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Italian Pages 238 [239] Year 2014
CINEMA n. 26
Comitato Scientifico: Raffaele De Berti (Università degli Studi di Milano), Massimo Donà (Università Vita-Salute San Raffaele), Roy Menarini (Università di Bologna), Pietro Montani (Università “La Sapienza” di Roma), Elena Mosconi (Università degli Studi di Pavia), Pierre Sorlin (Università Paris-Sorbonne), Franco Prono (Università degli Studi di Torino)
CINEMA SENZA FINE Un viaggio cinefilo attraverso 25 film a cura di Roy Menarini Postfazione di enrico ghezzi
MIMESIS Cinema
© 2014 – Mimesis Edizioni (Milano – Udine) Isbn: 9788857521527 Collana: Cinema n. 26 www.mimesisedizioni.it / www.mimesisbookshop.com Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 02 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]
INDICE
Incipit Breve Introduzione di Roy Menarini
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Del cinema come spettro Che ora è laggiù? (2001) di Tsai Ming-liang di Daniele Dottorini
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Attori in un mondo che scompare Ritorno a casa (2001) di Manoel De Oliveira di Emanuele Sacchi
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Sulla superficie dell’immagine Arca Russa (2002) di Alexandr Sokurov di Daniela Persico
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Il metodo del movimento Dieci (2002) di Abbas Kiarostami di Toni D’Angela
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L’esistenza non ha garanzia Collateral (2004) di Michael Mann di Alessandra Mallamo
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Il naturale corso del cinema Café Lumière (2004) di Hou Hsiao-hsien di Pier Maria Bocchi
55
No trespassing Grizzly Man (2005) di Werner Herzog di Giulio Sangiorgio
63
L’occhio del codardo, il volto dell’eroe Flags of Our Fathers (2006) e Lettere da Iwo Jima (2006) di Clint Eastwood di Marco Toscano 73 Il set come cervello INLAND EMPIRE (2006) di David Lynch di Luca Malavasi
81
Il DNA del cinema The Prestige (2006) di Christopher Nolan di Leonardo Gandini
93
Il cinema come macchina Grindhouse – A prova di morte (2007) di Quentin Tarantino di Pietro Bianchi
99
La bellezza non è niente altro che l’inizio del terrore Death in the Land of Encantos (2007) di Lav Diaz di Giulio Bursi 107 French Horror Story. Racconto di Natale (2008) di Arnaud Desplechin di Andrea Bellavita
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Identità, umorismo, surmodernità Il tempo che ci rimane (2009) di Elia Suleiman di Federico Giordano
127
Autobiografia di una nazione. Vincere (2009) di Marco Bellocchio di Marcello Walter Bruno
141
Non sei nulla. Ne change rien (2009) di Pedro Costa di Lorenzo Esposito 149
Lo spazio muore Film Socialisme (2010) di Jean-Luc Godard di Marco Grosoli
153
Andarsene, per restare nel mondo Turin Horse (2011) di Béla Tarr di Giona A. Nazzaro
161
Il punto di fuga The Tree of Life (2011) di Terrence Malick di Alberto Spadafora
167
Il cinema come guarigione La guerra è dichiarata (2011) di Valérie Donzelli di Marzia Gandolfi
177
Se questo è un film This is not a Film (2011) di Jafar Panahi di Alex Stellino
185
Dare un volto alla macchina-mondo Hugo Cabret (2012) di Martin Scorsese di Bruno Roberti
193
Ripensare la modernità cinematografica. Il ragazzo con la bicicletta (2011) di Jean-Pierre e Luc Dardenne di Alessia Cervini
211
Asimmetrie del (cyber)capitalismo Cosmopolis (2012) di David Cronenberg di Claudio Bartolini
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Excipit. Il Duemilaunico (e la sua improprietà) Sepolto, vivo / Chi muore si rivede di enrico ghezzi
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Incipit Roy Menarini
BREVE INTRODUZIONE
Quasi fosse una querelle des anciens et des moderns, fino a qualche anno fa sembrava che i nuovi media avrebbero travolto – preferibilmente irridendolo – il cinema, come istituzione, forma linguistica, immaginario, critica, cinefilia. È accaduto il contrario, almeno se cerchiamo di non limitarci al comparto (sia pure professionalmente sensibile) delle sale di prima visione. Il cinema ha impollinato tutto, si è fatto ibridare e ha ibridato, qualcuno dice “ha culturalizzato” gli spazi che parevano alieni, è stato museificato, ma in maniera proteiforme ha fuggito i suoi carcerieri. “Che cosa è il cinema?”, continua ad essere una domanda inevasa, e per quanto ancora non pochi cerchino la risposta attraverso la lanterna magica, a nessuno interessa più una sua definizione. La sua originalità ne permette reviviscenze e sviluppi, la sua immortalità gli consente di uscire dalla tomba in cui era stato sepolto, vivo. La figura principale è infatti il fantasma, o l’ombra, non l’anziano, o il morituro, come dimostra per esempio il cinema di Clint Eastwood. Gli diamo del “lui” – il cinema, appunto – come fosse una cosa unica, un soggetto, mentre sarebbe arduo farlo per altri mezzi espressivi. E se esiste – anzi si rilancia – una (nuova) cinefilia è perché persino il repertorio, frugato ovunque il canone, si è allargato. Dall’epoca delle contrapposizioni selvagge (canone e anticanone), siamo giunti all’era della diffusione. Il cinema d’archivio, in tutte le sue forme – dal vapore delle origini ai big data del postcinema – viene ormai ludicizzato e rimesso in circolo, come sangue, nel sistema delle sale e dei festival, garantendo la fine della nostalgia e della retorica da “scaffale” (con tutto quel che ne consegue di inamovibilità fisica del film collezionato). Il web, i blog e i social network hanno a loro volta ristrutturato il sapere del ci-
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nema, sovvertendo quel che di gerarchico piaceva ancora all’epoca Cahiers, e conservato il piacere dilaniante dell’essere soli davanti al film, come alla morte, e insieme nel parlarne, quando però è ormai fantasma, superato. Vediamo film ovunque, in tv, su satellite, su web, su tablet, su smartphone, su schermi urbani, in aereo, in treno, in nave, e non per questo ne perdiamo l’aura. Una metamorfosi perfetta e soprattutto spontanea. Il cinema si è riprogrammato da solo e ha generato una cultura che gli cresce intorno, sempre nuova. Nulla come Internet dice della natura del cinema. Il presente libro, volutamente trasognato e scorrettamente arbitrario, insomma racconta senza raccontarla la storia di come il cinema doveva morire e non è morto. E preferisce non raccontarla in maniera lineare, ché la faziosità verrebbe fuori troppo maleducata, bensì attraverso i film, che appunto sono ombre del passato su cui ciascun critico (li ringrazio tutti, mai abbastanza) si prende il suo spazio, il suo tempo, la sua lettera d’amore, o d’intenti, o di dimissioni, o – soprattutto – di affinità elettiva. In questa introduzione, come del resto nelle 25 analisi che seguono, si è cercato non di scegliere film e autori importanti per qualche categoria (produttiva, canonica, estetica, sociale), bensì le opere (e gli autori) che da una parte sono divenuti patrimonio comune della nuova cinefilia e dall’altra hanno saputo ripensare il cinema, nel suo statuto e nella sua filosofia. Potevano essere anche 100 o solo 5, tanto in ogni caso qualcuno sarebbe mancato. Eppure, attraverso questo gruppo di capolavori, dai prodotti mainstream alla nicchia più intransigente, viene fuori un ritratto sorprendente, vitale, potentissimo, di cinema che respira come non mai, che – come da titolo – si reinventa e si ri-immagina. Ogni film che abbiamo considerato è un film sul cinema, ed è persino ovvio. Ma è anche un film su come il cinema ripropone un movimento di mondo, un rischio di linguaggio, un senso di consapevolezza, una strategia di pensiero. E allora, lasciando alle pagine che seguono il compito di tornare e ritornare, anche ossessivamente, su tutto quello che il cinema è e sarà, come curatore mi prendo la libertà di ricordare a chi legge quello che abbiamo visto in questi ultimi anni del cinema che “doveva morire” e invece “vive due volte” (o duemila volte). Il cinema è una passione insanabile.
R. Menarini - Breve introduzione 11
Ringrazio, oltre a tutti i colleghi che hanno scritto sul volume, e a tutti gli amici che ne hanno sostenuto la realizzazione (compreso Luca Taddio della casa editrice, generoso e fiducioso), Enrico Ghezzi, per aver contribuito al volume, sopportato e condiviso con me un carteggio sfinente, e non ultimo aver scolpito la nostra cinefilia con Fuori Orario.
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Daniele Dottorini
DEL CINEMA COME SPETTRO CHE ORA È LAGGIÙ? (2001) DI TSAI MING-LIANG
Che cos’è il tempo? È questa la domanda da cui partire? (si parte sempre da domande, per scoprire poi che prima ancora di porre una domanda c’è un problema più antico da cui anche inconsciamente si è partiti). Il tempo come concetto filosofico, come esperienza interiore, come astrazione matematico-fisica, come forma (e questione fondante) del cinema. Ogni volta che ci si trova di fronte ad un film che riprende, gira intorno, inquadra sotto altra forma questa domanda, la domanda su cosa sia il tempo, sappiamo di trovarci di fronte ad un film centrale, un film che ci mette in questione prima ancora che noi possiamo interrogare lui. Sappiamo di trovarci di fronte ad un soggetto, ad uno sguardo, ed è questa la sfida critica che vale la pena affrontare. Che ora è laggiù? Un’altra domanda che è anche, non casualmente, il titolo di un film. Uno straordinario film, si può aggiungere, nel senso anche immediato del termine, vale a dire di film fuori dall’ordinario, dal tempo, dalla visione, dal limite. Ma il film di Tsai Ming-liang è anche, allo stesso tempo un film che affronta direttamente i concetti del cinema, direbbe Deleuze, le sue forme e le sue idee, una dopo l’altra, in una modalità assolutamente classica, la cui lucida trasparenza colpisce e ci spinge ad entrare ancora più in profondità. Dire che Che ora è laggiù? è un film sul tempo è un’affermazione banale, vuota persino. Ogni film è un film sul tempo, direttamente o indirettamente. Tempo vissuto, esperienza del film, durata, ogni immagine-movimento è immagine diretta o indiretta del tempo. Ciò che cambia, che può cambiare sono le modalità con cui il tempo viene sottoposto a particolari torsioni, moltiplicato, disteso, concentrato, portato al limite. In questo senso il film di Tsai Mingliang ci parla. Non ci parla “del” tempo, ma di come il cinema at-
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traversa il tempo come distanza, come dislocamento e, facendo questo, mette in gioco qualcosa di importante e significativo. È di questo che parleranno le prossime pagine. Il montaggio e la separazione L’inizio del film è già una porta d’ingresso. Siamo all’interno di una storia, o meglio, di una tappa di una storia. Un uomo e suo figlio, due personaggi che già conosciamo, perché il cinema di Tsai Ming-liang filma e continuerà a filmare ossessivamente lo stesso personaggio e la il suo ambiente, al tempo stesso unico e universale: il personaggio di Hsiao Kang interpretato da Lee Kang-sheng, corpo-feticcio di Tsai, ricettacolo di storie e desideri che scorrono lungo la filmografia del regista di punta del cinema di Taiwan. Con lui ritorna la sua famiglia, già vista in The River, film dell’incomunicabilità totale, della separazione radicale; ritornan suo padre e sua madre, così come ritornerà, poi, anche Shiang Chyi, la ragazza conosciuta da Hsiao Kang sul ponte di Taipei, mentre il ragazzo sta vendendo degli orologi. È sin dal primo stacco di montaggio che il film mostra chiaramente l’inizio di un lavoro sul tempo, che si svilupperà poi lungo tutta l’opera. La lunga inquadratura iniziale, la macchina da presa fissa, mostra l’interno di un appartamento; il salotto, un tavolino, sullo sfondo la stretta cucina e la porta finestra che dà su un piccolo terrazzo. L’uomo ha cucinato qualcosa e ora porta un piatto in salotto, appoggiandolo sul tavolino. Non tocca il piatto, però. Si accende una sigaretta e dopo alcune boccate si alza e va in cucina. Finalmente esce sul terrazzo e guarda lontano. Stacco. Siamo in un taxi, un giovane uomo porta in grembo un involucro ricoperto di un panno giallo: “Papà, guarda, stiamo passando lungo il tunnel”, dice rivolto all’involucro. Uno stacco di montaggio che separa e unisce due personaggi, un padre e un figlio. Due spazi diversi (l’appartamento e l’interno del taxi), ugualmente chiusi, la forma di una separazione. Hsiao Kang, suo padre e, come vedremo nelle sequenze successive, sua madre sono ora consapevolmente e disperatamente soli. Lo erano già ne Il fiume, dove gli incontri, finanche il semplice toccarsi avveniva solo per caso, inintenzionalmente. Ma ora la famiglia è disgrega-
D. Dottorini - Del cinema come spettro. Che ora è laggiù? (2001)
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ta, e la prima battuta del film è quella di un dialogo impossibile, quello tra Hsiao Kang e suo padre; una battuta (“stiamo passando lungo il tunnel”) che non può avere risposta. Il primo significato del lavoro del tempo è allora in questa frattura iniziale, la separazione che orienterà, narrativamente e cinematograficamente il lavoro del film. Il découpage del film si sviluppa infatti coerentemente lungo questa traiettoria aperta, senza per questo cedere alle tentazioni di una narrazione fuori scala, alla fascinazione dei falsi raccordi. Le inquadrature sono fisse, come blocchi di tempo che scorrono incastonati l’uno dopo l’altro. Il film è costruito sì sull’idea di sottrazione e mancanza, ma attraverso ellissi e inquadrature che costruiscono, nel loro succedersi e alternarsi, il ritmo temporale e spaziale del film. Dal punto di vista della costruzione dello spazio, le due città, Taipei e Parigi scompaiono e riappaiono in continuazione in una alternanza di spazi aperti e chiusi che di fatto costituisce da sempre il ritmo spaziale dei film di Tsai Ming-liang. Inquadrature strette che chiudono i personaggi in riquadri angusti, interni di appartamenti, piccoli bar affollati, oppure strade notturne, deserte, spettrali. È un procedimento tipico del cinema del regista di origine malese: «Tsai filma nelle strade, negli appartamenti, a distanza ravvicinata, dipinge come nessun altro il girovagare, le impazienze, le passioni segrete, la confusione dei giovani di Taipei»1. Ma lo spazio che si restringe intorno ai personaggi, negli spazi angusti della rete urbana non è l’unico elemento della costruzione filmica, perché esso non potrebbe esistere senza le improvvise aperture radicali, come lo stadio vuoto di Vive l’amour o i fori, i buchi della materia da cui osservare altri spazi – il buco sul pavimento di The Hole, la finestra da cui la protagonista osserva la ripresa del film porno ne Il gusto dell’anguria; lo spazio filmico è costruito quindi attraverso questa alternanza tra chiusura e improvvise aperture, secondo una dialettica dell’irrequietezza che attraversa e continuerà ad attraversare i film del regista. In Che ora è laggiù? Il ponte sulla strada (destinato a scomparire poi nello straordinario corto The Skywalk is gone, quasi un prose1
B. Reynaud, Cinema di Taiwan: dall’occupazione giapponese ad oggi, in Storia del cinema mondiale, vol IV, America, Africa, Asia, Oceania. Le cinematografie nazionali, Einaudi, Torino, 2001, p. 873.
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guimento necessario del film, in cui Shiang Chyi non ritrova più Hsiao Kang e il suo banchetto di orologi al suo ritorno dal viaggio a Parigi), l’inquadratura della torre dell’orologio, dove Hsiao Kang cerca di spostare le lancette del grande orologio urbano, o il parco parigino dove Shiang Chyi si addormenta la mattina appaiono ancora una volta come elementi necessari di un ritmo dello spazio, quasi una pulsazione che elabora a suo modo il tempo del film. L’aperto e il chiuso, il ritmo, spaziale e temporale del film. Lo spazio-tempo dei fantasmi Ritmo, pulsazione. Elementi che introducono immediatamente ad una dimensione temporale, come si era detto all’inizio. È il cinema come lavoro sul tempo? Certo, ma in modo peculiare. La frattura iniziale (la morte del padre, la sua “sparizione”) crea di fatto un’urgenza, una domanda di ricomposizione o, meglio, di disperata consapevolezza della solitudine, che spinge i protagonisti a cercarsi, a cercare comunque, senza sapere bene cosa e perché («Non so bene dove sia questo “laggiù”; probabilmente questo “laggiù” è nel cuore. Perché quasi automaticamente la distanza è è ciò che il tuo cuore filma, e allora si può immaginare che la distanza parta proprio da lì, dal cuore»2). Il cercare può essere inteso come un gesto che potrebbe far pensare ad una detection, ad un movimento teso a ritrovare qualcosa di perduto (quanto cinema si fonda su questo movimento), ma nel film il cercare è più uno stato del mondo, un’attestazione di un falso movimento che è parte integrante del mondo. Movimento falso perché fondato su una frattura insanabile che acquista un’ulteriore accezione, dopo quella già analizzata dello spazio. La distanza di cui parla Tsai Ming-liang è anche una distanza temporale rispetto a ciò che è irrimediabilmente passato, irrimediabilmente perduto. Viaggiare nello spazio significa viaggiare nel tempo, significa accumulare gesti che di fatto sanciscono una perdita. Ogni racconto infatti può essere descritto come il racconto di una perdita, come il tentativo di recuperare ciò che è di fatto irrecuperabile. 2
Attraverso la distanza. Conversazione con Tsai Ming-liang, a cura di D. Turco, A, Pastor, «Filmcritica», nn. 516-517, 2001, p. 368.
D. Dottorini - Del cinema come spettro. Che ora è laggiù? (2001)
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Ecco che allora il tempo del film è il dispiegamento di un tempo interiore, del tempo della perdita. Ma la figura assoluta della perdita che il cinema è per sua stessa natura capace di rendere concreta è il fantasma o meglio, lo spettro. Il cinema è una questione di fantasmi, diceva Derrida. E nella semplicità della frase sta uno degli elementi che da sempre fondono la legittimità dell’immagine cinematografica, quello di avere a che fare con qualcosa di irrimediabilmente perduto, ma sempre lì, disponibile come traccia, come passaggio, come visitazione. È la dimensione spettrale del cinema. Dimensione spettrale che è aperta e chiusa nel film dalla doppia apparizione del padre di Hsiao Kang, o meglio, dal doppio movimento che ne caratterizza la presenza. Il movimento della sparizione, sancita da quell’ellissi iniziale con cui si apre il film e il movimento contrario, della sua apparizione come spettro, fantasma, nel parco di Parigi. Nell’ultima sequenza del film, il padre riappare, dunque, entrando nell’inquadratura per raccogliere da un’enorme vasca la valigia di Shiang Chyi che alcuni ragazzini hanno gettato in acqua mentre la ragazza giace addormentata su una sedia. Compiuto il gesto, l’uomo si allontana. È l’ultima inquadratura del film, un campo lungo che mostra l’allontanamento dell’uomo sullo sfondo della grande ruota panoramica di Parigi, l’unico movimento circolare del film che procede in senso antiorario. Quest’ultima inquadratura costringe, in un certo senso, lo spettatore a ripercorrere tutte le immagini precedenti – appunto in senso antiorario, rovesciando la dimensione apparentemente lineare della narrazione. Il fantasma che appare nel finale mostra di fatto l’ossessione del fantasma che abita l’intero film. La spettralità viene dichiarata, ora si tratta di andare all’indietro quindi, di ripercorrere il film come mandando indietro le lancette di un orologio. Ed ecco che le immagini ritornano, come fantasmi. Il fantasma è anzitutto quello di un amore mai vissuto, mai neanche immaginato forse, tra Hsiao Kang e Shiang Chyi. Un amore dislocato anzitutto, nello spazio e nel tempo: i due si separano quasi subito e non si ritrovano se non, ancora una volta, in forma ironicamente slapstick, nella fellatio finale de Il gusto dell’anguria. Lungo tutto il film i due personaggi si cercano senza cercarsi, senza neanche sapere che si stanno cercando; per tutto il film essi hanno a che fare con momenti di tempo che non riescono ad af-
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ferrare, tracce di passato, di immagini del tempo che non possono fermarsi, come le lancette di un orologio: sono le immagini de I quattrocento colpi di Truffaut che Hsiao Kang vede nottetempo a Taipei; è l’incontro di Shiang Chyi con Jean-Pierre Léaud, corpo evidentemente postumo di un cinema del passato, eppure straordinariamente sopravvivente come quello della Nouvelle vague. Il fantasma è anche quello del desiderio, il desiderio della madre, vero corpo sessuato del film, che disperatamente ricerca il corpo del marito, non come ricordo, non come affetto, ma come amante. Il desiderio mentale di Hsiao Kang diventa desiderio sensuale in sua madre. Ma lo scarto è minimo, si tratta sempre di due forme dell’assenza, in ogni caso incolmabili. La terza forma del fantasma è quello dell’abitare, del rapporto di un soggetto con un territorio, con un paesaggio. È il fantasma che si agita nel corpo di Shiang Chyi, totalmente fuori posto, outof-joint a Parigi, città irriconoscibile ai suoi e ai nostri occhi, città di mostri (l’uomo che urla al telefono di fronte a lei, le misteriose ombre notturne) e di spazi qualsiasi. Il cinema ha a che fare con i fantasmi in più di un senso – e forse, non è un caso se di lì a qualche anno Tsai Ming-liang espliciterà proprio questo assunto nel suo film più poetico e teorico, Goodbye Dragon Inn, ambientato in una sala cinematografica letteralmente “abitata” da fantasmi. Il passaggio di un corpo “cinema” come quello di Léaud nel film, così come tutte le “assenze” che lo attraversano appartengono di fatto al lavoro stesso del cinema, luogo dello spettro. Del gesto che salva Di fronte allo spettro, ci si difende con i gesti. Che ora è laggiù? è in fondo uno straordinario catalogo di gesti umani, apparentemente senza senso, forse sterili, a volte disperati. Gesti d’amore o di desiderio, come il goffo tentativo di seduzione che Shiang Chyi tenta nei confronti di Cecilia Yip a Parigi, come il ripetuto gesto di cambiare l’ora a tutti gli orologi di Taipei, che Hsiao Kang tenta disperatamente di portare a compimento lungo tutto il film; o come i gesti d’amore e desiderio della madre di Hsiao Kang, che si affida ad ogni rituale possibile per mantenere l’illusione di una presenza
D. Dottorini - Del cinema come spettro. Che ora è laggiù? (2001)
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dentro la propria casa, quella di suo marito irrimediabilmente perduto. Questi e molti altri i gesti del film. Apparentemente sterili, fallimentari, eppure meravigliosamente umani. Quando Hsiao Kang copre con la sua giacca la madre che dorme o quando il fantasma del padre raccoglie con il manico dell’ombrello la valigia che giace abbandonata sulla vasca della fontana del parco, qualcosa accade, qualcosa che somiglia ad una promessa. Per un breve momento delle esistenze sono connesse, trovano un luogo comune. Lo spazio e il tempo non sono più dislocati, out-of-joint. Brevi momenti di purezza, li chiamerebbe Badiou, estrapolati dal caos del mondo. È qui che il cinema gioca ancora la sua partita, nel ritrovare appunto dei momenti di purezza, degli scarti improvvisi ma necessari rispetto al flusso inarrestabile di un tempo senza scampo, quel tempo dell’inferno che il cinema stesso è così straordinariamente capace di mostrare. Perché non basta mostrare il dislocamento del mondo e delle esistenze, occorre anche individuare le crepe, le fratture di questo movimento, e mostrarle come momenti poetici del mondo, del nostro mondo. Ecco perché, forse, il titolo del film è una domanda – «Che ora è laggiù? È una domanda che potrebbe essere rivolta ad un fantasma» dice d’altronde Tsai Ming-liang3 –; perché il punto interrogativo apre ad una ricerca ulteriore, tesa consapevolmente, questo sì, a rintracciare momenti in cui un gesto filmato permette ancora una volta di credere al mondo. Ecco, ancora, perché il cinema di Tsai Ming-liang affronta e lavora, come si è detto all’inizio, gli elementi del cinema, direttamente, semplicemente; mostrandone ancora una volta la necessità.
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Ibidem.
