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Italian Pages 340 Year 1996
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Cinquant'anni di Repubblica italiana A cura di Guido Neppi Modona
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A cura di Guido Neppi Modona
Indice
p. VII
Presentazione di Guido Neppi Modona
Cinquant’anni di Repubblica italiana Le radici storiche della Costituzione Dalla Resistenza alla Costituzione di Paolo Barile Il patto costituzionale di Francesco Traniello Rileggere oggi la Resistenza di Claudio Pavone Una testimonianza di Vittorio Foa
Stato, impresa, sindacato Stato e mercato nell'Italia repubblicana di Valerio Castronovo Le culture economiche: idee e realtà di Siro Lombardini Un'esperienza sindacale di Cesare Damiano
Democrazia e diritti 125
Sui diritti sociali di Norberto Bobbio La Costituzione italiana tra democrazia
e diritti sociali di Pietro Scoppola
La democrazia minacciata 143 159 185
L’Italia dei poteri illegali di Luciano Violante I/ potere della mafia di Antonino Caponnetto Una testimonianza di Tina Anselmi
e i
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INDICE.
Nuove garanzie e riforme costituzionali p. 199
Costituzione e democrazia maggioritaria di Alessandro Pizzorusso
214
La Costituzione fra revisione e potere costituente
= 245
di Franco Pizzetti Verso unaiperdemocrazia plebiscitaria? di Gustavo Zagrebelsky
258
Una proposta per le riforme istituzionali: te la Commissione «Costituente» di Nilde Iotti
Storia e letteratura 267
Una proposta didattica di Adriano Ballone
293
Percorsi bibliografici
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Presentazione di Guido Neppi Modona
1. Questo volume, liberamente ispirato al ciclo di
lezioni su L'Italia repubblicana: cinquant'anni di storia, che si è svolto in un cinema di Torino nei mesi di febbraio e marzo 1995 di fronte a un foltissimo pubblico di studenti e docenti delle scuole medie superiori, si innesta su una tradizione torinese ed einaudiana di grande attenzione ai rapporti tra i giovani e la storia contemporanea. Il ciclo del 1995 si collega infatti idealmente a un’iniziativa della primavera del 1960, quando venne presentata in un grande teatro torinese una rassegna di dieci lezioni su Dall’antifascismo alla Resistenza. Trent'anni di storia italiana (1915-1945) - poi pub-
blicate in numerose edizioni nei «Saggi» e nei «Reprints» Einaudi dal 1961 al 1975 - rimaste memorabili per l’interesse suscitato e l'eccezionale afflusso di pubblico. Allora le lezioni furono organizzate da tre associazioni attive nel mondo della cultura politica e dell’impegno civile: Unione Culturale, Circolo della Resistenza, Consulta. L’attuale rassegna è stata organizzata dalla Fondazione Istituto Piemontese Antonio Gramsci e dall’ Assessorato per le Risorse Culturali e la Comunicazione della Città di Torino, nell’ambito delle iniziative del Comitato per la Costituzione Cittadini non sudditi e del Comitato torinese per le Celebrazioni del cinquantennale della Liberazione, attraverso una significativa sinergia tra l’associazionismo cultu-
rale e l’ente pubblico territoriale. A trentacinque anni di distanza non è mutato il mo-
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tivo ispiratore delle due iniziative, espresso da Franco Antonicelli, che delle lezioni del 1960 fu ideatore e promotore: «Esse nacquero dal sospetto (e per allora, una certezza) che la scuola non avrebbe mantenuto i pur vaghi impegni assunti programmaticamente di istruire le nuove generazioni sulle vicende da cui aveva tratto origine il fascismo, il suo trionfo, la sua decadenza e la fine rovinosa»; sospetto alimentato, allora come ora,
dalla radicata e ancora diffusa tradizione crociana di rifiuto della storia del presente, dal timore che le vicende della politica condizionino e appiattiscano l’obiettività della ricerca storica. Ma qui si fermano le analogie. Le differenze derivano non solo, ed evidentemente, dalla progressione dei periodi storici affrontati - il trentennio che abbraccia la prima guerra mondiale, il fascismo e la Resistenza armata nel 1960; il cinquantennio repubblicano nel 1995 - ma dal clima politico e istituzionale in cui ora ci rapportiamo alla nostra storia recentissima.
2. All’inizio degli anni Sessanta gli ideali della Resistenza e i valori costituzionali conservavano intatta
la loro potenzialità propulsiva. Aiutare i giovani a conoscere e ricostruire il ventennio fascista e le sue radici profonde nella storia italiana, insieme alle vicende dell’antifascismo, dall’opposizione clandestina all’impegno nella guerra di Spagna, sino ai diciotto mesi della guerra di liberazione contro i nazi-fascisti, era la premessa dell’impegno civile e politico di portare a compimento il programma di democrazia, di libertà e di eguaglianza che era stato scritto nelle carceri fasciste, durante la guerra civile, nel dibattito all’Assemblea Costituente e negli articoli della Costituzione repubblicana. I messaggi della storia erano chiari e univoci, quasi manichei. Ai giovani potevano essere trasmesse delle certezze: da una parte un regime dittatoriale che aveva distrutto le libertà e portato l’Italia alla rovina di un guerra impopolare con l’alleato nazista; dall’altra
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le prospettive di sviluppo di un ordinamento democratico, le cui potenzialità erano ancora in gran parte
inesplorate. In tale contesto era del tutto naturale che storia, cul-
tura e politica procedessero insieme, unificate dalla comune matrice antifascista ancora espressa dallo spirito ciellenista che aveva cementato la guerra di liberazione: non fu solo una questione generazionale se alcune lezioni vennero tenute da studiosi che a vario titolo era| no stati protagonisti dell’opposizione clandestina e della Resistenza (da Norberto Bobbio e Lelio Basso e Franco Venturi, da Leo Valiani a Raimondo Luraghi e Giorgio Vaccarino), e se vennero chiamati a testimoniare
personaggi che erano nello stesso tempo custodi della memoria storica del trentennio 1915-1945 e politici militanti: Umberto Terracini, Ottavio Pastore, Sandro Pertini, Mauro Scoccimarro, Emilio Lussu, Giancarlo
Pajetta, Palmiro Togliatti, Riccardo Lombardi. La continuità tra lotta contro il fascismo e impegno civile e politico nel presente, tra patrimonio ideale unitario dell’antifascismo e militanza politica, era il messaggio forte che studiosi e testimoni diedero allora ai giovani studenti torinesi. Franco Antonicelli poteva concludere la presentazione dell’edizione a stampa delle lezioni menzionando la lettera di Giacomo Ulivi, giovane combattente della Resistenza italiana condannato a morte, che cosî aveva scritto prima della fucilazione: «Al di là di ogni retorica, constatiamo come la cosa pubblica sia noi stessi, la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo, insomma, che ogni sua sciagura sia sciagura nostra, come ora soffriamo per l’estre-
ma miseria in cui il nostro paese è caduto: se lo avessimo sempre tenuto presente, come sarebbe successo questo ?»
i
L’immagine accreditata dall’antifascismo e dagli uomini politici che a esso si ispiravano era dunque la premessa dell’incitamento rivolto ai giovani a realizzare gli ideali incompiuti della Resistenza e della Costitu‘zione: esistevano allora gli spazi per trasmettere un’ere-
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dità di impegno civile e politico pronta per essere rac-
colta dalle nuove generazioni. 3. Trentacinque anni dopo, l'esigenza di dare ai giovani strumenti di conoscenza e di riflessione sulla recente storia italiana rimane intatta, ma le certezze con
cui venne affrontato il ciclo di lezioni del 1960 si sono dileguate insieme alla profonda crisi politica e istituzionale che l’Italia sta attraversando da più di un quinquennio. Ma sono proprio il crollo del sistema politico su cui si è retto il nostro Paese per quasi cinquant’anni e la crisi degli ideali che nel 1960 ispiravano ancora gli uomini dell’antifascismo e della Resistenza a rendere altrettanto urgente il bisogno di conoscenza e di riflessione sullo spessore, la complessità e le contraddizioni del cinquantennio repubblicano. Viviamo in un periodo in cui è sempre più diffusa la tendenza ad appiattire in un giudizio globalmente negativo l’intera esperienza del cinquantennio repubblicano, ivi comprese le sue radici antifasciste, i valori e
l'impianto della Carta Costituzionale, alla ricerca di un nuovo che vorrebbe cancellare il patrimonio della memoria storica che rende vitali i rapporti tra le generazioni. Eppure, nel bene come nel male, abbiamo vissuto cinquant’anni di vita democratica, più del doppio di quanto sia durato il ventennio fascista: è da questa constatazione che bisogna muovere per aiutare i giovani (e noi stessi) a capire cosa va mantenuto fermo e
difeso di questi cinquant'anni di storia, dove e perché i meccanismi del sistema politico e istituzionale si sono inceppati, come affrontare le confuse aspirazioni di chi vorrebbe mettere globalmente in discussione le stesse regole di funzionamento dell’ordinamento democratico e valori costituzionali che ritenevamo intangibili. Il contesto in cui vengono posti questi interrogativi
è assai difficile: proprio a causa della crisi, il distacco e il disimpegno dei giovani dalla politica è oggi di gran
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lunga maggiore che negli anni Sessanta, le cronache politiche non offrono grandi programmi o battaglie ideali, nessuno è in grado di offrire certezze, ma solo profili critici del passato e problematici circa i futuri assetti del Paese. Il percorso di questo ciclo di lezioni è appunto ispirato dall’obiettivo di fornire gli strumenti di conoscenza perché ciascuno possa tentare di rispondere a quegli interrogativi e valutare quanto, nel talvolta dissacratore dibattito attuale, vi sia di contin-
gente, legato allo scontro politico quotidiano, e quando invece risponda a esigenze reali di cambiamento e superamento delle ragioni della crisi. ‘A differenza che nel 1960, le lezioni non seguono pertanto lo sviluppo cronologico delle vicende del cinquantennio repubblicano, ma affrontano i grandi nodi tematici del passato recente per offrire strumenti di valutazione del dibattito sul presente, a partire dalle radici storiche, ideali e politiche della Repubblica e dai rapporti tra Resistenza e valori fondamentali della Carta Costituzionale, cosi come vennero prospettati, dibattuti e mediati tra le forze politiche presenti all’ Assemblea Costituente. 3.1. Attraverso questi tre momenti - Resistenza, dibattito alla Costituente, testo della Costituzione -
emerge una delle idee-forza di questo ciclo: la Costituzione è di tutti, è un patto che accomuna maggioranza e minoranza nel rispetto delle regole e dei valori fondamentali, quali che siano etichette, contenuti e programmi dei partiti e degli schieramenti allora e ora presenti nel quadro politico. Questo nodo di fondo rivissuto attraverso la cultura laica di un costituziona-
lista come Paolo Barile, ideale continuatore dell’opera di Piero Calamandrei, e la cultura del solidarismo cattolico di uno storico come Francesco Traniello, atten-
to al recentissimo impegno istituzionale di Giuseppe Dossetti, uno dei padri della Costituzione — spiega perché entrambi avvertano i rischi di confondere le esigenze di rifondazione del sistema politico e delle rifor-
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me costituzionali con la pretesa di cancellare con un colpo di spugna il comune passato che aveva cementato una nazione uscita dall’immane tragedia della seconda guerra mondiale e dal trauma di una sanguinosa guerra civile. Della guerra civile parla appunto Claudio Pavone, con un sofferta analisi di quali furono le motivazioni che spinsero i giovani di allora a schierarsi sui due fronti, mentre un testimone come Vittorio Foa si
è piegato sulle insicurezze e il disagio dei giovani di oggi, riuscendo con straordinaria sensibilità a gettare un ponte ideale tra esigenze, aspirazioni, illusioni, crisi e
incertezze di generazioni cronologicamente tra loro cosf lontane.
3.2. Via via si dipanano poi gli altri nodi di fondo del cinquantennio repubblicano. I mai risolti, o malamente risolti, rapporti tra economia di mercato e intervento statale nell’economia, sino all’attuale formu-
la più mercato e meno stato su cui sembra convergere la maggior parte degli economisti, ma dietro la quale stanno i rischi di una «deregulation» selvaggia o di un neoliberismo incontrollato. Rischi e confusioni che inducono Valerio Castronovo a sostenere la necessità di una seconda ricostruzione per ristabilire regole che consentano all’Italia di rimanere nel mercato internazionale, a partire dall’Unione Europea; mentre Siro Lombardini ripercorre, come studioso e protagonista diretto, le alterne — e tutt’altro che felici - vicende della programmazione economica, proponendo una strategia dello sviluppo economico, anche sulla base di alcune significative esperienze internazionali. Il sindacato è al centro della lezione di Cesare Damiano, che ne ripercorre a grandi linee la parabola storica, soffermandosi in particolare sull'esperienza personale di protagonista degli ultimi venticinque anni, a partire dalle grandi lotte, anche sociali, che hanno avuto inizio con l’autunno del 1969, sino alle sconfitte degli anni Ottanta e alle nuove prospettive di mediazione tra le parti sociali e di autonomia dei rapporti tra sindacato e politica.
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3.3. Norberto Bobbio affronta la progressiva integrazione dei tradizionali diritti individuali di libertà con il catalogo dei diritti sociali (eguaglianza sostanziale, lavoro, istruzione, salute, pensioni, ecc.), la loro
tendenziale attuazione nel cinquantennio repubblicano, i rischi a cui tali diritti sono esposti dalla crisi dello stato sociale. Bobbio fornisce non solo un prezioso inquadramento storico-comparato-sistematico dei rap-
porti tra diritti individuali di libertà e diritti sociali, ma un monito delle gravissime conseguenze che l’abbandono dei ceti più deboli ed emarginati comporterebbe per gli assetti democratici della nostra società, sino a concludere che i diritti sociali sono la premessa indispensabile per assicurare l’effettivo godimento delle libertà civili e politiche. La riflessione storica sui diritti sociali e le diverse culture che ne sono il presupposto sono al centro del lavoro di Pietro Scoppola: la naturale continuità tra liberalismo e democrazia sociale, attuata mediante la
progressiva estensione dei diritti sociali nelle costituzioni tra le due guerre, è spezzata dai regimi totalitari - sovietico, fascista, nazista — ove i diritti sociali si dis-
sociano dalle libertà civili e politiche, e anzi divengono strumenti essenziali di controllo e di asservimento politico delle masse. Compito dell’Assemblea Costituente fu appunto quello di ristabilire il nesso, spezzato dai regimi totalitari, tra diritti sociali e democrazia, attraverso il confronto tra le culture liberaldemocratica, marxista e cattolica, e le diverse componenti in esse presenti, reso possibile dall’obiettivo comune di superare il trauma della guerra e le cause che l’avevano prodotta. i
3.4. Le due Italie — quella del diritto e della legalità, e quella dei poteri occulti e illegali - che si sono variamente intrecciate nella storia della Repubblica attraverso i tentativi di colpo di stato, le deviazioni dei servizi segreti, il terrorismo neofascista e le stragi, il terrorismo rosso, la P2, le mafie, delineano, a fianco
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del faticoso sviluppo dell'ordinamento democratico, un sistema eversivo, le cui componenti sono state e sono
tanto più pericolose perché in grado di intrecciarsi tra loro e convergere verso obiettivi comuni di destabilizzazione del quadro politico e della legalità costituzionale. Della realtà complessiva del «doppio Stato» e del coacervo dei vari fenomeni eversivi si occupa Luciano Violante, indicando i possibili rimedi, sul terreno della politica, delle istituzioni e dell’impegno della società civile. Antonino Caponnetto e Tina Anselmi si dedicano, rispettivamente, alle varie forme di penetrazione dei poteri mafiosi nel territorio, nell'economia, nelle istituzioni, nelle amministrazioni locali, nella politica e
agli intrecci tra P2 e poteri legali. Caponnetto traccia una puntualissima storia dei poteri mafiosi nel cinquantennio repubblicano, dallo sbarco degli Alleati in Sicilia agli omicidi «eccellenti» dell’ultimo quindicennio, sino alla stagione del primo pool antimafia di Palermo, dei primi «pentiti», delle maxi-inchieste e dei maxi-processi, alla forte ripresa delle risposte della magistratura dopo le stragi di Capaci e di via Mariano d’Amelio dell’estate del 1992. Dal canto suo Tina Anselmi ripercorre il lavoro della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 e le difficoltà di ricostruire le attività di una loggia segreta a cui risultarono appartenenti 962 persone, tra le qua-
li: 8 generali dei Carabinieri, 8 ammiragli, 22 generali dell'Esercito, 5 generali della Finanza, 4 generali dell’ Aeronautica; un centinaio di uomini politici e alcuni ministri in carica; 8 direttori di quotidiani, 22 giornalisti o pubblicisti, 7 dirigenti della televisione, ecc. A ragione Tina Anselmi può sostenere che la P2 si è posta come un potere parallelo, ma non alternativo a quello legale, in quanto la sua forza e la sua pericolosità risiedeva nell’aver creato all’interno delle strutture esistenti una rete di rapporti gerarchici che avevano sovvertito quelli ufficiali, lasciandoli però formalmente integri: una sorta di occupazione dall’interno delle
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istituzioni, tanto più pericolosa perché coperta da assoluta segretezza e mimetizzata tra i poteri legali. Tre interventi che, nello stesso tempo, costituiscono un primo tentativo di sistemazione complessiva della realtà del «doppio Stato» e recano apporti di conoscenza e di testimonianza di tre protagonisti diretti della difficile azione di contrasto dell’Italia legale al sistema eversivo, rispettivamente in qualità di presi-
dente della Commissione parlamentare antimafia dell’XI legislatura, di consigliere istruttore dell’Ufficio Istruzione presso il Tribunale di Palermo, ideatore e animatore tra la fine del 1983 e i primi mesi del 1988 del primo pool antimafia con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, di presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2. 3.5. Il lungo percorso attraverso i nodi cruciali del cinquantennio repubblicano, iniziato con la riflessione sulle radici storiche e ideologiche della Repubblica e sui principi e valori comuni del patto costituzionale, condivisi e accettati da tutte le forze politiche che si riconoscevano nella matrice antifascista e nella comune volontà di costruire una nazione capace di uscire dalla tragedia della guerra, si chiude significativamente con le prospettive di riforma costituzionale e istituzionale, alla luce dell’ormai consolidata linea di tendenza verso un sistema di democrazia maggioritaria. Tema centrale è quello delle garanzie delle minoranze, disegnate dalla Costituzione del 1948 con riferimento a un modello elettorale proporzionale e a un sistema politico policentrico, che assicuravano comunque all'opposizione forme di rappresentanza e di partecipazione al circuito politico e istituzionale. Di qui l’esigenza che i meccanismi attraverso cui il sistema costituzionale riconosce la partecipazione delle minoran-
ze - dal procedimento di revisione della Costituzione alla designazione dei principali organi di garanzia e di controllo (presidente della Repubblica, Corte Costituzionale, Consiglio Superiore della Magistratura, Com-
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missioni parlamentari d’inchiesta, autorità amministrative indipendenti) - siano resi congeniali al nuovo sistema elettorale maggioritario; che gli organi di garanzia possano continuare a essere espressione di tut-
te le forze politiche e degli interessi, bisogni, posizioni dell’intera comunità nazionale, ivi comprese le minoranze, e non della sola maggioranza - quale che essa sia - uscita vittoriosa dalle elezioni. Attorno a questo tema si collocano da angolazioni diverse le pagine di Alessandro Pizzorusso, Francesco Pizzetti, Gustavo Zagrebelski, Nilde Iotti. Alessandro
Pizzorusso privilegia il tortuoso cammino che, attraverso i due referendum del 1991 e del 1993, ha portato alle leggi elettorali quasi maggioritarie dell’agosto 1993 e alle elezioni del 27-28 marzo 1994; quelle elezioni che, nelle opinioni dei vincitori, avrebbero definitivamente sanzionato il passaggio a un sistema maggioritario e, addirittura, dato vita a una nuova Costi-
tuzione «materiale», che a sua volta avrebbe legittimato una sorta di diretta investitura popolare del capo del governo, anche contro il voto parlamentare di fiducia a un nuovo governo. Francesco Pizzetti affronta i rapporti tra procedimento di revisione della Costituzione e Assemblea Costituente, dimostrando l’insussistenza dei presupposti storici e istituzionali che legittimerebbero il ricorso alla seconda per mutare l’assetto costituzionale e ricostruendo mediante una vastissima e preziosa documentazione le tappe del dibattito e le varie posizioni delle forze politiche e degli studiosi sulle riforme costituzionali. Quella ricostruzione è essenziale per capire quanto di serio e di meditato e quanto di strumentale e di approssimativo vi sia nelle varie proposte di riforma che costantemente vengono avanzate in con-. comitanza con i momenti di pit acuta crisi politica. Gustavo Zagrebelsky, nell'affrontare a sua volta il tema delle riforme costituzionali, sostiene provocatoriamente che bisognerebbe parlare non tanto di revisione, quanto di «restaurazione» costituzionale, per
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rendere attuale un sistema di garanzie delle minoranze non più congeniale al modello tendenzialmente maggioritario. Ma il tema centrale del suo intervento verte soprattutto su due nuovi profili delle pratiche politiche e istituzionali, capaci di vanificare l'essenza stessa del sistema democratico. Da un lato l’iperdemocrazia plebiscitaria, emblematicamente rappresentata dalla «sondocrazia», attraverso cui i governanti sarebbero in grado di interpretare in tempo reale inclinazioni e volontà dei governati, e quindi di orientarsi ove spira il favore popolare, cosf acquisendo forme di consenso plebiscitario; dall’altro la concentrazione dei tre poteri sociali — funzione economica, funzione politica, funzione ideologica o culturale - nelle mani di un solo soggetto, che dopo avere acquistato potere nell’ambito economico, ha usato questo potere nella sfera «culturale» mediante il mezzo televisivo, e poi ha utilizzato entrambe queste funzioni per acquistare potere nell’ambito politico. Se di modifiche costituzionali si deve parlare, è dunque per disciplinare l’uso della sondocrazia, per evitare che il cittadino si trasformi da attore della politica in un soggetto passivo che risponde solo alle sollecitazioni dei governanti, per dettare regole capaci di contrastare la sovrapposizione dei poteri sociali in capo a un medesimo soggetto: al centro della riflessione sta dunque il conflitto di interessi che coinvolge chi impropriamente strumentalizza il potere acquisito in un ambito per acquistare potere in un’altra sfera. La Costituzione del 1948 non poteva prevedere — e non ha in effetti previsto - alcuna regola per disciplinare e contrastare sondocrazia e conflitto di interessi,
ma le recenti vicende politiche hanno dimostrato quale sia il pericolo che si cela nell’uso delle tecniche della sondocrazia, specie a opera di chi sia in grado di concentrare nella sua persona i poteri economico, cultura-
le e politico: il passaggio da un ordinamento democratico a un regime plebiscitario sarebbe allora un fatto compiuto.
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Infine Nilde Iotti, nel 1946 giovanissima componente dell’ Assemblea Costituente, deputato in tutte le successive legislature, presidente della Camera dei Deputati dal 1979 al 1992, porta la sua testimonianza di tenace e combattiva militante del principale partito di opposizione, di protagonista di memorabili battaglie parlamentari per le libertà e i diritti civili della donna, di sensibile e inflessibile difensore del ruolo istituzionale di rappresentante del potere legislativo ricoperto per oltre tredici anni, di presidente della Commissione bicamerale per le riforme costituzionali della XI Legislatura, in un ideale confronto tra ciò che dalla Costituzione si aspettavano i giovani del 1946 e ciò che possono e debbono pretendere i giovani chiamati oggi a difenderla da chi vorrebbe rimuoverla insieme alla memoria storica degli avvenimenti che ne furono i presupposti. L'intervento di Nilde Iotti prende spunto dall’attività della Commissione bicamerale per suggerire i possibili meccanismi dell’opera di revisione costituzionale, che non dovrebbe comunque toccare i principi fondamentali e i diritti civili contenuti nella prima parte della Costituzione, ma limitarsi a modificare il sistema bicamerale e alcuni aspetti dei rapporti tra i poteri dello Stato. Obiettivi che potrebbero essere raggiunti mediante una Commissione costituente,
eletta all’interno del Parlamento sulla base dei voti ottenuti con la quota proporzionale del 25% prevista dall’attuale legge elettorale. ‘
3.6. Un volume che prende spunto da un ciclo di lezioni rivolto soprattutto ai giovani delle scuole medie superiori e ai loro docenti non poteva non farsi carico dei problemi e delle difficoltà di metodo che si pongono nell’insegnamento della storia contemporanea. Il tema è affrontato da Adriano Ballone, che indica possibili percorsi didattici basati sull’utilizzazione di opere letterarie che coprono l’intero arco storico del cinquantennio repubblicano, dal «lungo» dopoguerra al miracolo economico, sino agli anni «dell’incerta sog-
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gettività», nonché alcuni nodi tematici cruciali, dai rapporti Nord-Sud alla condizione operaia e alla nuova borghesia. Ne emerge un quadro assai ricco di stimolanti suggestioni, tra l’altro idoneo a un approccio interdisciplinare tra storia e letteratura, che potrebbe essere utilmente sperimentato per vincere le maggiori difficoltà che il docente di storia incontra nell’affrontare gli anni a noi più vicini, dovute tra l’altro al difficile reperimento delle fonti documentali. 4. L'attenzione e lo spazio dedicati alle tematiche delle riforme costituzionali attribuiscono a questo volume un carattere di particolare attualità. In un momento in cui la stagione delle riforme è nuovamente al centro del dibattito politico e sembra intrecciarsi con la stessa azione di governo, i moniti degli storici, dei giuristi e dei politici che si sono misurati sui profili istituzionali del cinquantennio repubblicano recano infatti contributi preziosi per comprendere i rischi e i limiti di un processo riformatore che pare talvolta appiattito sulle esigenze contingenti del conflitto politico. Il 1996 si è aperto con il rilancio delle prospettive di un radicale mutamento della forma di governo, sino a suggerire meccanismi di diretta designazione popolare del presidente del Consiglio, ovvero modelli di Repubblica presidenziale o semipresidenziale, evocando talvolta a sproposito sistemi assai lontani dalle tradizioni politiche e istituzionali della realtà italiana. Basti pensare alle conseguenze che l’elezione diretta del capo del governo comporterebbe sui poteri e sulle fun-
zioni del Parlamento e del presidente della Repubblica, su cui si basa il delicato equilibrio dei rapporti tra potere esecutivo, legislativo e giudiziario del nostro sistema istituzionale. La bruciante esperienza del recente mutamento del sistema elettorale, realizzato senza il contestuale adeguamento degli istituti di garanzia e di controllo che avrebbero dovuto accompagnare il passaggio dal mo-
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dello proporzionale a quello tendenzialmente maggioritario con cui si sono svolte le elezioni del 1994, è un esempio quanto mai significativo dei contraccolpi provocati da riforme non sufficientemente meditate, ov-
vero dettate dall’esigenza di risolvere sul terreno costituzionale nodi e tensioni che in realtà appartengono al mondo della politica e che dovrebbero essere risolti con gli strumenti propri del conflitto politico. L’insegnamento che si può trarre dai contributi pubblicati in questo volume è appunto di usare grande cautela prima di avventurarsi in un processo riformatore che potrebbe coinvolgere l'assetto complessivo dei rapporti tra i poteri dello Stato, per di più in presenza di un quadro politico ben lontano dal clima che aveva ispirato i lavori dell’ Assemblea Costituente. Allora forze politiche anche profondamente antagoniste avevano trovato un terreno d’incontro nella comune matrice antifascista, che a sua volta si era tradotta nell’interesse
generalmente condiviso di assicurare regole e meccanismi idonei a scongiurare rischi di tentazioni autoritarie e illiberali. L'attuale quadro politico sembra invece caratterizzato dall’incapacità di perseguire interessi generali: al contrario, gli interessi particolari di ciascuna parte politica, in vista dei vantaggi immediati e contingenti che potranno derivare da questa o quella modifica della forma di governo, sono gli obiettivi che sorreggono il processo riformatore. Neppure il «velo dell’ignoranza», che nel biennio costituente giocò un ruolo non indifferente nell’indurre i partiti a trovare un accordo sulle garanzie minime per chi sarebbe rimasto in minoranza, e che caratterizza anche l’attuale stagione di transizione, pare capace di sollecitare la ricerca di un terreno comune d’incontro, ispirato dal senso dello Stato piuttosto che dalla miope rincorsa di vantaggi particolari. Anche sotto questo punto di vista, l’esperienza storica della Costituente, quale emerge dalle testimonianze e dalle riflessioni contenute in questo volume, offre criteri di valutazione e di giudizio assai utili per
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orientarci nei difficili e apparentemente inestricabili rapporti tra le esigenze della politica e i percorsi delle riforme; quanto meno indica, sul terreno dei valori e della coerenza istituzionale, alcune pregiudiziali di metodo che dovrebbero comunque essere tenute ferme in questo lungo periodo di transizione dell’ultimo decennio del ventesimo secolo. Torino, gennaio 1996.
Il corso di lezioni organizzato dalla Fondazione Gramsci è stato reso possibile grazie al contributo, non solo finanziario, della Città di Torino e, in particolare, dell’ Assessorato per le Risorse Culturali e la Comunicazione, e all’adesione del Provveditore agli Studi della Provincia di Torino, che ha promosso la più ampia diffusione dell’iniziativa negli istituti di istruzione superiori. Ringrazio in particolare il sindaco di Torino Valentino Castellani, l'assessore Ugo Perone, il provveditore agli studi Luigi De Rosa, anche per essere intervenuti e per avere preso la parola in occasione della prima lezione: la loro presenza è stata un segno tangibile della felice forma di collaborazione tra l’ente pubblico territoriale, l’istanza locale del Ministero della Pubblica Istruzione e l’associazionismo culturale su temi cosî impegnativi nel campo dell’informazione e della formazione. Adriano Ballone e Gabriella De Blasio hanno rispettivamente curato il coordinamento scientifico tra gli autori delle lezioni, e i rapporti con gli insegnanti e gli studenti delle varie scuole. L’ordinata accoglienza di un numero variabile tra 600 e 800 studenti è stata resa possibile grazie alla disponibilità di Sergio Toffetti, del Museo del Cinema, che ha predisposto il collegamento televisivo a circuito chiuso tra le varie sale del Cinema Massimo. Mi sia consentito, infine, menzionare l’intelligente e instancabile lavoro dello staff della Fondazione Gramsci, dal direttore Sergio Scamuzzi ad Angela Ferrari e Anna Silvestro, grazie ai quali sono stati affrontati e risolti i non facili problemi organizzativi del ciclo delle lezioni e della divulgazione nelle scuole torinesi. G. N. M.
Cinquant'anni di Repubblica italiana
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Paolo Barile Dalla Resistenza alla Costituzione
1. Il tema dei rapporti tra Resistenza e Costituzione, nell’ambito del quadro generale dei valori fondanti della Repubblica, presuppone alcune considerazioni sulle concezioni istituzionali affiorate durante la Resistenza, per verificare se e quali sono stati i collegamenti tra l’una e l’altra, tra Resistenza e Repubblica. Va subito detto che durante la Resistenza non fu dato molto rilievo alla «politica», che allora non poteva riferirsi ad altro che alla costruzione dello Stato del domani. Al di là di uno stanco e superficiale indottrinamento da parte dei commissari politici delle formazioni partigiane, non vi fu una vera discussione sui valori fondanti dello Stato futuro. D’altra parte, si stava combattendo una dura guerra civile, che non lasciava molto tempo per discutere. In quelle che potremmo chiamare «tracce di discussione istituzionale», la politica veniva soprattutto intesa come dovere. Su questo punto insistevano pressoché tutti i partiti che parteciparono alla Resistenza: cattolici, comunisti, socialisti e il Partito d'Azione, di cui anch’io facevo parte. La politica, dunque, come dovere, come prospettiva di un domani contrassegnato da un carattere sostanzialmente nuovo per la storia italiana,
definita da Alessandro Galante Garrone la «politica dei non politici», ove non sarebbero stati presenti i «politicanti», intesi come professionisti della politica. Questa impostazione era particolarmente presente
nel Partito d'Azione e nella stessa Democrazia Cristiana, come è stato ampiamente messo in rilievo da
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Claudio Pavone nelle sue ricerche sullo spirito della Resistenza. Da parte dei cattolici si insisteva soprattutto
sulla necessità di un’educazione politica dei giovani, in particolare educazione alla libertà e all’antifascismo. Guardando al futuro e all’esigenza di evitare gli errori del passato, si imputava soprattutto al disinteresse e al disimpegno politico la responsabilità della nascita e dell’avvento del fascismo. Di qui la necessità che i giovani del domani si impegnassero nella politica sotto il segno dell’antifascismo. Sin dall’inizio del 1943 la Democrazia Cristiana diffuse, naturalmente in forma clandestina, un programma politico per la futura Italia, poi
ampliato dopo l’8 settembre, ma anche tra le forze cattoliche non erano queste le preoccupazioni principali di quegli anni. Il Partito d'Azione non formulò un vero e proprio programma politico-istituzionale, salvo l’idea, poi sostenuta all’Assemblea Costituente, della repubblica presidenziale. Se repubblicana doveva essere la forma di Stato in Italia, come poi in effetti fu con il referendum del 2 giugno 1946, la Repubblica secondo il Partito d'Azione avrebbe dovuto essere di tipo presidenziale, sul modello statunitense. Il Presidente della Re-
pubblica, eletto dal popolo, riassume in sé i poteri dell'Esecutivo e nomina tra personalità di sua fiducia i componenti del Governo, che non devono necessariamente godere la fiducia del Congresso, cioè del Parlamento, e che possono cost assolvere alle loro funzioni senza rischi di crisi di governo o di rimpasti della compagine governativa. La separazione tra Esecutivo e Legislativo è quindi assai marcata, in omaggio del re-
sto ai principi della separazione dei poteri introdotti da Locke e Montesquieu. In quell’epoca, noi del Partito d'Azione pensavamo che la forma di Stato pit adatta per l’Italia dovesse appunto essere una repubblica di tipo presidenziale, soprattutto per una ragione fondamentale: dato che una delle cause del fascismo era certamente stata il cosidetto «parlamentarismo», cioè la crisi e la dissoluzio-
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ne del regime parlamentare classico, bisognava impedire che si riproducessero forme di parlamentarismo analoghe a quelle che avevano prodotto o, perlomeno, contribuito a produrre il fascismo. Per evitare questo rischio, occorreva quindi una decisa separazione dei poteri, assai più netta di quanto poi risultò nel testo costituzionale. Nella Costituzione italiana, infatti, non esiste uno
specifico principio che stabilisca la distinzione dei tre classici poteri. Vi sono norme che garantiscono la nettissima separazione tra uno dei poteri - quello giudiziario — e gli altri poteri, ma in realtà tra Governo e Parlamento, tra esecutivo e legislativo la separazione è assai meno netta di quanto alcuni avevano auspicato.
All’interno del Partito d'Azione - soprattutto per iniziativa di Vittorio Foa, degli appartenenti a Giustizia e Libertà e anche di quelli che, come il sottoscritto, provenivano da «liberalsocialismo» — assai più significativa fu la discussione sulla cosidetta «terza via», che si sarebbe poi tradotta nella «Costituzione economica». In sostanza, per gli azionisti che avevano approfondito più di altri irapporti economici, la terza via avrebbe dovuto risolversi nella socializzazione, ma non nella statalizzazione dell'economia, in questo differenziandosi radicalmente - ecco perché l’etichetta di terza via — non soltanto dalle dottrine e dalle teorie degli Stati liberaldemocratici, ma anche e soprattutto dagli Stati che sarebbero poi stati chiamati del «socialismo reale», dall’Unione Sovietica agli Stati satelliti. La disciplina dei rapporti economici nella Costituzione repubblicana deriva anche da queste posizioni del Partito d'Azione. Al riguardo, segnalo un esempio ‘che viene menzionato abbastanza raramente: nel periodo della Resistenza si era discusso del principio cooperativo e un articolo sulla cooperazione è entrato a fare parte della Costituzione, introducendo un tema che credo non figuri in altre costituzioni europee. ‘Per concludere sul dibattito politico-istituzionale du-
rante la Resistenza, le ispirazioni ideali di fondo dei re-
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sistenti erano piuttosto la fiducia nei valori della vita e dell'umanità, quali emergono dalle altissime testimonianze contenute nelle lettere dei condannati a morte. Il legame tra Resistenza e i lavori dell’ Assemblea Costituente fu quindi soprattutto di natura ideale, e sarebbe azzardato parlare di un legame organico e diretto tra la Resistenza e i principi costituzionali, cioè di principi giuridico-istituzionali elaborati durante la Resistenza, destinati a tradursi nella Costituzione re-
pubblicana.
2. Ilavori per l'Assemblea Costituente in realtà eb- bero inizio solo dopo la Liberazione, all’interno della Commissione Forti, istituita presso il Ministero per la Costituente, che venne affidato a Pietro Nenni. Alla Commissione Forti parteciparono i più presti-
giosi «cervelli» dell’epoca; fu una commissione di studio e di ricerca che creò le premesse del lavoro dell’ Assemblea Costituente e delle prime bozze del testo costituzionale. L’elaborazione fu assai travagliata e tormentata, anche perché si partiva da una serie di progetti e di idee su cui in precedenza non vi era stato un dibattito e un’elaborazione approfonditi. A titolo di esempio, è significativo che non passò la proposta della repubblica presidenziale, sostenuta dai sette rappresentanti del Partito d'Azione, anche perché costituiva un'assoluta novità per la tradizionale cultura istituzionale italiana, e in quanto tale non condivisa dalle altre
forze politiche.
E difficile oggi, a distanza di quasi un cinquantennio, ipotizzare quale sarebbe stato il destino della nostra Repubblica se quella proposta fosse stata approvata. Il richiamo alla repubblica presidenziale servi comunque quale monito contro il male del parlamentarismo, e si tradusse in un famoso ordine del giorno dell’onorevole Perassi, votato alla Costituente, in cui si affermò la volontà di dare vita ad una Repubblica parlamentare classica, ma con la consapevolezza che dovevano es-
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sere evitate le degenerazioni verificatesi nel corso dell’esperienza storica dello Stato liberale.
Nasce forse da questa preoccupazione il controllo sulla costituzionalità delle leggi ordinarie affidato alla Corte Costituzionale, che potrebbe essere definita il giudice delle leggi, in quanto le è attribuito il compito di verificare la conformità delle leggi ordinarie con la Costituzione. Ricordo che una volta, dopo aver parlato per un’ora e mezza ai ragazzi di una scuola media, una bambina mi pose una domanda imbarazzante: «Scusi professore, lei ha detto che le leggi le fa il Parlamento, poi però c’è quel giudice, la Corte Costituzionale, che rivede le bucce per vedere che le leggi non violino la Costituzione. Ma il Parlamento non sa che c’è la Costituzione, non conosce la Costituzione?»
3. Sui rapporti tra guerra di Liberazione e conte-
nuti e valori fondanti della Costituzione, si può dire in estrema sintesi che la Resistenza è stata l’episodio culminante della lotta per i principi non solo di libertà, ma anche di eguaglianza, che poi si tradussero in termini giuridici nella Carta Costituzionale. Proprio su questo tema si deve registrare un recente scambio di vedute tra Norberto Bobbio e Vittorio Foa. Quest’ultimo, secondo Bobbio, accentua l’identificazione del-
la Resistenza come lotta per la libertà, mentre Bobbio — quantomeno in una visione «da sinistra», dal punto di vista dell’azione delle sinistre nella Resistenza - pone pit l’accento sulla Resistenza come lotta per l’eguaglianza. In realtà sia l’una che l’altra — sia l'affermazione delle libertà civili, sociali, politiche che la difesa e la promozione dell’eguaglianza — sono presenti nella Costituzione con una grande determinazione e ricchezza di dettagli. In particolare, l'eguaglianza interviene non solo come valore formale (art. 3 comma 1°: «tuttii cittadini... sono eguali davanti alla legge...»), ma anche
come eguaglianza dei punti di partenza, come valore
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sostanziale (art. 3 comma 2°: «E compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che [...] impediscono il pieno sviluppo della persona umana...»). Perché vi sia vera eguaglianza sostanziale, perché a tutti sia garantito lo stesso cammino nella vita, occorre che le condizioni economiche di
partenza siano tali da assicurare a tutti le medesime potenzialità. È ovvio che in uno Stato capitalistico moderno l’attuazione dell’eguaglianza sostanziale è un obiettivo molto difficile. Nel 1989, quando cadde il muro di Berlino, Norberto Bobbio ebbe a dire: E morto il comunismo, ma questo non significa automaticamente vit-
toria del capitalismo cosî come si presenta oggi negli Stati occidentali contemporanei. Anzi, potremmo dire che oggi il capitalismo deve farsi carico di quelle esigenze alle quali il socialismo non è riuscito a rispondere, per la semplice ragione che quelle esigenze esistono, sono reali: che in Italia vi siano otto milioni di
persone al di sotto della soglia di sopravvivenza è un fatto inaccettabile, quale che sia il sistema economico su cui si regge uno Stato democratico. Tornando ai valori fondanti della Costituzione, e te-
nendo presente che parlando di ieri non si può mai prescindere dal confronto con l’oggi, libertà ed eguaglianza sono principi legati non solo alla Resistenza, ma anche . al momento storico in cui si colloca la Costituzione, appena dopo la conclusione della seconda guerra mondiale. Il rapporto con l’esperienza della guerra e con tutte le sue conseguenze è stato recentemente sviluppato da Giuseppe Dossetti, che è stato uno dei Costituenti più attivi, attraverso una riflessione molto avvincente. Qui è sufficiente precisare che è comunque necessario prendere atto che i principi fondamentali si collocano nel clima di una generazione duramente provata dal conflitto mondiale, accomunata dalla volontà di evitare il ripetersi di quell’immane tragedia. Sul terreno più generale dei rapporti tra la nostra Costituzione e i modelli costituzionali, è certo che la
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Costituzione italiana si innesta nella tradizione del costituzionalismo contemporaneo e appartiene al modello degli Stati democratici e delle costituzioni liberaldemocratiche. Troviamo quindi nella Costituzione del 1948 la riaffermazione dei principi liberali in tema di diritti inviolabili dell’uomo, le libertà civili, l’egua-
glianza dei cittadini di fronte alla legge, la supremazia della legge nel sistema delle fonti e le conseguenti numerose riserve di legge disposte da varie norme della Costituzione, il principio rappresentativo, con l’attri-
buzione al Parlamento delle fondamentali funzioni di indirizzo politico, il principio di legalità dell’azione amministrativa, e infine le forme liberali classiche, nei limiti già esposti, della divisione e del coordinamento tra i poteri dello Stato, fermo restando il principio dell’indipendenza della magistratura. A proposito della divisione e del coordinamento tra i poteri, si può aggiungere che oggi Montesquieu con-
staterebbe che accanto ai tre poteri classici — legislativo, esecutivo e giudiziario — esistono altri poteri, che debbono anche essi rimanere separati: - il potere politico, che si incentra soprattutto nella maggioranza parlamentare e nel Governo; — il grande potere economico, che per la sua entità condiziona o può condizionare le scelte dello Sta-
to; — il grande potere radiotelevisivo, oggi rappresentato in Italia dal duopolio Rai-Fininvest. In uno Stato ben ordinato, anche questi tre poteri dovrebbero essere separati, ma per raggiungere almeno in parte questo obiettivo è essenziale una disciplina legislativa sul conflitto di interessi. All’interno degli organi di governo il conflitto di interessi può infatti dare luogo a prese di posizioni, decisioni e scelte tali da sacrificare o condizionare gli interessi generali a vantaggio o a danno di altri interessi di natura particolare, rappresentati appunto nel governo. Nell’ambito del potere mediatico, in particolare del potere tele-
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visivo, questi meccanismi possono produrre gravissime
disparità di trattamento, che potrebbero persino modificare in senso totalitario il nostro sistema politico.
4. Noneracerto questa l'ispirazione ideale della nostra Costituzione, espressione di un sistema liberaldemocratico basato sulla sovranità popolare, che viene infatti menzionata nell’art. 1 comma 2°, peraltro opportunamente mediata dai partiti e dai meccanismi della democrazia parlamentare. Parlare di ispirazione ideale della Costituzione italiana presuppone una riflessione sul nesso fra i contenuti costituzionali e le idee e i programmi dei partiti, soprattutto delle tre maggiori forze politiche - Democrazia Cristiana, Partito Socialista e Partito Comuni-
sta - presenti nell’ Assemblea Costituente. Richiamandomi all’impostazione seguita di recente da un valente costituzionalista (Valerio Onida, Costituzione Italiana, in Digesto delle Discipline Pubblicistiche, vol. IV),
di cui voglio qui sottolineare la particolare chiarezza e linearità, va detto che la «cultura costituzionale» dei
partiti e dei loro esponenti non era in quell’epoca storica molto sviluppata. A parte le minoranze liberali e repubblicane, che affondavano le loro radici nel periodo risorgimentale, i grandi partiti di massa erano di origine assai recente: fine Ottocento per il Partito Socialista; 1921 per il Partito Comunista; primi anni del secolo per il Partito Popolare, che si presentava come partito democristiano, rifondato nel 1942-1943, negli stessi anni in cui erano venute a esistenza le due formazioni minori del Partito d’Azione e della Democrazia del Lavoro. Il ventennio fascista aveva poi troncato ogni libera esperienza istituzionale e lo stesso libero sviluppo delle organizzazioni politiche; i primi anni dopo la caduta del fascismo erano inoltre caratterizzati dalla provvisorietà e dalle impellenti esigenze della lotta armata, dalla precarietà della situazione economica e sociale,
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cioè da una situazione assai poco idonea a una tran-
quilla e serena elaborazione dei temi costituzionali. Nel periodo costituente i partiti riproposero quindi le proprie ispirazioni ideali, sulla base delle elaborazioni culturali e istituzionali allora disponibili, che certamente risentivano della lunga parentesi del ventennio fascista. Terreno comune era la matrice antifascista delle forze politiche presenti all'Assemblea Costituente, ma sul terreno dei contenuti quelle forze esprimevano posizioni talvolta antitetiche. E questa la ragione per cui si è soliti parlare della Costituzione come confluenza in «compromesso» delle tre grandi correnti ideali e di pensiero che si ponevano, ciascuna per la sua parte, agli antipodi della concezione totalitaria dello Stato fascista: quella cattolico-democratica, quella di ispirazione marxista, quella liberaldemocratica. In effetti, di queste tre matrici ideali vi sono tracce evidenti nella Costituzione del 1948. Il filone cattolico-democratico, rappresentato dal partito di maggioranza relativa all’ Assemblea Costituente, trova espressione, tra l’altro, nell’ispirazione personalista e nell’attenzione per le comunità intermedie (art. 2), nell’idea di una comunità internazionale che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni (art. 11), nella riconferma dei
Patti Lateranensi (art. 7), nell’attenzione per i diritti della famiglia (artt. 29 e 30) e per la scuola privata (art. 33), nel favore per le forme di attività economica basate sulla cooperazione tra capitale e lavoro (artt. 44, 46 e 47). Anche sul terreno dell’organizzazione dei poteri dello Stato sono riscontrabili aspetti che riflettono postulati e programmi del cattolicesimo democratico, dal primato del Parlamento al regionalismo politico e amministrativo, dagli istituti di democrazia diretta al controllo giurisdizionale della Corte Costituzionale. Non altrettanto evidenti sono le tracce dell’ispirazione della cultura marxista, sia per i limiti di ap-
profondimento e di elaborazione giuridico-istituzionale dei due partiti della sinistra, sia perché socialisti e comunisti non pretesero di impostare una Costituzio-
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ne modellata sui loro programmi, ma si limitarono a rivendicare la più ampia affermazione dei diritti di libertà e un ordinamento in cui trovasse espressione la
sovranità popolare mediata attraverso i partiti di massa, rinviando a un momento successivo l’eventuale tra-
sformazione del Paese in senso socialista. L’influsso della cultura marxista è comunque riconoscibile nei temi dell’eguaglianza sostanziale (art. 3 comma 2°), del diritto al lavoro (art. 4) e dei diritti del lavoro (artt. 35
sgg.), del governo pubblico dell’economia o, quantomeno, nelle regole imposte dallo Stato nel governo dell’economia, al fine di garantire la libertà della concorrenza e di evitare la formazione di monopoli pubblici o privati (artt. 41, 42 e 43), del ruolo dei partiti politici (art. 49). La terza ideologia, quella liberaldemocratica, non era rappresentata all’Assemblea Costituente da alcuno dei grandi partiti, ma tuttavia presente in personalità di altissimo rilievo e prestigio culturale, da Einaudi a Calamandrei, e anche da personaggi «storici» della classe politica prefascista, quali Orlando, Nitti, Croce. Inoltre, il bagaglio ideale liberaldemocratico, che affonda le sue radici nelle rivoluzioni borghesi della fine del Settecento, si rifletteva in varia misura nelle altre cor-
renti ideali. La presenza di queste ispirazioni, posizioni politiche, spinte e istanze anche assai divergenti tra loro ha appunto indotto a definire la Costituzione come il frutto di un compromesso; di compromesso costituzionale parlarono tra l’altro anche numerosi costituenti, a partire dallo stesso Calamandrei. Nel termine compromesso si cela in genere un certo disprezzo verso la Costituzione, in particolare nella menzione di quelle nor-
me che esprimerebbero delle contraddizioni interne, quale a esempio l’art. 41, ove viene affermato nel comma 1° il principio della libertà dell’iniziativa economica privata, mentre nei commi 2° e 3° vengono posti
dei limiti («non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla
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libertà, alla dignità umana») o degli obiettivi («la legge determina i programmi e i controlli opportuni per-
ché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali»). In realtà non si tratta di norme contraddittorie ma,
appunto, di compromesso, nel senso che, una volta decisa una linea di fondo, sono state poi introdotte eccezioni e deroghe che sono espressione del «patto» raggiunto tra forze portatrici di interessi e istanze diversi e talvolta tra loro antagonisti. AI di là degli aspetti di compromesso di alcune norme costituzionali, ciò che consente di parlare di Costituzione espressione non di maggioranza, ma di tutti,
di patto in cui si riconobbero tutte le forze politiche, è l’ispirazione fortemente garantistica dell’impianto costituzionale, presente non solo nel più ampio riconoscimento dei diritti di libertà, ma nell’individuazione
di due «garanti» fondamentali: da un lato il Presidente della Repubblica, cui è attribuito il potere di promulgare le leggi, ma anche di esercitare un potere di veto, rinviandole alle Camere qualora ritenga vi siano profili di incostituzionalità; dall’altro la Corte Costituzionale, che può annullare e, quindi, dichiarare pri-
ve di efficacia le leggi ritenute incostituzionali. Ove si voglia parlare di compromesso, ci si può riferire a quelle norme della Costituzione che assumono un carattere programmatico e di impulso: le forze di sinistra, come ebbe a rilevare Calamandrei, erano rima-
ste sconfitte nei loro obiettivi rivoluzionari e vennero in un certo senso «ricompensate» per la rivoluzione mancata dalle forze di destra e moderate, che acconsentirono a che nella Costituzione venissero inserite
norme che prefiguravano una rivoluzione promessa. Rivoluzione promessa che ebbe in realtà un’importanza assai maggiore di quanto gli stessi costituenti allora immaginarono: dalle norme cosiddette program-
matiche deriva una fetta consistente della giurisprudenza della Corte Costituzionale, che ha «scoperto» la concreta efficacia e portata di quelle norme costitu-
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zionali che vennero inizialmente irrise dai giudici della Cassazione, i quali nel 1956 arrivarono a sostenere che l’art. 21, in tema di libertà di manifestazione del pensiero, era una norma meramente programmatica. Al riguardo, è quanto mai significativo che la prima sentenza della Corte Costituzionale, emessa il 5 giugno 1956, abbia dichiarato, richiamandosi proprio all’immediata efficacia dell’art. 21, l’illegittimità costituzio-
nale dell’art. 113 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, che imponeva l’autorizzazione dell’autorità di pubblica sicurezza per l’affissione di manifesti e la distribuzione di stampati. 5. Il valore della Costituzione come «patto» che vincola tutti, e in cui dovrebbero riconoscersi le forze politiche, si riflette sul tema, oggi attualissimo, delle
modifiche del testo costituzionale. C’è chi vorrebbe modificare anche profondamente la Costituzione, in sostanza sostituirla con un’altra. Di fronte a questa prospettiva, accetto volentieri l’etichetta di conservatore, perché conservatori sono appunto coloro i quali intendono conservare la parte migliore e i valori pit profondi del nostro testo costituzionale. Il disegno di riscrivere l’intera Costituzione dovrebbe realizzarsi mediante l'elezione di una nuova Assemblea Costituente, ma il ricorso allo strumento costituente per modificare la Costituzione non sta scritto
in alcuna legge, non si sa neppure chi potrebbe chiamare alle urne i cittadini: si tratterebbe di un vero colpo di stato, che romperebbe la continuità giuridica e istituzionale del nostro ordinamento democratico. Per introdurre le necessarie e opportune modifiche della Costituzione non v’è bisogno di alcuna Assemblea Costituente, è sufficiente ricorrere al meccanismo di revisione costituzionale previsto dall’art. 138, eventualmente aggiornato per renderlo conforme alle garanzie delle minoranze necessarie nel nuovo sistema elettorale di tipo maggioritario.
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Stiamo attenti: chi propugna una vera e propria Assemblea Costituente, che verrebbe necessariamente a
esercitare la pienezza del potere costituente su qualsiasi parte e norma del testo costituzionale, vuole in realtà riscrivere l’intera Costituzione, vuole una nuo-
va Costituzione, che metterebbe a repentaglio il sistema di garanzie e di libertà faticosamente conquistato cinquant'anni orsono sulle macerie della seconda guerra mondiale e sul crollo del regime fascista.
