghezza anche di 30-40 metri:L. Tursini, Note di architettura navale romana, in G. Uccelli, Le navi romane di Nemi, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma, 1940. 10 G.P.B. Naish, Navi e costruzioni navali, in a cura di C. Singer, E.J. Holmyard, A.R.Hall, T.I. Williams, storia della tecnologia, vol. 3, Bollati Boringhieri, Torino, 1993, 481-484. 11 E. Concina, Venezia: arsenale, spazio urbano, spazio marittimo. L’età del primato e l’età del confronto, in a cura di E. Concina, Arsenali e città nell’occidente europeo, NIS, Urbino, 11-32. 8

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sottili, dalla galeazza e dalla galera bastarda a metà del XVI secolo, il calcolo del legname può contare sulle descrizioni fornite da Lane12. Calcolando la cubatura dei pezzi secondo questo elenco, cercando di stimare gli assortimenti in cui le misure sono incomplete, ed aggiungendo le perdite di segagione abbiamo che per la costruzione di una galere grande occorrevano circa 490 m3 di quercia, 402 m3 di abete e larice (25%) e 100 m3 di faggio per i remi, per un totale di 979 m3 relativi ai tronchi commerciali. Intendiamo con questo termine l’assortimento grezzo inviato all’Arsenale da cui vengono ricavati i pezzi singoli, siano essi segati o pezzi curvi, con una perdita di lavorazione stimabile intorno al 20-25%, che andrebbe a sua volta aumentato di un altro 25-30% per passare al volume dell’albero originario comprensivo di rami e cimali, portando il totale del legname grezzo a circa 1300 m3 13. Si tratta naturalmente di approssimazioni che devono tenere

Ci rifacciamo in questo caso alle descrizioni riportate da F. Lane, Venetian ship and shipbuilders of the renaissance, Baltimore, 1934. a) quercia – 380 pezzi curvi per le costole, la prua e la poppa, lunghi dai 3-3,48 m e dai 44 ai 55 cm di circonferenza. – 150 pezzi diritti per la chiglia e i ponti, lunghi 8,35-10 m e cm 44,3 di circonferenza. – 280 tavole per il fasciame esterno larghe 8,7 cm, segate da tronchi lunghi 8,35 cm e di 44,3-55,4 cm di circonferenza. b) abete – 50 pezzi piccoli per il fissaggio del ponte – 300 tavole per l’interno ed i ponti c) larice – 35 travi per passerelle, telai fuori scalmo e morse interne, ricavati da tronchi lunghi 13,6 m. – 18 travi per i ponti. 13 Questo scegliendo il 30%. Per le rese di segagione vedi: G. Giordano, il Legno, Hoepli, Milano, 810-826. Vi sono delle differenze nel presente articolo rispetto a valutazioni fatte dall’autore in altre pubblicazioni sia in merito al legname per la costruzione delle galere, sia ai boschi sono dovute al tentativo di raffinare le stime che sono comunque sempre il frutto di approssimazioni legate alle molte variabili da tenere in considerazione in questo tipo di analisi (vedi: Agnoletti M., Aspetti tecnici ed economici del commercio del legname in Cadore (XIV-XVI secolo, Istituto Internazionale di Storia Economica “F. Datini”, Atti della XXVII Settimana di Studi: L’uomo e la Foresta, secc. XIII-XVIII, Prato 8-13 Maggio 1995, a cura di S. Cavaciocchi, Collana Atti delle settimane di studi ed altri convegni n 27, Firenze 1996, 1025-1040.) Per le rese di segagione vedi: G. Giordano, il Legno, Hoepli, Milano, 810-826. 12