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Emanuele Sacchi
ATTORI IN UN MONDO CHE SCOMPARE RITORNO A CASA (2001) DI MANOEL DE OLIVEIRA
“Una concezione estremamente limitante di cinema pensa che contino solo gli spostamenti della macchina da presa e che il linguaggio appartenga al teatro. No, il cinema è tutto. Il linguaggio è un elemento prezioso del cinema perché è un elemento privilegiato dell’umanità. Non è possibile stabilire un equivalente cinematografico di un testo letterario. Ma proprio come uno può filmare un paesaggio, così può filmare un testo. Filmarlo o filmare la voce che lo legge. Se mostro una pagina di un libro così che lo spettatore possa leggerlo sullo schermo, sto facendo cinema; se introduco qualcuno che legga il testo, sto ancora facendo cinema. Infine, se uso una voce narrante, non solo sto ancora facendo cinema, sto anche risparmiando del tempo”1. (M. de Oliveira)
Gilbert Valence (Michel Piccoli) è un grande attore, dalla lunga e prestigiosa carriera teatrale e cinematografica. Al termine della rappresentazione di Le Roi se meurt di Ionesco, la tragedia irrompe bruscamente nella sua vita: il suo agente e amico George (Antoine Chappey) lo informa che la moglie, la figlia e il genero sono morti in un incidente stradale. Il tempo passa e la vita riprende il suo corso. Ormai Gilbert Valence si divide tra l’adorato nipote, il palcoscenico che non ha mai abbandonato e una quotidianità fatta di piccole abitudini. Il suo agente gli propone un ruolo da protagonista in un telefilm, ma Gilbert capisce ben presto che si tratta di una produzione commerciale, con sesso e violenza in eccesso, e rifiuta con sdegno. George 1
A. De Baecque e J. Parsi, Conversations avec Manoel de Oliveira, Cahiers du Cinéma, Paris, 1996.
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lo chiama una seconda volta; qui si tratta di John Crawford (John Malkovich), un regista americano, che gli propone di interpretare Buck Mulligan in un adattamento cinematografico dell’Ulisse di James Joyce. Le riprese inoltre si tengono vicino a casa Valence e Gilbert accetta il ruolo con grande entusiasmo, nonostante i tempi serrati per prepararsi alla parte. La sera prima dell’inizio delle riprese, il regista propone di fare una prova sotto la luce dei riflettori e con le scenografie ormai pronte. Gilbert ha una leggera esitazione, un vuoto di memoria, un episodio apparentemente insignificante. Ma il giorno seguente, durante le riprese, gli errori si ripetono, finché il vecchio attore all’improvviso capisce di non proseguire. Abbandona il set e – indossando ancora i costumi di scena – si avvia in stato confusionale verso casa. Quello del cinema della e sulla morte (sia essa la signora con la falce, sia essa la morte del cinema stesso) è un filone a sé della settima arte, forse non così nutrito nelle sue schiere, ma carico di capolavori e opere preziose. Tra queste occupa uno spazio peculiare e di assoluto rilievo Ritorno a casa di Manoel de Oliveira, un’opera che ha avuto il potere di avvicinare molti spettatori e cinefili poco avvezzi alle meraviglie dell’uomo di Oporto, dapprima timorosi per la sinistra fama di pesantezza e verbosità del nostro e in seguito accecati dalla levità di sguardo e spirito del regista. Una visione in qualche modo rivelatrice dell’età anagrafica del nostro, 93 anni nel 2001, ossia all’epoca del film, per come l’occhio narrante e onnisciente si concentra sull’età anziana, sul crepuscolo della vita, affrontandolo con la freschezza tutta parigina di una baguette appena sfornata. Una visione che per molti ha significato una riflessione su un’intera carriera, quasi un ipotetico commiato di de Oliveira con un film che ne fosse degno; quasi che si potesse, al di là delle differenze di forma e sostanza, in qualche modo instaurare un parallelo tra Ritorno a casa e The Dead di John Huston, anch’essa opera consapevole dell’imminenza dell’incontro con le forbici di Atropo, anch’essa con James Joyce nel ruolo di ideale psicopompo.
E. Sacchi - Attori in un mondo che scompare
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Un attore, tre autori Joyce è il terzo autore di un trittico che accompagna le gesta di Gilbert Valence, sospese tra realtà e finzione scenica: prima Ionesco, poi Shakespeare, infine Joyce. Di Ionesco il regista sceglie l’opera più atipica, Le Roi se meurt, quella in cui viene meno l’accumulazione di segni e oggetti e prevale una rappresentazione più vicina a quella classica; ma la ragione della scelta è un’altra, e riguarda la sua natura terminale, di presagio della fine – per il re presente in ognuno di noi come per Ionesco stesso – e di lenta (in) consapevolezza di un crescente difetto percettivo che accompagna inesorabilmente la vecchiaia. Con effetti ancor più evidenti e tragici per chi manifesta grande attaccamento alla vita e all’esperienza sensibile, cercando di tesaurizzare ogni istante di quella breve parentesi concessa all’uomo mortale. Un vero e proprio Viagem ao principio du mundo (il primo film sul tema del maestro portoghese, dominato da una macchina da presa fissa sul lunotto dell’automobile, a immortalare la strada lasciata alle spalle e il tempo che scorre) che Manoel prepara da anni, forse trovando così il segreto per sfuggire all’inevitabile destino, come quel saggio contadino che mangiava aglio per allontanare l’Angelo della Morte a colpi di alitosi. Anche per il Bardo de Oliveira guarda alla Fine con The Tempest, l’ultima opera a lui interamente attribuita, insistendo sul ruolo di un Re esautorato, privato dell’esercizio del potere e obbligato a ricorrere ad arti magiche per riavere ciò che è suo, ristabilendo un ordine prima della sua dipartita. Di Joyce, quasi in controtendenza, come a rimarcare che la parte non è “di” Gilbert, ma gli è assegnata, senza calzare alla perfezione, non vengono rievocati i morti di The Dead né le riflessioni di Bloom sull’aldilà che accompagnano l’episodio Ade; all’attore è invece assegnato il ruolo di Buck Mulligan, figuro inopportuno e rozzo che appartiene al sereno inizio dell’Ulisse. Sarà Gilbert a renderlo un’inconsueta maschera tragica. L’obbligo della messa in scena o l’impossibilità di accettare la verità Il re ha paura, ma soprattutto ritorna bambino. Così in Ionesco, con un Piccoli assistito dai gentili cameo dell’eterna musa deolivei-
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riana Leonor Silveira e dall’icona Deneuve. Ha così inizio il cortocircuito tra vecchiaia e fanciullezza, in verità già introdotto dal malinconico carillon da parco dei divertimenti dei titoli di testa (sull’aria di Sous le ciel de Paris di Hubert Giraud e Jean Drejac), musichetta giocosa e nel contempo intrisa di mestizia. A breve giungerà la ferale notizia e la famiglia Valence sarà resettata, ne rimarranno solo le ali estreme: il nonno Gilbert e il piccolo Serge. Gilbert resta protagonista, Serge comprimario, ma è come se i due dialogassero silenziosamente, a distanza, sulla loro condizione, senza incontrarsi quasi mai (a causa di orari differenti), ma tacitamente consapevoli del proprio destino. L’unico vero incontro, un pomeriggio trascorso a giocare con le macchinine telecomandate sul tappeto persiano di casa Valence, è il momento in cui gli opposti si incontrano e lo scambio di ruoli comincia ad avere luogo. E se la parabola di Gilbert vive l’andamento inesorabilmente discendente dell’intreccio, sullo sfondo è come se Serge crescesse in consapevolezza, fino al momento in cui il nonno assumerà un incarico impossibile da portare a termine. L’incontro con John Crawford, regista straniero e perfezionista, incarnato con minimalismo esemplare da Malkovich, è l’occasione di un ultimo riscatto, di un’ultima scommessa che Gilbert accetta orgogliosamente di affrontare, sottovalutandone le insidie. Crawford finisce per divenire Atropo, destinato (involontariamente) a tagliare il filo dell’attore e, quindi, dell’uomo. La finzione che sino ad allora ha permesso al protagonista di reggere la propria routine e la solitudo a lui cara si arresta di fronte alle difficoltà di un secondo strato di finzione, ostacolo insormontabile per le sue meningi stanche, portandolo a subire il peso improvviso di tutto ciò che è avvenuto prima: la tragedia personale, lo scoramento professionale, la presa di coscienza del tempo che passa inesorabilmente e di affanni che un uomo improvvisamente anziano non è più in grado di affrontare. La recita che l’amico-agente George aveva smascherato, quella di un uomo che si nasconde dietro alle maschere di scena, è repentinamente finita e la professione di attore, di per sé non soggetta all’età pensionabile, si rivela un crudele gioco al massacro dell’uomo, costretto ad accettare la sua senilità e ad esporla a un pubblico avido di emozioni. Il piacere della solitudo, dell’isolamento dagli affanni del quotidiano, in favore dei propri rassicuranti rituali vive solo nel limbo in cui è praticato, lontano dalla competizione di un mondo inutilmente accelerato.
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Nell’epilogo la macchina da presa sposta quasi naturalmente il suo obiettivo, concentrandosi su Serge anziché su Gilbert-Mulligan. Il bambino assurge al ruolo di protagonista e acquisisce consapevolezza di quanto avvenuto e dell’implicito passaggio di testimone; la durezza della vita incombe e richiede che Serge diventi prematuramente padrone del suo destino. Sotto il cielo di Parigi: un’idea di cinema conservatrice e rigorosa Perché Parigi? Per de Oliveira il ruolo della Ville Lumière è chiaro sin da principio. Rappresentativa – anche in virtù di una prospettiva “antica” – dell’Urbe occidentale, sinonimo di progresso e frenesia, ma sospesa in un’atmosfera fiabesca: introdotta dalle immagini di una giostra e da una rappresentazione teatrale, a sottolineare l’irrealtà di quanto illustrato e quindi la sua natura di astrazione e di possibile racconto apologetico. Parigi è scelta per la sua duplice natura. Di giorno città dalle mille possibilità, con i suoi bistrot e i suoi café ricolmi di vita, con i negozi così carichi di meraviglie da poter mutare l’umore del più malinconico degli uomini, con il suo surplus di cultura capace di appagare lo spirito a ogni angolo di boulevard, sotto forma di quadro in vetrina o di evento teatrale. Di notte è un’altra faccia ad essere svelata, il lato oscuro della globalizzazione e della modernizzazione, in cui ogni strada nasconde un pericolo o un drammatico bouleversement (Gilbert ci rimette le adorate scarpe, rubate da un tossicodipendente minaccioso). Il gusto di vivere la propria vita diviene paura di passeggiare, terrore da coprifuoco, humus ideale per la riflessione conservatrice insita nel cinema di de Oliveira, ma in modo particolare in Je rentre à la maison, titolo già di suo esemplarmente aventiniano. Per Manoel de Oliveira cinema e senilità appaiono come due concetti difficilmente distinti, quasi come se il cinema appartenesse necessariamente a un’età matura, in cui è possibile acquisire la consapevolezza di guardare indietro e giudicare senza apparire precipitoso o superficiale. Prima ha luogo la vita nella sua pienezza (e il cinema di de Oliveira – un passato remoto di atleta alle spalle – come pochi altri anela alla nostalgia della gioventù e delle gioie terrene) e solo in seguito la sua rappresentazione, la
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sua trasfigurazione su pellicola. Non è casuale che nei primi 50 anni di vita il maestro portoghese abbia girato un solo lungometraggio e ancor meno che nel lontano 1933 assumesse posizioni scettico-conservatrici nei confronti del cinema americano. Nel pamphlet dal nome O Cinema e o Capital si scatenava la sua critica, apertamente conservatrice, verso la “via americana al cinema”, rea di consentire all’industria e al commercio di costringere l’artista a un ruolo subalterno e umiliante. Temi che ritornano, con aggiornamenti minimi, nel terzo millennio di Ritorno a casa, dove Gilbert-Piccoli si vede proporre sistematicamente ruoli ben pagati ma professionalmente frustranti in produzioni televisive di basso profilo, dominate dall’ostentazione di sesso e violenza in quantità generose. Per George, nemesi artistica di Gilbert-Piccoli-de Oliveira, il medesimo concetto è adattabile all’esistenza e sentirsi vivo significa prendere in considerazione l’idea di un flirt con un’attrice di quarant’anni più giovane: una malcelata proposta, condita di riferimento a Pablo Casals, che scatena l’indignazione del rigoroso e coerente Gilbert e ribadisce la sua figura di integrità morale. “Avevo in mente Piccoli. Pensavo a una storia sul peso che ha la morale nella nostra vita, con i suoi comandamenti che impediscono di impigliarsi nella politica, una storia sul pudore di un uomo intransigente, capace di dire no alle cose che non ama, ma che obbedisce alla prima legge, il rispetto per il prossimo”2. Così de Oliveira, a conferma di un’idea di cinema incrollabile, che vede in Buñuel l’esempio perfetto di chi, pur trattando temi sovente scabrosi, sa sempre mantenere il pudore della messinscena ed evitare l’aborrita pornografia: “Buñuel non ha mai messo in scena atti sessuali o scene pornografiche, cose di natura intima che altri registi disinibiti e desiderosi di pubblico avrebbero generosamente esposto, specie in televisione. Nonostante ciò, la violenza nei film di Buñuel è più potente, non meno, perché nel profondo Buñuel, per strano che possa sembrare, era un uomo modesto e i suoi film suggeriscono più di quanto mostrino”. Manoel non ha però in serbo per l’orgoglio di Piccoli-Valence un destino favorevole: le succitate Moire sembrano giocare eccessivamente con la capacità di resistenza dell’anziano attore, come 2
I’m Going Home (Je rentre à la maison), Pressbook, Milestone Film & Video, 2001.
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se il mondo andasse in una direzione opposta alla sua. Un criminale deruba Gilbert ed ecco che George gli propone la parte di un vecchio in balia di una banda di criminali. Gilbert rifiuta in attesa di parti degne di lui e quando l’occasione arriva si traduce in un’altra, obbligando l’attore a un trucco pesante per calarsi nei panni di Buck Mulligan. Ecco che la baldanzosa affermazione esternata di fronte a George (“Posso entrare in qualsiasi parte... Li ho interpretati tutti”) si scontra con una realtà differente, quasi in un malevolo contrappasso. Il Re delle maschere se meurt, in un loop che parte da Ionesco e vi fa ritorno passando per Joyce, come se la fatica piombasse addosso a Mulligan-Gilbert in un colpo solo, rendendo insostenibili età, solitudine, tragedie personali e pantomima della messinscena. Un caffè e un paio di scarpe: il memorabile nel quotidiano Delle molte sequenze indimenticabili di Ritorno a casa almeno due si stagliano sopra le altre. La gag del caffè-bistrot, prolungata in diversi atti del dramma, e costantemente muta (di voci umane, non del tintinnare di cucchiaini e tazzine), rivela una nuova sensibilità in de Oliveira, quella nostalgica di un Jacques Tati o di un Otar Iosseliani, osservatori delle curiosità umane sotto forma di deliziosi quadretti girati senza dialogo. Quasi un duello a distanza quello tra Gilbert-Libération e “Monsieur Le Figaro”, evidentemente dissimili nell’approccio alla vita e nelle scelte, ma accomunati dal feticismo per un unico e insostituibile tavolo del café prediletto. Tenzone che diventa triello quando Gilbert altera gli orari e i confini invisibili prestabiliti e ai contendenti del tavolo finisce per aggiungersi un “Monsieur Le Monde”, una terza tipologia umana con pipa come corredo. Parentesi di comicità leggera come zucchero a velo, ideali per smorzare il dramma della parabola di Valence. Ancor più geniale e in qualche modo rivoluzionaria la camera fissa sulle scarpe di Gilbert; quasi una scheggia di nouvelle vague, capace di donare una personalità a una parte del corpo differente dal volto, come se fosse possibile evincere uno stato d’animo dalla sua semplice osservazione. Come per il Truffaut di L’uomo che amava le donne era sufficiente inquadrare le gambe delle donne
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per studiarne la psicologia, così per de Oliveira è la “danza” delle calzature del protagonista l’indizio del suo umore. Il movimento baldanzoso delle scarpe nuove sembra l’immagine vivente della contentezza dell’uomo, orgoglioso della sua solitudo di fronte alle rimostranze di uno stranito George, dove il primo piano di due scarpe nere, vecchie e malandate (che Gilbert è costretto a indossare dopo il furto delle precedenti) trasmette una sensazione di disagio palpabile. Quello di piedi esitanti e in difficoltà, un malessere che prelude alla serie di umiliazioni psicologiche che Valence dovrà subire di lì a poco.
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Daniela Persico
SULLA SUPERFICIE DELL’IMMAGINE ARCA RUSSA (2002) DI ALEXANDR SOKUROV
L’immagine ha spesso più memoria e più avvenire di colui che la guarda. Georges Didi-Huberman
L’atto di aprire gli occhi, di passare dal buio alla luce, segna un momento liminare del cinema di Aleksandr Sokurov. All’inizio vi è soltanto la parola, espressione di una condizione umana ormai esiliata dal mondo donato, esausta delle lotte del mondo moderno ma ancora in grado di ricreare attraverso la favella un sé, un’apertura soggettiva, debole ma resistente, attraverso la quale riattraversare un mondo, geografico o storico. Arca russa è l’elaborazione estrema di questo io-viaggiante, che attraversa numerose Elegie, per ritrovarsi ad assumere la forma più complessa nel film che chiude un percorso durato vent’anni: tra Russia, Occidente e Oriente si avventura un’istanza narrante le cui caratteristiche variano di progetto in progetto, sfumature di una riflessione esistenziale in continua elaborazione che prova a rintracciare le proprie origini e a superare il vuoto di una catastrofe novecentesca che ha lasciato l’uomo orfano di ogni ideale e incapace di formulare nuove visioni. C’è un’incapacità da superare, un’inadeguatezza che rende ondivaghi, una mancanza di adesione che trasforma in spettri: ombre che attraversano spazi carichi della potenza di un passato misterioso, reso manifesto solo nel suo aspetto mostruoso o incantato. Da questi presupposti prende vita la voce di Arca russa, che in apertura esplicita la sua origine confusa: “Apro gli occhi e non vedo niente”, si sente sullo sfondo nero. “Niente finestre, niente porte. Ricordo che è accaduta una disgrazia e tutti fuggivano, ognuno come poteva, per mettersi in salvo. Quanto a me, non ricordo”.
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Solo allora irrompe sullo schermo la luce accecante e bianca che abbaglia e ferisce la vista: siamo nel cortile interno dell’Hermitage sotto il turbinio della neve e tra i fruscii di abiti immacolati delle invitate di una festa a palazzo. Uno sguardo avvolgente e rapido si intrufola tra dame e cavalieri precedendoli verso la scalinata per poi accontentarsi di seguirli. Nel passaggio dal nero alla luce si crea uno scarto di conoscenza e di visione tra l’apertura delle palpebre dell’io-narrante e la nostra percezione: la rapidità del movimento della camera contrasta con l’incertezza contenuta nelle parole del narratore, che nella prima parte del film si rivolgerà con tono titubante e sospeso: “sono invisibile o non mi hanno notato? Che spettacolo sarà? Tutto questo si recita per me o sono io che devo interpretare un ruolo?”. Domande che fanno eco ad altre questioni sollevate negli incipit di Elegia orientale e di Elegia del viaggio, in cui la voce interiore del regista accompagna una partitura visiva come un contrappunto che amplifica le immagini, riconducendole alla narrazione di un’anima periclitante, unica chiave d’accesso alla superficie raggelata e sfuggente sotto cui appare il mondo. Il travelling, le lenti anamorfiche, l’uso del grandangolo amplificano la fuggevolezza del paesaggio, eternamente immerso nella nebbia e nella foschia invernale, dove anche l’uomo perderà poco a poco la sua consistenza per poter entrare in un territorio di mera superficie, ormai ridotto a ombra senza volumi e senza volto. Così la voce atavica di Elegia del viaggio, che inizia come una sorta di genesi in cui si passano in rassegna le grandi evoluzioni della società umana (dal Paradiso terrestre rappresentato nell’albero spoglio ma carico di frutti, immagine-simbolo che ritorna più volte nei film di Sokurov, alla presa di distacco dalla fede e alla delusione della Storia), potrà ritrovare una sua figurazione nell’atto dell’attraversamento della memoria: una sagoma scura entra nel Museo Boijmans van Beuningen di Rotterdam, anticipazione del viaggiatore di Arca russa. Ma anche sviluppo della silhouette che sogna le origini della cultura sull’isola di Elegia orientale. E più, in generale, elaborazione di una pratica erratica in cui la voce trova sé nell’altro, come in un gioco di maschere suggerito dall’ineffabile teatro kabuki: dispositivo messo esplicitamente in atto in Robert. Una vita semplice, in cui la vicenda del pittore che ha attraversato le corti europee, con le sue tele soavi e il suo spirito serafico, è messa alla prova da un
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destino che gli strappa i figli, lasciandolo di fronte all’armonia di un albero che ogni anno rinnova la sua meravigliosa fioritura, così come accade al regista di fronte alla realtà sensibile del mondo. Proprio questo “dispositivo di alterità”, come lo nomina nella sua acuta analisi Sylvie Rollet1 è alla base de Arca russa in cui alla voce del narratore/smarrito, che solo a tratti coincide con la visione della soggettiva che attraversa il film, viene affiancato il corpo di un viaggiatore straniero, identificato – contro la volontà di Sokurov – con l’erudito marchese francese Astolphe de Custine. È proprio quest’ultimo ad attraversare fisicamente il tempio della memoria, l’Hermitage, spalancando porte e aprendo nuove prospettive, interrogando brutalmente visitatori e personaggi storici, venendo perlopiù scacciato da qualche guardiano o dai servitori più zelanti, avendo i suoi dubbi (“che lingua sto parlando?”) ma guidando le visioni talvolta contro il volere del compagno di viaggio. Ma soprattutto è il corpo del viaggiatore europeo che ci lascia immaginare l’altro “visitatore” di cui sentiamo solo la voce: esclusivamente attraverso la presenza di Custine, delle sue occhiate in cerca di consenso o di risposte, lo sguardo della camera diventa soggettiva, sguardo del corpo di cui sentiamo solo la voce. Succede palesemente nel momento dell’incontro tra i due all’inizio del film, in cui Custine rivolge un saluto in macchina, in quello finale del commiato, ma anche ogni volta che le volontà dei viaggiatori si trovano in disaccordo, segnato più dalla scelta di distaccare lo sguardo, che dalle pacate interferenze del commentario. Voci fuori e dentro il tempo, per attraversare la Storia Dopo l’immersione iniziale tra gli invitati al gran ballo, la storia dell’Hermitage riaffiora dapprima come teatro magico, a cui i due invisibili viaggiatori possono o meno prestare la loro attenzione. Dietro le finestre illuminate da una luce calda si scorge il fondatore dell’Impero russo Pietro il Grande, la cui rievocazione fa riaffiorare nello spettatore la domanda, mai sopita: “Tutto questo si recita per me o sono io che devo interpretare un ruolo?”, alla quale fa immediatamente eco l’affermazione scanzonata di Custine, che pas1
S. Rollet, Aleksandr Sokurov, CinémAction, n. 133, 2009.
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sando davanti alle guardie incuranti della sua presenza affermerà: “Siamo in un teatro”. Sono dunque solo spettatori? Nostri spettrali o incarnati traghettatori nella costruzione del film? La scelta alla base del progetto di girare Arca russa in continuità come un unico piano sequenza, volto a simulare l’attraversamento fantasmatico dei due viaggiatori confermerebbe l’importanza di questa posizione. Come noi, sono chiamati in causa dalla contemporaneità: il potere dell’invisibilità viene infranto da chi si muove come visitatore all’interno del museo (i due amici del regista, il medico e l’attore) ed è pronto a riconoscere e interrogare gli altri ospiti del tempio della memoria aprendo un dialogo che indirizza la ricerca artistica di Arca russa oltre i confini dell’estetico verso una scoperta ontologica dell’arte come traccia del mondo e dell’uomo. Abbandonando disgustato le elucubrazioni intellettuali riguardo ai simboli in Tintoretto, Custine ottiene credito da parte del visitatore che, sancendo la decisione con una chiara soggettiva in cui più volte passa dai suoi contemporanei al visitatore europeo, sceglie di continuare con lui la peregrinazione che si muoverà su due traiettorie: il confronto sulle apparizioni della Storia e sull’arte con la sua eterna presenza. I corpi della Storia sono ineffabili, colti in momenti che sottolineano la fragilità, l’evanescenza, la temporalità dei diversi regnanti o intellettuali russi. In questo sono dissimili dai loro visitatori: mentre Caterina la Grande è sopraffatta dalle impellenti necessità corporee, Puskin è tormentato dai problemi personali e la piccola Anastasia vola lungo i corridoi danzando come un’ineffabile farfalla, i due visitatori hanno abbandonato la natura umana, almeno quella legata ai piaceri e alle urgenze sensibili (“ti ricordi ancora il sapore del cibo?”), a loro resta soltanto una stanchezza che diventa condizione esistenziale. La debolezza del protagonista invisibile, che nonostante i suoi voli attraverso le sale, non riuscirà a raggiungere Caterina nel giardino d’inverno che la inghiotte nelle brume dell’orizzonte, portando via con sé i suoi ultimi segreti, la debolezza sempre più marcata nel procedere del viaggio di Custine sempre fuori luogo sono segnali d’impotenza dell’uomo sul tempo. Incapace di essere curioso nei confronti del futuro, pronto a criticare un passato che non comprende, il marchese si mostra voglioso soltanto di appartenere al suo tempo: un Ottocento di balli e momenti ufficiali, dove San Pietroburgo splende come ca-
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pitale della musica e del teatro. Nello sfarzo di abiti da sera e di tenute da parata, il corpo scuro di Custine, che salta da una ballerina all’altra trascurando per la prima volta il suo accompagnatore, è una macchia scura, uno spettro lugubre che nonostante abbia trovato la sua dimensione storica non potrà mai integrarsi, diviso da una cultura che non gli appartiene. Per questo non arriverà mai alla fine di un viaggio di cui molte tappe sono a lui totalmente estranee, quasi spiate, come fossero quadri viventi in cui è impossibile penetrare: la scena familiare della famiglia Romanoff, condensato delle tensioni di un mondo fuori dal tempo, la camera scura dove si conserva il ricordo negato dell’assedio di Leningrado e il suo milione di cadaveri. Rimossi di una Storia attraversata da strappi, di cui la mancanza di coesione tra voce, occhio e corpo del narratore è il frutto più evidente. Se la voce di Arca russa viene dal futuro, ovvero dal nostro presente che tenta di elaborare sia i rapporti con l’occidente sia la caduta del comunismo (“una Convenzione durata settant’anni” nelle parole del narratore), lo sguardo che attraversa il film sembra disincarnarsi (se così si può dire) dalla voce per seguire il volo sensuale e erratico della memoria, capace di spalancare il museo ad archivio del mondo, dove l’ordine del simbolico può da un momento all’altro prendere vita. Così la pittura offre i suoi angeli, come la storia le sue vittime, in apparizioni fugaci di eterea bellezza che rapiscono i due visitatori incapaci di stare al passo dell’incanto dell’innocenza. In un solo respiro: sulla superficie del tempo regna l’immagine cinematografica Fin dalla sua presentazione al Festival di Cannes del 2002, Arca russa si è segnalato tra i più interessanti utilizzi del digitale, nel momento della sua affermazione nella pratica registica: in un momento in cui l’Europa tende a enfatizzare l’idea di un cinema domestico, che proprio nella sua frugalità è portatore di una rinnovata istanza di realismo, mentre gli States abbandonano l’idea di mimesis dando vita ad oggetti e universi dall’esistenza autonoma rispetto alla realtà, Sokurov si pone con la sua opera come un esempio estremo e originale di intendere l’immagine digitale.