Francesco Traniello Il patto costituzionale
Uno dei padri della Costituzione repubblicana, che da molti anni ha abbracciato la vita monastica, ma la cui voce continua a risuonare forte e sollecitatrice in
un orizzonte tanto povero di autentici profeti e di «uomini spirituali», ha proposto alcuni mesi orsono una sua lettura tutt’affatto originale e anticonvenzionale dello spirito animatore della nostra Costituzione. Una lettura il cui senso profondo consiste in una radicale messa in discussione della tesi, largamente accettata sino a diventare un luogo comune, che considera la nostra carta fondamentale sotto un’unica angolatura, cioè come prodotto di un «compromesso» tra partiti e culture politiche. Invece, nelle parole di Giuseppe Dossetti la matrice ultima della Costituzione repubblicana e l’anima che la pervade vanno cercate e attinte non tanto nella trama di una vicenda storica particolare, né ricondotte, in radice, alle contingenze, per quanto eccezionali, di un incontro di ideologie, oltre che di mo-
vimenti e forze politiche, bensî nell’evento «globale», come Dossetti lo definisce, che ha cambiato la storia del mondo, cioè i sei anni della seconda guerra mondiale. «Anche il più sprovveduto o il più ideologizzato dei Costituenti non poteva non sentire alle sue spalle l’evento globale della guerra testé finita. Non poteva,
anche se lo avesse cercato di proposito in ogni modo, dimenticare le decine di milioni di morti, imutamenti radicali della mappa del mondo, la trasformazione quasi totale dei costumi di vita, il tramonto delle grandi
culture europee, l'affermarsi del marxismo in varie re-
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gioni del mondo, i fermenti reali di novità in campo religioso, la necessità impellente della ricostruzione economica e sociale all’interno e tra le nazioni, l’urgere di una nuova solidarietà e l'aspirazione al bando della guerra. Quindi l’acuirsi delle ideologie appena ritrovate e l’asprezza dei contrasti politici tra i partiti appena rinati, e lo stesso nuovo fervore orgoglioso determinato dalla coscienza resistenziale non potevano non inquadrarsi, in certo modo, in pit vasti orizzonti, al di
là di quello puramente paesano e non potevano non inserirsi anche in una nuova realtà storica globale su scala mondiale. Nel 1946 certi eventi di proporzioni immani - prosegue il testo dossettiano — erano ancora troppo presenti nella coscienza esperienziale per non vincere, almeno in sensibile misura, sulle concezioni di
parte e le esplicitazioni, anche quelle cruente, delle ideologie contrapposte e per non spingere in qualche modo tutti a cercare, in fondo, al di là di ogni interes-
se e strategia particolare, un consenso comune, moderato ed equo. Perciò la Costituzione italiana del 1948 si può ben dire nata da questo crogiolo ardente e universale, più che dalle stesse vicende italiane del fascismo e del postfascismo: pit che dal confronto-scontro di tre ideologie datate, essa porta l'impronta di uno spirito universale e in certo modo transtemporale». A uno spirito siffatto va ricondotta, secondo Dossetti, la «co-
scienza unitaria» dalla quale la Costituzione prese forma (intervento pronunciato il 16 settembre 1994 a
Monteveglio, ora in «Aggiornamenti sociali», 11,
1994, PP. 700-1).
Un testo di tale portata ermeneutica induce a molte, anche contrastanti, riflessioni. Induce, certo, a legittime obiezioni di natura storica o politica. Sarà poi vero che nella coscienza dei costituenti, di ogni parte e convinzione politica, soffiasse questa sorta di «spirito universale» di cui parla Dossetti, operasse il senso, almeno recondito, di un attraversamento epocale che stava appena alle loro spalle? E, ammessa la «globa-
lità» della percezione del mondo dei costituenti, non
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fu poi il filtro rappresentato dalle loro culture e dai movimenti politici in cui militavano, il fattore necessario e determinante del loro specifico operare come costituenti, la materia prima del loro lavoro ?E infine non sarà il richiamo dossettiano allo «spirito universale» della nostra costituzione un aspetto di quella sacralizzazione costituzionale, che secondo alcuni impedisce di guardare a essa con spirito laico e riformatore, imbalsamandola in una sfera intoccabile e astratta? In realtà, siffatti e altrettali interrogativi, pur assolutamente legittimi, presuppongono, in certo modo, una concezione della storia che probabilmente non è quella dossettiana: appartengono, per cosi dire, a un discorso diverso. Resta tuttavia una domanda cruciale: la lettura che Dossetti va proponendo della vicenda costituente, con l’evidente intenzione di marcare, in
un certo senso, la perennità dello spirito che l’ha animata, apre o può aprire degli squarci, degli orizzonti nuovi anche sul piano della ricostruzione storica? Può dire qualcosa la lettura dossettiana della vicenda costituente a chi, dai lidi della destra, va richiedendo a gran voce — in nome della fuoriuscita dalle ideologie del Novecento proclamata sulla scorta di rimasticature filosofico-sociologiche di dubbio conio - la necessità di creare una cesura irreversibile con il nostro passato costituzionale, e dunque anche con realtà storiche, di fedi e di progetti, che vi si sono, per dir cosi, incorporate? Può suggerire qualcosa a chi va scrivendo, a sinistra, che se della Costituzione si volesse cogliere «lo stigma genetico fondamentale, si dovrebbe dire che prima di ogni altra cosa [essa] è un parto dell’accordo tripartito, della collaborazione fra i tre grandi movimenti e le tre grandi subculture di massa», onde andrebbe finalmente «sfatato il mito della Costituzione “presbite”, che uno scatto di lungimiranza dei suoi autori trae dalle secche della politica bassa perché prefiguri una cornucopia di giustizia sociale e di bene ordinata vita democratica» ?(S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, Marsilio, Venezia 1992, pp. 51-52).
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Alla luce dell’ondata «revisionistica» che accompagna la legittima esigenza di rifondazione del sistema politico e di riforma costituzionale con la pretesa di infliggere un colpo di spugna al nostro comune passato ma specialmente a un certo passato — credo che la lettura di Dossetti meriti una più pacata attenzione, non solo nell’orizzonte abbastanza ristretto e contingente delle attuali polemiche in materia costituzionale. In quell’intervento di Dossetti emergono, a mio giu-
dizio, tre concetti-chiave, con i quali è chiamato a misurarsi anche chi non condivide, o condivide solo in
parte, la sua concezione escatologica della storia - che è già peraltro cosa affatto diversa da una concezione «provvidenzialistica», di modello teologico o profano. Tali concetti riguardano: l'orizzonte globale, universalistico, identificato con l’immenso crogiolo bellico, nel quale secondo Dossetti va ricondotta la matrice profonda dell’ordinamento costituzionale; il ruolo efficace della «coscienza esperienziale» di chi quel crogiolo aveva, in modo diverso, attraversato; e l’imma-
gine di un «consenso comune, moderato ed equo» come condizione di fondo in cui il lavoro costituente ha potuto positivamente realizzarsi. Ognuno di questi concetti contiene, mi sembra, una suggestione cui è difficile sottrarsi; ma nel loro insieme configurano anche una proposta di rilettura storica complessiva del nesso tra Resistenza e Costituente, che è il tema di cui ci stiamo occupando. Il primo punto che ne emerge, o che comunque ci viene suggerito in maniera implicita, riguarda l’impossibilità di rescindere la vicenda italiana, e perciò anche la Resistenza, dall’evento «seconda guerra mondiale». E interessante osservare come Dossetti tenda a guar-
dare alla guerra non tanto dal lato delle sue origini o cause, bensi dal lato di ciò «che è stata», e, ancor più, dal lato di ciò che ha, per dir cosî, provocato o prodotto. Anche questo punto prospettico può apparire discutibile, o semplicemente lacunoso, in una logica di pura ricostruzione storiografica; ma ha il pregio di in-
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dicare due piste analitiche nient’affatto trascurabili. Da un lato sollecita a guardare alla Resistenza come a un «effetto» del più grande evento bellico, riportando a esso i confini dell’orizzonte in cui la Resistenza si colloca; dall'altro induce a considerare - sebbene questo aspetto sia appena sfiorato da Dossetti - la Resistenza come un superamento dell’evento bellico. Va subito osservato come l’implicita inserzione dossettiana della Resistenza nell’evento «guerra mondiale» abbia poco o nulla a che vedere con i tentativi, pur autorevoli, di attenuare o sminuire il rilievo storico e ideale della Resistenza, ridimensionandola al livello di un contributo marginale o addirittura irrilevante alla vittoria militare e politica degli Alleati. La strada interpretativa indicata tende invece a svincolarsi sia dai
limiti del «realismo» - per il quale il cammino della storia è sempre tracciato dai puri rapporti di forza tra gli Stati e i loro eserciti, sicché le vittorie e le sconfitte si misurano sul terreno esclusivo o prevalente dei successi e degli insuccessi militari -, sia dai condizionamenti di un eccessivo e pervasivo «ideologismo» per il quale la vittoria tocca sempre, e per definizione, a uno o più
«sistemi di valori» strutturati in maniera sistematica e compiuta. E evidente che, quando Dossetti si appella alla «coscienza esperienziale» — il secondo dei concetti-chiave messi in campo - di coloro che avevano vissuto sulla propria carne l’evento bellico e la frattura resistenziale, ci invita a riflettere su una dimensione che sfugge per sua natura sia alle definizioni del realismo che a quelle dell’ideologismo. Il richiamo dossettiano alla «coscienza esperienziale», e alla sua complessità, da situarsi compiutamente
nel ben più vasto e stratificato evento bellico, può funzionare come un salutare impulso a considerare che la trama della storia, affiorante con maggiore intensità in alcuni momenti forti del suo cammino, non s’identifica pienamente né con il primato della forza o della «potenza» — militare e statuale - né con quello delle ideologie. Questo modo di approccio non è certamente ir-
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rilevante ai fini di una ridefinizione dei concetti di Resistenza e dell’antitesi fascismo-antifascismo, e dei rapporti che li connettono alla fase costituente. Quanto al primo punto, l’idea o il concetto di Resistenza, è agevole dedurre dall’impianto del discorso dossettiano la sollecitazione ad accoglierne un’accezione che vorrei definire al tempo stesso «larga» e «sintetica». Larga, nel senso della copertura di un ambito semantico più esteso di quello che coincide o tende a coincidere con la sola dimensione di lotta armata. Sintetica, nel senso della irriducibilità della Resistenza al-
la pura sommatoria delle sue componenti. L’assumere un paradigma interpretativo di questo genere non implica affatto separare concettualmente la Resistenza dalla lotta armata, bensi collocare il problema della lotta armata in un contesto più ampio; ma implica anche pensare la Resistenza non semplicemente come puro retroterra o retrovia della lotta armata, cioè come l’insieme delle condizioni in cui la lotta armata ha potuto sorgere e svilupparsi. D’altro canto un’idea sintetica di Resistenza non significa negare o sottostimare la sua varietà fenomenologica e ideologica, ma restituire alla Resistenza il senso di una comune esperienza umana, seppur vissuta con modalità, in-
tensità e gradi di consapevolezza necessariamente diversi. In questo senso l’inserzione dell’evento «Resistenza» nell’evento «seconda guerra mondiale» può rivelarsi oltremodo produttivo. Un’accezione larga e sintetica di Resistenza chiama in gioco la questione dei «valori». Il termine stesso di «valori», come sa bene chi maneggia professionalmente questa materia, pone una somma quasi illimitata di
questioni. Come che sia, la domanda cui occorre dare risposta, posta quell’accezione di Resistenza, è la seguente: fino a qual punto è reperibile nella Resistenza un tessuto di valori comuni, sebbene producente comportamenti e atteggiamenti diversi? O, più radical mente, è definibile un ethos della Resistenza ?Con questa questione si è cimentato, come sappiamo, Claudio
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Pavone nel suo ormai celebre libro Una guerra civile (Bollati Boringhieri, Torino 1991); ma non ha esauri-
to, né poteva esaurire, l'argomento. Una risposta a quella domanda è probabilmente resa più agevole ponendo il fuoco dell’attenzione non solo su un’idea ampia e sintetica ma anche, vorrei aggiungere, «dinamica» e «processuale» della Resistenza, e connettendo a questa idea la coppia di opposti «fascismo-antifascismo». Le parole hanno, come gli uomini, una loro storia. Nel nostro caso è evidente, sebbene solo fuggevolmente analizzato, il legame genetico tra il termine «resistenza» e l'insieme di dottrine che hanno attraversato la cultura politica e civile di matrice cristiana - fondate su presupposti di natura teologica, seppur in seguito ampiamente secolarizzate - raccolte sotto la denominazione di diritto o di principio di «resistenza». Sin dalle sue origini il «diritto di resistenza» si fonda sulla contrapposizione a un potere «tirannico». Secondo questa tradizione, divenuta parte integrante della coscienza e dell’ethos europeo, la natura tirannica del potere consente di contestarne la legittimità e di opporvisi in nome di superiori principi morali, negati in radice dalla tirannide. E poi evidente che nel corso della storia l’idea di tirannide, e conseguentemente il diritto di resistenza, hanno subito varie metamorfosi,
in relazione all’evoluzione delle forme politiche e ai nuovi contenuti etici della coscienza collettiva. Resta tuttavia il fatto decisivo che il diritto di resistenza si basa su un giudizio etico che travalica la sfera dell’obbligazione politica, e diventa affare di coscienza. All’origine della Resistenza sta proprio un’applicazione più o meno consapevole del «diritto di resistenza» come suo principio comune e in certa misura prepolitico; cosf come è inconfutabile che l’esplicazione, le forme attuative di tale diritto abbiano seguito una loro evoluzione, si siano svolte secondo un processo. Comunque non sembra esservi discontinuità né logica né storica tra l’entrata in gioco del «diritto di resi-
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stenza» e la sua trascrizione politica e armata sotto for-
ma di guerra di liberazione.
E stato autorevolmente osservato che, in linea generale, la guerra di resistenza interviene nel momento in cui lo Stato sovrano perde il controllo sulla guerra; il che trasforma la guerra tra Stati in guerra civile (N. Matteucci, Resistenza, in Dizionario di politica, diretto da N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Utet, Torino 1983). Ma si è alquanto trascurato di dire che la
resistenza presuppone, per la sua natura concettuale, un giudizio di «tirannide», e dunque di illegittimità, nei riguardi di un potere di fatto. Guardando alla situazione italiana successiva all’8 settembre, i margini di dubbio o di contesa potevano riguardare - e riguardarono - le modalità di applicazione e, diciamo cosî, i limiti e la praticabilità del diritto di resistenza, ma pochi erano i dubbi sulla natura del potere e della coercizione al quale si era chiamati a «resistere». Se possiamo concedere che molti di coloro i quali aderirono alla Repubblica Sociale e servirono il nazifascismo fossero soggettivamente convinti di stare dalla parte del giusto, non possiamo non osservare che il loro «giusto», non includeva il diritto di resistenza. Sotto questo profilo la Resistenza si configura anzitutto come uno spartiacque tra due sistemi etico-politici, di due modi opposti di concepire il rapporto tra coscienza etica e legittimità del potere, e di definire i confini e le condizioni della seconda. Per tal motivo il termine Resistenza appare difficilmente sostituibile, e più comprensivo anche rispetto alla definizione di guerra di liberazione (che mantiene tutto il suo significato, ma in un ambito semantico più determinato). Quanto poi alla definizione di «guerra civile», è vero che il termine Resistenza è servito a esorcizzarne l’eco dolorosa e il senso traumatico, tanto più forte in una popolazione di cultura a prevalenza cattolica: ma è anche vero che grazie al suo forte riferimento etimologico la definizione di Resistenza consente di tener ferma una distinzione qualitativa, di principio, tra le parti coinvol-
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te in quella che possiamo oggi definire una «guerra civile di fatto». Ciò appare più chiaro se rapportiamo il concetto di Resistenza alla coppia antitetica fascismo-antifascismo. Il lungo e controverso cammino che ha percorso la riflessione storica ci consente ormai di riconoscere e di descrivere con una certa precisione il processo che, partendo da lontano, ma grandemente accelerato e fatto precipitare dalla guerra, si è tradotto nella coscien-
za collettiva in una sempre più diffusa ripulsa nei riguardi del fascismo, cioè appunto in un «sentire comune» antifascista: che è cosa sostanzialmente diversa, e ben pit durevole, di un’adesione puramente ideologica all’antifascismo nelle sue varie specie. Di fatto i percorsi compiuti verso un tale comune sentire furono determinati dal manifestarsi delle più varie «coscienze esperienziali», per riprendere la definizione di Dossetti, e si orientarono verso diversi esiti politici. Ma il punto, che il richiamo di Dossetti ci spinge a mettere meglio a fuoco, riguarda proprio il rapporto di interazione tra il sorgere e l’alimentarsi di questo comune sentire antifascista e il processo di traduzione di tale comune sentire in forme ideologiche e politiche. In questo senso il problema dello spirito antifascista della Resistenza appare irriducibile alla sua pura dimensione politica, sebbene ne costituisca il presupposto indispensabile: o, se vogliamo, l’antifascismo della Resistenza trovava una sua propria originaria forma «politica» nell’essere mosso anzitutto dall’opposizione alla tirannide. Toccò poi al processo, cioè al cammino resistenziale tradurre in forme politiche più specifiche, affidate all'analisi ideologica dei partiti e alla tradizione storica di cui erano portatori, la definizione della «tirannide» alla quale la Resistenza si opponeva e indicare le condizioni per un suo definitivo superamento. Rappresentare la coalizione di forze e di orientamenti politici diversi realizzata nella Resistenza come
una coabitazione forzata costituisce un’evidente for-
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zatura storica, un’astrazione, per cosî dire, che non è
in grado di dar ragione di quel fattore, per certi aspetti impalpabile, eppur efficace e duraturo, che fu, e continuò a essere, lo «spirito» della Resistenza: di quel «comune sentire» antifascista e antinazista che attra-
versò le diversità, anche profonde, di militanze politiche e di convinzioni personali, e che costituf un patrimonio sotterraneo, ma tenace, per la vita civile della nuova Italia. L'affermazione o la negazione di questo comune patrimonio appare l’autentica discriminante
sull’attuale orizzonte politico. Ove se ne riconosca l’esistenza —- come appare ne-
cessario non sulla base di narrazioni mitologiche ma di ben verificabili dati di fatto, documentati ed esplorati - diventa inevitabile un approccio alla Costituzione di tipo, per cosf dire, sintetico; che privilegi, a sua volta,
lo spirito che la percorre. Più che considerandone analiticamente le singole parti, o i singoli articoli, o gli apporti convergenti delle diverse culture politiche che si misurano alla Costituente e confluirono nel testo costituzionale — analisi, ben s'intende, legittime e chiarificatrici sul piano della ricostruzione storica e dottrinale - si potrà allora avvertire che il nesso, tante volte ribadito sino a diventare un luogo comune, tra Resistenza e Costituzione assume un senso e un significato ben determinato in ragione del fondamentale e identico impulso antitirannico che entrambe le percorre. Torna cosî in gioco il senso dell’intuizione dossettiana, che potremo rendere più esplicita affermando che il valore primo della Costituzione repubblicana consiste nel suo avere come orizzonte e come obiettivo la contrapposizione alle molteplici e sempre risorgenti forme della moderna tirannide, esercitata in nome dello Stato, del denaro, dell’ideologia, del partito, della nazione e
financo del «popolo». Non è mio compito argomentare più dettagliatamente tale asserzione. Vorrei però osservare sintetica-
mente come il lavoro della Costituente sia riuscito a tradurre in forma costituzionale almeno uno dei prin-
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cipi basilari che stavano iscritti, più o meno consapevolmente, nello «spirito» della Resistenza e che ave-
vano diretta attinenza con il suo sorgere. Essa ridisegnò i tratti del concetto di «cittadinanza», dandone una rappresentazione organica e compiuta e facendo-
ne il perno e in un certo senso la misura dell’idea di nazione. Ciò che tiene insieme la Resistenza e la guerra di liberazione «nazionale», facendo della seconda la faccia attiva e militante della prima, è per l’appunto l’idea cardine che la liberazione della «nazione» (dal-
l'oppressione nazista e fascista) non era più pensabile indipendentemente dalla liberazione del «cittadino»; e che al cittadino, per essere libero, non potevano pit bastare né la pur pregiudiziale indipendenza della nazione, né la pur indispensabile libertà politica. Il concetto di cittadinanza delineato e riflesso nella Costituzione è, sotto questo profilo, un concetto nuovo, che segna una cesura non solo, com’è ovvio, con il fasci-
smo, ma pure con l’ordinamento liberale. Ora, ammesso sia possibile asserire, come molti di questi tempi vanno facendo, che si sia indebolito gravemente nell’Italia del dopoguerra il senso della nazione e dell’appartenenza nazionale, si che si debba rivendicarne a gran voce una restaurazione piena di nostalgia,
non si vede — o si vede sin troppo bene — con quale logica quegli stessi nostalgici della «nazione» concorrano attivamente all’erosione di un fattore ineludibile di identità nazionale come è la «coscienza costituzionale»; o, meglio, come dovrebbe essere: ove si volesse al-
fine riconoscere che nella Costituzione repubblicana sono ben marcati i tratti e il disegno di una «nazione di cittadini».
Claudio Pavone
Rileggere oggi la Resistenza
Sino a cinque o sei anni or sono l’interesse pubblico per la Resistenza era decisamente in ribasso. Le commemorazioni ufficiali apparivano sempre più stanche e rituali, e i ministri della Difesa e i generali, ai quali venivano spesso affidate per circoscriverne il senso in un ambito puramente militare, non apparivano le figure più adatte a rivitalizzarne il significato. I provveditori agli studi inviavano regolarmente circolari di routine con l’invito a celebrare nelle scuole il giorno della Liberazione, ma non era facile trovare docenti in grado di assolvere degnamente a quel compito. Dal canto loro molti ex partigiani erano tentati di indossare la nobile ma angusta veste del reducismo, e gli sforzi volti a richiamare l’attenzione su di un evento cui da parte dei più si guardava con crescente distacco o disinteresse o finanche noia, soprattutto tra i più giovani, generavano spesso frustrazione in coloro che generosamente vi si impegnavano. La Resistenza sembrava insomma, tranne che nei suoi specifici cultori, studiosi e
associazioni di ex partigiani, destinata a entrare nel regno delle cose alle quali si presta un disattento omaggio o delle quali si fa una commemorazione di maniera che non commuove nessuno. Oggi assistiamo invece a una rinascita di interesse fino al dibattito e al confronto polemico. Credo si debba salutare questa rinascita con favore, poiché niente più della noia affossa insieme la memoria e ogni tentativo di considerazione critica di ciò che la memoria tramanda. Va subito detto che tra le ragioni che hanno stimo-
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CLAUDIO
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lato i recenti dibattiti è da collocare il cinquantesimo anniversario della Liberazione. Esso però non sarebbe stato in grado da solo di suscitare nuove domande se non fosse caduto in un clima politico e culturale che sembra voler rimettere in discussione giudizi ritenuti largamente per acquisiti. Il fenomeno è di per sé positivo: molto nuoce alla correttezza della posizione da assumere di fronte a un grande evento storico la stanca ripetizione di formule di cui non ci si cura pit di verificare la corrispondenza allo stato della coscienza pubblica. Di fronte però al modo approssimativo e immediatamente funzionale alla lotta politica ingaggiata dalle nuove destre con il quale oggi si parla in molte sedi del fascismo, della guerra, della Resistenza, delle origini e dei caratteri dell’Italia repubblicana, è utile ricordare che l’approfondimento critico e la migliore conoscenza degli eventi non devono essere confusi con il rapido e mal motivato mutare di segno valutativo a quanto finora conosciuto. Il rischio cui accennavo prima è dunque che questa rinascita di interesse urti contro due difficoltà. La prima riguarda lo stato delle conoscenze storiche dei giovani di oggi. Della «ignoranza» dei giovani non sono ovviamente colpevoli i giovani stessi, ma in primo luogo il sistema scolastico - tutto il sistema scolastico, dall’ordine elementare a quello universitario — al qua-
le è demandata la funzione di istruire le nuove generazioni. E divenuto famoso - e quasi emblematico - l’episodio della ragazza che in una trasmissione televisiva dichiarava candidamente di non sapere chi fosse stato il maresciallo Badoglio. Lo si è assunto, quell’episodio, quasi a simbolo dell’ignoranza nazionale. Credo lo si debba vedere invece come il sintomo della incapacità, se non della cattiva volontà di una parte almeno del corpo insegnante a spiegare a scuola cosa sia stato il fascismo, cosa abbiano significato i quarantacinque giorni di governo badogliano, con tutto quel che ne è seguito dopo l°8 settembre 1943, a nord come a sud. Sen«za dubbio questa «ignoranza» discende dal mancato
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incontro con il lavoro di ricerca e con i risultati conseguiti dall'indagine storiografica, pur giunta solo parzialmente preparata a rispondere alle nuove domande che oggi vengono formulate. Il crollo di uno dei due massimi protagonisti, prima della grande coalizione antifascista e antinazista e poi di un conflitto portato ai limiti della guerra guerreggiata, non poteva non rimettere in discussione il senso stesso della Resistenza, il posto che a essa compete, do-
po mezzo secolo, nella coscienza collettiva dei singoli Paesi. Sono cosî balzate in primo piano ambiguità e contraddizioni messe fra parentesi nelle versioni canoniche sia della destra che della sinistra, tradizionali e
«nuove». In Italia questo processo si va svolgendo in maniera particolarmente caotica, data la crisi profonda che attraversano sia il sistema politico che la stessa società a partire dai suoi punti di riferimento culturali. Non va dimenticato che la liberazione dal fascismo aveva avuto per l’Italia, che per prima lo aveva autonomamente inventato, un significato più profondo e più complesso di quello ricoperto in altri Paesi dalla lotta contro i vari collaborazionismi, certo germinati dalle rispettive storie nazionali, ma che erano stati in grado di arrivare al potere soltanto in virti e sotto la cappa dell’occupazione tedesca. Non c’è dunque da stupirsi, anzi è da considerare un segno di vitalità, che nel momento in cui scricchiolano le strutture politiche che per mezzo secolo hanno sorretto la vita nazionale, si torni a interrogarsi sulle loro origini, si torni a riflettere sul senso da dare, fuor di retorica, alla formula della «Repubblica nata dalla Re-
sistenza». Se fino a qualche anno fa si poteva pensare che, essendo oramai concluso il ciclo di possibilità innovatrici direttamente connesso alla caduta del fascismo e alla Resistenza, di quegli eventi si dovesse confidare la cura ai soli addetti ai lavori storiografici, è la profondità stessa della crisi attuale che sospinge a rimettere in discussione il significato e l’esito della Resistenza, dando a questa una nuova e in certa misura ,
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inedita attualità. Una chiusura difensiva di fronte agli odierni proponimenti di riesame di quella tavola di fondazione, per azzardati e talvolta irritanti, che possa-
no essere, non porterebbe buoni frutti né sul piano etico-civile, né su quello storiografico. C’è piuttosto da alimentare con sensibilità e serietà il desiderio, che
sembra emergere, di confronto con il proprio passato di popolo. Tanto pit che, come già accennato, la storiografia sulla Resistenza non è giunta del tutto preparata all’impegnativo appuntamento e, se da un lato ha cercato almeno in parte di aprirsi una sua faticosa ed entro certi limiti autonoma strada di ricerca, dall’altro
ha partecipato, né d’altronde poteva essere altrimenti, alle cinquantennali oscillazioni che hanno caratterizzato il rapporto tra società e cultura italiane e Resistenza. Tutto ciò rende più realistico il rischio che segnalavo precedentemente. Mentre la storiografia, più o meno critica, più o meno avveduta, tenta di formulare analisi approfondite, non vincolate alla mera celebrazione del fatto resistenziale, inserendolo nel complessivo ciclo di eventi che inizia con l'affermarsi del fascismo in Italia, attraversa la seconda guerra mondiale, e si conclude nel 1945, mentre si svolge questo difficile percorso di ricerca, l'insegnamento scolastico - soprattutto per quanto riguarda la storia contemporanea, che attualmente dispone di ben poco spazio nei programmi - o è del tutto assente o resta fermo a consolidati modelli interpretativi, non curandosi di registrare imutamenti storiografici. Cosi nella formazione delle giovani generazioni tale assenza si trasforma in un vuoto, inevitabilmente destinato a essere colmato attraverso altre —- assai più imprecise - fonti di informazione, con una frettolosa fabbricazione di nuove formule approssimative e rassicuranti. Penso naturalmente alla maggior parte delle trasmissioni televisive, anche se qui andrebbe aggiunto che non sempre gli sto-
rici seri, ai quali capita talvolta di parteciparvi, mostrano di saper usare quel linguaggio. Comunque, oc-
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corre essere consapevoli che se la tendenza a porre nuove domande al passato, cosî radicata nella curiosità dei giovani animati da quella volontà di sapere, di istruirsi, di avere risposte plausibili alle domande che gli anziani hanno il dovere di confrontare - ancor prima di tentare una risposta —- con le domande che loro stessi si ponevano da giovani, se questa curiosità non viene
soddisfatta e quindi incrementata, il risultato sarà sicuramente deludente. Potrebbe accadere addirittura e qualche sintomo si coglie proprio se guardiamo alla scuola - che la ripresa d’interesse che ho sopra segnalato sfiorisca prima che a quel desiderio sia stata fornita adeguata risposta. Il rischio sta nel fatto che tutto il lavoro di ricerca, di confronto e di dibattito sia storiografico che politico venga come scavalcato da un apparente rinnovamento degli studi, apparente perché si tratterebbe semplicemente di uno spostamento del punto di vista ideologico. Muterebbe solo il segno valutativo, più che interpretativo. In una sorta di trasformismo ideologico-culturale (uno dei troppi mali che affliggono il nostro Paese) i fatti sino ad ora descritti come «belli», apparirebbero «brutti» e viceversa, senza che tutto ciò si possa tradurre in un progresso del discorso civile e della ricerca storica. Alcuni segnali dell’incombere di questo pericolo sono già evidenti. A esempio, si va riproponendo una ri-
flessione del tutto insufficiente sul rapporto tra democrazia e antifascismo, che non tiene conto - o ne tiene
assai limitatamente - delle contraddizioni e dei mutamenti di questi ultimi cinquanta anni di storia dell’Italia repubblicana. Cinquanta anni sono molti, appena dieci in meno di quelli trascorsi dall’unificazione italiana all’avvento del fascismo. Ora nessuno se la sentirebbe pit di sostenere - se non in un contesto molto ampio di valutazione complessiva della storia italiana che il fascismo sia scaturito da errori e deficienze risalenti direttamente al 1861. Le stesse note formule del fascismo come «rivelazione» o come «autobiografia della nazione» hanno senso solo in un contesto molto
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più ampio. Allo stesso modo non si può imputare meccanicamente al 1945 l’origine dei malanni che squassano l’Italia di oggi quali, la caduta della coscienza eticopolitica, la corruzione, la partitocrazia, la lottizzazione.
Ma questo si tende oggi a fare da più parti con un paradossale recupero e rovesciamento della tesi della «Resistenza tradita»: da madre della democrazia italiana la Resistenza diventa cosîf una matrigna che non poteva dare che frutti attossicati. E quanto ad esempio avviene quando oggi si discute in un certo modo del rapporto tra antifascismo e democrazia. Si direbbe che, proprio mentre la storiografia resistenziale abbandona giudizi sommari
di vario colore (non soltanto rosso),
nell’odierna ricerca dei vizi e delle virtù di origine della Repubblica i primi facciano largamente aggio sulle seconde. Si tende ad appiattire i mali di cui soffre oggi l’Italia, largamente causati dal micidiale incontro fra Democrazia Cristiana e craxismo, su un presunto «pec-
cato originale» rappresentato dalla Costituzione e, prima ancora, dal Comitato di Liberazione Nazionale, ri-
tenuto responsabile delle prime lottizzazioni e incunabolo della partitocrazia. Si sostiene questa tesi senza valutare appieno il fatto che, uscendo da un regime a partito unico fortemente identificatosi con lo Stato, il segno più evidente per la massa dei cittadini - indipendentemente dal grado di maturazione politica e ideologica raggiunto - del cambiamento non poteva che venire dalla presenza di molti partiti. Era indispensabile che ci fosse una vasta gamma di manifestazioni ideologiche e partitiche tra le quali il popolo potesse scegliere. Deprecare questa diffusa presenza di partiti come germe della partitocrazia è operazione antistorica poco atta a spiegare, ma molto atta a nascondere, le responsabilità di chi per cinquanta anni ha gestito lo Stato, concedendo di sottobanco qualche compenso a
chi, per principio, da quella gestione restava escluso. Con l’obiettivo del superamento della attuale crisi compaiono cosî inviti a togliere di mezzo la Resistenza e l’antifascismo come impacci ed equivoci durati
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troppo a lungo, o almeno a ricondurre quegli eventi nei modesti limiti che meglio loro si attaglierebbero. E, mentre la Germania ha alimentato negli anni scorsi la discussione, che è un tormentato esame di coscienza collettivo, sul passato che non passa, e mentre la Fran-
cia torna a interrogarsi su Vichy con animo turbato, in Italia sono la Resistenza e l’antifascismo che vengono investiti da un’ondata quasi liquidatoria, in nome di una «pacificazione» da ottenere calando un opaco velo sul passato. Uno dei presunti equivoci, dai quali si dice di volersi liberare, riguarda la partecipazione dei comunisti alla vicenda resistenziale. Per lungo tempo - e con un sostanziale fondo di legittimità - il rapporto tra antifascismo e democrazia è stato considerato come un momento, una esperienza di possibile convergenza delle
diverse forze politiche e ideali che nella Resistenza avevano agito. Oggi si va ripetendo - usufruendo dell’amplificazione dei media - che l’antifascismo non può essere considerato come un valore fondativo della Resi-
stenza (e quindi della Repubblica e della Costituzione italiane), poiché al suo interno erano presenti — e ad-
dirittura avevano svolto un ruolo decisivo sia in termini qualitativi che quantitativi - i comunisti, che democratici non erano: quindi, secondo quest'ottica interpretativa, l’antifascismo sarebbe viziato perlomeno da un equivoco di fondo. Anche qui assistiamo a un disinvolto capovolgimento di posizioni: dall’accusa a lungo rivolta ai comunisti di voler monopolizzare la Resistenza si passa al riconoscimento enfatizzato che quel monopolio davvero vi fu. Sembra quasi che ci si ap-
propri dello slogan, scandito dai giovani del ’68, «la Resistenza è rossa, non è democristiana», per poter travolgere insieme il rosso e la Resistenza. A me pare che ridurre la partecipazione dei comunisti italiani e di altri Paesi a un equivoco storico e ideologico originario, sia una sottovalutazione della reale complessità della situazione di allora. La storia non la si deduce linearmente dalle ideologie. Il rapporto, spes-
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so difficile e conflittuale, tra le diverse anime dell’an-
tifascismo è stato uno dei temi politicamente e storicamente pit discussi sin dal periodo tra le due guerre mondiali: non è una scoperta odierna. Punti di riferimento, appunto sin dagli anni Trenta, erano, da un lato, la crisi del sistema politico parlamentare soprattutto in Francia, sanzionata dalla catastrofe del giugno 1940, costante incubo della Resistenza francese; e,
dall’altro lato, la realtà e la specificità politica e sociale dell’Unione Sovietica, dove un grande ideale di liberazione umana veniva sempre pit schiacciato dalla macchina del regime totalitario. Oggi, quell’ottica viene utilizzata non solo in relazione alla situazione italiana, ma anche su scala internazionale: serve a deprecare il fatto che la guerra sia stata combattuta (e vinta) da una alleanza fra le grandi democrazie anglosassoni dell'Occidente e l'Unione Sovietica. Ha scritto un grande storico francese, Pierre Vidal-Naquet, che ancora oggi c'è chi depreca: «ah! se l'alleanza fra angloamericani e sovietici non avesse mai avuto luogo! »
Sullo scioglimento di quella alleanza puntarono fino alla fine i nazisti, senza rendersi conto che lo scioglimento richiedeva una condizione preliminare: la sconfitta totale di essi nazisti. Si tratta in verità di un ben strano modo di porsi di fronte alla complessità della storia e della vita: ritenere che fatti grandiosi e sconvolgenti, che durano decenni e coinvolgono milioni e milioni di persone, e provocano milioni di vittime, si reggano su degli equivoci, appare una semplificazione disarmante. E un modo di ridurre in briciole di scarsissima utilità conoscitiva un immenso problema culturale qual è quello del giudizio complessivo sul ventesimo secolo, cioè su quel lungo periodo che si sta ora concludendo, e che è stato senza dubbio disseminato
di tragedie, complicazioni, contraddizioni, errori, pentimenti, passi-falsi, trappole, delitti, e certo anche da una buona dose di equivoci, senza tuttavia che il secolo stesso, nel punto della sua massima tragicità, possa considerarsi fondato come tale su un equivoco.
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Per lungo tempo la storiografia italiana di sinistra è stata accusata, talvolta con buone ragioni, di ideologismo. Analoga accusa potrebbe in verità rivolgersi a una storiografia troppo impegnata a giustificare i rapporti
di potere stabilitisi nel dopoguerra. Come che sia, non possiamo confondere la natura delle motivazioni di una scelta politica e ideologica di milioni di persone in una situazione caotica e tragica, qual è quella della guerra e dello sfascio seguito all’8 settembre, con quella che sta alla base delle scelte che è possibile operare in una situazione di più o meno‘ampia democrazia. Dobbiamo riportarci a quei mesi di incertezza e alle persone reali che dovettero fare scelte difficili e costose. La componente attiva della Resistenza armata si mosse in circostanze eccezionali e di emergenza, quasi scegliendo un nome (forse un’etichetta: «comunismo», «Giustizia e Libertà», «democrazia cristiana», «liberali-
smo», «socialismo») tra quelli allora disponibili. Il rapporto tra le motivazioni ideali e personali di ognuno e l’«etichetta politica» di riferimento è certamente complesso: si direbbe che chi voleva partecipare in modo attivo agli eventi, o anche solo assumere una posizione riconoscibile, era portato dalle circostanze - e in parte dalla confusione propria di quella stagione nella quale nessuno disponeva di idee più chiare di quelle di altri — a optare per l’adesione a un partito, a un movimento, a una organizzazione embrionale. In questo
senso, anche chi optò per le formazioni «autonome» operò una scelta. Questo non significa né che quelle scelte fossero casuali (ci fu infatti chi cambiò formazione in cerca di quella che meglio lo rappresentasse) né che il comportamento individuale discendesse - qua: si un sillogismo - dalle ideologie di partito. Di queste si aveva, da parte di molti, una conoscenza molto approssimativa. L’aspirazione all’intransigenza beneficò indubbiamente azionisti e comunisti. Un ricordo autobiografico: sono stato studente liceale nel periodo fascista e tutto quello che nel 1943 sapevo di democrazia, socialismo, comunismo, liberalismo, si riduceva a
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poche idee del tutto imprecise, incerte, inaffidabili. Molti giovani il liceo non l’avevano fatto e tuttavia seppero scegliere con intelligenza e sicurezza. Leggere og-
gi il comportamento individuale delle donne e degli uomini che allora scelsero soltanto secondo un’ottica di ideologia partitica è indubbiamente riduttivo. Vi è un ulteriore aspetto del dibattito attuale, assai vivace, che merita qualche considerazione: riguarda il significato e la valutazione della dura e inequivocabile
sconfitta subita dall’Italia fascista nella guerra combattuta tra il 10 giugno 1940 e l’8 settembre 1943. E necessaria una premessa di carattere generale. Quando un popolo (diciamo meglio: minoranze che poi si allargano sotto l’effetto devastante della guerra) è ridotto ad augurarsi la sconfitta militare del proprio Paese (e questo fecero Benedetto Croce, Pietro Nenni, Pal-
miro Togliatti, Vittorio Foa) ciò vuol dire che un evento di enorme portata si sta consumando. Secondo il senso comune un popolo in guerra dovrebbe comunque desiderare - sia pure obtorto collo — la vittoria della propria parte: ebbene, nell’Italia di quegli anni, venne poco alla volta formandosi l’idea che la vittoria ci avrebbe ridotto a satelliti della Germania nazista e che la sconfitta era preferibile alla continuazione della guerra a fianco di quel tracotante alleato, per di più ormai votato a sua volta alla distruzione. Credo che questa sia la peggiore condanna che possa colpire un regime politico: mettere i propri cittadini nella condizione di augurarsi la sconfitta del proprio Paese. ‘+ Da questa coscienza diffusa occorre partire per valutare compiutamente il senso di grande catastrofe che ha assunto lo sfascio delle strutture militari, civili e politiche l'8 settembre ’43: la fuga del re e di Badoglio da Roma a Brindisi, l'abbandono della capitale a se stessa, l'occupazione del resto d’Italia, quasi senza colpo ferire, da parte delle truppe tedesche, assolutamente inferiori per numero alla massa dei militari italiani ancora presenti in armi sul territorio nazionale. Il senso di questa catastrofe è stato sottovalutato dalla storio-
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grafia, sia di sinistra che di centro, ed è stato rimosso dalla coscienza comune anche perché non potrebbe non trascinare con sé un riesame dell’intero ventennio fascista. Si pensi all’importanza che ebbero le associazioni dei reduci nel primo dopoguerra e al ruolo, quasi inesistente, dei reduci nel secondo dopoguerra: questi ultimi quasi si vergognavano del loro passato militare, ne parlavano malvolentieri e, quando lo facevano, rischiavano di non trovare ascolto. Accadde al reduce Gennaro della commedia di Eduardo, e accadde anche ai superstiti dei campi di sterminio, oltre che
alla gran massa degli ex internati militari in Germania. E una spia, un sintomo del disagio e del trauma subito. Gli storici debbono fare autocritica sulla loro difficoltà a rivolgere l’attenzione necessaria e tempestiva sul senso e sul significato della sconfitta sanzionata 18 settembre. Solo in questi ultimi anni si è incominciato a valutare pienamente il problema. Tale presa di coscienza tardiva si è però associata all’idea che la catastrofe militare abbia rappresentato l’affossamento della stessa identità nazionale. Si sostiene da più parti che con la sconfitta nella guerra fascista la nazione italiana, lo spirito stesso dell’identità nazionale, siano stati incrinati una volta per tutte. Alla Resistenza si rimprovera di conseguenza di essere
poco atta a venire incontro alle richieste di nuove certezze rispetto alla minacciata identità nazionale. Questo rimprovero coinvolge anche la storiografia resistenziale. Di più: mi pare che il percorso compiuto dalla storiografia sulla Resistenza per affrancarsi da semplificazioni, nobili nell’ispirazione ma a lungo an-
dare improduttive sul piano della ricerca come del consolidamento della coscienza civile, stia avendo il risul-
tato, almeno in prima istanza paradossale, di far apparire i più recenti e critici contributi del lavoro storiografico incapaci di rispondere al desiderio di certezze sulla propria identità nazionale e politica che oggi scuote larga parte del popolo italiano. Accade che chi si impegna ad analizzare, distinguere, verificare, dubitare
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CLAUDIO
PAVONE
deluda coloro che alla storia si rivolgono con l’ansia di uscire presto e facilmente dalle proprie, talvolta impreviste, insicurezze. Nasce cosî la tentazione di abbracciare affrettate e capovolte certezze, che presentano per di pit il vantaggio di esonerare da ogni serio confronto con il proprio passato di popolo. Affermazioni di questa natura a me sembrano inesatte sotto il profilo storico e disfattiste sul piano della coscienza civile e morale degli italiani. Inesatte storicamente: se si esaminano con attenzione i documenti, le fonti coeve, le memorie e le storie di vita solle-
citate e raccolte in questi ultimi anni, non è difficile trovare tra le motivazioni ideali che spinsero a schierarsi nella Resistenza (e mi riferisco a tutte le forme di resistenza: armata, non armata, civile, non violenta) il
senso della patria, un sentimento patriottico che si riprese ad avvertire proprio in quella occasione. Si può leggere una efficace descrizione di questa scoperta in una bella pagina di Natalia Ginzburg, che cito sempre volentieri per la sua efficacia. Vi si legge di lei ragazza che percorre le strade di Torino e non sa cosa voglia dire patria; ne scopre il senso dopo l’8 settembre, sotto l’oppressione nazifascista e registrando il comportamento di coloro che reagiscono alla situazione creatasi. Questo dovrebbe essere il punto della discussione: cos’è derivato dal trauma dello sbandamento, dello sfascio?In tutte le situazioni ci possono essere diverse vie
di uscita: negative, anche se coloro che le percorrono sono in buona fede, o positive, nel senso di apertura
verso il futuro. Si presentarono allora due, o meglio tre strade al popolo italiano: continuare la guerra sub specie fascista accanto ai, e alle dipendenze dei, tedeschi; sprofondare nello sgomento e rassegnarsi all’impotenza dedicandosi solo al salvataggio del proprio particolare (la «zona grigia», come oggi si usa dire); considerare la catastrofe come qualcosa che offriva l'opportunità di una possibile ancorché dura ripresa, suscitatrice peraltro di nuova energia nazionale e di risorgente gioia di vivere.
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OGGI LA RESISTENZA
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L’8 settembre, come tutti i grandi eventi storici, rese possibile, a chi non si adattava ai faticosi espedienti imposti dall’indifferenza, percorrere la via del riscatto (la parola è certo retorica, ma ben esprime ciò che la Resistenza nel suo complesso ha voluto essere); ma anche la via della ricerca di una uscita perseverando in ciò che aveva prodotto la catastrofe: riportare cioè al potere il fascismo, continuare la guerra al fianco della Germania. Questa fedeltà alla guerra apparve ad alcuni l’unica possibilità per salvare l’Italia e il suo onore militare, la sua stessa identità nazionale. Dico questo con rispetto: poiché se, come è giusto che si faccia, vogliamo riesaminare oggi le motivazioni che indussero una parte della gioventù, e non solo della gioventii, a collocarsi a fianco del rinato governo fascista della Repubblica Sociale Italiana, allora dobbiamo saper comprendere anche le motivazioni rispettabili di una parte di coloro che si schierarono dalla parte sbagliata. Un paese come l’Italia, privo nella sua storia di nette eincontrovertibili fratture, ha tutto da guadagnare a rivendicare, come tavola di fondazione di una propria rinnovata identità, il momento di verità rappresentato dalla guerra civile tra i fascisti e gli antifascisti. Lo stesso fascismo può ritrovare il proprio spessore storico — quello di una delle possibili soluzioni totalitarie dei problemi del secolo xX — assai meglio nella sua collocazione in questo teso contesto internazionale che nelle edulcorate visioni di un regime bonario, sfilacciato, con qualche velleità modernizzante, magari cinico, intessuto di doppi giochi, e perciò consonante con la consolatoria e rassegnata immagine con la quale spesso il popolo italiano ama autorappresentarsi fino a trasformarla quasi in un motivo di compiacimento. É per questo che occorre prendere in esame il comportamento non solo dei fascisti militanti, culturalmente convinti ed esistenzialmente consonanti coi nazisti ma anche di quella parte di gioventiî che ritenne di dover continuare la guerra a fianco della Germania per motivi di onore militare.
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CLAUDIO
PAVONE
Questo atteggiamento derivava da un’idea distorta di nazione, come se la nazione fosse caratterizzata dal-
la possibilità di fare guerre e dalla necessità di vincerle. Sul piano psicologico questo atteggiamento poté essere alimentato dall’illusione che fosse ancora possibile un capovolgimento delle sorti della guerra, magari grazie alle armi segrete che si diceva fossero in corso di fabbricazione in Germania. Ma è preoccupante che quelle posizioni vengano oggi acriticamente ripropo-
ste: affermare che con la sconfitta nella guerra fascista si sia irrimediabilmente dissolta la stessa nazione italiana è, filologicamente, la tesi dei fascisti che aderiro-
no alla Rsi. E significa, in definitiva, identificare l’Italia con il fascismo. Coloro che aderirono alla Resistenza optarono per un’altra scommessa. Essi ritenevano che la sconfitta e il precipizio in cui era caduta l’Italia fossero dovuti al fascismo, e che perciò occorresse reinserire attivamente l’Italia nel contesto democratico internazionale non aspettando la liberazione soltanto da parte degli Alleati, ma cercando di cooperare e di collaborare con gli Alleati stessi, sia pure nei limiti che la situazione di un
Paese disastrato dai due decenni precedenti e dalla guerra poteva consentire. E questa tensione che spie-
ga la possibilità di coesistenza all’interno del movimento resistenziale di motivazioni strettamente pa-
triottiche e di motivazioni che si possono ben definire di guerra civile, poiché i fascisti erano italiani come gli antifascisti. L’analisi delle motivazioni delle adesioni all’una o all’altra posizione non può esaurire il discorso storico, che deve sempre tener conto anche dei risultati; ma ha il pregio di rimettere sul tappeto l’annoso problema della assunzione di responsabilità storica da parte di tutti gli italiani: il fascismo è stato inventato in Italia, ha radici autoctone e ha conquistato il potere senza l’aiuto straniero. Chi era poi convinto che il fascismo fosse stato appoggiato in misura decisiva dal padronato industriale e prima ancora da quello agrario, connota-
RILEGGERE
OGGI LA RESISTENZA
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va ulteriormente la guerra civile come guerra o lotta di classe. $ Eredità della Resistenza, valore della Costituzione,
continuità dello Stato, eredità del fascismo (più tenace di quanto l’ottimismo resistenziale induceva a pensare) sono in definitiva ancora oggi temi che ogni considerazione sulla storia del cinquantennio repubblicano deve prendere in esame, intrecciandoli con la riflessione sui profondi mutamenti avvenuti nella società e nella cultura italiane e nel quadro internazionale, durante la guerra fredda e dopo la fine di essa. Storia e coscienza civile possono ancora, su questo terreno, cercare il loro sempre mobile punto di equilibrio.
Vittorio Foa
Una testimonianza
Ho la fortuna di essere abbastanza vecchio e di aver partecipato alla Resistenza nel Partito d'Azione. E sono anche abbastanza vecchio per essere stato membro dell’ Assemblea Costituente, sempre come deputato di quel partito. Aggiungo che quando è iniziata la Resistenza ero già grande, avevo già molti anni e molte vicende sulle spalle. Sono d’accordo con chi ritiene che la Resistenza non abbia dato vita a un’elaborazione costituzionale, che
la Costituzione italiana, che è veramente un’opera di grande rilievo, sia stata costruita secondo un percorso non lineare. Devo però dire, come testimone, che nel-
la mia memoria personale la Resistenza è stata un elemento profondamente fondante non soltanto rispetto alla sfera della politica ma anche rispetto a un insieme più ampio, all’essere nazione, naturalmente una nazione diversa da quella fascista. Molti, allora, si sono dati da fare non solo per il successo di alcune idee, ma anche perché tutti gli altri, anche quelli con idee diverse, avessero la libertà di esprimerle. Volevamo un'Italia diversa. Fra di noi c'erano molte differenze, c'erano i radicali e c'erano i moderati, dominava un'ispirazione sociale come pure una religiosa. Erano convinzioni forti, ma nella Resistenza c’era un elemento comune, era l’idea di un’Italia che doveva uscire dall’immane tragedia della guerra,
un'Italia che esaltava la libertà degli italiani, che im-. pegnava la collettività nella difesa e nella promozione
UNA TESTIMONIANZA
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dei deboli, che rifiutava l’aggressione e l’oppressione e cercava la collaborazione per il bene comune. Questa volontà di un’Italia diversa era presente in ogni segmento della Resistenza, il suo riferimento era il Comitato di Liberazione, che era insieme un aggregato di partiti e una realtà che trascendeva i partiti. Ebbene, quest’idea io l’ho vissuta tale e quale anche nell’ Assemblea Costituente, terreno di scontro politico e di lavoro comune per dare un futuro all’Italia. Ho molti ricordi. Il capo della Democrazia Cristiana era Alcide De Gasperi, quello del Partito Comunista era Palmiro Togliatti, il leader socialista era Pietro Nenni; poi c'erano un piccolo Partito d'Azione e un Partito Liberale, con tanti grossi nomi di un passato senza ritorno. Indubbiamente vi erano profondi contrasti, ma quando prendeva la parola De Gasperi, Togliatti lo ascoltava con attenzione e rispetto, e quando parlavano Togliatti oppure Nenni, la destra e il centro facevano silenzio. Ricordo la drammatica seduta finale dell’ Assemblea quando il giovane deputato La Pira chiese di scrivere nella Costituzione un richiamo a Dio, e il tono affettuoso e paterno con il quale Togliatti gli spiegò che la cosa era impossibile. Voglio sottolineare che una fase costituente, una mens costituente è una ricerca plurale di un’unità che sta sopra di noi o, meglio, che sta più avanti di ciascuno di noi: è un Comitato di Liberazione. Senza retorica e senza polemica verso un certo revisionismo storiografico ricordo che allora cercavamo di ricostruire l’identità nazionale che il fascismo aveva di-
sperso: ci sentivamo italiani, naturalmente italiani, in un mondo aperto e non diviso dall’odio. Il fascismo aveva asservito il Paese alla barbarie hitleriana, aveva fatto le guerre per conto di Hitler, ave-
‘va mandato a morire centinaia di migliaia di ragazzi per
servire il nazismo. L’8 settembre 1943, con l’inizio della Resistenza, abbiamo dato mano alla ricostruzione di
un'identità nazionale. i i
VITTORIO FOA
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Ancora un ricordo. Io sono ebreo, ero in carcere
quando, a partire dal 1938, il fascismo ha avviato la persecuzione degli ebrei italiani togliendo loro il lavoro e cacciando i loro bambini dalle scuole. Io non sentivo la mia protesta come ebreo, ma nei limiti in cui si può alzare una protesta dal fondo di una prigione, protestavo perché l’Italia che avevo nella mente e nel cuore era tradita e sporcata dalla vergogna razzista. Ricostruire l'identità perduta voleva dire riaprire spazi alle libertà civili e politiche e aprirli ai diritti sociali, alle classi che erano state escluse.