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conto che la lavorazione di un pezzo curvo per fare un baglio o una costola è soggetta a rese molto basse, per via di uno scarto superiore a quello per produrre una tavola, anche perché le prime venivano tutte lavorate a mano con la scure e l’ascia, mentre le seconde venivano prodotte con la sega a telaio14. Allo stesso modo la differenza fra il volume del tronco commerciale e quello dei rami nelle conifere poteva attestarsi sul 28-30%, mentre in una latifoglia può arrivare anche al 50%, vista la proporzione maggiore di rami rispetto al tronco15. Ad ogni modo la stima sembra esser in parte confermata da un confronto con quella riportata da Boudriot per la “galère ordinaire” del 1736, per la quale si stimavano necessarie circa 450 querce e circa 100-120 di più per la “galère patronne”16. Interessante a questo punto è la stima del calcolo delle estensioni dei boschi necessari alla costruzione di una galera, problema che deve scontrarsi con le difficoltà legate alla valutazione della densità ad ettaro e alla cubatura dei querceti di pianura e delle abetine del Cadore nel XVI-XVIII secolo, da cui provenivano gran parte degli assortimenti di conifere. Per quanto riguarda i primi, valutando la cubatura dei tronchi commerciali per fornire pezzi diritti per il fasciame, possiamo tenere presente che i querceti analizzati dai catasti veneziani del XVI secolo hanno una densità di circa 100 piante ad ettaro, ciascuna delle quali secondo i piedilista degli inventari cubava circa 1 mc, intendendo con questo il tronco utile ricavabile da un rovere intero17. Per costruire una galera grande si dovevano quindi abbattere circa 490 roveri. L’estensione di bosco che sarebbe stato nePer le descrizioni di alcune caratteristiche e funzione degli attrezzi per la lavorazione del legname vedi: Agnoletti M., Indagine sulla tecnologia degli attrezzi da taglio di uso boschivo in Trentino, Annali di San Michele, 9-10, 1996-1997, 4562.Agnoletti M., Ordinamento e catalogazione di alcuni attrezzi da taglio di uso boschivo, Annali di San Michele, 9-10, 1996-1997, 62-74. 15 R.Stigliani, Lavorazioni Boschive, Garino, Torino, 1952, p.26. 16 Boudriot, cit. p. 341. In realtà per la fregata vengono indicati 17.000 piedi cubi, pari a 1400 querce, ma per la galera ordinaria solo 5500 piedi cubi, senza numero di querce indicato. Abbiamo quindi fatto una semplice proporzione per ottenere il numero di roveri, anche se questa operazione non è del tutto corretta visto che il numero di roveri richiesti non diminuisce in modo esttamente proporzionale alla dimensione del vascello. 17 L. Susmel, I rovereti di pianura della Serenissima, Cluep, Padova, 1994. 14

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cessario sottoporre al taglio era perciò di almeno 4-5 ha, ma visto che nei boschi erano presenti anche altre specie, oltre che roveri inadatte alle costruzioni navali, l’estensione totale interessata dal taglio era superiore, ma non abbiamo stime complessive delle provvigioni totali per un dato ad ettaro più esatto. Vi sarebbero poi da calcolare le differenze fra i boschi adatti a produrre stortami, quindi con densità di piante ad ettaro piuttosto basse e quelli per i roveri da filo, adatti a produrre tavole, che si cercava di trattare in modo diverso dal punto di vista selvicolturale, favorendo una maggiore densità per ottenere la crescita verticale dei tronchi, come illustrato nella famosa terminazione del 1777. In realtà le densità dei rovereti erano assai variabili, oscillando fra i 20 e i 180 individui ad ettaro, quindi in grado di fornire la varietà di assortimenti richiesti, ma in modo diffuso nel territorio, senza avere in realtà boschi particolarmente specializzati per l’uno o per l’altro. Ad ogni modo è importante ricordare che l’Italia si distingueva rispetto ad altri paesi europei per avere querceti radi, pesantemente condizionati dal pascolo, e particolarmente adatti ai pezzi curvi. La stima dei boschi di conifera destinati alle costruzioni navali è in un certo senso più incerta, visto che non abbiamo catasti disponibili per il XVI secolo. La cubatura di questi soprassuoli è però stata studiata negli anni ’50 del nostro secolo, quando le densità di molte particelle sottoposte a intese utilizzazioni nei decenni precedenti possono costituire un paragone accettabile. Possiamo perciò adottare come punto di riferimento la stima di 200-300 piante ad ettaro, con una cubatura unitaria di circa 1m3 commerciale per pianta, sottolineando che tali valori potevano variare molto visto che tali boschi avevano provvigioni diverse, anche in funzione della loro maggiore o minore purezza rispetto alla presenza del faggio e di larice18. Il faggio nel medioevo era molto più diffuso rispetto al XX secolo, non essendo ancora avvenuto il processo di progressiva selezione a favore dell’abete che ha portato ad avere oggi boschi essenzialmente monospecifici per la produzione di legname da costruzione in tutte le Alpi nord-

18 Come punto di riferimento abbiamo preso i dati relativi ad abetine pure citati da L.Susmel, Struttura, rinnovazione e trattamento delle abetine del Comelico, Italia Forestale e Montana, 1951, p. 188.