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Alcuni hanno interpretato il gesto del cineasta come la realizzazione dell’utopia baziniana del piano-sequenza garante della non manipolazione della realtà, resa possibile solo a patto di perdere l’indicalità ontologica della pellicola, ma questa interpretazione ci appare forviante per la rigorosa teologia dell’immagine che sottende tutto il cinema di Sokurov2. L’impresa epica di misurarsi con un film nel tempo del suo accadimento, possibile solo attraverso una camera ricaricabile dal punto di vista energetico e di memoria, è in realtà resa affrontabile solo grazie ai trucchi della post-produzione, che permettono la cancellazione di eventuali attrezzi di scena e la possibilità di modificare il quadro laddove sia insoddisfacente rispetto alla visione preordinata dal regista. Il digitale di Sokurov diventa quindi una sfida all’ordine del tempo: si concretizza nella superficie di un’immagine che ha ormai smarrito la sua connessione naturale con il mondo sensibile, proprio come l’hanno perduta per sempre i due viaggiatori che ci conducono attraverso l’Hermitage. In questo senso il regista russo opera il recupero della dimensione di creazione dell’immagine, che è prima di tutto immagine e solo in seconda istanza traccia del mondo. Più in generale nel momento in cui il cinema perde il suo essere impronta, trova in Sokurov e nelle sue immagini-parvenza il cantore di “figure d’interfaccia”, come vengono definite da Jacques Rancière in Il cinema come pittura? 3, in grado di spalancare la visione verso nuovi orizzonti della storia delle immagini. E sarebbe incongruo non ripercorrere Arca russa come una teoria di queste immagini: le tele riprese dallo sguardo che vola alto del visitatore attivano il loro tempo interno proponendosi a noi spettatori come narrazioni attraversate dall’esperienza della visione. Per questo è trascurabile il loro risvolto simbolico, analizzato dai due eruditi dei nostri giorni, quanto invece è fondamentale lo spossessamento dello sguardo e la ricostruzione attraverso la memoria. Ed ecco che Custine, personaggio renitente dal punto di vista della presa di coscienza storica, si offre però come transfert per il visitatore nell’avvicinarsi al senso profondo dell’arte, unica 2 3
A questo proposito vedi a cura di M. Pezzella, A. Tricomi (a cura di), I corpi del potere – Il cinema di Aleksandr Sokurov, Jaca Book, Milano, 2012. In S. Francia di Celle, E. Ghezzi, A. Jankowski (a cura di), Aleksandr Sokurov. Eclissi di cinema, Associazione Cinema Giovani, Torino, 2003.
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dimensione a possedere la materialità perduta nel mondo fantasmatico dell’arca. L’impalpabilità dei corpi è contrapposta alla solidità del marmo, sfiorato sensualmente da una donna cieca, che conosce le opere meglio di chi può ancora guardarle: ne tocca le superfici, ne sente l’odore dei colori, la ruvidità dei legni. Opere e persone sono legate da segreti celati (la danzatrice Alla Osipenko, che ammira la Danae di Rembrandt) e da desideri espressi (il giovane marinaio che immagina un futuro in cui gli uomini prenderanno le iconiche fattezze di Pietro e Paolo): ma il dato concreto della realtà sembra appartenere solo a questa collezione di opere che ha resistito alla Storia e alle voluttà umane per imporsi come elemento forte e duraturo, elemento di memoria, nei confronti di chi la guarda e la attraversa, fuggevole ombra destinata a confrontarsi con l’eterno navigare del flusso della vita. Le immagini ci sopravvivono, proprio nella loro natura di immagine, e il movimento del cinema non sta nella simulazione della precarietà della vita ma nel raggiungere lo statuto dell’arte: il cinema, nelle tensioni di Sokurov, deve far coincidere le forme del suo pensiero concretizzato sullo spazio rigidamente bidimensionale dello schermo bianco. Ed è su questa superficie, costantemente in divenire, che si sta formando un nuovo statuto dell’immagine scomoda, offuscata, mutevole e cangiante, che solo nella sua non finitezza riesce ad accogliere l’atto stesso del vedere, solo così, staccandosi dalla “chimera” che fu l’Hermitage e il cinema del Novecento.
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Toni D’Angela
IL METODO DEL MOVIMENTO DIECI (2002) DI ABBAS KIAROSTAMI
Sempre e di nuovo un corpo a corpo, un campo/controcampo intenso e drammatico, un dialogo che è confessione e al tempo stesso conflitto, un affidarsi e rimettersi all’altro, all’interlocutore, al compagno di viaggio, e un contrapporsi polemico ad esso. Sempre e di nuovo un viaggio, da Il viaggiatore a E la vita continua, da Il sapore della ciliegia a Copia conforme e fino a Qualcuno da amare. La vita è fatta di incontri scriveva Baruch Spinoza e il cinema spinozista di Abbas Kiarostami è una costellazione di incontri, è l’apertura su ciò che è mobile e il movimento si dà solo là dove vi è un clinamen, una pendenza carnale dell’uno sull’altro, cioè l’incontro, l’ac-cadere di un prendere-luogo fra i corpi. Ecco perché Jean-Luc Nancy ha potuto osservare che ciò su cui si apre lo sguardo di Kiarostami è un trasporto, ossia la mobilità del mondo, il movimento che è anzitutto un campo/controcampo come quello che marca Dieci dall’inizio alla fine. Nel campo/controcampo prende posto, reversibilmente, l’interpellarsi e interrogarsi dell’uno con l’altro. La macchina da presa è innestata sulla macchina e sulla sua guida proprio perché l’uomo non vive isolato, anche quando incapsulato nell’abitacolo di un’auto, e comunica con gli altri, piange, ride, urla, esita, sterza, frena, accelera, cambia direzione, riserva attenzione agli altri conducenti, è cauto, oppure li manda al diavolo, è intemperante, nervoso, accoglie l’altro offrendogli un passaggio. Dunque, come nel cinema del suo maestro Yasujirō Ozu, anche in questo film apparentemente statico nella sua composizione tecnica, c’è un intenso, e perfino smodato e drammatico, montaggio degli affetti. Non solo il movimento tutto intorno all’auto e ai personaggi, ma soprattutto una motricità all’interno della macchina e delle inquadrature, posture e tensioni, micro-espressioni, tutta una fenomenologia del corpo e dell’affettività esaltata ancor di più
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– come in Ozu – proprio dalla cornice che tende a chiudere e a contenere, lo spazio ristretto dell’auto in una società come quella iraniana che, similmente al Giappone di Ozu, è fortemente strutturata da codici e rituali. Nell’auto di Dieci si entra e si esce come nelle inquadrature di Ozu e anche quelle del cineasta iraniano, per quanto fissate e limitate da uno spazio sia geometrico che sociale, sono innervate se non innervosite da tensioni e onde anzitutto fra i corpi, da un montaggio di affetti che congiunge e disgiunge madre e figlio, anziana e giovane, sorella e sorella, moglie e prostituta. A dispetto del piano fisso e del contegno a cui le donne devono attenersi in Iran, Dieci, proprio come il cinema del maestro giapponese, è la messa in scena della violenza come trama del quotidiano, la pace come continuazione della guerra con altri mezzi nel cuore del sociale, dentro le fibre della famiglia. Forze esogene e forze endogene si intrecciano e sfibrano i legami, tendono a dirottarli, a intensificare il contrasto filmicamente raffigurato attraverso la durata del pianosequenza che è la rappresentazione sensibile, e non astratta, di un ordito dilacerato, un visibile fessurato da vuoti, incertezze, silenzi, campo di battaglia ontologico di una guerra combattuta tutti i giorni. Infatti la violenza dello scontro fra madre e figlio rinvia a quello di Un bambino che non molla mai di Ozu. Come nel piano-sequenza di Orson Welles, Kiarostami costruisce la regia sulla figura dell’attore risaltandone la forza mediante la scelta di conservare – evitando il montaggio classico – il legame vivo e la tensione brulicante fra il personaggio e lo spazio circostante che diventa vissuto e non solo rappresentato, entro cui si stagliano le correnti che attraversano la composizione del quadro, creando fra i personaggi e la macchina da presa un alone, una vibrazione che scaturisce dalla spazialità curvata sui personaggi e sulle loro emozioni. Un po’ come succede nel celebre piano-sequenza della cucina ne L’orgoglio degli Amberson, in cui la macchina da presa, pur rimanendo sempre immobile, è capace di afferrare e cogliere la dialettica fra due le azioni che strutturano il campo inquadrato, quella reale e quella apparente come diceva André Bazin: l’inquietudine di zia Fanny e l’ingordigia indifferente di George Minafer. Compositus (modestia dello sguardo) e dissolutus (smodatezza delle emozioni) nel suo cinema non sono più alternative ma pieghe di uno stesso tessuto che si spiega e dispiega.
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Del resto sulla linea tortuosa e ambigua del conflitto i corpi si conoscono e riconoscono fuori di formule e riti, drammatizzando, ridendo, piangendo, urlando, i personaggi dialogano, si urtano e urtandosi imparano a prendere le misure, a conoscersi, proprio come succede in Un bambino che non molla mai in cui la sofferenza diviene riso e gli schiaffi carezze. La conoscenza è co-nascita. La genesi delle cose e la tettonica delle emozioni, come in Five e Copia conforme. Kiarostami, paradossalmente, nonostante il piano fisso e la limitazione dello spazio d’azione concesso all’attore, libera tendenzialmente i personaggi dai condizionamenti abbandonandoli al flusso delle emozioni e al gioco della drammatizzazione terapeutica, sprigionando una motricità che eccede lo chador e il contegno rituale. E come al solito lo spazio off formicolante non è mai catturato né sottomesso all’azione degli uomini, ma solo alluso e riflesso per frammenti, in movimento, lungo la soglia del finestrino che divide e unisce interno ed esterno, dentro e fuori, perché la vita – che è fatta di incontri – è vasta, come dice l’automobilista iraniana. Questa è sempre stata la lezione più alta del cinema di Abbas Kiarostami e la più scandalosa poiché l’essere umano tende a innalzare muri attorno al proprio orticello e a rinchiudersi nelle sue parzialità. È quello sguardo che ha riguardo per il mondo di cui ha parlato Nancy nel suo libro dedicato al regista qualche anno fa1. Nel cinema del regista iraniano l’essere respira e nei suoi film trova dimora. Un essere che non è mai ricondotto all’unità né ripulito del suo “rumore” (da qui l’importanza dalla banda sonora che meriterebbe una trattazione a parte), ma che è bougé, aperto, vasto. In particolare quando Kiarostami raffigura lo spazio fuori campo per scorci e attraverso la componente acustica sprofondando il racconto nell’incertezza semantica e allargando lo spazio percettivo, là dove si svolgono altre vite parallele e accadono altri incontri. Tuttavia lo spazio interno di Dieci non è affatto familiare e acclimatato, la minaccia e l’ostilità non provengono semplicemente dall’esterno, la violenza è inscritta nel quadro delle relazioni interpersonali all’interno di una cornice istituzionale che sur-codifica i rapporti fino a soffocarli. Anzi, la voce off, fuori dell’inquadratura, perturba lo spazio chiuso e familiare, fino a straniarlo nell’incontro con la prostituta grazie anche ad un gioco 1
Cfr. J. Nancy, Abbas Kiarostami. L’evidenza del film, Donzelli, Roma, 2004.
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di luci e ombre e al vociare isterico e impastato della prostituta che quasi rimandano ad una delle “stanze” di The Chelsea Girls di Andy Warhol. Quindi in Dieci le interazioni fra interno ed esterno, sia a livello figurativo che a quello narrativo, sono complesse e intricate. Del resto il cinema è sempre un sistema di rapporti (spazio interno e spazio esterno, visibile e invisibile, colonna audio e colonna immagine, voce nell’inquadratura e voce fuori campo) e Kiarostami anche in questo senso è davvero esemplare. Il suo kadr, anche se fisso, non è mai statico, anche perché, in definitiva, è un appello che esige una risposta, una domanda che implica una ricevuta, poiché – come ha scritto una volta Kiarostami – le immagini del cinema sarebbero morte senza lo sguardo dello spettatore che è ciò che dona loro la vita. Il suo cinema dunque è l’aprirsi e illuminarsi dell’essere, una macchina di pensiero che dà presa e forma al mondo caotico e turbinoso, ma solo perché la macchina da presa a sua volta è esposta e può corrispondere all’appello dell’essere – così come l’auto pur prendendo le sue strade risponde in molteplici modi (frenate, sterzate, accelerazioni, soste) nel suo essere in rapporto con le altre auto. Dieci, come tutti i film di Kiarostami, è un logos che con riguardo raccoglie anzitutto l’essere disposti l’uno per l’altro degli uomini, un invito e una domanda che ci consegna a questa origine. Il movimento della macchina idealmente tende a risalire a questo strato primordiale. Ecco perché il suo cinema è un cammino: la verità è nel metodo (via, cammino): “il cammino è esso stesso la verità, secondo la lezione di tanta saggezza d’Oriente e d’Occidente, di cui la parola metodo (che vuole dire cammino di ricerca) è il compendio filosofico”2. Così come la parola è nel suo farsi e dire e non semplicemente nel suo detto. La parola in Dieci è un gesto che diventa smorfia, urlo, pianto, riso, sguardo che sogna e spera, un asse che inchioda e schioda i rapporti fra i corpi. La verità è nel farsi del movimento, nello scorrere della bobina, nel concatenamento e riconcatenamento delle immagini, degli istanti di vita quotidiana e vissuta, nuda e pura. La verità come evidenza, la mostrazione rosselliniana, è nel cammino, nell’incontro, nel muoversi incessante di flussi d’onda, corpi che tremano, 2
Ivi, p. 36.
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aspirano, si ammalano, si innamorano, piangono, ridono. Un corpo il cui interlocutore è sempre un altro corpo e che è certo è plasmato dalle istituzioni e dai costumi per esempio dell’Iran difficile dei nostri tempi, ma che, insieme, è anche un campo biologico di pregnanze come l’amore genitoriale o coniugale, valori che si propagano a partire dal corpo e che investono affettivamente gli spazi fino a rivestirli di nuovi significati. Le organizzazioni culturali e i mondi sensibili non sono mai schematicamente separati e Kiarostami investe le forme spaziali con le qualità soggettive dei suoi personaggi lungo la reversibilità del tempo che è la narrazione di questo ingranarsi reciproco e di questo incessante movimento, punteggiato da arresti, e di questo incessante dialogo, ritmato da silenzi e suoni. La vita continua discontinuando secondo la formula coniata da Jean-Luc Nancy. Anche in Dieci infatti non c’è inizio né fine. Lo ha spiegato lucidamente e geometricamente Spinoza perché l’essere (la sostanza) non può né cominciare né finire, cioè non implica un tempo de-finito. Se, infatti, implicasse un tempo limitato, che determinasse la durata della cosa, allora dalla sola stessa potenza con la quale la cosa esiste seguirebbe che la cosa non potrebbe esistere dopo quel tempo limitato, ma che dovrebbe essere distrutta; ma questo è assurdo: dunque lo sforzo con il quale la cosa esiste non implica alcun tempo definito; ma al contrario, se non è distrutta da nessuna causa esterna, la cosa continuerà ad esistere con la stessa potenza con la quale attualmente esiste, questo sforzo implica, dunque, un tempo indefinito3.
La vita non ha inizio o fine. Si dischiude nel mezzo e ci abbandona con una dissolvenza, così come Close-Up si apriva scavandosi una fessura nel movimento di passi di due soldati che a loro volta seguivano il movimento di un altro uomo. Il racconto con i suoi bordi non trattiene il movimento. Dieci è come una modellizzazione del suo cinema. Un va e vieni non solo della mdp ma soprattutto della macchina che non esclude e, anzi, invoca l’immagine ferma o fissa, come la parola implica il silenzio: l’immagine fissa è solo un’acutizzazione del riguardo che il regista ha per il mondo osservato e raffigurato. Il movimento segnala, indica, mobilita 3
B. Spinoza, Etica, Editori Riuniti, Roma, 2000, p. 179.
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lo sguardo dello spettatore che impara a custodire ciò che vede di questo tracciarsi, ritracciarsi, rintrancciarsi che non rinvia ad un fondo e che non cessa il suo continuare. Nemmeno il nero finale di Il sapore della ciliegia o la dissolvenza a chiudere di Dieci possono fermare una volta per sempre il movimento: si tratta in un caso dell’insondabile della morte e nell’altro di una sospensione che fa da giuntura fra gli istanti di vita. Come per Rossellini tutto è sullo stesso piano, non ci sono momenti decisivi che irrompono dentro situazioni banali. Il mondo è composto di serie e sequenze in un ordine che è confuso o che non risponde alle nostre attese di impiegati e ragionieri crocefissi al timing del capitalismo e, prendendoci in contropiega, ci porta a credere in rotture clamorose che trascendono la nostra potenza e la nostra capacità di comprensione. Come ricordava Rossellini: “I grandi gesti o i fatti importanti si verificano nello stesso modo, con la stessa pacatezza dei piccoli fatti della vita; e io cerco di rendere gli uni e gli altri con la stessa umiltà”4. Kiarostami è certamente il più limpido degli eredi del metodo rosselliniano. E come Rossellini il regista iraniano sperimenta un nuovo linguaggio e produce un movimento, senza riprodurlo, che insiste ancora e nonostante tutto sul legame fra l’uomo e il mondo. Ma questo legame altro non è che il movimento, il passaggio da una storia all’altra, il movimento della mela di Il vento ci porterà via, e soprattutto l’automobile che è una “cosa” in cui si guarda e che è in movimento: immagine-movimento. Verità del movimento e movimento della verità. Il movimento dell’auto (il cinema nasce come movimento di un treno che entra negli occhi degli spettatori fino quasi a tramortirli) e la verità espressa nel mezzo di espressione: una camera installata su un’auto. Movimento e verità in Dieci sono esemplarmente connessi e annodati l’uno all’altra, fra loro c’è una mutua conversione. Dieci, in ultima analisi, è l’annuncio di un senso che persevera a dispetto delle interruzioni e delle violenze, i terremoti e i regimi dispotici: un dis-velarsi. Come accade esemplarmente e poeticamente nel blocco più emozionante, quando la giovane iraniana, 4
F. Hoveydoun e E. Rohmer (a cura di), Nuova intervista a Roberto Rossellini, in AA.VV, Le Cahiers du Cinéma. La politica degli autori, minimum fax, Roma 2000, p. 67.
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come una novella Jeanne d’Arc, si disvela nella sua “nudità”, la sua qualità soggettiva, la sua pregnanza, esibendo il suo volto, la sua singolarità e la sua splendida testa rasata nel momento più toccante e scandalosamente “politico” del film.
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Alessandra Mallamo
L’ESISTENZA NON HA GARANZIA COLLATERAL (2004) DI MICHAEL MANN
Questo è quello – Questo è nient’altro che quello… Brhad-Āranyaka-Upanishad
1. Lentamente emerge qualcosa che appartiene al carattere selvaggio dell’esistenza, qualcosa che fa passare del tutto in secondo piano concetti come la volontà dei personaggi e le differenze tra i ruoli. Max (Jamie Foxx) e Vincent (Tom Cruise) si incontrano sul finire del giorno all’aeroporto di Los Angeles, un tassista notturno e il suo passeggero in grigio argento. Annie, avvocato d’accusa per un processo che si svolgerà il giorno successivo, è scesa prima dall’auto, ma, intelligente e affascinante com’è, è ferma nella mente di Max mentre Vincent lo incalza, lo convince ad accompagnarlo nei suoi giri per tutta la notte e poi a riportarlo in aeroporto. Un lavoro che sembra scorrere leggero come un’aria di Bach fino a quando improvvisamente Max non si ritrova coinvolto in una situazione inverosimile che lo costringerà ad accompagnare un sicario nella sua missione: Vincent infatti è stato ingaggiato per eliminare cinque persone collegate a un’inchiesta per narcotraffico. Contro tutte le sue aspettative e le sue convinzioni il viaggio di Max, e di Vincent, andrà avanti fino all’alba. Nell’effettività con cui le cose avvengono – perché esse inevitabilmente avvengono, a dispetto delle probabilità e del desiderio dei due protagonisti – si percepisce la compattezza di una narrazione senza profondità: gli elementi si muovono come su una superficie, si avvicinano, si incontrano e si scontrano allontanandosi, disgregandosi o legandosi tra loro. Le scelte individuali hanno un ruolo fondamentale nella logica del film, ma non nell’ottica semplicistica di un controllo dei personaggi sulle loro vite, poiché spesso le decisioni prese si ribaltano in qualcosa di completamente diverso
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rispetto a ciò che i loro fautori si aspettano: come in un’immaginifica “astuzia della ragione” ciò che conta non è ciò che essi vogliono ma il modo con cui realizzano un certo destino della narrazione. Ogni iniziativa personale, da Annie che lascia a Max il suo numero di telefono fino a Max che si schianta con il taxi, diventa nel prosieguo la realizzazione di una nuova casuale convergenza. Tutto ritorna in questo film di Mann, portando in primo piano l’aspetto meno probabile, secondario, quello che i personaggi non avevano considerato. Da un punto di vista strettamente convenzionale Mann mette in piedi una struttura che funziona benissimo: l’uomo comune coinvolto in una situazione straordinaria, l’incontro casuale tra due personalità e due esistenze che stanno agli antipodi ma che si rivelano alla fine in qualche modo affini. Il plot è talmente preciso da far apparire come significativo il discorso bizzarro e sarcastico di Vincent sui Ching, il destino, le coincidenze cosmiche e tutto il resto, poiché contribuisce a svelare, con esiti più prossimi a Schopenauer che a Hegel, l’inganno in cui i protagonisti sono trascinati. Non tanto, o non solo, dal regista – che gli fa credere per la maggior parte del tempo di essere in un thriller mentre il film diventa qualcos’altro – quanto dalla vita stessa che fa riemergere, nell’emergenza appunto, i suoi caratteri primigeni. Tra i neon, l’asfalto, l’acciaio e il cemento, la vita non è solo il flusso incanalato del traffico, quello che Max conosce e controlla perfettamente, né solo il flusso cui Vincent si adatta con facilità. Essa precipita a cascata, pesante come un corpo morto, e costringe i due protagonisti a esprimere se stessi e qualcosa ancora al di là da sé, divenendo spettacolare1 e “feroce”, nel senso esatto che dà alla parola il musicista Daniel quando racconta di Miles Davis chiuso nel suo spazio mentale con la musica. L’aspetto selvatico del film quindi non ha niente a che vedere con un tratto brutale o irrazionale che si oppone alla razionalità dell’uomo capace di scegliere, piuttosto si tratta di un modo di essere dell’esistenza che non si può sottoporre a controllo, che non ha regole conoscibili ma ha un ordine, esattamente come avviene 1
Subito dopo l’incidente con il taxi, la prima cosa che Vincent dice a Max è “sei stato spettacolare!”.
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in una creazione artistica, come accade, per esempio, nella musica; non è un caso se nel film, insieme allo studio “pittorico” sul colore2, essa diviene un elemento chiave della messa in scena con cui Mann si relaziona in senso antropologico e storico. Secondo questo schema, la dimensione individuale è vettore di movimento più che elemento discriminante. Il riferimento al cervo investito, con cui Max tenta di ingannare i poliziotti spiegando la provenienza del sangue sul parabrezza, l’incontro con il coyote, l’essere “feroce” di Davis, sono indizi di questa animalità che fa da basso continuo alla storia riverberando nella notte di Los Angeles. Le luci opalescenti dei neon, il nero perso e il fumo dell’orizzonte metropolitano mettono in luce come la vita proceda incessante nel suo puro essere qui e ora, ed è l’esistenza densa nel suo farsi che preme sui due uomini attraverso i vetri della cabina del taxi, fino al momento dello schianto dell’auto. 2. Ovvero l’istante in cui Max si rende conto di essere di fronte alla scelta tra il rimanere schiavo di ciò che sta vivendo e la sua morte. L’immagine che si forma ai nostri occhi è quella di un uomo che si lancia contro il suo stesso istinto di sopravvivenza: l’uscita dalla necessità elementare di sopravvivere a favore di una moralità pura. Ma una moralità pura non esiste e immediatamente gli eventi si ripresentano, attraverso un fatto collaterale a quello centrale rappresentato dall’incidente, cioè la casuale scoperta che l’ultima vittima destinata a cadere sotto gli spari di Vincent è proprio Annie. Qui Max indubbiamente fa una scelta personale ma ciò avviene perché ha adesso riconosciuto in se stesso quel tratto selvaggio ed elementare che dà priorità all’esperienza della pienezza dell’al di là da sé. L’atto con in cui prende il controllo della situazione e del racconto ha innegabilmente qualcosa di animalesco: è sotto shock ma alla vista dell’immagine della donna reagisce. Non calcola più il tempo, lo sente come venir meno della vita, non chiede l’aiuto del vigile, lo aggredisce, usa il linguaggio del sicario, agisce impulsivamente come lui ma si trova in realtà a un diverso livello di 2
Su questo tema specifico vedi B. McCann, Bliss in Blueness: Colour Strategies in the Films of Michael Mann, in W. Everett,, Questions of Colour in Cinema: From Paintbrush to Pixel, Peter Lang, Berna, 2007, pp. 141-160.