Certo, nella Costituzione vi erano ancora delle promesse, ma non erano promesse astratte. Esse erano sorrette da un caldo impegno fattivo. E infatti questa Costituzione ha retto l’Italia per decenni e decenni, e ancora la regge. E l’ha retta in una fase di sconvolgente cambiamento. Forse oggi i giovani non hanno idea di che cos’era questo Paese nel 1945, al momento della ritrovata unità, oppure nel 1939, prima della guerra, di come si viveva allora. Eppure sono sufficienti a indicare il cambiamento alcuni dati banali: negli ultimi quarant’anni la statura dei ragazzi di leva è cresciuta di dieci centimetri, la mortalità infantile si è ridotta a un sesto di quella di allora, la vita umana si è allungata di dieci anni come attesa di vita. Tutto è cambiato radicalmente, ma questo non vuol dire che oggi si sia più felici. Per nulla. La Costituzione è stata però la carta politica che ha retto quella straordinaria trasformazione. Politicamente ha dato vita al sistema dei partiti, all’unità nella pluralità. I partiti sono stati il canale per l'affermazione di strati sociali che non avevano avuto voce politica, dei contadini, degli operai, di gran parte degli artigiani e degli impiegati, ma sono anche stati uno strumento di centralizzazione dello Stato e della società, un modo per far decidere tutto dal governo centrale. Anche da questo è scaturita la corruzione, che si è generalizzata al Paese. Accanto a ciò, però, dobbiamo riconoscere che. “GY
UNA TESTIMONIANZA
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nel passato sono stati piantati semi che hanno poi avuto un grande sviluppo. Dobbiamo cercare di capire dove e quando lo Stato ha abdicato ai suoi doveri e ha cosî permesso ad altri poteri, visibili oppure occulti, di invadere il suo terreno. Penso alla mafia, a tangentopoli, al potere irresponsabile dell’informazione, ai servizi segreti, ai potentati economici. Sono mali vecchi che si presentano oggi in forme nuove. La conquista della democrazia è un terreno sempre aperto. Ai mali vecchi dobbiamo aggiungere quelli nuovi e drammatici della democrazia, quelli dei diritti umani violati fuori dalle nostre frontiere, quelli dello Stato sociale che è da ripensare nelle sue categorie costitutive. Sui diritti umani vi sono ragioni di amarezza. Ho sempre visto nella lotta dei popoli per la loro libertà e la loro indipendenza un valore alto, e oggi vedo popoli che conquistano l’indipendenza e il diritto di votare (e quindi di decidere il loro futuro) e subito comin-
ciano i massacri delle guerre etniche. Questi sono i nuovi problemi della nostra vita. E qualcosa di drammatico mi sembra di cogliere oggi nelle nuove generazioni. Ho vissuto molto a lungo e dunque ho molte cose da ricordare. Di queste mi accade di parlare con giovani e giovanissimi. Da tempo, da alcuni anni ormai, mi ac-
corgo che quando parlo delle vicende della mia vita nelle quali mi pare di aver vissuto dei valori nobili, come quelli dell’uguaglianza, della libertà, della solidarietà, della tolleranza, quando, per esempio, racconto della
Resistenza o di altre esperienze cui ho partecipato intensamente, come le lotte operaie e contadine, questi ricordi possono informare e magari commuovere, ma
scivolano sopra la testa di chi li ascolta, non toccano la mente. Capisco che le cose che racconto sono risposte ai problemi miei e della mia generazione, non sono una risposta ai problemi di chi è giovane oggi. Di questa difficoltà nel trasmettere la memoria si dà spesso la colpa
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VITTORIO FOA
alla scuola, che non ha informato abbastanza. Ed è ve-
ro. Ma c’è qualcos'altro. Conoscere è indispensabile, ma non esaurisce in sé i valori; da sola la conoscenza può anche fornire strumenti di sofferenza e di morte. Il sapere ricevuto non è sufficiente a dare un senso alla nostra azione. Forse nelle cesure della comunicazione intergenerazionale conta anche il modo di raccontare: se i ricordi | si presentano come monumenti, i giovani hanno molte ragioni per rifiutarli. Non li si aiuta ad affrontare i mali di oggi dando loro come modello l’antifascismo di ieri. Li si può invece aiutare dando loro ampia fiducia nella capacità di trovare i mezzi idonei a risolvere i problemi della vita di oggi. E vero: oggi c’è una diffusa e profonda insicurezza, che colpisce soprattutto le giovani generazioni. Sessanta o anche solo trent’anni fa il futuro dei ragazzi non era più brillante di adesso, forse era anche più duro, ma si presentava con maggiori certezze: il lavoro che uno si sceglieva o cui era costretto era il lavoro della sua vita. Oggi, nel mondo sempre più piccolo della comunicazione totale, le variabili sono sempre più numerose. Tutto diventa insicuro. Non solo il lavoro, ma
anche le relazioni sociali. Diventa difficile progettare, e quando non si può progettare non interessa molto ri-
cordare. Che bisogno c’è della storia quando si vive alla giornata, quando la percezione del tempo si appiattisce sul momento? E questo oggi non riguarda solo i giovani, riguarda tutti e anche, pUrtRppR la vita politica, chiusa sul contingente. Che cosa allora potrà dire ai giovani un vecchio come me? Solo esprimere la fiducia nella loro capacità di affrontare questa insicurezza, purché sappiano pensare insieme all’oggi e al domani.
Stato, impresa, sindacato
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Valerio Castronovo
Stato e mercato nell'Italia repubblicana
All’indomani della seconda guerra mondiale, unitamente all’opera di ricostruzione e alla ripresa degli scambi, altri importanti obiettivi s'imposero, sia pur in diversa misura, nelle politiche economiche dei Paesi dell'Occidente europeo: dal pieno impiego alla giustizia distributiva; dallo smantellamento di alcuni mono-
poli al potenziamento dei servizi pubblici; dall’eliminazione di particolari squilibri regionali alla realizzazione di un sistema di sicurezza sociale. S’intendeva in tal modo coniugare crescita economica e benessere collettivo mediante un’azione dei poteri pubblici che guidasse il processo di sviluppo. Senza tuttavia che ciò comportasse vincoli e direttive di carattere coercitivo. La prospettiva di un intervento dello Stato era condivisa da un arco relativamente ampio di forze politiche, non solo dai partiti della sinistra d’ispirazione socialista e laburista, ma anche da quelli di centro, di matrice cristiano-sociale o liberaldemocratica. Non occorreva infatti professare idee rivoluzionarie per concordare su alcuni obiettivi come la piena occupazione, la progressività delle imposte, i servizi sociali, l’eguaglianza delle opportunità, un maggior controllo dello Stato su alcuni settori d’importanza strategica o l’affrancamento del mercato da trust e cartelli. Quel che differenziava i vari schieramenti era piuttosto la questione delle procedure e delle modalità operative per il raggiungimento di tali fini. La conversione di alcuni governi a politiche inter-
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VALERIO
CASTRONOVO
ventiste non significa affatto che essi conoscessero, o fossero disposti a seguire alla lettera, le ricette prescritte da Keynes per mantenere la domanda aggregata a un livello tale da utilizzare tutte le risorse variando le imposte e la spesa pubblica. Sta di fatto che, se il governo laburista inglese fu il primo ad adottare (con il rapporto Beveridge) una politica di ispirazione keynesiana, in altri Paesi, pur non arrivando a tanto, si diede tuttavia corso sia a varie misure di nazionalizzazio-
ne, sia ad alcuni disegni di programmazione (con un diverso grado di prescrizione), sia ancora ai primi lineamenti di Welfare, dello «Stato sociale». Fu quanto avvenne in Francia all’insegna dell’«Etat patron», di una forte tradizione normativa dell’amministrazione pubblica; in Belgio, sulla scia del planismo; in Olanda, sotto l’influenza della scuola economica di Jan Tinbergen; nei Paesi scandinavi per iniziativa di
partiti socialdemocratici; e cosî pure in Austria. Il periodo della ricostruzione recò, pertanto, non so-
lo l'impronta dell’assistenza americana e delle iniziative del governo di Washington, che mirava alla creazione di un sistema di cambi fissi (incentrato sulla
supremazia del dollaro) e alla liberalizzazione dei rapporti commerciali, in funzione sia dell'incremento delle esportazioni degli Stati Uniti sia dell’attivazione di un
ciclo economico
espansivo
nei Paesi
europei
appartenenti all’area occidentale. La riconversione postbellica segnò anche l’esordio di una «rivoluzione silenziosa», di una strategia riformista che si proponeva di associare democrazia politica e democrazia economica, destinata a imprimere nuovi connotati al sistema capitalistico e a rappresen-
tare un valido ed efficace modello alternativo a quello comunista. In Italia, solo in parte, e non senza parecchie sma-
gliature, riusci ad affermarsi un indirizzo tale da conciliare la realizzazione di un'economia di mercato con un consistente programma diriforme. E ciò, nono-
stante che proprio di una politica espressamente orien-
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tata in tal senso il nostro, ancor pit di altri Paesi, aves-
se assoluta necessità. Il sistema economico ereditato dal fascismo presentava infatti non poche anomalie rispetto a quelli di altre nazioni occidentali. Non soltanto per i forti squilibri fra Nord e Sud, e fra città e campagne, che lo caratterizzavano. Ma anche perché l’intervento messo in atto dallo Stato, durante la grande crisi mondiale degli anni Trenta per salvare il salvabile, aveva assunto dimensioni talmente ampie che l’Italia fascista era giunta a collocarsi subito dopo la Russia comunista per entità e grado di statalizzazione dell'economia. Nello stesso tempo, quel che era rimasto della grande industria privata aveva finito per concentrarsi in pochi gruppi oligopolistici, a capo di ognuno dei quali stava nella maggior parte dei casi una singola dinastia familiare. In tal modo, il sistema economico italiano s’era ve-
nuto configurando come una sorta di centauro, con una parte del corpo costituita dallo «Stato banchiere e imprenditore» (da un complesso di banche e imprese risanate con criteri privatistici ma sempre più esposte,
in progresso di tempo, alle direttive politiche del Regime); e l’altra parte composta da alcune grosse costellazioni d’interessi, che sembravano riprodurre (a
detta di un uomo certamente non sospetto di preconcetti verso la grande industria come Ettore Conti l’ex presidente della Banca Commerciale) le stesse prero-
gative degli antichi feudi signorili. Giacché potevano contare sia su una munita barriera di dazi protezionistici e su alcuni importanti privilegi (come la possibilità di bloccare la costruzione di nuovi impianti), sia
sull’impiego della forza lavoro al minimo costo, per l’assenza di un reale potere contrattuale del sindacato fa| scista.
È vero che si erano manifestati alcuni fenomeni evolutivi più o meno comuni ad altri Paesi europei: come la crescita delle dimensioni medie d’impresa e dei livelli d’integrazione verticale, lo sviluppo delle fonti d’energia e dell’industria pesante, il riordinamento del
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VALERIO
CASTRONOVO
credito e della legislazione bancaria. Ma il passaggio da un capitalismo che continuava a ispirarsi fondamentalmente ai principi del «laissez faire» a un capitalismo organizzato, imperniato su forme più o meno istitu-
zionalizzate di rappresentanza e di contrattazione degli interessi, quale avvenne in altri Paesi occidentali in seguito alla svolta del 1929, non aveva dato luogo in Italia a un autentico sistema di «economia mista» né aveva posto le premesse di una «rivoluzione manage-
riale». S’era andato formando, bensi, un gruppo qualificato e autorevole di dirigenti nell’ambito dell’Iri e di alcune aziende passate sotto le sue insegne. Ma per il resto non era avvenuta una diversa distribuzione dei ruoli e del potere decisionale all’interno dei principali gruppi fra proprietà azionaria e dirigenza aziendale; e tanto meno avevano visto la luce delle public company a proprietà diffusa. D'altra parte, in nome dell’identificazione fra società e Stato, a cui si richiamava la dottrina fascista, la
composizione degli interessi economici e dei rapporti fra i vari soggetti aveva finito per concentrarsi all’interno dell’ordinamento statuale. E ciò aveva portato alla formazione di un consistente apparato burocratico, nonché all'emanazione di una congerie di disposizioni finalizzate a un controllo politico sia del mercato e degli scambi, sia delle strutture creditizie e dei movimenti finanziari. Quel che il fascismo aveva lasciato in eredità era, insomma, un sistema economico più composito e strut-
turato, con un maggior grado di industrializzazione e di concentrazione del capitale rispetto al passato, ma sostanzialmente chiuso e cristallizzato, ancora in bilico fra arretratezza e sviluppo. L’apertura verso l’esterno era perciò una strada ob-
bligata. Tanto più nel caso di un Paese come l’Italia quasi del tutto privo di materie prime e con un’econo-
mia per lo pi di trasformazione. Si spiega pertanto il ritorno in auge della scuola liberista. Di fatto, l’equazione fra libertà politica e li-
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SO
bertà d’iniziativa (rifiorita sulle ceneri della dittatura
fascista), e non solo il ripudio delle bardature neo-mercantiliste dell’anteguerra, ridiede ossigeno a quel gruppo di economisti capitanati da Luigi Einaudi (e di cui facevano parte Giovanni Demaria, Gustavo Del Vecchio, Epicarmo Corbino, Pasquale Jannaccone) che aveva continuato a credere nei principi, ancorché più ortodossi, dell'economia classica. Ma non fu tanto la
coerenza dottrinaria o il prestigio accademico a premiare gli orientamenti dei liberisti, quanto piuttosto il lucido disegno politico perseguito da Einaudi e condiviso da De Gasperi - quando ancora i comunisti e i socialisti facevano parte della coalizione di governo - di
accelerare il più rapidamente possibile l'inserimento dell’Italia nel nuovo sistema monetario e degli scambi, varato nel 1944 a Bretton Woods sotto l’egida di Washington, al fine sia di creare le condizioni più propizie per l’estromissione dei partiti di sinistra (ciò che avvenne poi nel maggio 1947), sia di evitare il sopravvento di tendenze neutraliste presenti anche-in alcuni settori della Democrazia Cristiana. Ha scritto Guido Carli, che della scelta di campo liberista fu testimone diretto: «De Gasperi non aveva una visione dell’assetto economico esistente, né di quello verso il quale sarebbe stato auspicabile indirizzare il Paese. Tuttavia capî che l'adesione agli istituti di Bretton Woods avrebbe promosso lo sviluppo di una miriadedi legami economici con l'Occidente industrializzato in modo da rendere impossibile un suo sradicamento politico dalla comunità dei Paesi a democrazia parlamentare». Analogo era il calcolo di Einaudi. Giacché l’allora governatore della Banca centrale riteneva che «l’Italia sarebbe stata ricostruita e rinnovata nella libertà quanto maggiori fossero stati i suoi legami economici con le democrazie occidentali». Le severe misure assunte per la stabilizzazione monetaria e il risanamento del bilancio furono il risultato
di questa linea di condotta, intesa a stabilire sia l’as-
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setto economico che gli equilibri politici interni, e nello stesso tempo, costituirono la premessa per l’affidabilità e il reinserimento dell’Italia nei circuiti finanziari internazionali. Inoltre il salvataggio della lira, particolarmente apprezzato dalla piccola e media borghesia risparmiatrice e a reddito fisso, fu uno dei fattori che concorsero alla vittoria della Democrazia Cristiana e dei suoi alleati nelle decisive elezioni del 18 aprile 1948. Tuttavia, malgrado questi successi e l'autorevolezza di Einaudi (designato nel maggio successivo a capo dello Stato), la scuola liberista non giunse a informare la cultura politica della nuova classe dirigente e neppure l’atteggiamento della maggior parte del ceto imprenditoriale (se si esclude la posizione personale del presidente della Confindustria Angelo Costa e di pochi altri). Tant'è che la Banca d’Italia, in quanto diretta da Menichella con lo stesso occhio vigile del suo predecessore ai conti dello Stato e all'andamento della liquidità, si ridusse a una sorta di fortino isolato, assediato da ogni parte. Di fatto, del liberismo finf per prevalere una visione distorta e strumentale, giacché venne considerato dai più come sinonimo della massima agibilità e profittabilità dell’iniziativa privata, senza alcuna limitazione di sorta, e non già come una concezione che comportava, insieme alla libertà economica, anche un complesso di regole coerenti con un sistema di mercato, ta-
li da garantire tanto i principi dell’efficienza e della trasparenza quanto la molteplicità dell’offerta e la maggiore articolazione possibile dei centri di decisione. D'altro canto, alla liberalizzazione degli scambi fece da contrappunto, dietro la pressione dei principali gruppi industriali, una sorta di «protezionismo interno» gestito in modo discrezionale dalla pubblica amministrazione (per il tramite di sovvenzioni ai privati, crediti a tassi agevolati, incentivi fiscali). Ma se il liberismo subî presto una serie di manomissioni tali da scolorirne i tratti distintivi, a sua vol-
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ta, l’interventismo pubblico, quale si profilò all’inizio degli anni Cinquanta, non fu espressione di una reale strategia alternativa né di un autentico mutamento di prospettiva. Tant'è che s’avvalse sostanzialmente delle stesse norme e strutture ereditate dall’età giolittiana e soprattutto dal periodo fascista. Il fatto è che non esistevano, nell’immediato dopoguerra, né l’humus culturale né le condizioni politiche per l’affermazione di un indirizzo riformista quale s’era delineato in altri Paesi occidentali in concomitanza con la progressiva democratizzazione delle istituzioni e gli sviluppi del pluralismo economico e sociale. I due maggiori partiti di massa, impostisi sulla sce-
na all’indomani della Liberazione, s’ispiravano a concezioni che, in un caso, riproducevano alcune enun-
ciazioni di principio tratte dalla dottrina sociale della Chiesa senza alcun effettivo riferimento ai problemi concreti di governo dell’economia in una società industriale; e, nell’altro caso, erano radicalmente conflittuali e antagoniste nei confronti del sistema capitalistico pur nelle sue linee di tendenza più avanzate. La Democrazia Cristiana, in quanto aveva per suoi prin-
cipali paradigmi i postulati solidaristico-corporativi della tradizione cattolica; il Partito Comunista (ma anche
quello Socialista, legato al Pci da un patto d’unità d’azione), in quanto aveva per breviario i canoni marxisti-leninisti della Terza Internazionale e per obiettivo la transizione sia pur graduale (attraverso una via democratico-parlamentare e le cosiddette «riforme di struttura») verso un’economia pianificata e tendenzialmente collettivista. i | D’altra parte, la Democrazia Cristiana aveva il suo più forte radicamento sociale nel mondo della provincia, là dove prevalevano la piccola proprietà contadina e un ceto minuto di artigiani e di esercenti. E il suo «americanismo», il suo orientamento a favore di un’integrazione dell’Italia nel blocco occidentale, era il risultato soprattutto di una scelta politica speculare al filosovietismo del Partito Comunista, e non tanto di una
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precisa opzione nei confronti di determinati modelli economici e culturali d’Oltreoceano. A sua volta, l’anatema nei confronti della social-
democrazia, ma anche la convinzione che il capitalismo avesse i giorni contati, portava i comunisti a respingere,
o comunque a confutare come opportunistica e fallace, l’ipotesi che si potesse riformare dall’interno il sistema capitalistico. D'altronde, l'impostazione rigidamente classista che informava la cultura politica della sinistra privilegiava i metodi e gli strumenti della lotta frontale fra capitale e lavoro rispetto a quelli della concertazione fra governo, sindacati e imprenditori. Sta di fatto che il dibattito all’Assemblea Costituente sui temi economici si risolse più in un torneo
oratorio, fra dispute ideologiche ed esercitazioni accademiche, che in un confronto costruttivo di progetti e di soluzioni concrete che stabilissero nuove e valide regole del gioco. E vero che la Carta costituzionale recepî alcuni importanti principi: come il concetto della «funzione sociale» della proprietà e dell'impresa, mutuato (tramite la scuola degli economisti dell’Università Cattolica) dal pensiero degli istituzionalisti americani del New Deal; nonché l’istanza di una sintonizzazione dell’iniziativa privata a finalità di interesse collettivo, che s’ispirava alla Costituzione di Weimar. Inoltre, trovò riscontro in un’apposita norma l’ipotesi della nazionalizzazione per le imprese di servizio pubblico e per quelle in posizione di monopolio. Ma questi precetti non diedero luogo, per dirla con Sabino Cassese, al «sorgere di un ordine nuovo di rapporti fra lo Stato e l'economia». Il principio dell’interesse pubblico, come limite non solo esterno ma anche
come vincolo di natura positiva all'autonomia dell’iniziativa privata, era già riconosciuto dal codice civile del 1942 (che prevedeva il meccanismo sanzionatorio dell’espropriazione). E fin dal 1936, con la riforma bancaria, lo Stato aveva assunto di fatto la direzione del
sistema creditizio a tutela del risparmio e in nome di altre finalità di carattere generale.
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In realtà, l’interventismo pubblico, impostosi all’o-
rizzonte nel corso degli anni Cinquanta, non fu tanto il frutto di una scelta elettiva, che avesse il sostegno di una consistente elaborazione teorica e di una moderna culturale istituzionale. Fu piuttosto l’espressione, pur valorizzata dall'adozione di appropriati modelli operativi (alcuni dei quali tratti dall'esperienza del New Deal), di convenienze e calcoli politici contingenti o di una serie di misure dettate da particolari situazioni
d’emergenza.
E vero che l’esigenza di un’azione positiva ed equilibratrice dello Stato era uno dei fondamenti del cosiddetto «Codice di Camaldoli», elaborato nel settembre 1943 da alcuni economisti cattolici (non alieni da precedenti simpatie verso il corporativismo) e poi fatto proprio (non senza alcune suggestioni integraliste) dalla componente pit avanzata della Dc. Ma la sinistra democristiana, non solo in quanto dava l’impressione di essere sospesa fra utopismo e pragmatismo, ma anche in quanto aveva opposto la candidatura di Dossetti a quella di De Gasperi per la leadership del partito, non era riuscita a far breccia nel gruppo dirigente dello Scudo crociato. Né miglior sorte aveva avuto, su un altro versante,
il tentativo di Ugo La Malfa (uno dei pochi che fosse allora al corrente delle teorie di Keynes) di fare del Partito d'Azione una forza tale da convertire i socialisti di Nenni dal frontismo a uno schieramento di democrazia laica e dal massimalismo al riformismo. E ciò aveva finito col segnare non solo lo sgretolamento del partito erede del movimento di Giustizia e Libertà, ma anche il dissolvimento di una prospettiva che avrebbe potuto assicurare un maggiore respiro ed equilibrio al sistema politico italiano con la formazione di un raggruppamento tale da far da cerniera fra il centro e la sinistra. In pratica furono, da un lato, le sollecitazioni di Washington per una politica economica più espansiva (quale consentivano i meccanismi e le garanzie del Piano
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Marshall), e dall’altro, la preoccupazione dei governi di centro di sbarrare il passo nel Sud ai partiti di sinistra (e solo secondariamente gli appelli dei meridionalisti) a imporre all’inizio degli anni Cinquanta il varo della riforma agraria e della Cassa per il Mezzogiorno.
Molto si è discusso sul «Piano del lavoro» proposto in quello stesso periodo dalla Cgil, ed elaborato da economisti quali Breglia, Steve, Sylos Labini e Giorgio Fuà. Il «Piano del lavoro», individuando nell’elevato
tasso di disoccupazione la questione di fondo della società italiana, faceva assegnamento sugli effetti moltiplicatori della spesa pubblica, pur nel quadro di alcune misure volte a ridurre i rischi inflazionistici, e garantiva a ogni buon fine la collaborazione del sindacato socialcomunista qualora il governo si fosse impegnato in adeguati investimenti nelle fonti di energia, nelle trasformazioni fondiarie e nelle attrezzature civili. Ma è pur vero che l’iniziativa di Di Vittorio suscitò più riserve critiche che consensi nello stato maggiore del Pci. Sia perché esprimeva una linea virtualmente favorevole all’accettazione del piano Marshall, che invece la dirigenza comunista respingeva nettamente; sia perché l’aggravamento della «guerra fredda» aveva reso nel frattempo sempre più profonde le divisioni politiche. Sta di fatto che, per una ragione o per l’altra, l’intervento pubblico; pur crescendo di dimensioni (in seguito anche all’adozione del Piano Sinigaglia per la conversione della siderurgia al ciclo integrale e alla costituzione dell’Eni) e pur determinando effetti positivi sull'andamento dell’economia, non assunse connota-
zioni tali da riflettere chiaramente politiche di tipo keynesiano. Del resto, nemmeno il cosiddetto «Piano Va-
noni» (dal nome del ministro del Bilancio che nel 1954 ne fu autore) intendeva inaugurare una vera e propria
politica di piano. Giacché Vanoni, se pur si poneva l’obiettivo della piena occupazione, non riteneva che lo si dovesse raggiungere con un mutamento di rotta
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radicale rispetto all'impostazione einaudiana, come invece sarebbero stati propensi ad attuare (ma non senza forti suggestioni giustizialiste e populiste) altri leader della sinistra democristiana come La Pira e Fanfani. La ricostruzione postbellica e il «miracolo economico» avvennero cosi in un contesto segnato da una
combinazione ibrida di liberismo economico e interventismo pubblico, e non già da una reciproca integrazione come avvenne in altri Paesi europei. Sia perché
l’accettazione del vincolo esterno (inteso come equilibrio complessivo della bilancia dei pagamenti), che pur era il requisito fondamentale per l'apertura al mercato internazionale, non fu esente col tempo da remore e da ripensamenti, come se si trattasse di una condizione transitoria. Sia perché alla crescita delle spese dello Stato (che, con quasi un quarto del reddito nazionale, giunse fin dall’inizio degli anni Cinquanta a superare di quasi il doppio il livello registrato in altre fasi di sviluppo sostenuto) non corrispose un indirizzo organico
e coerente di politica economica nella manovra di bilancio e nella destinazione degli investimenti pubblici. D'altra parte, tanto più ardua fu la prova imposta all’economia italiana, col passaggio nel giro di pochi anni da un regime ultraprotezionistico a una liberalizzazione degli scambi assai più pronunciata che in altri Paesi (al punto da coinvolgere fin dal 1949 quasi il cinquanta per cento del nostro commercio estero), tanto più giustificata apparve non solo l’adozione di provvedimenti tendenti a privilegiare i meccanismi di accumulazione del capitale, ma anche la tacita concessione agli operatori privati di una notevole libertà d’azione, indipendentemente da un effettivo sistema di controlli sulla correttezza o meno dei loro comportamenti. Si trattò in pratica di una sorta di «aregulation» che, — seda unlato assecondò l’espansione degli investimenti e della produzione, in quanto assicurava alle azien-
de la possibilità di far affidamento su particolari condizioni di «permissività», si risolse dall’altro a scapito
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dell’erario, del sistema previdenziale e delle stesse regole di mercato. Giacché le autorità e l’amministrazione statale chiusero un occhio tanto su sacche pur vaste di evasione fiscale e di speculazione finanziaria, quanto sull’inosservanza di determinate norme in ordine ai rappotti di lavoro o in materia urbanistica. Ma anche sul versante dell’intervento pubblico, continuarono a mancare, anche dopo l’istituzione nel 1957 del Ministero delle Partecipazioni Statali, adeguate disposizioni e procedure che consentissero al Parlamento, e agli stessi organi di governo, sia di stabilire una strategia complessiva per il sistema delle imprese pubbliche, sia di controllare la congruità del loro operato. Al punto che alcuni manager, a capo dei più importanti complessi, giunsero talora ad avvalersi del loro mandato per acquisire delle proprie posizioni di potere personali o per esercitare indebite ingerenze nella vita politica. In pratica, occorrerà attendere l’avvento del centrosinistra per assistere, a metà degli anni Sessanta, al varo di un disegno di programmazione, ossia di un indirizzo di governo dell’economia che avesse per obiettivi, da un lato, l’equilibrio fra formazione del capitale e sviluppo dell’offerta, e, dall’altro, il sostegno e la direzione della domanda. Come era già avvenuto in passato, anche in questa
circostanza ebbero una forte incidenza fattori e motivazioni di ordine eminentemente politico. Giacché lo schieramento parlamentare che tenne a battesimo la programmazione fu il risultato innanzitutto del progressivo esaurimento del centrismo e la nascita del centro-sinistra venne sollecitata dalla preoccupazione di scongiurare il pericolo di un’involuzione autoritaria mai dileguatosi del tutto neppure dopo la caduta del governo Tambroni. Altrettanto decisivi furono i propositi concepiti da Fanfani e dalla corrente maggioritaria di «Iniziativa democratica» di fare della Dc il «partito dello Stato» mediante una sua maggiore presenza nei circuiti di decisione pubblici e il suo affrancamens
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to dalle pressioni o dai condizionamenti dei principali potentati economici. Tuttavia, anche il confronto di idee e progetti sui te-
mi dell'economia, e il rilancio della «questione meridionale» come grande questione nazionale, ebbero una parte rilevante nella cosiddetta «apertura a sinistra». Fu anzi questa una delle stagioni più dense di fermenti e di novità nel dibattito sulle politiche economiche. Si trattava non solo di ridurre il divario fra Nord e Sud,
e di porre rimedio alle diseconomie che un processo di sviluppo altrettanto intenso e impetuoso quanto convulso e disordinato aveva finito per produrre. Si trattava anche di recepire le richieste di maggior giustizia sociale e di una più equa distribuzione del reddito, poste dal movimento sindacale. Fu soprattutto l’intellighenzia di matrice cattolica a esprimere una cultura di governo che si proponeva di coniugare keynesismo e riformismo sociale. Essa trovò, in campo socialista, i suoi principali interlocutori in Riccardo Lombardi e in Antonio Giolitti. Ma l’apporto del partito di Nenni fu meno consistente e originale, anche se determinante per i nuovi equilibri politici, in quanto il Psi non era ancora giunto a una revisione ideologica come quella compiuta dai socialdemocratici tedeschi con il congresso di Bad Godesberg del novembre 1959. In compenso, un ruolo di rilievo ebbe un movimento d’opinione come quello degli «Amici del Mondo», d’ispirazione liberal-progressista, che da tempo sosteneva l’esigenza di dar corso (insieme all’eliminazione di determinati privilegi monopolistici) a uno sviluppo equilibrato fra consumi privati e impieghi sociali, e che, di concerto con i meridionalisti raccolti intorno alla rivista «Nord e Sud», perorava un intervento pubblico più incisivo a favore
del Mezzogiorno. Tant'è che fu il principale esponente di quella che allora si definiva la «terza forza», il leader repubblicano e ministro del Bilancio Ugo La Malfa, a delineare, con la «Nota aggiuntiva» presentata in Parlamen-
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to nel 1962, quelli che sarebbero divenuti i principali obiettivi del centro-sinistra: da un aumento dei livelli d’efficienza nell’agricoltura, all’industrializzazione del Mezzogiorno; dallo sviluppo dei servizi pubblici, alla definizione di una scala di priorità nella dislocazione degli investimenti. Furono queste le premesse della politica di programmazione che (impostata in via procedurale da Saraceno nel 1964) venne inaugurata l’anno dopo e ribadita nel «Programma economico nazionale» per il quinquennio 1967-71, che contemplava anche la creazione di un sistema nazionale di sicurezza sociale. Essa non intendeva affatto sostituire lo Stato al mercato, come tuonavano da destra critici e avversari, ma orien-
tare parte degli investimenti pubblici e privati verso alcuni obiettivi d’interesse collettivo, come lo sviluppo dell’economia meridionale e l'ammodernamento delle infrastrutture. Sennonché i traguardi stabiliti dai vari piani rimasero per larga parte sulla carta. Da un lato, perché i loro estensori peccarono di eccessivo ottimismo, pre-
vedendo di poter perseguire simultaneamente molteplici obiettivi, sulla scorta di un modello essenzialmente macroeconomico e in base all’ipotesi di una permanente congiuntura espansiva. Dall'altro, perché venne a mancare l’apporto di efficaci strumenti di gestione. Ma a intralciare l’itinerario della programmazione concorse anche l’avversione dei principali gruppi economici, che ebbero buon gioco a sfruttare le divergenze presto insorte tra le forze di diversa ispirazione che componevano la nuova maggioranza; nonché l’atteggiamento dei comunisti, pregiudizialmente ostili al centro-sinistra per timore che esso segnasse l’emargina-
zione politica del Pci e l'integrazione della classe operaia nel sistema (come allora si diceva).
Fu cosî che il centro-sinistra conseguf due soli risul-
tati di rilievo: la nazionalizzazione dell'energia elettrica
(pagata peraltro a caro prezzo per via dell’entità degli
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indennizzi riconosciuti alle società private e per le modalità con cui essi vennero pagati) e l'imposta cedolare sui dividendi azionari (a cui si sarebbe poi aggiunto lo Statuto dei lavoratori). Rimasero invece a metà strada la riforma urbanistica e quella del sistema sanitario e non fecero alcun progresso concreto né la legislazione antitrust né la riforma della finanza locale. Si dirà in seguito che la programmazione non era che un «libro dei sogni». In realtà, i suoi assertori intendevano affrontare alcuni problemi cruciali, che comportavano tanto una razionalizzazione del sistema economico quanto una correzione degli squilibri più stridenti. Il difetto stava piuttosto nel manico, nel fatto che si sarebbe dovuto dar corso innanzitutto a una riforma della pubblica amministrazione e avviare la programmazione cominciando dai settori di cui lo Stato aveva il controllo diretto (ossia il sistema delle im-
prese pubbliche, la spesa per i consumi sociali, e la ricerca tecnico-scientifica). Sta di fatto che le delusioni e gli strascichi-polemici provocati dall’insuccesso di quel tentativo segnò il declino di una prospettiva riformista commisurata alle esperienze di altre democrazie occidentali e determinò un impoverimento della cultura di governo. Le conseguenze di questo stato di cose si sarebbero rivelate tanto pit gravi di fronte ai nuovi e assai più complessi problemi di gestione dell'economia e di organizzazione sociale che emersero negli anni Settanta, dovuti non solo alla crisi energetica e agli sconquassi monetari, ma anche all’aspra conflittualità esplosa nelle fabbriche e a una nuova imponente ondata migratoria dal Sud al Nord. Si continuò cosî a navigare a vista, senza un quadro
generale di riferimento, sull’onda di congiunture alterne. Ciò che impediî di percepire pienamente un nuovo genere di dualismo oltre quello fra Nord e Sud: ossia, il crescente divario tecnologico e organizzativo fra i diversi settori produttivi, fra quelli attivi sul mercato internazionale e quelli operanti alriparo del tutto o in
gran parte dalla concorrenza estera.
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E neppure si giunse ad affrontare un altro problema fondamentale: quello di costruire nuovi generatori di economie esterne, per assicurare una maggior efficienza
generale del sistema mediante l'ammodernamento del settore terziario, il potenziamento delle infrastrutture,
e adeguati provvedimenti che consentissero lo sviluppo del mercato mobiliare e la formazione di una robusta struttura di investitori istituzionali. Si ritenne infatti che, per stimolare la produttività, potesse bastare la manovra del tasso di cambio, e che, per il finan-
ziamento delle imprese, non restasse altra via che l’indebitamento bancario. Naturalmente, non fu soltanto la classe politica a denunciare una scarsa lungimiranza. Anche i grandi gruppi imprenditoriali non diedero, salvo qualche eccezione, una prova migliore: chi, continuando a badare
esclusivamente ai propri interessi, non preoccupandosi più di tanto sia della mancanza di un piano di gestione del territorio, sia delle disfunzioni dell’apparato pubblico, sia dell'assenza di adeguate norme per lo sviluppo del mercato finanziario; chi avvalendosi anzi di tali carenze (nonché delle larghe maglie del sistema fiscale) per trarne particolari benefici. D'altra parte il tentativo di La Malfa di dar corso a una «politica dei redditi» (stabilendo un tetto all'aumento dei salari e dei prezzi in linea con il tasso d’inflazione corrente)
non incontrò il consenso dei sindacati né fu sostenuto dalla Confindustria; mentre la prospettiva di un «patto dei produttori», fra imprenditori e classe operaia, per sgravare il sistema da sperperi e rendite di posizione, che echeggiava teorie ricardiane, non andò più in là della risonanza che essa riscosse sulle colonne dei giornali. Rimane il fatto che sarebbe spettato al governo e al Parlamento assumere opportune iniziative per eliminare gli sprechi e creare alcune condizioni più favorevoli allo sviluppo. Proprio in quegli anni, invece, l’interventismo pubblico venne sempre pit condizionato
da particolari calcoli tattici elettorali e di potere. E la
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gestione della spesa pubblica, sia perché caratterizzata da una struttura policentrica (che lasciava ampie possibilità agli enti locali di accedere alle casse dello Stato come una sorta di sportello pagatore a integrazione
dei loro bilanci), sia perché investita da un surplus di domande settoriali ed eterogenee, finî per abdicare alle ragioni dell’assistenzialismo e del clientelismo, alle pressioni di corporazioni, municipi e gruppi d’interesse, con inevitabili conseguenze negative sui conti dello Stato. Su questo sfondo, e anche in seguito ai successi elettorali riportati tra il 1975 e il 1976 dal Partito Comunista, si riaffacciò nel dibattito politico-economico la questione (che in verità la sinistra non aveva mai accantonato) di un superamento del sistema, di una «fuoriuscita dal capitalismo». Fu soprattutto Claudio Napoleoni a dar nuovo spessore teorico a questa prospettiva, attraverso una lettura originale di Marx e di Sraffa che lo portò ad asserire che il tratto preminente del capitalismo non stava più nella proprietà dei mezzi di produzione, bensi nel dominio della produzione di cose sulla società senza distinzioni di classe. A questa tesi mancava tuttavia il suo corollario: ossia attraverso quale strada (che non fosse la «terza via», cosî indeterminata e inafferrabile, allora proposta dagli assertori dell’eurocomunismo), sarebbe stato possibile portare a compimento il sogno secolare della sinistra marxista. Allo stesso modo, faceva difetto all’appello del sindacalismo operaista per un «nuovo modello di sviluppo», pervaso da suggestioni autogestionarie, l’indicazione di percorsi concreti che non riproducessero certe vocazioni puramente protestatarie o massimaliste. L’assioma del «salario come variabile indipendente»,
la ripulsa delle compatibilità economiche, un rivendicazionismo con preminenti tendenze egualitariste, era-
no infatti le principali direttive cui s’ispirava in quegli anni (dietro la pressione delle assemblee operaie e dei Consigli di fabbrica) la linea di condotta delle principali centrali sindacali, e soprattutto della pit consi-
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stente e organizzata federazione di categoria, quella dei metalmeccanici. E il loro ascendente risultava tanto più forte, in quanto i sindacati erano giunti a esercitare,
sia per le carenze d’iniziativa dei partiti, sia per la difficile situazione d'emergenza che il Paese stava attraversando negli «anni di piombo», un ruolo di autentica supplenza delle forze politiche e talora delle stesse istituzioni.
Di fatto, fu questo un periodo in cui non solo si dissolsero i miraggi vagheggiati dalla sinistra comunista di una radicale trasformazione del sistema, infrantisi via
via nell’impatto con una realtà assai più complessa e articolata di quella concepita, con riferimento al lavoro a catena e alla figura dell’operaio-massa, da certi «reparti forti» del movimento sindacale. Vennero consumandosi anche, tra le pieghe di un solidarismo altrettanto declamatorio quanto corporativo, le residue speranze di ridurre gli squilibri territoriali e di creare uno «Stato sociale» equo ed efficiente. Pressoché ogni decisione, in ordine alla destinazione e alla gestione delle risorse e degli interventi pubblici, passò dall’esecutivo e dal Parlamento nelle mani delle segreterie dei partiti e dei loro apparati, i quali tendevano a privilegiare, attraverso la prassi della lottizzazione, le ragioni dello scambio rispetto a quelle della funzionalità. E il principale obiettivo nel governo dell'economia divenne, di conseguenza, la copertura sempre più affannosa del disavanzo a costo di un crescente indebitamento, destinato a sua volta ad ali-
mentare la spirale inflazionistica e a prosciugare gran parte del risparmio e del mercato dei capitali. Proprio quando sarebbe stato necessario, invece, un rilancio degli investimenti produttivi e l'incremento del capitale di rischio: non solo per continuare a esportare beni e servizi, ma anche per competere in settori ad alta tecnologia. Di fatto i titoli di Stato cominciarono in questi an-
ni quell’eccezionale scalata, unica del genere in tutta Europa, che li avrebbe portati in breve tempo a rap-
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presentare qualcosa come due terzi del mercato finanziario. Nel frattempo andarono perse le chances di sviluppo tanto nel campo della chimica (per via di una sorta di nazionalizzazione surrettizia del settore e le lotte di quartiere scatenatesi intorno alla riorganizzazione e ai posti di comando della Montedison), quanto in quello-dell’elettronica, abbandonato per strada senza il sostegno di determinate misure tali da consentire un ulteriore progresso della ricerca o nuove forme di organizzazione. Se malgrado tutto l’economia italiana non naufragò fra i marosi dell’inflazione e le secche della recessione,
lo si dovette al singolare dinamismo di molte minuscole imprese. Un fenomeno, questo, reso possibile in origine anche da varie forme di lavoro nero e di evasione fiscale particolarmente diffuse in quel vasto e pressoché anonimo universo costituito dall’«economia sommersa». Ma l’exploit della piccola impresa non si spiegherebbe se non si tenesse debito conto delle sue radici,
del suo entroterra. Giacché molte aziende vennero alla luce e costruirono le loro fortune nell’ambito di un vasto reticolo di aree e sistemi territoriali specializzati che, da un lato, facevano leva sulle iniziative di decentramento produttivo assunte dalle maggiori imprese (per ridurre i costi della loro precedente organizzazione verticistica) e, dall’altro, valorizzavano specifiche ener-
gie e forme di cooperazione (rese possibili dalla contiguità di varie aziende dedite a un determinato segmento di lavorazione ma appartenenti allo stesso ramo
d’attività) per conseguire elevati livelli di flessibilità e coprire particolari nicchie di mercato. Si venne cosî riscoprendo la teoria marshalliana dei distretti industriali. E, insieme alla microeconomia, salî alla ribalta anche quel mondo della provincia italiana, fra la Padania e il litorale adriatico, che stava pren-
dendo il sopravvento sulle aree del nord-ovest di prima industrializzazione grazie a una felice combinazione fra una serie di iniziative imprenditoriali per lo più d’impianto familiare, un patrimonio preesistente di
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particolari attitudini artigianali e di lavoro, e varie forme di incentivazione degli enti locali. Fatta eccezione per qualche economista (come Giorgio Fuà, tra i primi a intuire le potenzialità della piccola impresa), fu il Censis a far conoscere questa nuova realtà, a cui si diede il nome di
«economia del ce-
spuglio», fatta per lo più di minuscole aziende situate sia a ridosso dei maggiori centri urbani sia in varie località più appartate e periferiche. Alcune di queste imprese sarebbero poi cresciute notevolmente di statura e dimensione negli anni successivi: chi, supplendo all’iniziale carenza di capitali col ricorso alle banche locali, cresciute di numero e di importanza in sintonia con la nuova ventata di sviluppo economico e di benessere; chi, dotandosi tramite l’autofinanziamento di nuove attrezzature tecniche e commerciali; chi, riu-
scendo a progredire a tal punto da estendere il proprio raggio d’azione da un giro di piccoli business alle maggiori piazze internazionali. Sennonché, il circuito virtuoso messo in moto dagli sviluppi di questa nuova imprenditorialità emergente alimentò, nell’opinione comune, una sorta di subcul-
tura altrettanto suggestiva quanto semplicistica segnata dalla retorica del «piccolo è bello», nonché l’illusione che, in base a tale equazione, potesse riprodursi un secondo «miracolo economico». Miraggio, questo, che sarebbe stato presto smentito. Non solo per via della crisi di Borsa del:1987 e di una nuova fase recessiva, ma anche per il progressivo deterioramento delle nostre ragioni di scambio (dovuto al divario fra il valore
dei beni di consumo finali esportati, per lo più consistenti in beni di consumo durevoli, e quello dei beni capitali a medio-alto contenuto innovativo importati). Fu anche a causa del clima euforico suscitato dai successi del «made in Italy», e propagatosi poi nel corso della ripresa economica manifestatasi intorno alla metà degli anni Ottanta, che si finf per trascurare il pericolo di un dissesto delle finanze statali, ritenendo che potesse venire bloccato o esorcizzato da qualche misura
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di contenimento. D'altra parte, la spesa pubblica consentiva ai governi di smussare gli angoli, di mitigare le tensioni sociali, o più semplicemente di tenersi buono un certo numero di elettori. In tal modo era possibile saldare i costi sia di un esercizio clientelare del potere, sia dei rapporti consociativi fra le forze di governo e il maggior partito d’opposizione; e gestire inoltre (mediante una politica di alti tassi resa necessaria dal finanziamento del deficit) il consenso dei risparmiatori o di condizionarne i comportamenti. Di fatto, per una ragione o per l’altra, finî cosî per formarsi, con il concorso di tanti soggetti politici e-sociali, una sorta di «partito unico del debito pubblico». E vero che l’impennata della spesa pubblica era dovuta anche a una serie di ammortizzatori sociali adot| tati per soccorrere le aree più deboli. Ma, in quanto volte soprattutto al sostegno della domanda e dei redditi, queste e altre misure d’intervento pubblico in favore del Mezzogiorno non servirono a sanare le cause strutturali del dualismo in mancanza nel Sud di-un processo di sviluppo autoctono. Oggi, dopo il collasso della Prima Repubblica sotto il peso delle degenerazioni di un regime partitocratico altrettanto pervasivo che avvitato su se stesso (in cui
la politica era sovente andata a braccetto con l’affarismo, dando luogo a molteplici intrecci illeciti), rimane pur sempre da affrontare il problema fondamentale di far quadrare i conti della nostra disastrata finanza statale. Giacché dal suo risanamento dipende non solo la stabilizzazione della lira ma anche la crescita degli investimenti e dei posti di lavoro. Di fatto, la dimensione astronomica del debito pubblico rappresenta oggi l’ipoteca più micidiale che incombe sull’economia italiana e sullo stesso futuro del Paese. Si spiega perciò la preminenza che è tornata ad assumere - indipendentemente dal successo riscosso negli ultimi anni dalle teorie neoliberiste - la politica monetaria e, di conseguenza, il ruolo del Tesoro e della Banca d’Italia.
TE)
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È vero che anche da noi una delle cause strutturali del debito pubblico è il costo eccessivo dello «Stato sociale», reso tanto pit pesante in Italia dal carico esorbitante e dalle deformazioni del sistema previdenziale (solo ora in via di parziale aggiustamento dopo la recente riforma delle pensioni) nonché dalle iniquità che caratterizzano la distribuzione degli oneri fiscali. Ma la crescita abnorme del disavanzo pubblico è anche lo specchio delle anomalie e delle contraddizioni della società italiana, della sua incompiuta modernizzazione. Il nostro Paese si è trovato infatti a scontare,
oltre alle conseguenze di un'illusione piuttosto diffusa e prolungata che si potesse continuare a vivere al di sopra dei propri mezzi, le vischiosità consociative e i veti incrociati di un sistema di
«democrazia bloccata»,
senza alternanze. Si spiega perciò come, nonostante tanti moniti pro-
venienti dalle principali istituzioni monetarie internazionali e dalla Comunità europea, la classe politica sia rimasta per lo più refrattaria ai ripetuti appelli che sollecitavano l’elaborazione di efficaci programmi di governo e una coerente strategia di risanamento finanziario.
D'altra parte, solo da poco tempo sono venuti meno certi tabù ideologici nei confronti dell'economia di mercato. E incontra ancora parecchi ostacoli il passaggio da uno Stato proprietario-gestore diretto di risorse (non molto diverso da quello edificato a suo tempo
dal regime fascista per rimuovere le macerie della «grande crisi» degli anni Trenta) a uno Stato regolatore e garante della competizione economica.
Uno Stato che stabilisca alcune norme essenziali di condotta ed efficaci forme di controllo, sia per la gestione limpida della cosa pubblica e per la massima trasparenza dei rapporti economici, sia per la determinazione di effettive condizioni di concorrenzae di. tutela dei consumatori; che adotti le misure pit opportune per lo sviluppo di politiche attive per fattori produttivi (capitale, lavoro, formazione, ricerca e innova-
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zione); che fornisca servizi pubblici adeguati sia alla collettività nazionale sia a un’economia
industriale
avanzata. Tuttavia, si sta manifestando quantomeno un progressivo mutamento di orientamenti culturali e di aspettative sociali. Esauritasi nelle attuali condizioni la funzione propulsiva delle politiche keynesiane, si sta imponendo anche da noi la ricerca di nuove soluzioni che consentano lo sviluppo del sistema produttivo e dell’occupazione in un quadro di stabilità dei prezzi, di flessibilità del lavoro, di equilibrate garanzie sociali. Ed è cresciuta tanto la domanda di efficienza, non
come fine ma come mezzo, per rafforzare le potenzialità del «sistema-Paese» nel suo complesso, e, dunque, per reggere le prove sempre più ardue dovute alla globalizzazione del mercato; quanto la domanda di trasparenza, per eliminare sprechi e disfunzioni e per garantire un nuovo rapporto sia fra imprese e consuma-
tori, sia fra amministrazione pubblica e cittadini utenti e contribuenti. i D'altra parte, la formula «più mercato e meno Stato», su cui oggi converge la maggior parte degli economisti, non riflette tanto l’influenza nel nostro Paese della scuola ultraliberista di Milton Friedman, o la tesi di un’indiscriminata «deregulation». La riscoper-
ta dei principî dell'economia di mercato è scaturita piuttosto dall’esigenza di riformare le strutture di un apparato statale elefantiaco in alcuni settori e carente in altri; di impostare la gestione dei servizi collettivi sulla base del rapporto costi-benefici, e di responsabilizzare gli enti locali; di creare nelle regioni meridionali le condizioni più idonee per l’attivazione di uno sviluppo autopropulsivo, non finanziato unicamente o quasi dai rubinetti della spesa pubblica. Questi obiettivi comportano peraltro l’adozione di un insieme di riforme istituzionali, tali da ripristinare il senso dello Stato e da garantire l’equilibrio dei poteri; nonché di una nuova legge elettorale che renda
possibile l'avvento di un’effettiva democrazia dell’al-
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ternanza. Altrettanto essenziale è un programma-governo che persegua una seria politica di risanamento finanziario, che tagli i rami secchi e bonifichi le spese correnti, metta fine alle ancor larghe fasce di evasione ed elusione fiscale, al fine di consentire il rilancio de-
gli investimenti nella produzione, nella formazione e nella ricerca. La crisi di transizione, che si trova tuttora a vivere
il nostro Paese, ha reso più difficile l’itinerario verso il raggiungimento degli obiettivi dell’unione economica e monetaria fissati con il trattato di Maastricht. A maggior ragione, qualora si sfilacciasse ulteriormente il «vincolo esterno» (che cinquant’anni fa rese possibile l'ancoraggio al mercato internazionale), l’Italia non potrebbe pi continuare a figurare a pieno titolo nell'Unione europea. Tanto più che il vistoso deprezzamento subîto negli ultimi tempi dalla lira, se da un lato ha favorito finora le nostre esportazioni, potrebbe non solo provocare alla lunga dure misure di ritorsione da parte dei Paesi concorrenti, ma rimettere in moto una forte spirale inflazionista. Col risultato in un caso o nell’altro di bloccare la ripresa economica in corso e di pregiudicare più di quanto già non sia l’affidabilità dell’Italia sui mercati finanziari internazionali. Siamo dunque a una svolta cruciale. La stabilità politica è stata sempre un requisito fondamentale per il buon andamento dell’economia. Ma oggi lo è diventato ancor di più. Giacché il pericolo a cui andiamo incontro, se non riusciremo a darci un sistema politico-istituzionale analogo a quello di altre democrazie occidentali che assicuri continuità e coerenza nell’azione di governo, è l'emarginazione del nostro Paese sia dal nuovo contesto internazionale post-bipolare, sia dalle nuove e sempre più fluide frontiere dello sviluppo. Fatte le debite proporzioni, è una sorta di «seconda ricostruzione», dopo quella dell’immediato dopoguerra, quella che dobbiamo affrontare. Ma avremo, oltre alle energie e alle risorse, anche le attitudini e le capa-
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cità, in termini di scelte politiche e di strategie economiche, di cultura sociale e di impegno collettivo, pet superare le sfide che ci attendono? Sono questi gli interrogativi che ci poniamo oggi, alla conclusione di un complesso capitolo della nostra storia (segnato da profonde trasformazioni ma anche da tanti problemi irrisolti) e alla vigilia di un nuovo secolo cosî denso di incognite sotto ogni profilo.
Siro Lombardini Stato e mercato nelle culture economiche: idee e realtà
Cercherò di affrontare due questioni: perché il problema della programmazione non si sia imposto nel dibattito economico-politico del dopoguerra; perché invece si sia posto — male in verità — all’inizio degli anni Sessanta. Preliminarmente occorre riflettere su due tematiche: la prima riguarda lo sviluppo del pensiero, l’altra l’evoluzione delle realtà socio-economiche. Non si tratta di riproporre una dicotomia marxista, ma di capire come lo sviluppo del pensiero si intrecci con lo sviluppo di un sistema economico e sociale. E per accennare alla
situazione determinatasi subito dopo la guerra, quando si avviò il dibattito sulle nuove istituzioni e le nuove politiche, mi affiderò ad un ricordo personale: nel primo numero de «La voce del lavoratore», organo della sinistra cristiana, una volta sostenni, come direttore, nell’articolo di fondo, la necessità di una programmazione come strumento per risolvere i gravi problemi di ordine economico e sociale. Devo riconoscere che allora ero più ingenuo di quanto non sia oggi e pensavo che la politica della programmazione fosse un’alternativa possibile.
Prevalse invece l'orientamento liberista e solo nei primi anni Sessanta parve a molti opportuno accelerare lo sviluppo. Si tornò a parlare di programmazione. Ezio Vanoni propose uno schema (elaborato dalla Svimez sotto la guida di Pasquale Saraceno): rimase un documento di studio. In effetti il Paese fu ricostruito, l'economia si espanse rapidamente. Il reddito crebbe
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ad un tasso annuo che era apparso un obiettivo quasi temerario (oltre il 5% all'anno). Il deficit nei conti con
l’estero venne eliminato in tempi più brevi di quelli sperati. Si accentuarono però alcuni squilibri: tra settori (tra agricoltura e industria), tra imprese e tra regioni e tra consumi privati e consumi pubblici. E con riferimento a questi squilibri che Ugo La Malfa, esponente del Pri, all’inizio degli anni Sessanta propose una politica di programmazione. Cosa stava dietro questi fatti? Dietro questi fatti stava una situazione culturale molto variegata. Bisogna dire che le aree culturali vivaci, in cui si cercava di di-
re qualcosa di nuovo, erano poche: il Partito d’Azione, un gruppo di socialisti, alcuni economisti piuttosto eterodossi (ricorderò Elio Vittorini), il gruppo degli ex cattolici comunisti (Sinistra Cristiana), alcuni elemen-
ti vicini a Dossetti nella Democrazia Cristiana. Il dibattito rimase però sostanzialmente frazionato e non ebbe rilevanza politica. I gruppi ricordati finirono: alcuni per sparire, altri per integrarsi, altri furono emarginati. Le loro voci si persero nel deserto dei compromessi politici (qualche eco si ebbe nell’accademia). Il dibattito non riprese neppure con l’avvento del centro sinistra. La nota aggiuntiva alla relazione sulla situazione economica del 1963, ad opera dell’allora Ministro del Bilancio Ugo La Malfa, proponeva una politica di programmazione con argomenti tecnici che parvero minacciare le prospettive dell'economia e la stabilità politica. L'accordo tra democristiani e socia| listi richiedeva alcune innovazioni. Fanfani, presidente del Consiglio dei ministri, accettò di procedere alla nazionalizzazione dell'energia elettrica che venne concepita in tempi brevi al di fuori di politiche strutturali (e di conseguenti mutamenti istituzionali) quali si ri-
chiedevano perché essa assumesse un significato positivo e non si risolvesse nella mera sostituzione di un monopolio pubblico ad uno privato: se il secondo aveva suscitato qualche preoccupazione per la politica dei #
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prezzi (sgradita soprattutto ad alcune industrie) il primo comportava il rischio di inefficienze che in effetti si sono avute.