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orientali19. Per ottenere i circa 402 m3 di abete e larice sarebbe quindi stato necessario abbattere 1-2 ha di bosco a taglio raso, cosa che però sarebbe dovuta avvenire in Cadore, dove si applicava il taglio a scelta. In verità la storia delle abetine dell’Alta Valle del Piave mostra forti variabilità nell’intensità dei tagli, che potevano asportare anche il 50% della provvigione20, ma un prelievo di 4-5 m3 ad ha potrebbe esprimere un valore realistico di una utilizzazione equilibrata in un bosco poco produttivo; in questo caso l’estensione di bosco da sottoporre al taglio per la costruzione di una grande galera poteva aggirarsi sugli 80-100 ha21. Più difficile è il tentativo di stabilire le quantità di legname necessarie al mantenimento delle flotte. Per Genova è poco utile cercare di stimare la flotta militare, composta di appena 15 vascelli nel 1656, e solo 4-5 un secolo prima, mentre invece è possibile fare una stima del legname per la flotta commerciale del XVIII secolo. Per Venezia è invece effettuabile un calcolo per la nutrita flotta di galere militari messa in mare fra il 1504 ed il 1602, quando furono realizzate 911 galere, cioè 9 galere all’anno di media, pari a circa 3626 m3 di legname di rovere grezzo22. In alcuni anni, vedi il 1602, si arriva comunque ad un fabbisogno di circa 56.840 m3 di rovere, anche se dobbiamo considerare che nei magazzini dell’Arsenale venivano stoccati grandi quantità di legnami già assortiti per costruire galere in poco tempo, secondo le esigenze delle ripetute guerre contro il Turco23. Risulta infatti che una flotta di 100 galere leggere e 10 grosse potesse essere allestita in soli due mesi alla metà del XVI secolo, grazie ed un struttura produttiva si19 Vedi Agnoletti M., Segherie e foreste nel Trentino dal medioevo a nostri giorni, Collana monografie etnografiche trentine, Museo di San Michele All’Adige, San Michele All’Adige, 1998. 20 Le foreste cadorine sono state sottoposte prelievi intensissimi, ma che non hanno portato a un distruzione dei boschi come avverrà per i querceti della pianura, vedi: Agnoletti M., Il bosco in età veneziana, in: a cura di G. Caniato, M.Zanetti, F. Vallesani, A.Boldesan, Il Piave, CIERRE, Verona, 2000, pp. 259-272 21 La scelta di questo valore è stata fatta valutando gli incrementi dei boschi cadorini citati da G. Patrone, L’assestamento dei boschi disetanei del Cadore, L’Italia Forestale e Montana, 1953, 35-37. 22 Cifra ottenuta valutando il legname necessario per le galere grandi e per quelle sottili costruite in media all’anno. 23 I dati sui tipi di galere costruite si trovano in Lane... cit., p.262.

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mile ad una catena di montaggio in cui da ogni magazzino si prelevavano i pezzi per assemblare le galere, ma che comunque richiedeva lo stoccaggio di almeno 90.000 m3 di legnami già assortiti. Non sappiamo la consistenza media della flotta militare in mare nel mediterraneo, ma per il mantenimento di circa 137 galere risultante dalla media delle galere costruite, calcolando una durata di dieci anni per ciascuna e quindi ammettendo che ogni anno fosse necessario costruire almeno 13 galere, di cui il 10% almeno galere grosse, avremmo un totale di 13.000 mc di legname all’anno, dei quali 5223 mc di rovere. Un dato che farebbe pensare ad una “sostenibilità” dello sfruttamento forestale dei rovereti, ma che certo va rivisto pensando che la flotta veneziana del 1423, militare e commerciale, era stimata pari a circa 3345 vascelli, di cui 45 galere, 300 navi tonde e 3000 imbarcazioni minori, per la quale le necessità complessive di legname erano molto superiori. Tab. 2 – Legnami impiegati nella costruzione di alcune tipologia di vascelli militari in Francia e numero di querce necessarie secondo le stime di Boudriot (cit.). Tipo

Legname di alto fusto*

1° rango – 2400 ton. 2° rango – 1600 ton. 3° rango – 1300 ton. 4° rango – 900 ton. 5° rango – fregata – 650 t. 6° rango – freg. 500 t. 6° rango – freg. 350 t.

75276 59381 39512 32869 23482 20321 13440

Stortami*

Totale*

Numero di querce

26900 (35%) 20314 (34%) 15231 (25,5%) 12496 (25,5%) 10145 (43%) 6658 (32%) 4512 (35%)

102176 79395 54743 45361 33627 26979 17952

3507 2725 1879 1557 1154 926 616

* piedi cubi; 1 m3= 29,13 piedi cubi

Se il calcolo dell’estensione dei boschi da sottoporre al taglio risulta più semplice per la flotta di galere, più difficile è invece considerare altre tipologie di imbarcazioni, per le quali le stime sono più incerte. Rispetto ad una galera le “barche” e le “navi” avevano una struttura più complessa, così come i galeoni e poi i vascelli militari a più ponti che portavano fino oltre 100 cannoni e che costituiranno l’asse portante delle marine militari delle grandi potenze europee fra XVII e XVIII secolo. La presenza di una tipologia più composita rispetto alle galere si rifletteva in un numero molto maggiore di assortimenti richiesti, ma anche di volumi complessivi di legname supe-