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consapevolezza: è un istinto nato dalla stessa indifferenza di cui diceva Vincent poco prima, secondo cui: “Non c’è una buona o una cattiva ragione per vivere o morire”. La svolta sta nel modo con cui il conducente del taxi accoglie le parole definitive del suo passeggero: “Specchiati! […] che cazzo ci fai ancora dentro un taxi?” Specchiandosi Max non vede se stesso, sia perché guardando indietro metaforicamente realizza che non ha fatto granché della sua vita, troppo preso dalle sue manie di perfezione, sia perché materialmente lo specchietto retrovisore in un’automobile non riflette l’immagine di chi guarda. Intersecando il piano visivo, costituito dal fatto che Max è alla guida di una vettura, con il significato metaforico che Vincent dà alla sua esortazione, si crea un cortocircuito che mette in luce, nuovamente, un significato collaterale delle parole “Look at the mirror”, ciò che Max vede non è la sua immagine ma Los Angeles alle sue spalle, la città come un tutto sfocato e multiforme, e sente adesso di appartenerle mentre all’inizio del film sognava un’isola blue in green e sbatteva la portiera per non sentire dove si trovasse. L’indifferenza di cui si parla qui non riguarda in alcun modo la freddezza glaciale classicamente riferita al personaggio del killer, non è così nemmeno per l’assassino interpretato da Tom Cruise, malinconico e filosofo, è invece un altro ordine, qualcosa che prima dello schianto Max accosta all’inumanità, se è indifferenza verso gli altri, ma che scoprirà come potenza, quando diventa abbandono del mito dell’io; la nuova consapevolezza che guida Max è quindi nello scoprirsi parte di quella vita notturna e incontrollabile ma non disconnessa come invece pensa e dice Vincent all’inizio del loro viaggio. Dopo lo schianto abbandona il veicolo che, lentamente, al pari di tutto ciò che pensava di se stesso, è stato fatto a pezzi scena dopo scena, ed entra nudo nella città: a dire il vero, è la città, come apparire cangiante dell’essere, che è entrata in lui. La distruzione del taxi è perciò la distruzione di un certo modo di raccontare: il tassista per la maggior parte della storia si trova a essere eterodiretto da Vincent, che agisce come un autore che dirige un racconto. Un tassista è sempre qualcuno cui si dice dove andare, per la natura del suo lavoro egli esegue, è un morfema di reggenza delle necessità di qualcun altro (ed è lo stesso per un sicario). L’incidente è la fine del dominio di Vincent sulla visione,
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oltre che sulla vita di Max. In un primo momento questi tenta di prendere il controllo allo stesso modo di Vincent, osservando da fuori gli eventi: tenta di salvare Annie guardando negli schermi di vetro del palazzo dove si trova la donna braccata dal killer, li vede entrambi e le dice per telefono cosa fare. La scena è un passaggio geniale sul meccanismo del montaggio alternato ma Max è ancora solo uno spettatore, per portarla a compimento secondo il suo desiderio dovrà entrare nello schermo. L’immagine ritorna quindi padrona di se stessa e incanala i due protagonisti verso l’esito del racconto, che si chiude sintomaticamente su un treno della metropolitana. 3. La scena finale che fagocita il cadavere di Vincent verso luoghi indefiniti testimonia che un controllo totale sugli eventi non è mai possibile, non basta adattarsi e tentare di ingannare il flusso dell’esistenza, magari aggrappandosi all’ultimo vagone di un treno in movimento. Mentre Max si libera dalla tirannia che si è da sempre autoimposto, Vincent svela una adesione a se stesso fin troppo profonda e non così indifferente. Alla fine, per questa sorta di hybris, pagherà la vita con la vita. “La mimesi tra uomo e città è completa, e ha raggiunto il suo punto di non ritorno”.3 In questa fusione finale si coglie l’assenza di stacco tra il personaggio e lo sfondo mettendo definitivamente in luce che per tutto il corso del film è la superficie che conta più della profondità. Superficie moltiplicata su stessa come indica chiaramente la ricerca sull’immagine: primo film notturno realizzato in gran parte in digitale, Collateral mostra una notte del tutto nuova al cinema. L’uso della Viper, una telecamera digitale altamente sensibile, riesce a cogliere nella sua pura essenzialità l’oscurità che avvolge la cabina del taxi, punto prospettico del racconto. Da lì la città è luce, colore e fumo, la superficie è una tela chimica, senza materialità se non l’aria stessa che si fa densa e pungente, come la notte in luoghi deserti. Fanno da contraltare le vertiginose riprese in elicottero: Los Angeles viene schiacciata su un piano, luogo di intersezione delle esistenze e degli eventi, e diventa superficie fisica di interazione tra forze e corpi. 3
P.M. Bocchi, Città di uomini, uomini di città, , “Cineforum”, n. 439, 2004, p. 15.
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Gli sforzi e la precisione del regista visualizzano il luogo nella sua singolarità, attraverso i calcoli precisi del tassista sui tragitti da percorrere, le atmosfere complesse dei locali notturni che condensano mondi geograficamente e culturalmente diversi, l’immagine digitale che ha richiesto interventi di implementazione della luce davvero ridotti. Questa attenzione al luogo si intreccia alla riflessione sul soggetto: esso si scopre così di una sostanza non differente, affine al piano in cui sono situati. Se l’essere dell’umano catalizza l’attenzione manniana fino al punto di porgerlo alla visione, ancora una volta4, sdoppiato in due personalità antipodi e archetipiche, dalla scelta di un territorio radicalmente antropizzato com’è la metropoli californiana deriva, paradossalmente, una sorta di osmosi che decentra il tratto antropologico e coglie nel decentramento stesso una caratteristica essenziale dell’umano. 4. Il meccanismo di spostamento con cui funziona Collateral è talmente radicato che i sentieri secondari percorribili a partire dal film si moltiplicano nel tempo, intendendo con questo non il tempo del racconto ma l’epoca storica che stiamo vivendo e che è balzata ai nostri occhi sul finire del 2008. Indipendentemente dal fatto che fosse o meno nelle intenzioni del regista, oggi affiorano con più evidenza delle linee semiotiche che ricollocano il film in un’attualità stringente, a partire dal titolo. Il termine collateral infatti non è solo un aggettivo con il significato di “secondario, collaterale, affine”; nel linguaggio dell’economia finanziaria indica la garanzia su cui un creditore può rifarsi nel caso in cui un debito contratto non venga poi restituito. Il collateral è ciò che il debitore ipoteca a favore del prestito richiesto. Inutile dire quanto e quale impatto rappresenti la parola debito oggi, che l’intera nostra esistenza, o almeno quella di moltissimi, è definita, guidata, e giustificata forse, da questa diabolica presenza. Collateral è in un certo senso anche una riflessione profetica e profonda su ciò che lega vita ed economia nel concetto di debito, oggi, a distanza di otto anni, che sono pochi ma sembrano rappresenta4
Il tema della coppia antagonista e della sua perturbante specularità è un tratto “classico” del cinema di Mann già declinato in Manhunter (1986), Heat (1995) e Insider (1999)
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re un tempo immenso. Cogliendo il punto nevralgico del problema, il film mostra che la garanzia è, senza altra possibilità, la vita. Vincent in tutto questo è una sorta di operatore finanziario che tratta l’esistenza alla stregua di un sistema economico, e, a ben vedere, tra le tante analisi partorite circa il funzionamento del capitale finanziario molte hanno individuato la sua logica in una struttura fluida, autoreferenziale e assolutamente precaria, basata sul sistema dell’indebitamento vizioso. Coloro che riescono a governare questo sistema liquido sono quelli che sanno fiutare e seguire il flusso, calcolare e affrontare il rischio nell’immediatezza. Di fronte all’intoppo di un corpo morto precipitato giù da una finestra Vincent non si scompone e da lì in poi inizia a spiegare a Max che bisognerà cavalcare l’onda degli eventi, essere il più flessibili e concentrati possibile; l’altra opzione è soccombere. Da questo momento assistiamo a un crescendo, con Vincent che alza continuamente la posta in gioco rifacendosi sui nervi di Max e coinvolgendolo ogni volta di più: prima la minaccia di uccidere due poliziotti, risolta con un colpo di fortuna, il furto assurdo da parte di due balordi e il loro assassinio, la distruzione della valigetta con tutte le informazioni necessarie che costringe Vincent a mettersi nelle mani di Max e Max a farsi Vincent. La tensione sale fino a esplodere nella follia visiva della sparatoria dentro la discoteca coreana conclusasi con l’omicidio di Fanning, l’unico poliziotto che era stato capace di capire cosa stesse realmente succedendo quella sera. Altro elemento interessante della logica “finanziaria” di Vincent è che il suo lavoro si basa sul fatto di capitalizzare “il semplice essere in vita” di un qualcuno che diventa per lui fonte di guadagno. Non è esattamente questo che sta succedendo nell’odierna struttura economica? Non è più il lavoro a produrre profitto ma il debito. Come argomenta l’economista Christian Marazzi, la violenza del sistema finanziario attuale non si basa solo sulle responsabilità di banche, assicurazioni e agenzie di rating, ma anche su un’intera logica culturale che rafforza la base ideologica di un sistema secondo cui la nuda vita può trasformarsi in una rendita5: attraverso 5
Cfr. C. Marazzi, La violenza del capitalismo finanziario, in A. Fumagalli, S. Mezzadra (a cura di), Crisi dell’economia Globale: Mercati finanziari, lotte sociali e nuovi scenari politici, Ombre corte, Verona, 2009, p. 40.
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l’incitazione al consumo e al godimento immediato si è prodotto l’indebitamento degli individui e delle famiglie, ed è il nostro semplice esserci, in quanto infiniti potenziali debitori, che fa da garanzia all’intero sistema. Il debito che ha come collateral, come garanzia, la vita, si rivela per quello che è oggi essenzialmente, un dispositivo antropologico, un modo di essere del soggetto che si svela come un “esserein-debito”6, e nel meccanismo del racconto esso si mostra per ciò che è: non una modalità data una volta per tutte ma un processo di soggettivazione e un rapporto di potere. Se ci fermiamo ad analizzare la rete di relazioni che la storia definisce, ci accorgiamo che per la sua natura, non è possibile estinguere il debito. Esso si manifesta come rapporto di potere, in modo esplicito, per quattro delle cinque persone destinate a morire quella notte; direttamente coinvolte nei traffici di droga, verranno uccise perché divenuti collaboratori e testimoni. Infatti, Felix, il narcotrafficante interpretato da Javier Bardem, si rifà su quella stessa vita che hanno ipotecato in cambio del godimento immediato dei profitti criminali. Solo Annie, la procuratrice incaricata del processo, rappresenta un caso diverso. Se Vincent fa del debito di altri la sua ricchezza e allude, nell’ottica di questa interpretazione intempestiva, all’economia finanziaria, la forma di vita che Max incarna è la perfetta descrizione dell’economia reale. Risparmiatore, lavoratore onesto ma senza previdenza, non considera nemmeno lontanamente l’idea di una felicità costruita sul debito, anzi, aspira a che tutto sia perfetto per arginare ogni rischio nella realizzazione del suo sogno. Nel suo caso, l’attesa di garanzie gli impedisce di vivere secondo il suo desiderio. Oltre a tutte le interpretazioni psicanalitiche, filosofiche e critiche che è possibile dare della contrapposizione tra l’organizzazione della vita secondo Vincent e secondo Max, c’è però un tratto che li accomuna per la maggior parte della storia e che consiste nel fatto che entrambi non hanno e non vogliono debiti. Tuttavia anche il debito come forma di asservimento ha in sé 6
Due recenti studi filosofici diversi ma ugualmente interessanti che riflettono sul significato di questo “essere-in- debito” sono: M. Lazzarato, La fabbrica dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista, DeriveApprodi, Roma, 2012 e E. Stimilli, Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo, Quodlibet, Macerata, 2011.
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una porzione di verità, esso è infatti legame sociale che riconduce la nostra condizione di individui al vincolo con l’altro da noi: il meccanismo dell’indebitamento funziona così bene proprio perché lavora su una “mancanza a essere” costitutiva dell’essere umano, su quel niente nello specchietto. Per chi lo contrae, il debito serve anche a determinare il valore di ciò che è dato in garanzia, in questo senso l’ipoteca, che cediamo e che potremmo perdere, determina quello che siamo (in una nuova forma di mancanza, propria della condizione umana). Da qui discende che il debito può essere un progetto diabolico di assoggettamento o un processo simbolico di soggettivazione. Max vedendo l’immagine di Annie tra le lamiere del taxi decide di ipotecare la sua vita per salvare quella della donna, senza che egli abbia la certezza di ottenere ciò per cui ha rischiato, ma è in questo la chiave del processo: non ci sono scelte giuste, né una ragione preconfezionata, solo un senso da costruire, un legame istaurato sul niente. Collateral riflette sin dal titolo e in modi diversi sulla logica della relazione, tessendo i concetti di vita ed economia nei meccanismi narrativi e visivi che mette in campo: essi vanno modificandosi dalla forma gerarchica data dalla relazione di potere tra centrale e collaterale fino all’ontologia piatta ed eccentrica rappresentata da quella tra soggetto e sfondo, quest’ultimo detto in molti modi. Nel nuovo spazio della narrazione, quando il protagonista non è più ostaggio del sicario né di se stesso, realizza il racconto capendo che il suo compito non dovrà essere quello di sostituire Vincent, in quanto “padrone”7 degli avvenimenti, quanto di assumere la verità di quegli eventi, ovvero che l’esistenza non ha garanzia.
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Il rimando è qui alla psicanalisi lacaniana e alla riflessione sul “discorso del padrone” che nell’era dell’imposizione del godimento si deforma in “discorso del capitalista” ma continua a incarnare l’ideale del Padre, v. J. Lacan, “Del discorso psicoanalitico”, 1972, in Scilicet (1-4), Feltrinelli, Milano, 1977, pp. 186-201. Sul ruolo di “padre” rivestito da Vincent ha riflettuto con profondità Adriano Piccardi, Era mio padre, “Cineforum”, n. 439, 2004, pp. 15-16.
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Pier Maria Bocchi
IL NATURALE CORSO DEL CINEMA CAFÉ LUMIÈRE (2004) DI HOU HSIAO-HSIEN
È opinione comune e consolidata che Ozu Yasujirō abbia fatto praticamente sempre lo stesso film. Le tematiche si ripetono (l’analisi della famiglia giapponese e il confronto tra nuove e vecchie generazioni), tanto che non poche volte sono i film stessi ad essere “rifatti”: negli ultimi dieci anni della sua vita, Ozu riprende alcune opere del passato – anche prossimo – per aggiornarle ai tempi. Il gusto del sakè, ultimo film prima di morire, è la riproposizione updated di Tardo autunno, che a sua volta è il remake di Tarda primavera. La critica dell’epoca snobba o ridimensiona i lavori più recenti proprio perché ripetono dinamiche e argomenti già affrontati. Ma Ozu sceglie di ripercorrere le medesime strade più per confermare che per mancanza d’ispirazione; riguardare acquista senso quando sono i tempi ad essere diversi, e anche soltanto un oggetto nella scenografia può garantire a una storia già nota un significato nuovo (un esempio fra i tanti: la famosa teiera rossa di Fiori d’equinozio, primo film a colori di Ozu). L’autore non cambia prospettiva, non cerca angolazioni strane, ma di certo non è sordo al cambiare degli anni, della società e del pensiero; e mentre con la vecchiaia l’incomprensione per i giovani si acuisce, seminando qua e là un leggero sospetto di conservatorismo, l’accettazione remissiva delle cose è evidente e inevitabile. Più gli anni passano, e più il tipico e osannato passare del tempo nei film di Ozu diventa un esilio volontario dal mondo, che dunque si può anche decidere di non capire. C’è un’altra opinione comune, che la critica nel corso degli anni s’incarica di consolidare: quella che vede nel cinema di Ozu Yasujirō dei segni ricorrenti, simboli ritornanti, macchie allegoriche che via via si passano il testimone. Fra questi, il treno occupa un ruolo centrale: è una figura retorica che va, transita e torna, non
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Cinema senza fine
sfreccia ma “lentamente cammina”; abbastanza scontata la metafora, dal corso della vita a quello delle stagioni (così importanti per i film di Ozu, a partire dai titoli), dal tragitto dei personaggi al loro mutamento “in avanti” come risultato della modernità e del progresso. La ferrovia ozuiana è un lascito tramandato attraverso letture e visioni, fino a diventare immaginario forte in un immaginario autoriale, sintomo poetico determinante di un universo poetico. Non si tratta di un errore né storico, né critico, ma non bisogna esagerare. L’impressione è che per festeggiare il centenario della nascita di Ozu, il progetto Café Lumière (pensato originariamente come un corto per un lungometraggio antologico e poi allungato dopo la defezione degli altri due registi coinvolti) si fondi soprattutto su una tale sopravvalutazione tradizionale. Niente di male, e da qualche parte si doveva pur cominciare. Eppure chi conosce il cinema di Hou Hsiao-hsien sa bene che il treno e i binari sono espressioni onnipresenti: Dust in the Wind, solo per citarne un esempio, inizia addirittura con un’iride che si scopre essere la soggettiva di un treno in una galleria. A ben vedere, Café Lumière sembra più una naturale evoluzione della poetica e del mondo di Hou, piuttosto che un omaggio citazionistico al cinema di Ozu. Del quale riprende il treno come segnale della società e del trascorrere del tempo, ma non soltanto: in seconda battuta, Café Lumière è anche l’approfondimento di una famiglia, quella della giovane protagonista, di ritorno a Tokyo da Taiwan incinta, ma decisa a non sposare il fidanzato, con conseguenti preoccupazioni del padre e della madre di lei. Ma se è vero che, per dirla con Richie, Ozu «ha un solo soggetto principale, la famiglia giapponese, e una sola tematica principale, la sua dissoluzione», non si può trascurare che anche buona parte del cinema di Hou Hsiao-hsien si basi sulla famiglia e sull’effetto che lo scorrere del tempo ha sui suoi meccanismi. Molti film del regista taiwanese, da A Summer at Grandpa’s a A Time to Live, A Time to Die, da Dust in the Wind a Città dolente, osservano da una distanza pudica e con ellissi vertiginose i cambiamenti della famiglia sullo sfondo della Storia che avviene e che cambia. Come in Ozu, dunque. Sebbene lo stile di Hou prediliga campi lunghi e totali, mentre Ozu si appella principalmente ai medi e al primo piano, fra i due autori corre una similitudine tematica e talvolta stilistica (per esempio proprio nell’uso dell’ellissi) che non si limita a Café Lumière.
P.M. Bocchi – Il naturale corso del cinema
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Non sono insomma i treni a fare di questo film un film ozuiano, né il piano sequenza serve automaticamente a rendere la forma una forma alla Ozu. Casomai è importante rilevare che l’immaginario di Hou, perlomeno fino allo “strappo” stilistico di Daughter of the Nile, e tralasciando le commediole dei primi anni ’80, è molto vicino a quello di Ozu, sia nel rapporto tra privato e mondo, sia nell’idea di una messa in scena discosta e mai invadente, piena di vuoti e di non detto. Nell’occasione di un omaggio a Ozu dichiarato e istituzionale, l’intelligenza di Hou sta nel non tradire se stesso, ma anzi nel convenire col “maestro committente”, adeguando di pochissimo il proprio cinema. Scoprendo peraltro – e dovrebbe anche la critica, a questo punto – di condividere con lui più di quanto un solo film sia stato delegato a sottolineare. C’è una sola, vera scena ozuiana in Café Lumière, e qui è manifesta l’intenzione del regista di aderirgli nello spirito, più che nello stile: la visita dei genitori nell’appartamentino cittadino della protagonista. Il padre si siede attorno alla tavola, la figlia accanto a lui divora le leccornie preparatele dalla madre, che nel frattempo ripone le vivande nel frigo. È un piano sequenza ad altezza tavolo: le preoccupazioni della madre riguardo al futuro della figlia sono risolte in un paio di battute, mentre il vero cardine della sequenza è la figura paterna, che non resiste ai piatti cucinati dalla moglie ma non sa come fare per esprimere le proprie ansie per la figlia, e tace. C’è un momento inoltre in cui padre e figlia restano da soli (la madre è uscita dall’inquadratura per aprire la porta alla vicina): e qui, ancora di più, la tensione per l’inquietudine del padre di non riuscire a dire e il timore di chiedere o anche solo di parlare della figlia è quasi insopportabile. In questa scena, così densa e così lancinante nel suo silenzio, è condensato un mondo intero, che per Ozu rappresenta la difficoltà di comunicare fra generazioni diverse, direttamente proporzionale all’evoluzione della società, e quindi sempre più insormontabile. In questa scena così definitiva l’indipendenza tutt’altro che ostinata della ragazza, che comunque dimostra in superficie più sicurezza di quanto sia disposta ad ammettere, ricorda da vicino le due giovani amiche di Tardo autunno, donne poco più che adolescenti decise a fare di testa propria: l’una, ferma nella condanna sia della società maschilista (affronta a testa alta il terzetto di uomini rei di aver creato un polverone con i loro programmi di sposi combinati), sia dei capricci egoistici della coe-
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tanea, insofferente all’ipotesi delle seconde nozze della madre vedova; l’altra, coerente nell’idea di non voler acconsentire ad alcun matrimonio organizzato per lei da altri, almeno fino a quando non si rende conto di dover abbandonare il nido materno e spiccare il volo, accettando di convolare a nozze con un uomo che dapprincipio aveva rifiutato (e qui Ozu scende ancora a compromessi con l’ineluttabile, ovvero ciò che la società giapponese si aspetta dalle ragazze in età maritabile). È allora in questa singola scena di Café Lumière, più che in tutto il resto del film, più che nel suo incrociarsi di treni, che Hou Hsiao-hsien risulta perfettamente equivalente a Ozu Yasujirō: ne riprende sinceramente la sensibilità, osservando con estremo pudore sentimenti da una parte ancorati al passato (il padre), dall’altra proiettati verso il futuro (la figlia). Hou qui convalida per sé e una volta per tutte quell’ottava di cui parla lo stesso Ozu (parole tratte da un’intervista per Kinema Junpō, agosto 1958): «Dal momento che l’ottava di un regista è però qualcosa di innato, non la si può modificare facilmente. Naruse ed io siamo registi dall’ottava bassa. Kurosawa e Shibuya viaggiano, in proporzione, su un’ottava più alta. Mizoguchi sembra possederne una bassa, ma in realtà è alta. Ogni regista ha la sua propria ottava». È abbastanza chiaro che anche Hou Hsiao-hsien sia un regista dall’ottava bassa; e se Café Lumière è un film dall’ottava bassa, non è per il tentativo di aderirne stile e contenuto al cinema di Ozu, ma per il valore in “ottava bassa” che Hou possiede fin dagli esordi. Non serve dunque citare, omaggiare o addirittura copiare: Hou è forse l’autore naturalmente più vicino a Ozu. Ma a cosa serve festeggiare cento candeline dalla nascita di un autore fra i più grandi con un film a lui ispirato? A caldo, non si ricordano altri progetti simili. Il collettaneo Chacun son cinéma, per esempio, best-of dei vincitori della Palma d’Oro cannense chiamati ad onorarne l’allure, è soprattutto l’autocelebrazione che il Festival vuole dedicarsi (ne fa parte anche Hou, guarda caso); il recupero tardivo di sceneggiature dalle firme eccellenti messe in scena da figli-allievi-amanti non significa di per sé niente. Mentre omaggiare oggi i propri maestri, magari piegando a forza lo stile nella speranza di rassomigliarci il più possibile, è un proposito spesso fallimentare: si veda il Miike Takashi di 13 assassini, in me-
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moria dell’Akira Kurosawa di I sette samurai (molto più “giusto” e riuscito invece il suo remake in 3D di Harakiri di Kobayashi Masaki). Possiamo dunque definire Café Lumière un’eccezione, una riflessione una tantum. Ma fino a un certo punto: se il cinema di Hou non si distanzia più di tanto da quello di Ozu, deve esserci un’altra ragione perché il regista taiwanese abbia acconsentito a un piano produttivo e commemorativo simile. Viene spontanea una spiegazione tanto semplice quanto logica: il cinema di Hou è denso di cinema e di amore per il cinema; nei suoi film il cinema è spesso un elemento della Storia e della storia; in molti suoi film di impronta autobiografica le vicende dei protagonisti passano attraverso il cinema; quello di Café Lumière è quindi più di un ossequio a un autore amato, non è una cortesia né un’onorificenza, è il gesto istintivo di un uomo di cinema per il quale il cinema è un fatto della vita, e al pari di molti altri fatti della vita è importante, essenziale per la maturità e per la conoscenza (non soltanto del cinema, ma del mondo!), è l’atto schietto e franco siglato da un filmmaker che non oserebbe mai rifare niente, nemmeno una scena, ma che quel cinema così visto e così amato ce l’ha dentro, ne ha guardato in passato il corso e adesso, che ormai è passato, ne ricorda onestamente la bellezza e la necessità, proprio lui peraltro che di quel cinema, di quello stile, di quelle cose, di quell’autore come siamo certi di tanti altri, è per molti versi depositario e erede ideale. In I ragazzi di Feng Kuei, l’attesa della partenza per il servizio militare è trascorsa dai protagonisti non soltanto fra le braccia delle ragazze ma anche fra quelle del cinema, che rivela talvolta di essere se non più grande della vita, di certo grande uguale (e la scena dello “schermo” sulla città è eloquente). In Dust in the Wind, nel paese natale di montagna dei protagonisti i film vengono proiettati su un telone affisso all’aperto alla bell’e meglio, mentre a Taipei i ragazzi soggiornano nella rimessa di una sala cinematografica. Per Hou il cinema è più e meno di un’occupazione, è una manifestazione della vita e un privilegio gratuito; le immagini passate non sono dei resti da raccogliere e studiare, sono piuttosto dei pensieri da tramandare, delle suggestioni non da insegnare ma da condividere. Il bisogno dei film supera il loro ricordo. Il bisogno dei film di Ozu supera l’esigenza di educarne lo spettatore alla visione, supera l’urgenza di disseppellirli e di renderli attuali. Con Café Lumière, Hou Hsiao-hsien ci dice che ogni commemorazione possibile non
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riferisce dell’amore per un autore e non corrisponde alla sua rinascita o alla proliferazione dei discepoli. Ozu è per Hou un senso dell’esserci, più che un manuale da riproporre. Non si tratta banalmente di comprovare l’internazionalità e l’eternità del cinema del regista giapponese: se Café Lumière è la prova di qualcosa, lo è del diritto ai film. Hou non perde tempo col tempo passato o con la sensibilizzazione propedeutica all’immaginario nobile che l’ha preceduto; non ci sono intenti enciclopedici o da libri di scuola; nessuna “introduzione all’autore”: questo film è un film di Hou che ne rivendica l’autonomia, è un film che non parla della morte del cinema ma del ritorno perpetuo dello stesso, non come rifacimento di un tutto-che-è-già-accaduto-e-stato-raccontato ma come proseguimento genetico. Café Lumière non ha lo sguardo necroforo di La chatte à deux têtes di Jacques Nolot né l’horror vacui di Goodbye, Dragon Inn di Tsai Ming-liang (tantomeno la deriva nostalgico-cinefila di Che ora è laggiù?), non sceglie la strada dell’agenda mnemonica alla Christophe Honoré, figuriamoci poi la filosofia del ricalco post-post-moderno di Amer di Hélène Cattet e Bruno Forzani: nessun servizio, nessun lavoro, quella di Hou è una predisposizione al cinema, generata da un’infanzia e da un’adolescenza vissute in mezzo al cinema (come tanti prima e dopo di lui, certo) e messa in pratica da adulto con l’attitudine di chi il cinema lo vuole continuare, e non dividere in fasi. Prendete Holy Motors di Léos Carax, il film che è tutto e che è niente, dove ogni cosa e il contrario di ogni cosa sono possibili, mastodonte visionario, bestia delle caverne e mostro millenaristico, atto devoto e dissidente assieme, sfregio e genuflessione, bestemmia e preghiera: in maniera paradossale, Café Lumière ne è un antenato, un parente lontano meglio vestito (e magari fuori moda), il doppelgänger buono, ma del sogno incubo di Carax possiede la stessa forza intimidatoria e la stessa indipendenza creativa intorno a ciò che potremmo identificare quale l’orma del cinema, lasciata dalla Storia affinché altre storie possano seguirla. Entrambi, Hou e Carax, Café Lumière e Holy Motors, scelgono l’istinto, credono nel film come testimonianza a favore della scarcerazione del passato dalle aule e dai tomi, dagli edifici decadenti della dottrina e dagli abiti costretti della conferenza. Ecco perché Café Lumière non è una lezione sul valore e sulla bellezza insindacabili del cinema di Ozu Yasujirō, e neanche la riscrittura a fin di bene – ma pur sempre riscrittura – di una poetica adorata.