Più impegnata è stata la ricerca di una legge urbani: stica, sollecitata dall’allora Ministro dei Lavori Pub-
blici F. Sullo, per consentire un’efficiente pianificazione urbana, momento essenziale dell’organizzazione del territorio. La discussione, nella Commissione preposta a studiare un progetto di legge, di cui io feci parte con Giuliano Guarino, fu intensa e non sempre tranquilla. Nella stesura finale, al principio dell’esproprio generalizzato che noi ritenevamo necessario per la realizzazione di un sistema di infrastrutture efficiente venne aggiunto il diritto di superficie (sembra per iniziativa di burocrati del ministero che cosî, più o meno consapevolmente, hanno contribuito a rendere la legge inaccettabile). Il Ministro Sullo sottovalutò l’effetto
politico dell’iniziativa che era politicamente più rilevante della nazionalizzazione dell’energia elettrica. Per questo gli venne suggerito un periodo, sia pure breve, di ulteriori riflessioni, anche per chiarire meglio il problema all’opinione pubblica. Ma Sullo era sicuro che la legge alla fine sarebbe passata. Malgrado alcune imperfezioni, la legge avrebbe consentito un’organizzazione del territorio con vantaggi per i cittadini e per le imprese (per non parlare delle prospettive del turismo). Non passò e noi siamo tra i Paesi industrializzati il solo che non ha realizzato alcun programma di strutturazione o ristrutturazione urbana (l’ultima è stata la progettazione dell’Eur a Roma). Sono bastate queste iniziative del centro-sinistra (dai
diari di Nenni sembra che quella considerata particolarmente pericolosa fosse il progetto di legge urbanistica) a indurre alcuni esponenti politici e militari a pensare ad un possibile golpe. Un golpe che è poi risultato da operetta. Il centro-sinistra cercò di caratterizzarsi adottando una politica di programmazione. A distanza di anni si x
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deve riconoscere che essa si è risolta in un vaniloquio in cui si possono peraltro trovare alcuni momenti di un certo interesse.
Nel 1945, molti speravano che dopo la liberazione, dopo le esperienze dei Comitati di Liberazione Nazionale si sarebbero create le condizioni per una nuova politica economica. Per inciso ricorderò un episodio per spiegare quelle speranze e il rigore morale con il quale si affrontò l’esperienza. Il Comitato Nazionale di Liberazione della Lombardia, nel maggio-giugno del 1945, riusci a compiere il miracolo di rimettere in moto l’industria (di molte imprese non si riuscivano a rintracciare i responsabili; altre non riuscivano a trovare le materie prime). Fu
creata una commissione di cui
feci parte per giudicare un commissario che aveva utilizzato la macchina del Cln per raggiungere in serata la famiglia sfollata. Risultò poi che il commissario aveva dovuto lavorare fino a notte inoltrata; non aveva al-
tro mezzo per tornare a casa. Anche questo è stata l’esperienza dei Cln. Allora non ero entusiasta della politica di Togliatti ed ero critico nei confronti di quella di De Gasperi. Ora il mio giudizio si è modificato. L'Italia si trovava, vaso di coccio, a muoversi tra i vasi di ferro. Togliatti sapeva benissimo che l’Italia correva il rischio di fare la fine della Grecia: in Italia, poteva significare mettere a repentaglio la libertà riconquistata. De Gasperi aveva motivo di ritenere che l’Italia potesse correre il rischio che i comunisti prendessero il potere. Queste opposte preoccupazioni, per un paradosso, finirono per determinare politiche del Pci e della Dc più o meno consapevolmente convergenti. Non fu solo il sistema
politico a risentirne, ma tutto il sistema culturale. La | preoccupazione maggiore del Pci era quella di convincere l’elettorato di aver abbandonato le vecchie posizioni. La Dc doveva tenere insieme i ceti medi in larga parte ereditati dal fascismo (che è stato essenzial-
mente il grande movimento dei ceti medi), la borghesia industriale e parte della finanziaria (che non amavano
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quel partito ma che lo consideravano il solo capace di contrastare il comunismo) e una parte dei lavoratori
che potevano essere coinvolti nelle politiche, di alcune aziende in particolare, volte a differenziare i salari per favorire l’avvio della nuova fase - consumistica - del sistema capitalistico. L’artefice di quest’evoluzione destinata a cambiare la realtà economica e il sistema sociale del nostro Paese è stato Vittorio Valletta, presidente della Fiat. Una conseguenza di tale evoluzione è stata la messa al bando dello stesso termine di programmazione. Il termine «pianificazione» evocava addirittura la Russia. La parola programmazione non compare nella Co-
stituzione, al suo posto troviamo delle perifrasi. Nel 1958 un dossettiano, Aldo Valente, creò a Torino l’Ires, per fornire un centro di ricerca e di elaborazione di linee politiche per la Provincia alle prese con i problemi insorti in seguito alla accelerata immigrazione, ancora in larga misura clandestina. L’ Assessorato di riferimento che si occupava di problemi di programmazione si chiamava: Assessorato per il coordinamento delle iniziative sociali. Per capire perché non si poteva parlare di programmazione è sufficiente leggere alcuni discorsi di Togliatti, riflettere sui suggerimenti rivolti da M. Scoccimarro, altro dirigente comunista, ai giovani di leggere l'economista Luigi Einaudi per capire la realtà italiana. Se vi era un economista che non era in condizione di capire la nuova evoluzione, questo era proprio L. Einaudi, il quale, per altro, come Presidente della Repubblica, ha dato un contributo rilevante a determinarla. Però, il dibattito vivace del dopo-liberazione non si era del tutto spento. Nella Dc era mantenuto vivo dai dossettiani, tra gli economisti eravamo in pochi a cercare una via che non fosse la ripresa di vecchie posizioni rivoluzionarie e che non si limitasse a importare le nuove teorie keynesiane di cui con riferimento al nostro Paese era pit rilevante il momento critico che quello propositivo. Tra questi, F. Caffè, P. Sylos Labini e =
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G. Fuà. Non mancarono convegni in cui si cercò di
mettere a fuoco i problemi specifici dell’Italia. Le tesi che in quei convegni venivano avanzate apparivano
sempre pi dissonanti rispetto all’evoluzione che si andava configurando. Il sistema politico che si era andato consolidando apparirà ben presto, soprattutto dopo la «purificazione» che si ritenne di realizzare con il centro sinistra, congeniale con il nuovo sviluppo italiano. Il sistema politico emerso dalle elezioni del 1948 appare ancorato a
due realtà politiche: quella del Pci e quella della Dc. Due realtà che hanno molte assonanze. Si tratta di due partiti le cui consistenze e stabilità appaiono garantite da due strutture organizzative che si sono rapidamente consolidate. Quella della Dc era in gran parte un riflesso della struttura della Chiesa fortemente ancorata al territorio, molto forte nella campagna, in grado di condizionare quei ceti medi che erano stati rivalutati dal fascismo. Come è stato messo in luce in uno dei migliori film fatti sul periodo fascista, A/larmi siara fascisti, nel 1932 gran parte del Paese, chi per convinzione, chi per le condizioni di relativa tranquillità e per le prospettive economiche che si andavano delineando, chi per rassegnazione, era per il fascismo. Certi riti del fascismo miravano a ridare una dignità quanto meno ap-
parente a esponenti del ceto medio. Se la vocazione fascista dei ceti medi non riemerse nel dopoguerra (se
movimenti come quello de «L'uomo qualunque» abortirono) il merito è stato della Dc. Il sodalizio De Ga-
speri - Einaudi nacque «all’insegna» dei ceti medi. I due leader si trovano infatti d'accordo sulla difesa del ceto medio, per ragioni diverse. Per Einaudi il ceto médio era il motore dell'economia. Quelli cui Einaudi fa-
ceva continui riferimenti erano i contadini risparmiatori, il cui primo obiettivo è migliorare il proprio podere. Questo contadino era il suo modello di im-
| prenditore capitalista: da ciò la sua avversione per Keynes che contrapponeva l’imprenditore capitalista ai ren|tier. È interessante riflettere sulla ricetta di Einaudi.
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per uscire dalla grande crisi quale si evince da un passo dell’articolo Bardature della crisi pubblicato su «La riforma sociale» (n. 3 del 1932): «Il contadino farà a meno di vestirsi alla cittadina, la sua donna di calze di
seta, di cappellini e parasoli variopinti, pregerà nuovamente le stoffe durature, migliorerà la stalla e arrederà una stanza da pranzo diversa dalla cucina. I nuovi agiati o nuovi ricchi, i ceti burocratici e quelli operai scelti daranno più importanza alla casa bella, ai mobili semplici e duraturi, ai conforti durevoli. [...] Si compreranno ancora vetture automobili per comodo o per diporto, ma non per rompersi il collo in corse senza senso». Il cambio della moneta, momento essenziale per favorire un’accumulazione adeguata che molti ritenevano il mercato incapace di assicurare, era fortemente avversato da Einaudi convinto che, una volta fosse stato
garantito il loro risparmio, i ceti medi avrebbero assicurato i finanziamenti necessari per i massicci investi-
menti. De Gasperi riteneva il cambio della moneta politicamente pericoloso. L'affermazione di questi orientamenti di De Gasperi e di Einaudi fu facilitata dagli atteggiamenti radicali di certo antifascismo deciso a smantellare ogni istituzione che fosse stata creata dal passato regime, anche quelle (certe forme di controllo dei prezzi) che, come riconoscerà Guido Carli, avreb-
bero potuto essere validamente utilizzate. Cosî si spiega la breve vita del dibattito «nuovo» che si ebbe subito dopo le elezioni. Vinsero i ceti medi ma le conseguenze furono diverse da quelle attese da Einaudi, per certi aspetti opposte. La difesa del ceto medio (in particolare di dipendenti pubblici, di professionisti e di commercianti) e la differenziazione salariale crearono le premesse per l’avvio della nuova fase consumistica che Valletta era riuscito a intravedere e che favori con la sua politica di differenziazione del prodotto (il lancio della «Cinquecento»). I ceti medi contribuirono cosî in modo determinante a rilanciare verso nuovi obiettivi l'economia ita-
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liana non tanto con il loro risparmio, quanto con l’acquisto che erano in grado di fare dei nuovi beni. Per quanto riguarda le esportazioni italiane era diffuso il convincimento che esse avrebbero potuto riprendere grazie a certi vantaggi nella produzione di alcuni beni tradizionali (quella dei tessili che in effetti riprese dopo la guerra per il fatto, però, che le industrie tessili di altri Paesi europei erano state largamente colpite dalla guerra). La forte ripresa delle esportazioni che si ebbe successivamente e che contribuî al miracolo economico fu l’esportazione di automobili e di elettrodomestici. La differenziazione salariale consentirà poi anche a fasce cospicue di lavoratori di comprarsi la macchina che divenne ben presto simbolo di stato sociale. Una ricerca sui consumi in Piemonte negli anni Sessanta mostrò che il consumo pro capite di tessili era calato:
evidentemente gli immigrati prima di adeguare il loro guardaroba a quello degli autoctoni cercavano di acquistare la macchina, magari la «Topolino» usata che veniva venduta da chi diventava in grado di acquistare il nuovo modello. A differenza di quanto avveniva negli altri Paesi, in Italia era difficile individuare una sinistra ed una destra. Non tanto per la ragione che oggi viene indicata: per la proibizione di movimenti che si richiamassero in qualche modo al fascismo. Non bisogna dimenticare che nell’ultima fase della Repubblica di Salò; il fascismo aveva ripreso alcune componenti originali che non possono certo qualificarsi di destra. La scelta a destra dei movimenti fascisti - e forse, credo, questo si può dire per Alleanza Nazionale, peraltro ora condizionata anche dalla situazione sociale e politica del Mezzogiorno - risponde non a concezioni ideologiche che
comportano l'adesione al liberismo economico ma a interessi, dei ceti medi in particolare, e a convenienze politiche. La difficoltà di individuare una destra e una sinistra in Italia si spiega per il ruolo che giocano le strutture che hanno sostenuto il Pci e la Dc, a surroga del mancato sviluppo di una classe borghese e del non an-
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cora realizzato orientamento consapevolmente in sen-
so democratico delle masse operaie, queste condizioni essendosi create in Gran Bretagna; della mancata formazione di strutture burocratiche efficienti come quelle che sostengono il sistema politico francese; dell’assenza di un sistema finanziario-bancario articolato come quello che ha giocato un ruolo determinante nel processo di industrializzazione della Germania. AI sodalizio De Gasperi - Einaudi, la sinistra non era in grado di contrapporre una «politica». Poteva avanzare solo rivendicazioni «sparse». La forza politica dei lavoratori non poteva esprimersi attraverso i par-
titi politici. I lavoratori comunisti erano congelati dalla politica di Togliatti che, peraltro, aveva giustificazioni nella posizione dell’Italia nel sistema internazionale. I lavoratori cattolici non potevano esprimersi nella Dc impegnata, più o meno consapevolmente, a difendere la debole democrazia dai potenziali pericoli del ceto medio. In questa situazione un notevole potere
avevano il sindacato e la Confindustria. I leader dei due movimenti erano due personalità che avevano chiaramente percepito i problemi e le prospettive del Paese: Giuseppe Di Vittorio e Angelo Costa, l’uno a lungo segretario generale della Cgil e l’altro a lungo presidente della Confindustria negli anni Cinquanta. Si è allora realizzato — se mi è consentito di usare un termine americano — un urconscious parallelism che ha consentito all'economia italiana di decollare e all’evoluzione consumistica di realizzarsi. Va detto che un ruolo notevole hanno giocato alcuni grandi imprenditori: Oscar Sinigaglia (che rese efficiente la nostra industria siderurgica), Adriano Olivetti (che riusci a salvare la grande impresa di macchine da scrivere dalla grave crisi del dopoguerra e a rilanciarla), Vittorio Valletta che può considerarsi il protagonista, insieme ad alcuni relativamente piccoli imprenditori del settore degli elettrodomestici, dell’evoluzio-
ne consumistica, Enrico Mattei che dando nuove prospettive all’Agip arrivò a creare l’Eni. Diversi furono
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gli atteggiamenti politici di questi grandi imprenditori. Mentre Sinigaglia rimase nell’ottica Iri e Valletta, consapevole del potere spontaneo della Fiat, si preoccupò soprattutto di mercato e di relazioni industriali (contribuî a modificare l'assetto del sindacato), Olivetti
e Mattei portarono un contributo alla ripresa del dibattito sulla programmazione sia pure con ottiche diverse. Mentre Olivetti era interessato al dibattito culturale, stimolando la riflessione lungo filoni che appaiono oggi ancora rilevanti, Mattei aveva intuito che una programmazione seria poteva facilitare la risoluzione di alcuni problemi concreti. Le due ottiche comportavano atteggiamenti politici diversi. Olivetti si era impegnato di persona sia nel dibattito culturale che in quello politico, Mattei ha creato un centro per gli studi sulla programmazione che, dopo la sua morte, ha finito per svanire. Le prospettive cambiarono con la messa in disparte di Olivetti. Uno dei temi su cui dovranno indagare gli storici è come le favorevoli prospettive che si erano aperte negli anni Sessanta all’industria elettronica ed informatica italiana non siano state valorizzate. Per ciò che riguarda Valletta va detto che aveva capito già negli anni ’30, che si poteva ripetere in Italia quella che è stata l'operazione Ford negli Stati Uniti, cioè che bastava lasciare che gli incrementi di produttività si traducessero soprattutto in aumenti dei salari piuttosto che in aumenti del tempo libero perché l’automobile nata come giocattolo per i ricchi diventasse un consumo di massa, con tutti i cambiamenti successivi. Lo sviluppo consumistico poté realizzarsi grazie al-
le forze «spontanee» del mercato. Fu questo sviluppo ‘ela rapida espansione delle esportazioni che hanno de| terminato quel prolungato miracolo economico. Lo Stato ha fatto da mosca cocchiera. Occorreva, in verità, solo orientare certi lavori pubblici, difendere i redditi ‘anche medi (a questo ha contribuito la legge sull’equo canone). | Va detto che in questo periodo laclasse politica ha
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giocato un ruolo rilevante, non solo per aver consentito (soprattutto con atteggiamenti «neutrali») il crearsi di alcune condizioni per lo sviluppo economico del tipo ricordato, ma anche per alcuni atteggiamenti in positivo. Mi limiterò a ricordare la creazione del quarto centro siderurgico a Taranto, una decisione che non trovava consensi tra i privati e che si è rivelata successivamente valida. Ancor pit rilevante è stato il ruolo della classe politica (De Gasperi, La Malfa, Sforza, tan-
to per citare alcuni dei leader maggiormente impegnati) nella creazione del Mercato Comune e nella parte-
cipazione dell’Italia (i dirigenti Fiat erano in quel tempo alquanto scettici). La programmazione, comunque, avviata dal centro sinistra si risolse in un vaniloquio. La nuova esperienza incontrò timidi consensi e vivaci reazioni. I quotidiani vicini ai gruppi industriali e finanziari reagirono in modi aspri. Qualcuno parlò del «pericolo polacco» che si profilava per il nostro Paese. Per capire come si svolsero le cose, occorre cercare di meglio comprendere la novità del centro-sinistra. Il centro-sinistra fu un’operazione politica senza specifiche ragioni economiche. Alcuni esponenti politici avvertivano che le prospettive andavano mutando, che quella certa tranquillità che il miracolo economico aveva assicurato era a repentaglio, che cambiamenti si profilavano nella situazione internazionale, che se da un lato si aprivano nuovi spazi per una politica riformista, dall’altro diventava sempre pit necessaria una chiara scelta di campo. Le maggioranze che avevano sostenuto i governi, vari nella loro composizione ma sempre ancorati al centro, apparivano sempre più deboli. Le discrasie tra governo centrale e governi regionali cominciavano a creare problemi circa la stabilità politica. Non meraviglia che alcuni esponenti politici abbiano
pensato che un'alleanza tra cattolici e socialisti avrebbe potuto emarginare i comunisti, confermando la scelta di campo e scongiurando cosî definitivamente il pericolo comunista. A questa interpretazione del centro-
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sinistra se ne contrapponeva un’altra, sia in campo socialista (Riccardo Lombardi, Antonio Giolitti, due
esponenti di primo piano del Psi), sia in campo democristiano (Amintore Fanfani, pit volte segretario Dc e
primo ministro). Il centro-sinistra veniva interpretato
come l’occasione che finalmente si offriva di impostare una nuova politica: si pensi alla nazionalizzazione dell’energia elettrica e al tentativo di varare una legge urbanistica, con le conseguenze, pit politiche che economiche, che seguirono. I comunisti si trovarono per la seconda volta (dopo il 1947, quando De Gasperi li scaricò e formò il primo governo di centro) in serie difficoltà. Dovevamo cercare di tenere agganciati i socialisti e non favorire una esperienza che mirava ad isolarli. E in questo contesto politico che si propose la politica di programmazione. Comprensibile l’atteggiamento dei grandi gruppi. Comprensibile il sostanziale defilarsi dei movimenti sindacali. Il fallimento della programmazione non è dovuto solo a questo ambiguo quadro politico. Vi sono altre tre ragioni che acquisteranno con lo svolgersi dell’esperienza di centro-sinistra crescenti rilievi, con sempre
più decisive implicazioni politiche. a) Nel 1963 si ha un cambiamento nella situazione economica e nelle prospettive. Per la prima volta si pone il problema di politiche di stabilizzazione. Cominciano ad alternarsi due opposte diagnosi sulla situazione economica: l'economia reale va bene, ma riprende l’inflazione; siamo riusciti a bloccare l’inflazione, purtroppo l'economia reale non va bene. G. Carli, governatore della Banca d’Italia, decide una stretta crediti-
zia. L'effetto è che per la prima volta si ha in Italia una riduzione dei salari reali. Una ancora contenuta fluttuazione ciclica disturba il miracolo economico. Quan-
do la crescita rallenta, il problema centrale diventa la ripresa; quando la ripresa si accelera creando difficoltà nei conti con l’estero, il problema diventa il suo con| tenimento. Anche per la filosofia del Fondo Monetaon
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rio Internazionale, non vi sono alternative. Non vi è
spazio per una politica di programmazione che per sua natura è una politica di lungo periodo. b) Nella impostazione dei temi della programmazione finirono per prevalere concezioni istituzionalistiche (doveva la programmazione essere decisa per legge o costituire semplicemente un indirizzo del governo ?) e macroeconomiche. Non si cercò di comprendere il ruolo del mercato e di altre mani visibili e semivisibili, i
fattori che determinano non solo un certo livello ma anche una certa struttura della spesa pubblica. Un’influenza nefasta delle concezioni keynesiane è stata quella di convincere che i problemi di fondo potevano essere individuati con modelli macroeconomici. In verità non mancarono studi settoriali, ma essi si risolse-
ro in discorsi controffattuali: se si riescono a fare queste opere, se si riesce a incrementare l’industria nel Sud, allora ne seguono certe conseguenze. Il ruolo delle istituzioni è stato sottovalutato. Era come se si pro-
gettasse una bicicletta per un bimbo che non aveva ancora imparato a camminare. Nessun discorso serio ven-
ne fatto sui mutamenti che si rendevano necessari nelle strutture burocratiche e nel loro modo di funzionare. c) I rapporti tra industria privata, industria pubblica e Stato erano andati modificandosi, riducendo i possibili spazi per una politica di programmazione. A tutto ciò si aggiunsero i mutamenti strutturali nel sistema politico-economico. Ho già accennato al ruolo che il movimento sindacale e la Confindustria hanno avuto nell’avvio del miracolo italiano. All’inizio degli anni Sessanta la situazione era cambiata, non solo per gli intoppi che si manifestano nel processo di sviluppo della nostra economia, ma anche per il modificarsi della struttura di potere. Alcune grosse imprese (la Fiat in particolare) avevano consolidato il loro potere: delle sue migliorate prospettive si avvantaggiano anche nu-
merose piccole imprese. Fanfani aveva cercato di creare condizioni favorevoli all'impostazione di politiche autonome del governo sganciando le imprese pubbli-
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che dalla Confindustria. Il tentativo pit che fallire apparve irrilevante. Le imprese pubbliche, anche per la scomparsa di Mattei e per l’arrivo alla testa dell’Iri di maggiordomi della classe politica, non potevano più giocare il ruolo che si era loro offerto alla fine della guerra. L’insediamento nel Sud di uno stabilimento dell'Alfa Romeo venne deciso in ritardo, quando le politiche della Fiat avevano eliminato le prospettive di mercato in vista delle quali era stato deciso, e attuato in modo inefficiente. Si ponevano problemi di sviluppo per cui si richiedevano finanziamenti programma-
bili, il che non poteva essere assicurato dalla borsa, asfittica e dominata dalla speculazione. E in questo contesto che si rafforza il potere di Mediobanca, controllata da banche pubbliche delle cui strategie, l’ultiio ad essere a conoscenza era lo Stato. Spetterà agli storici mettere in luce il ruolo centrale che hanno avuto Mediobanca e quel grande finanziere che è stato e che è Enrico Cuccia. Cuccia è sempre stato convinto che la stabilità dell'economia di mercato in questo Paese atipico che è l’Italia può essere assicurata solo dalle grandi famiglie che controllano i settori fondamentali dell’industria: dalle vecchie (gli Agnelli) e dalle nuove (i Ferruzzi Gardini), che le public company sono destinate a consegnare l’economia ai politici. Quanto stava avvenendo per alcune banche (del settore delle Casse di Risparmio in particolare) forniva qualche giustificazione alle valutazioni di Cuccia. Alla mano invisibile del mercato e a quelle visibili di Confindustria, Sindacato e settore pubblico dell'economia sempre più imponenti e ahimè inefficienti, si affiancava quella semi: visibile di Mediobanca. Non si può tentare un bilancio delle strategie di Mediobanca: agli storici l’ardua sentenza. Ciò che qui ci interessa sottolineare è che il nuovo contesto non lasciava spazio a politiche di programmazione neppure del tipo delle politiche attuate in Giappone, che senza qualificarsi come programmatorie, tali erano. Neppure si ebbero strategie di politica economica quali quel-
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le che, ancorate ai programmi per la Difesa, si attuarono negli Stati Uniti e che possono considerarsi politiche di programmazione sia pure parziali e per certi
aspetti distorte: esse hanno contribuito al rapido sviluppo dell’economia americana. Ciò non significa che la classe politica non giocò un ruolo nella storia del nostro Paese di questi anni. Si tratta di un ruolo molto diverso da quello giocato fino ai primi anni Sessanta. Il rilievo delle esportazioni andava aumentando nella configurazione del processo di crescita, il contrasto tra Nord e Sud si accentuava, la
politica di stabilità monetaria doveva necessariamente affidarsi ad operazioni di ingegneria finanziaria monetaria, che in effetti caratterizzarono il governatorato Carli. Allo Stato spettava il compito di mediare tra gli interessi contrapposti, concedendo la fiscalizzazione degli oneri sociali, la Cassa Integrazione Guadagni, le pensioni di invalidità (mentre si andavano aumentan-
do gli organici degli enti pubblici e di diversi servizi, da quello postale a quelli bancari, per «rimediare» alla disoccupazione) e passando sotto controllo pubblico le imprese in difficoltà insanabile. Questa politica offriva nuove possibilità di rendite politiche di cui esponenti della classe politica, burocratica e imprenditoriale (di certi settori in particolare) si avvantaggiarono. Il consociativismo che il nuovo ordinamento regionale, male attuato, favoriva, ha facilitato una simile evoluzione.
Le parti sociali, nella nuova configurazione del potere, finirono per accettare questa nuova politica. Essa non imponeva, e neppure favoriva, uno sviluppo autonomo del Sud, ma aumentava i redditi di quelle regioni a vantaggio anche della grande impresa del Nord. La politica assistenzialistica ha avuto sembianze quasi keynesiane. Le sue ragioni, alcune sue manifestazioni, i suoi effetti furono però diversi da quelli che caratterizzano le politiche keynesiane. Esse non ebbero subito quegli effetti negativi propri di tali politiche, per-
ché si ebbero delle reazioni correttive
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sistema economico. Come ha ricordato G. Carli, in un
convegno organizzato dalla Fondazione Agnelli, le nostre piccole imprese, quando cambiarono le condizioni del mercato del lavoro nei primi anni Sessanta accelerarono le innovazioni tecniche, migliorando anche le loro prospettive di esportazione. Nei primi anni ’60 il forte sviluppo impresso dalla Fiat ha cominciato a far crescere rapidamente l’occupazione. Mentre prima lo sviluppo economico è stato prevalentemente intensivo, ora si rendeva necessario espandere l’occupazione per far fronte al crescere della domanda interna ed esterna. I lavoratori potevano passare dalle piccole imprese a grandi imprese; di qui le improvvise difficoltà delle prime. Alcune di queste hanno allora deciso di esplorare le situazioni che si erano create all’estero; attuarono rapidamente quelle ristrutturazioni e innovazioni tecnologiche in grado di consentire risparmi di mano d’opera. Le politiche assistenzialistiche non furono certo uno stimolo alla realizzazione di quelle ristrutturazioni che si erano realizzate con successo in diversi Paesi europei. Si sarebbe dovuto cambiare politica: adottare una politica produttivistica necessaria anche per realizzare una politica sociale. Ormai però il sistema politico era in grado di tirare a campare con le politiche di mediazione in atto. E cosî avvenne. Se le conseguenze non furono cosî negative come alcuni avevano paventato,
ciò si deve allo sviluppo del «sommerso». Risultò cosî che, ad esempio, le esportazioni delle industrie tessili poterono continuare poiché il costo «reale» del lavoro - non quello riferito ai salari ufficiali - era diminuito. Le riflessioni sul passato ci possono aiutare a comprendere la situazione attuale. A determinare questa situazione ha notevolmente contribuito l’evoluzione dell'economia internazionale che condiziona pesantemente le nostre possibilità di manovra. Il discorso viene pericolosamente semplificato quando si pongono a confronto i dati della nostra economia (del settore pub-
blico in particolare) con quelli che richiede il trattato
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di Maastrict. La realtà dell'Europa e le sue prospettive sono cambiate dopo l’unificazione tedesca. Non si tratta di accettare o meno Maastrict ma di renderci conto che siamo ormai inseriti nel nuovo sistema eco-
nomico europeo con riferimento al quale la sola alternativa è tra una Germania europea o un'Europa tede-
sca. Noi non abbiamo alternative. La politica assistenzialistico-clientelare non può continuare, pena la nostra emarginazione che prelude a cambiamenti istituzionali interni, ed anche a mutamenti della nostra colloca-
zione nell’economia mondiale. Potrebbe di conseguenza mutare il sistema politico; il nuovo sarebbe in grado di imporre i cambiamenti di politica economica che l’attuale sistema non fosse stato in grado di realizzare. E difficile non convenire che queste prospettive impongono scelte strutturali, in un momento in cui l’evoluzione dei mercati monetari e valutari ci impongono politiche restrittive. In effetti, il test che gli operatori esteri considerano decisivo a provare la governabilità di un’economia, in relazione anche alle politiche del Fmi e alle concezioni economiche prevalenti, sono il controllo del deficit del bilancio statale e la riduzione del debito pubblico fino a raggiungere livelli fisiologici. Questo impone dei vincoli sia all’azione del governo che alle politiche che può adottare la Banca d’Italia. Il risanamento della finanza pubblica può però avvenire nel contesto di una politica di medio termine che punti nel contempo a valorizzare le risorse del nostro Paese (quelle umane in primo luogo) o con tagli più o meno improvvisati della spesa e aumenti nelle imposte. La seconda alternativa può risultare controproducente; essa ha comunque effetti negativi sulle prospettive dell'economia. La prima, la sola che può assicurare un risanamento efficiente e stabile, richiede un cambiamento radicale negli obiettivi e negli strumenti della politica economica. L’evoluzione della situazione internazionale non è però la sola ragione della crisi italiana. Vi sono anche
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ragioni interne. Il sistema ha certo sviluppato degli antidoti agli effetti delle politiche assistenzialistico-clientelari. Però la possibilità di questi antidoti si riduce, mentre gli effetti negativi delle accennate politiche tendono ad aggravarsi. La conseguenza pit vistosa è il venire meno dello spazio per le politiche di mediazione. Non si può più accontentare tutti, chi più, chi meno. Ora alcuni, molti anzi, debbono pagare. I mutamenti politici - il primo significativo la vittoria della Lega soprattutto nel Nord e l’affermazione di Alleanza Nazionale nel Sud - si possono facilmente spiegare in questo nuovo contesto. Le degenerazioni del sistema assistenzialistico-clientelare sono ormai venute alla luce. Gli intrecci tra classe politica e poteri economici non sono certo una pe-
culiarità del nostro sistema. Quello che forse è peculiare è il modo con cui la classe politica si è assicurata le proprie rendite: i sistemi adottati hanno ridotto più del necessario la produttività del sistema pubblico (si pensi agli appalti e alle conseguenze delle clausole di revisione prezzi).
Il risanamento della finanza pubblica è possibile solo se si verifica l’una o l’altra di queste prospettive: o una forte inflazione che potrebbe risultare da una grave crisi finanziaria, o una forte crescita della produttività. In effetti gli squilibri tra le prospettive di crescita dei vari Paesi, le diverse politiche economiche, lo sviluppo dei nuovi strumenti finanziari (i derivati) rende possibile, o probabile, una grave crisi finanziaria che
se, a differenza di quella verificatasi nell’ottobre del 1987 negli Stati Uniti, si dovesse verificare contemporaneamente in diversi Paesi in una situazione di recessione, porterebbe ad un aumento della liquidità monetaria che il sistema non sarebbe in grado di digerire: di qui il rischio di inflazione. Non mi soffermo a considerare le condizioni che si debbono determinare a livello mondiale per rendere possibile la seconda alternativa. Mi limiterò a indicare le gravi responsabilità del Fmi che ha prescritto ai Paesi del Terzo Mondo e
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a quelli ex comunisti dell’Est europeo le terapie che potrebbero valere per gli Stati Uniti ma non per altri Paesi (le esperienze recenti hanno mostrato che neppure
per questo Paese esse valgono o quanto meno bastano nella espressione pura predicata dal Fondo). Nei Paesi in cui si è manifestata in pieno la crisi dell'economia di comando, si richiedeva un periodo di transizione in cui creare le condizioni per la nascita del mercato: il mercato non può essere solo quello che si manifesta portando alla luce il sommerso, né quello dei nuovi avventurieri, né quello che possono indurre iniziative estere (bastava chiedersi come mettere sul mercato l’industria bellica la sola efficiente, i cui dirigenti erano e sono parte rilevante della classe dominante). Torniamo ora ai problemi italiani. A chi non può pagare si può chiedere di consumare meno o di produrre di più. Tagliare i consumi è, fino a un certo punto almeno, facile con politiche fiscali e monetarie suscettibili di ispirarsi al liberismo economico (che gli economisti predicano ma cui i poteri economici rendono la vita difficile). Risolvere il problema attraverso aumenti di produttività richiede però politiche che non sono quelle predicate dai neo-liberisti. Quello che si richiede è una strategia di politica economica. Occorre non solo tagliare la spesa ma modificarne la struttura in modo da ottenere effetti di risanamento duraturi. Certi interventi di politica fiscale riducono il deficit corrente ma aumentano in prospettiva quello degli anni a venire. La programmazione economica va intesa come strategia di politica economica di medio-lungo periodo. Essa non comporta necessariamente interventi dello Stato. Cercherò di chiarire il concetto con un esempio.
Le iniziative spontanee hanno portato in Sardegna a valorizzazioni irrazionali, parziali e distorcenti delle risorse turistiche: la cementificazione di alcuni tratti di spiaggia. Alcune iniziative industriali calate dall’alto hanno comportato sprechi e creato illusioni. Se Regione e Comuni avessero adottato una politica del tu-
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rismo intesa a valorizzare alcune aree interne da collegare con sistemi di trasporto efficienti alla costa, cosi da riservarle ad area balneare con i soli servizi essenziali, si potevano creare nuove prospettive la cui realizzazione non avrebbe richiesto interventi diretti della Regione se non per certe infrastrutture. I privati avrebbero provveduto a valorizzare le aree interne, assicurati dai piani urbanistici che la loro iniziativa si sarebbe inserita nel contesto necessario a giustificarla e a valorizzarla, e da questi vincolati. Procedendo con gradualità e in modo intelligente si potevano modificare le prospettive anche socioculturali delle aree interne con i vantaggi che non è difficile intravedere. Una simile politica non avrebbe portato soltanto alla valorizzazione delle risorse turistiche. Avrebbe migliorato le prospettive anche dell’agricoltura (si pensi alle possibilità dell’agriturismo); e avrebbe creato anche condizioni favorevoli allo sviluppo di iniziative industriali più congeniali alle esigenze e alle potenzialità del territorio e alle caratteristiche socioculturali della Regione. Questa sarebbe stata —- e voglio sperare si possa dire sarà — una politica di programmazione. L’alternativa è quella in atto. I contadini debbono vendere il latte per ottemperare a certe norme della Cee? Ebbene si inventa un sussidio a loro favore. Non ci sono prospettive per alcune industrie minerarie ? Si dà un po’ di quattrini ai gruppi che li gestiscono e si tira avanti. Ovviamente una politica di programmazione non ha niente a che vedere con le economie di comando comuniste. In verità non si tratta di una novità, ma del-
la razionalizzazione di una prassi che ha contribuito allo sviluppo di molti Paesi. _ Credoche riflettendo sulle esperienze dei vari Paesi si possono indicare due generalizzazioni storiche. Non risulta che ci sia un Paese che si sia sviluppato, realizzando rapidamente cambiamenti sostanziali nel | suo saggio di crescita, grazie al solo mercato, cosî come è normalmente inteso. Qualche volta il compito di
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creare le condizioni per lo sviluppo e di orientarlo è stato dello Stato, qualche volta del sistema bancario-finanziario (come in Germania); negli Stati Uniti alcune condizioni per lo sviluppo (in primis la creazione delle ferrovie) si sono realizzate grazie a certe politiche de-
gli Stati in sintonia con quelle di grandi speculatori. Il grande boom degli anni ’80 in America non è stato il risultato delle sole scelte operate dal mercato. Determinante è stato il ruolo delle commesse pubbliche e dei finanziamenti pubblici alla ricerca; tant'è che le industrie che si sono maggiormente sviluppate e che si sono affermate nell’economia mondiale sono state quelle legate all’industria degli armamenti e alle industrie elettroniche e informatiche. L'intervento dello Stato ha avuto poi effetti di ritorno positivi, sia per lo sviluppo della domanda interna che per l’espansione delle esportazioni. Una seconda generalizzazione. Non c’è nessun Paese che abbia mantenuto e continuato il processo di sviluppo senza il mercato, la conferma più lampante di questa affermazione ci viene dalle esperienze e dalle crisi delle economie di comando. Si usa dire che l’Italia ha bisogno di più mercato e meno Stato. In effetti quello che si è avuto in Italia non è più Stato, ma «mercato dello Stato». Ora per uscire dalla crisi occorre più mercato, quello vero, che nasce dalla concorrenza e la promuove, ma anche pit Stato,
non quello che produce i panettoni, ma quello che imposta una strategia di lungo periodo oggi necessaria in primo luogo per risanare e aggiornare i servizi pubblici, per stabilire le regole, per creare condizioni favorevoli alla valorizzazione dell’imprenditorialità personale anche nella valorizzazione delle potenzialità di sviluppo all’estero. Vi era necessità di programmazione negli anni Quaranta, quando la parola era bandita a destra e a sinistra; e di nuovo negli anni Sessanta quando il termine era mal inteso; oggi non vi sono alternative alla politica di programmazione. Per chi avesse paura della pa-
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rola posso dire: non ci sono alternative a politiche di lungo periodo: per evitare di pensare a programmi rigidi che non hanno senso, val meglio parlare di strategie. Cosa vuol dire strategia di sviluppo ?Vuol dire, ad esempio, quello che hanno fatto i giapponesi. Lo sviluppo dell’industria elettronica e informatica è stato il risultato di strategie coordinate di lungo periodo dello Stato e dei grandi complessi. Proprio l’esperienza giapponese ci dice che non si può parlare di economia di mercato al singolare cosf come non si può irrigidire la nozione di programmazione
in un insieme univoco di istituti e di procedure. A chi vuol capire la differenza tra l'economia americana e quella giapponese è utile la lettura di libri che consentano di comparare confucianesimo e scintoismo con le
concezioni calvinistiche e dei quaccheri. E grazie ai particolari rapporti tra Stato e mercato
che la Germania ha potuto risolvere i problemi dell’economia dell’Est in pochi anni, mentre noi non siamo stati capaci di risolvere quelli del nostro Sud in mezzo secolo. In Germania non si è parlato, né si parla, di programmazione, ma di fatto si sono adottate strategie di lungo periodo. Subito dopo la guerra, i tedeschi hanno ricostruito prima le fabbriche e poi le case. Il problema preliminare che si pone al nostro Paese è quindi come recuperare una strategia dello sviluppo economico. Cosa vuol dire dello sviluppo economico? Vuol dire — preliminarmente - riconoscere che il problema dell’occupazione cosî come si presenta a livello micro non può essere trasferito a livello macro. A livello micro l'impresa può essere costretta a licenziare per realizzare la ristrutturazione e gli sviluppi tecnologici che si rendono necessari per reggere alla concorrenza internazionale. A livello macro si può licenziare | solo mandando coloro che, anche in una prospettiva di medio termine, non possono essere occupati produtti-
vamente, all’estero o lasciandoli morire di fame. Per
| fortuna la seconda alternativa non sussiste per noi; la | prima sussisteva nel secolo scorso e all’inizio di questo. ;
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Quindi a livello macro il problema non è licenziare, ma
come valorizzare il lavoro disponibile. Nel breve termine si può pensare ad un’intensificazione dei lavori pubblici ma in un'ottica di lungo periodo si tratta di creare condizioni per un maggiore sviluppo industriale anche grazie ai nuovi consumi per i quali si richiedono modifiche nelle qualificazioni scolastiche. E facile intravedere tutta una serie di decisioni che possono essere prese solo dallo Stato e che debbono essere coordinate anche nel tempo. Perciò si parla di strategia.
Cesare Damiano
Un'esperienza sindacale
Torino, insieme con Milano e Piacenza, è il luogo
nel quale sorgono le prime Camere del Lavoro sull'esempio delle organizzazioni operaie francesi (Adriano Ballone, Claudio Dellavalle, Mario Grandinetti, I/ tempo della lotta e dell’organizzazione. Linee di storia della Camera del Lavoro di Torino, Feltrinelli, Milano 1992). Non c’è dubbio che la storia sindacale (l’inizio
di questa straordinaria avventura di oltre cent’anni è il 1891) è una storia di conquiste, di vittorie, ma anche di sconfitte, di errori, di arretramenti. Vorrei ri-
cordare alcune date che ritengo importanti prima di arrivare al 1968-69, che è il principale oggetto della nostra discussione. Dopo il fascismo, il sindacalismo italiano riprende il suo cammino; una data molto importante è il 1944: a Roma, ancora occupata dai tedeschi, si costituisce la Cgil unitaria; nasce il nuovo sin-
dacato, voluto dai partiti antifascisti. I dirigenti sindacali che fanno capo al Partito Comunista, alla Democrazia Cristiana, al Partito Socialista, gli stessi
partiti che daranno poi vita alla prima Costituzione repubblicana, fondano la Cgil. Si può dire che da quell’atto del 1944 - sono cinquant’anni ormai — nasce la storia del moderno sindacato italiano. E un’origine che va valutata, perché è un’origine partitica: c'è una storia che nasce da una filiazione politica e lascia il segno nel sindacato anche ai giorni nostri. Ricordiamo ancora il 1948. Per effetto di eventi internazionali (la guerra fredda, la divisione del mondo in due campi, l’est e l’ovest) nel sindacato, nato su ba-
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si partitiche, si importano quelle fratture e il sindacato si divide. Nascono tre organizzazioni: la Cgil, la Cisl e, successivamente, la Uil. Comunque, strada facendo, nel corso di cinquant’anni di storia il sindacato si è emancipato, si è reso autonomo dai partiti e dal quadro della politica ed è entrato addirittura in competizione con il sistema politico. Nell’immaginario collettivo c’è perciò ancora una sorta di sovrapposizione fra ruolo del sindacato e ruolo del partito; probabilmente anche per quella nascita, per quel legame, che ancora oggi non è stato sufficientemente reciso. Nel dopoguerra quali sono le tappe importanti ? Vorrei ricordarne soltanto due: i movimenti contadini che segnano una rilevante ripresa di lotte, soprattutto nel Mezzogiorno, con l'occupazione delle terre; e nel °62,
dopo la sconfitta della Cgil nelle elezioni della com‘ missione interna alla Fiat, la cosiddetta riscossa operaia. Però il biennio 68-69 assume un’importanza del tutto particolare, non solo nella storia del sindacato, ma nella storia democratica del nostro Paese. Nel 1968 c’è un'imponente protesta che nasce dagli studenti, cui segue nel 1969 un’imponente protesta dei lavoratori; questi movimenti - lo sostengono anche gli storici, soprattutto quelli che hanno analizzato la storia dei movimenti sociali - non hanno eguali in Italia. Non sono paragonabili a nient'altro che fosse capitato prima. Inizia non una protesta, ma un ciclo di proteste e di lotte che dura per tutto il corso degli anni Settanta. Aris Accornero chiama il ’68 l’inizio della «parabola del sindacato» (Aris Accornero, La parabola del sindacato, Il
Mulino, Bologna 1992); un paradosso del sindacalismo italiano, che comincia ad acquistare grande forza, alla fine degli anni ’60, la mantiene negli anni ’70, e ne perde una parte significativa nel corso degli anni ’80, con la sconfitta alla Fiat, dopo i famosi «35 giorni». Accornero fa risalire questa parabola al fatto che il sindacato assume l’ideologia dell’egualitarismo. Gli aumenti uguali per tutti sono il segno del modo con il quale il sindacato chiede salario nelle aziende, indipen-
UN’ESPERIENZA
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dentemente dalla qualifica dei lavoratori, e sono contemporaneamente,
secondo Accornero, la causa del
successo e la causa della crisi del sindacato. Ma il sindacato oggi ha forse nuovamente invertito la rotta; si pensi soltanto alla lotta dell’autunno 1994 contro il Governo che voleva, sul problema del sistema pensionistico, decidere da solo imponendo una svolta autoritaria nel nostro Paese. Questa parabola che inizia nel ’68 è l’esperienza della mia generazione. Molti sindacalisti nascono nel vivo di quell’esperienza. Il 68 apre al sindacato un terreno nuovo: si comincia a parlare di casa, pensioni,
riforme. Argomenti che prima erano affidati esclusivamente all’azione parlamentare. Nel ’68 si infrangono anche molti tabù. Un tempo si diceva: «quando si sciopera non si contratta». Questo è un tabù che viene infranto con importantissimi, imponenti scioperi e
nel corso delle trattative vengono conquistati significativi risultati per i lavoratori. In questa fase si stabilisce l’incompatibilità tra cariche parlamentari e cariche sindacali; nasce la conflittualità permanente; e la
normalità del conflitto diventa una costante dell’azione sindacale del nostro Paese, a differenza di quello che capita in altre nazioni. Nascono, per effetto spontaneo della lotta dei lavoratori, i primi delegati di linea. A Torino, nascono alla Indesit (che ora non c’è più), na-
scono alla Fiat Mirafiori; e sono questi delegati di linea un'espressione nuova della partecipazione dal basso dei lavoratori alla costruzione di un nuovo sindacato unitario. Il '68-69 viene definito dagli storici il
«secondo biennio rosso» dopo quello del ’19-20, che
" fu caratterizzato dalla occupazione delle fabbriche. E un incontro positivo tra la mobilitazione studentesca e la mobilitazione operaia. Lo stesso sindacato assunse - alcune istanze politiche e culturali che il movimento degli studenti aveva portato alla ribalta. — Comesi diceva, con l’autunno caldo incomincia un | ciclo di lotte molto importanti che durano un decennio, e sono lotte che agiscono in profondità; è l’inizio
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di un grande cambiamento per l’Italia. Il clima di quegli anni lo definirei di grande liberazione: per un giovane di vent'anni, il 1968 vuol dire esperienze diversissime che si confrontano; ci sono i cattolici del dissenso,
i comunisti, i marxisti, gli extraparlamentari e
cosî via; vuol dire liberazione culturale, scoperta della politica, liberazione sessuale; eravamo contro l’autoritarismo, contro la gerarchia, nelle fabbriche e in casa.
Contestare i genitori, lasciare la famiglia per vivere nelle comuni, sono alcuni degli effetti di questa liberazione.
Nel 1969 era facile a Torino, città operaia in forte fermento, assistere in corso Traiano agli scontri per la casa, con vere e proprie barricate fra polizia e dimostranti (fu la prima volta che mi capitò di essere inseguito da un giovane militare, forse un carabiniere, armato di moschetto e più spaventato di me); oppure vedere di fronte alla libreria Hellas un profeta della Beat generation come Allen Ginsberg recitare le sue poesie di fronte a una folla di studenti e di lavoratori. Dunque fu una stagione di grande cambiamento; si percepiva la voglia di fare delle cose diverse, di rompere antichi schemi. Il sindacato in quel contesto capî alcune di queste novità; fu la bandiera di una generazione di giovani, di lavoratori, di intellettuali. Sembrava che l’unità sindacale fosse a portata di mano. Ma non era vero. Ci si illuse di essere in grado di andare oltre gli schemi della politica, al punto tale da poter fare cose che sembravano pochi anni prima inimmaginabili.