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riori. In un trattato del 1676 di Claude Caron, carpentiere della marina reale francese, si elencano 76 tipi diversi di assortimenti legnosi (vedi fig. 6), ma colpiscono gli alberi dei vascelli a tre ponti alti 78 m. e realizzati in cinque pezzi diversi di abete, a loro volta costruiti assemblando da quattro a sei tronchi diversi, dovendo raggiungere un diametro di 1,2 m. Fra il 1718 e il 1784, quando ormai sono avvenute profonde innovazioni nelle costruzioni navali, ma è anche molto diminuito il ruolo della città lagunare come potenza marittima, abbiamo una produzione di 56 navi di linea: 29 di primo rango, 12 e mezzo di secondo, 4 di terzo ed una settantina di imbarcazioni minori, fra sciabecchi corvette e galere. Per il calcolo del legname necessario sono di aiuto i dati riportati da Boudriot per la Francia, soprattutto per il fatto che presentano una classificazione rigorosa dei vascelli militari del 1746, abbinando a ciascuno le quantità di legname necessarie. Offrono anche utili ripartizioni fra i legni curvi e quelli diritti necessari alle costruzione, mostrando una percentuale variabile fra il 25 ed il 35% di “bois de gabarit”, anche se in quegli anni si era già iniziato a sostituite le curve “naturali” con giunti in ferro24. Ancora interessanti sono in questo documento le stime relative alle quantità di roveri, che per le navi di 1° rango da 110 cannoni e 3261 m3 di legname necessari, indicano 3500 querce. Secondo queste stime per le 29 navi di primo rango veneziane, prendendo una quantità leggermente inferiore prevista per quelle di 3° ordine, avremmo un totale di 89.900 roveri: 32.500 per quelle di secondo rango, 9600 per quelle di terzo, e 34.300 roveri per il resto del naviglio equiparato ad una galera grande. Calcolando un metro cubo per rovere avremmo quindi un totale di 166.300 m3 che divisi per 66 anni danno 2519 m3 all’anno, una richiesta compatibile con le risorse legnose descritte dal catasto Contarini realizzato nel XVIII secolo, ma che riguarda solo questa specie legnosa, che come abbiamo visto rappresenta più o meno la metà del legname totale. Per la verità, le costruzioni navali sono ormai in crisi e l’Arsenale non rappresenta più quel modello di efficienza di un tempo, avendo difficoltà a varare grandi navi a causa dei fondali troppo bassi e per la sua stessa struttura organizzativa, denunciando costi di costruzione doppi o tri-

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J. Boudriot, Chenes et vaisseax royaux, cit. p. 339-347.

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pli rispetto ai cantieri privati25. Dal 1785 al 1792 la produzione viene più che raddoppiata e le navi della flotta passano da 29 a 50, ma non sembra essere la quantità di legname il problema principale, piuttosto la sua qualità, con l’uso di materiale poco stagionato che reca grave danno alla qualità delle costruzioni, e l’organizzazione dei trasporti. Si tratta però di una storia vecchia, visto che le stesse lamentazioni furono espresse alla fine del XVI secolo per la qualità delle galere che si dice durassero non più 18-20 anni come una volta ma solo 3 o 426. Se questa è la situazione di Venezia, più difficile è l’analisi per la flotta Genovese i cui dati quantitativi sono disponibili solo per il XVIII secolo. Un contratto citato da Gatti per la costruzione di una nave di 18 metri di lunghezza consente di valutare in modo approssimativo il totale di faggio e rovere necessario per le tavole impiegate per la costruzione dello scafo, di cui vengono fornite una serie di misure per mezzo delle quali è possibile tentare una stima27. Considerando le 300 tavole di rovere e le 400 di faggio abbiamo un totale di circa 75 m3, ai quali si devono aggiungere alcune decine di metri cubi per altri pezzi indicati, ma si tratta evidentemente di una imbarcazione abbastanza piccola28. Considerando che gli scafi mercantili del tardo medioevo pesavano poco più del carico che dovevano portare, e che richiedevano per la costruzione una quantità di legname grezzo più o meno doppia di tale peso, possiamo tentare di stimare il legname per 25 Vedi: A. Lazzarini, Uomini, tecniche, organizzazione: il trasporto del legname dal bosco del Cansiglio Venezia fra XVIII e XIX secolo, in a cura di Mauro Agnoletti, Storia e Risorse Forestali, Accademia Italiana di Scienze Forestali, Firenze, 2001, pp. 176-177. 26 Lane, cit. p. 263. 27 Gatti, cit. p. 58. 28 Il dato è ottenuto calcolando la cubatura dei pezzi le cui misure sono indicate pari a 6,7-9,7 m di lunghezza e spessore 2-5 cm, per le quali abbiamo utilizzato un valore medio. Il passaggio da metri cubi a tonnellata viene fatto utilizzando le tavole di cubatura nelle quali il valore di peso specifico per il faggio e la rovere ad umidità standard del 15% è rispettivamente di 7,5 e 7,6 q per metro cubo, per semplicità abbiamo utilizzato il valore di 7,5 per ambedue i tipi di legname. Spesso i legnami non venivano stagionati a dovere, quindi il peso sarebbe stato superiore, nel caso della rovere il peso specifico allo stato fresco è pari a 1,05 kg per dm cubo. Vedi: G. Giordano, Manuale pratico di cubatura dei legnami e dei soprassuoli boschivi, Hoepli, Milano, 1953.