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Troppo facile individuare l’alter ego di Hou nel personaggio interpretato da Asano Tadanobu, libraio ossessionato dai rumori dei treni e delle stazioni, che lui registra con cuffie e microfono trascorrendo giornate intere sui vagoni e tra la folla. Come ad afferrare il suono nascosto della città, carpire le rimanenze del tempo che passa, cogliere attimi e respiri di un presente legato a doppio filo col passato: ma una traslazione di questa portata farebbe un torto all’approccio schietto del regista, che non ha ripari e non ha trucco. Café Lumière è un film semplice dallo stile limpido e dissolto, senza allegorie né similitudini, dove non c’è bisogno di catturare il dettaglio per capire l’insieme che lo contiene. È una storia d’affetti, e come tutte le storie d’affetti di Ozu lascia che la mancanza della parola, o la sua rarità, spieghi la contemporaneità meglio di dieci discorsi. È una storia d’amore, e come tutte le storie d’amore di Ozu – anche l’amore di un padre e di una madre per una figlia, e viceversa – crede assolutamente che la vita vada prima di tutto vissuta, e poi, forse, illustrata. È infine una storia non del cinema bensì del film come immanenza, realtà dentro la realtà, che appartiene all’uomo e alla società e al mondo: con Café Lumière, Hou Hsiaohsien coglie l’opportunità di dialogare con Ozu Yasujirō nella stessa lingua, scoprendo che il cinema non è soltanto un affare d’epoca ma è principalmente, oggi come ieri, un esercizio emotivo di tutti e per tutti. Alla larga dunque dalle autorializzazioni sterili, perché fare cinema, prima di essere un atto politico, vuol dire anche convivere.
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Giulio Sangiorgio
NO TRESPASSING GRIZZLY MAN (2005) DI WERNER HERZOG
A furia di proclamarsi tale, il cosidetto Cinéma Vérité è privo di vérité. Attinge solo a una verità di superficie, la verità dei contabili1 Werner Herzog
Tra l’egoproduzione e l’inchiesta televisiva, tra il cinediario e la pedagogia dell’immagine. Tra i poli del found footage e del markeriano cine-ma veritè. Grizzly Man di Werner Herzog è un coacervo di chiarissime contraddizioni, un ritratto umano commuovente, un enigma tipicamente moderno. Un problema ostinato che si pone scena dopo scena, take dopo take, sul valore della rappresentazione. Oggi, la contemporaneità delle immagini è nell’attualità digitale di una parola come “archivio”, nel democratico proliferare di autorappresentazioni in video, nel dono frequente del privato a un generico, vaghissimo pubblico. E nella retorica del videoreperto come nuova forma di un realismo immersivo (da REC a Cloverfield, da Chronicle a Project X. In questo oggi il cineasta Herzog affronta i filmati in MiniDV girati da Timothy Treadwell, accidentalmente capaci di riassumere le ossessioni poetiche e filosofiche dell’autore e di aggiornarle a questo nuovo panorama sociotecnologico. «Neanche la fatica di filmarlo»1: 100 ore di girato in Alaska sono il materiale di base, le immagini che Herzog investe di domande, l’oggetto della riflessione a cui invita lo spettatore. Così Francesco Cattaneo riassume la storia di Treadwell: 1
W. Herzog, Incontri alla fine del mondo. Conversazioni tra cinema e vita, (a cura di Paul Cronin, edizione italiana a cura di Francesco Cattaneo), minimum fax, Roma, 2009, p. 340.
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Dopo una tranquilla infanzia trascorsa nel grembo di una famiglia piccolo-borghese della provincia americana, Timothy esce di casa con una borsa di studio per l’università e inizia a frequentare cattive compagnie che lo portano sulla strada dell’alcolismo e della droga. Tenta di sfondare nel mondo dello spettacolo, ma fallisce. A quel punto, giunto sull’orlo del baratro, scopre l’Alaska e i suoi orsi e trova così una nuova ragione di vita. Dal 1990 al 2003 Timothy passa svariati mesi all’anno nella natura selvaggia, a contatto con i suoi amati animali, tra i quali riesce a riacquistare una qualche serenità interiore e a dar sfogo al suo disagio nei confronti della civiltà. Nell’autunno del 2003, tuttavia, Timothy Treadwell e la sua compagna Amy Huguenard, dopo aver inconsultamente prolungato il loro campeggio, vengono sbranati da un orso2.
Le immagini che compongono larga parte di Grizzly Man sono dunque quelle girate da Treadwell nelle terre dei suoi orsi, negli ultimi 5 anni di vita. Herzog ne monta una selezione, la accosta ad altro materiale d’archivio (televisivo e fotografico), testimonia la sua ricerca sul passato tramite interviste al presente (a conoscenti del protagonista e testimoni dei fatti). E punteggia, stratifica, inabissa il tutto con il proprio commento fuori campo, come a creare un ulteriore livello temporale, nell’apparenza di un presente ulteriore (confermato anche dalla musica della colonna sonora improvvisata e all’aprirsi del film a reperti venuti disponibili durante la lavorazione). Come a voler essere lì, al momento della fruizione, per guidare lo spettatore. Ed è – questa la questione centrale – per guidarlo nel dubbio, per farlo tentennare, per creare uno scarto, per relativizzare ogni immagine. Sin dal principio il tempo si sfaccetta, la fonte dell’enunciazione si stratifica: vediamo un paesaggio; Timothy entra nell’inquadratura, la attraversa e si dichiara insieme produttore dell’immagine e attore; poi una scritta in sovraimpressione lo ricontestualizza: “Timothy Treadwell (1957-2003)”. Una presenza improvvisa, subito postuma. Un piccolo disorientamento. Herzog, deciso a narrare la storia di quest’uomo così simile nella propria folle e ottusa visionarietà ai suoi abituali protagonisti, decide di partire dalla fine, di denunciare immediatamente la natura 2
W. Herzog, cit, p. 355.
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stessa della sua opera: un’indagine su una vita conclusa, alla ricerca di una verità. Come a dire: pattern Quarto potere, scacco alla comprensione compreso, perché al vero no, non s’attinge. “Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci”3, scriveva Pasolini. Grizzly Man dubita: gli schemi interpretativi di chi racconta la storia finita di Treadwell divergono, il racconto che ne fa Herzog litiga con quello che Timothy fa di se stesso, lo scorrere dei minuti è quello di una gara agonistica, di una competizione tra narrazioni in abisso. Herzog ne è il presunto arbitro, sfacciatamente coinvolto, frequentemente fazioso, un giocatore come gli altri, ma con maggiori (e dichiarati) poteri. Quel disorientamento, quel dimenarsi dell’immagine da una facile contestualizzazione è dunque il precipitato di un’idea precisa: quella dell’imprecisione di ogni racconto. “Mythologizing Me Like I Do You”4 Timothy ama definirsi. Timmy “il selvaggio della giungla”, “il guerriero gentile”. Timmy pronto a trasformarsi in “samurai”. Treadwell reinventa, rifonda il mondo di fronte a sé, sin dall’atto della nominazione. E allora i luoghi intorno si trasformano in “labirinto”, “santuario”. Chiama un orso Tabitha come il suo pelouche. Un altro Mr. Chocolate, altri ancora Aunt Melissa, Demon, Hatchet, Downey. Avvicina l’orso all’essere uomo. E viceversa. Lontano da una società nella quale non riesce a sentirsi incluso, questo all american boy fallito, questo attore subito sconsacrato si ribattezza. Cambia nome, improvvisa un nuovo accento (australiano), riscrive il proprio passato sradicandosi dalle origini (si presenta come un orfano), fugge dalla civiltà. “Come Thoreau, come John Muir” sostiene Herzog. Ora è il Re dei Grizzly. Si eleva a difensore di uno stato di natura che dichiara irriducibile, mentre paradossalmente riveste gli animali di tensioni sociali antropomorfe, di emozioni umanoidi, di sentimenti, risentimenti. Crede in una natura armo3 4
P.P. Pasolini, Osservazioni sul piano-sequenza, in Empirismo eretico, Garzanti, Milano, 1972, p. 241. Verso del brano The Past Is a Grotesque Animal degli Of Montreal, contenuto in Hissing Fauna Are You the Destroyer, Polyvinil, Chapaign, 2007.
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nica, non accettando le falle naturali di questa idea, preferendo dimenticarle. Racconta il suo mondo. E intanto si sottrae alle definizioni, alle regole comportamentali del Parco di cui è ospite, alle norme culturali, ai confini delineati da altri. O dal buon senso comune, una sovrastruttura come un’altra. Herzog e gli intervistati lo ripetono: “Treadwell ha varcato una soglia invalicabile”. La sua allucinata e ingenua visione della natura (che spesso articola in un linguaggio infantile, con stridula voce bambinesca) mette in crisi altri sistemi di interpretazione del reale, li confuta, li elude. Sino al grottesco, sino alla paranoia: la sua lettura dei segni lasciati da un gruppo di visitatori è aberrante, deforme, smaccatamente insana. Il suo è un delirio febbrile di alterna intensità, l’insensato e travolgente fuoco che anima da sempre i personaggi herzoghiani, lo sghembo rigore cieco che guida l’uomo, per amor di epica, verso la conquista dell’inutile5. Perché quegli orsi sono già protetti. Perché lui, comunque, non sa fare nulla di concreto per proteggerli. Intanto la telecamera a cui Timothy, regista e protagonista, si rivolge registra il programma di realtà che egli stesso ha ideato. La sua voce spiega e dispiega a proprio piacimento il contesto: e se le modalità sono quelle del reportage ambientale, del format Tv animalista, finiscono per sprofondare poi, gradualmente, nel cinema privato, si ibridano in un confessionale da reality show. A chi sono indirizzate le immagini girate da Treadwell, chi è il suo interlocutore implicito? A volte i bambini delle scuole in cui si reca gratuitamente, per una missione educativa ben calibrata nell’economia dell’autonarrazione. A volte quelle registrazioni sono preghiere rivolte a una qualsiasi forza superiore. A volte sono invettive furenti contro la legge dei guardiaparco. Sempre sono per se stesso, per raccontarsi e definirsi, per mostrarsi a quell’occhio digitale, contingenza di quell’occhio fantasmatico che tutto vede, e confermare quel che si vuole essere, costruire la propria immagine e identità, esistere (di) nuovo. Il linguaggio serrato da programma Tv, reiterato metodicamente sino alla perfezione, già montato nella mente di Timothy, rivela la chiusura di un’ideologia al lavoro. Che fallisce e si apre all’imponderato quando raccoglie azioni e reazioni non programmate, l’emanciparsi della natura dall’essere mera funzione del protagonista, l’ingresso improvviso di un animale che si 5
Si veda W. Herzog, La conquista dell’inutile, Mondadori, Milano, 2007.
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voleva fuori scena. E finisce, soprattutto, per trasformarsi in traccia evidente dell’inconscio: quando coglie le goffaggini, la ricerca di una presunta esattezza, quando registra le confessioni violente sotto lo sguardo impietoso della telecamera fissata sul cavalletto6; quando va a dialogare con qualcos’altro, altre forme in cui s’è impigliato l’immaginario, un qualcosa che dal diarismo di Jonas Mekas giunge allo spettacolo mimetico di The Blair Witch Project; quando la supposta pretesa didattica lascia il posto al rigurgito esistenziale e le ambizioni da National Geographic crollano nel videoimpressionismo urlato in prima persona, nel trionfo dell’io, in tensioni corporee e pulsioni affettive che si convertono in tracce testuali. Ma queste non sono che le luci abbaglianti di un’ipotesi già chiara: che quelle immagini siano frutto di una soggettività estrema, forma di documentarismo su un’autonarrazione e insieme elemento fondamentale di questo storytelling, storia di una concitata ricerca di se stesso. Dicono di Timothy Treadwell Grizzly Man non è solo composto dalle immagini girate da Treadwell, dal suo racconto di sé. Perché, intorno al nucleo, si muovono altri racconti. Herzog intervista amici, familiari, istituzioni. Lascia che giudichino Timothy, fa loro ripercorrere il passato. A volte li porta a muoversi nei luoghi dove si sono svolti gli eventi. La pratica di documentare il ritorno, l’invito a recitare una scena già vissuta (sorprendente prassi di due episodi sottovalutati della sua filmografia, appartenenti alla serie Voyages to Hell, Little Dieter Needs to Fly e Julianes Sturz in den Dschungel), oltre a incrementare l’effetto di disorientamento temporale di cui si parlava all’inizio del saggio, richiama l’attenzione sulle reazioni dei protagonisti, attiva il loro ricordo, l’intima rielaborazione dei fatti. Grizzly Man 6
“Sei tu il supporto che tiene la cinepresa. Non servirti di un cavalletto. Una cinepresa sul cavalletto è sempre senza pietà. Quando guardate attraverso il visore di una cinepresa sul cavalletto, vedete un’immagine fissa, stabile, morta. Ma se la macchina da presa è tenuta in spalla, per quanto possa essere immobile come fissata su un cavalletto, colui che la sostiene deve respirare e la macchina respira con lui, e questo ha qualcosa della dignità”. Citato in F. Grosoli, Werner Herzog, Il Castoro, Milano, 1981.
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è – anche – un film sul volto come paesaggio da interpretare (e, dunque, anche misinterpretare). Herzog ascolta in cuffia la registrazione audio dell’attacco fatale dell’orso 141 ai danni di Timothy e Amy; ci dà le spalle, mentre noi vediamo Jewel Pavolak, ex compagna e complice di Treadwell, leggere sul viso del regista l’orrore. La stessa Jewel racconta di come lei e Timothy andassero in tribunale a guardare i volti degli imputati al momento della condanna, perché per lui, dice, “erano un monito”. Non è un caso, quindi, che sul finale Herzog si interroghi sul mistero del volto di un orso, sul significato attribuitogli da Treadwell e sull’assenza di significato per cui propende il regista7. In questa continua, esponenziale messa a nudo dei modelli di lettura della realtà, Herzog raccoglie testimonianze contraddittorie, fa scontrare pregiudizi e meri psicologismi, dichiarazioni a cuore aperto e pareri di esperti, feroci lettere di antiecologisti e ricostruzioni del medico legale: non sono solo i giudizi (spesso trancianti e manichei) a differire, ma le stesse storie. La figura di Amy (“il vero mistero del film”, secondo Herzog) è emblematica, raccontata nel suo amoroso scetticismo e nella sua paura radicale per gli orsi, ma anche assorbita in una narrazione martirologica e accecata d’amore: “sono morti facendo ciò per cui erano vissuti”. Herzog sa che in queste pratiche di narrazione, come nelle immagini di Treadwell, nell’orizzonte etico che disegnano, nell’alveo di comprensione per il prossimo nel quale si muovono, c’è, soprattutto, la storia di chi racconta. Prima del racconto stesso. E allora, per straniare lo spettatore, per non lasciarlo annegare nello scorrere delle parole, continua a filmare i corpi e i volti, anche quando il loro discorso orale è terminato, anche quando il linguaggio s’è oscurato e resta la pura presenza. Quando un montaggio finalistico chiederebbe un taglio, Herzog insiste, come a spostare l’attenzione dalla testimonianza al testimone, come a voler restituire la sensazione di una recita conclusa, come a voler includere l’osceno nella scena, in un’ipotesi di trasparenza atta a ricordare allo spet7
“Ciò che mi turba – dice Herzog nel film – è che, su tutti i volti di tutti gli orsi ripresi da Treadwell, non ho mai visto affinità, comprensione o pietà. Vedo solo la travolgente indifferenza della natura. Per me non esiste nessun mondo segreto degli orsi. Questo sguardo vuoto suggerisce solo una ricerca quasi meccanica di cibo. Ma per Timothy Treadwell quest’orso era un amico, un salvatore”.
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tatore che la dicotomia realtà/finzione non esiste: sono stralci di un possibile making of, piccoli scarti, balbuzie e tentennamenti che dicono di un racconto richiesto e preparato, di un’ipnosi concordata, e cercano programmaticamente la celeberrima apertura del cinema teorizzata da Renoir8, portando acqua al mulino del disorientamento, del crollo di una cornice in un’altra cornice, del tempo in un altro tempo che si palesa, come abbiamo visto, sin dall’incipit. Questi imbambolamenti, questo guardare la macchina da presa in attesa di un cenno di consenso, di una nuova indicazione, questa ennesima, chiarissima contraddizione tipica del cinema di Herzog, troverà poi una sua radicalizzazione in My Son, My Son, What Have Ye Done, controcanto fiction di Grizzly Man, stilizzazione e saturazione della maniera dell’autore a contatto con quella di David Lynch, produttore del film. Responsabilità Secondo una pratica che da La grande estasi dell’intagliatore Steiner giunge a How Much Wood Would a Woodchuck Chuck e da La soufrière porta sino a Il diamante bianco, Herzog entra, fisicamente, nel film, come a smascherare l’impossibilità di essere invisibile, come se preferisse agire concretamente, e non solo subdolamente, di fronte alla macchina da presa. In Grizzly Man il suo ingresso è all’insegna (della retorica) della responsabilità. Tra le immagini girate da Treadwell, come in una naturale, miracolosa sottomissione al dogma baziniano, non esistono quelle della morte del protagonista e di Amy: ne rimane solo l’audio, registrato su MiniDv da una camera oscurata dal copriobiettivo. Herzog, di fronte a Jewel Palowak le ascolta, in cuffia. Ascoltandole per noi e per lei. Al nostro posto (e questo è, per lo spettatore, un altro di quei momenti in cerca dell’abisso, un vertiginoso sporgersi sul vuoto). Il regista chiede a Jewel, dopo poco istanti, di spegnere 8
“Lasciare una porta aperta sul set; perché non si sa mai, c’è sempre la possibilità che qualcuno possa entrare, e non lo si aspettava; e questo è il cinema”. È una delle più famose massime di Jean Renoir, citata anche in F. Cattaneo, L’amo della menzogna e la carpa della verità. L’estasi di Herzog al di là di fiction e documentario, all’interno di Werner Herzog. Il trasparente e l’ottuso, in “Cineforum”, n. 462, p. 49.
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la registrazione, fare scomparire la cassetta, non guardare mai le foto dei resti. Come nell’immediatamente precedente Il diamante bianco, ci sono immagini che non si devono vedere, ci sono suoni che non si devono ascoltare. Ci sono, perché oggi è difficile che quelle tracce, quelle indicazioni di realtà non esistano. Esistono in Il diamante bianco e in Grizzly Man. Sta alla responsabilità dell’autore scegliere di (non) mostrarle, di preservare confini che devono essere prima di tutto morali. È questo gesto a chiarire ogni scelta di Herzog. Che, sadico garante della morale, sa quanto la curiosità morbosa, l’attrazione verso l’osceno solleciti il pubblico: e dunque, come in uno snuff movie monco e castrato, titilla l’eros dello thanatos, seppellisce certe immagini di Treadwell restituendole alla loro impietosa cronologia e geografia, tramite didascalie che ci dicono che lì, tot ore dopo, a tot metri, Treadwell sarebbe morto. Organizza il proprio discorso affinché il pubblico sia stimolato, continuamente, a immaginare la scena della tragedia, a immaginare premesse e retroscena della vita di Treadwell, insistendo con domande tendenziose e a tratti prossime al misero gossip, lavorando pragmaticamente la materia che ha ripreso (e ri-preso), piuttosto che confrontarsi con fonti esterne, ricostruzioni legali, testimonianze scritte9. Eccitandoci di terrore e poi negandoci la visione dell’indicibile. Nell’ipotesi paradossale di un found footage come espressione soggettiva, di un documento impossibilitato all’obiettività (come, per fare due esempi conosciuti al pubblico italiano, da un lato Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi, dall’altro Una storia americana di Andrew Jarecki) il regista irriga i filmati di Treadwell di continui commenti, facendone fiorire le chiarissime contraddizioni, competendo con la sua visione del mondo. Herzog non si nasconde mai, non usa trucchi: una retorica contro l’altra, un’idea sentimentale della natura come armonia cosmica contro un minimo comun denominatore dell’universo che, per lui, è “caos, ostilità, omicidio”. La poetica d’autore alla prova di realtà. Il cineasta bavarese mostra di usare quelle immagini, quella storia, 9
Herzog, ad esempio, non prende in considerazione i verbali redatti da chi ha investigato sulla morte di Treadwell o il libro firmato da Treadwell stesso, Among Grizzlies: Living With Wild Bears In Alaska, Harper Collins Publishing, New York, 1997.
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perché evidentemente prossime alla sua poetica, alla sua friedrichiana idea di paesaggio come mondo interiore10. E lo evidenzia sino a ridurre ai minimi termini il suo discorso, volgarizzandolo e rendendolo automatico, privandolo di mistero quando associa direttamente, in un’equazione didascalica pronunciata apertamente, l’anima di Treadwell al frastagliato territorio dell’Alaska. Così, mentre il termine found footage si è deformato in un genere perfettamente integrato all’industria, in una forma di messa in scena, di spettacolo omologato, Grizzly Man si fa critica di queste immagini d’oggi e delle proprie, in una dialettica che denuda tutte le strategie narrative, le concrezioni retoriche che s’affastellano intorno a Treadwell, rendendole scarne e fragili, mirando a decostruirle e renderle evidenti invece di dissimularne la struttura. Herzog continua a credere nella propria visione del mondo. Ma, dialetticamente, la riduce a scheletro, la rende un’ipotesi – seppure forte, seppure cocciuta – come un’altra. Così può permettersi di concedersi, sul finale – fuori di ogni odor di ingenuità, ma come conscio atto di rispetto verso una retorica – alla narrazione di Treadwell, sposando audio e video nell’elegia di un loser eroico, protagonista di un mondo che non esiste più. La colonna extradiegetica suona Coyote di Don Edwards. Un amico di Timothy, l’uomo che ha trovato il suo cadavere, corregge il testo: Now the long horns are gone And the drovers are gone The Comanche’s are gone And the outlaws are gone Geronimo is gone And Sam Bass is gone And the lion is gone And the Red Wolf Treadwell is gone. 10
“Per me un autentico paesaggio non è solo la rappresentazione di un deserto o di una foresta. Mostra uno stato interiore della mente, letteralmente paesaggi interiori, ed è l’animo umano a essere visibile nei paesaggi dei miei film, si tratti della giungla in Aguirre, del deserto in Fata Morgana, o i pozzi petroliferi in fiamme in Apocalisse nel deserto. Questa è la mia vera vicinanza a Caspar David Friedrich, un uomo che non ha mai voluto dipingere paesaggi per se stessi, bensì esplorare e mostrare paesaggi interiori”, in W. Herzog, Incontri alla fine del mondo. Conversazioni tra cinema e vita, cit., p. 164.