Quindi la portata dell'evento va valutata molto bene. Riprendo il testo di Accornero, La parabola del sindacato, quando sostiene che «le insorgenze di massa, |
gli attori collettivi e i risultati dell’autunno caldo possono essere paragonati ad alcune esperienze storiche molto importanti degli anni Trenta negli Stati Uniti, in Francia e in Svezia». Esperienze molto diverse fra loro. Quali? L’esperienza del New Deal roosveltiano negli Stati Uniti; il fronte popolare che portò alla costituzione della Confederazione Generale del Lavoro. A
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francese; l'insediamento negli anni Trenta dei governi socialdemocratici in Svezia. Quindi un evento di portata radicale. L’autore riscontra un terreno comune: il fatto che il lavoro manuale, il lavoro povero, il lavoro
di coloro che come si diceva all’epoca «stavano attaccati alla catena di montaggio» assume una rilevanza politica e sociale. Ed erano prevalentemente operai immigrati dal Mezzogiorno, in cerca di lavoro, di occupazione e di casa. Col lavoro manuale, la centralità operaia, il movimento sindacale, gli operai ottengono con le lotte di quegli anni una prima legittimazione politica, un primo riconoscimento sociale; in sostanza en-
trano in una logica di cittadinanza industriale che cambierà anche il volto dell’Italia. E in corso, in questo periodo, una grande trasformazione civile e culturale nel Paese, e al centro di questa trasformazione, c’è l’espe-
rienza del sindacalismo industriale. E poi importante ricordare, nel 1970, lo «Statuto dei lavoratori», una legge che ha dato dignità ai lavoratori e al sindacato sul posto di lavoro. Il refefendum sul divorzio. E ancora, il varo legislativo delle Regioni, che applicava finalmente il dettato costituzionale. Nel 1970 inizia anche la mia esperienza dal punto di vista sindacale, sociale e politico. Quando dico «la mia esperienza» penso a me e a migliaia di giovani come me che allora, all’età di vent'anni, furono affascinati dal
sindacato e dalla politica. Quali furono le ragioni, le cause di ciò ? Ci dovrà pure essere una spiegazione, un motivo. Per ciò che mi riguarda ricordo che a vent’anni, mentre stavo preparando gli esami di maturità, lessi un volantino di un gruppo che si chiamava «Calatafimi 68» - uno dei tanti gruppi spontanei che nascevano all’epoca - che diceva: «Se avete voglia di vivere in comunità, questa estate anziché andare in vacanza,
si va in Sicilia a ricostruire dove il terremoto ha distrutto: nel Belice». Cosî, dopo la maturità, andai nel Belice, e costruimmo un asilo. Quei campi di lavoro
misero in contatto giovani come me, non ancora politicizzati, con altri di Potere Operaio, di Lotta Conti-
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nua, con cattolici del dissenso, cattolici di sinistra, liberali di sinistra: un crogiolo interessante. Da lf ai comitati di quartiere il passo fu breve; dai comitati di quartiere al sindacato e alla politica, altrettanto breve perché nel frattempo, nell’ottobre del ’68, ero entrato a lavorare alla Riv Skf di Torino, in un grande palazzo di uffici nel quale ho cominciato la mia attività sindacale. Il punto che mi interessò in modo particolare fu la contrattazione. Contrattare, fare il sindacalista nel 1974 alla Mirafiori (ci sono stato tre anni come funzionario sindacale) voleva dire in primo luogo elaborare piattaforme che avevano al loro centro l’organizzazione del lavoro, parlare con centinaia di delegati e migliaia di operai e guidare lotte formidabili. I funzionari sindacali avevano, a quel tempo, piena agibilità — cosa che poi cambiò perché la Fiat riprese terreno; ma soprattutto le lotte sindacali si muovevano su piattaforme che avevano un obiettivo: cambiare l’«organizzazione del lavoro capitalistica» o «tayloristica», rendendo più umano il lavoro. Ci spingemmo perfino, forse con un po’ di approssimazione e di utopia, a immaginare un «nuovo modo di fare l’automobile» e un nuovo modello di sviluppo, vagheggiato ma molto difficile da concretizzare. Quando si parlava di un nuovo modo di fare l'automobile ci si riferiva all'esperienza svedese e si faceva un esempio famoso: mentre alla Fiat l’operaio si piegava, all’epoca, per montare l’automobile, alla Volvo era l'automobile che s’inclinava automaticamente per favorire il lavoro dell’operaio. Questa era la dimostrazione di come la tecnologia, oppottunamente progettata, potesse diminuire la fatica umana. Il modello svedese era molto costoso, e pur non riuscendo ad andare in quella direzione, in molte aziende, come la Olivetti e anche la Fiat, si sperimentarono le isole di montaggio, cioè un’organizzazione produt-
tiva che poteva migliorare la condizione di lavoro. Ma. quell’esperienza non si limitava alla fabbrica: in quegli anni si cercava di proiettare la lotta all’esterno e si diceva: «dalla fabbrica alla società». Voleva dire cam-
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biare il modo di lavorare, ma anche costringere la Fiat e le altre grandi imprese a investire nel Mezzogiorno, magari chiedendo agli operai occupati di rinunciare a un po’ di soldi per favorire gli investimenti. Queste erano le lotte sindacali in quegli anni e il fulcro di quelle lotte era l’«operaio massa». L’operaio massa è un operaio dequalificato, di terzo livello, addetto alla linea di montaggio, senza scolarità, prevalentemente immigrato dal Mezzogiorno, che diventa il punto di riferimento del sindacato. In quegli anni si aboliscono le zone salariali: la contingenza a Torino valeva più della contingenza a Siracusa perché a Torino la vita costava di più e quindi c’era una «gabbia salariale», una diversità che viene abolita sulla spinta egualitaria. Si cominciano a chiedere aumenti uguali per tutti, secondo la logica «siamo tutti uguali e quindi accorciamo le distanze». Sono richieste non fatte secondo un'ottica corporativa o professionale, sono richieste che vanno al di là del loro contenuto. Qui c’è
una presunzione, come dice Accornero, sulla quale si basa il sindacato in quegli anni: la presunzione di voler far coincidere gli interessi degli operai con gli interessi generali del Paese. In sostanza prevale una logica di sindacato di classe piuttosto che una logica di sindacato di contrattazione, più tipico, a esempio,
dell’esperienza della Cisl. Nel 1955 alla Fiat Mirafiori la Cgil viene sconfitta alle elezioni delle commissioni interne. La sconfitta coincide con anni di repressione e di esclusione; furono cacciati dalle fabbriche circa duemila quadri sindacali della Fiom-Cgil. Di Vittorio, dopo quella sconfitta, disse una cosa fondamentale: « Voi non dovete sem-
plicemente dire che quanto è capitato è per colpa della cattiveria del padrone; guardiamo in noi stessi gli errori che abbiamo compiuto, e l’errore che abbiamo ‘compiuto è stato quello di avere una scarsa attenzione
alle condizioni di coloro che lavorano in fabbrica; dobbiamo riscoprirela fabbrica». Su questa scelta di ritorno alla fabbrica, sulla con-
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sapevolezza del valore della conoscenza della fatica di tutti i giorni in un luogo di lavoro, il sindacato ricostruisce il suo legame con i lavoratori e nel corso di un quindicennio riesce a risalire la china. Mi chiedevo prima: «ma allora l’azione del sindacato interviene nell’economia oppure non interviene nelle decisioni e negli indirizzi di carattere economico?» A questa domanda posso rispondere in modo molto semplice: a partire dagli anni Settanta, e la strategia delle riforme lo dimostra, il sindacato si occupa di tutti i bisogni e di tutti gli interessi dei lavoratori. Le riforme economico-sociali si discutono con i Governi: casa, sanità,
trasporti, pensioni e cosî via; e lo sciopero politico è a sostegno di quelle rivendicazioni. Ma il punto essenziale è che il sindacato entra nella politica, senza nessuna intermediazione, diventa soggetto politico autonomo, compete sullo stesso terreno dei partiti politici senza avere un’investitura istituzionale. Anzi, in que-
gli anni il sindacato rifuggiva dalle regole, non volevamo essere regolamentati, ma nel momento in cui siamo
diventati deboli l'assenza di regole ci ha messi nell’angolo. E la logica del pendolo: «o si vince o si perde». Il problema non è vincere o perdere, ma fare le mediazioni giuste nei momenti giusti avendo le regole per amministrare le diverse fasi del confronto fra le parti sociali. Tant'è che noi pensavamo sempre che i contenuti rivendicativi erano buoni, e le regole erano cattive in sé e per sé. Un’annotazione: la legge sugli scioperi, sulla regolamentazione degli scioperi nei servizi pubblici, è del 1988. Una legge recente, dopo tutto quello che è capitato con i Cobas, le Gilde, il sindacato dei macchinisti, in settori strategici nei quali non vale la forza e la solidarietà della classe, ma vale la posizione strategica di chi fa lo sciopero. Quindi anche da questo punto di vista si deve dire che qualche ritardo c'è stato. C'è un nodo non risolto in quegli anni: la dimensione istituzionale del sindacato e l’autonomia collettiva;
e inoltre il nodo che ha sempre impedito l’applicazio-
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ne di quegli articoli della Costituzione che riguardano il sindacato: il 39, il 40 e il 46; precisamente le regole del gioco che riguardano la rappresentatività, il diritto di sciopero e la partecipazione dei lavoratori alle strategie dell'impresa. In sostanza in quegli anni c’è una asimmetria, una distanza tra il ruolo esercitato dalle
parti sociali e le prerogative che vengono riconosciute dalle norme. Faccio un esempio: nel 1975, nel pieno della forza del sindacato, si fa un accordo che viene
chiamato «l'accordo Lama-Agnelli». Luciano Lama era il leader carismatico; accanto a lui Carniti e Benvenuto, ma viene ricordato come l’accordo tra Lama e
Agnelli: fra il più potente sindacalista e il più potente industriale. Un po’ come Di Vittorio - Costa dei tempi passati. Quell’accordo definisce il punto unico sulla scala mobile, e la cassa integrazione passa alla copertura del 93% del salario fino a 40 ore massime settimanali. Due grandi conquiste. Quell’accordo è un modo di governare l’economia di quegli anni, è una supplenza delle parti sociali alle assenze del potere politico. Ugo La Malfa, ministro del Gabinetto Moro, all’epoca dice: «Abbiamo fatto tante discussioni, ma perché le parti sociali hanno chiuso questa vertenza senza dircelo? Senza dare modo al Governo di valutare quell’accordo ?» (Sindacato Industria e Stato negli anni dell’emergenza. Storia delle relazioni industriali in Italia dal 1972 al 1983, volume IV, a cura di Filippo Peschiera, Le Monnier, Firenze 1994). Moro, prese atto
di questa decisione tra le parti sociali. Questo per dimostrare cosa significava in quegli anni la supplenza delle parti sociali di fronte a un potere politico che si ritraeva. E ancora: nel 1973 Cgil, Cisl e Uil dichiarano inidoneo il Governo Andreotti e proclamano uno sciopero generale; ricordo la mia categoria: nel ’77, il 2 dicembre i metalmeccanici scioperano, ci sono 200 000 lavoratori a Roma che segnano la fine del Governo di Unità Nazionale. Il sindacato in quegli anni,
|pur non avendo delle regolamentazioni particolari, in| terviene sull’economia; non soltanto, interviene sulla
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politica, rompe l’argine che era definito precedentemente dalla rappresentazione pura e semplice degli interessi materiali all’interno dei luoghi di lavoro. La tendenza si inverte con gli anni Ottanta. L’evento emblematico di questa inversione di tendenza è la sconfitta del sindacato alla Fiat; come sem-
pre Torino è un po’ un laboratorio, anticipa e chiude determinati cicli della storia sindacale e delle lotte sociali. Su questa sconfitta si è discusso molto, alcuni dicono che non fu una sconfitta; appena fu firmato quell’accordo noi parlammo, mi ricordo, di luci e ombre. Io ero appena diventato segretario generale della Fiom piemontese. Dopo otto mesi successe quell’evento. Fu un dramma, da un punto di vista psicologico, politico, e umano per centinaia, migliaia di persone. E fu una sconfitta, non tanto per l’accordo in sé, che po-
teva anche essere considerato un buon accordo, ma perché quell’accordo era inesigibile e per essere applicato fu rinegoziato per cinque o sei anni, e dall'accordo parti una reazione violenta della Fiat che estromise tra il 1980 e il 1985 cinquantamila lavoratori dalle proprie officine. Il settore Fiat Auto passò da 135 000 a 80000 addetti. Naturalmente, grande parte di coloro che venivano estromessi erano militanti o iscritti alle organizzazioni sindacali. A partire da quell’accordo cambiano i rapporti di forza tra capitale e lavoro in Italia, e il sindacato è costretto, nel corso degli anni Ottanta,
ad amministrare una situazione di lento ma inesorabile declino da un punto di vista politico e da un punto di vista organizzativo. Cambia anche la natura della contrattazione: a esempio, nel corso degli anni Settanta il sindacato aveva inteso la contrattazione come puramente acquisitiva, a prescindere da ogni logica di compatibilità economica, di sistema e di impresa. Do-. po il 1980 le cose cambiano. Con il famoso Accordo Scotti, ministro del Governo Fanfani del 1983, comincia a decollare una logica di politica dei redditi. Si tratta del primo accordo siglato congiuntamente da Governo, Confindustria e Sindacato, dopo che la Con-. -o
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findustria aveva minacciato di disdettare la scala mobile negoziata nel 1975. Gli anni Ottanta sono dunque anni di tumultuose trasformazioni, e di ripiegamenti. Sono gli anni in cui la logica del liberismo economico (basti pensare alle teorie di Reagan e della Thatcher a livello internazionale) ha il sopravvento cercando la rivincita sulle economie regolate. Talvolta si cerca strumentalmente una falsa contrapposizione tra lo statalismo e il liberismo. Qui non si tratta di essere statalisti né di essere liberisti, ma di
accettare il fatto che il mercato da solo non fa lo sviluppo e che ci vogliono determinati interventi dello Stato per indirizzare - non costringere - l'economia. Indirizzi di politica industriale e di politica dei fattori sono indispensabili per una nazione moderna aperta alla concorrenza internazionale; sappiamo che una nazione come l’Italia, in piena ripresa economica, ha uno sviluppo diseguale tra Nord e Sud ed è debole sul terreno della politica industriale, soprattutto nei settori a forte innovazione tecnologica, cosî come sulle infrastrutture e sulla formazione scolastica e professionale, che sono elementi indispensabili alla qualità del lavoro e dei prodotti che rappresentano gli obiettivi strategici per realizzare il successo di un’impresa. E inutile che gli imprenditori continuino a enfatizzare la logica del «diminuiamo, tagliamo il costo del lavoro», quando si sa che questo non è pit il fattore decisivo di competitività di un’impresg; perché il fattore decisivo è valorizzare l’intelligenza delle persone che lavorano dentro le fabbriche. Questa semplice verità è stata detta persino da Cesare Romiti, dopo che il sindacato, per anni, ha insistito su questo punto. Una regolazione ci vuole perché vuol dire cogliere le logiche delle compatibilità, ma collegarle a logiche di equità e di giustizia e a una logica programmatoria.
—Ilsindacato ha vissuto la stagione entusiasmante degli anni Settanta, non priva di errori, che hanno mina-
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DAMIANO
to le basi stesse della sua forza. In fondo, con la scon-
fitta dell’80 si rompe quel patto fra avanguardie operaie, che avevano largamente caratterizzato il sindacato, e la dirigenza sindacale, e quindi si sancisce la scon-
fitta di un certo modo di fare sindacato. Gli anni Ottanta sono stati gli anni dell’arretramento sindacale, ma la parabola discendente è terminata? Nel luglio ’93 è stato firmato un accordo tra Sindacato, Confindustria e Governo che è di portata storica e che molte volte viene sottovalutato. Questo accordo dà una svolta alle relazioni industriali, si adot-
ta, da parte di tutti i contraenti, la logica della concertazione, delle compatibilità, ma dentro questa logica si fissano i livelli di contrattazione, dopo una disputa che è durata per venti-trent’anni. Cosa vuol dire livelli di contrattazione ?Vuol dire il diritto, per un sindacato,
di negoziare a livello nazionale il contratto di lavoro della categoria che fissa i principi fondamentali dei diritti e dei doveri; e poi, in ciascuna azienda, sulla base
della condizione materiale di produttività e di ricchezza di quell’azienda, il diritto di negoziare altro salario legato a obiettivi di produzione; dunque contrattare su due livelli e accettare le logiche della concertazione. Questo ha portato a un fatto molto significativo. Ho. avuto l’opportunità di essere tra coloro che hanno scrit-
to e firmato l’ultimo contratto dei metalmeccanici nel luglio del 1994. E stato il primo contratto, dagli anni Sessanta, concluso senza un’ora di sciopero. Non vuol dire che il sindacato ha rinunciato alle lotte e ha piegato la testa, ma vuol dire che le parti sociali hanno trovato il punto di mediazione necessario per definire un accordo, fermo restando che se questo non si raggiunge il sindacato - dopo una tregua nelle lotte — ovviamente ha tutte le possibilità di indire scioperi. A quei compagni della Cgil che sostenevano: «Ma come si fa a fare un contratto senza neanche un minuto di sciopero ?», io rispondevo: «Avremo l’autunno davanti per difenderci dal Governo Berlusconi», e non mi sbagliavo; le lotte che abbiamo risparmiato per il contratto le.
UN’ESPERIENZA
SINDACALE
TE RIGHE
abbiamo, credo saggiamente, impiegate in una mobilitazione che ha impedito a un governo di decidere da solo e di decidere soprattutto su una questione generale come quella delle pensioni. Ora il sindacato ha di fronte a sé un impegno molto importante: una scelta sulla base della quale si gioca il proprio destino. Credo che siamo in una condizione favorevole, abbiamo l’ac-
cordo del ’93, abbiamo importanti accordi sindacali alle spalle, siglati unitariamente. Dobbiamo fare una riforma delle pensioni dal cui esito dipende un consolidamento o meno del rapporto di fiducia con i lavoratori.
E la scelta del sindacato è una: fare o non fare l’unità sindacale. C’è bisogno di un sindacato unitario e soprattutto di un sindacato fuori dagli schieramenti politici, pienamente autonomo, che fa politica in quanto entra nella politica, ma non è della politica. Un sindacato che fonda le sue ragioni su regole democratiche, su principi e valori fondamentali. Questa è la sfida dei prossimi anni.
Mi auguro che nel futuro dei giovani ci sia non soltanto un lavoro, ma un lavoro qualificato. Quando si entrerà nei luoghi di lavoro, è bene che il sindacato venga visto come una risorsa a disposizione dei lavoratori. Certo, il sindacato o lo si vive con passione o non lo si può vivere. E se non lo si vive con passione non è
più un sindacato, ma un ente burocratico che verrebbe cancellato dagli stessi lavoratori.
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Norberto Bobbio Sui diritti sociali
In questi ultimi tempi il tema dei diritti sociali è stato molto trascurato, sia dalla destra che, com’è natu-
rale, esalta in modo particolare i diritti di libertà, e con particolare forza le libertà economiche, sia da una buona parte della sinistra che, dopo il crollo degli Stati comunisti, in cui venivano esaltati i diritti sociali a scapito di quelli di libertà, sembra inseguire spesso la destra sul suo stesso terreno. Non è un caso che in una rivista, che era nata col proposito di presentare e commentare le «ragioni della sinistra», si rivendichi l’attualità della «rivoluzione liberale» proposta da Piero Gobetti, e che lo stesso segretario del Partito Democratico della Sinistra si richiami spesso alla «rivoluzione liberale» per riassumere con una formula il proprio programma politico. In contrapposizione ai diritti individuali, per «diritti sociali» si intende l’insieme delle pretese o esigenze da cui derivano legittime aspettative, che i cittadini hanno, non come individui singoli, uno indi-
pendente dall’altro, ma come individui sociali che ‘vivono, e non possono non vivere, in società con altri
individui. Il fondamento della forma di governo democratica contrapposta alle varie forme di governo autocratiche, che hanno dominato gran parte della storia del mondo, è il riconoscimento della «persona». Orbene, l’uomo è insieme «persona morale» di per se stesso considerato e «persona sociale» (da ricordare il celeberrimo «ani-
male politico» di Aristotele), in quanto vive dalla na-
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scita alla morte in varie cerchie, che vanno dalla fami-
glia alla nazione, dalla nazione alla società universale, attraverso le quali la sua personalità si sviluppa, si arricchisce e prende aspetti diversi a seconda delle diverse cerchie in cui vive. Alla persona morale si riferiscono specificamente i diritti di libertà, alla persona sociale i diritti sociali, che
sono stati anche chiamati recentemente da Gustavo Zagrebelsky «diritti di giustizia». E inutile aggiungere che in mezzo a gli uni e a gli altri stanno i diritti politici, vale a dire quelli che sono a fondamento della partecipazione diretta o indiretta del singolo individuo o dei gruppi alla presa delle decisioni collettive, in cui consiste la democrazia. Si può dire sinteticamente che la democrazia ha per fondamento il riconoscimento dei diritti di libertà e come naturale completamento il riconoscimento dei diritti sociali o di giustizia. Per questa duplice caratteristica del riconoscimento, e relativa garanzia e protezione, di diritti individuali e diritti sociali, le democrazie contemporanee, rinate dopo la
catastrofe della seconda guerra mondiale, sono state chiamate insieme liberali e sociali. Siccome i principi di libertà erano dati come presupposti, sviluppandosi lo stato democratico a partire dal riconoscimento dei diritti di libertà per finire al riconoscimento dei diritti sociali, s'è parlato di passaggio dalla democrazia liberale alla democrazia sociale. Una delle ultime costituzioni democratiche, quella spagnola nel 1978, proclama nell’art. 1: «La Spagna si costituisce in uno Stato sociale e democratico, che propugna come valori superiori del suo ordinamento giuridico, la libertà, la giustizia, l'eguaglianza e il pluralismo politico». Del resto, anche l’art.1 della nostra Costituzione, con quella nota formula, se pur meno felice, secondo cui la Repubblica è «fondata sul lavoro», allude a questo stesso processo di trasformazione dello Stato liberale nello Stato sociale, nel quale la dignità dell’uomo è fondata non su ciò che uno ha (la proprietà), ma su.
SUI DIRITTI SOCIALI
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ciò che uno fa (il lavoro, appunto), tanto che già all’art. 4 si legge: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto». Il diritto al lavoro, infatti, è uno dei pit caratteri-
stici diritti sociali, anzi è il primo dei diritti sociali che si sono affacciati nella storia dello Stato moderno. È noto che, dopo i precedenti delle due Costituzioni francesi del 1791 e del 1793, il primo grande dibattito intorno al diritto al lavoro è avvenuto all’ Assemblea Costituente in Francia dopo la Rivoluzione del 1848, come risulta dall’art.13 della Costituzione che ne è seguita. La discussione si svolse tra i liberali storici, come Thiers e Tocqueville, e i socialisti riformisti, come Louis Blanc. E stato detto che attraverso questa discussione si possono intravedere le prime avvisaglie della costituzionalizzazione della questione sociale, nel senso che la questione sociale, che nasce col sorgere del movimento operaio, da questo momento diventa an-
che una questione costituzionale, la questione, appunto, del riconoscimento giuridico del primo dei diritti sociali. Il tema di fondo si risolve nella domanda, che
risale ancora più indietro nel tempo (basta pensare alla innovazione di Locke nella tradizione giusnaturalistica): «Il fondamento del diritto di possedere è l’occupazione di un determinato territorio o il lavoro che lo trasforma?» Invano si cercherebbe nei testi legislativi o nelle dichiarazioni ufficiali una definizione di «diritto sociale». Però è molto significativo che l’art. 22 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo (1948), che viene dopo gli articoli che prevedono le libertà civili, e dopo l’art. 21, che prevede i diritti politici, dichiari: «Ogni persona, in quanto membro della società, ha diritto alla sicurezza sociale. Questa è destinata a ottenere la soddisfazione dei diritti economici,
sociali e culturali, indispensabili alla sua dignità e al
libero sviluppo della sua personalità, grazie allo sfor-
zo nazionale e alla cooperazione internazionale, tenu-
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to conto dell’organizzazione e delle risorse di ogni Paese». Subito dopo viene l’art. 23 che proclama il diritto al lavoro, mentre l’art. 26 riconosce il diritto all’educazione.
Il citato articolo 22 merita qualche commento per la sua collocazione centrale in un documento internazionale, che ha costituito una guida per tutte le costituzioni che sono venute dopo, in cui i diritti sociali sono stati riconosciuti accanto e oltre i diritti civili e politici. Vi si legge: «ogni persona in quanto membro della società». Questa espressione mostra bene ciò in cui questi nuovi diritti si distinguono dai tradizionali diritti di libertà, come ho detto all’inizio, quando ho pre-
cisato che i diritti sociali riguardano l’individuo nella sua dimensione di persona sociale. Si aggiunga che per «società» qui si intende non soltanto un insieme di individui, uno più uno più uno, secondo la concezione individualistica della società, ma un insieme in cui le
varie componenti sono interdipendenti, come accade in un organismo in cui la parte malata mette in perico-
lo il tutto. Per ovviare all’inconveniente della parte malata che danneggia il tutto, si riconosce a ogni individuo questa nuova categoria di diritti, che vengono chiamati economici, sociali, culturali, il cui scopo è di concorrere, oltre che a riaffermare la sua dignità, esattamente come dice l’articolo citato, «al libero sviluppo della sua personalità». Naturalmente una affermazione di questo genere presuppone che condizioni obiettive, materiali, originarie, non permettano a tutti un eguale sviluppo. Al quale non bastano le singole libertà civili e neppure le libertà politiche. Non bastano perché, oltre la «libertà da», occorre anche la cosiddetta «libertà di», ovvero la possibilità di fare quello che la pura e semplice «libertà da» o libertà negativa permette di fare. La «libertà di» attribuisce all’individuo non solo la facoltà, ma anche il potere di fare. Se ci fossero soltanto le libertà negative, tutti sarebbero egualmente li- | beri, ma non tutti avrebbero eguale potere. Per pareg-
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giare gli individui, quando li riconosciamo come persone sociali, anche nel potere, occorre che vengano riconosciuti altri diritti come i diritti sociali, i quali debbono mettere ogni individuo in condizione di avere il
potere di fare quello che è libero di fare. S’intende che il riconoscimento di questi diritti sociali richiede l’intervento diretto dello Stato, tanto che vengono chiamati anche «diritti di prestazione», pro-
prio perché richiedono, a differenza dei diritti di libertà, che lo Stato intervenga con provvedimenti adeguati. Del resto è quello che apprendiamo dall’ultima parte dell’art. 22, già citato, della Dichiarazione Internazionale, là dove si legge che «lo sviluppo della personalità», richiede «lo sforzo nazionale e la cooperazione internazionale». Se mai con un limite, che si ri-
leva dalla seguente precisazione: «tenuto conto delle risorse di ogni Paese». Tale limitazione differenzia i diritti sociali dai diritti di libertà, perché non sono immediatamente e inderogabilmente attuabili. Si potrebbero chiamare anche, secondo una vecchia termi-
nologia, diritti imperfetti, perché occorrono per la loro realizzazione condizioni oggettive che non si ritrovano in tutti i Paesi. Alcuni anni fa scrivevo: «E noto che il tremendo problema di fronte al quale si trovano oggi i Paesi in via di sviluppo è di versare in condizioni economiche tali che non permettono, nonostante i programmi ideali, di sviluppare la protezione della maggior parte dei diritti sociali. Il diritto al lavoro è nato con la rivoluzione industriale ed è strettamente legato allo sviluppo di questa. Tale diritto non basta fondarlo né proclamarlo. Ma non basta neppure proteggerlo. Il problema non è giuridico. E un problema la cui soluzione dipende dallo sviluppo della società, “e come tale, sfida anche le costituzioni più progredite e mette in crisi anche il più perfetto meccanismo di garanzia giuridica». L’età dei diritti sociali è cominciata dopo la seconda guerra mondiale, anche se i primordi risalgono alla Costituzione della prima Repubblica tedesca, detta di a
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Weimar (1919). In essa il quarto titolo è dedicato al diritto all’istruzione, in cui è previsto il dovere dello Stato di provvedere all’istruzione. Un altro titolo, il quinto, è dedicato alla «vita economica»: vi si legge all’art. 152 che «il lavoro è posto sotto la protezione dello Stato». Seguono vari articoli che sviluppano questo tema, tra i quali mi preme ricordare l’art. 161, secondo cui lo Stato organizza un sistema di assicurazioni «per la conservazione della salute e della capacità di lavoro, la protezione della maternità», e cosî via. Conviene peraltro osservare che questo articolo viene posto, non tanto sotto il titolo dei diritti degli individui, quanto sotto il titolo generale della «politica economica e sociale della società», a differenza di quello che si legge nelle costituzioni contemporanee, a cominciare da quella italiana, che all’art. 4, già citato, parla di vero e proprio «diritto al lavoro». Vorrei ancora ricordare la Costituzione della Repubblica spagnola del 1931 che all’art. 46 proclamava: «Il lavoro sotto le sue diverse forme è un obbligo sociale, e gode della protezione della legge, assicurando a tutti i lavoratori le condizioni necessarie a una esistenza degna». Donde risulta chiaro che, per la reciprocità fra diritto e dovere, se il lavoro è da parte dello Stato un obbligo sociale, ciò significa che per l’individuo è un diritto nei riguardi dello Stato.
Uno dei più noti costituzionalisti di quel tempo, Mirkine Gutzevich, nell’introduzione alla diffusa raccolta Les constitutions de l’Europe nouvelle (1928), dopo avere osservato che non si può più ignorare la que-
stione sociale e non si può più distinguere l’individuo politico dall’individuo sociale, cosi descrive sinteticamentelatrasformazione in corso: «Lo Stato non si può
più limitare a riconoscere l’indipendenza giuridica dell’individuo: deve creare un minimo di condizioni necessarie per assicurare la sua indipendenza sociale». | E cosf continua: «Le nuove dichiarazioni di diritti mirano a inglobare totalmente la vita sociale, la famiglia, la scuola ecc., per cosi dire, tutto l’insieme delle rela“
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Nuove garanzie e riforme costituzionali
Alessandro Pizzorusso
Costituzione e democrazia maggioritaria
1. I/dibattito sulle riforme costituzionali.
E ormai da circa vent’anni che nel nostro Paese si parla di riformare la Costituzione del 1947: dopo un lungo periodo in cui questa era stata una rivendicazione della destra estrema, ispirata da una latente volontà di rivincita per la sconfitta subita nel 1945, il problema cominciò a venir posto in ambiti più vasti, dapprima quasi come un'esercitazione per studiosi. In una se-
conda fase, l’idea divenne il cavallo di battaglia del Partito Socialista e del suo leader Bettino Craxi e raccolse qualche contrastato consenso anche nella sinistra. Più tardi, fu di nuovo la destra a identificare nella Costituzione una causa delle peggiori degenerazioni dei governi democristiani e socialisti e a reclamarne una riforma radicale. Finché, negli ultimi tempi, queste discussioni hanno finito per coinvolgere gran parte dei politici e dei commentatori e il dibattito sulla Costituzione si è diffuso sempre di più, penetrando nelle case dei cittadini e nelle aule della politica. Due Commissioni bicamerali sono state convocate per discuterne, migliaia di articoli sono stati scritti, altrettanti discorsi sono stati pronunciati, centinaia di convegni sono
stati organizzati, molti anni sono passati, ma nessun problemaè stato risolto. Quale opinione dobbiamo farci di tutto questo affaccendarsi? Come distinguere i problemi veri dalle cortine fumogene che sono state stese per confondere le idee e per tirare gli ascoltatori dalla propria parte? È innanzi tutto necessaria una riflessione volta a sta-
bilire che cosa sia questa Costituzione della quale tan-
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to si parla, spesso assai a sproposito, e quale ruolo essa abbia svolto nella storia del nostro Paese. Ciò avrebbe dovuto costituire il primo passo per quanti si sono avventurati in queste discussioni, ma gli scritti che leggiamo e i discorsi che ci capita di ascoltare danno l’impressione che, al contrario, l’improvvisazione regni spesso sovrana. Del resto è noto che raramente la storia degli ultimi cinquant'anni viene insegnata nelle scuole e anche nelle facoltà universitarie gli insegnamenti specificamente dedicati alla storia costituzionale sono assai rari. 2. Il ruolo della Costituzione nella storia dell’Italia unita.
Per portare un sia pur minimo contributo volto a contrastare questo deplorevole stato di cose mi sembra utile richiamare innanzi tutto alcune indicazioni fondamentali che sono offerte dalla storia del nostro Paese, cominciando col ricordare, in primo luogo, come la
Costituzione approvata dall’ Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947 sia l’unica costituzione che l’Italia si è data attraverso un corretto processo democratico e, in secondo luogo, come tale Costituzione sia stata utilizzata come un documento dotato di effetti giuridici che le hanno consentito di svolgere un ruolo più
incisivo di quanto non sia accaduto alle costituzioni di altri Paesi. In particolare è stato proprio in virti del valore giuridico riconosciuto ai principi costituzionali dalla giurisprudenza che è stato possibile realizzare anche in Italia un sistema di garanzie dei diritti civili e sociali, certamente perfettibile, ma sicuramente molto più avanzato di quanto fosse stato possibile fare prima e comunque non troppo lontano dai livelli medi conseguiti negli altri Paesi di analoga civiltà. Inoltre, l'attuazione graduale che la Costituzione poté ricevere, a mano a mano che furono superate le varie forme di opposizione esercitate nei suoi con-
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fronti, fece sf che il testo della Costituzione stessa di-
venisse oggetto di interpretazioni tendenti ad aggiornarne la portata a fronte delle nuove situazioni determinate dal progresso tecnologico e dallo sviluppo storico, in base a una tecnica simile a quella che è stata praticata con riferimento alla Costituzione degli Stati Uniti, mentre relativamente rari furono i casi di revi-
sione della Costituzione a opera del Parlamento secondo la procedura all’uopo prevista. Se consideriamo la storia d’Italia dall’Unità a oggi, dobbiamo constatare come la Costituzione del 1947 costituisca l’unico documento giuridico e politico di questo genere che sia stato adottato dal popolo italiano a seguito di un procedimento pienamente rispettoso dei principi democratici. Lo Statuto Albertino, come è noto, era stato elabo-
rato da un gruppo di consiglieri del re Carlo Alberto (quando egli era soltanto re di Sardegna) ed era stato da lui emanato senza alcuna partecipazione popolare. L’adesione che a esso fu prestata dall’opinione pubblica consente di dare una valutazione largamente positiva del ruolo che lo Statuto finf tutto sommato per svolgere, soprattutto se si tiene conto della situazione del tempo, ma non impedisce di riconoscere che in base a esso fu realizzata una democrazia censitaria e conseguentemente molto limitata. Nonostante gli entusiasmi che le vicende risorgimentali avevano suscitato e la reinterpretazione in sen-
so parlamentare che dello Statuto fu data da Cavour e dai suoi successori, l'ordinamento costituzionale cosî
instaurato realizzava una democrazia allo stato nascente, la quale avrebbe avuto bisogno di consolidarsi e di svilupparsi. Questa evoluzione fu invece frenata dall’orientamento della monarchia e di gran parte della classe dirigente del tempo, cosicché il patrimonio di idee e di progetti che era stato raccolto durante la fase formativa del processo unitario venne progressivamente disperso e ci si rassegnò a governare con gli strumenti del trasformismo e dell’autoritarismo, determi-
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nando la crescita di distinte opposizioni che a vario titolo rifiutavano la loro collaborazione al regime. Come non di rado accade, fu la più estrema di tali opposizioni quella che, pur proclamando il suo disprezzo per le istituzioni costituzionali realizzate in base allo Statuto, si assunse in realtà il compito di assicurare la continuità del regime, accentuandone i caratteri di autoritarismo, fino alla realizzazione della
dittatura personale di Benito Mussolini, fautrice dei disastri della seconda guerra mondiale. Ciò costrinse i democratici dell’epoca — a somiglianza di quanto ancor oggi accade - a difendere istituzioni delle quali essi avevano criticato i difetti e che vedevano ora crollare per effetto di innovazioni di segno opposto a quelle che essi avrebbero ritenuto necessarie. Il regime fascista non adottò una nuova costituzione, ma si limitò a modificare l’assetto precedente me-
diante una serie di leggi che ignorarono, più che modificare, le disposizioni statutarie, lasciandole formal-
mente in vigore. Al momento del suo crollo, il 25 luglio 1943, si ebbe un estremo tentativo della monarchia di rimettere in vigore l'ordinamento statutario, ma tale tentativo falli per la ferma opposizione dei partiti antifascisti, che in occasione del congresso di Bari dei Comitati di Liberazione Nazionale del 28 gennaio 1944 imposero la convocazione di un’ Assemblea Costituente, che già era stata ricorrentemente richiesta nel corso del Risorgimento e della prima fase successiva all'Unità. Questa soluzione fu poi posta alla base del «Patto di Salerno», mediante il quale fu realizzata la partecipazione al Governo dei partiti antifascisti e fu impostato il processo di restaurazione dell’ordinamento democratico. Il Referendum del 2 giugno 1946 sanci quindi la scelta repubblicana e la Costituzione approvata, a grandissima maggioranza, dall’ Assemblea contestualmente eletta, pose i principi della convivenza civile e ripristinò la forma di governo parlamentare, perfezionandola con una serie di garanzie giuridiche.
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3. L'attuazione della Costituzione e le difficoltà che essa incontrò.
L'attuazione della Costituzione fu resa difficile dalla situazione di «guerra fredda» internazionale che si era venuta a determinare fra le grandi potenze e nella quale le forze politiche italiane si erano lasciate coinvolgere. Conseguenza di tale situazione fu quello che Calamandrei chiamò l’«ostruzionismo di maggioranza» e che consistette in una tacita opposizione frapposta all’attuazione dei principi costituzionali dai governi «centristi» formati in quegli anni dalla Democrazia Cristiana e dai suoi alleati. Tale opposizione, tuttavia, non tendeva tanto a cambiare la Costituzione, quanto a impedire l’attuazione di quelle misure da essa previste che avrebbero potuto in un modo o in un altro limitare l’esercizio del potere da parte della maggioranza di governo. Essa non impedî peraltro quella maturazione del Paese che indusse in seguito la stessa Democrazia Cristiana, o per lo meno le sue componenti più avvedute, a consentire una serie di «aperture» verso lo schieramento di sinistra, che portarono a quello che fu chiamato il «disgelo costituzionale» e con esso all’attuazione di alcune componenti essenziali dell'assetto democratico e pluralista di cui la Costituente aveva posto le basi. Nel periodo che seguî si manifestarono però anche varie forme di opposizione anticostituzionale, alcune delle quali risultarono ben più pericolose del mero «ostruzionismo della maggioranza» praticato negli anni Cinquanta. Una prima forma di opposizione anticostituzionale fu realizzata da quanti, anche dopo il Referendum del 1946, continuarono a propugnare il ritorno della monarchia, e soprattutto dai nostalgici del regime fascista; questi tuttavia, nella misura in cui operarono alla
luce del sole, non rappresentarono alcun reale pericolo: e del resto i partiti in cui si riunirono per parteci-
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pare alle competizioni elettorali e all’attività politica secondo le regole democratiche non uscirono quasi mai dalla condizione di una trascurabile minoranza. Pit pericolose apparvero negli anni Settanta alcune organizzazioni terroristiche sedicenti di sinistra le quali si proponevano di distruggere lo Stato democratico. Anche se non formularono mai un progetto di ordinamento costituzionale destinato a essere adottato in caso di successo delle loro sciagurate imprese, i danni da esse inferti alle istituzioni non furono di poco conto, sia per l'entità di alcuni colpi arrecati (principale dei quali fu l'assassinio di Aldo Moro), sia per le reazioni che i loro delitti suscitarono fra i cittadini. Mentre questa minaccia fu però nettamente scon-
fitta, anche politicamente, a seguito della repressione giudiziaria delle attività terroristiche ed eversive promosse da tali gruppi, più oscure sono rimaste altre trame di diverso segno, che portarono all’esecuzione di una serie di sanguinosi attentati. Dato che l’attività organizzativa di queste attività è rimasta in gran parte sconosciuta, non si può dire quale preciso progetto di sovversione costituzionale fosse alla base di esse, ma non pare comunque dubbio che tendessero quanto meno all’abbattimento del regime democratico. Pit noti sono invece i progetti di riforma costituzionale coltivati dalla Loggia P2, della quale facevano parte, insieme con molti arrivisti, alcuni sicuri criminali; tali progetti, dei quali esiste una precisa documentazione, tendevano a riformare la Costituzione nel senso di introdurre un regime presidenziale, di far ve-
nir meno l’indipendenza della magistratura e di adottare altre misure tali da favorire l’instaurazione di un regime autoritario di destra. 4. Iprogetti di revisione costituzionale. Nell’ambito della legalità democratica si mantenevano invece una serie di progetti di riforma costitu-
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zionale elaborati da studiosi: da quelli elaborati dal «Gruppo di Milano» guidato da Gianfranco Miglio a quelli proposti dai costituzionalisti socialisti ad altri ancora, che hanno costituito la base per i lavori delle due Commissioni bicamerali di cui si è detto. Di tali progetti, solo quelli avanzati dagli studiosi socialisti assunsero per un certo periodo la veste di una proposta ufficialmente propria del Partito Socialista Italiano, ma successivamente anch’essi furono lasciati cadere, o
quanto meno rimasero in una sorta di limbo insieme con tutti gli altri di varia origine. Di conseguenza, i vari progetti di riforma costituzionale emersi nel corso degli innumerevoli dibattiti svoltisi su questi argomenti nelle più diverse sedi non furono mai realmente sottoposti alla decisione di un’assemblea rappresentativa, né a quella degli elettori, quanto meno fino ai due referendum in materia elettorale che si tennero il 9 giugno 1991 ed il 18 aprile 1993.
5. Ireferendum «elettorali». A stretto rigore, neppure queste due consultazioni popolari avevano a oggetto un progetto di riforma costituzionale (né avrebbero ovviamente potuto averlo, non essendo consentito proporre referendum abrogativi di norme costituzionali). E chiaro tuttavia che attraverso la proposta di abrogazione parziale delle leggi
elettorali si voleva determinare una presa di posizione degli elettori che fosse interpretabile come manifestazione di consenso al progetto di modificazione della Costituzione patrocinato dai promotori dei referendum, i quali si proponevano di inserire in essa elementi di democrazia maggioritaria. Tutti ricordiamo come i fatti si svilupparono: due delle tre proposte di referendum inizialmente avanzate dai promotori furono dichiarate inammissibili dalla Corte costituzionale, per cui il 9 giugno 1991 si votò
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solo sulla terza, relativa al regime delle preferenze per l’elezione della Camera dei deputati. Questa proposta non presentava certamente agli elettori un quesito di primaria importanza, ma a essa, come alle altre due, era implicitamente connesso un giudizio negativo nei
confronti della classe politica di governo. Sottovalutando questo aspetto, Bettino Craxi e i suoi credettero di poter indurre gli elettori ad astenersi dal voto, cosi da far mancare il quorum dei votanti. Dal loro punto di vista, fu un errore enorme, che essi pagarono
duramente. L'atteggiamento da essi assunto accrebbe infatti il significato politico del voto, il cui obiettivo principale divenne non la questione delle preferenze, ma la sconfessione di Craxi. E dato che l’esito del voto fuloro massicciamente contrario, nonostante lo scar-
so peso degli effetti giuridici di questa consultazione popolare, essa determinò la prima scossa di un terremoto che doveva manifestarsi in tutti i suoi effetti nei due anni successivi. A parte ciò, è assai dubbio che questo voto fosse interpretabile come favorevole anche alle riforme costituzionali progettate da Segni, ma fu inevitabile che cosî fosse presentato, soprattutto dai suoi promotori.
Le successive scosse del terremoto furono le inchieste di Milano e il referendum del 18 aprile 1993 sulla legge elettorale del Senato. Le inchieste di Milano ebbero un effetto decisivo nel far crollare il sistema di potere organizzato da Craxi e dai suoi amici, ma non fornirono alcuna indicazione favorevole o contraria alle riforme costituzionali in discussione. L’unica indicazione che esse espressero fu a favore del ripristino della legalità e della repressione dei reati commessi da un gruppo di personaggi approfittando delle cariche politiche loro e dei loro amici. Il prestigio della Costituzione che, garantendo l’indipendenza della magistratura, aveva consentito questo straordinario intervento
a difesa della legalità, ne usciva quindi semmai rafforzato.
Più ambigua fu la vicenda del referendum del 18
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aprile 1993; anch’esso, come il precedente, aveva una
portata giuridica, rappresentata dalla abrogazione-modificazione della legge elettorale del Senato, e una portata politica, analoga a quella del precedente referendum. Ma questa volta i politici contro cui era diretto non commisero errori e si schierarono quasi tutti a favore della proposta referendaria, all’evidente scopo di annacquarne la portata politica. Al punto cui erano arrivati, importava loro ben poco quale sorte avesse la legge elettorale del Senato, e anzi la prospettiva del lungo procedimento legislativo occorrente per realizzare il sistema uninominale anche per la Camera dei deputati poteva loro servire ad allontanare il temuto scioglimento delle Camere. Fra coloro che condividevano l’impostazione politica del referendum, all’ultimo momento alcuni segnalarono i rischi che potevano derivare dai possibili significati impliciti, ma era ormai troppo tardi e il risultato plebiscitario era inevitabile. Del pari inevitabile era che a questo voto, in realtà frutto di una serie di contorcimenti, si desse anche il si-
gnificato di una scelta a favore della democrazia maggioritaria, nonostante che dell’esattezza di questa interpretazione si potesse in realtà dubitare. 6. La modifica delle leggi elettorali. A questo punto la parola passò al Parlamento, il quale già aveva introdotto, al livello degli enti locali, un sistema di elezione diretta dei sindaci che attribuiva altresi un premio di maggioranza alla lista o gruppo di liste che avessero prevalso. Con le leggi dell’agosto 1993, come è noto, fu ratificato, per il Senato, il risultato del referendum e fu adottato, per la Camera, un sistema uninominale per l’elezione di tre quarti dei seggi. I promotori di tali leggi - e soprattutto alcuni di essi — affermavano che esse avrebbero prodotto una situazione di alternanza, ma questa era più una speranza che una certezza. Non prevedendosi premi di maggioran-
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za, né l’elezione diretta di un premier, il sistema che ne risultava era bensî maggioritario nel senso in cui lo sono tutti i sistemi fondati sul collegio uninominale, ma non anche nel senso in cui lo sono i sistemi che assicurano una maggioranza in Parlamento. Su questo equivoco terminologico si è molto giuocato nel periodo successivo. Nella primavera e nell’autunno del 1993 la nuova legge elettorale per gli enti locali fu applicata per il rinnovo delle amministrazioni comunali delle maggiori città italiane e i risultati elettorali dimostrarono come i partiti che avevano costituito le maggioranze di go-
verno nei precedenti quarant’anni fossero in via di dissoluzione; conseguentemente, quasi loro malgrado, ottennero vistosi successi le candidature di sinistra e, in
minor misura, quelle di estrema destra. Lo scioglimento delle Camere, nelle quali esisteva ancora una maggioranza democristiano-socialista corrispondente ormai a meno di un quinto del corpo elettorale, divenne conseguentemente inevitabile e fu deciso, alquanto tardivamente, nel gennaio 1994. All’indomani delle elezioni amministrative di Roma, Genova, Venezia, Trieste, Napoli e Palermo, tutte vin-
te dalle sinistre, e nell’imminenza delle elezioni per il rinnovo delle Camere, un imprenditore, Silvio Berlu-
sconi, che in precedenza non aveva mai partecipato alla vita politica, dichiarò che se qualche uomo politico non avesse provveduto a creare uno schieramento capace di impedire alle sinistre di vincere tali elezioni, avrebbe provveduto lui intervenendo in prima persona. A prima vista questa dichiarazione sembrò avere soltanto il senso di una guasconata, ma le cose acquistarono una luce diversa quando l’autore di essa si mise all’opera e soprattutto quando mostrò di poter impiegare a tale scopo il personale delle sue aziende (a cominciare dalle stazioni Tv) e delle varie organizzazioni
da lui in vario modo dipendenti. In pochi mesi di lavoro, ciò gli consenti di recuperare una parte consi-
stente dell’elettorato dei partiti di governo e di otte-
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nere quindi il 21% dei voti alle elezioni del 27 marzo 1994. Tenuto conto che partiva da zero, si trattava in-
dubbiamente di un cospicuo successo, anche se il 21% non costituisce una maggioranza assoluta. La spinta de-
rivante da tale successo, e lo sconcerto diffusosi fra gli avversari, gli consentirono senza difficoltà, dopo le elezioni, di formare una coalizione di governo che disponeva della maggioranza dei deputati e che ottenne la fiducia anche al Senato, dove pure non aveva la maggioranza. 7. L’interpretazione del voto del 27 marzo 1994.
Queste vicende sono state interpretate da una parte consistente degli uomini politici e dei commentatori, e non soltanto dagli amici dell’onorevole Berlusconi, come se egli avesse ricevuto direttamente dagli elettori un mandato a governare, secondo i principi della democrazia maggioritaria che, a loro giudizio, sarebbe già stata instaurata in Italia per effetto della riforma delle leggi elettorali. A giudizio di alcuni, addirittura,
pur in mancanza di una revisione costituzionale, si sarebbe già realizzata una modifica della «costituzione materiale» per effetto della quale il partito politico che ottiene la maggioranza anche soltanto relativa avrebbe diritto a costituire un governo abilitato a restare in carica per tutta la legislatura. Sulla base di questa interpretazione dei fatti, si è sostenuto con grande forza polemica l’illegittimità della mozione di sfiducia che fu più tardi proposta nei confronti del Governo Berlusconi da una maggioranza dei componenti della Camera dei deputati e le necessità di provvedere, una volta che il governo sfiduciato ebbe dovuto dimettersi, all'immediato scioglimento delle Camere, nonostante che fosse stato costituito un nuovo governo che aveva ottenuto la fiducia. Nonostante l’evidente infondatezza di simili tesi, intorno a questi problemi si è sviluppato un dibattito
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estremamente aspro, che ha qualche riflesso sul problema delle riforme costituzionali. La posizione della destra (ma anche di alcuni intellettuali di sinistra) è nel
senso che la Costituzione ha ormai perduto ogni valore, dopo il referendum del 18 aprile 1993 e dopo il voto del 27 marzo 1994. Quale debba essere il contenuto della nuova Costituzione non viene indicato nei dettagli, salvo naturalmente i richiami alla democrazia maggioritaria, al presidenzialismo e al federalismo fiscale, ma si può desumere, a esempio, dalle valutazio-
ni che questa parte ha spesso espresso sul conto della Magistratura e della Corte costituzionale. In ogni caso, si valuta con favore l’elezione di un’ Assemblea Costituente, la quale chiuderebbe la vecchia contesa fra fascisti e antifascisti. Da parte della sinistra si afferma che una consultazione popolare che si svolgesse mentre è ancora in vigore il regime della televisione stabilito dalla «Legge Mammî», che è stato dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale, e mentre permane l’occupazione della Rai realizzata del Governo Berlusconi, darebbe risultati falsati, per cui prima di tutto si dovrebbe ristabilire la parità delle armi e solo dopo di ciò procedere alle consultazioni popolari del caso, incluso il referendum sulla Legge Mammi. Sulla questione della Costituzione, si è disposti a discutere di revisioni di singoli istituti, i quali non alterino il quadro generale stabilito nel 1947 e soprattutto non attenuino il valore di grande simbolo unitario della nazione che la Costituzione stessa esercita. A tal fine, sarebbe sufficiente ricorrere alla procedura prevista dalla Costituzione, eventualmente dopo una fase preparatoria affidata a una nuova Commissione bicamerale.
Molte altre opinioni si presentano come intermedie rispetto ai due schieramenti principali o variamente dissenzienti: tra di esse si segnalano quelle che richiamano la necessità di bilanciare l'eventuale adozione di soluzioni di tipo maggioritario con rafforzamenti delle garanzie, a cominciare a esempio dall’elevazione dalle maggioranze qualificate richieste per la revisione della
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Costituzione e per l'elezione degli organi neutrali (presidente della Repubblica, presidenti delle Camere, giudici della Corte costituzionale, componenti laici del Consiglio superiore della magistratura, autorità amministrative indipendenti, ecc.) e quelle che segnalano l’inopportunità della sottoposizione di eventuali leggi di revisione costituzionale a consultazioni popolari a carattere plebiscitario comprendenti «pacchetti» di modifiche di vario contenuto. 8. Valore attuale della Costituzione.
Di fronte a questo ribollire di opinioni, molte delle quali appaiono invero alquanto improvvisate, il punto di vista di uno studioso del diritto costituzionale non può non consistere in un richiamo a una attenta valutazione dei fatti. Dai quali risulta, in primo luogo, che la storia costituzionale d’Italia è profondamente diversa dalla storia costituzionale della Francia o della Germania o della Gran Bretagna o degli Stati Uniti d’America, per cui è spesso semplicistico pensare che basti recepire istituti sperimentati con successo altrove per ottenere analoghi risultati. E del tutto fuor-
viante appare anche l’uso di terminologie coniate con riferimento a vicende profondamente diverse, come a esempio quella francese che numera le «Repubbliche». In realtà, l’uso di questa terminologia ha una sottile funzione svalutativa della Costituzione italiana, in quanto presuppone un’assimilazione di essa alle costituzioni francesi, le quali presentano invece caratteristiche del tutto diverse da quelle proprie della nostra. In secondo luogo, è doveroso sottolineare come, nell’ambito della nostra storia nazionale, la Costituzione del 1947 abbia assunto un ruolo che poche costituzioni di altri Paesi hanno assunto, trattandosi non già di «una» costituzione, bensi dell’unica costituzione che sia stata elaborata con metodo democratico, e
trattandosi non già di un mero documento politico,
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bensi di un complesso di norme giuridiche sulle quale è stato costruito, attraverso l’opera della Corte costituzionale e della Magistratura, un sistema di diritti civili e sociali garantito dai principi dello «stato di diritto».
Riaffermata la funzione fondamentale che la Costituzione del 1947 ha svolto (e ben potrà svolgere in avvenire) di simbolo dell’unità nazionale e della fedeltà
del Paese ai principi democratici, nulla esclude che possa essere valutata l'opportunità di rivedere singole disposizioni o singoli istituti secondo la procedura che la stessa Costituzione prevede per la sua revisione. Un'analisi tendente a identificare quali potrebbero essere le disposizioni o gli istituti da rivedere, e in qual senso, richiederebbe un lungo discorso che non è possibile svolgere qui. Ma certo un tale discorso sarebbe tanto più fruttuoso quanto più avesse a oggetto argomenti precisi e circoscritti, piuttosto che enunciazioni
di principio vaghe e fumose, quali sono molte di quelle che sono state per lo più ventilate finora. E soprattutto credo che questo lavoro potrebbe essere svolto proficuamente soltanto ove si realizzasse un clima di concordia e di collaborazione, quale fu possibile realizzare nel corso dei lavori dell’ Assemblea Costituente che lavorò nel 1946-47 e che invece attualmente manca per l’anomala situazione che si è determinata a partire dal dicembre del 1993, da quando cioè si è realizzata una pericolosa confusione fra attività politica e attività imprenditoriale. La depurazione del quadro politico da questo fattore che lo rende perturbato costituisce quindi la prima condizione perché un sereno confronto sulle riforme costituzionali possa svilupparsi fra i politici, fra gli studiosi e fra i cittadini.
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Indicazioni bibliografiche.
Accurate informazioni sulle proposte di riforma costituzionale si leggono in C. Fusaro, La rivoluzione costituzionale, Rubettino, Soveria Mannelli 1993. Sugli aspetti giuridici dei progetti di revisione costituzionale cfr. E. Ripepe e R. Romboli (a cura di), Carzbiare costituzione o modificare la Costituzione?, Giappichelli, Torino 1995, e più recentemente A. Pizzorusso, La Costituzione. I valori da conservare, le regole da cambiare, Einaudi, Torino 1996. Una valutazione complessiva degli avvenimenti recenti nell’ambito della storia italiana si trova in P. Scoppola, 25 aprile. Liberazione, Einaudi, Torino 1995. Il saggio di P. Calamandrei citato nel testo è
L’ostruzionismo di maggioranza, in «Il Ponte», 1953, nn. 2,3 € 4. Sulla formazione del movimento denominato «Forza Italia», cfr. A. Gilioli, Forza Italia: la storia, gli uomini, i misteri, Arnoldi, Bergamo 1994. Per il commento tecnico-giuridico della Costituzione cfr. V. Crisafulli e L. Paladin (a cura di), Comzzentario breve alla Costituzione, Cedam, Padova 1990, e il più ampio Comentario del-
la Costituzione, Zanichelli - Soc.ed. de «Il Foro italiano», BolognaRoma 1975-95, in 32 volumi.
Franco Pizzetti
La Costituzione fra revisione e potere costituente
1. La revisione costituzionale e il caso italiano.
Pit di due decenni di discussioni; un numero im-
precisabile di progetti, interventi, dibattiti; ben due Commissioni bicamerali ufficialmente costituite per presentare proposte di revisione costituzionale al Parlamento: tutto questo ha finora prodotto conseguenze concrete assai limitate e, soprattutto, sostanzialmente marginali rispetto alla «questione» che, in materia di riforme istituzionali, caratterizza ormai da alcune le-
gislature la vicenda italiana’. Le modifiche costituzionali approvate negli ultimi anni si esauriscono, infatti, nella esclusione della com-
petenza della Corte costituzionale in materia di responsabilità ministeriale (1. cost. n. 1/1989, modificatrice dell'art. 96 Cost.); nella soppressione del c.d. «semestre bianco» (l. cost. n. 1/1991, modificatrice dell'art. 88 Cost.); nella riforma della disciplina costituzionale in materia di amnistia e indulto (l. cost. n.
1/1992, modificatrice dell'art. 79 Cost.); nella sostanziale soppressione della immunità parlamentare (l. cost. n. 3/1993, modificatrice dell'art. 68 Cost.)?. Tutto questo, peraltro, fa del caso italiano una «anomalia» assoluta rispetto ad altri ordinamenti. Rispetto alla contrapposizione fra la tradizione statunitense (ed ora anche tedesca), secondo la quale la
revisione costituzionale è un processo costante nel tempo, e la contraria tradizione francese, secondo la quale il mutamento costituzionale è soprattutto rottura e instaurazione di una nuova Costituzione, il caso italiano si pone come una sorta di «tertium genus» ca-
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ratterizzato dall'enfasi della discussione e dalla inconcludenza dei risultati?.
2. Lex«caratteristiche» del caso italiano : la carenza del dibattito sulla distinzione fra potere costituente e potere costituito.
Il modo col quale si è sviluppato questo dibattito nel nostro Paese ha di fatto ridotto la grande problematica della differenza fra potere costituente e potere costituito e dei limiti intrinseci al potere costituito nella diversa, e assai più riduttiva, questione di come definire le «modalità» e soprattutto i «limiti» dell'attività di revisione*. Soprattutto di questi profili, infatti, si è discusso ogni volta che si è voluto affidare a specifici organi parlamentari costituiti ad hoc il compito di avviare il processo organico di riforma costituzionale”. In ordine alle «modalità»: la questione dell'ambito di competenza e della composizione degli organi collegiali a cui affidare l'attività istruttoria e di proposta è stata al centro dell’attenzione del Parlamento. All’epoca dell’istituzione della Commissione Bozzi essa fu faticosamente risolta piegando a questo scopo la «figura» della Commissione Bicamerale istituita separatamente, ma sulla base di un medesimo ordine del giorno, dalle due Camere®. In anni più recenti, invece, la necessità di risolvere
in modo conveniente la questione delle «modalità» e del «procedimento» ha condotto a collegare l’istituzione della Commissione De Mita - Iotti con una modificazione, sia pure transitoria, dell’art. 138 Cost. introdotta dalla l. cost. n. 1/1993”. Per quanto riguarda invece la questione dei «limiti»
al potere di revisione, questi sono stati individuati essenzialmente attraverso un puntuale richiamo letterale all’«indice» del nostro testo costituzionale. Si è cost sempre affermata l'esclusione di ogni modifica della prima parte della Carta costituzionale, trascurando di
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fondare la legittimità della distinzione fra l’intangibilità dell’una e la modificabilità dell’altra parte della Costituzione su un solido richiamo al più ampio tema della distinzione fra potere costituente e potere di revisione costituzionale*. Solo in tempi assai più recenti, ed anche grazie all’intervento di alcuni studiosi e testimoni impegnati come Barile? ed Elia! (ma anche Onida, Pace, Pizzorusso, Dogliani, Romboli e molti altri)!!, sembra farsi strada
la consapevolezza che è necessario porre in primo piano la questione della distinzione fra potere costituente e potere di revisione allo scopo di definire in maniera più soddisfacente i caratteri dell’uno e i limiti dell’altro. Non può peraltro essere dimenticato che, per lo meno fra il 1994 e la prima metà del 1995, il dibattito su questi temi, cosî come le vicende che saranno in larga misura successivamente richiamate, sono stati anche
strettamente legati al contenuto del decreto del 27 maggio 1994, col quale fu definito il contenuto della delega dell’allora ministro per le riforme istituzionali on. Speroni”. L’ampiezza della delega conferita al ministro; le modalità con le quali tale Comitato fu costituito (un Comitato solo governativo e dunque appartenente «per definizione» all'ambito dell’Esecutivo); i contenuti e
le forme organizzative della sua attività (l’essersi il Comitato articolato in due sottocommissioni, una formalmente operante a Roma, l’altra a Milano, aventi
l’una lo scopo di proporre innovazioni alla forma di governo, l’altra alla forma di Stato); il «clima» politico
del momento e la dichiarata convinzione da parte delle forze di governo di poter innestare la modifica costituzionale su un sostanziale «cortocircuito» fra maggioranza governativo-parlamentare e referendum popolare: tutto questo ha spinto in misura rilevante gli studiosi e gli osservatori politici a riprendere con forza, già nei primi mesi del 1994, la discussione sui limiti e le modalità della revisione costituzionale”.