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la flotta genovese secondo alcuni inventari citati dalla stessa autrice. Verso il 1778 la flotta di Genova era pari a 181 unità, per un totale di circa 27.611 tonnellate, con circa 70-80.000 m3 di legname impiegati alla sua costruzione29, mentre secondo la stima francese degli anni Ottanta dello stesso secolo la portata totale di 42.130 tonnellate, distribuite su 643 unità, avrebbe richiesto 120-130.000 metri cubi di legname. Non abbiamo notizie sulla struttura dei boschi da dove i genovesi ritraevano i loro legnami, anche se sappiamo che nel XV secolo gli approvvigionamenti provenivano dal Delfinato, dalle Alpi Marittime alle spalle di Nizza, dalla Corsica, dalla Toscana30. Trovare le quantità e le qualità di legnami era comunque un problema di discreta rilevanza, per la cui soluzione potevano essere necessari anche alcuni anni di attesa, vista la situazione dei querceti nelle zone tradizionali di approvvigionamento. Un idea di questo problema può essere data dalla struttura dei querceti toscani della metà del ’700 da cui Genova attinge con una certa continuità. Se prendiamo in considerazione quello che sembra il bosco più ricco presente sulla costa toscana a sud di Pietrasanta, cioè quello di San Rossore esteso per circa 8-9000 ettari, vediamo che al suo interno erano presenti 11753 piante adatte alla marina, con una densità di appena 1,5 piante per ha, e che in tutta la costa non vi erano più di 65.000 piante adatte a questo scopo31. È evidente che si tratta di quantità totalmente insufficienti alla bisogna, e che il mantenimento di una intera flotta richiedeva una ricerca lunga e geograficamente estesa del legname, con costi e difficoltà crescenti. Ciò spiega perché sia Venezia sia in misura maggiore Genova ricorressero ad acquisti all’esteNell’elenco riportato da Gatti (p.54) mancano alcune misure, per le tavole abbiamo utilizzato una larghezza pari ad un palmo genovese (circa 24 cm), come descritto in altri assortimenti citati nel testo. La consistenza della flotta genovese è presente nello stesso volume (p. 132) cit. 30 G.Puccinelli, Traffici di legname e vie dei remi nella montagna e nelle marine lucchesi, Istituto Storico Lucchese, Lucca, 1996, p. 77. L’autrice descrive l’intenso traffico fra l’Appennino e il mare attraverso il fiume Serchio per fornire legnami all’Arsenale pisano e a Genova. 31 Agnoletti M. Innocenti M., Caratteristiche di alcuni popolamenti di farnia e rovere presenti lungo la costa toscana alla metà del settecento, in: a cura di G. Bucci, G. Minotta, M. Borghetti, Applicazioni e prospettive per la ricerca forestale italiana, Atti del II congresso S.I.S.E.F., Bologna, 2000. 29