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Marco Toscano
L’OCCHIO DEL CODARDO, IL VOLTO DELL’EROE FLAGS OF OUR FATHERS (2006) E LETTERE DA IWO JIMA (2006) DI CLINT EASTWOOD La foto e la lettera. L’immagine e la parola. Dispositivi di manipolazione o svelamento, contenitori di una storia esibita o sepolta. Sventolata come una bandiera, scritta sulla sabbia. La strategica messa a punto di una verità e il suo occultamento – per interesse politico, calcolo militare, appartenenza culturale, iniziativa individuale – si sovrappongono nel dittico che Clint Eastwood dedica a una delle pagine più cruente del secondo conflitto mondiale, quella battaglia di Iwo Jima che tra il febbraio e il marzo del 1945 indirizzò in maniera decisiva la Guerra del Pacifico in favore delle forze americane. Pur differenziandosi per andamento ritmico e struttura narrativa (spettacolare e rapsodico il primo capitolo, più compatto e lineare il secondo), Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima si intersecano e si compensano, facciate in trasparenza di un singolo testo, variazione su temi e tipi osservati da angolature speculari. Ciò che ne scaturisce è una rievocazione disincantata e funerea, programmaticamente antiretorica, lontanissima nello spirito e nelle finalità dal precedente “a caldo” – il patriottico Iwo Jima, deserto di fuoco, 1949 – diretto da Allan Dwan, non fosse altro che per l’unicità di un progetto che intende farsi carico di entrambi i punti di vista, inquadrando i medesimi accadimenti come un atroce campo/controcampo. Obbligando a riconsiderare, ritrovando il proprio sguardo nell’occhio dell’Altro. È innanzitutto questo meccanismo di duplicazione (o dimezzamento) degli eventi, questo approccio relativizzante e multiprospettico a collocare il dittico su Iwo Jima nel cuore del contemporaneo, congegno dichiaratamente metanarrativo nel mettere e poi rimettere in scena la storia (e così il cinema). Eastwood opera tale riflessione su un ulteriore livello, in una sorta di “doppia metanarrazione”: prima riferisce gli avvenimenti canonizzati dall’iconografia “ufficiale”
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allo scopo di disintegrarli, scomponendoli e ricomponendoli nei punti ciechi del racconto, sventrando la propaganda per scovare il privato dentro al pubblico1; quindi, licenziata una versione dei fatti che si presume ristabilisca la verità, denuncia la piena parzialità di quest’ultima, e in fondo l’irrilevanza di certi particolari fino a poco prima inseguiti pervicacemente. Dettagli resi d’improvviso superflui dall’incapacità di restituire la totalità del quadro, la completezza del senso: inessenziali, se si scruta la tragedia dalle feritoie del nemico. La lezione del double coding2 su Iwo Jima è una soltanto: la storia è di chi la racconta. Ed è necessario rifare la scena – piantare un vessillo, filmare una guerra – per sfiorarne appena il significato recondito. Come ai marines sul Monte Suribachi viene ordinato di issare una seconda bandiera, così Eastwood deve rigirare il proprio lungometraggio. La sua decantata classicità sembra qui inscriversi in un’idea audacemente postmoderna di narrazione cinematografica, che impone al testo un atteggiamento inclusivo, preferendo all’aut aut un et et. Le pellicole su Iwo Jima sono innanzitutto questo: il superamento di un’ottica unilaterale e autoreferenziale per srotolare il nastro della storia attraverso un supporto che, mentre lo riavvolge, si interroga sulle proprie omissioni e potenzialità. Ricostruzione di un passato ormai sbiadito e solo in apparenza indelebile, esse si fanno al contempo testimoni della nostra epoca, declinando tanto in senso bellico quanto in chiave estetica un identico e contrario impulso alla resistenza e all’avanguardismo. E affrontano di petto 1 2
Come il regista farà anche per il successivo Changeling, incentrato sulla lotta solitaria contro le menzogne dell’istituzione intrapresa da una madre a cui è stato rapito il figlio. Termine coniato da Charles Jencks, che riferiva la «doppia codificazione» all’architettura postmoderna, la quale rifiuta un linguaggio unico e universale (e apparentemente impersonale e oggettivo) per imbastire un doppio discorso che applica simultaneamente due codici stilistici. La definizione di Jencks, tratta dal suo The Language of Post-Modern Architecture, Academy, Londra, 1977, ebbe una certa fortuna anche in ambito letterario, raccolto in particolare da Margaret Rose e Linda Hutcheon. Quest’ultima, nel suo The Politics of Postmodernism (Routledge, Londra-New York, 1989), descrive il postmoderno come una “dichiarazione autoconsapevole, autocontraddittoria, autocritica” (p. 1). Cit. in G. Chiurazzi, Il postmoderno, Bruno Mondadori, Milano, 2007, pp. 171-172.
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almeno uno degli snodi cruciali del contemporaneo (la verità/falsità connaturata all’immagine, indipendentemente dalla sua consistenza analogica o digitale3). Simili a due torri gemelle di luce e ombra riedificate sulle macerie della memoria, ma recanti in evidenza i segni di un orrore impresso nella coscienza individuale e collettiva, che la storia non manca di rinnovare e aggiornare. Prima parte del dittico, Flags of Our Fathers non è immune dall’influenza del co-produttore Steven Spielberg, soprattutto nelle convenzionali sequenze di combattimento – con lo sbarco sull’isola che non può non rimandare a Salvate il soldato Ryan, riecheggiato anche dalle tonalità desaturate e monocromatiche – come pure nell’insistito e verboso sottofinale che celebra il ritrovarsi di padre e figlio, in cui una didascalica voice over sembra violare l’asciuttezza tipica dello stile eastwoodiano. Ciononostante Flags of Our Fathers rimane un’opera certamente personale, ulteriore avvitamento dei cardini di una poetica d’autore: la memoria come prigione e ossessione, l’ostico rapporto genitore-figlio, la decostruzione del mito. Come d’abitudine, Eastwood pone subito le cose in chiaro, affidando in apertura alle parole di un veterano il proprio pensiero: se le forme di rappresentazione restituiscono un’idea della guerra come netta demarcazione fra buoni e cattivi, la realtà è molto più complessa e sfumata, quasi sempre inconoscibile nelle sue implicazioni profonde e non ricostruibile nella sua interezza. Rifuggendo come già ai tempi di Gunny, del 1986, ogni tentazione epica ed esaltazione dell’eroismo dei marines4, il regista fa della fotografia scattata da Joe Rosenthal sul Suribachi (raffigurante sei uomini nell’atto di alzare lo Stars and Stripes)5 il centro 3
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Si veda tra gli altri B. Di Marino, Pose in movimento. Fotografia e cinema, Bollati Boringhieri, Torino, 2009. Il quale, interrogato in merito a Flags of Our Fathers in quanto opera cinematografica che delega a una fotografia il suo processo di generazione di senso, lo definisce «un caso piuttosto raro di un film che racconta la storia di una foto e della mitologia che essa ha contribuito a creare». Cfr. G. Canova (a cura di), Riattivare il senso, congelare lo sguardo, “duellanti”, n. 55, settembre 2009, p. 72. Si ricorda a questo proposito che l’unico precedente nella filmografia di Eastwood regista assimilabile al genere bellico è appunto Gunny, a cui il Pentagono ritirò il suo appoggio giudicandolo inutilizzabile per una campagna di reclutamento. Nota come Raising the Flag on Iwo Jima, l’immagine si aggiudicò il Premio Pulitzer nel 1945.
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della narrazione, punto di partenza di una lucida ricognizione in quel labirinto di bugie pietose, contraffazioni mediatiche, parziali ammissioni e gesti destinati all’oblio che costituisce il naturale corollario di ogni guerra. Due bandiere sono trasportate quel giorno sulla cima del vulcano: diverrà celebre la seconda, quella ignorata da tutti coloro che hanno salutato entusiasti lo sventolare della prima, assieme agli uomini che vi si affannano intorno e dei quali tuttavia non si riesce a scorgere il volto. Chi essi siano realmente non importa quanto la loro immagine, quella selezionata dall’agenzia governativa, confermata e protetta dalle insinuazioni di “falso”, imposta nell’immaginario collettivo. Da soldati costretti a guardare dritto dentro l’abisso, i tre sopravvissuti della foto sono ridotti a icone riprodotte all’infinito ed espropriate del loro dolore: venditori di Buoni del Tesoro a sostegno dello sforzo bellico, pagliacci chiamati a ripetere lo stesso discorso di fronte a folle in delirio distanti molto più che migliaia di chilometri da Iwo Jima. A reiterare quel gesto nelle situazioni più improbabili, travisato e depredato a uso e consumo di chi non c’era. La demitizzazione si accompagna a un’amarezza diffusa, a una disillusione inevitabile: quella per un Paese senza memoria né riconoscenza, che consuma voracemente le proprie divinità per poi voltare loro le spalle (come nel caso di Rene Gagnon, dei reduci il più attratto dalle lusinghe della notorietà e il più richiesto, che dopo pochi mesi non troverà nessuno disposto a dargli un lavoro); quella per un passato che perseguita e non rende fieri delle proprie azioni, qualunque segno abbiano avuto, chi non si sentirà mai un eroe (l’impulso autodistruttivo di Ira Hayes, che tornerà al fronte e, terminata la guerra, morirà povero e solo, ma non prima di aver camminato per rivelare a un uomo la verità sul figlio). Anche “Doc” Bradley si reca un giorno a riferire della sorte toccata a uno dei suoi compagni, colui che aveva chiamato lungamente senza ottenere risposta. Decide di mentire, come già quando nel racconto a una madre aveva “inserito” nella foto chi non c’era per riscattarne la fine nel sottotesto simbolico, consapevole della labilità dei ricordi, ma soprattutto del disperato bisogno di modificarli per sopravvivere loro. Nel percorso di conoscenza intrapreso anni dopo da suo figlio attraverso le testimonianze dei
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reduci e le lettere paterne6 emerge la figura di un “eroe per caso”, convinto che a Iwo Jima si combattesse non tanto per gli alti ideali, ma per il proprio compagno, per l’uomo che si aveva davanti. Nella corsa di ragazzi verso l’oceano come nell’approdo definitivo in una stanza d’ospedale, un film sulla costruzione di una mitologia si volge dunque nel finale in una dichiarazione di fratellanza, un elogio dell’amicizia, uno struggente saluto tra un padre e un figlio. E una meditazione sull’uguale necessità di ricordare e dimenticare: come paiono suggerire gli splendidi titoli di coda, al termine dei quali quella spiaggia brulicante di mezzi blindati e cadaveri, riempita dal fragore delle esplosioni o dal vociare di un attimo fugace di distensione, torna spoglia e silenziosa. I luoghi non serbano ricordo di ciò che vi ha abitato, e il monumento sul Suribachi è l’unico indizio di un passato cancellato come parole tracciate sulla sabbia. Lettere da Iwo Jima comincia esattamente là dove il complementare Flags of Our Fathers si arresta: dall’immagine di una spiaggia vuota, di una Natura indifferente alle azioni e ai patimenti degli uomini. Ma mentre la macchina da presa si sofferma sui luoghi che ne furono scenario, residui di un’epoca lontana riemergono dalla vegetazione circostante: un cannone, una mitragliatrice nascosta in un buco scavato nella roccia, un carro armato rovesciato. Fino a quelle lettere, parole sepolte per un’intuizione, un gesto di pietà, un ultimo scatto di orgoglio o di paura che ha il suo equivalente nella richiesta di poco successiva rivolta allo stesso uomo che le ha insabbiate dal generale Kuribayashi: essere seppellito dove nessuno potrà trovarlo. Sottrarsi al possesso del nemico, anche nella sconfitta, perfino dopo la morte. In maniera ancora più marcata di Flags of Our Fathers, questa seconda pellicola si incista nella frattura tra la ragion di Stato (anche quando esso abbandona i propri figli al loro destino) e l’etica individuale, il rispetto per una regola percepita come ingiusta (e inutile) e la libera scelta di una condotta bollata come indegna. Come nell’altra tavola del dittico, Eastwood elabora il significato di concetti come “patria” e “onore” per rilevarne la convenzionalità e la vacuità, teorizzando la guerra come meccanismo governato dal Caso nel quale la variazione 6
Procedimento che richiama analoghe operazioni di scoperta tardiva del genitore per mezzo di fotografie o scritti nel cinema di Eastwood, come per esempio in I ponti di Madison County.
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impercettibile della traiettoria di un proiettile o di un movimento sul campo è sufficiente per annullare qualunque differenza fra ardimento e viltà, fra un vivo e un morto. La galleria di personaggi che vi sono intrappolati rende conto della quantità di possibili atteggiamenti nei confronti di tale opposizione. Se per esempio il capitano Tanida incarna nella sua forma più integralista la follia militare e il culto di una morte onorevole (uccidendosi insieme ai suoi sottoposti), il tenente Ito si dichiara irriducibile a ogni compromesso lanciandosi in un’azione suicida, per arrendersi infine al nemico dopo averlo atteso invano, quando – già cadavere tra i corpi dilaniati che lo circondano – il coraggio è venuto meno. Il barone Nishi rappresenta invece la possibilità di dialogo con l’Altro e di comprensione reciproca, accomiatandosi dai suoi uomini con la raccomandazione di agire secondo ciò che è giusto nel momento in cui lo ritengono tale. Kuribayashi è poi figura ancor più liminale: fedele all’ideologia imperiale (come dimostra spronando a combattere fino all’ultimo e ad accettare l’estremo sacrificio, ma anche – durante la cena in occasione della sua partenza dagli Stati Uniti – attestando la convergenza tra le proprie convinzioni e quelle governative) non ne è comunque accecato, acquistando una statura autonoma nella lungimiranza tattica come nella percezione dei propri compiti (a cui ha giurato di adempiere fino in fondo per i suoi cari, il pensiero dei quali rende però difficile mantenere l’impegno). Non è un caso però che la prospettiva privilegiata dal regista si allinei a quella di Saigo, soldatino delle retrovie che cederebbe volentieri quell’isolotto puzzolente e bruciacchiato agli stranieri invasori per tornare al suo forno e vedere nascere la figlia. Nell’attraversare l’orrore il suo sguardo non può che restare attonito, avvinto da una meraviglia incredula e terribile. Come quella che affiora dalla vicenda di Shimizu, personaggio in cui il conflitto con il senso del dovere si raddoppia (è stato congedato dalla polizia per essersi rifiutato di eseguire un ordine odioso) e a proposito del quale la diserzione perde qualsiasi connotazione deplorevole. Quando viene assassinato dai nemici a cui si è consegnato e che dovrebbero proteggerlo, il “traditore” coincide con il “tradito”: trovano così riscontro le parole pronunciate all’inizio di Flags of Our Fathers sull’inapplicabilità di categorie semplificanti (buono/ cattivo, eroe/codardo) indispensabili a chi non è lì per spiegarsi e metabolizzare una tragedia del tutto irrazionale, in cui ciascuno
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schieramento (ma anche ogni singolo individuo, come confessava Ira) è capace di gesta disinteressate e altrettanto vergognose. Un’intercambiabilità inscritta nel progetto stesso di Eastwood, che nel transito da un film all’altro cessa di configurarsi esclusivamente come morale e ideologica per farsi anche scopica, linguistica, narrativa. Al di là delle perplessità su una visione comunque occidentalocentrica suggerita dalla connotazione “illuminata” attribuita a Nishi e Kuribayashi (proprio i due personaggi posti a contatto con la società e la cultura americana)7, questo secondo capitolo porta a compimento tale concezione: attraversare il campo di battaglia, vedersi fuori di sé, spiare la propria bandiera svettare da dentro una grotta, con la morte nel cuore. Risuonando come un requiem nell’oscurità di loculi sotterranei e nella disperazione di chi è consapevole di scavare già la propria fossa, Lettere da Iwo Jima è anche una straziante riflessione sul passare del tempo, su tutti quei frammenti di una corrispondenza mai realizzatasi che nel finale si riversano sul terreno della caverna, momenti malinconicamente salvati dall’oblio e tuttavia indecifrabili agli occhi estranei che avidamente li profanano.
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Cfr. G. Canova, Un buco nero nel punto di vista del nemico, “duellanti”, n. 33, marzo 2007, p. 11.
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Luca Malavasi
IL SET COME CERVELLO INLAND EMPIRE (2006) DI DAVID LYNCH I love seeing people come out of darkness. David Lynch
“Contemporaneo – ha scritto Giorgio Agamben 1 – è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio. Tutti i tempi sono, per chi ne esperisce la contemporaneità, oscuri. Contemporaneo è, appunto, colui che sa vedere questa oscurità, che è in grado di scrivere intingendo la penna nella tenebra del presente”. E ancora: “Percepire questo buio non è una forma di inerzia o di passività, ma implica un’attività e un’abilità particolare, che […] equivalgono a neutralizzare le luci che provengono dall’epoca per scoprire la sua tenebra, il suo buio speciale”. Se c’è un regista, tra quelli del cinema contemporaneo, che possiede ed esercita una tale abilità, che sa muoversi nel buio e guardarlo, riparandosi dalle luci abbaglianti della sua epoca, questo è David Lynch. Tutto il suo cinema è percorso da un’attrazione per la tenebra che, soprattutto a partire da Velluto blu, si precisa nei termini di una vera e propria indagine contro l’evidenza, al di là delle apparenze, in lotta con ciò che è illuminato; e non si tratta – come a volte è stato scritto – di una seduzione fine a se stessa (il dark), ma di una vera e propria ricerca nel “nero”, nella darkness, di cui Lynch, proprio in Velluto blu, esibisce con coerenza (per la prima volta dal suo esordio nel cinema) logica, struttura, andamenti, motivi e figure, disegnando un modello formale, poetico ed ermeneutico destinato a resistere. La polarità evocata da Agamben in rapporto alla letteratura è tanto più interessante (e molto meno metaforica) nel caso del ci1
G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, Nottetempo, Roma, 2006.
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nema, in cui l’oscurità – almeno sul piano dell’immagine e della “materia” – rischia sempre di essere avvertita come un’assenza di luce, una negazione della cosa e dei suoi profili, una condizione semplicemente inerte e negativa; o, ancora, un attributo esclusivo e di genere. Il cinema di Lynch, al contrario, ha fatto della tenebra un “pieno”, un dato non interstiziale o passivo, ma il luogo di un riconoscimento e di un’esistenza delle cose; esattamente là – dietro, sotto, accanto – dove altri distinguono e descrivono luci, forme e colori, Lynch ha saputo individuare e decifrare il luogo censurato, dimenticato, culturalmente rinnegato o semplicemente trascurato – ciò che non si deve, vuole, può o riesce a vedere – del suo tempo. E l’indagine, per forza di cose, ha dovuto rifiutare modelli, forme e stili correnti: la luce del cinema così com’è, come siamo abituati a vederlo, e come ci ha abituato a vedere il mondo, e a riconoscerne le luci. In questo percorso rientra anche il peculiare utilizzo di suoni e rumori (veri e propri fondali sonori) che caratterizza tutto il cinema di Lynch, fondato su un’inedita relazionalità tra i sensi – la vista e l’udito, in particolare: la ricerca lynchiana incrina all’origine la centralità della relazione tra cinema e occhio (tra luce e percezione visiva), a vantaggio di un cinema sinestetico in cui, per esempio, il suono è inteso anche come gradiente visivo2. Un uso, quello del suono e del rumore – ma, anche, della musica – accordato a un sentire profondo e oscuro, spesso memoriale o psichico, che elabora un discorso lontano dalla riconoscibilità analogica tipica dell’utilizzo del sonoro nel cinema, fino a comporre un vero e proprio racconto parallelo alle immagini, con le quali stabilisce un dialogo originale e mutevole, mentre si offre, su un altro piano, a una percezione squisitamente corporea. Del resto, guardare – e ascoltare – le tenebre significa anche, almeno nel caso del cinema, 2
Fuor di metafora e teoria, c’è un episodio – legato alla lavorazione di Velluto blu e, in particolare, alle riprese della scena in cui Dean Stockwell canta In Dreams – che spiega benissimo questa attitudine lynchiana: “Come microfono volevamo usare una piccola lampada da tavolo. Dean prese una luce, pensando che fosse quella giusta; invece era una lampada del set. La accese e, naturalmente, non poteva rivelarsi più adatta. Nessuno sa perché quel faretto si trovasse lì, ma cambiò tutto. Era strano, ma più l’appartamento di Dean diventava buio, meno sentivo la canzone. Appena ci fu un po’ più di luce il suono divenne perfetto”, in C. Rodley (a cura di), Lynch secondo Lynch, Baldini&Castoldi, Milano, 1998, p. 185.
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accompagnare lo spettatore verso forme di appercezione visiva e sonora che deludono o mettono apertamente in crisi una decodifica abituale, per condurlo verso una dimensione altra, anche per quanto riguarda il suo “lavoro” cognitivo e sensibile. Per descrivere fino in fondo il “buio speciale” di un’epoca è infatti necessario approntare altri strumenti – altrettanto speciali – di sguardo e racconto; per comunicarlo, è necessario costruire un’esperienza, per lo spettatore, lontana dalle rassicurazioni di ciò che ha già visto e imparato a vedere grazie alla luce del cinema. Com’è noto, dopo INLAND EMPIRE David Lynch non ha più scritto o diretto un lungometraggio. Ha però continuato a dipingere e incidere musica (l’album Crazy Clown Time è uscito nel 2011) e a realizzare brevi filmati “fuori formato” – cortometraggi in forma di sogno o visione, videoclip e spot, come i 16 minuti di Lady Blue Shanghai (2010), long version di un commercial per Dior, ideale prosecuzione dei racconti memoriali e sdoppiati di Mulholland Drive e dello stesso INLAND EMPIRE. Al 2007 risalgono invece gli otto minuti di Boat, una specie di “improvvisazione” digitale in cui una voce femminile (Emily Stofle) racconta e ricorda a fatica un episodio riferito a un passato forse onirico – del resto, la premessa è che “La natura contiene molti misteri”. Il racconto è di cose – alberi, acqua, barche, benzina… – ma, soprattutto, di sensazioni, perlopiù legate alla difficoltà di riconoscere e capire: “Mi risultava difficile vedere… tutti i dettagli erano strani”. Le immagini traballanti e, dapprincipio, sospese in una referenzialità ancora in cerca di una traccia narrativa che accompagnano il voice over sono bruciate e sovraesposte, al punto da confondere acqua e cielo, e da rendere quasi indistinguibile sia il profilo della barca che, a un certo punto, lascia il molo per il mare aperto, sia l’identità del suo occupante. Il digitale, qui come in tutta la produzione di Lynch, è il lo-fi delle DV, non quello lussuoso – e in competizione con la definizione e la saturazione cromatica della pellicola – che si ottiene con l’HD. A metà circa del racconto, con l’imbarcazione ormai lanciata a tutta velocità, il conducente viene inquadrato in primo piano; è Lynch in persona che, rivolgendosi allo spettatore, commenta: “Stiamo provando a entrare rapidamente nella notte”; subito gli fa eco la voce femminile: “C’era molta luce”. In questa seconda parte, l’immagine si fa quasi astratta: la fortissima sovraesposizione viene
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utilizzata per disegnare graffi di luce e colore, con la videocamera fissata sull’acqua attraversata a grande velocità dall’imbarcazione. Dopo qualche minuto, la continuità di questa sequenza di macchie di luce in movimento viene spezzata da alcune inquadrature notturne, che infine vi si sostituiscono: “Improvvisamente, calò il buio”, commenta la voce femminile. Tutto si fa nero, eppure, nonostante o, anzi, proprio per questo, qualcosa, finalmente, si vede: la prima osservazione della donna riferisce della luce della luna che si riflette nell’acqua, creando così un curioso rovesciamento: la prima parte “luminosa” di Boat si rivela in realtà una cancellazione, per eccesso di luce, del profilo delle cose; la parte oscura e notturna viene invece valorizzata come uno spazio in cui le cose – la luce della luna, prima di tutto – si riflettono e dunque vedono (e danno a vedere altro). La ragazza entra nel sogno, finalmente vede (“Ti ho sognato”), e Lynch commenta: “Ha funzionato”. La dinamica narrativa, visiva e luministica su cui si regge Boat rappresenta l’ennesimo saggio di poetica della luce (e della tenebra) all’interno della filmografia di Lynch. E sembra nascere da una costola dell’immediatamente precedente INLAND EMPIRE, rappresentandone, al tempo stesso, il superamento. Com’è noto, infatti, INLAND EMPIRE costituisce un punto d’arrivo e di (ri) partenza all’interno della produzione di Lynch: da un lato, infatti, sembra esaurire l’interesse del regista per la forma del lungometraggio, che proprio INLAND EMPIRE mette definitivamente in crisi (intendendo con il termine lungometraggio non soltanto la “misura” del racconto, ma anche i processi produttivi e distributivi che lo caratterizzano). Dall’altro lato, INLAND EMPIRE rappresenta un punto di verifica e ideale ripartenza all’interno di un percorso sperimentale che, fino a quel momento, ha solo sfiorato la produzione maggiore di Lynch, e che riguarda l’esplorazione delle possibilità offerte dalla tecnologia digitale. INLAND EMPIRE porta a compimento questo percorso, iniziato nel 2002 con la produzione di brevi contenuti per il sito web del regista, ma sembra anche concluderlo o, meglio, sembra celebrare la definitiva dissociazione dell’immagine e del racconto digitali dalla “forma” cinema, per inaugurare un nuovo campo di tensioni e possibilità tra i due termini, cinema e digitale. All’interno di INLAND EMPIRE, infatti, Lynch fa scontrare due storie e due percorsi, il cui intreccio o dialogo è ancora una questione aperta, sia in termini teorici, sia dal
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punto di vista delle pratiche realizzative e delle forme. Ma si tratta anche, come vedremo, di un ideale passaggio di consegne: perché se Agamben, occupandosi di letteratura, può trascurare, almeno in parte, la dimensione propriamente “tecnica”, nel caso del cinema tale dimensione è, al contrario, determinante (come insegna, per fare solo un esempio, la relazione tra il cinema – inteso prima di tutto come medium – e le avanguardie artistiche di inizio Novecento): la contemporaneità del discorso cinematografico si realizza, anche, attraverso l’impiego e l’esplorazione di tecnologie che, in sé, incorporano – anche se solo in forma potenziale – un lessico intimamente legato al presente di un’epoca. Certo, l’avvento dell’immagine digitale – e non semplicemente delle pratiche digitali di post-produzione – è stato elaborato, nella maggior parte dei casi (industriali e autoriali), attraverso un processo di inclusione e normalizzazione, se non di vero e proprio rifiuto. Semplificando molto, si può affermare che il digitale – soprattutto nella sua accezione “ricca”, l’HD – è servito ad arricchire il cinema, non a trasformarlo; e l’aggettivo digitale rimanda ancora oggi quasi esclusivamente a un attributo qualitativo del film, al limite dell’optional, identificando semplicemente un dato “materiale” (realizzato e distribuito in digitale). Così, le possibilità visive, espressive e narrative inscritte nel funzionamento della tecnologia digitale e nella sua natura sono state perlopiù riconfigurate – e, al limite, addomesticate – per adattarsi a semplificare, alleggerire, economizzare la produzione cinematografica (secondo un processo inclusivo peraltro non nuovo, soprattutto all’interno dell’industria statunitense). L’avvento del digitale ha insomma condotto, nella maggior parte dei casi, a una quasi insensibile conversione materiale dell’immagine cinematografica e a un riassetto delle fasi della lavorazione di un film (compreso il suo lancio), senza significative conseguenze (se non banalmente qualitative) in termini estetici. Storici e teorici del cinema, da parte loro, tendono a enfatizzare quasi esclusivamente queste trasformazioni introdotte nel cinema dall’avvento del digitale – e con indubbia ragione, se, per l’appunto, la ricerca guarda alle pratiche di produzione, distribuzione o visione del film nel quadro dei nuovi oligopoli dell’entertainment audiovisivo3 –, dimenticando tuttavia che i film di finzio3
La bibliografia, in proposito, è vastissima. Mi limito a citare T. Miller, N.