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Questa discussione, pur implicita nei limiti posti a suo tempo alla Commissione per le riforme istituzionali della legislatura precedente, si era poi sostanzialmente appannata, anche in seguito al fallimento della prospettiva delle riforme costituzionali e al prevalere invece della via delle riforme elettorali come risposta alla crisi del sistema, che aveva caratterizzato appunto la breve durata della XI legislatura”.
3. Ilimiti al potere costituente e al potere di revisione costituzionale. Il potere di revisione e l’«attuazione» della Costituzione. La necessità di uscire dalla logica del «limite» legato all’«indice» della Costituzione per passare, invece, ad affrontare fino in fondo la questione della distinzione fra potere costituente inteso come potere originario, e potere di revisione costituzionale inteso come
potere costituito o come potere derivato, obbliga a porsi problemi teorici complessi. La distinzione, per quanto apparentemente netta,
non è infatti priva di ambiguità. Come ha recentemente dimostrato Dogliani ”, se è vero che il potere costituente può,.sul piano di fatto, imporsi come «atto di pura forza», è non meno vero che almeno i diritti fondamentali dell’uomo, soprattutto nella «declinazione» che ne è stata data nei pi recenti atti internazionali, costituiscono comunque un limite ad ogni potere costi-
tuente che non voglia porsi, col suo stesso esercizio, al di fuori della convivenza civile. Cosicché oggi è difficile ammettere che la contrapposizione fra l’uno e l’altro tipo di potere consista nel fatto che il primo sarebbe privo di ogni limite mentre il secondo sarebbe comunque caratterizzato almeno da vincoli formali di procedimento. E difatti Dogliani, conducendo alle estreme conseguenze la sua tesi, giunge persino ad affermare che il potere costituente, inteso alla maniera classica come potere privo di limiti, è oggi «esaurito» !“.
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La distinzione fra l’uno e l’altro tipo di potere mantiene comunque una sua rilevanza, giacché mentre il potere costituente si pone in ogni caso come una sorta di potere «originario», causa e conseguenza di una
«rottura» del precedente ordinamento, il potere di revisione, in quanto potere costituito, si configura es-
senzialmente come un potere «limitato» dalla medesima Costituzione che lo «costituisce». Ne consegue che in tanto si può giustificare, anche «storicamente», il ricorso al potere costituente in quanto si voglia sottolineare proprio la «rottura» con la Costituzione e con il regime costituzionale antecedente. Al contrario, il richiamarsi al «semplice» e «dichiarato» esercizio del potere di revisione costituzionale, implica comunque la volontà di collocarsi nella prospettiva dello «sviluppo» e dell’«adeguamento» della Costituzione resi necessari dall’avvicendarsi delle generazioni e dal mutamento delle circostanze storiche nelle quali essa opera. E evidente, peraltro, che questa impostazione conduce a svalutare l’importanza del dato puramente «formale» per individuare invece in elementi di carattere sostanziale la differenza fra l’uno e l’altro tipo di potere. E ben possibile, infatti, che si adotti un procedimento formalmente «legale» per operare una «rottura» assolutamente sostanziale (si pensi ad esempio alla
proclamazione dello Statuto Albertino)”. E altrettanto possibile che, pur volendosi limitare a modificare una parte assai ristretta del testo costituzionale si sia tuttavia egualmente costretti a operare attraverso una «frattura» assoluta rispetto agli equilibri sociali e politici che caratterizzano un momento storico determinato precedente (si pensi ad esempio, all’approvazione del XIII, XIV e XV emendamento della Costituzione americana e alla guerra civile che fu necessaria per poterli imporre a tutti gli Stati della Federazione).
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Quello che invece è assolutamente rilevante è l’obbiettivo che si intende perseguire: se cioè la normativa costituzionale viene approvata per adeguare la Costituzione vigente o, invece, per instaurare una nuova
Costituzione. Da questo punto di vista non può esservi dubbio che la proclamazione dello Statuto Albertino fu un atto di rottura con l’ordinamento precedente!. Cosî come non vi è dubbio che l’approvazione del XIII, XIV e XV emendamento fu sentito da chi la impose essenzialmente come il naturale sviluppo del Bill of Rights del dponi®.
4. La situazione attuale italiana.
Su questa base perde fondamento tanto la tesi di chi pensa possibile evitare ogni «frattura» semplicemente delimitando il potere di revisione a una parte soltanto della Costituzione (teoria dell’«indice»), quanto la posizione di chi, di fronte alla evidente perdita di efficacia garantistica del procedimento dell’art. 138 Cost..in seguito alla approvazione di sistemi elettorali maggioritari, ritiene che, proprio per mantenere fermo il valore garantistico della revisione costituzionale, possa essere opportuna l’elezione, con sistema proporziona-
le, di una apposita Assemblea Costituente. Né il quadro cambia restringendo la proposta all’istituzione di una Assemblea per la Revisione costituzionale con potere limitato alla modifica di una parte soltanto della normativa costituzionale. La questione, infatti, appare legata non tanto alle modalità procedurali (pure essenziali) o all'ambito materiale dei poteri assegnati (questione questa, peraltro, che si pone solo nella prospettiva dell’istituzione di un ‘organo o di un procedimento speciale derogatorio dell’art. 138 Cost.), quanto piuttosto alle finalità che si intendono raggiungere. Se, infatti, si vuole lealmente operare nell’ambito
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della revisione costituzionale si deve accettare di considerare come limite non soltanto i valori fondamentali della nostra civiltà giuridica (vincolo questo che si pone anche nei confronti di un potere costituente che non voglia essere di per sé puro atto di violenza), ma anche, e soprattutto, i valori essenziali della nostra Costituzione.
Quei valori, cioè, che forse con troppa enfasi la sent. n. 1146 del 1988 della Corte costituzionale definisce come «valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana», ma che certamente sono i valori «costitu-
tivi» della nostra Costituzione. Essi infatti ne caratterizzano il significato e il peso «storico» e ne segnano il carattere di norma che è «fondamentale» non solo perché vincola il legislatore, ma soprattutto perché fissa, con efficacia prescrittiva, i principi e i valori che «governano» quella stessa convivenza civile che a suo tempo l’ha prodotta e che oggi su di essa continua a reggersi?®. Da questo punto di vista, il discorso di Monteveglio pronunciato il 16 settembre 1994 da Dossetti?! è assolutamente esemplare, specialmente nella parte in cui, per segnare il limite alla modificabilità della Costituzione, richiama insieme il rispetto rigoroso delle procedure, in quanto espressione del valore garantistico della Carta, e il rispetto, non meno rigoroso e consapevole, delle «radici» della nostra Costituzione, in quanto vero fondamento della legalità costituzionale e dunque di ogni revisione o modificazione che preten-
da di rivendicare una propria legittimità nel quadro di questa Costituzione.
Se si volesse rimettere in discussione quel fondamento e si ritenesse, cioè, attraverso una modificazione comunque definita della Costituzione, di trovare «nuove» e «diverse» radici, allora si dovrebbe parlare
non di revisione costituzionale ma di instaurazione di un nuovo ordinamento.
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5. Alcune ipotesi di prospettiva nella situazione italiana. La conseguenza principale di queste considerazioni è che la revisione costituzionale non può mai essere un
atto di «rottura», ma sempre e solo un atto di «evoluzione-adeguamento». Solo se ci si colloca, in buona fede, in questo scenario, è corretto parlare di «revisione» della Costituzione. È necessario, però, accettare anche i seguenti, e
conseguenti, limiti fondamentali che, proprio per questo, caratterizzano in ogni caso la revisione costituzionale.
a) Sul piano delle procedure: Nel rispetto «autentico» dell’art. 138 Cost. inteso come norma di garanzia «pensata» in un contesto po-
litico-istituzionale di carattere proporzionale, occorrono procedure che prevedano comunque un consenso assai più ampio sia della semplice maggioranza parlamentare che della pura manifestazione di volontà della stessa maggioranza popolare. L’art. 138 Cost., proprio per la sua complessità, è frutto di una cultura giuridica che non tollera la riduzione della sovranità popolare a semplici forme plebiscitario-referendarie, cosî come non tollera la sovranità
della sola legge di maggioranza (nemmeno di quella popolare) quando si tratti di modificare il quadro costituzionale. Dietro la richiesta di procedure garantistiche e comunque non puramente maggioritarie vi è la convinzione che, rispetto a una Costituzione come la nostra,
la revisione costituzionale o è frutto di un largo e condiviso consenso o non è comunque mai revisione, ma sempre e necessariamente rottura.
La questione della procedura è dunque sostanza, giacché uno degli effetti delle «radici» della nostra Costituzione, cosî come uno dei suoi tratti più caratteriz-
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zanti, sta proprio nel fatto di non ammettere che la Costituzione possa essere «puro dominio» della maggioranza, neppure di quella popolare. La proposta di recente avanzata dalla Presidente Iotti? e da Elia”, di affidare a una Commissione parlamentare composta in modo proporzionale ai voti elettorali ottenuti dai diversi gruppi parlamentari il compito di elaborare proposte «vincolanti» l’Assemblea, si colloca certamente in un quadro di questo tipo ed è dunque sicuramente coerente con questa impostazio-
ne. b) Su/ piano delle proposte o delle modificazioni possibili: Pit che continuare a ritenere che tutto si risolva nell’indicare quali parti della Costituzione siano modificabili e quali no, è necessario piuttosto chiarire che comunque le modifiche proposte o adottate non possono essere in contrasto con i principi o i valori propri | e specifici della nostra Costituzione, o, se si vuole, con
le sue radici e con la storia che essa rappresenta. Ovviamente questo non significa ritenere che la «storia» possa essere bloccata: significa però essere consapevoli del fatto che la nostra storia è essa stessa un «valore in sé», e che dunque la sua rimessa in discussione o il suo sostanziale rifiuto non può che costituire una «frattura» grave nel nostro tessuto civile e ordinamentale. Di qui la convinzione che ogni proposta di modifica che volesse porsi come un momento di «cesura» fra un «prima» e un «poi» della nostra vicenda costituzionale sarebbe di fatto, quale che fosse la sua forma, esercizio non di revisione ma instaurazione di una nuova Costituzione. E evidente che se questo fosse il fine da taluni perseguito non potrebbe esservi alcun terreno di incontro fra chi di revisione costituzionale parla per sviluppare ed attualizzare le potenzialità insite nella nostra Carta fondamentale e chi, invece, vede nella revisione costi-
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tuzionale un «grimaldello» per interrompere, attraverso lo «sbrego» costituzionale, un’esperienza storica in corso. 6. Le modifiche possibili. In una prospettiva «contenutistica» e non «forma-
listica» della distinzione fra revisione costituzionale e esercizio di un potere costituente, la questione di quali possano essere «in concreto» le modificazioni ammissibili, e quali invece quelle certamente non compatibili con la legalità costituzionale di «questa» Costituzione, diventa per un verso più «chiara» e per l’altro
certamente più «mobile». E più «mobile», nel senso che non vi sono parti immodificabili, cosî come non vi sono parti rispetto alle quali ogni modificazione sia ammissibile. Ogni proposta deve infatti essere valutata su un duplice parametro: a) il consenso che riscuote (non essendo comunque
accettabile la modificazione attraverso la pura semplificazione di una manifestazione di volontà popolare di tipo maggioritario-plebiscitario); 6) la sua compatibilità «storica» con le radici stesse della nostra Costituzione e con i suoi principi e valori
specifici, giacché ogni rottura della Costituzione che avvenisse nella forma apparente della revisione sarebbe di per se stessa illegittima, quale che ne fosse il gra-
do di consenso. E più «chiara», perché fonda il vincolo alla revisione costituzionale sul rispetto dei valori «specifici» (o se si preferisce «storici») di «questa» Costituzione (e lo stesso si potrebbe dire rispetto al medesimo problema posto nei confronti di ogni Costituzione). Purché si resti rigorosamente «dentro» questi bina| ri, le modifiche possibili possono essere assai numero| see significative. Del resto quelle proposte nella scorsa legislatura dalla Commissione Bicamerale De Mita-
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Iotti, con riferimento alla parte seconda della Costituzione, erano certamente riforme di grande rilevanza,
sia in ordine alla forma di Governo che alla forma di Stato, ma si collocavano dichiaratamente in una prospettiva di continuità (e non di rottura) della nostra vicenda costituzionale. Per altro verso, in un periodo successivo, proprio collocandosi su una posizione rigidamente ostile ad ogni ipotesi di «rottura» ma altrettanto aperta ad ogni prospettiva di «revisione», Leopoldo Elia” ha indicato un ampio e articolato spettro di riforme possibili sia in ordine alla forma di Stato che a quella di Governo. Inoltre, rispetto alla questione della prima parte della Costituzione, pur ribadendo l’inopportunità «attuale» (e quindi storica) della riscrittura «oggi» di «talune complesse normative attinenti ai diritti e doveri de cittadini...», Elia ha ammesso che, nel rispetto dei principi fondamentali, la revisione possa estendersi anche alle materie disciplinate da quelle stesse norme, come del resto è già avvenuto con la l. cost. n. 1/1967 che ha escluso l’applicabilità dell’art. 10 e dell’art. 26 Cost. ai reati di genocidio. Vi è, nella presa di posizione di Elia”, tutta la lucidità necessaria a indicare, in concreto, il sottile limite, contenutistico ma anche «finalistico», che separa una «revisione accoglibile» da una «rottura mascherata». Ed è in questo stesso quadro che deve essere collocato, come fa Onida”, il tema della revisione delle garanzie costituzionali come conseguenza dell’adozione del sistema elettorale maggioritario.
Altro è, infatti, porre la questione del ripristino delle garanzie costituzionali come necessario adeguamento del principio garantista della Costituzione di fronte al mutamento del sistema elettorale conseguente alle nuove leggi elettorali; altro è, invece, porre questo problema allo scopo di indicare «l’unica» condizione preliminare (e in certe proposte, sembra di capire, di per sé solo «legittimante») di un mutamento costituziona-
le non contenutisticamente delimitato.
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7. La proposta dell’ Assemblea Costituente (0 di revisione della Costituzione). Per quanto riguarda infine le procedure da adottare, merita esaminare più approfonditamente l’ipotesi della elezione di una apposita Assemblea Costituente o, secondo alcuni, di una Assemblea di Revisione co-
stituzionale. Questa proposta, avanzata già tra la fine del 1994 e l’inizio del 1995” da studiosi e opinionisti diversi, come Sergio Romano” e Angelo Panebianco”, da un lato, come Alessandro Pace? e Antonio Maccanico ”,
dall’altro, è stata ripresa nel corso dell’ultima crisi di governo da Giuliano Urbani ed è riecheggiata anche nelle prese di posizione di alcuni importanti esponenti della Sinistra come Massimo Cacciari e, anche se in
modo non sempre chiaro, Massimo D’Alema”. Della possibilità di pensare all’indizione di un’ Assemblea Costituente, ma più precisamente di una «legislatura» Costituente, aveva peraltro parlato anche Mino Martinazzoli ’?, nella fase finale della precedente legislatura.
Dall’inizio del 1995, poi, all'Assemblea Costituente, vista come una delle possibili uscite di sicurezza dalla crisi italiana, è tornato a far riferimento, fra gli altri, Adornato”.
Le diverse proposte non sono fra loro del tutto identiche, né per «i tempi» nei quali sono state presentate, né per «i contenuti» che le caratterizzano, né per «le motivazioni» che le sorreggono. Peraltro, salvo la posizione di Pace”, essenzialmente fondata su ragioni di carattere teorico-sistematico, le varie ipotesi a diverso titolo avanzate si collocano tutte, esplicitamente o implicitamente, in tre diverse prospettive. | Una prima prospettiva è quella di chi propone l’Assemblea Costituente (ma meglio in questa logica si do-
vrebbe parlare, come ha fatto Urbani”, di Assemblea
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di Revisione costituzionale) come modo per realizzare quelle modifiche costituzionali che sinora il Parlamento italiano non è riuscito ad approvare malgrado l’impegno della Commissione Bozzi, prima, della Commissione De Mita - Iotti, poi”.
Caratteristica di questa posizione è quella di immaginare possibile e necessario limitare i poteri dell’Assemblea alla revisione di una parte soltanto della Costituzione, e sostanzialmente alla seconda parte. (In questo senso in una linea analoga si sono posti a suo tempo Martinazzoli e successivamente Zanone”, che l’ha configurata però come alternativa a una modifica del procedimento di cui all’art. 138 Cost., poi Maccanico, e infine certamente Urbani”). Una seconda prospettiva pare invece proporre l Assemblea Costituente come modo per realizzare una sorta di rilegittimazione del sistema politico-istituzionale legata al superamento di una discussione sulle riforme che, trascinandosi da molti anni senza alcun risultato,
ha concorso per la sua parte a una certa delegittimazione complessiva. Discussione che, si sostiene, deve comunque terminare perché sia possibile riprendere un cammino comune, e comunemente condiviso, nella certezza della ritrovata stabilità istituzionale (Romano, Panebianco; in un certo senso, almeno con riferimen-
to alla seconda parte della Costituzione, anche Maccanico).
Una terza prospettiva, esplicitamente non sostenu-
ta da alcuno, se non in certe fasi da Miglio‘, ma oggi presente implicitamente anche in alcuni interventi di Panebianco, Cacciari*, Barbera*, è quella di considerare l’Assemblea Costituente come una sorta di «cesura» fra un «prima» e un «poi»: un modo, cioè per consegnare alla storia una fase della nostra vicenda nazionale ed aprirne un’altra (in questo senso, sembra, si debbano collocare anche le peraltro caute dichiarazioni di Fini‘). Nell'ambito di questa prospettiva vi sono poi alcuni che, sul piano delle modifiche formali, paiono inte-
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ressati essenzialmente alla forma di Governo; altri che, come Miglio*, mirano a una fondamentale e dichiarata «frattura» della forma di Stato; altri ancora, infine, paiono essenzialmente badare alla approvazione di una «forte» modifica costituzionale (temendo di parlare ex
professo di nuova Costituzione) essenzialmente per «ratificare» quello che a loro giudizio è il «nuovo» sistema politico e la diversa collocazione, in questo nuovo sistema, di forze che in quello per loro «precedente» erano sostanzialmente prive della legittimazione costituzionale o della legittimazione a governare. Accanto a queste tre diverse impostazioni vi sono poi, soprattutto nelle più recenti prese di posizioni, anche due argomentazioni ricorrenti. La prima attiene al fatto che attraverso l’elezione con sistema proporzionale di una Assemblea Costituente si potrebbe individuare una sede nella quale tutte le forze politiche avrebbero una medesima capacità rappresentativa, mentre il Parlamento, eletto col sistema maggioritario, resterebbe escluso dal processo costituente. In questi termini la proposta di eleggere un’ Assemblea Costituente è presentata come una soluzione del problema apertosi con le nuove leggi elettorali: quello cioè della diminuita capacità garantistica dell’art. 138 Cost. Una seconda argomentazione, meno esplicitata, sottolinea il fatto che attraverso l’elezione di un’apposita Assemblea Costituente si potrebbe diminuire la «tensione» in Parlamento e nel rapporto Parlamento-Governo, spostando in questa sede «specializzata» il dibattito sulle riforme istituzionali (cosî, in qualche modo, anche Urbani). Del tutto contingente, e oggettivamente non meri-
tevole di particolare attenzione, è infine la tesi, da qualcuno sommessamente accennata, secondo la quale attraverso l’elezione dell’ Assemblea Costituente si potrebbe garantire stabilità e durata anche alla legislatura parlamentare.
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8. Qualche riflessione sulla proposta dell’ Assemblea Costituente.
I diversi orientamenti nei quali si colloca la proposta di convocare un’Assemblea Costituente (o di Revi-
sione costituzionale) giustificano, anche per il fatto stesso di essere cost articolati e diversi fra loro, la perplessità, per non dire la contrarietà, manifestata da molti‘. In primo luogo, anche a voler trascurare la difficoltà «teorica» di prevedere un’ Assemblea Costituente elettiva a competenza «limitata» e titolare non già del potere costituente ma solo del potere «costituito» di revisione, non si può non sottolineare che nella storia, e
soprattutto nella nostra storia, l’Assemblea Costituente si ricollega a una «rottura» dell'ordinamento precedente e all’«instaurazione» di un nuovo ordinamento. Da questo punto di vista è innegabile che il «nome» (ma anche il fatto in sé di eleggere una Assemblea apposita, e quindi anche nell’ipotesi che la si definisse semplicemente come Assemblea per la Revisione) abbia una fortissima suggestione evocativa, quali che siano i limiti che con la legge istitutiva si vogliono porre al suo potere. Del resto probabilmente proprio questo effetto «evocativo» è visto con grande favore da quanti si collocano nella seconda e nella terza delle prospettive precedentemente indicate. In secondo luogo, appare difficile negare che l’Assemblea, una volta eletta, si troverebbe comunque di fronte a una singolare e difficile alternativa: operare
nel rigoroso rispetto dei limiti posti alla sua competenza dalla legge istitutiva, trasformandosi cosî in una sorta di Commissione Bicamerale elettiva; oppure interpretare, esplicitamente o implicitamente, in modo estensivo i propri poteri. In questo caso, però, si trasformerebbe in un vero e proprio soggetto costituente e si determinerebbe, di conseguenza, anche sul piano stret-
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tamente
giuridico,
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una
vera
e propria «frattura»
dell’ordinamento. In terzo luogo, pare singolare la proposta di far eleggere contemporaneamente tre Assemblee diverse: l’una eletta con sistema proporzionale e competente a definire, in misura più o meno ampia, le «regole» del sistema futuro; le altre due elette con sistema maggioritario, competenti a gestire, insieme al Governo, il si-
stema esistente. E del tutto evidente che fra le tre Assemblee ben difficilmente si potrebbero evitare conflitti, anche gravi.
Solo in tre casi, probabilmente, le tre Assemblee potrebbero operare senza conflitti: a) Qualora vi fosse un’amplissima convergenza sulle modificazioni da adottare (ma in questo caso non si capisce perché non possa procedere il Parlamento stesso adottando adeguate procedure garantistiche per le minoranze).
b) Nell’ipotesi in cui una medesima maggioranza, forte e «blindata», operasse con analoga determinazione nelle tre sedi (ma allora, ovviamente, verrebbe
meno quel quadro di largo consenso che non è solo una condizione giuridico-formale ma anche, e soprattutto, una condizione «fattuale», storicamente rilevante).
c) Nel caso, ancora più inquietante, di una possibile convergenza nell’ Assemblea Costituente fra forze che in sede parlamentare si pongono invece come contrapposte o, peggio, fra una parte delle une e una parte delle altre.
In quest’ultima ipotesi, peraltro, si creerebbe una oggettiva situazione di «ambiguità» politico-istituzionale che non potrebbe essere semplicisticamente superata teorizzando l’opportunità delle diverse dislocazioni fra maggioranza e opposizione quando si tratta di governare o di fare leggi ordinarie e quando si tratta, invece, di definire le regole costituzionali. Né varrebbe obbiettare che questo è proprio ciò che si verificò
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nell’ultimo periodo dell'esperienza della Assemblea Costituente del 1946-1948. Come ben sappiamo, infatti, quella Assemblea riusci a giungere in porto malgrado (e certo non grazie) la grave rottura politica e governativa dell’ultima fase. In quarto luogo infine, non si può non sottolineare con la necessaria enfasi che mai si è proceduto a una revisione costituzionale attraverso un’ Assemblea Costituente eletta insieme a un Parlamento legislativo differenziato: solo in Argentina recentemente si è seguito un processo di questo tipo, ma, come è noto, in quel
Paese è la stessa Costituzione vigente che prevede questo procedimento come procedimento ordinario di revisione costituzionale e quindi senza alcuno dei significati di straordinarietà che invece nel caso italiano l'Assemblea assumerebbe inevitabilmente. Tutte queste considerazioni inducono a giudicare con estrema perplessità la proposta. Se lo scopo dell’ Assemblea ha da essere quello perseguito nella seconda o nella terza prospettiva precedentemente indicate, quello cioè di una sostanziale «rottura-rilegittimazione» dell’ordinamento italiano, allora chi ritenga che la nostra Costituzione debba e possa essere adeguata alla realtà attuale ma non certamente superata nei suoi valori fondanti non può che opporsi con forza e determinazione‘. Se, invece, lo scopo è quello di individuare modalità più garantiste e più «efficienti» per procedere al-
la revisione della Costituzione in una prospettiva di razionalizzazione e stabilizzazione del nostro ordinamento politico-istituzionale, allora la discussione può essere sviluppata chiedendosi se questo sia davvero il modo migliore per procedere alla revisione o se, invece, come pare, in questa proposta siano maggiori i
difetti che i pregi; i rischi piuttosto che le opportunità.
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9. Una brevissima conclusione.
Il dibattito sul modo di procedere alle riforme costituzionali e sul contenuto possibile di queste riforme è del tutto aperto. Due sono però i rischi che devono essere comunque evitati: a) Il primo, che in modo surrettizio si cerchi di usare un procedimento di revisione per determinare di fatto una vera e propria rottura della nostra Costituzione. 5) Il secondo, che tanto il procedimento adottato quanto le riforme costituzionali eventualmente approvate siano usate come una sorta di «oggetto contun-
dente», utile cioè soprattutto a perseguire un predefinito e in qualche modo «precostituito» assetto politico.
Può esservi chi pensi alla necessità di piegare il qua. dro costituzionale all’obbiettivo di portare a compimento un definitivo superamento, tenacemente perseguito ma non ancora pienamente raggiunto, del sistema politico italiano; cosi come può esservi chi ritenga che al mutamento del sistema politico e ai diversi rapporti di forza che si sono delineati nel Paese debba far seguito un coerente cambiamento del quadro costituzionale. L’uno e l’altro atteggiamento devono essere tenacemente combattuti: guai se la Costituzione dovesse essere modificata a fini di parte, siano questi l’omologazione a un nuovo sistema auspicato o la ricerca di nuovi strumenti per completare l’instaurarsi di un nuovo quadro politico che vuole rafforzare la sua egemonia. Tanto l’una che l’altra via condurrebbero infatti alla «rottura» della Costituzione e alla perdita della Costituzione come valore e regola comune e condivisa. La vera differenza fra revisione e rottura sta, dunque, nel rifiutare l’uso partigiano della modificazione
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e nell'affermare invece il dovere della ricerca, giuridicamente doverosa e storicamente essenziale, di un’evo-
luzione accettata della nostra Carta costituzionale e dei suoi valori. Solo su questa base può essere liberamente sviluppato il dibattito sulle modalità più opportune per procedere, nell’assoluta salvaguardia dello «spirito» di garanzia dell’art. 138 Cost., alle riforme costituzionali necessarie per adeguare, nel pieno rispetto dei suoi principi e delle sue radici, la nostra Costituzione alle nuove esigenze delle nuove generazioni”.
* Il testo riproduce, con alcune modificazioni, il contenuto di un saggio già pubblicato sulla rivista «il Mulino», 1995, n. 2, pp. 203 sgg. che, a sua volta, costituiva la relazione al Convegno «La Costituzione della Repubblica oggi. Principi da custodire, istituti da riformare», Milano 21 gennaio 1995. Al testo è stato aggiunto però un ampio apparato di note che vuole rendere conto dell’andamento del dibattito che si è svolto su questi temi fino all'autunno 1995. Proprio per questo si spera che
il lettore voglia tener conto, oltre che del testo, anche delle note che lo accompagnano. In questo caso, infatti, il contenuto delle note costituisce quasi un contributo a sé stante, ed è in larga misura utile a comprendere meglio anche la discussione che, con molte ambiguità e non poche contraddizioni, si è sviluppata intorno al tema dell’ Assemblea Costituente tra la fine del 1995 e il gennaio del 1996. Per qualche considerazione su questo aspetto, anche con riferimento alle vicende che hanno caratterizzato le due ultime legislature, cfr. F. Pizzetti, Sistema dei partiti e sistema elettorale nella «lunga transizione», in «Studi parlamentari», 1995, n. 108, pp. 37 sgg. La letteratura sulle riforme costituzionali «proposte», «tentate», e «fallite», è davvero im-
mensa. Per i progetti presentati e discussi fino alla IX legislatura cfr. F. Teresi, Le riforme istituzionali. Materiali di studio, Giappichelli, Torino 1994. Utile per quello stesso periodo, e soprattutto per quello successivo, il puntuale elenco delle vicende «rilevanti» che su questo tema si sono susseguite fino all’aprile 1993 contenuto in C. Fusaro, La rivoluzione costituzionale, Rubbettino, Soveria Mannelli 1993. Di grande efficacia, pur nella sua estrema sinteticità anche G. Zagrebelsky, Comz-
mento all’art. 138 Cost., in G. Neppi Modona (a cura di), Lo Stato della Costituzione, Il Saggiatore, Milano 1995, pp. 464 sgg. e ivi anche un richiamo al c.d. «paradosso delle riforme costituzionali» sul quale vedi più ampiamente G. Zagrebelsky, I paradossi della riforma costituzionale, in «Politica del diritto», 1986, pp. 65 sgg. ? Su questo aspetto, anche con qualche implicita riflessione sulle ragioni per le quali nelle ultime legislature solo queste modifiche costituzionali sono state approvate e sulle connessioni che sussistono fra queste mo-
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difiche e le vicende che hanno segnato in questi anni le nostre istituzioni cfr. F. Pizzetti, Sistenza dei partiti e sistema elettorale cit. a
Su questi aspetti cfr. A. Pace, La «naturale» rigidità delle Costituzioni scritte, in
«Giur. cost», 1993, 4091; Id., La causa della rigidità costitu-
zionale, Padova 1995; nonché M. Dogliani, Potere costituente e revisione costituzionale, in «Quaderni costituzionali», 1995. Sul punto specifico sia consentito anche rinviare a F. Pizzetti, Cambiamento, riforma 0 evoluzione della Costituzione, in «Biblioteca della Libertà», 1994. Per una documentazione talvolta di parte, ma comunque completa delle vicende legate ai «falliti» tentativi di riformare la Costituzione, cfr. C. Fusaro, La rivoluzione costituzionale cit., e ora anche Id., Guida-glossario alla Costituzione italiana, Rebuffo, Roma 1995. In senso molto critico rispetto a questo profilo cfr. M. Dogliani, Potere costituente cit.; Id., Costituente (potere), in «Digesto delle discipline pubblicistiche», IV, 1989, pp. 281 sgg. Cfr. sul punto le osservazioni di A. Pace, Problemi della revisione costituzionale in Italia: verso ilfede-
ralismo e il presidenzialismo?, in «Studi parlamentari», n. 107, spec. pp. 14 sgg. Sul tema cfr. anche G. Pitruzzella, Considerazioni su l’«idea» di costituzione e il mutamento costituzionale, in Archivio di diritto costitu-
zionale 2, Torino 1993, pp. 67 sgg. Pi recentemente di assoluto rilievo l’intervento svolto da G. Dossetti, nel Convegno dei Comitati per la difesa della Costituzione tenutosi a Milano il 21 gennaio 1995, pubblicato ora in una versione non corretta dall’A. con il titolo Nor una seconda repubblica ma revisioni costituzionali giuste, in «Nuova fase», 1995, n. 1, pp. 89 sgg.; lo stesso testo, col titolo Principi da custodire, istituti da riformare, è pubblicato anche in «Democrazia e diritto», n. 4-1994 / 1-1995,_ fascicolo monografico interamente dedicato ai Costituenti, pp. 55 sgg.; di G. Dossetti cfr. anche i saggi e i testi pubblicati nel volume Conversazioni, In Dialogo, Milano 1994: si tratta di un volumetto che raccoglie gli interventi più significativi svolti su questi temi da Don Dossetti nel corso del 1994. Sul tema della revisione costituzionale, delle sue forme e dei suoi limiti cfr. anche A. Pizzorusso, R. Romboli e R. Tarchi, Ir difesa dei valori della Costituzione, in «Il Foro Italiano», 1994, V, pp. 377 sgg. Di notevole interesse infine, e più recente, V. Angiolini, Costituente e costituito nell’Italia repubblicana, Padova 1995. Sul tema v. anche G. Sartori, Come sbagliare le riforme, il Mulino, Bologna 1995; F. Pizzetti, Federalismo, regionalismo e riforma dello Stato, Giappichelli, Torino 1996; A. Pizzorusso, La Costituzione, Einaudi, Torino 1996. Sulla tematica del potere costituente e del potere costituito cfr. comunque anche P. Barile, Potere costituente, in Novissimo Dig. It., Torino 1966, pp. 444 sgg. e P. G. Grasso, Potere costituente, in Enc. del dir., XXXIV, Milano 1985, pp. 642 sgg. Cfr. infine P. Pombeni (a cura di), Potere costituente e riforme costituzionali, Bologna 1992 e, per una prospettiva tutta diversa, A. Negri, I/ potere costituente, Sugarco, Varese 1992. Per una acuta ricostruzione delle tradizionali posizioni della cultura italiana sul tema della «Costituente» e per una articolata riflessione sugli elementi caratterizzanti (e dunque sui limiti alla revisione) della nostra Costituzione cfr. ora anche P. Pombeni, Idee per una costituente, in «Democrazia e diritto», cit., pp. 111 sgg. Per una ricostruzione del dibattito meno recente su questo tema, e soprattutto degli avvenimenti italiani legati alla questione costituzionale nel corso dei primi trenta anni di esperienza repubblicana, cfr. anche G. Cotturi, La derzocrazia senza qua-
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lità. Politica istituzionale e processo costituente in Italia, Angeli, Milano 1989. Di recente questo A. è tornato sull’argomento con un saggio di
vi
grande interesse, che ricostruisce sinteticamente un quadro articolato delle vicende che nel corso dell’esperienza repubblicana si sono collegate al dibattito sulla questione istituzionale: cfr. G. Cotturi, Incontro alla Costituzione, in «Democrazia e diritto», cit., pp. 3 sgg. Circa il modo col quale fu affrontato nel nostro Paese il problema del potere costituente negli anni che vanno dal 1946 al 1948 cfr. ora P. Pombeni, La Costituente, Il Mulino, Bologna 1995, con ampi richiami ai numerosi studi che di recente sono stati pubblicati sul tema. In realtà il tema delle modifiche da apportare alla nostra Costituzione, fino all’ipotesi di un vero e proprio superamento della Costituzione del 1948, ha segnato in pit fasi il dibattito italiano. Anzi, in un certo senso ben si potrebbe dire che fin dai primissimi anni successivi all’approvazione della Carta costituzionale, esso ha segnato una «costante» del caso italiano. A parte le indicazioni piùi puntuali che si faranno in seguito, per il periodo precedente e per quello immediatamente seguente alla Commissione Bozzi che va fino alla fine della IX legislatura, cfr., fra i molti: aa.vv., La riforma dello Stato, Roma 1968; Id., Crisi e trasformazione delle istituzioni, Giuffrè, Milano 1969; E. Cheli, La cost-
tuzione alla svolta del primo ventennio, in «Pol. del dir.», 1971, pp. 167 sgg.; V. Onida, Ur anno di dibattiti sulle riforme costituzionali, in «Riv. trim. dir. pubbl.», 1972, n. 1, pp. 459 sgg.; A. M. Sandulli, Orzbre sul le istituzioni, ivi; aa.vv., La Costituzione e la crisi, in «Gli stati», 1973, n.10; M. Cotta, La riforma delle istituzioni: note su un recente dibattito,
in «Dir. e soc.», 1973, pp. 443 sgg. F. L. Cavazza e S. R. Graubard (a cura di), I/ caso italiano, Garzanti, Milano 1974; M. D'Antonio, La Costituzione di carta, Milano 1977; L. Basso (a cura di), Stato e crisi delle istituzioni, Milano 1978; G. Floridia, I/ dibattito sulle istituzioni (19481975), in «Dir. e soc.», 1978, pp. 261 sgg.; P. Barile e C. Macchitella, I nodi della Costituzione, Einaudi, Torino 1979; G. Amato, Una Repubblica da riformare, il Mulino, Bologna 1980; G. Guarino, Quale Costituzione?, Milano 1980; A. Pizzorusso, Riforzare la Costituzione?, in «Dem. e dir.», 1980, pp. 63 sgg.; G. Rolla, Riforza delle istituzioni e Costituzione materiale, Giuffrè, Milano 1980; A. Di Giovine, L’ingegneria costituzionale fra crisi delle istituzioni e strategie politiche, in aa.vv., Crisi politica e riforma delle istituzioni. Dal caso italiano alla Comunità europea, Tirrenia ed., Torino, 1981, pp. 11 sgg.; G. Pasquino, I/ dibattito sulle riforme istituzionali in Italia, in «il Mulino», 1981, n. 273, 3;Id., Degenerazione dei partiti e riforme istituzionali, Laterza, Bari 1982; Id., Restituire lo scettro al principe, Laterza, Bari 1985; S. Bartholini, Riforma istituzionale e sistema politico, il Mulino, Bologna 1981; M. Cammelli, I/ riformismo alla prova: il nodo delle istituzioni, in «il Mulino», 1982, pp. 351 sgg.; F. Cuocolo, Govemabilitàe riforma delle istituzioni, in «Civitas», 1982, 2, pp. 7 sgg.; S. Gambino, Crisi istituzionalee riforma della Costituzione, Pisa 1983; Gruppo di Milano, Verso una nuova Costituzione, Giuffrè, Milano 1983; aa.vv., Un confronto sulle riforme istituzionali, in «Quaderni costituzionali», 1983, 403 sgg.; Id., La Costituzione fra attuazione e revisione, Quaderni di Justitia, Milano 1983; E. Rotelli, Riforme istituzionali e sistema politico, Roma, 1983; G. Miglio, Una Repubblica migliore per gli italiani, Giuffrè, Milano 1983; P. Biscaretti di Ruffia, La Costituzione italiana dopo un ventennio nel giudizio degli esponenti politici, in Scritti Chiarelli, Giuffrè, Milano 1984,
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II; aa.vv., Riforme istituzionali e democrazia in Italia, in «Riv. it. sc. pol.», 1984; A. Lombardo, La grande riforma. Governo, istituzioni, partiti, Giuffrè, Milano 1984; S. Galeotti, Un governo scelto dal popolo : «il governo di legislatura». Contributo per una «Grande riforma» istituzionale, Giuffrè, Milano 1984; F. Pizzetti, Riforme istituzionali e sistema politico, in Arel, Roma 1984; aa.vv., Le riforme istituzionali, Cedam, Pa-
dova 1985; Id., Le riforme istituzionali, in «Critica del dir.», 1985; P. Armaroli, L’introvabile governabilità, Cedam, Padova 1986; G. Zagrebelsky, I paradossi della riforma costituzionale, in «Pol. dir.», 1986; A. Barbera, Problemi e prospettive delle riforme in Parlamento, in «Dem. e dir.», 1987; C. Fusaro, I progetti di revisione del bicameralismo alla Camera, in «Quad. cost.», 1987; F. Lanchester, Le riforme istituzionali fra aspirazioni partigiane e vincoli sistemici, in «Quad. cost.», 1987; G. Sil-
vestri, Spunti di riflessione sulla tipologia e sui limiti della revisione costituzionale, in Studi Biscaretti di Ruffia, Giuffrè, Milano 1987; G. Zagrebelsky, Adeguamento e cambiamento della Costituzione, in Studi Crisafulli, Cedam, Padova 1987. Per quanto riguarda poi il dibattito che va dal 1987, inizio della X legislatura, fino all'autunno del 1995 cfr., oltre agli A. citati successivamente, C. Fusaro, I/ doppio dibattito del 18-19 maggio 1988 sulle riforme istituzionali, in «Quad. cost.», 1988; R. Ruffilli e P. G. Capotosti, Il cittadino come arbitro, il Mulino, Bologna 1988; aa.vv., Le forme della democrazia, in «Dem. e dir.», 1991, n. 4; Id., Dibattito sul messaggio
presidenziale, in «Giur. cost.», 1991, n. 5, pp. 3-213; L. Elia, Politica e istituzioni, Roma 1991; aa.vv., La forma di governo dell’Italia odierna, in «Quad. cost.», 1991, n. 1, pp. 3-100; A. Barbera, Una riforma perla repubblica, Editori Riuniti, Roma 1991; S. Ceccanti, Le istituzioni della democrazia, Centro per la riforma dello Stato, Roma 1991; M. Luciani, Il voto e la democrazia. La questione delle riforme elettorali in Italia, Roma 1991; Id., Sisterza elettorale e sistema politico, in Associazione per gli studi e le ricerche parlamentari, Quaderno n. 3, 1993; M. Luciani e M. Volpi (a cura di), Riforme elettorali, Laterza, Bari 1995; C. Fusaro, I/ dibattito in Parlamento sul messaggio del Presidente della Repubblica sulle riforme istituzionali, in «Quaderni costituzionali», 1991, n. 3, pp. 543 sgg.; Id., La Rivoluzione costituzionale cit.; Id., Le regole della transizione, il Mulino, Bologna 1995; F. Lanchester, L’inzovazione istituzionale difficile. Il dibattito sulla rappresentanza politica agli inizi della XI legislatura, in «Riv. trim. dir. pubbl.», 1992, n. 4, pp. 910 sgg.; S. Messina, La grande riforma, Laterza, Bari, 1992; S. Panunzio, Riforma delle istituzioni e partecipazione democratica, in «Quaderni costituzionali», 1992, N. 3, pp. 551 sgg.; aa.vv., Problemi e prospettive di riforma istituzionale, in «Politica del dir.», 1992, n. 2, pp. 175-330; Id., Riforma elet torale, in «Micro-Mega», 1992, n. 4; Id., Dopo la partitocrazia, in «Mi-cro-Mega», 1992, n. 5; S. Cassese, La riforma costituzionale în Italia, in
«Riv. trim. dir. pubbl.», 1992, n. 4, pp. 889-909; C. Chimenti, Consi derazioni su alcune proposte di riforma delle istituzioni, in «Nomos», 1991; Id., Un parlamentarismo agli sgoccioli. Lineamenti della forma di governo italiana nell'esperienza di dieci legislature, Giappichelli, Torino 1992; Id. Addio prima repubblica, Giappichelli, Torino 1995; G. Rebuffa, La Costituzione impossibile, il Mulino, Bologna 1994; $. Gambino, Elezioni primarie e rappresentanza politica, Rubbettino, Soveria Mannelli 199 5; S. Cassese, Maggioranza e minoranza, Garzanti, Milano 1995. Sul dibattito sviluppatosi nell’ultimo periodo cfr. anche la ricca raccolta di
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materiali di F. Teresi, La strategia delle riforme: la riforma delle istituzioni in Italia, Giappichelli, Torino 1994. Sulla Commissione Bozzi, per una valutazione «contenutistica» e non
solo «cronacistica» di quella vicenda, resta fondamentale il contributo di R. Ruffilli, Materiali per la riforma costituzionale, Arel, il Mulino, Bologna, 1987; cfr. anche G. Ferrara, Le risultanze della Commissione Bozzi:un giudizio e A. Cantaro, Le condizioni di una riforma forte, in «Democtrazia e diritto», 1985, n. 2. Per la documentazione puntuale relativa alla istituzione di quella Commissione, cfr. F. Teresi, Le riforme
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istituzionali cit., pp. 33 sgg. Sempre sulla Commissione Bozzi cfr. anche R. Ruffilli, Riformza delle istituzioni e sistema politico, in «il Mulino», 1984, pp. 463 sgg.; G. Pasquino, Teoria e prassi dell’«ingovernabilità» nella Commissione per le riforme istituzionali, in «Stato e mercato», 1985, pp. 365 sgg.; A. Barbera, Una retrospettiva sulla Commissione Bozzi e il nuovo percorso delle riforme: tra plebiscito e referendum, in Scritti in onore di A. Bozzi, Cedam, Padova 1992. Sulla vicenda della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali, anche con specifico riferimento agli «strappi» procedurali all’art. 138 Cost. che essa implicava, cfr. C. De Fiores, La Comrrzissione bicamera-
le per le riforme istituzionali e l’art. 138 Cost.:i paradossi di una riforma, EA
in «Giur. cost.», 1993, pp. I54I Sgg. Ovviamente il riferimento non può essere esteso a tutta la dottrina costituzionalistica, che anzi, a partire dai fondamentali studi di Mortati
e di Esposito, ha costantemente richiamato la tematica dei limiti alla revisione costituzionale come conseguenza, proprio della distinzione fra potere costituente e potere di revisione costituzionale o, se si preferisce, fra potere costituente e potere costituente-costituito. Il riferimento riguarda invece il fatto che, proprio a partire dall’insegnamento dei grandi Maestri e, in particolare, di Mortati, è invalsa l'abitudine di ripetere come affermazione tanto ovvia quanto indiscutibile che la prima parte della Costituzione non potesse comunque essere modificata, perché in qualche misura tutta «coperta» dal limite della immodificabilità attraverso il procedimento di revisione, mentre invece la seconda parte della Costituzione avrebbe potuto essere pressoché tutta modificabile, salvo limiti contenutistici «interni» alle proposte di modifica eventualmente avanzate. Una solare conferma di questo atteggiamento tanto diffuso quanto scontato è offerta proprio dai limiti nel potere di avanzare proposte di revisione che a suo tempo sono stati posti sia alla competenza della Commissione Bozzi che a quella della Commissione De Mita - Iotti. Per la posizione della dottrina italiana, e soprattutto per riesaminare a fondo l’insegnamento dei grandi costituzionalisti che hanno segnato la fase di avvio della nostra esperienza costituzionale, sin dall'Assemblea Costituente cfr. C. Mortati, La Costituente, Darsena, Roma 1945, ora in Scritti Mortati, vol. I, Giuffrè, Milano 1972; Id., Appunti sul problema della fonte del potere costituente, in «Rass. dir. pubbl.», 1946, pp. 26 sgg., ora in Scritti cit., pp. 350 sgg.; Id., Concetto, limiti, procedimento di revisione della Costituzione, in Studi di diritto costituzionale in memoria di Luigi Rossi, Giuffrè, Milano, 1952, pp. 377 sgg.; Id., Costituzione dello Stato, in Enc. del dir., XI, Giuffrè, Milano 1962, pp. 139 sgg.; C. Esposito, La validità delle leggi, in «Annali Camerino», 1934 e ora ripubblicata da Giuffrè, Milano 1964 (opera questa che anche se scritta prima della nostra Costituzione resta fondamentale per l’analisi del-
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ladottrina costituzionalistica che per prima affrontò gli effetti dei nuovi orientamenti del diritto costituzionale); Id., Costituzione, legge di revisione e «altre» leggi costituzionali, in Scritti Jemolo, vol. III, Giuffrè, Milano 1963; Id., Commento all’art. 1 della Costituzione, in La Costi-
tuzione italiana, saggi, Cedam, Padova 1954. A. Amorth, La costituzione italiana, Milano 1949; F. Pierandrei, La Costituzione e il potere costituente, in «Atti Acc. peloritana», 1949, pp. 79 sgg., ora in Scritti, vol. I, Giappichelli, Torino 1965, 3; Id., Saggi sulla teoria della Costituzione, in «Jus», 1951, pp. 303 sgg., ora in Scritti cit., 27; Id., La rivoluzione e il diritto, in «Nuova Rivista di Dir. Commerciale», 1952, pp. 134 sgg., ora in Scritti cit., 209; P. Virga, La revisione costituzionale, in
«Il circolo giuridico», 1948; P. Barile, La revisione della Costituzione, in Commentario Calamandrei, vol. II; Id., La Costituzione come norma giuridica, Firenze 1951; S. Galeotti, La garanzia costituzionale, Giuffrè, Milano 1950; V. Crisafulli, Costituzione, in Enc. Novecento, I, 1976,
pp. 1030 sgg.; Id., La Costituzione ele sue disposizioni di principio, Giuffrè, Milano 1952; G. Motzo, Disposizioni di revisione materiale e provvedimenti di rottura della Costituzione, in «Rass. dir. pubbl.», 1964. Per la letteratura più recente, invece, oltre agli A. citati in altra parte di questo studio cfr. A. Reposo, La forza repubblicana secondo l’art.139 Cost., Cedam, Padova 1972; A. Mazzoni Honorati, I/ referendum nella procedura di revisione costituzionale, Giuffrè, Milano 1982; C. Pinelli,
Costituzione rigida e costituzione flessibile nel pensiero dei costituenti italiani, Roma 1981; A. Pizzorusso, Comrzento all'art. 138 Cost., in Commentario Branca, Zanichelli, Bologna 1981; S. Cicconetti, La revisione della Costituzione, Cedam, Padova 1972; Id., Revisione costituzionale, in Enc. del dir., X1, Giuffrè, Milano 1992 e gli AA. ivi citati. Cfr. inol-
tre, in generale, G. Zagrebelsky, I/ sisterza costituzionale delle fonti del diritto, Utet, Torino 1994; V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, Cedam, Padova 1993; A. Ruggeri, Fonti e norme nell'ordinamento e
nell'esperienza costituzionale, Giappichelli, Torino 1993; M. Pedrazza Gorlero, Le fonti del diritto, Cedam, Padova 1995; F. Sorrentino, Le fonti del diritto, in G. Amato e A. Barbera (a cura di), Manuale di diritto pubblico, il Mulino, Bologna 1994. v Fra i molti interventi sul tema che hanno caratterizzato l’attività di Paolo Barile fra l’estate del 1994 e tutto il 1995 cfr. in particolare P. Barile, La difesa della Costituzione, in «la Repubblica», 29 settembre 1994. In questo articolo Barile, richiamando l’iniziativa assunta da don Giuseppe Dossetti, sottolinea con tutta evidenza lo stretto legame che vi è stato fra gli orientamenti assunti dal governo Berlusconi in materia di riforme costituzionali (soprattutto con l’istituzione della Commissione Speroni) e il sorgere dei Comitati per la difesa della Costituzione, che hanno riproposto come centrale, nel dibattito politico e istituzionale di quel periodo, i temi di cui anche in questa sede ci si occupa. In quello stesso periodo significativi sono stati anche, fra gli altri, due interventi di E. Gallo dal titolo La Costituzione e il referendum e Chi può cambiare la Costituzione, pubblicati su «la Repubblica», rispettivamente il 15 e il 29 ottobre del 1994. l5 Tanto Barile che Elia hanno assunto un ruolo di primo piano nel contestare la legittimità di modifiche costituzionali che non fossero rispettose dell’art.138 Cost. e dei limiti fondamentali che la nostra stessa Costituzione pone. Non a caso entrambi, oltre a sostenere e promuovere in generale i Comitati per la difesa della Costituzione, hanno preso par- -
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te con interventi significativi e con la direzione dei lavori dell’ Assemblea, al già Convegno della associazione «Città dell’uomo» tenutosi a Milano il 21 gennaio 1995 sul tema La Costituzione della Repubblica oggi. Principi da custodire, istituti da riformare.