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ro, che per quest’ultima diventano una pratica normale che riguarda quasi l’intera esigenza cantieristica nel ’700. Il mare rappresentava spesso l’unica possibilità di utilizzare risorse poste in zone quasi del tutto sprovviste di strade, ed una situazione particolarmente negativa a questo riguardo è quella del regioni meridionali italiane dove si approvvigionava l’Arsenale napoletano. L’Abruzzo, la Basilicata, la Campania e la Calabria (in cui la Sila e l’Aspromonte) erano ricche di boschi ma utilizzabili con grandissime difficoltà. Come riporta Gangemi, nel 1788-89 centinaia di uomini e migliaia di animali sono impiegati nei trasporti e le utilizzazioni forestali, operazioni alle quali spesso sovrintendono maestranze ed esperti dell’Arsenale napoletano32. Nonostante queste difficoltà di trasporto il legname di quercia nelle regioni meridionali sembra abbondante, ed infatti la lista delle qualità fornite dalle varie località mostra l’assoluta prevalenza dei boschi di quercia, il che spiega come tali risorse fossero molto ricercate dalla Francia, da Genova, dalla Toscana e da Malta. Il totale in metri cubi dei legnami portati all’Arsenale in quegli anni è di 23.699, pari a circa 11.849 m3 messi in opera, quindi 8.887 tonnellate di stazza usando la proporzione di 1:2, che equivalevano a circa 3 navi di primo rango. Non si tratta evidentemente di una marina particolarmente agguerrita, impressione confermata dal fatto che negli stessi anni l’Arsenale vara solo 7 galeotte, 4 sciabecchi, ed un brigantino, nonostante l’ambizioso programma di ampliamento voluto da Francis Acton sceso dalla Toscana a Napoli per potenziare la marina borbonica, che verrà totalmente distrutta per mano dei francesi33.

La gestione dei boschi L’Arsenale veneziano rappresenta indubbiamente il fulcro, o meglio un punto di osservazione privilegiato, per tutto ciò che la città lagunare ha storicamente rappresentato come modello di rapporto fra Secondo Maurizio Gangemi la Calabria è una delle regioni più importanti per l’approvvigionamento di legname per l’Arsenale napoletano vedi: M. Gangemi, Tra strade impervie e boschi inaccessibili. Aspetti e problemi del trasporto del legname nel mezzogiorno settecentesco, in: M. Agnoletti, Storia e Risorse Forestali, Accademia Italiana di Scienze Forestali, Firenze, 2001, p. 146. 33 M. Gangemi, Des arbres... cit. 32

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uomo e risorse forestali. Se infatti l’evoluzione del modello organizzativo messo in atto per lo sfruttamento delle risorse forestali per certi versi non trova eguali nel panorama europeo, soprattutto attorno al XV-XVI secolo, è altrettanto vero che tale modello nello stesso periodo mostra già contraddizioni ed inefficienze che tenderanno ad amplificarsi nei periodi successivi. Si tratta di una tendenza al decadimento tecnologico ed organizzativo che lo consegna in uno stato imbarazzante ai nuovi conquistatori francesi alla fine del ’700. Nonostante questo è indubbio che tramite l’Arsenale furono messi a punto metodi di gestione delle risorse forestali che non trovano riscontri in Italia nel periodo compreso fra XV e XVI secolo, in ossequio ad una valore strategico delle risorse legnose dell’entroterra veneto già riconosciuto dal Senato che ormai aveva realizzato un certo controllo sulle risorse indispensabili all’Arsenale e cioè i querceti della pianura, le faggete delle Prealpi e le foreste di conifere alpine. In realtà ciascuna di queste foreste presenta una storia diversa, tanto da non consentire di accomunarle in un unico modello interpretativo, visto le diverse condizioni ecologiche dei popolamenti forestali gli assetti proprietari e le modalità di sfruttamento. Dal punto di vista politico l’espansione dei domini veneti nell’entroterra aveva consentito la sottomissione di zone importantissime come il Cadore, nel 1420, probabilmente per cautelarsi contro l’espansione dei conti del Tirolo e dalle mire imperiali, ma anche per assicurare la continuità della fornitura di legname (di conifera), soprattutto abete rosso e larice, indispensabile per l’edilizia ed il commercio, oltre che per la cantieristica. Una continuità di relazioni commerciali fra mercanti veneti e comunità cadorina è rilevabile fino dal XIII secolo, ma certo l’acquisizione del Cadore da parte di Venezia consentì di rinsaldare questi legami, ottenendo anche di bandire all’esclusivo uso dell’Arsenale foreste come l’abetina di Somadida nel 1463, poi denominata “Bosco di San Marco”, utilizzata soprattutto per la fabbricazione di alberature. A ben vedere la decisione di stabilire un controllo della zona alpina si rivelò assai opportuna, anche se l’espansione verso la valle dell’Adige più ad ovest, subì un definitivo arresto ai primi del ’500 con la vittoria dell’esercito imperiale ed il ritiro dei veneziani anche dall’Ampezzo, che resterà sotto il controllo Asburgico fino alla prima guerra mondiale. Al contrario degli esiti militari altra fortuna ebbe però il commercio del legname, è infatti indubbio che la ca-