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ne narrativa – il loro modo di significare e narrare, di mettere in forma la realtà e l’esperienza, in breve la loro dimensione propriamente testuale – sono stati solo sfiorati dalla “rivoluzione” digitale: prova ne è, come anticipato, l’assenza di una vera e propria estetica del digitale o l’assoluta genericità e non specificità di quelle forme o pratiche che vengono frettolosamente accomunate sotto l’idea di “sistema di rappresentazione digitale”4. Qui, come altrove, il digitale non rappresenta che il potenziamento o la semplificazione – un’aggettivazione un po’ generica – di procedure precedenti, che nascono e si identificano all’interno di contesti e processi culturali peculiari e per certi versi lontani dalla “rivoluzione digitale”. Rispetto a questo scenario, INLAND EMPIRE si impone, al contrario, come uno dei pochissimi film che esibisce il fatto di essere girato in digitale, attualizzando non soltanto il digitale come tecnologia ma, più in profondità, come originale risorsa estetica e espressiva, in grado di inaugurare nuove possibilità narrative e immaginative. In breve, un film digitale, non semplicemente in digitale. Un film in cui la tecnologia digitale non arriva dall’esterno, come novità passibile di essere addomesticata nel quadro di un sistema di pratiche e retoriche già consolidato, ma che, al contrario, sembra realizzare compiutamente un percorso artistico che, per certi versi, sembrava attenderla, e del quale finisce per rappresentare un alleato insostituibile. Nelle mani di Lynch (letteralmente: le videocamere usate per realizzare INLAND EMPIRE sono state spesso manovrate dal regista), il digitale, quello “povero” della Sony PD-150, si rivela un mezzo di scrittura specifico, di cui si esplorano liberamente le possibilità e, al tempo stesso, si indica – o, meglio, si trova – una specificità di ordine ontologico. A partire dalla giusta intuizione che il racconto delle tenebre della propria epoca si scriva, anche, grazie a mezzi che di quelle tenebre e di quell’epoca sono il risultato e, insieme, l’emblema. Dal punto di vista della messa in scena e del racconto, INLAND
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Govil, J. McMurria, R. Maxwell, Global Hollywood, BFI, London, 2001, e T. Miller, N. Govil, J. McMurria, R. Maxwell, T. Wang, Global Hollywood 2, BFI, London, 2009. Si veda, per esempio, D. Brotto, Trame digitali. Cinema e nuove tecnologie, Marsilio, Roma, 2012. Più convincente la trattazione in C. Uva, Cinema digitale. Teorie e pratiche, Le Lettere, Firenze, 2012, quando, nella terza parte, ci si occupa – dopo “teoria” e “tecnica” – di “pratiche” digitali.
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EMPIRE enfatizza, in particolare, alcune caratteristiche strutturali della tecnologia digitale, in parte già rivelate dalla ricerca “d’autore” dei primi anni Duemila, che però Lynch traduce in risorse propriamente estetiche, facendole incontrare con la propria poetica e piegandole a uno scavo ermeneutico che solo il digitale sembra in grado di portare alle estreme conseguenze. In questo senso, INLAND EMPIRE rappresenta un punto di partenza sulla strada – fino a quel momento, ma a ancora oggi, disseminata di tentativi e sperimentazioni occasionali – di una codifica dell’estetica digitale e della rivelazione di potenzialità immaginative, visive e narrative inscritte in questa tecnologia. In termini generali, il digitale lo-fi di INLAND EMPIRE è inteso, impiegato e, insieme, scoperto da Lynch soprattutto come medium di apertura, al limite di scardinamento, dell’immagine e del processo produttivo del film. Già esplorata all’interno dell’estetica brut5 diffusa a partire dalla metà degli anni Novanta da von Trier e adepti, l’inedita prossemica, corporea e spaziale, consentita dal digitale delle DV appare come la risorsa più estremizzata da INLAND EMPIRE. In una doppia accezione: da un lato, in forma di intimismo realizzativo; dall’altro, nei termini di un avvicinamento tattile all’immagine. In entrambi i casi, è in gioco – spesso sinergico – un confronto, materico e corporeo, tra i soggetti coinvolti nell’atto stesso del filmare, e la narrazione della loro azione incarnata, sensibile, percettiva6. Il primo aspetto mette letteralmente in scena una traccia fenomenologica dell’esperienza cinematografica, vale a dire la continua reversibilità intrasoggettiva di percezione ed espressione, e la manifestazione intersoggettiva della percezione dell’espressione e dell’espressione della percezione da cui ha origine l’atto del filmare. In altre parole, il digitale di INLAND EMPIRE offre una forma visibile al circuito dei soggetti e degli oggetti implicati originariamente dal film, alla dinamica sensibile dei loro 5
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Utilizzo il termine francese per richiamare esplicitamente l’esperienza dell’art brut che, in modo un po’ sorprendente, non è mai stata vista per quello che è, vale a dire un antecedente culturale del fenomeno del Dogma 95. Su queste e altre questioni relative alla dimensione corporea e sensibile del cinema, mi permetto di rimandare ai miei Di cosa parliamo quando parliamo di corpo (al cinema), “Aut Aut”, n. 330, aprile-giugno 2006, e Racconti di corpi. Cinema, film, spettatori, Kaplan, Torino, 2009.
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rapporti, al loro esserci corporeo: una correlazione transitiva tra oggetto di visione, atto di visione e soggetto di visione7 che, grazie a un uso intensivo della tecnologia digitale, si impone non come un dato solo linguisticamente premesso, ma come la rappresentazione del processo di incarnazione e costituzione del film e della spazializzazione del suo circuito di soggetti e oggetti. La tracciabilità corporea a cui Lynch sottopone, grazie al digitale, l’atto stesso del filmare, piega emblematicamente alcune peculiarità della tecnologia digitale – immediatezza, leggerezza, manovrabilità… – in una risorsa stilistica e, insieme, ermeneutica, in cui l’immagine e il racconto sono offerti allo spettatore anche in quanto immagini e racconti dei processi che sono all’origine di ciò che percepiamo sullo schermo; tracce stilistiche di questa piega del discorso sono, tra le altre, la presenza sensibile e antropomorfa dell’osservatore, una precisa retorica dell’accadere degli eventi (contro le chiusure della messa in scena) ma, anche, il ricorso – più insistito che in passato – a un repertorio di trasfigurazioni visive, più che di semplici transizioni (dissolvenze, assolvenze, ellissi marcate, scancellature, sparizioni etc). L’esito complessivo di questa operazione, come s’intuisce, rimanda, tra l’altro, ad alcune caratteristiche della poetica del regista, prime tra tutte l’autoriflessività. Il digitale consente a Lynch di amplificare e, per certi versi, sintetizzare un’attitudine metalinguistica che non si è mai risolta – postmodernamente – in un “gioco” strutturalista, ma che ha sempre avuto di mira un’interrogazione di ordine propriamente filosofico, relativa all’immagine, al suo statuto referenziale, al suo nascere e costituirsi e rendersi leggibile e narrativamente comprensibile. L’altro aspetto esplorato in INLAND EMPIRE a partire dalle caratteristiche tecnologiche del digitale, sempre su un asse di affermazione e tensione corporea del circuito di soggetti, atti e oggetti all’origine della visione, riguarda più direttamente la materialità dell’immagine. Tutto il cinema di Lynch è attraversato da una tensione immersiva dello sguardo, in forma di avvicinamento, sprofondamento o vera e propria penetrazione oltre la superficie di cose e corpi – superficie avvertita non come un limite invalicabile, ma 7
V. Sobchack, The Address of the Eye. A Phenomenology of Film Experience, Princeton University Press, Princeton, 1992.
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come un ostacolo squisitamente visivo che il cinema deve incaricarsi di forzare per non ridursi, come anticipato, a cogliere e a raccontare soltanto le luci (e le ombre) di ciò che è già dato. INLAND EMPIRE porta alle estreme conseguenze questa attitudine, che è poi figura di un rapporto irrisolto, misterioso, rimandato a un’incertezza permanente tra spettatore e immagine, tra immagine e realtà. Lo fa soprattutto mettendo in scena uno sguardo deforme, per eccesso di vicinanza ai corpi degli attori e agli oggetti presenti sulla scena e destinati a costituirsi come i tasselli del racconto. Uno sguardo che vede, e insieme, tocca la materia: si è scritto tanto – e spesso a sproposito – sulla dimensione tattile o, meglio, aptica (“capace di entrare in contatto con”) del cinema di Lynch; INLAND EMPIRE, grazie al digitale, ne realizza una versione estrema, in cui l’apticità non si traduce soltanto in un paradossale processo di stimolazione sensibile in forma di azione sinestetica (l’occhio che si allunga e avvicina fino a toccare l’immagine), ma attiva quel processo di immersione che è la figura – “scoprire la tenebra” – di tutto il cinema di Lynch. In proposito, a metà circa del film, c’è una breve scena che restituisce perfettamente il senso di questo guardare ostinato e penetrante che caratterizza tutto il film. Nikki, già doppia o duplice (non sdoppiata), siede in un soggiorno, quasi bruciata dalla luce del sole che entra da una finestra. Dopo essersi infilata l’orologio, con la sigaretta accesa buca un indumento; le lancette dell’orologio cominciano a girare impazzite mentre Nikki avvicina l’occhio al buco e vi guarda attraverso: l’”apertura”, dapprincipio, non rivela niente, se non la trama di un altro tessuto chiaro che, sfocato dall’occhio di Nikki, si trasforma a poco a poco in qualcos’altro – le luci diffuse di un esterno notturno… Il digitale, in INLAND EMPIRE, presta dunque all’estetica lynchiana un’altra sua qualità specifica, la porosità, rivelandosi il mezzo più adatto ad avvicinare, penetrare, sgranare la trama – la texture – dell’immagine, per cercare, oltre la superficie delle cose, altre trame, altre strutture. L’astrazione e la sfocatura per prossimità, alle quali l’“apparato” della tecnologia digitale contribuisce in modo sostanziale, ricorrono in INLAND EMPIRE come procedure di un’altra messa a fuoco, di cui è emblematica sineddoche visiva la bruciatura di Nikki, che apre, sconfina, allarga. Del resto, per chi, come Lynch, cerca il confronto con il Reale, la differenza tra analogico e digitale non può risolversi e restringersi, ancora
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una volta, al problema della referenzialità. L’immagine digitale, come rivela INLAND EMPIRE, non è una superficie ambigua o paradossale, né possiede un’ontologia derivata, per difetto e differenza, dall’analogico, ma rappresenta un filtro, un medium, un veicolo dello sguardo in grado di rivelare una dissomiglianza delle cose da se stesse (contro la luce che le fa assomigliare a se stesse) e di aprire verso un al di là dell’immagine. Questa attitudine lynchiana verso l’uso e, insieme, la valorizzazione del digitale “povero” ha un’inevitabile ricaduta sulla forma del racconto di INLAND EMPIRE. Il film abbandona le logiche “forti” (anche se aberranti) dei precedenti Strade perdute e Mulholland Drive, per abbracciare una narrazione molecolare. Le “piccole camere” impiegate da Lynch e dai suoi operatori per descrivere, pedinare, sfiorare e penetrare i corpi degli attori dall’interno di un rapporto che ha di mira la presentificazione dell’osservatore, danno vita a un racconto non semplicemente frammentario o condotto secondo logiche e paradigmi suggenti, ma aperto e poroso, concentrato e per certi verso chiuso su ogni singolo atto di visione, e per questo destinato ad accogliere frammenti precedenti e altri – emblematicamente, la serie dei Rabbits –, a sfaldarsi in una serie di processi intermediali e a disseminarsi verso territori potenziali. Ma l’insieme non è lasciato a una pura astrazione: in un film che è, anche, un film sul cinema e, anzi, sulla lavorazione di un film, Lynch rende lo sguardo – più esattamente, l’atto di guardare – il vero protagonista, nonché il principale mistero di questo film. E, ancora una volta, il digitale sembra, al tempo stesso, favorire e realizzare una mise en abyme tutt’altro che mentale, idealmente riassunta nelle due scene in cui Nikki si trova installata, contemporaneamente, nel campo e nel controcampo: è colei che guarda e, al tempo stesso, è ciò che vede; nel secondo caso – l’ultima scena del film – è a sua volta osservata da se stessa. Da quanto detto, appare infine evidente come il valore, prima di tutto “culturale”, di INLAND EMPIRE risieda nell’aver consegnato alla storia del cinema e dei media un modello di estetica della digitalizzazione dell’esperienza cinematografica. La discussione sul passaggio alla forma e al consumo digitale dei media – col cinema al centro di tutto, in forma di traino un po’ fané del gioco intermediale – tende normalmente a risolversi o nell’indagine del rinnovamento dei processi di consumo audiovisivo, oppure nella verifica
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delle conseguenze sociale e culturali prodotte della polverizzazione dell’immagine e dal suo svuotamento referenziale. Ci si è invece occupati pochissimo – anche a causa della difficoltà di orientarsi nel territorio, tutt’altro che organico, del cinema digitale8 – del modo in cui questa tecnologia ha saputo passare al cinema nuovi strumenti di pensiero e immaginazione, non soltanto scorciatoie tecnologiche o semplificazioni finanziarie. Nell’espressione cinema digitale, l’aggettivo non è destinato, fatalmente, a vincere sul sostantivo, come sostengono Elsaesser e Hagener9; può, al contrario, svolgere correttamente la sua funzione gerarchica e sintattica, specificando e rinnovando, e indicando, al tempo stesso, un orizzonte estetico peculiare all’interno dei processi di digitalizzazione del cinema. Cinema digitale, appunto, e non, semplicemente, in digitale.
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Trovo emblematico, in proposito (e per citare solo un caso) che Elsaesser e Hagener, nel chiudere il loro volume di teoria del film con un capitolo dedicato al digitale, restringano il campo alla produzione Pixar o all’idea di effetto speciale, cadendo infine nel più classico degli errori, vale a dire la parificazione estetica e culturale dei “testi”, condotta sulla base dell’identità digitale. Cfr. T. Elsaesser, M. Hagener, Teoria del film. Un’introduzione, Einaudi, Torino, 2009. Ivi, pp. 197-198.
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IL DNA DEL CINEMA THE PRESTIGE (2006) DI CHRISTOPHER NOLAN
Il cinema si guarda spesso alle spalle, e ogni volta il paesaggio che gli si apre davanti è più vasto e complesso di prima. Nell’impossibilità di abbracciarlo tutto con un solo sguardo, si accontenta di fissare un punto: un film (da rifare), un attore (da omaggiare), una storia (da prolungare, corredandola di nuovi episodi). Negli ultimi tempi, gli sguardi retrospettivi del cinema si stanno caratterizzando per una certa miopia: il panorama è complesso, l’occhio va a cercare un punto ravvicinato, più semplice da mettere a fuoco. Ad esempio, si è andata accorciando visibilmente la distanza temporale tra un film e il suo remake: arte della memoria, il cinema preferisce i ricordi recenti a quelli lontani; quando si volta, non lo fa quasi mai per scrutare l’orizzonte, dove lo sguardo è inevitabilmente destinato a perdersi. I punti più distanti del paesaggio, vanno semmai immaginati, vagheggiati, recuperati alla memoria attraverso l’immaginazione. Prendiamo ad esempio il cinema muto. Nel 1950, quando esce Viale del tramonto, ha i tratti scorbutici di Gloria Swanson/Norma Desmond. Ad appena vent’anni di distanza, il punto di osservazione retrospettiva è abbastanza ravvicinato per permettere una visione attendibile e uno sguardo impietoso: l’epoca del muto come un mondo residuale e dismesso, popolato da fantasmi rancorosi che rincorrono invano la luce dei riflettori. In epoca a noi più vicina, quindi ad oltre un secolo di distanza dai fasti del muto, gli sguardi che si volgono indietro alla sua ricerca sono impossibilitati a mettere a fuoco l’oggetto. L’occhio del cinema si perde all’ orizzonte, dove i contorni delle cose assumono forme indistinte, definite dal desiderio più che dalla percezione. Ecco allora film come The Artist e Hugo Cabret, che non guardano il cinema muto ma guardano al cinema muto, come ad un age d’or fantastica dove tutto era
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possibile: un mondo ecologicamente ed esteticamente sostenibile, dove si riciclava e non si rottamava. La realtà storica ne racconta un altro, di mondo, più cupo e inesorabile: i divi del muto non ritrovavano sorriso e successo a passi di danza, come avviene in The Artist, finivano semmai pazzi e in disgrazia come la protagonista del film di Wilder. E Georges Méliès, ben lontano da ogni forma di rivalutazione in vita, è morto dimenticato da tutti, trascorrendo gli ultimi anni della sua esistenza a vendere giocattoli alla stazione ferroviaria di Parigi. Il cinema, dice Godard (parafrasando Bazin) all’inizio del Disprezzo, sostituisce al nostro sguardo il mondo che desideriamo. In questo caso lo sguardo del cinema asseconda il desiderio di emendare il proprio passato dei tratti più sgradevoli, delle asprezze legate alla sua natura commerciale, quindi concorrenziale (che prevede sempre dei vincitori e dei vinti). Nessuno esce di scena, né viene dimenticato: il cinema muto è un punto all’orizzonte talmente distante da poter essere oggi ricostruito interamente con l’ausilio dell’immaginazione, che lo depura delle sue zone d’ombra. Non è per caso che entrambi i film hanno riscosso ampi consensi di pubblico e di critica, vincendo complessivamente dieci Oscar. Il cinema si è ripulito la fedina inventandosi un passato che non è più soltanto glorioso e leggendario, ma anche generoso e magnanimo con coloro che non stavano al passo del suo implacabile progresso imprenditoriale e tecnologico. Appena qualche anno prima, sull’argomento era uscito un film incomparabilmente più prezioso ed acuto. In apparenza, The Prestige muove dalle stesse premesse: troppo distante per essere vista in modo nitido, l’infanzia del cinema va ricostruita con l’occhio dell’immaginazione. Ma l’idea vincente di Nolan è quella di spingere lo sguardo ancora un po’ più in là, lungo un punto di fuga che non porta all’infanzia del cinema, ma alla sua preistoria. Invece che guardarsi alle spalle per cercare un cinema che non c’è più, prendere il cinema alle spalle, un attimo prima che veda la luce, nel tentativo di scorgerne i tratti essenziali quando ancora non si sono manifestati in modo compiuto ed evidente. The Prestige non trucca l’immagine del cinema per renderlo più bello da giovane, al contrario ne propone una sorta di ecografia del feto, ancora raggomitolato nel liquido amniotico dell’intrattenimento popolare. Per farci vedere come è (sarà) fatto, quali sono (saranno) i lineamenti
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che lo caratterizzeranno, ben oltre l’epoca della sua giovinezza, addirittura fino ai giorni nostri. Per mettere a fuoco il DNA del cinema, Nolan si concentra sulle due ossessioni collettive che ne hanno permesso l’invenzione e legittimato l’affermazione: l’esorcismo della morte e la duplicazione. E lo fa utilizzando, sul piano narrativo, una professione, quella dell’illusionista, che all’epoca presentava inequivocabili tratti di prossimità con quella del cineasta delle origini. Molto prima che Edgar Morin arrivasse a sistematizzare la questione in termini teorici, la stretta parentela tra cinema e magia viene avvalorata dalla frequenza con cui, nei primi anni del novecento, proprio i maghi e gli illusionisti – da Félicien Trewey in Inghilterra a Carl Hertz in Africa ed Australia – si assumono il compito di promuovere il cinematografo all’estero. La dimensione fantasmagorica del cinema costituisce un’attrazione irresistibile per i prestigiatori, che ne intuiscono le potenzialità di compensazione e appagamento delle due ossessioni descritte sopra. Nel cinema come nel gioco di prestigio, tutto appare e riappare, nulla scompare in via definitiva, poiché ogni figura ha almeno un doppio in grado di salvaguardarne l’esistenza agli occhi del pubblico. Le due ossessioni vengono così ad intrecciarsi: per essere opportunamente esorcizzata, la morte richiede un simulacro, il quale a sua volta acquisisce importanza nel momento in cui gli si attribuiscono qualità magiche. Il doppio non muore mai, anzi ha il compito di rimpiazzarci al momento della nostra morte. In The Prestige il tema della duplicità viene moltiplicato in termini esponenziali: due illusionisti, che sono a loro volta duplici, avendo rispettivamente un sosia e un gemello; due donne, destinate entrambe a morire e essere rimpiazzate da figure femminili capaci a loro volta di “sdoppiarsi”, ovvero di fungere rispettivamente, nel corso della vicenda, da amante e figlia dei due protagonisti; due diari fasulli, che a un certo punto si tramutano in qualcosa d’altro; un numero di magia, quello del “trasporto umano”, il cui segreto consiste nella duplicazione fittizia dello stesso individuo. La duplicità prevede sempre una trasformazione, una metamorfosi che – come ad esempio nel caso del gemello – produce qualcosa di contemporaneamente uguale e diverso rispetto all’originale. Ed è proprio sul crinale sottile che divide l’identità dalla diversità, sulla capacità di fondere l’una nell’altra sino a renderle indistinguibili, che si gioca il
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destino differente dei due personaggi. La posta in gioco è alta, e il cinema di lì a poco ci punterà, con successo, tutte le proprie fiches. In uno degli articoli usciti all’indomani della prima proiezione pubblica del cinematografo, con lungimiranza ragguardevole un cronista parigino scrive: “Già si poteva cogliere e riprodurre la parola, ora si coglie e si riproduce anche la vita. Si potrà ad esempio riveder vivere i propri cari, molto tempo dopo averli perduti”. In questa fase embrionale la duplicazione del cinema, come ha acutamente osservato Noel Burch, “concorre a compiere il fantasma supremo: sopprimere la morte”. E’ per questo che nella visione di Nolan i giochi di prestigio vengono progressivamente a perdere i tratti di ubiquità spaziale che ne costituiscono il principale motivo di attrazione, come pure vediamo in principio: il numero della pallina è quello del cappello giocano sulla stupefazione di un uomo, l’illusionista, in apparenza capace di essere contemporaneamente ai capi opposti del palcoscenico. Ma nel corso del film i due protagonisti – quasi loro malgrado, sulla scia di un febbrile, maniacale perfezionismo professionale – finiscono per essere attirati nell’orbita di un’ubiquità che non ha più i contorni dello spazio, ma del tempo. E’ grazie al gemello che Borden, già nella tomba, può essere dissotterrato e riportato in vita, per apparire infine al rivale sotto le sembianze di un uomo tornato dall’aldilà; è grazie alla macchina congegnata da Tesla che Angier può fare lo stesso effetto all’impresario teatrale, incredulo nel ritrovarsi di fronte un uomo il cui corpo ha visto giacere sul tavolo di un obitorio. L’ubiquità cronologica si configura così come l’antidoto all’irreversibilità del tempo: si entra e si esce dal territorio della morte, uguali e diversi al contempo. Come farà successivamente in Inception, Nolan tematizza quelli che sono sempre stati i veri punti d’incandescenza del cinema: l’onirismo e la magia. Non soltanto il film vede protagonisti due illusionisti ed è interamente ambientato nel mondo degli spettacoli di prestidigitazione, ma risulta costruito come un numero di magia in pellicola, tant’è vero che la tag line originale (“Are You Watching Closely?”) invitava lo spettatore a guardarlo come tale. Inoltre, a riprova che certe caratteristiche sono, nel tempo, diventate proprie non solo del cinema delle origini ma del cinema tout court, l’impalcatura narrativa e quella formale del film ruotano intorno ai medesimi elementi. Da una parte dunque il controllo del tempo, la neutralizzazione della sua irreversibilità, cui provvede la tecno-
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logia del montaggio. La storia procede costantemente in avanti e all’indietro, attraverso una serie di sbalzi cronologici che evidenziano la capacità del cinema (e dell’illusionista che ne è a capo) di controllare e giocare con il tempo della narrazione. Dall’altra, il trucco – nel senso questa volta sia letterale che metaforico del termine, quindi in riferimento su un piano all’attore e sull’altro al montaggio (le ellissi di inquadrature che ci verranno proposte solo alla fine) – maschera allo spettatore il fatto che Borden ha un gemello. Del tutto fedele al titolo, The Prestige è pensato come uno sbalorditivo gioco di prestigio, del quale rispetta puntualmente le regole, che ci vengono esposte all’inizio: il regista-illusionista dapprima ci mostra una situazione ordinaria, fatta di personaggi, ambienti, relazioni; poi la rende straordinaria facendo improvvisamente sparire un elemento essenziale alla sua comprensione (le inquadrature coi gemelli che si scambiano le parti nel caso di Borden, la vasca con i cloni in quello di Angier), che riapparirà davanti ai nostri occhi solo nel finale: l’ultima immagine del film è infatti quella del clone di Angier immerso nella vasca. E anche in questo caso, ci troviamo di fronte semplicemente ad un ulteriore gioco di specchi, posto che i due interpreti non hanno evidentemente alcun doppio e prestano semplicemente il loro corpo ad ognuna delle varianti dei rispettivi personaggi. Sotto questo profilo il film di Nolan, guardando all’embrione del cinema muto, lo valorizza in misura maggiore di quanto facciano le procedure di imbalsamazione e mummificazione cui esso viene sottoposto in The Artist e Hugo Cabret. Opere intrise di nostalgia per qualcosa che non c’è più, che di conseguenza è opportuno commemorare. Elegie funebri che, come spesso accade, finiscono per restituire del defunto un’immagine fuorviante, migliore dell’originale, depurata di ogni tratto negativo. The Prestige al contrario non fa nulla per occultare la natura ferocemente commerciale e concorrenziale dello spettacolo visivo di fine ottocento. Quella fra i due illusionisti è una lotta senza esclusione di colpi, che ha come posta in palio la popolarità e quindi, in definitiva, il successo economico. Significativa al riguardo è una battuta di Olivia, che rimprovera a Borden la sua inferiorità rispetto ad Angier nel campo della promozione e della valorizzazione dei numeri di magia. Borden è un artigiano, crede nel lavoro fino all’estrema abnegazione, ma questo – come dimostra la (vera) storia di Méliès – non è suf-
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ficiente. Dotato di creatività limitata, Angier spende buona parte delle proprie energie a copiare le idee del rivale (da qui l’ossessione nel volergli carpire il “segreto” del numero del trasporto umano), nella lucida consapevolezza che dietro al successo non sta l’originalità del trucco, bensì la sua replicabilità, ovvero la sua moltiplicazione in serie. Perfettamente funzionale al suo scopo, la macchina messa a punto da Tesla presenta tutte e tre le caratteristiche che saranno proprie del cinematografo: costituisce infatti l’esito di una tecnologia della riproduzione (I), finalizzata ad un evento di natura spettacolare (II), il cui successo dipende dal fatto che il pubblico lo percepisca come magico-fantasmagorico (III). La mutilazione che Borden impone al fratello produce semplicemente una duplicazione, l’obliterazione dell’identità che Angier impone a se stesso genera invece una moltiplicazione del tutto simile a quella su cui il cinema, di lì a poco, baserà le proprie fortune. Come i personaggi sullo schermo, Angier muore e rinasce ogni sera. E, come gli uomini che lucrano su questo miracolo, si affida agli inventori. Nel presentare lo spettacolo che Angier mette in scena al ritorno dal Colorado, l’impresario parla alla folla di “incontro fra scienza e magia”: siamo esattamente al punto d’intersezione in cui si colloca il cinematografo. E la figura di Nikola Tesla ( i cui prodigi nel campo dell’elettricità illuminano un intero villaggio del Colorado, esattamente come il fascio di luce del proiettore, ieri come oggi, fende l’oscurità delle sale cinematografiche), collaboratore prima e concorrente poi di Thomas Alva Edison, serve a chiamare in causa, simile ad un convitato di pietra che aleggia sul film pur senza essere mai raffigurato, una delle figure cruciali nella storia della prima imprenditoria cinematografica. In sintesi, con The Prestige Nolan non inchioda la bara del cinema muto ma la scoperchia, tirandone fuori il cadavere e rimettendolo in vita, anzi dimostrando che, a ben vedere, non è mai morto del tutto. Come la macchina di Tesla, il film restituisce vita e spessore a qualcosa che il pubblico dava già per defunto. Dimostrandoci come le regole del gioco (di prestigio) siano, per gli spettatori, ancora e sempre quelle: guardare, guardare meglio, stupiti di ciò che si vede, per poi gioire della propria stupefazione. Lo schermo bianco, per dirla con una frase di Edgar Morin che, per quel che mi riguarda, vale quanto interi volumi sulla magia del cinema, è “letteralmente un fazzoletto da prestigiatore”.