Per le posizioni di questi A. si rinvia alle citazioni già fatte. A questi nomi molti altri potrebbero aggiungersene, a cominciare da quanti hanno partecipato al Convegno di Milano, richiamato anche alla nota precedente. Fra questi vanno comunque ricordati i contributi di E. Balboni, Democrazia pluralista e autonomie sociali, ora in «Democrazia e di-
ritto» cit., p. 87; U. Allegretti, Costituzione italiana e dimensione internazionale, ivi, pp. 95 sgg.; G. Pastori, Stato e autonomie territoriali, in La Costituzione della Repubblica oggi. Principi da custodire, istituti da riformare cit., p. 15; A. Mattioni, Forma di governo, ivi, pp. 19 sgg.; G. Berti, I partiti politici, ivi, pp. 23 sgg.; R. Zaccaria, L’informazione, ivi, pp. 25 sgg.; F. Stella, La giustizia, ivi, pp. 29 sgg. Si veda inoltre fra i partecipanti al Convegno anche il contributo di U. De Siervo, Per una difesa della Costituzione, in «Nuova Fase», 1994, n. 4. Fra i giuristi che si sono particolarmente segnalati per la loro attività organizzativa e le loro prese di posizione a difesa della Costituzione si deve ricordare anche G. Neppi Modona, del quale occorre citare alme-
no l’articolo dal titolo Nor soro tempi da Costituente, in «la Repubblica», 8 gennaio 1995, nonché S. Rodotà, del quale va segnalato almeno l’articolo Picconate costituzionali, ivi, 4 novembre 1994. Sottolinea questo aspetto A. Pace, Problemi della revisione costituzionale în Italia: verso ilfederalismo o il presidenzialismo? cit., pp. 5 sgg. Lucidissimamente aveva «anticipato» la necessità di una forte azione politica e dottrinale di riflessione su questi temi G. Dossetti, nella sua ormai famosa «lettera» al sindaco di Bologna in occasione del 25 aprile del 1994, ora in G. Dossetti, Conversazioni cit., pp. 63-64. Anche in seguito all’appello di Dossetti già nella primavera del 1994 cominciarono a «fiorire» riflessioni importanti su questa tematica, in una prospettiva che dichiaratamente voleva legare insieme una riflessione di ampio respiro con l'urgenza del dibattito in corso. Fra queste, di particolare valore sembra essere l’iniziativa assunta dalle Facoltà di Giurisprudenza di Pisa, di Siena e di Firenze e che si concretizzò in un incontro di studio dal tema Cambiare la Costituzione?, tenutosi il 27 maggio 1994 a Pisa. Gli atti di questo incontro, ora pubblicati a cura di E. Ripepe e R. Romboli, Cambiare costituzione o modificare la Costituzione?, Giappichelli, Torino 1995, contengono contributi molto importanti fra i quali meritano una particolare citazione, anche per la diversità delle tesi sostenute, soprattutto con riguardo alla possibilità o meno (e alle eventuali condizioni) di indizione di un’Assemblea Costituente, i saggi di U. De Siervo, Origine e significato della rigidità della nostra Costituzione; A. Pizzorusso, Limiti e procedure della revisione costituzionale; G. Grottanelli de’ Santi, I principi supremi come limite alla revisione costituzionale. Il problema dell'innovazione sostanziale all'innovazione costituzionale; E. Bettinelli, Referendum e riforma «organica» della Costituzione; L. Gianformaggio, Modificare la Costituzione, violare la Costituzione o cambiare Costituzione?; S. Grassi, I limiti alla revisione dello Stato regionale; R. Romboli, Le regole della revisione costituzionale; G. Volpe, Considerazioni inattuali sulla Costituzione. Di particolare pregio, anche per il grande equilibrio dottrinale, la Relazio-
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ne di Sintesi di P. Barile, p. 115. Cfr. anche Relazione finale del Comitato di studio sulle riforme istituzionali, Roma 1995. Cfr. su questo peculiare aspetto della XI legislatura quanto osservato da F. Pizzetti, Sistema dei partiti e sistemi elettorali cit. Cfr. M. Dogliani, Potere costituente e revisione costituzionale cit. Richiama la tesi di Dogliani e G. Dossetti, Principi da custodire, istituti da riformare cit.; confuta invece questa tesi, almeno nella sua formulazione «estrema», A. Cantaro, Costituzionalismo versus potere costituen-
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te?, in «Democrazia e diritto», cit., pp. 139 sgg. e 161 sgg. Sullo Statuto Albertino si veda il recentissimo S. Labriola, Storia della Costituzione italiana, Napoli 1995. Cfr. anche G. Maranini, Storia del potere in Italia 1848-1967, Firenze 1983. Sui problemi costituzionali connessi alla concessione-adozione dello Statuto Albertino, cfr. P. Bi-
scaretti di Ruffia, Statuto Albertino, in Enc. del dir., XLIII, 1990, pp. 981 sgg. Cfr. anche il notissimo C. Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia
(1848-1948), Bari 1989, nonché M. Fioravanti, Appunti di storia delle Costituzioni moderne, Torino 1991. Da ultimo vedi, di grande interesse proprio perché dedicato a un’analisi delle vicende dello Statuto Albertino dal punto di vista della sua flessibilità contrapposta alla sua pre-
tesa immodificabilità, concetto questo strettamente legato ai modi e alle forme della «concessione» dello Statuto, C. De Fiores, Revisione costituzionale e forma di governo, in «Democrazia e diritto» cit. Cfr. soprattutto G. Maranini, Storia del potere cit., p. 84; per i commentatori più risalenti nel tempo cfr. anche L. Casanova, De/ diritto costituzionale. Lezioni, Genova 1859. Cfr. G. Sacerdoti Mariani, A. Reposo e M. Patrono, La Costituzione degli Stati Uniti d’America, Milano 1985. Inoltre, di grande interesse N. Olivetti Rason, La dinamica costituzionale degli Stati Uniti d’America, Padova 1984 e, pit di recente, M. Krasner e S. C. Chabersky, I/ sistema di governo degli Stati Uniti d’America, con prefazione di A. Reposo, Giappichelli, Torino 1994. Sulle reali e concrete modificazioni alla Costituzione federale operate dalla giurisprudenza della Corte Suprema, tanto da poter forse parlare nel caso statunitense di «modificazioni costituzionali per via giurisprudenziale si veda ora M. Comba, I/ modello americano e la letteratura ivi citata, in F. Pizzetti (a cura di) Federalismo, 20
regionalismo e riforma dello Stato cit., pp. 207 sgg. La letteratura su questa tematica è ormai quasi sterminata. Si rinvia per-
tanto a V. Onida, La Costituzione.I principi fondamentali della Costituzione italiana, in G. Amato e A. Barbera (a cura di), Manuale di diritto
pubblico cit., e alle indicazioni ivi contenute. Sulla giurisprudenza costituzionale in materia di principi supremi, cfr. ora la bella sintesi di F. P. Casavola, I principi supremi della giurisprudenza della Corte costituzionale, in «Democrazia e diritto», cit., pp. 71 sgg.; sulla sent. n. 1146/1988 cfr. anche E. Gallo, Riscrivere i diritti di cittadinanza demo© cratica?, in «Coscienza», 1994, n. 10, pp. 11 sgg.; sulla specifica tematica del rapporto fra «valori» e revisione costituzionale cfr. anche F. Rimoli, Costituzione rigida, potere di revisione e interpretazione per valori, in «Giur. cost.», 1992, pp. 3713 sgg. Il dibattito sulla «legalità costituzionale per valori», ma pit in generale, sul rapporto fra leggi, norme e valori è assai acceso oggi anche nel nostro Paese. Con riferimento alla
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posizione di alcuni fra gli A. che su questo tema pit si sono spinti verso la «valorizzazione dei valori» come parametro per la legalità costituzionale cfr. in particolare C. Mezzanotte, Corte costituzionale e legittimazione politica, Roma 1984; A. Baldassarre, Costituzione e teoria dei
valori, in «Politica del diritto», 1991, pp. 639 sgg.; Id., Diritti pubblici soggettivi, in Enc. giuridica, 1989; Id., Diritti sociali, in Enc. giuridica, 1984, pp. 4 sgg. M. Luciani, Corte costituzionale e unità nel nome dei valori, in R. Romboli (a cura di), La giustizia costituzionale ad una svolta,
Torino 1991. Su questa tematica cfr. anche l’importante lavoro di G. Zagrebelsky, I/ diritto mite, Einaudi, Torino 1992, nonché, L. Gianformaggio, L’interpretazione della Costituzione tra applicazione delle regole e argomentazioni sui principi, in «Riv. intern. fil. dir.», 1985, pp. 65 sgg. Su questa stessa tematica, con particolare riguardo al problema del rapporto fra disposizione, interpretazione e bilanciamento dei valori cfr. R. Bin, Diritti e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, Giuffrè, Milano 1992. Pi in generale cfr. G. Berti, Manuale di interpretazione costituzionale, Cedam, Padova 1994. Per posizioni diverse e pit articolate rispetto al ruolo dei «valori» e dei «principi» cfr. poi F. Modugno, I principi costituzionali supremi come parametro nel giudizio di legittimità costituzionale, in Modugno-Agrò, I principi di unità nel controllo sulle leggi nella giurisprudenza della Corte costituzionale, Giappichelli, Torino 1991; Id., Principi fondamentali dell’ordinamento, in Enc. giuridica, 1991; G. Bognetti, Diritti fondamentali nell'esperienza costituzionale, in «Iustitia», 1977, pp. 39 sgg.; S. Bartole, Principi generali del diritto, in Enc. del dir., vol. XXXV, pp. 494 sgg. Di particolare rilevanza rispetto allo specifico dibattito sul ruolo dell’argomentazione per valori e per principi rispetto al tradizionale «peso» delle norme e delle regole (soprattutto costituzionali) sono: M. Doglia-
ni, I/ «posto» del diritto costituzionale, in
«Giur. cost.», 1993 e soprattutto A. Pace, La garanzia dei diritti fondamentali nell'ordinamento costituzionale italiano :il ruolo del legislatore e dei giudici comuni, in «Riv. trim. dir. proc. civ.», 1988, pp. 685 sgg.; Id., Diritti fondamentali al di là della Costituzione?, in «Politica del diritto», 1993, pp. 4 sgg.; sull’interpretazione e l'applicazione della Costituzione cfr. anche G. Pitruzzella, Considerazioni sull’idea di Costituzione e il mutamento costituzionale, in Archivio di diritto costituzionale, Giappichelli, Torino 1991, nonché S. Pensoveccho-Li Bassi, Interpretazione costituzionale e legislazione costituzionale, Giappichelli, Torino 1993. Per una rassegna delle diverse posizioni, pur collocandosi in un’ottica di adesione alla teoria dei valori cfr. Basile, Valori superiori, principi costituzionali fondamentali ed esigenze primarie, in «Giur. cost.», 1993, pp. 2001 Sgg.; su una posizione diversa, più attenta a difendere il «valore» delle disposizioni «positive», F. Pizzetti, L'ordinamento costituzionale per valori, in «Il diritto ecclesiastico», 1995, n. 1, pp. 66 sgg. e ora anche in R. Bertolino, S. Ghezzi e G. Lo Castro (a cura di), Diritto per valori e ordinamento costituzionale della Chiesa, Giappichelli, Torino 1996, pp. 19 sgg., al quale si rinvia anche per i principali riferimenti alla dottrina straniera. 2
Cfr. ora in G» Dossetti, Conversazioni cit., specificamente La Costituzione ha solide radici, pp. 67 sgg.; cfr. p. 65, la già citata lettera al sindaco di Bologna in occasione del 25 aprile 1994. Per la posizione dell’on. Iotti sul tema dell'Assemblea Costituente si rinvia a S. Frasca Polara, Intervista a Nilde Iotti: apriamo una stagio- —
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ne costituente, in «l'Unità» del 21 febbraio 1995. Nello stesso senso della proposta avanzata dall’on. Iotti si è posto a suo tempo anche il capogruppo Pds al Senato, sen. Salvi. Per quanto riguarda la posizione di Elia in ordine alla specifica questione dell'Assemblea Costituente, cfr. fra i suoi numerosi interventi, S. Mazzocchi, Elia :bene ilpatto non all'assemblea, intervista all'on. Elia,
in «la Repubblica», del 21 febbraio 1995. Fra i molti contributi offerti in questi anni da Leopoldo Elia sui temi che qui ci interessano si segnala in particolare L. Elia, Le riforme istituzionali sostenibili, in «Nuova Fase», 1994, n. 6. Di particolare interesse sulla posizione di Elia anche l’intervento da lui svolto il 30 giugno 1995 al Congresso del Partito popolare tenutosi a Roma nei giorni 29 giugno - 1° luglio 1995. Cfr. in particolare V. Onida, Le garanzie costituzionali, in La Costitu-
zione della Repubblica oggi. Principi da custodire, istituti da riformare, Contributi preparatori al Convegno promosso dall’associazione «Città dell’uomo» in collaborazione con «Aggiornamenti sociali», Milano, 21 gennaio 1995, supplemento a «Aggiornamenti sociali», n. 1, gennaio 1995.
Si fa qui riferimento in questa sede al dibattito sviluppatosi su questa questione nel corso della XII legislatura. Peraltro va ricordato che la proposta di dar vita a un’Assemblea Costituente come una delle possi-
bili vie per una riforma «forte» della Costituzione era stata già avanzata autorevolmente dal Presidente della Repubblica Francesco Cossiga nel messaggio alle Camere del 26 giugno 1991. Cfr. fra i diversi interventi di S. Romano soprattutto l’articolo Verso una nuova Costituzione, pubblicato su «La Stampa», 12 gennio 1995 e ora riprodotto in S. Romano, Tra due Repubbliche. L’anno di Berlusconi e le prospettive dell’Italia, Mondadori, Milano 1995, pp. 191 sgg., nonché Id.», Perché occorre un’Assemblea Costituente, ivi, p. 199. Di S. Romano, con particolare riferimento al dibattito dei primi mesi del 1995, cfr. anche Nor si può cambiare una rotella alla volta, intervista con L. Paolozzi su «l'Unità», 16 gennaio 1995. Cfr. fra i molti interventi di A. Panebianco su questo tema, specialmente l’articolo L’antidoto al rubamazzo, in «Il Corriere della Sera», 20 febbraio 1995; questo intervento è particolarmente esplicito nell’indicare i motivi contingenti e quelli di fondo che nei primi mesi del 1995 posero il tema dell’ Assemblea Costituente «all’ordine del giorno». Cfr. A. Pace, Se si vuole cambiare, Assemblea Costituente, in «La Voce»,
20 novembre 1994; sulla posizione di A. Pace, anche-con riferimento al contenuto dell’articolo ora citato vedi però anche quanto detto a nota 22. 31
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Cfr. A. Maccanico, Intervista sulla fine della prima Repubblica (a cura diDell’Erario e Scafuri), Laterza, Bari 1995. La prima volta nella quale il segretario del Pds D'Alema assunse una posizione non contraria all’ipotesi di una Assemblea Costituente fu nell’intervista a «l'Unità» del 15 gennaio 1995. Cfr. anche però l'intervento al seminario della Fondazione Gramsci il 18 febbraio 1995, in «l'Unità», 19 febbraio 1995. Peraltro, quando l’on. Iotti lancerà, il 21 febbraio 1995, la sua proposta per l’istituzione di una Commissione bicamerale (sull'intervento dell’on. Iotti cfr. nota 19, D'Alema, intervenendo ai
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microfoni di «Italia radio», dichiarerà di condividere quella proposta: cfr. A. Leiss, D'Alema «va bene una Commissione con poteri costituentiv, in «l'Unità», 22 febbraio 1995. In più di un’occasione, negli ultimi mesi del 1993, mentre era ormai evi-
dente che comunque il destino della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali era «segnato» e allo stesso tempo era difficile evitare lo scioglimento anticipato della legislatura l’on. Martinazzoli, all’epoca segretario della Dc, e poi, per due mesi, del Ppi, avanzò l’ipo-
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tesi che potesse essere utile trovare l’accordo su una fase costituente da aprire nella legislatura successiva. Peraltro l’on. Martinazzoli usò spesso nei suoi interventi una terminologia polisensa, parlando talvolta di «legislatura costituente», talaltra di «fase costituente», talaltra, infine, anche di una possibile «Assemblea Costituente». Come è noto, tuttavia, egli non giunse mai a formalizzare la sua ipotesi, che del resto non trovò - né in quella fase poteva trovare — alcuna reale possibilità di accoglimento. Fra i diversi interventi sul punto di F. Adornato cfr. l’articolo Ur pat to e poi alle urne, pubblicato su «la Repubblica» del 30 marzo 1995. Questo articolo, per quanto breve, consente di comprendere bene l’alternativa esistente in quel momento fra la suggestione dell’ Assemblea Costituente e la scelta di una via «ottodossa» alla revisione costituzionale. Dello stesso, e in un periodo precedente, quello cioè nel quale più fortemente si sviluppavano le suggestioni verso un’ Assemblea Costituente, cfr. anche F. Adornato, La via delle regole contro l'anarchia, in
«la Repubblica», 18 dicembre 1994. Cfr. A. Pace, La «naturale» rigidità delle Costituzioni scritte cit.; Id., Pro-
blemi della revisione costituzionale in Italia: verso ilfederalismo o il presidenzialismo? cit.. Quest'ultimo saggio appare di particolare interesse anche perché l’A., nella nota 12, ritornando sulla polemica accesa da un
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suo articolo dal titolo Se si vuole cambiare, Assemblea Costituente apparso su «La Voce» del 20 novembre 1994, precisa meglio le sue posizioni circa l'eventuale indizione di un’ Assemblea Costituente, chiarendo che egli considera questa ipotesi come una soluzione estrema, da sperimentare solo ove non fosse possibile procedere ex art.138 Cost., e condizionando comunque il potere dell’ Assemblea stessa almeno con un referendum popolare di indirizzo. Nei primi giorni del gennaio 1995, mentre era in corso la crisi del governo Berlusconi, il ministro Urbani fece circolare, sia pure senza formalizzarlo ufficialmente, il testo di una proposta di legge per la istituzione di un’Assemblea, da eleggersi con metodo proporzionale, alla quale sarebbe stato affidato il duplice compito di rivedere le leggi elettorali e di «revisionare» la seconda parte della Costituzione. Proprio per superare l’obiezione che un’ Assemblea Costituente avrebbe costituito una inammissibile «cesura» col passato e che comunque essa non avrebbe potuto operare senza delegittimare il Parlamento in carica, l’on. Urbani proponeva di chiamare quella da lui ipotizzata non Assemblea Costituente ma.solo Assemblea di Revisione costituzionale. La proposta di Urbani fu discussa anche nel corso di un seminario di studio tenutosi a Roma nei giorni 11-12 gennaio 1995, del quale è stato fatto un puntuale anche se «mascherato» resoconto da Effec, Ritorno a Filadelfia, in «Biblioteca della Libertà», 1995, n. 129. E ovviamente a questa «catena» si può aggiungere l’infelice sorte della
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Commissione Speroni, che ha concluso i suoi lavori quando ormai la crisi del governo Berlusconi era sul punto di aprirsi, con la conseguenza che il frutto del suo lavoro non è stato neppure oggetto di formale iniziativa legislativa governativa. Su questa vicenda specifica sia consentito rinviare alle considerazioni svolte da F. Pizzetti, I/ federalismo e i recenti progetti di riforma del sistema regionale italiano, in «Le Regioni», 1995, n. 2; nell’ambito di queste considerazioni sono presi in esame anche altri progetti di riforma presentati dalla Lega Nord subito prima (progetto di Genova) o subito dopo (iniziativa legislativa di revisione costituzionale del sen. Speroni e altri) rispetto alle conclusioni della Commissione Speroni. Cfr. anche F. Pizzetti, Federalismo cit. Fra i molti interventi sul punto di V. Zanone il più organico sembra restare quello pubblicato su «Biblioteca della Libertà» nel 1994. Cfr. V. Zanone, Come cambiare la Costituzione, in «Biblioteca della Libertà», 29, luglio-settembre 1994, n. 126, pp. 19 sgg. Cfr. nota 35. Peraltro Miglio nei primi mesi del 1995 si è dimostrato nettamente contrario alle proposte di Assemblea Costituente avanzate in quei giorni da più opinionisti e uomini politici (significativi in questo senso i già ricordati Romano, Panebianco e Urbani). Cfr. in particolare G. Miglio, L’Asserzblea Costituente è un inganno, in «Il Giornale», 1° marzo 1995.
Cfr. ad esempio, M. Cacciari e G. Miglio, Dialogo sul federalismo, in «Micro-Mega», 1994, I, pp. 7 Sgg.
Peraltro A. Barbera non sposa necessariamente l’ipotesi di un’ Assemblea Costituente, anzi pare considerare questa come una proposta che potrebbe essere «pericolosa se avesse come scopo quello di ricostituire un sistema sostanzialmente proporzionalistico e multipolare», mentre la considera una proposta che potrebbe essere utile ove si inserisse in un contesto di «legittimazione reciproca» dei due schieramenti e quindi di definitivo passaggio a un sistema bipolare consolidato. Cfr. A. Barbera, Non nemici, solo avversari. La competizione costruttiva, in «I De-
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mocratici», 1995, n. 1; questo fascicolo ha dedicato la rubrica «la questione» all’Assemblea Costituente, con interventi di S. Fabbrini, E. Balboni, A. Manzella, e S. Ceccanti. Di particolare interesse la posizione assunta da A. Manzella, che intitola il suo intervento Rivediamo la Costituzione in Parlamento. Sulla posizione di A. Barbera cfr. anche il dibattito fra A. Barbera e D. Fisichella su «Liberal», n. 5 del 1995. Fra i non pochi interventi dell’on. Fini sul punto di particolare interesse sono le dichiarazioni lui attribuite e virgolate in Ora Fini lancia la Costituente, in «la Repubblica», del 9 novembre 1994, secondo le quali, se si vuole cambiare la forma di Stato (era quello il momento in cui operava la Commissione Speroni), allora sarebbe comunque necessaria
un’Assemblea Costituente. Che questo sia sostanzialmente l’obiettivo che il sen. Miglio si propone lo dicono non solo le sue stesse dichiarazioni, che talvolta appaiono volutamente e oggettivamente molto «provocanti», ma anche i suoi stessi progetti di riforma istituzionale elaborati in forma di proposizioni prescrittive. Per quanto riguarda le prese di posizione di Miglio, al di fuori dei molti interventi di carattere «congiunturale», cfr. in particolare G. Miglio, Una Costituzione per i prossimi trenta anni, intervista sul-
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la Terza Repubblica a cura di M. Staglieno, Laterza, Bari 1990, saggio questo che conserva un notevole interesse perché non risale a tempi ormai non vicini, come è invece per la ricerca a suo tempo diretta da Miglio e intitolata «Verso una nuova Costituzione» (cfr. Gruppo di Milano, Verso una nuova Costituzione, Giuffrè, Milano 1981) ma risale pur sempre a un periodo precedente all’assunzione da parte di Miglio di ca-
riche elettive. Per quanto riguarda invece i suoi progetti istituzionali cfr. G. Miglio, Come cambiare: Le mie riforme, Mondadori, Milano
1993; sia consentito inoltre rinviare a F. Pizzetti, Federalismo, regionalismo e riforma dello Stato cit., e ivi all'esposizione del progetto di riforma costituzionale presentato da Miglio nel dicembre 1994. Cfr. inoltre: Norme istitutive dell’ Assemblea Costituente per una revisione totale della Costituzione (Senato, XII leg. n. 1640); Rotondi, Elezione di un’ Assemblea per la riforma della Costituzione (Camera, XII leg., n. 118); Ugolini e altri, Istituzione di una commissione costituente per le riforme istituzionali (Camera, XXI leg., n. 1644); Adornato, Istituzione di una Com4;(ri
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missione per la revisione della Costituzione (Camera, XXI leg., n. 1803). Oltre agli A. già citati ampiamente nelle note precedenti si veda anche C. Zironi, Per le revisioni costituzionali non « Costituente» ma quorum più elevato, in «Nuova Fase», 1995, n. 3, pp. 66 sgg. Per certi aspetti sembra muoversi in questo senso P. Barcellona, La co-
stituzione politica della società, in «Democrazia e diritto», cit., pp. 129 sgg.; di grande interesse, sul piano più generale della confutazione alla tesi dei limiti al potere costituente, di recente sostenuta in particolare da Dogliani, Forza dello Stato cit., è anche il già ricordato saggio di A. Cantaro, Costituzionalismo versus potere costituente?, pp. 139 sgg. In questo senso mi sento di condividere sia le osservazioni di P. Barcellona che quelle di A. Cantaro, Costituzionalismo cit. Sulla questione del potere costituente e del potere costituito e dei limiti dell’uno rispetto all’altro, oltre che sul piti ampio tema di cosa sia l’interpretazione della Costituzione e secondo quali «regole» vada fatta vedi ora V. Angiolini, Costituente e costituito nell’Italia repubblicana che sviluppa tesi in larga misura compatibili con quanto si cerca di sostenere nel testo.
Gustavo Zagrebelsky Verso una iperdemocrazia plebiscitaria ?
t. L'interesse per il tema della democrazia plebiscitaria nasce dal timore che nelle società democratiche di massa della fine del nostro secolo il plebiscitarismo sia una componente sicuramente esistente, forse
ineliminabile. Il problema che abbiamo di fronte è se si tratta di assecondare questa tendenza o, viceversa,
di contrastarla. Intendo affrontare questo tema dal punto di vista delle riforme costituzionali, tenendo presente che come giuristi, come costituzionalisti e come filosofi della politica dobbiamo preoccuparci dei rapporti tra plebiscitarismo e riforme costituzionali indipendentemente dallo schieramento che ottiene la maggioranza politica. I problemi che si pongono sono di ordine obiettivo: a noi sta a cuore un ordine costituzionale nel quale tutti possano vivere sicuri della propria esistenza, della propria identità, della propria garanzia e della propria sopravvivenza. Questa è, secondo Muntesquieu, la Libertà, la consapevolezza della propria sicurezza, ma nel nostro campo bisogna naturalmente aggiungere la consapevolezza della sicurezza politica. Quindi l’attenzione ai temi della riforma costituzionale prescinde da-
gli esiti delle vicende politiche ed elettorali, perché dobbiamo temere i pericoli che possono derivare da una parte o dall’altra, quali che possano essere le forze che in un futuro prossimo saranno destinate a prevalere nel nostro Paese. I costituzionalisti, per molto tempo, hanno tenuto
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un atteggiamento di estrema prudenza sulle riforme costituzionali, conforme anche al loro abito mentale di
un certo conservatorismo nei confronti della Costituzione. Ma forse anche perché è loro propria l’idea di una Costituzione che non serve a questa o quella stagione politica, ma è punto di riferimento di una vicenda costituzionale che va al di là dei singoli scenari, che unisce esperienze diverse, momenti diversi e generazioni diverse. Questo mi pare spieghi, in senso nobile, le resistenze alle riforme costituzionali che sono
venute dalla stragrande maggioranza dei costituzionalisti. Diciamo pure, se vogliamo essere un po’ polemici, da tutti i costituzionalisti non legati a interessi di partito. Detto questo sull’atteggiamento di sano conservatorismo costituzionale che ci dovrebbe animare, credo
che viceversa oggi dobbiamo porre con forza il tema della riforma costituzionale. Però, paradossalmente, a
questo proposito dovremmo forse usare non tanto la parola riforma, ma semmai la parola restaurazione costituzionale, nel senso che dobbiamo cambiare la Costituzione per salvaguardare i suoi contenuti, valori e funzioni essenziali. Mi spiego con un esempio semplicissimo. L'articolo 138 della Costituzione in materia di revisione della Costituzione conteneva in sé una garanzia del funzionamento del sistema politico a favore delle minoranze congeniale alla legge elettorale proporzionale. Con il cambiamento della legge elettorale verso un sistema maggioritario si è operata tacitamen-
te una revisione dell’articolo 138. Non una virgola nell’articolo è cambiata, ma si è superato il significato garantistico contenuto in esso: se noi, oggi, pensiamo
a una riforma dell’articolo 138, non è per innovare, ma per restaurare una garanzia.
La stessa cosa potremmo dire a proposito di tutte le altre norme della Costituzione previste in funzione di garanzia, la cui operatività oggi non è più conforme alle aspettative del momento in cui queste norme erano state approvate e inserite nella Costituzione. Quindi
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forse oggi è l’epoca dell’apertura alle innovazioni costituzionali; forse questo è un momento irripetibilmente favorevole, proprio per quella situazione di incertezza che esiste nello schieramento politico del nostro Paese e che può, nella incertezza di chi sarà il futuro vincitore, indurre entrambe le parti a predisporre delle garanzie nell’ipotesi che sia l’altro concorrente a prevalere. Si sta ricreando, in fondo, la condi-
zione in cui, almeno dal punto di vista politico, 1’Assemblea Costituente ha potuto operare. E molto pit incerto, invece, se si stia ricreando quella situazione
anche dal punto di vista dello slancio e dell’impegno civile di allora. In ogni caso, dovremmo intensificare i nostri sforzi. Dovremmo chiedere che non si vada alle prossime elezioni politiche prima di aver messo mano a qualche significativa riforma. Ricordiamo tutti che nella precedente legislatura era stato detto esplicitamente che non si sarebbe arrivati allo scioglimento delle Camere se le Camere stesse non avessero approvato la riforma elettorale conforme all’esito del referendum. Allora le Camere operavano secondo un mandato popolare e il presidente della Repubblica aveva detto: «Non vi scioglierò», malgrado la presenza degli inquisiti, perché non si può andare a votare senza aver operato una rifor-
ma della legge elettorale, secondo la volontà espressa dal corpo elettorale con il referendum. Se allora c’era un mandato da adempiere, oggi abbiamo una sentenza della Corte costituzionale, che ha
detto a chiare lettere che l’assetto del sistema radiotelevisivo in Italia non è conforme alla Costituzione. Questo di per sé getta un'ombra sulla legittimità delle precedenti elezioni, che si sono svolte con quel sistema. E questa ombra si prolungherebbe anche su nuove elezioni, se venissero condotte senza aver operato
una riforma equa che garantisca anche a tempi lunghi, in maniera più sostanziale, quella che si chiama un po’ volgarmente la par condicio, anche se non è solo questo il problema.
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Ma al di là di questi aspetti di garanzie minime
dell’attuale Costituzione, quali sono i problemi della democrazia che richiederebbero una riforma costituzionale intesa come «restaurazione» della Costituzione? Abbiamo l’abitudine di dire che le costituzioni sono uno strumento di organizzazione dei pubblici poteri e che sono degli strumenti di garanzia dei diritti. In effetti, le costituzioni sono nate storicamente come uno
strumento per assoggettare la politica, la vita politica, il conflitto politico a una regola giuridica, cioè per superare l'epoca, durata per molti secoli, nella quale in politica la ragione stava dalla parte del più forte e la forza era il criterio del «buon diritto». Le costituzioni sono sorte, viceversa, per «giuridicizzare» la vita politica: in vista di questi obiettivi, hanno preso in considerazione i modi di formazione e i modi di espressione del potere politico. Questo è appunto il primo fondamentale compito di una Costituzione. Da questo punto di vista credo che la nostra Costituzione presenti dei difetti, perché in questi anni, anche in tempi recentissimi, si sono manifestate delle forme della politica o del politico che la nostra Assemblea Costituente non aveva preso in considerazione. Non si tratta di fare un appunto a coloro che a suo tempo hanno elaborato la Costituzione: semplicemente, non esisteva l'oggetto, l’oggetto che oggi invece si è formato davanti ai nostri occhi.
Abbiamo visto svilupparsi, negli ultimi tempi, una serie di pratiche politiche basate su tecniche apparentemente democratiche, forse sotto certi aspetti troppo democratiche, che hanno avuto l’effetto di stravolgere l’assetto istituzionale cosî come era stato previsto. Queste pratiche fanno riferimento al sondaggio, all’uso politico del sondaggio, cioè al sondaggio come strumento di attività e di lotta politica. Il sondaggio sembra uno strumento democratico, perché consente, come si dice un po’ volgarmente, di percepire in tempo reale l’orientamento, i desideri, le aspirazioni dei cittadini. Il sondaggio serve dunque a
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mettere in contatto quotidiano gli uomini del potere con coloro che sono sottoposti al potere stesso. Sembra il trionfo della democrazia, sembra il modo per superare quei diaframmi che la democrazia rappresentativa certamente contiene in sé. Il punto da sottolineare è che i sondaggi non vengono utilizzati in funzione aggiuntiva o correttiva delle forme tradizionali della vita politica, ma spesso si cerca di utilizzarli in funzione sostitutiva. Vi sono decisioni politiche di grandissimo rilievo che vengono prese non perché il corpo elettorale, in una libera elezione, si è pronunciato in un certo modo, non perché in Parlamento c’è una maggioranza di un certo tipo, ma perché il popolo sondato sembra orientarsi in un modo o in un altro. Negli Stati Uniti si fanno guerre o si firmano trattati di pace sulla base di sondaggi (faccio riferimento agli Stati Uniti per dire che questo discorso non va chiuso provincialisticamente alla situazione della democrazia in Italia); negli Stati Uniti, in nome dei sondaggi, si mette a morte un uomo. Nel gennaio 1995 an-
che i giornali italiani hanno parlato della vicenda di un condannato a morte sulla base di prove poi rivelatesi inconsistenti. Questo signore, che certo non era uno
stinco di santo, è stato ugualmente sottoposto all’esecuzione della pena, perché a furor di popolo l’opinione pubblica sondata - ecco la democrazia in tempo reale, l’iperdemocrazia — aveva richiesto che si arrivasse a un esito di quel genere. Quel signore, di cui sarebbe bene venisse ricordato il nome, perché la sua storia è quasi paradigmatica dell’uso perverso dell’opinione pubblica come oggetto di sondaggi, è stato messo a morte non dalla giustizia americana, ma dalla democrazia americana o, meglio, dalla iperdemocrazia americana. Ecco l’importanza che i sondaggi hanno e avranno se non si prendono delle misure per porli sotto controllo anche nella vita del nostro Paese. Non a caso, le forme tradizionali della politica sono sottoposte auna minuziosissima disciplina giuridica, costituzionale e legislativa. Pensate al voto, al diritto di voto
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e alle elezioni, a quante norme giuridiche sono state prodotte per garantire tutti gli elettori, dall’articolo 48 della Costituzione alle leggi elettorali, alle norme sull’ineleggibilità, sull’incompatibilità, sulla propaganda elettorale, alla par condicio e cosî via. Di fronte alle tecniche di iperdemocrazia, queste regole sono invece totalmente assenti; quella che viene chiamata «sondocrazia» si svolge in un vuoto assoluto di regole, malgrado non si tratti di strumenti puramente recettivi, ma di strumenti che servono a in-
fluenzare profondamente la vita politica. Chi dispone un sondaggio ha un’arma che può diventare vincente per costringere organi costituzionali ad agire in un modo o in un altro, ma non esiste nessuna garanzia su co-
me i sondaggi vengono svolti. Le agenzie di sondaggio non rivelano in alcun modo i criteri attraverso i quali vengono formati i campioni. Talvolta sappiamo quali sono le domande, ma non sappiamo in base a quali criteri e come le domande vengono formulate, mentre è noto a tutti che, dal modo con cui le domande sono formulate, dipende molto spesso la risposta. E famoso l’esempio dei sondaggi paralleli svoltisi ne-
gli Stati Uniti a proposito della guerra del Viet Nam. In un caso la domanda era questa: «Volete voi che la nazione americana si impegni per la difesa della libertà in tutte le parti del mondo?», il 100% rispondeva di si, naturalmente; «Volete voi che gli Stati Uniti man-
dino delle truppe a combattere per la libertà in Viet Nam?» Qui la domanda incomincia a diventare un po’ più concreta e solo il 90% risponde di st; «Volete che a partire da domani le truppe vengano inviate?» si scende al 60%; «Volete voi che i vostri figli vengano arruolati e mandati nel Viet Nam?» e lf si scende al 20%. Influisce poi anche il momento del sondaggio. Se si fa un sondaggio sulla pena di morte, materia classica della sondocrazia, dopo un efferato delitto, è probabile che le risposte a favore aumentino. Se si facesse un sondaggio dopo che si è scoperto un errore giu-
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diziario, che ha comportato la condanna a morte di un innocente, è probabile che l’esito sia opposto. Non solo il momento del sondaggio, ma anche quello della pubblicazione dei risultati si prestano a essere utilizzati dalla sondocrazia. Se un sondaggio, da me commissionato, non mi è favorevole, nessuno mi ob-
bliga a renderlo pubblico. C’è una dichiarazione assai significativa di un esponente, molto noto, di una di queste agenzie di sondaggi, che in un’intervista su un giornale ha detto: «Noi abbiamo interessantissimi riscontri attraverso i sondaggi sull’atteggiamento degli italiani nei confronti degli extracomunitari». Alla domanda del giornalista: «Ah sî, ma quali sono ?», egli risponde: «Li tireremo fuori quando sarà il momento». Questo dimostra chiaramente che il sondaggio non è
uno strumento neutrale, ma serve a operazioni politiche. E ancora vicino a noi il ricordo dell’uso dei sondaggi per ottenere dal Capo dello Stato misure incisive sulla vita costituzionale, quale lo scioglimento anticipato delle Camere, richiesto a gran voce da una parte dello schieramento politico. La richiesta era corroborata da una serie di indagini campione, da cui sarebbe risultato che una strabocchevole maggioranza del popolo italiano voleva andare a votare immediatamente. Questi dunque sono strumenti che servono a influenzare la vita politica, non sono strumenti neutrali, ma il popolo non è chiamato ad agire politicamente attraverso il sondaggio. Nella democrazia il popolo è un soggetto capace di azione, capace di intervenire sui temi che presceglie. Il popolo deve essere capace di determinare il proprio ordine del giorno, di predeterminare gli argomenti su cui vuole esprimersi o sui quali vuole che i propri rappresentanti si esprimano. Ma nei sondaggi l’ordine del giorno non è nelle mani del popolo, nemmeno nelle mani dei suoi organi rappresentativi. L'ordine del giorno è nelle mani di coloro che promuovono il sondaggio. Gli strumenti classici attraverso i quali il popolo in una democrazia si rende capace di azione sono i parti-
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ti politici e i mezzi di manifestazione del pensiero, attraverso i quali il popolo è in grado di farsi sentire, di agire, di essere attore di politica, produttore di politica. Questo è il popolo della democrazia. Sappiamo che il popolo delle autocrazie è invece un popolo passivo, è un popolo che non agisce, che subisce. Il popolo della sondocrazia non è né il popolo che agisce, né il popolo che subisce, è semmai un popolo che reagisce. Il popolo reattivo è un popolo che se non viene stimolato è un corpo morto. L'immagine che mi viene in men-
te per descrivere questa situazione è quella della rana di Galvani, cioè un essere inanimato che si mette in
movimento quando qualcuno gli tocca due estremità con il polo positivo e il polo negativo. Questo è plebiscitarismo: il popolo che viene convocato per esprimersi e che può essere anche manipolato. Il presidente della Repubblica, parlando di tali questioni, ha definito la sondocrazia uno strumento politico immorale, perché esonera la classe politica dal compito di elaborare progetti, di proporre programmi su cui impegnare la propria responsabilità. In una sondocrazia perfetta i governanti possono presentarsi come
coloro che si limitano a seguire l'orientamento che proviene da coloro che sono oggetti del sondaggio. Questo è un modo per far sparire completamente una categoria fondamentale della democrazia rappresentativa, che è quella della responsabilità politica. Anzi potremmo perfino aggiungere che in una sondocrazia ben funzionante si sarebbe trovato il metodo del po- tere perfetto, perché i governanti sarebbero sempre in grado di orientarsi dove si spira il favore popolare. In democrazia la responsabilità si fa valere non rieleggendo più chi si è distaccato dalle nostre aspettative o chi non ha agito nel nostro interesse oggettivo. La sondocrazia invece dovrebbe garantire per l'appunto che questa divaricazione non si verifichi mai e che il governato non debba mai assumere una propria responsabilità. In ultima considerazione, la sondocrazia potrebbe fondarsi sullo slogan: «Viva la gente, abbas-
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so le istituzioni», perché vuole stabilire un rapporto diretto, immediato tra gli umori popolari, come si manifestano attraverso il sondaggio, e un interprete a livello politico, cioè un rapporto di consonanza continua, immediata, tra popolo rappresentato dal sondaggio e rappresentanti o governanti. Tutto il resto, tutta la tradizione secolare attraverso la quale si sono formate le istituzioni della democrazia come la conosciamo, fatta di istanze rappresentative, organi di controllo, organi
di mediazione, tutto questo viene vissuto come un appesantimento inutile, anzi dannoso. Manifestazione eloquente di questo fastidio per le istituzioni è rinvenibile a esempio negli atteggiamenti nei confronti del Consiglio Superiore della Magistratura e della Corte costituzionale. Il Csm esprime degli orientamenti che non sono conformi all’orientamento popolare. E quindi o si conforma, o se ne va. La Corte costituzionale, che ha avuto la dabbenaggine di pronunciare sentenze non conformi all’interesse della maggioranza - ma il compito della Corte costituzionale non è proprio quello di svolgere un controllo sulla maggioranza? — è stata accusata di fare un gioco antidemocratico. Infine anche il Parlamento è stato visto nella fase più recente come un ostacolo al ristabilimento di questo nesso di sintonia tra popolo, gente e classe politica. In sostanza l’ipervalutazione degli strumenti di cui ho parlato comporta il venir meno di una fondamentale garanzia del diritto costituzionale, cioè il diritto alla «durata» degli organi costituzionali. Non è vero che pit frequentemente si rinnova il Parlamento più è democratico. Il Parlamento è eletto e deve, secondo le concezioni classiche della democrazia, godere di un certo qual respiro, possibilmente fino alla fine
della legislatura.
È ovvio che su queste forme nuove di vita e di lot-
ta politica la nostra Costituzione del 1948 non dica una
parola. È un terreno che, invece, andrebbe non solo legificato, ma addirittura costituzionalizzato, nel senso di porre alcuni principi che le leggi ordinarie dovreb-
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bero poi svolgere, ma che non possono essere rimessi in discussione a seconda di chi vince e di chi perde.
2. Questo vale anche per il secondo punto da trattare, la questione della divisione dei poteri sociali. Siamo abituati a considerare la teoria della separazione dei poteri come qualche cosa che ha a che vedere con l’organizzazione costituzionale dei poteri politici, dando per scontata l’esistenza di una precondizione di ordine sociale all’equilibrio della vita politica. Naturalmente si potrebbe risalire alla filosofia politica classica e alla storia non di secoli, ma di millenni per spiegare tale precondizione. Mi limito a dire che questa precondizione sta nel fatto che in una società le tre essenziali funzioni sociali siano mantenute in un rapporto di reciproca, relativa indipendenza. Esse sono: la funzione economica, la funzione politica e la funzione ideologica (o culturale o anche di storia politica). In
fondo, questa visione della società basata su tre funzioni separate era ancora ben visibile in tempi relativamente recenti. Quando Luigi XVI ha convocato il Parlamento dell’antico regime a Parigi, dal quale è nata la rivoluzione, il Parlamento esprimeva in maniera abbastanza evidente questa visione tripartita di quella società. Una prima Camera comprendeva la nobiltà e la nobiltà era il luogo della forza politica organizzata. Alla nobiltà ci si rivolgeva quando si doveva allestire un esercito per una guerra. Qui risiedeva la funzione di governo intesa come funzione politica, il monopolio della forza pubblica. Inoltre esisteva la Camera del Clero, e il clero in quell’epoca era la categoria o il ceto sociale al quale era demandata la funzione ideologica, cioè la funzione rivolta al mantenimento dell’identità culturale di un popolo. Anche questa è una funzione fondamentale; quando viene meno, ci si chiede «chi siamo», se siamo ancora una nazione e nascono divisioni
profonde, che possono avere sbocchi tragici. La terza Camera comprendeva il Terzo Stato, cioè il ceto dei
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produttori, coloro che esercitavano la loro attività per la produzione dei beni materiali, di cui qualunque società ha necessità. Queste sono le tre funzioni sociali fondamentali, come sono definite tradizionalmente,
classicamente. Naturalmente la Rivoluzione francese ha fatto si che non sia più sostenibile questa visione tripartita delle società in senso premoderno. In ciascuno di noi c’è un pezzo di tutte e tre queste funzioni. Apparteniamo al governo della nostra società quantomeno essendo elettori, apparteniamo alla funzione ideologica, quantomeno nel senso che facciamo parte della opinione pubblica; in quanto non viviamo parassitariamente, svolgiamo anche una funzione economica. La Rivoluzione francese ha eliminato la divisione in ceti della società,
però l’idea trifunzionale della società non è scomparsa; la ritroviamo anche in Italia, quando accade ciò che è avvenuto negli ultimi tempi. Anche qui dobbiamo ragionare non pensando all’esperienza specifica, ma ragionando in grande, perché ciò che è avvenuto potrà ancora avvenire e non è detto che necessariamente av-
venga sempre dalla medesima parte. Insomma i rischi per la democrazia sono per cosi dire «a tutto campo». Nel nostro Paese è avvenuto che un soggetto, che aveva avuto successo, aveva acquisito forza e potere in
uno di questi ambiti, quello economico, perché era un grande imprenditore. Quindi aveva esteso o, meglio, aveva usato il potere acquisito come imprenditore per diventare un uomo potente anche nella sfera ideologica. Oggi l’ideologia non si fa più né nei grandi monasteri, né scrivendo dotti articoli sui giornali, si fa attraverso la televisione. Si è verificata un’estensione del potere da un ambito all’altro, anzi un’utilizzazione del potere acquisito in un ambito per acquisire potere nell’altro ambito: conclusivamente, potere economico e potere ideologico sono stati utilizzati per acquistare potere nel terzo ambito, quello politico. Questo è effettivamente uno stravolgimento fondamentale dell’idea dell’equilibrio, di cui nella nostra Co-
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stituzione e nelle costituzioni contemporanee resta ancora qualche traccia, anche se insufficiente. Per esempio, attraverso le norme costituzionali che riguardano la cultura, l’arte, la scienza, la scuola, vediamo che la
nostra Costituzione si preoccupa di stabilire delle cautele, delle garanzie di indipendenza. Ma tali garanzie non sono sufficienti. Il problema è infatti quello che oggi va sotto il nome del «conflitto di interessi»: si vuole evitare che in una medesima persona si sommino soggetti e interessi
propri di questi tre ambiti e che questo comporti un corto circuito. Si tratta, dunque, di dividere gli ambiti, impedire che il successo, il potere acquisito in un ambito venga strumentalizzato impropriamente in un altro ambito. Questo è un esempio macroscopico, ma il problema si è manifestato anche in altre situazioni, a esempio quando un magistrato utilizza il potere che ha acquisito in un ambito istituzionale particolare, quello della giustizia, per «scendere in politica». In termini giuridici tutto questo significa che dobbiamo riconsiderare il grande tema delle incompatibilità e delle ineleggibilità, che finora è stato relegato nei capitoli più tecnici del diritto costituzionale, come se attraverso questi strumenti si trattasse soltanto di pre-
munirci dalle ipotesi, che pure sono importanti, in cui il controllato corrisponde al controllore e cosî via. Attraverso questi istituti si tratta invece di ricostruire degli equilibri, che sono tanto sociali, quanto istituzionali. Da questo punto di vista la nostra Costituzione, rispetto ad altre costituzioni in vigore, è arretrata. C'è il bisogno di costituzionalizzare anche questo terreno. Il compito è tutt'altro che facile, proprio perché ciascuno di noi oggi è tanto politico, quanto uomo dell’economia e uomo della cultura. Tanto è vero che
quando in Parlamento si parla di riforme di questo settore si usano delle formule sfuggenti, per esempio si dice che non può essere uomo di governo, presidente del Consiglio o ministro, colui che detiene un potere eco-
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nomico rilevante nell'economia nazionale. Cosa vuol dire rilevante? Naturalmente sono formule che rischiano prima o poi, data la loro inconsistenza, di ria-
prire la questione sul piano politico e, quindi, di non risolvere il problema in termini giuridici. Rilevata questa difficoltà, mi sembra del tutto evidente che il problema è enorme ed è macroscopicamente essenziale per il futuro della nostra democrazia. Questo lo capiamo soprattutto in quanto si tenga pre-
sente che l’unificazione di poteri può, poi, unirsi alle tecniche della sondocrazia: a questo punto il regime plebiscitario sarebbe realizzato nella sua compiutezza.
di Senio citta
Nilde Iotti
Una proposta per le riforme istituzionali: la Commissione « Costituente»
Il primo tentativo di formulare un insieme organico di proposte di riforme è stato quello della Commissione Bozzi, istituita nella IX legislatura, che ha assolto essenzialmente a una funzione di studio. Nella XI legislatura è stata istituita la Commissione parlamentare per le riforme istituzionali, i cui poteri sono stati definiti con legge costituzionale che ha operato una deroga, seppur transitoria, al procedimento di revisione previsto dal dettato dell’art. 138. Scopo della Commissione bicamerale era quello di esaminare le proposte di legge in tema di riforme istituzionali e predisporre un progetto organico di revisione della seconda parte della Costituzione. Essa ha operato inizialmente come una Commissione di studio, in modo non dissimile dalla Commissione Bozzi, mentre nella seconda fase ha lavorato con i poteri di una vera e propria Commissione referente, composta però dai membri di entrambe le Camere. I lavori di tale Commissione sono stati, peraltro, resi assai difficoltosi e marcatamente influenzati nei ri-
sultati dalle vicende politiche e giudiziarie che investivano le forze politiche in quel periodo e l’anticipata conclusione della legislatura ha impedito l’esame del progetto di revisione da parte delle assemblee parlamentark, Occorre, a questo punto, riflettere sul significato anche politico di un dibattito sulle riforme istituzionali che risale a tempi assai remoti. A tale proposito occorre notare che nell’assetto isti-
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tuzionale elaborato dall’ Assemblea Costituente è possibile individuare alcuni elementi di quell’architettura costituzionale che apparvero in realtà fin dall’inizio antiquati e incapaci di far corrispondere l’azione dei pubblici poteri alle esigenze che emergevano nel Paese. Ecco perché la Commissione bicamerale ha lavorato in vista di alcune modifiche sostanziali della seconda parte della Costituzione riguardante appunto l’or-
dinamento della Repubblica.
E mia convinzione, e del resto della maggioranza delle forze politiche e di autorevoli esponenti del mondo accademico, che la prima parte della Costituzione contenga l’affermazione di alcuni principi che devono essere considerati come principi fondanti la Repubblica il cui rispetto e conservazione garantiscono il nostro si-
stema democratico: si tratta di principi e valori supremi, cosî definiti in una sentenza della Corte costitu-
zionale, che rappresentano tutt’oggi l’essenza del nostro ordinamento. Il principio della sovranità popolare, l’inviolabilità dei diritti dell’uomo, il principio di uguaglianza, il diritto al lavoro, il riconoscimento e la tutela del principio autonomistico, la sovranità e la reciproca indipendenza dello Stato italiano e dello Stato della Chiesa pongono la nostra Carta costituzionale all'avanguardia rispetto alle grandi costituzioni moderne. Tali principi hanno trovato un livello di espressione talmente alto che metterli in discussione significherebbe tradire lo spirito profondamente democratico che animò il lavoro dei costituenti. Concordo con chi ha affermato il carattere di straordinarietà proprio dell’ Assemblea Costituente, eletta a suffragio universale il 2 giugno del 1946, la prima della storia del nostro Paese, tanto auspicata dalle grandi correnti risorgimentali di Cattaneo, Balbo e Mazzini, che avevano invece ottenuto uno Statuto concesso «dal re ai suoi sudditi». E in quell’Assemblea c’era la storia d’Italia: penso soprattutto a Benedetto Croce. Per leggere i suoi scrit-
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ti anch'io avevo dovuto chiedere l’autorizzazione al podestà fascista. Quando si parla del fascismo si pensa istintivamente agli assassinii, al carcere e all’esilio, ed
è vero che il fascismo sia stato soprattutto questo. Ma è anche stato oppressione e coercizione dell’intelligenza, della cultura e del confronto, tutto ciò che
è fondamentale per formare l’anima di un popolo, la sua coscienza.
In quell’Assemblea c’era, dunque, la storia d’Italia: Croce, Orlando, il presidente della «vittoria», Nitti,
Einaudi. C’erano anche i notabili del partito di don Sturzo, quelli che avevano fondato il Partito Popolare, Caristia, professore dell’Università di Messina. Ma c'erano anche gli uomini che erano stati perseguitati dal regime, costretti a un lungo e doloroso esilio: De Gasperi, Piccioni, Nenni, Togliatti e Longo re-
duci dalla grande prova della lotta antifascista. Eletti a far parte di quell’ Assemblea c’era anche un nutrito gruppo di giovani, fino al giorno prima impegnati nelle formazioni partigiane, che avevano condotto la guerra di liberazione del Nord d’Italia e quelli che si erano tenacemente battuti nelle lotte per l’assegnazione della terra nel Mezzogiorno. Erano quindi rappresentati tutti i maggiori protagonisti della storia politica e sociale del Paese. L’incontro fra le componenti marxista, cattolica e liberale della società costituisce un risultato straordinario di cui essere soddisfatti: quelle correnti presenti e vive nella società e rappresentate nell’ Assemblea alla fine trovarono un’espressione unitaria e omogenea che fu tradotta nel testo della nuova Costituzione. Questo è il dato qualificante che occorre sottolineare dei lavori della Costituente. Ritornando alle scelte dell'assetto istituzionale bisogna sottolineare che per esempio la scelta del bicameralismo perfetto apparve subito non adatta ad assicurare quella funzionalità ed efficienza dei lavori parlamentari che pure in altre democrazie era stata per-
seguita con ottimi risultati. Attribuire gli stessi poteri
di
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alle due Camere rese fin dall’inizio il lavoro legislativo lungo e pesante. La mancata diversificazione dei ruoli delle due Camere ha prodotto indiscutibilmente un appesantimento dei lavori e ha influito negativamente anche sulle scelte legislative di merito che arrivavano in ritardo rispetto ai cambiamenti che, nel frattempo, intervenivano nella comunità sociale, determinando un distac-
co fra le istituzioni e il popolo sempre maggiore. Di qui un dibattito sempre vivo nelle istituzioni e nel mondo accademico per attribuire un ruolo diversificato ai due rami del Parlamento. L’istituzione della Commissione bicamerale aveva acceso molte speranze sulla possibilità che questa volta si sarebbe potuto porre mano a radicali modifiche non solo del bicameralismo ma anche di alcuni meccanismi insiti nella forma di governo parlamentare e dei
rapporti fra Stato e Regioni in nome di un nuovo federalismo «solidaristico». Le vicende delle inchieste giudiziarie sulla corruzione di alcuni partiti, tangentopoli, la scottante questione dei rapporti fra mafia e politica e la cosiddetta questione morale che si è aperta conseguentemente nel Paese, ha indotto le forze politiche a ritenere che fosse opportuno accantonare la via delle riforme per dedicarsi esclusivamente alla modifica della legge elettorale che sancisse il passaggio a un sistema
maggio-
ritario favorendo la formazione di due poli contrapposti, e in effetti abbiamo assistito a profondi cambiamenti nella classe dirigente e nei maggiori partiti di governo. La crisi dell’alleanza di governo, costituito dopo la vittoria del cosiddetto Polo delle Libertà, ha aperto un’ulteriore fase di scontro fra le forze politiche sulla necessità, da qualcuno considerata costituzionale, di andare a elezioni anticipate. Si diceva che, in un sistema maggioritario, la rottura della coalizione vincente che governa comporta il ricorso a nuove consultazioni elettorali. Si è quindi tentato di sostenere la coinci-
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denza fra la durata del governo in carica e la vita del Parlamento. Ora le vicende interne alla coalizione di governo, nel caso particolare la spaccatura tra la Lega e i partiti di Forza Italia e Alleanza Nazionale, non possono influenzare automaticamente la durata delle Camere il cui scioglimento anticipato rappresenta, peraltro, un atto di prerogativa del Capo dello Stato. Le dimissioni del Governo Berlusconi sono state presentate spontaneamente durante il dibattito parlamentare sulle mozioni di sfiducia quando il presidente del Consiglio ha potuto constatare che non aveva più una maggioranza in Parlamento. Il passaggio al sistema maggioritario non ha diminuito né i poteri del presidente della Repubblica né il ruolo e le funzioni attribuite al Parlamento. In un sistema a Costituzione rigida per modifiche di questa portata esiste una procedura di revisione costituzionale che non può non essere rispettata. Si pensi, al riguardo, che i costituenti, nell’intento di rafforzare tale principio, avevano anche discusso, su proposta di Paolo Rossi, dell'opportunità di sciogliere le Camere in caso di approvazione di modifiche costituzionali perché fosse il popolo a esprimersi attraverso il suffragio universale. Le nuove Camere avrebbero poi dovuto ridiscutere la modifica costituzionale. Mortati, intervenendo, in quel delicato dibattito, riteneva che dovessero essere tre i protagonisti del procedimento di revisione costituzionale: Parlamento, Go-
verno e Popolo. Egli proponeva perciò la procedura «aggravata» che oggi è prevista nel dettato dell’art. 138: doppia deliberazione di ciascuna Camera a intervallo di tre mesi; referendum popolare se la proposta di legge costituzionale non viene approvata con la maggioranza dei due terzi dell’ Assemblea, quando la consultazione popolare sia richiesta da un quinto dei componenti di una Camera, da 5 Consigli regionali o da 500 000 cittadini. Nel passaggio dalla II sottocommissione all’Assemblea plenaria scompare il termine «Governo» dal testo dell’art. 138, rendendo ancora pit
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esclusivo del Parlamento il potere di revisione costituzionale. Tornando alla questione dello scioglimento anticipato, chiesto a gran voce dal Polo delle Libertà, credo
che si tratti di un attacco pesante al dettato costituzionale che come già è stato ricordato, attribuisce tale decisione al Capo dello Stato «sentiti i presidenti delle due Camere». Occorre diffondere nel Paese una conoscenza consapevole di queste regole, affinché la maggioranza dei cittadini non resti vittima di una propaganda ingannevole su questioni che non devono lasciare dubbi: il voto del 27 marzo non ha rappresentato una scelta inderogabile per la coalizione di governo, tantomeno non si è scelto per un presidente del Consiglio inamovibile. Chi sostiene il contrario, dichiarando che con il cambio del governo si sia scippato il voto degli italiani, dice qualcosa di efficace dal punto di vista della propaganda e della tattica politica, ma assolutamente privo di fondamento nella realtà e nelle norme costituzionali. Occorre quindi continuare a difendere i principi espressi dalla Costituzione che è tuttora vigente nel suo complesso, contrastando l’idea di una Costituzione «reale» diversa, e agire semmai per il completamento di quelle riforme istituzionali che garantiscano la tenuta dell’assetto democratico nel nostro Paese e la credibilità istituzionale anche sul piano internazionale. Tali riforme debbono essere formulate e discusse da tutte le forze politiche presenti in Parlamento: occor-
rerebbe perciò procedere rapidamente all’istituzione, con legge costituzionale, di una Commissione «costituente» eletta su base proporzionale non in relazione ai seggi ottenuti ma ai voti dei singoli partiti con la quota proporzionale del 25% prevista dalla nuova legge elettorale delle Camere. Le forze politiche debbono trovare una convergenza sui punti essenziali su cui indirizzare il dibattito in Parlamento. La legge costituzionale potrebbe essere ap-
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provata nello scorcio finale di questa legislatura, affinché i lavori possano utilmente iniziare subito dopo le elezioni politiche. E indispensabile muoversi su queste direttive per eliminare le legittime preoccupazioni espresse in sede politica e istituzionale sui rischi delle tenuta della nostra democrazia.