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pillare diffusione dei mercanti veneti nella zona alpina risente in modo non decisivo degli esiti politici. Malgrado alcuni divieti il commercio del legname con Venezia non solo si mantiene stabile ma tende ad aumentare, rappresentando circa i due terzi degli introiti delle dogane Tirolesi, con un traffico che soprattutto lungo l’Adige assume un volume notevole, e con un intreccio di rapporti mercantili che porteranno in pratica al finanziamento della dieta tirolese da parte dei mercanti, tramite l’acquisto delle concessioni per i tagli. È comunque con il Piave e il suo bacino, rimasto immune dal controllo imperiale, che Venezia stabilisce i legami più forti, instaurando un modello tecnico relativo alla sfruttamento forestale che si ritrova anche nelle altre zone di influenza veneta come il Primiero ed il Brenta, con sistemi di esbosco e trasporto basati su risine e fluitazione libera in alto, un cìdolo a raccogliere il legname libero sulla parte di fiume navigabile, segherie ad acqua subito a valle e fluitazione in zattere dei segati. Nel secolo successivo, la necessità di assicurare un regolare approvvigionamento di remi per la flotta militare suggerì di acquisire anche il controllo della foresta Cansiglio nelle prealpi bellunesi, che venne posta sotto il diretto controllo di Venezia nel 1548. La foresta aveva una estensione di circa 7500 ha, teoricamente più che sufficienti per produrre i remi richiesti, ma la speranza di una regolare produzione dovette scontrarsi con la continua opposizione delle popolazioni locali e a poco valsero divieti di pascolo, confinazioni e guardie armate, che spesso venivano minacciate dai pastori. Un primo piano dei tagli proposto alla fine del 1500 dal capitano di Belluno suggeriva di praticare il taglio raso dividendo la foresta in 100 “prese”, ma in realtà quello proposto dallo Zorzi, proto dell’Arsenale inviato sul posto per fare un nuovo piano nel 1638, proponeva invece il taglio saltuario da applicarsi con turno decennale su ogni “presa”, come per i querceti. Si trattava dello sviluppo di una gestione forestale più moderna che usciva così da un empirismo tipico del periodo precedente, ma che doveva scontrarsi con problema che potremmo definire “eterno” per la selvicoltura italiana, cioè la mancanza di una vera viabilità forestale che consentisse di utilizzare interamente la foresta dove effettivamente veniva tagliato appena un 15% della provvigione utilizzabile34. 34 Per una analisi comparata delle foreste Alpine, del Cansiglio e dei querceti vedi: Agnoletti M., Il bosco in età veneziana, cit. Per gli approfondimenti sul Cadore

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In realtà la cantieristica veneziana trovò un limite soprattutto negli approvvigionamenti di rovere e farnia. Queste specie crescevano nei boschi delle zone di pianura soggetti ad un continuo degrado a causa del disboscamento per l’estensioni coltivazioni agricole, del pascolo e del bisogno di legna da ardere, che in pratica li presenta già trasformati in boschi cedui composti nel XV secolo. Ciò spiega la decisione di bandire i circa 6230 ettari del bosco del Montello nel 1471, circondandolo da un fossato e prevedendo anche la pena di morte per i furti di legname, ma anche di porre un freno alle malversazioni in campo forestale con la legge del 147535. La quasi contemporaneità dei bandi di Somadida e del Montello riflette fedelmente l’importanza assunta dalle abetine e dai querceti nella cantieristica e l’urgenza di assicurare la costanza della produzione per la flotta militare, mentre invece il ridotto peso del faggio, dilazionò di circa un secolo il bando del Cansiglio. È in questa progressiva crescita del controllo sulle risorse forestali che si inserisce la decisione di Venezia di non limitarsi ad un semplice bando di alcuni boschi, ma di procedere ad un controllo ed una pianificazione capillare sopratutto delle risorse forestale essenziali all’Arsenale. Per questo motivo dal 1489 fino al 1750 la Repubblica si prese cura direttamente della gestione realizzando periodici inventari dei querceti presenti nei suoi domini, dove venivano contate e misurate tutte le piante presenti. In totale furono circa 40 i catasti che il Consiglio dei Dieci e l’Arsenale fecero eseguire descrivendo confini, la giacitura, il perimetro lo stato dei roveri, la loro consistenza, calcolando il diametro di ciascuna pianta. Il catasto Surian, svolto nel 1568, risulta essere il più completo descrivendo quasi tutti i boschi di rovere misurati per piede d’albero, con classi di circonferenza di mezzo piede in mezzo piede, (1 piede veneto = 0,3477 m), ma indicando anche i roveri adatti a ricavare pezzi curvi, mentre non venivano riportate altre specie forestali a conferma della assoluta importanza dei

vedi: Agnoletti M., Gestione del bosco e segagione del legname nell’Alto Bellunese,, in La via del fiume, a cura di Giovanni Caniato, Cierre Verona, 1993,75-94. Per il Cansiglio vedi: A. Lazzarini, Uomini, tecniche... cit.; per i querceti di pianura vedi. L. Susmel, I rovereti... cit. 35 La storia dei boschi di Venezia è stata ampiamente trattata da A. Di Berenger, Dell’antica storia e giurisprudenza forestale in Italia, Longo, Treviso-Venezia, 18591863.

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roveri per la cantieristica veneziana rispetto a qualunque altro legname. Secondo le stime fatte da Susmel36 la superficie totale dei querceti di Venezia, compresi quelli di Montona in Istria, era di circa 15.000 ha, distribuiti in circa 750-800 boschi di area media di circa 10 ha, con una densità unitaria ad ettaro pari a circa 100 piante, mentre notizie più certe riguardano il numero delle piante inventariate, pari a 693.000 secondo il catasto Surian. La gestione forestale assicurata dall’Arsenale nel corso degli anni tentò di apportare alcuni miglioramenti allo stato assai precario dei boschi (da un punto di vista selvicolturale), visto le densità assai varie (da 20 a 185 piante ad ettaro) e strutture altrettanto precarie, ed infatti all’epoca del catasto Contarini nel 1740 il numero delle roveri era salito a circa 850.000. Malgrado questo la seconda metà del ’700 si rivelò disastrosa per le sorti dei rovereti di pianura e all’arrivo dei francesi nel 1796 furono martellate appena 4000 piante adatte alle costruzioni navali, d’altra parte la gestione dei boschi da marina si dimostrò di gran lunga la più efficiente ed accurata della penisola. Solo alla metà del ’700 in Toscana l’inventario dei boschi da marina granducali lungo la costa, presenta una evoluzione rispetto agli inventari veneti, dovuta alla indicazione di classificare le chiome delle piante in tre categorie, per valutare l’abbondanza dei pezzi curvi necessari alle costruzioni navali, ma questo inventario ebbe un carattere episodico37. Non abbiamo notizie di inventari paragonabili a quelli veneziani per numero e continuità temporale, a conferma di una superiorità della Serenissima in questo settore, che ancora oggi non trova eguali in campo forestale.

36 37

L. Susmel, I rovereti... cit. M. Agnoletti, M. Innocenti, cit.

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Fig. 1 – Quercia adatta per la costruzione di pezzi curvi.

Fig. 2 – Quercia adatta per la costruzione di pezzi diritti.

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Fig. 3 – Segagione con sega a telaio di una rovere “da filo”.

Fig. 4 – Lavorazione di un tronco con la scure da squadratura per ottenere pezzi squadrati per il dritto di poppa.

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Fig. 5 – Il bosco del Montello, riservato all’uso esclusivo dell’Arsenale di Venezia nel 1471.

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Fig 6 – Illustrazione degli assortimenti necessari per una nave del XVII secolo (Ballu, cit.).

SAN ROSSORE 6000 ha 8708 p. 11753 p/ha 1,3

n. piante

5000 4000 3000 2000 1000 0 30

40

45

55

65

75

85

95 105 115 130 150 170 190

diametri

Fig. 7 – Struttura dei querceti da marina di San Rossore alla metà del ‘700 (Agnoletti e Innocenti cit.).

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Fig. 8a – Descrizione delle tecniche di coltivazione dei rovereti di Venezia dalla Terminazione del 16 dicembre 1777 (Tip. Pinelli, Venezia, 1778). Nella immagine si distinguono in alto i boschi “da fillo” adatti ai pezzi diritti, al centro ed in basso i boschi da stortami con indicati i punti dove recidere i rami.

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Fig. 8b – Ibidem. Si notano le forme delle parti della pianta con le corrispondenti denominazioni degli assortimenti.

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Fig. 9 – La lavorazione del tronco per ottenere pezzi squadrati veniva effettuata con la scure da squadratura, a lama larga, mentre invece per lo spacco veniva utilizzata un scure a lama più stretta e con la testa adatta ad essere colpita con la mazza. I cunei facilitavano la divisione del tronco, in tal modo per molti secoli si sono prodotte anche tavole.

Fig 10 – Imbarcazione in legno in costruzione, si notano in primo piano i pezzi curvi necessari per le costole dell’ossatura.

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Fig. 11 – Mappa delle zone di approvvigionamento dei legnami per le costruzioni navali delle marine italiane fra XV e XVIII secolo.