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Storia e letteratura
Adriano Ballone Una proposta didattica
Questione di metodo. Chi insegna storia ai giovani conosce il grado di difficoltà che questo comporta: chi insegna storia si imbatte, non solo oggi, ma oggi più di ieri, in problemi non semplici né semplificabili. Le difficoltà non nascono solo dalle indifferenze e dai rifiuti degli alunni: cioè non sono solo di carattere psicologico, sono anche di ordine epistemologico e concettuale, culturale e narratologico. Molte asprezze si concentrano in una «lezione» di storia a scuola. Possiamo richiamarne alcune ricorrendo a un esempio. Quando lo storico scrive che una data società «passa dal modello di famiglia patriarcale a quello nucleare», formula un convincimento che è anche la sintesi «compromissoria» di un lungo dibattito e di un altrettanto lungo scavo documentario sulle fonti. Un ulteriore apporto documentario può arricchire quel convincimento, ma può anche modificarlo radicalmente: tutto ciò fa parte di una incertezza epistemologica che è anche una cautela ideologica. Tempo fa infatti avremmo letto quella affermazione con un tono compiaciuto: ritenendo quel passaggio da un tipo di famiglia ad un altro un segno di «progresso». Cosî non è più oggi,
quando l’incertezza epistemologica ci costringe ad una salutare umiltà nel giudizio di valore: non confondiamo il punto di vista analitico con quello etico, o almeno siamo più consapevoli dell’interazione dei due punti di vista e della loro parzialità. Siamo più consapevoli dei margini di imprecisione nelle attestazioni documentarie, nelle definizioni concettuali, nell’individua-
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zione di nessi causali. Sappiamo che quella formula rappresenta anche un rischio scientifico e talvolta un azzardo: indispensabile però per definire o meglio precisare i contorni del nostro contrastato passato. Com'è possibile trasferire questa problematicità scientifica nell’insegnamento storico ?Questa è la difficoltà. Che diventa più ardua poiché deve confrontarsi anche con i dislivelli e le cesure nei passaggi di informazione dall'emittente al destinatario. Come è possibile far interagire positivamente, cioè senza penalizzare l’uno o l’altro dei due termini, la tensione scientifi-
ca della ricerca storica con l’inevitabile semplificazione - quasi una divulgazione - didattica? Come possiamo «visualizzare» (ad allievi che sicuramente hanno ma-
turato il passaggio dall’«astratto» al «concreto», ma non posseggono le informazioni contestuali utili per comprendere appieno il significato e le implicazioni della formula astratta e
«compromissoria») il contenuto
dei concetti storici? Visualizzare, in questo caso, significa anche distinguere e differenziare: segnalare i modi diversi di essere «famiglia patriarcale» o «famiglia nucleare», a seconda dei contesti di riferimento, dei vincoli istituzionali e culturali, dell’organizzazione produttiva e della strutturazione sociale. Inevitabilmente occorre «entrare» nel dettaglio: e a questo punto si avverte l’esigenza di un confronto con la fonte documentaria. Che in classe è assai problematico. Eppure indispensabile se l’obiettivo dell’insegnamento non è solo di trasmettere certezze strutturate (e parziali comunque, del tut-
to opinabili), ma anche di praticare un metodo di ricostruzione del passato e, più correttamente, di padroneggiare le specificità del «pensare storico». Sono questi infatti i suggerimenti delineati dalla proposta di riforma dei programmi curriculari formulati dalla Commissione Brocca per l’istruzione superiore e dalle riforme della scuola elementare e media inferiore. Dalla prima e dalle seconde, opportunamente, proviene l’invito agli insegnanti a un uso pit diffuso e ac-
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corto delle fonti documentarie e non in esclusiva funzione esplicativa del testo manualistico o del racconto
storico.
Il ricorso alla fonte documentaria d’archivio in classe è però un suggerimento spesso improponibile sotto molti riguardi: per il tempo che richiede, per le mancate competenze del docente, per l’esercizio filologico e interpretativo necessario.
Ritengo che la fonte letteraria - romanzo o testo poetico — possa rappresentare uno strumento efficace, sostitutivo, ma altrettanto problematico, della docu-
mentazione d’archivio: per certi aspetti sono richieste analoghe operazioni di inserimento in un contesto, di esplicitazione delle intenzionalità, anche di riconoscimento delle specificità testuali. Segni, indizi, spie sono presenti nell’uno e nell’altro tipo di documentazio‘ ne. Cosî l’indagine filologica sul testo narrativo può davvero diventare una propedeutica del lavoro storico. E meglio ancora per la storia contemporanea per la cui ricostruzione la fonte d’archivio risulta spesso inaccessibile o «silenziosa». Molti romanzi, a esempio, trat-
tano di nuclei familiari — estesi, patriarcali, ristretti descrivono le relazioni interne, le gerarchie, i ruoli, i
conflitti, li situano in un contesto storico locale: queste stesse informazioni lo storico può raccogliere attraverso un lungo scavo d’archivio, ma alla didattica storica può risultare più vantaggioso sfruttare un per| corso semplificato, anche se non meno rischioso. Il romanzo o la fonte narrativa è comunque un tentativo di trascrizione della realtà, di interpretazione e di peda| gogia. Le avvertenze e le cautele che occorre mettere in |campo sono molte: il gioco mimetico della letteratura va decostruito con attenzione, evitando una lettura realistica e ingenua del racconto. Questo stesso lavoro però rappresenta un sicuro esercizio di filologia storica. Il carattere interdiscipli-
‘nare dell’operazione potrebbe tradursi anche in un vantaggio per lo stesso insegnamento della letteratura.
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Con questo intento si propongono le pagine succes-
sive: non sono di storia della letteratura italiana - molte assenze possono essere rilevate e anche di nomi noti - e neppure di metodologia storica. Si offrono solo come primo, esemplificativo suggerimento di un percorso didattico possibile su alcuni nodi tematici della nostra storia più recente. Altri percorsi si possono ten-
tare e con altri indici bibliografici: ognuno di questi percorsi svela preferenze individuali. Non dannose in questo caso, purché si conformino all’obiettivo di modellare un possibile percorso, un’area di progetto, insieme di metodologia e di conoscenza. Il lungo dopoguerra. Pressoché in tutti i Paesi europei in anni recenti si
è registrata una ripresa di studi e di ricerche storiche sul conflitto mondiale e sul dopoguerra: secondo sollecitazioni locali e autonome e modalità specifiche per tradizioni e scuole storiografiche. In ogni caso si tratta di una ripresa sintomatica del disagio degli storici per letture e interpretazioni considerate a lungo soddisfacenti. Non è estranea a questa ripresa di indagini la sorprendente evoluzione politica della fine degli anni Ottanta, che ha costretto a rifocalizzare domande e a decentrare gli abituali punti di vista. Un analogo percorso ha contraddistinto la storiografia italiana: all’incirca negli stessi anni il periodo tra la fase finale della guerra e il «lungo dopoguerra» è stato rivisitato e in parte ridefinito. Un gruppo di lavori, comparsi in tempi ravvicinati, possono essere richiamati: da G. C. Marino a C. Pavone, da E. Di Nolfo a G. E. Rusconi. Alcune caratteristiche segnalano il diverso modo di ap-
procciarsi alla questione: la periodizzazione distesa (dal 1943 alla metà degli anni Cinquanta); l’attenzione pet le condizioni di vita della popolazione e talora per i destini individuali; la riformulazione degli interrogativi | sui rapporti tra popolazione e istituzioni. Come esemi
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plificativi di questa nuova stagione storiografica possono essere citati il numero monografico de «Il Ponte» (1995) dedicato al biennio 1943-45 e quel primo volu-
me della Storia dell’Italia repubblicana (Einaudi, Torino 1995) che si propone di «fornire un primo tentativo di sistemazione dei contributi esistenti e al tempo stesso di presentazione di nuove ricerche». Rispetto agli approcci storiografici precedenti, si tratta di un vero e proprio mutamento di paradigma interpretativo. É questo può essere considerato il vero dato nuovo del modo di interrogarsi degli storici sulla identità della società italiana, sui mutamenti e sulle persistenze che la connotano. Nuovo perché non è questa la prima volta che essi affrontano il nodo della storia italiana contemporanea. Periodicamente sono tornati a rinnovare la riflessione, anche se con molte cautele
che nascevano sia dall’insegnamento crociano autorevole nel rifiutare l’indagine storica sul presente, poiché di eccessiva prossimità alla politica e di limitato spessore prospettico, sia dalle oggettive difficoltà nell’accesso alle fonti documentarie, al loro uso e alla loro rigorosa contestualizzazione. A differenza, infatti, che in altri paesi — gli Stati Uniti rappresentano sotto questo profilo un esempio invidiabile — in Italia la legislazione sull’accesso alle fonti, oltre che complicata e farraginosa, tende piuttosto ad impedire che a favorire un uso esteso e democratico della documentazione recente: per questa e per altre ragioni, una sorta di comprensibile pudore coglie lo storico quando si accinge a trattare dell’oggi o dell’immediato passato, dovendo per lo pit
ricorrere a fonti di seconda e indiretta mano. La maggiore disponibilità di documentazione d’archivio è certo una delle ragioni che ha consentito uno | sviluppo assai rapido delle ricerche sulla vicenda con| temporanea. Ma non è stata l’unica, né la decisiva. Di volta in volta hanno agito anche riformulazione delle
domande e nuove letture: che a questo non sia estraneo l’influsso della narrativa non è, allo stato attuale,
accertabile, forse neppure però aprioristicamente in-
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concepibile. L'ipotesi è plausibile se si tiene conto non solo della tempestività con la quale la narrativa indaga
sul presente, anche della «sensibilità» con la quale percepisce e descrive eventi e situazioni, caratteri e fisio-
nomie. La fase finale della guerra e il lungo dopoguerra rappresentano un buon terreno di esercitazione per quell’ipotesi. Malgrado la rigidità delle chiusure accademiche, quasi all’indomani stesso della conclusione della guerra, alcuni storici avevano intrapreso ricerche sul periodo resistenziale: Piero Pieri, dell’Università di To-
rino, con studi su Bianco di Saint Jorioz, teorico della «guerriglia», sul rapporto tra partigianato e territorio piemontese, su formazioni partigiane; Leo Valiani, che
si va affermando come storico del movimento operaio e socialista; Giorgio Vaccarino, con un lavoro sugli sciopeti operai del 1943; Aldo Garosci, studioso dei Rosselli. Cosî il volume di R. Battaglia (Storia della Resi-
stenza italiana, Einaudi, Torino 1953) — e destinato a restare per un paio di decenni l’unica opera di sintesi della storia di quel biennio cruciale - può essere considerato come il primo punto d’arrivo di tutta una fase di ricerche, svolte quasi esclusivamente però sugli aspetti militari, ideologici, politici. Certo, ricerche ai margini rispetto alla storiografia accademica e in gran parte tese ad ottenere il riconoscimento istituzionale: si spiega anche con questa ragione la ribadita lettura della Resistenza come «secondo Risorgimento» 0 come momento conclusivo del processo risorgimentale. Non è assente tra gli storici, che discutono di Risorgimento in quegli anni e soprattutto in occasione di «intervenire sul presente», come ha scritto E. Garin: e ne è un indizio il lavoro di F. Chabod, accademico che al
movimento di liberazione ha dato un suo Non diversamente sarà per G. Spadolini, L. Salvatorelli, A. Garosci. Nel complesso rici di professione, sino alla fine degli anni
contributo. W. Maturi, però gli sto-. Cinquanta,
si avvicinano con riluttanza alla storia del fascismo, del-
la guerra, della Resistenza.
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Un materiale invece abbondante, vivace e colorito
offrono i letterati: la stagione del neorealismo si è connotata per lo sforzo considerevole di descrivere una realtà sociale e culturale per lo pit allora ignorata. Al neorealismo si possono muovere molte critiche e con fondamento: d’essere stato, per certi aspetti, populistico e demagogico, per altri pedagogico e ideologizzato; di non aver saputo risolvere in modo equilibrato il conflitto tra moduli di scrittura e interpretazione del reale; di non essere estraneo a forme di ambiguità ideologica; di aver incentivato conformismi letterari. Purtuttavia, ad una lettura attenta, queste opere offrono
ricco materiale di analisi sotto forma di indizi di un clima culturale, di spie di una condizione di vita collettiva, di puntuali dettagli sulle relazioni sociali, parentali, amicali. Si prenda a esempio l’interessante racconto di Beppe Fenoglio, La paga del sabato (Einaudi, Torino 1969). Vi è narrata la vicenda di un giovanissimo ex pattigiano ritornato alla vita civile, ricollocato nei rapporti di sudditanza all’interno della famiglia, che mal si adatta alla perdita dell’autonomia raggiunta a prezzo di un rischio costante di vita e alla deresponsabilizzazione propria della sua condizione di figlio non sposato e disoccupato. La vicenda è già di per sé illuminante circa la condizione giovanile, cosi come getta luce sulle resistenze delle popolazioni a riconoscere il valore politico e storico di quel movimento di liberazione di cui conoscono intimamente i protagonisti. Ne fanno un’ope-
ra utile sotto il profilo documentario anche la realistica descrizione di luoghi e situazioni, del rapporto sfumato tra agricoltura e piccola industria ai confini dell’artigianato, dei dettagli di vita quotidiana nel dopoguerra, del ruolo centrale delle madri nell’organizzazione della vita famigliare, delle tensioni tra genitori e figli, dell’importanza delle osterie come luoghi di socializzazione maschile. La Resistenza è pur sempre al centro dell’attenzione di Fenoglio, sebbene qui di riflesso, poiché descritta nella fase di transizione alla vita
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«normale». E meglio cosî si misurano le reali aspettative dei partigiani per il dopo nel corso dell’esperienza di guerra. Fenoglio è però solo uno degli scrittori, anche se tra i più dotati di mezzi di analisi e di padronanza degli stilemi letterari, che si cimenta con uno scavo, a volte impietoso, per nulla agiografico o retorico, nella tragedia della guerra, nella vicenda partigiana e resistenziale, nella stagione del dopoguerra. Oltre al Calvino de I/ sentiero dei nidi di ragno e di Ultimo viene il corvo e al Pavese de La casa în collina,
onesta confessione di un intellettuale restio a passare all’azione politica e militare, una numerosa schiera di narratori traggono spunto, più o meno felice, da una vicenda grandiosamente confusa, turbolenta, tragica
qual è quella della guerra e del passaggio alla normalità: a prescindere dal valore letterario di queste opere, dalla riuscita della resa artistica e dalle predilezioni ideologiche degli autori, si tratta di testi che possono rappresentare oggi non infruttuosamente una fonte documentaria, anche perché portano sul piano natrativo storie che solo la memorialistica, in quegli anni, prende di petto. In Pazze duro, a esempio, di Silvio Micheli (Einaudi, Torino 1946), romanzo enfatico e sfor-
zato, i temi della condizione operaia di fabbrica e del problematico reinserimento nella vita civile del reduce dai campi di concentramento e dalla guerra anticipano percorsi di ricerca storica successivi. Cosî come i due romanzi di Angelo Del Boca (Dentro wi è nato l’uomo e L’anno del giubileo, entrambi Einaudi, Torino
1948), a prescindere dal tono scopertamente moralistico, documentano e non senza efficacia la violenza
del periodo: non da ultima quella sorta di isolamento, di incomprensione e di disprezzo in cui si trova immersa la famiglia meridionale trapiantata al Nord. A Oreste Del Buono dobbiamo due romanzi che affrontano, l'uno, Racconto d’inverno (Ed. Uomo, Milano 1945) il ritorno in Italia di un reduce dai campi di lavoro in Germania, l’altro, La parte difficile Mondadori, Milano 1947), il rientro di un prigioniero di guerra
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e il suo difficile reinserimento. Rispetto alla memorialistica il racconto d’invenzione ha il vantaggio di proporsi una descrizione differenziata di situazioni: non è un caso che alcuni dei migliori racconti ci giungano da scrittori che diverranno poi storici, come avviene ad esempio per Giampiero Carocci con I/ campo degli ufficiali (Einaudi, Torino 1954). Sulla prigionia in mani angloamericane due pregevoli opere ha dato Sergio Antonielli: I/ Cazzpo 29 (Ed. Europee, Milano 1949) e La tigre viziosa (Einaudi, Torino 1954). Cito questi autori, estraendoli da un cospicuo numero, per segnalare come percorsi di lettura siano possibili anche oltre i nomi ampiamente noti di Primo Levi, di Renata Viganò, di Elio Vittorini; ma anche per sottolineare come la narrativa, che si richiama in varia
misura al neorealismo, abbia saputo anticipare, rispetto all’indagine scientifica, sguardi e temi sulla società italiana: come è il caso appunto della tragedia della deportazione nei campi di sterminio o della prigionia sotto mani tedesche o angloamericane; (Luigi Collo, La
Resistenza disarmata. La storia dei soldati italiani prigionieri nei lager tedeschi, intr. di N. Revelli, Marsilio, Ve-
nezia 1995); della sconfitta militare italiana in Africa, in Jugoslavia, in Albania, in Unione Sovietica (M. Cancogni, La linea del Tomori, Einaudi, Torino 1965; R. Lunardi, Diario di un soldato semplice, ivi 1952; G. Berto, Guerra în camicia nera, Garzanti, Milano 1955; M.
Terrosi, La casa di Novach, Feltrinelli, Milano 1956; F. Gambetti, I zz0rti e i vivi dell’ Armir, Cultura sociale, Roma 1953; M. Cecovini, Ritorno da Poggio Boschetto; La Voce, Firenze 1954); della centralità, nella coscienza collettiva e negli sviluppi storici successivi, dell’8 settembre (R. Doni, Soldato 1943, in Faccia a faccia, Casini, Firenze 1964; E. Corti, Poveri Cristi, Gar-
zanti, Milano 1951); dei conflitti e delle laceranti scelte personali operate pit su spinte esistenziali che ideologiche o politiche (sul clima psicologico degli ultimi mesi di guerra Giovanni Comisso ha scritto Gioventi che muore, Milano-Sera, Milano 1949).
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Soprattutto la narrativa mediava il grido di disperazione di un Sud che la guerra toglieva da un secolare isolamento: nel corso stesso della guerra (1944) era stata pubblicata la Cronachetta siciliana dell'estate ‘43 (Sandron, Roma) di Nino Savarese in cui la tragedia
della guerra raccontata era quella dell’ultima campagna prima dell’armistizio, la campagna di Sicilia: vi si raccontava la fame della popolazione, il terrore degli sfollati, la paura per gli alleati, la violenza dei bombardamenti, ma anche l’impatto culturale ed emotivo che i militari americani, «ben calzati tra gli scalzi, spensierati fumatori tra forzati astemi, divoratori di scatole
tra quelli che si nutrono di solo pane», avrebbero provocato tra i siciliani, quasi sintomo di un ordine tradizionale che la guerra stava sovvertendo. Uno dei più bei racconti sulla guerra, questo di Savarese, in cui l’ansia della documentazione immediata, propria del neorealismo, raggiunge risultati interessanti, inserendosi in una tradizione di letteratura meridionalistica che talvolta diventa ripetitiva e conformistica nella denuncia dei «mali» del Mezzogiorno italiano e talaltra riesce a mostrare il volto nascosto di una realtà sociale a lungo incompresa. Un quadro doloroso e intenso è quello che i narratori dipingono del Sud attraversato dalla guerra: da Curzio Malaparte (con Kaputt, Casella, Napoli 1944 e La pelle, Aria d’Italia, Roma - Milano 1949) a Domenico Rea a Edoardo De Filippo. Se al Nord una «resistenza» complessa e articolata - di cui B. Fenoglio con Una questione privata e Il partigiano Johnny e L. Meneghello con I piccoli maestri ci daranno una immagine ricca di sfumature - è l’evento che segna la memoria, al Sud lo sarà il passaggio dei «liberatori», che modifica antiche sudditanze, ma altre ne crea, che stravolge un tessuto sociale arcaico, ma quasi sempre lascia solo il vuoto. i Il meridionalismo politico del dopoguerra troverà negli scrittori del Sud un costante punto di riferimento: il Meridione rimane, ancora per tutti gli anni Sessanta, il grande bacino d’ispirazione del neorealismo.
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In particolare lo sarà la condizione contadina, alla quale gli scrittori guardano spesso con approccio populistico, ma non privo di profonda pena e partecipazione. Si pensi ad esempio alle prime prove di Ignazio Silone o a quel Cristo si è fermato a Eboli (Einaudi, Torino 1945) di C. Levi, che ebbe subito immediata fama: l’idealizzazione di un presunto primitivismo contadino o il barocchismo stilistico non impediscono alla narrazione di essere anche indagine sociologica e antropologica sulla vita contadina del Sud. I ritmi del lavoro, della fatica e del riposo, le gerarchie della piccola comunità, il ruolo del clero, le aspettative giovanili, i
tentativi di rottura degli equilibri antichi emergono spesso dalla cruda descrizione dei fatti, anche quando rivestita da toni favolistici o atemporali o pervasa da una amarezza e da un pessimismo paralizzante. Di «questo» Sud gli storici (da R. Romeo e M. Rossi Do-
ria a P. Bevilacqua e A. Massafra) e gli antropologi (da E. De Martino a A. M. Cirese) cominceranno a interessarsi, si potrebbe dire, quasi solo quando la modernizzazione degli anni Sessanta lo avrà sconvolto e quasi sommerso, Ai romanzi di Fortunato Seminara, di Sa-
verio Strati, di Aldo De Jaco, di Giuseppe Bonaviri, di Mario Schettini, di Carlo Montella, del primo Sciascia (autori che riprendono la tradizione di Alvaro, Jovine, Brancati) ci si potrà rifare per una lettura tutt'altro che superficiale, non folkloristica e non agiografica della vicenda meridionale nel dopoguerra. La crisi del neorealismo è anche la crisi della letteratura meridionalistica quasi disorientata dalla rapidità e profondità della trasformazione in atto dagli anni Sessanta: alla amarezza e al pessimismo paralizzante della Scala di San Potito (Mondadori, Milano 1950) di un Luigi Incoronato subentrava l’analisi della transizione di C. Bernari in Era l’anno del sole quieto (Mondadori, Milano
1964) e di G. Bufalari in Masseria (Lerici, Milano 1960). Non a caso a segnalare la conclusione dell’esperienza neorealista sarà un romanzo storico provenien-
te dal Sud, quel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa,
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di cui costituisce quasi un’anticipazione L’A/fiere di Carlo Alianello, edito nel 1943 da Einaudi. La stagione del malessere. Se l’età del neorealismo si chiude con il siciliano Tomasi di Lampedusa, la nuova stagione si apre con il Lucio Mastronardi del Ca/zolaio di Vigevano (Einaudi, Torino 1959), primo di una trilogia su una città di provincia del «profondo Nord»: vi faranno seguito I/ maestro di Vigevano (1962) e Il meridionale di Vigevano
(1964). Protagonisti di vicende «banali», ma esemplari a loro modo dell’Italia del
«miracolo economico»,
non sono qui poveri contadini meridionali alle prese con la fame, la sopraffazione e l’assenza di futuro (i contadini settentrionali, neppure nella fase più intensa del neorealismo non sembrano interessare soverchiamente i narratori). Al centro della descrizione spietata e travolgente di Mastronardi vi sta ora la borghesia del Nord in tutte le sue dimensioni: dal ceto impiegatizio e statale all’industriale arricchitosi in fretta e sfacciato nell’esibire i segni del raggiunto potere. dei soldi. Anche dal punto di vista della costruzione del linguaggio e del ritmo narrativo Mastronardi mostra di aver appreso e rielaborato la lezione del neorealismo, ma anche quella di Gadda, di Pasolini, di Vittorini: la sua borghesia non parla l’italiano e neppure il vernacolo, ma una lingua di nuovo conio, un imbastardimento dell’uno e dell’altro. Gli scrittori italiani - e Mastronardi lo indica in modo preminente — non amano la borghesia e meno ancora la cosiddetta «nuova» borghesia del miracolo economico, quella che taluni giornalisti (G. Bocca, E. Biagi, E. Scalfari) vanno scoprendo e irridendo. Cosî quella che per alcuni, soprattutto economisti e sociologi, e ancora oggi per il senso comune, può essere considerata come una «stagione del benessere», per i letterati italiani, in genere, è da considerare una stagione del malessere. Dentro vi
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sta tutto il loro disagio esistenziale e culturale per una Italia cresciuta in fretta dal punto di vista economico, ma che dal punto di vista socioculturale ancora arranca. Il trapasso del resto dalla società contadina a quella industriale è rapidissimo e non sempre immediatamente percepibile. Dopo la guerra di Corea, l’Italia, trainata dal trend
positivo del mercato internazionale, vive una stagione - venti anni circa — di effervescenza al termine della quale molto è mutato: identità collettiva, modelli culturali, scenari e prospettive. Il Paese si è industrializzato. La popolazione è cresciuta e ha cambiato i tradizionali processi di insediamento territoriale: oltre un terzo degli italiani sceglie una nuova residenza, dal sud al nord, dalle vallate alla pianura, dalla campagna alla città, dalla dorsale appenninica alle coste. Nuovi stili di vita si creano: il modello americano - mediato dal cinema, dalla televisione, dal mercato discografico esercita un fascino indiscreto. Tempo libero, divertimento organizzato, turismo di massa, corsa ai beni di
consumo (ma anche agli investimenti immobiliari) diventano gli indicatori di quella che G. Procacci chiamerà l’«Italia godereccia»: tra il 1951 e il 1971 raddoppiano i consumi di carne, energia elettrica, automobili, abbigliamento e medicinali. E ciò che meglio colgono gli scrittori. Meno invece registrano il tumultuoso avvio del processo di scolarizzazione di massa, il crescente (e positivo, se comparato agli indici di partenza) uso di libri e di giornali, l'aumento (anche se contenuto) delle spese per divertimenti culturali (il cinema, il teatro, il melodramma). La narrativa non sottovaluta, ed anzi quasi enfatizza, gli aspetti e i nodi
della trasformazione in atto, certo spesso li fraintende o li respinge emotivamente, non ne tenta una giustificazione e tantomeno una razionalizzazione: diversa-
mente dai sociologi gli intellettuali italiani - crociani o dell’avanguardia o semplicemente anticonformisti — accusano qualche difficoltà ad accettare questa - il vocabolo si impone appunto in quegli anni - «moderniz-
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zazione». Possiamo dire che la vivono e la fotografano, ma non la amano. Della trasformazione colgono gli elementi più appariscenti e più epidermici, anche più fastidiosi e scostanti. Cosî tra le più nere profezie degli «apocalittici» e gli inconsistenti peana degli «integrati», alla società italiana verrà a mancare quella voce di un intellettuale-tecnico capace di «spiegare» linee di tendenza e ragioni profonde del mutamento. Poiché anche tra gli storici se il dibattito - talvolta una discussione cifrata - sulla questione è tutt’altro che assente, infruttuosamente cercheremmo un’opera di ricerca sul presente: che si pongano il problema della «modernizzazione» è evidente, ma il loro interesse è
volto a interrogare e a investigare altre fasi del passato sia pure connotate da analoghi sintomi: l’età giolittiana (Carocci, Procacci, Melograni, Merli) e ancor più la prima e la seconda metà del Settecento italiano (Venturi, Diaz, Quazza, Berengo), quando tre processi prendono il via quasi contemporaneamente (la nascita del-
la borghesia soprattutto nel Piemonte, nella Lombardia e nella Toscana; la formazione dello Stato moderno, di nuovo nelle stesse tre regioni; le ipotesi di superamento delle rigide barriere tra Stati «italiani»). In di-
verso modo è comunque la borghesia l’oggetto di osservazione e studio: ed è forse anche per questo che altri temi appaiono del tutto marginali, come ad esempio quello della Resistenza - che registra attorno al 1960, anche grazie ad alcuni film e ad alcuni romanzi, una crescita — è ancora prevalentemente di tipo politico, pedagogico e solo in limitata misura storico. La «nuova» borghesia è soprattutto il bersaglio della narrativa degli anni Sessanta e Settanta. Ed è appunto quel soggetto che i romanzieri non amano, alle cui
«avventure» e vicende non sanno appassionarsi,
che colgono negli aspetti meno nobili e meno affascinanti. L'esempio lontano resta per molti il giovanissimo Moravia de Gli indifferenti, anche se tutta la narrativa - almeno quella che possiamo definire più estesamente neorealista degli anni del fascismo e dell’im-
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mediato dopo fascismo — non ha eluso il problema o distolto lo sguardo dalla borghesia cresciuta sotto l’ombrello protettivo del regime. Cosî è per V. Brancati, per lo stesso Vittorini, per G. Piovene, per C. E. Gadda. Nuovo è ora e scioccante, rispetto agli anni Trenta, anni di formazione di molti intellettuali e non solo letterati, il ritmo di trasformazione della società italiana che investe appieno il rapporto città/campagna:
quella campagna spesso idealizzata e improbabile, genuina e «vera»
di contro alla città dei ritmi accelerati,
delle masse anonime, degli egoismi contrapposti; o, in altro modo, quel Sud primitivo e crudo di contro al Nord industriale e opportunista, quei contadini miseri ma di buon cuore di contro ai cittadini distratti e arraffoni. Le città che descrivono, ad esempio, il Calvino (Speculazione edilizia, Einaudi, Torino 1958 e Diario di uno scrutatore, Einaudi, Torino 1963) o Buzzati
(Un amore, Mondadori, Milano 1963) o Arpino (Igiorni del giudizio, Einaudi, Torino 1958 e altri) sono luoghi anonimi e «senza anima», movimentati ma non dinamici, «alienati» e alienanti. Potrebbe risultare percorso didattico assai interessante questo di una lettura della «geografia urbana» descritta nei romanzi degli anni Sessanta. Le città di Gadda, Volponi, Pasolini, Sciascia, Maraini, Moravia, Bianciardi, Cassola sono
fantasmi senza connotati di nobiltà. Scrive Calvino: «Erano le case: tutti questi nuovi fabbricati che tiravano su, casamenti cittadini di sei otto piani, a biancheggiare massicci come barriere di rincalzo al franante digradare della costa, affacciando più finestre e balconi che potevano verso il mare. La febbre del cemento s'era impadronita della Riviera: là vedevi il palazzo già abitato, con le cassette di gerani tutte uguali ai balconi, qua il caseggiato appena finito, coi vetri segnati da serpenti di biacca, che attendeva le famigliole lombar-
de smaniose di bagni; più in là ancora un castello d’impalcature e, sotto, la betoniera che gira e il cartello dell'agenzia per l’acquisto dei locali. Nelle cittadine in salita, a ripiani, gli edifici nuovi facevano a chi monta
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sulle spalle dell’altro, e in mezzo i padroni delle case vecchie allungavano il collo nei sopraelevamenti» (La speculazione edilizia). La città che cambia è tema ricorrente della narrativa italiana di quegli anni, ma con una particolare ottica rivelata anche dai silenzi, oggi, significativi su altri, a volte, drammatici aspetti. A esempio, sulle città prevalentemente del Nord - si rovesciano le aspettative e le «fughe» di molti contadini per lo più meridionali: il fenomeno della immigrazione interna non costituisce però oggetto di specifico racconto. Raramen-
te nella narrativa italiana incontriamo descritto il conflitto culturale e comportamentale aspro e duro che oppone settentrionali e meridionali dell’emigrazione. Traspira dai testi, ma non ne è il punto focale tranne che in poche occasioni: Mastronardi ne I/ meridionale di Vigevano o De Chiara. Prevalente resta, quasi uno strascico di neorealismo, l’attenzione per l’emigrazione dei contadini del Sud: cioè per una lettura che si pone dal punto di vista di chi lascia le proprie terre e non di chi accoglie, più o meno con favore, spesso con pregiudizio, il nuovo residente. E quando si guarda al «meridionale» trapiantato nelle grandi città del Nord e del Centro è per coglierne la commistione di vecchi e nuovi stili comportamentali, le piccole e ridicole arroganze, l’imbastardito lessico e le insufficienze culturali indotte dallo sradicamento. Il costume privato e pubblico degli italiani, contaminato dalla società del benessere, cioè dalle nuove possibilità di fruizione del mercato e del denaro, diventa il grande tema della letteratura, del cinema, dell’indagine sociologica. La «Seicento», il frigorifero, il «man-
giadischi» e il «geloso», pit che status symbol, vengono qui rappresentati come il sintomo di una patologia da consumo, che impone comportamenti di lavoro e di vita alienati: «Ora bisogna che mi alzi - scrive Bianciardi ne La vita agra, Bompiani, Milano 1962 -, mi vesta, scenda a prendere un caffè, affrontare di nuovo il sorpasso zebrato. Fuori è già buio, hanno acceso i lam-
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pioni, anche quelli gialli degli incroci che sfigurano la faccia del prossimo, e vedi la gente muoversi affannata, come tante larve, sfiorate dallo sfrecciare astioso
del traffico su quattro ruote». L’ambivalenza della rottura rappresentata dal processo di inurbamento, cioè da un lato il superamento di una parziale chiusura in ambiti regionalistici ristretti e dall’altro lato l'affanno indotto in una società tradizionale dal dinamismo industriale, viene letta dai narratori prevalentemente nei suoi tratti negativi: «La “coscienza infelice” — ha scritto Asor Rosa - di tanti scrittori italiani del Novecen-
to nasce da questa irrisolta dialettica: la fatica dello scrivere diventa straziante, quando la nostalgia delle radici prevale sul nuovo, pit solido e moderno radicamento metropolitano (non so, penso ad Alvaro: o anche a Pavese» (L’età contemporanea, in Letteratura ita-
liana, Einaudi, Torino 1989, vol. 3, p. 17). Il disegno amaro che ne esce — per chi, e non sono pochi, non si
rifugia del tutto in una fuga dal presente, in una radicale e compiaciuta assaporazione della «incomunicabilità», o in un inaridimento della creatività letteraria (si
veda il caso di Pratolini) - è quello di un’Italia scompensata e inutilmente esterofila, non libera dai suoi vizi antichi e non educata da «nuove moralità», e perciò ancora più scettica e opportunista, scristianizzata ma non secolarizzata: non più «stracciona», ma pur sem-
pre «Italietta». Un’Italia che nella notte di San Silvestro mette a nudo le sue limitate, eppure impossibili, aspettative. E cosî la fotografa Parise ne I/fidanzamento (Garzanti, Milano 1967): «Essi non dicevano tra sé come quei poveri che entrano ai veglioni senza invito e con abiti ridicoli: Divertiamoci stanotte, tanto, domani si torna a lavorare! Non pensavano a questo, gli amici, ma a qualcosa di impreciso e tuttavia pieno di occasioni inattese e imprevedibili. Avidi, per natura, di tutto ciò che durante l’anno in condizioni di vita normale essi non avrebbero potuto ottenere mai, né permettersi, ora sognavano che ciò sarebbe senza dubbio accaduto proprio quella notte di San Silvestro».
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Se questa è l’immagine dell’Italia, rappresentata dalla «infelice coscienza» degli scrittori, non è però inutilizzabile come fonte di documentazione storica la descrizione ch’essi ci rinviano: su molti aspetti vengono alla luce dettagli e indizi di nuovi comportamenti. E suggerimento utile quello di ripercorrere per tematiche la lettura della narrativa: la vita religiosa raccontano S. Strati (Mani vuote, Mondadori, Milano 1960), E. Mo-
rante (L'isola di Arturo, Einaudi, Torino 1957), G. Ar-
pino (G% anni del giudizio, La suora giovane, Einaudi, Torino 1959) e un folto gruppo di narratori cattolici. Sulla spinta ai consumi si soffermano G. Berto (I/ r4le oscuro, Rizzoli, Milano 1964), L. Mastronardi, G.
Morselli (Il comuzista, Adelphi, Roma 1976). Sulla famiglia italiana (o forse solo regionale), sul ruolo della donna, sulla condizione femminile, sulla vita matri-
moniale di coppia, sulla sessualità giovanile, utili pagine hanno scritto M. Jatosti (Tutto d’un fiato, Editori Riuniti, Roma 1977), L. Sciascia (I/ giorno della civetta, Einaudi, Torino 1962), G. Ledda (Padre padrone, Feltrinelli, Milano 1965), D. Maraini (L’età del males-
sere, Einaudi, Torino 1963), C. Cassola (I/ taglio del bosco, Einaudi, Torino 1963), E. Patti (Le donze, Bom-
piani, Milano 1965), G. Testori (I/ ponte della Ghisolfa, Garzanti, Milano 1958), D. Rea (Quel che vide Cummeo, Mondadori, Milano 1955), P. Chiara (I/ cappotto di Astrakan, Mondadori, Milano 1978). Al piccolo mondo della provincia si è dedicato, descritto con minuzia e partecipazione anche affettuosa, Mario La Cava (Mimi Cafiero, Parenti, Firenze 1959 e Vita di Stefano, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1962). E si tratta di elenco pur sempre incompleto è scarno, a cui potrebbero aggiungersi i nomi di alcune interessanti scrittrici (F. Cialente, L. Romano, A. M. Ortese, N. Ginz-
burg): i rimandi bibliografici potrebbero moltiplicarsi. A due argomenti conviene però ancora accennare: alla descrizione della vita di fabbrica e alla riflessione sulla vita politica. Ambedue i temi assai presenti nella letteratura italiana di quegli anni.
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La fabbrica, il lavoro industriale, il conflitto sociale
tra operai e capitale, la quotidianità operaia sono un ricorrente spunto narrativo: quasi nel tentativo a volte di sostituire questa nuova dimensione sociale, enormemente
cresciuta, a quella contadina analizzata (e
idealizzata) dal neorealismo. Il punto d’avvio è ancora una volta negli anni Trenta, in quel celebre romanzo di C. Bernari su Tre operai, e poi nella stagione del neorealismo con S. Micheli (Tutta la verità, Einaudi, Tori-
no 1950) e G. Berto. Saranno però Calvino, Arpino, Volponi, Ottieri, P. Levi (La chiave a stella, Einaudi,
Torino 1978), Parise (I/padrone, Einaudi, Torino 1964) e soprattutto Luigi Davî con L’aria che respiri (Einaudi, Torino 1966), i più sensibili interpreti di quel mon-
do che costituisce una sorpresa per molti intellettuali italiani. Concluderanno il ciclo N. Balestrini (Voglia-
mo tutto, Feltrinelli, Milano 1971) e T. Di Ciaula (Tuta blu, Feltrinelli, Milano 1975) negli anni Settanta e, da ultimo, va segnalato, perché frutto di una diretta esperienza di fabbrica, M. Macagno, Cucire un moto-
re, pref. di N. Bobbio, Leone e Griffa, Pollone 1993). Si tratta però di un mondo spesso ancor più impenetrabile per i narratori di quello dei contadini meridionali: poiché governato da regole rigide, da comportamenti guidati, da silenzi più che da grida. Cost efficacemente lo ha colto in un momento di pausa L. Davf: «La voce dell’altoparlante parlava di modifiche, di conquiste, di tempi, di rivendicazioni, di tutto un po’. A volte si sentiva un gargarismo, una scrostata, poi ri-
prendeva più sciolta. Ma qualunque cosa dicesse l’uomo invisibile, non c’era un volto che mutasse d’un tanto: non un’approvazione, non un risolino, non un dissenso, assolutamente niente» (L'aria che respirî).
In comune si direbbe che narratori e operai abbiano un atteggiamento simile nei rispetti della attività politica: simile è il percorso di scoperta, entusiasmo, poi delusione e abbandono della militanza. Arpino, Calvino, Pasolini (Una vita violenta, Garzanti, Milano 1959), Morselli, infine Sciascia possono essere assunti
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come rappresentativi di questo percorso: per qualche tempo la sinistra, e in particolare il Pci, paiono raccogliere le aspettative degli intellettuali, poi con gli anni Sessanta si registrerà il distacco sempre più marcato. La ragione l’ha forse riassunta con lucidità Morselli: «Quanti sono i responsabili, i dirigenti, che non siano
malati di personalismo, di individualismo, tipo Montobbio. Gente che ama la vita comoda, la bella vita, servirsi del partito perché vogliono comandare, emergere, distinguersi, farsi la posizione [...]. E la linea del
partito non ne deve risentire? Si fa tacere la base, si chiamano pizzaioli quelli che cercano di interpretare le aspirazioni della base, massimalisti ingenui quelli che si attaccano alla speranza di attuare il socialismo. E si ripiega sul tatticismo parlamentare, ci si accontenta di fare la polemica coi riformisti e i dc, in attesa di offrirsi come alleati» (I/ Comunista). Sfuggono certo a questi intellettuali tanto i caratteri dell'evoluzione della società italiana quanto la precoce e profonda crisi del marxismo terzointernazionalista di fronte alla dinamica del capitalismo sviluppato: eppure interpretano un sentimento diffuso, anche se semplicistico. Tanto che la delusione può essere letta più rispetto alle individuali aspettative che alle scelte politiche, pur contraddittorie, della sinistra. Un fenomeno analogo si registra anche, con qualche anno di anticipo, a esempio per il mondo cattolico: sorprendentemente attorno agli anni Sessanta, in coincidenza con la svolta della Dc, che poi avrebbe assunto il titolo di «dorotea», impressa da Fanfani e da Moro, un gruppo di scrittori cattolici esprimerà tutta la sua delusione per la conclusione di una esperienza che consideravano originale per il tentativo di coniugare impegno politico e tensione etico-religiosa, presto sentito come fallimentare: attorno a questo sviluppa la riflessione M. Pomilio con Testizzore (Massimo, Milano
1956), con Nuovo corso (Bompiani, Milano 1959), con La compromissione (Vallecchi, Firenze 1965). Pit dichiaratamente politici sono invece i romanzi di Gino
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Montesanto (Cupola, Mondadori, Milano 1966) che
esplora il variopinto sottobosco del potere democristiano fatto di intrighi, sudditanze e materialistiche aspirazioni; e di Rodolfo Doni (soprattutto Sezione Santo Spirito, Vallecchi, Firenze 1958) che racconta la realtà di una sezione democristiana: «A che vale aver creato questo nostro partito, se poi esso finisce assot-
bito nel consueto andazzo senza riuscire ad animare di principî nuovi la società? Aver bandito la creazione di una società libera e giusta e raffazzonare alla meglio quella che esiste, lasciando più o meno le cose come le abbiamo trovate?» Si direbbe che a trionfare sia ancora una volta l’Italia burocratica di Nino Palumbo e di Augusto Frassinetti. Un'ultima domanda ci si potrebbe porre: quanto hanno influito alcuni di questi romanzi sulla cultura giovanile degli anni Sessanta? Hanno contribuito a orientare letture della società, percezioni, sentimenti, e forse anche scelte politiche? Gli anni dell’incerta soggettività.
Dalla metà degli anni Settanta hanno grande successo due romanzi assai diversi — per tematica, taglio di racconto, stile, diegesi e fabula - tra loro e dalla contemporanea narrativa: si tratta de La Storia di Elsa Morante (Einaudi, Torino 1974) e de I/ rome della rosa di Umberto Eco (Bompiani, Milano 1980). Quest’ultimo
narra una oscura e tragica vicenda medievale, il primo le sofferenze di una donna romana durante la seconda guerra mondiale. In apparenza nessuno dei due riguarda il presente, ma ambedue rinviano a questioni assai dibattute: del ruolo e delle responsabilità dell’intellettuale nella costruzione di modelli di comportamento intolleranti, l’uno; della soggettività - valori, sentimenti, sensibilità - schiacciata o annullata dalla «grande storia», l’altro. Sono vicende e situazioni che l’Italia della fine del «boom economico» può leggere in
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trasparenza come metafora del proprio presente attraversato da tensioni al cambiamento politico e culturale, contrastate però da poteri, talvolta occulti, e da
strutture che mirano ad orientare altrimenti il futuro. La durezza del conflitto sociale marca più di un quindicennio della storia recente italiana: dal Sessantotto alla prima metà degli anni Ottanta. Terrorismo, stragi, disordini di piazza, tensioni nelle scuole, nelle università, nei luoghi di lavoro, se da un lato generano inquietudini e ansie, dall’altro sono il segno della difficoltà di realizzazione del cambiamento. Tanto pit che tutto questo si accompagna a bizantinismi della politica, a manovre finanziarie intrasparenti, a tensioni internazionali, all’esplodere - soprattutto negli anni Ottanta — della «guerra di mafia» e alla sua estensione su tutto il territorio nazionale. Si può datare dalla metà degli anni Settanta una interessante ripresa —- favorita dalla comparsa di una nuova generazione di storici, dalla acquisita legittimazione accademica della storia contemporanea, da un forte interesse culturale per il presente, dal moltiplicarsi degli istituti di ricerca non governati dalle istituzioni - di studi storici sull’Italia repubblicana, e anzi potremmo dire della apertura di un nuovo filone di ricerca: è la spia di una spinta collettiva a ripensare il più recente passato, ad individuare i fondamenti e i tratti costitutivi dell’identità dell’Italia, a - per cosî dire metabolizzare la trasformazione strutturale subita. Alcuni testi e alcune grandi opere segnalano l’interesse di storici e case editrici: si può rinviare ai lavori di G. Mammarella, al volume collettaneo su L'Italia contemporanea, curato da V. Castronovo (Einaudi, To-
rino 1976), alla Storia sociale del mondo contemporaneo di Enzo Santarelli (Feltrinelli, Milano 1978), anche se è soprattutto la storia del regime fascista, della Resistenza e del dopoguerra ad assumere centralità negli studi storici sulla contemporaneità. Questa intensa stagione registra anche due monumentali lavori, ambedue destinati a un buon successo di mercato: la Storia d’Ita-
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lia, coordinata da Ruggiero Romano e Corrado Vivanti, della Einaudi, e I/ mondo contemporaneo. Enciclopedia di storia e scienze sociali, diretta da N. Tranfaglia (La Nuova Italia). La prima segna la data di inizio (1972) dell’interesse collettivo per la storia dell’Italia
repubblicana, la seconda la data (1983) che possiamo considerare conclusiva. Un decennio denso di ricerche e di discussioni, durante il quale il ruolo pubblico degli storici assume rilievo e funzione anche politiche, culturali e ideologiche, oltre che scientifiche. Se teniamo presente questa massiccia invadenza degli storici sulla contemporaneità, non apparirà allora stravagante il limitato interesse della narrativa per le stesse vicende e quasi un inaridimento della creatività sui percorsi collettivi: un romanzo particolarmente efficace sulla stagione dei conflitti sociali, sui «misteri» e sugli inquinamenti dell’Italia, sulle contraddizioni del processo di rinnovamento la narrativa non lo darà. Nessuno si assumerà un ruolo quale quello assunto da H. Boll in Germania, da un G. Garcia Màrquez per il Sudamerica, o anche da un A. SolZenicyn per l'Unione Sovietica. Una sorta di afasia caratterizza la narrativa italiana, più attenta invece ai temi del personale, della soggettività, dell’interiorità. La nuova generazione di romanzieri sconta non poche perplessità a inventarsi un nuovo ruolo e una nuova collocazione culturale, anche a causa del massiccio ingresso nel mercato italiano | della narrativa statunitense che tenta la coniugazione di evasione e di riflessione sulla angoscia contempora-
nea. Malgrado ciò, alcune opere si possono utilmente segnalare. Un borghese piccolo piccolo di Vincenzo Cerami, a esempio, racconta il dramma dell’impotenza di fronte alla violenza e al sopruso; I/ giocatore invisibile (Mondadori, Milano 1968) di Giuseppe Pontiggia descrive una scuola e una università avvitate su se stesse; 1 ro-
manzi e i racconti di Piero Chiara fanno della topografia sentimentale di Luino la mappa del mondo intero. Sono esempi di una letteratura che pare in cerca di
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una nuova dimensione, di altri itinerari, di altre sensi-
bilità. Con una eccezione che è bene segnalare: quella di Alessandro Spina che ha scelto come sfondo del suo raccontare una vicenda «rimossa» dalla cultura italiana e in parte dalla storiografia, quella della guerra di Libia, durantela quale sono ambientati tutti i suoi romanzi sino a I/ visitatore notturno (Scheiwiller, Milano
1979). Prevalentemente però la narrativa italiana d’oggi sembra orientata verso i temi e i conflitti della soggettività, anche come distacco, se non rifiuto, dalla let-
tura sociale e politica del presente: l’incertezza, la precarietà, l’indecisione, i caratteri cioè di quella che
potremmo definire con l’ossimoro di «soggettività debole» sono gli indicatori di un approccio al reale sempre meno padroneggiato, anche quando il narratore impone propri stili e propri ritmi alla fabula. E solo un sintomo questo di un più generale «rifiuto della stotia», che solo in anni recentissimi pare in via di superamento. Un sintomo che emerge con maggiore chiarezza in quei romanzi dedicati alla condizione giovanile e frequenti nella narrativa degli anni Ottanta e Novanta: Due di due (Mondadori, Milano 1989) di A. De Carlo; Generazione (Garzanti, Milano 1988) di G. Van Straten; Altri libertini e Pao Pao (Feltrinelli, Milano 1980
e 1983) di P. V. Tondelli; Mery per serzpre (La Luna, Palermo 1987) di A. Grimaldi; sino ai recente Tutti gi4 per terra (Garzanti, Milano 1994) di G. Culicchia e a Passaggio in ombra (Feltrinelli, Milano 1995) di M. T. Di Lascia; Erri De Luca, Ir alto a sinistra (Feltrinelli,
Milano 1994), E. Albinati, La comunione dei beni (Giunti, Firenze 1995), D. Starnone, Ex cattedra (Feltrinelli, Milano 1986), G. Van Straten, Corruzione
(Giunti, Firenze 1995) - ma molti altri andrebbero citati - sono alcuni testi nei quali si rinnova la tradizione del Bi/dungsroman, ma che significativamente usano della dimensione transitoria dell’esser giovani per narrare dell’incertezza generale e della difficoltà a diventare adulti. Molta parte di queste vicende incrocia
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la scuola italiana, luogo privilegiato di formazione psicologica e culturale delle giovani generazioni. Non sarebbe infruttuoso se scuola e insegnanti sfruttassero questo sottogenere narrativo per un’autoanalisi radicale e appassionata sui modelli comportamentali che comunicano, sui rapporti e sui conflitti inter/infragenerazionali, sul senso del «crescere»
in una società mul-
ticulturale, mediologica e, forse nevroticamente, giovanilista. La riflessione sulla condizione giovanile - un segmento sociologicamente minoritario - come momento
di esplicitazione di una difficoltà a essere soggetto del proprio destino, ha anticipato e quasi prefigurato la crisi più generale che ha attraversato l’Italia negli anni Novanta e che ha segnato la fine di una lunga fase della sua storia: crisi di identità, di credibilità, di gover-
no dei processi e delle istituzioni. La percezione collettiva di un mutamento profondo in corso, a partire dai primi anni Novanta, si esprime
anche come rinnovato interesse per la riflessione storica: ai cinquanta anni di storia repubblicana la storiografia sta dedicando attenzione, anche con opere di interpretazione complessiva. Una lettura incrociata di storiografia e letteratura potrebbe rappresentare un utile momento di lavoro interdisciplinare e di «laboratorio storico» in classe, anche quando svolto su un segmento esemplificativo e introdotto da una buona antologia tematica (ad esempio, il Dizionario della tolle-
ranza di Paolo Collo e Frediano Sessi, Bompiani per la scuola, Milano 1995, avvia attraverso alcune «voci» a
una riflessione su alcuni punti nodali delle società contemporanee). Diversi risultati positivi si potrebbero raggiungere per questa via didattica: non ultimo quello di un efficace avvio di riflessione, da parte dei giovani, alquanto disorientati da un eccesso mediologico di opinioni contrastanti e, spesso, indimostrabili, su un segmento contraddittorio e tumultuoso di storia italiana qual è quello degli ultimi cinquant'anni.
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