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IL CINEMA COME MACCHINA GRINDHOUSE – A PROVA DI MORTE (2007) DI QUENTIN TARANTINO Quando Jonathan Rosenbaum recensì l’uscita americana di Pulp Fiction nell’autunno del 1994, sottolineò in polemica con coloro che facevano dei paralleli tra il cinema di Quentin Tarantino e quello di Jean-Luc Godard – in primis i “Cahiers du Cinéma” – come nei film del regista di Los Angeles non vi sia traccia di alcuna seria discussione su arte, letteratura o filosofia e nemmeno vi sia alcuna innovazione tecnica. Quello che invece troverete è la citazione della danza di Anna Karina attorno al biliardo di Vivre sa vie di Godard e un dialogo un po’ dandy tra due gangster che potrebbe ricordarvi Jean-Paul Belmondo in À bout de souffle – dialogo che include una lunga disquisizione sulla differenza tra il Quarter Pounder di MacDonald’s ad Amsterdam, Parigi e negli Stati Uniti. Se non riuscite a capire se questa chiacchiera sia una critica ironica oppure una celebrazione autocompiaciuta dell’americanismo, è proprio perché lo stile di Tarantino è quello di cavalcare entrambe le posizioni1.
L’articolo continua dicendo che i film di quegli anni, di cui Tarantino costituirebbe in qualche modo l’emblema, segnano un nuovo stadio nel processo attraverso cui i media e il mondo esterno diventano non tanto interattivi quanto “intercambiabili e indistinguibili”. Un fenomeno che genera una sensazione pervasiva di distanza e incredulità “che nello stesso tempo satura e aliena lo spettatore, confondendo affetto con effetto, lo stile plateale con la storia, la moralità con l’attitudine. Tutti questi film, chi più chi 1
L’articolo originariamente pubblicato sul Chicago Reader del 14 ottobre 1994 è incluso nella raccolta di saggi: J. Rosenbaum, Movies as Politics, University of California Press, Los Angeles-Berkeley, California, 1997, pp. 71-76.
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meno, sostengono implicitamente che la vita può essere soltanto quello che abbiamo già visto nei media; e dato che quello che vediamo lì è inevitabilmente falso e artefatto, ciò che conta alla fine è la stilosità e la purezza dei gesti, non quello che i gesti producono o comportano”. Questa sorta di cinema “debole” avrebbe dunque definitivamente reciso ogni legame con il mondo reale permettendo allo spettatore di adagiarsi in una bolla di irresponsabilità. È un cinema che piace sia al pubblico colto sia a quello commerciale e permette a entrambi di non sentirsi fuori posto perché mai gli viene chiesto di mettere in discussione alcunché della propria posizione. Rosenbaum lamenta che i protagonisti di questi film agiscano in modo “assurdo”, che le loro vicende siano “illogiche” ancorché divertenti o “glamorous”. L’accusa di sospendere la responsabilità morale e politica dell’immagine non riguarderebbe tanto il contenuto – ad esempio il tasso di violenza rappresentato – ma proprio il fatto che questa stessa violenza sia stata coperta da una patina di cinismo dello sguardo. Tarantino parlerebbe dunque di un tempo in cui l’immagine è ormai diventata programmaticamente nient’altro che un’immagine; un’immagine compiaciuta di esporre finalmente tutta la propria falsità e autoreferenzialità. Il problema del cinema di Tarantino sarebbe dunque essenzialmente politico, di politica dello sguardo. Se citiamo un critico solitamente acuto e illuminante come Jonathan Rosenbaum, è proprio per sottolineare quanto anche le punte più alte della critica cinefila abbiano con gli anni alimentato una certa immagine del cinema di Tarantino che col tempo si è imposta fino a diventare inscalfibile. Il regista di Pulp Fiction sarebbe un perfetto esempio di narrazione postmoderna: citazionismo, autoreferenzialità, testi che parlano soltanto di altri testi, disattivazione di ogni empatia con l’immagine. Anche riguardo alla costruzione dell’intreccio – uno degli aspetti per cui il cinema di Tarantino è stato più frequentemente considerato innovativo –, i numerosi salti temporali o la moltiplicazione dei punti di vista sui medesimi episodi non farebbero altro che assecondare la frammentarietà propria del mondo che ci circonda. Dunque Tarantino è l’emblema di un cinema che guarda con distanza compiaciuta e complice al mondo in cui viviamo e che fedele al proprio universo di simulacri e di orizzontalità, decostruisce persino la consequenzialità e linearità narrativa? Un cinema dunque deprivato di ogni criterio di
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valore, dove Godard e Umberto Lenzi sono intercambiabili, dove una storia di gangster si equivale a un fumetto samurai e dove ogni elemento è svuotato di profondità e ridotto a simulacro? Il cinema di Tarantino è davvero un elogio dell’irresponsabilità dello sguardo e dell’ironia distanziata? 1. Proveremo nelle note che seguono a prendere provocatoriamente una strada inversa. L’immagine di un Tarantino fautore di un cinema debole, radicalmente postmoderno e chiuso in un universo di soli riferimenti cinematografici ci pare problematica oltre che inoffensiva e accomodante. Crediamo che sia il frutto più di una pigrizia teorica della critica piuttosto che di un vero riscontro testuale. La nostra tesi sarà invece che in Tarantino viene articolato un vero e proprio pensiero del visivo affatto “forte”, tanto coerente quanto deliberatamente programmatico e che vede in modo particolare in A prova di morte un salto di qualità e di consapevolezza. La perdita della verticalità gerarchica della narrazione non viene infatti sostituita dalla proliferazione indifferenziata del molteplice, ma semmai da una precisa poetica del frammento. Vediamo in che senso. Il frammento non è il dettaglio. Il dettaglio sta in un rapporto di “giusta misura” con lo sfondo al quale rimanda continuamente: entrambi infatti si riferiscono a una medesima disciplina della temporalità. Il frammento invece ha una temporalità propria che eccede la buona composizione delle parti. Tarantino ci ha abituati fin da Le iene a questa modalità di composizione del visivo. In quel caso l’intera vicenda narrativa veniva costruita a partire da un centro assente: la mai mostrata rapina come luogo generatore dell’intreccio. I personaggi venivano introdotti a partire da elementi idiosincratici marginali. Gli eventi erano messi in moto da casualità accidentali. Il centro dell’intreccio non veniva mai reso visibile direttamente, ma solo in modo mediato attraverso il punto di vista obliquo della sua presenza-assenza nei frammenti circostanti2. È come se Tarantino ci dicesse che nel frammento margi2
Rimandiamo a questo riguardo all’ottima analisi testuale di Le iene fatta da
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nale non viene mostrato qualcosa in meno dell’evento, ma semmai qualcosa in più: ne viene esposto il suo nocciolo più significativo che rimarrebbe invisibile nella sua osservazione immediata ed ingenua. Questa “poetica del frammento” viene progressivamente estetizzata in Pulp Fiction e Jackie Brown prima, e in Kill Bill poi: tutti film che pur nelle loro differenze, a volte anche significative, mantengono una certa dialettica nel rapporto tra il frammento e il centro. In A prova di morte gli elementi di squilibrio nei rapporti tra le parti finiscono per prendere il sopravvento. Il centro generatore viene a mancare. La narrazione non è più un complesso marchingegno di salti temporali, presenze-assenze, riferimenti incrociati. Abbiamo quasi a che fare con una serie di aneddoti, piccole scene che non fanno più riferimento nemmeno all’assenza di un centro, ma solo a se stesse. La verticalità non verrebbe più “scartata”, dilatata, messa in discussione, ma verrebbe persino a mancare. Ma se tutto ciò fosse vero, non sarebbe dunque A prova di morte un’ulteriore conferma dell’avvenuta postmodernità di Tarantino? 2. Per provare a comprendere l’utilizzo del frammento nei film di Tarantino partiremo dall’utilizzo di quello che gli americani chiamano small talk. È quella sorta di chiacchiera di poco conto che contrappunta la parola della quotidianità. Si parla del tempo, del cibo, di come si sta trascorrendo la giornata, di piccole cose. Small appunto. In linguistica invece la chiamerebbero comunicazione fatica, ovvero quell’atto linguistico che non ha come obiettivo lo scambio di informazioni ma un patto di riconoscimento intersoggettivo, indipendente dal che cosa si dice. Dunque, letteralmente, nello small talk una parola vale l’altra. Ma è proprio così? È superfluo in questa sede rammentare quanto Tarantino abbia da sempre costruito la cifra stilistica dei propri dialoghi sullo small talk. Gli esempi sono noti: la discussione su Like a Virgin di Madonna con cui si apre Le iene, la discussione sulle mance ai ristoranti nello stesso film, la speculazione pseudo-filosofica su Superman nella Leonardo Gandini in V. Zagarrio (a cura di), Quentin Tarantino, Marsilio, Venezia, 2009, pp. 33-51.
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scena finale di Kill Bill, il già citato Quarter Pounder di Pulp Fiction solo per rimanere ai più celebri. Ma in A prova di morte pare che la quantità di small talk aumenti quantitativamente fino ad occupare la quasi totalità del film. Dalla discussione in macchina tra Arlene, Shanna e Jungle Julia che apre il film, fino alle piccoli chiacchiere tra i bar di Austin in cui si parla di come recuperare qualcosa da fumare o degli shots di whiskey mentre si ascolta qualche disco della Stax al juke-box; dai gossip che si raccontano Kim, Lee, Abernathy e Zoë Bell riguardo al set di un film a cui stanno lavorando a Lebanon, Tennesse fino a quella lunga scena al ristorante in cui si parla di pistole e di piccoli aneddoti sui film precedenti a cui le quattro ragazze avevano lavorato: A prova di morte si sviluppa attraverso lunghe sequenze di small talks. Il film è infatti diviso in due parti quasi uguali che costituiscono quasi due film a se stanti: in entrambi una lunga sequenza di dialoghi apparentemente marginali si conclude con un inseguimento in macchina (più corto e mortale per le ragazze il primo; più lungo e vittorioso per le ragazze quello finale). Tarantino abbandona la decostruzione dell’unità temporale dei primi film (in cui una struttura centrale è guardata dal margine) per focalizzarsi unicamente su singoli frammenti/ scene autosufficienti che finiscono per debordare fino a prendersi gran parte del tempo del film. E la stessa cosa accadrà anche per Bastardi senza gloria che sembra quasi svilupparsi in poche scene di fatto separate le une dalle altre come se fosse una sequenza di cortometraggi (la scena iniziale di Landa che va a cercare gli ebrei nascosti; il dialogo/sparatoria nella taverna/scantinato; la scena finale nel cinema etc.). Invece che partire dalla complessità della totalità narrativa in cui le singole parti si compongono, Tarantino parte ormai dal frammento nella sua autosufficienza. È un cambiamento di prospettiva radicale. Ma queste piccole scene frammentarie dove spesso si parla di tutto e di niente sono davvero soltanto dei dettagli privi d’importanza? Puri divertissement finalizzati a strappare un sorriso o divagazioni funzionali soltanto all’alleggerimento della struttura narrativa? Come mai i film di Tarantino sono popolati da personaggi senza spessore, icone appiattite alla pura superficie estetica dell’abbigliamento (gli occhiali e i vestiti scuri dei rapinatori di Le iene, Uma Thurman e la sua tutina gialla in Kill Bill) che non fanno altro che fare battute, raccontare barzellette o storie assurde? Qual
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è il motivo di questa insistenza ostinata per il registro leggero? Dopo tutto non è forse vero che lo small talk non dice di fatto nulla in particolare? Di fronte (e contrariamente) a questa rappresentazione che vorrebbe ridurre Quentin Tarantino a un registro disimpegnato e leggero proveremo invece a considerare questi frammenti in modo affatto serio seguendo l’insegnamento che ci viene dalla psicoanalisi. 3. Che cosa vuol dire guardare dal punto di vista di un frammento? Ci pare essere questo il pensiero sullo sguardo elaborato dal cinema di Quentin Tarantino. Un pensiero sull’immagine che col passare dei film si fa sempre più chiaro e sempre più consapevole e che vede in A prova di morte senz’altro un punto di svolta. La psicoanalisi ci può venire in aiuto a questo riguardo dal momento che rappresenta una delle esperienze storicamente più consapevoli di elevazione del frammento alla dignità di verità. La riflessione di Sigmund Freud prese avvio proprio da questa sensibilità: nel vasto insieme di esperienze che formano la vita di un individuo vi sono dei momenti di caduta, delle piccole dimenticanze, delle defaillance che pur essendo marginali hanno invece un valore importantissimo. L’inconscio – luogo per eccellenza di espressione del soggetto – non è nel profondo della nostra mente come spesso erroneamente si crede, ma nell’estremo margine della nostra vita: in quello che è considerato così poco importante da non essere degno di alcuna attenzione. Nell’esperienza della psicoanalisi accade proprio questo: si incontra una persona – l’analista – che per la prima volta non dà ascolto al senso generale delle nostre parole, ma semmai a quei fenomeni periferici che la nostra attenzione cosciente relega ai margini della nostra vita. Dietro a questi luoghi così poco importanti da essere dimenticati vi sono gli elementi di maggiore rivelazione e verità sul soggetto. Freud non a caso parlava dell’analista come di colui che doveva avere un’attenzione “fluttuante” per cogliere di un discorso non la verticalità significante, ma il frammento inconsueto, la scelta lessicale insolita, l’espressione scorretta, la caricatura idiosincratica etc. L’analista doveva in un certo senso adottare uno sguardo che guardasse a partire dal
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frammento e non dal centro. La psicoanalisi è così: non ascolta a partire dal senso, ma dall’estremità paradossale e apparentemente assurda. Quentin Tarantino già dall’inizio della sua filmografia scrive e gira i propri film partendo sempre da questa zona di periferia. I suoi personaggi non vengono mai introdotti a partire da quello che stanno andando a fare, dalla funzionalità del loro ruolo nell’intreccio; di solito li vediamo impegnati in una discussione su un aspetto marginale, li guardiamo a partire da un vezzo singolare, da una loro estremità caricaturale. Ma se in Kill Bill o in Pulp Fiction questi elementi potevano essere fraintesi per una distanziazione ironica, a partire da A prova di morte e poi ancora più chiaramente con Bastardi senza gloria la dimensione consapevole di questa scelta si fa più chiara. Tarantino non è più interessato a mettere in discussione la verticalità gerarchica del racconto tradizionale sostituendola con la variazione molteplice (secondo la moda postmoderna, che per altro non fa altro che re-istituire una nuova norma). Il suo è diventato uno sguardo che non può che prendere forma a partire dalla curvatura sintomatica. Sta qui uno degli aspetti che è stato meno compreso dalla critica di A prova di morte: ovvero il suo apparente squilibrio. Lo squilibrio non può che essere la cifra di un regime dello sguardo che ha nella sua obliquità la sua ragion d’essere. È così che in A prova di morte ci pare di assistere ad un lunghissimo prologo di una scena che poi non è che un inseguimento in macchina. Ma non importa perché tutta quella prima parte non era l’attesa di qualcosa (di un centro), ma era esso stesso “centro”. Quei 45 minuti di dialoghi da bar o quel lungo piano sequenza al ristorante non erano l’introduzione di qualche cosa d’altro, ma erano essi stessi la posta in palio del film. Il cambiamento di prospettiva nello sguardo non potrebbe essere più radicale. E allo stesso modo sarebbe un errore ridurre l’utilizzo dei graffi, dei salti di pellicola, delle parti mancanti e di tutto quell’armamentario citazionistico da proiezione grindhouse con cui si apre il film (titoli di testa che vengono sostituiti a metà, salti logici etc.) alla semplice orizzontalità del riferimento alla comunità b-movies. Un’analisi di questo tipo si ferma all’evidenza descrittiva ma non compie il passo ulteriore di integrarla all’interno di quella macchina di produzione dell’immagine che è il film. L’esperienza grindhouse che Tarantino vuole ricostruire è infatti
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funzionale a quella logica del frammento dove la struttura narrativa si costituisce a partire da singole scene marginali, autonome, periferiche, non funzionali ad alcuno sviluppo ulteriore etc. Ma ancora di più si potrebbe estendere questo ragionamento all’interezza dei riferimenti al cinema di genere nella filmografia di Tarantino. Che cos’è il cinema di genere infatti se non è un enorme archivio di esagerazioni, assurdità, idiosincrasie e intensificazioni sintomatiche? Che cos’è il cinema di serie B se non un insieme di frammenti insensati e dispersi, che trovano il loro motivo d’interesse non a partire dall’insieme nel quale sono inseriti (testi filmici fatti con mezzi di fortuna e tra mille compromessi) ma nella loro intensità locale e parziale? Questa poetica del frammento in A prova di morte va ben al di là di ogni misura e di ogni equilibrio. E il risultato è sorprendente nella sua audacia e libertà. Dello svolgimento organizzato della narrazione a Tarantino non importa più granché e quindi ben vengano i salti della pellicola, i montaggi fatti con leggerezza, gli improvvisi minuti in bianco e nero etc. La logica del frammento sintomatico ha finito per pervadere anche la stessa struttura filmica. Non si tratta più di divertissement, ma di una vera e proprio scelta estetica. E l’effetto non è quello di un’eclissi generalizzata del senso. La logica del sintomo non è una logica di dispersione del senso ma di sua diversa localizzazione all’interno della struttura. Dopo A prova di morte seguirà, non casualmente, Bastardi senza gloria, un film nel quale Tarantino si confronterà con un periodo storico tutt’altro che “ironica” e con lingue e ambientazioni che non sono certo quelle dell’immaginario dei film di genere. È un segno che quando un pensiero del visivo giunge a maturità come in questo caso, non è certo il contenuto dell’immagine a fare la differenza, quanto l’efficacia della propria macchina di produzione di uno sguardo.
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Giulio Bursi
LA BELLEZZA NON È NIENTE ALTRO CHE L’INIZIO DEL TERRORE 1 DEATH IN THE LAND OF ENCANTOS (2007) DI LAV DIAZ I film di Lav Diaz hanno pochi precedenti nella storia del cinema. Se mettiamo insieme le ore “editate” dal regista filippino in soli 14 anni e 12 film (1998-2012), ci avviciniamo a quelle di Rossellini in un’intera vita. In barba a qualsiasi pratica mercantile, è proprio nell’eccesso della durata che Diaz trova la sua ragione, e lo fa in maniera naturale, semplice, diretta, punk, quasi come se, da Batang West Side in poi, non ci fosse altro modo di concepire e fare cinema. I suoi film sono poveri, girati con macchine amatoriali, praticamente senza troupe e supporti logistici, montati e mixati il più delle volte in solitaria: sono diamanti grezzi, frutti impuri. Le interviste, la sua storia (Diaz è musicista, scrittore, poeta), hanno rivelato una personalità forte, di estrema intelligenza e sensibilità, diventata in poco tempo una delle voci più autorevoli nel raccontare l’intricato mondo filippino del post dittatura di Marcos. La caparbietà e la forza con cui continua a proporre progetti all’apparenza così titanici ha dell’incredibile. Innanzitutto perché, a chi segue il suo lavoro, il regista chiede moltissimo: coraggio, pazienza, e la curiosità rara dei pochi che, ancora oggi, hanno “fame di sconosciuto”. Ma lo sparuto pubblico che lo acclama come una rockstar ai festival (i suoi film non hanno avuto, con la sola eccezione di Fuori Orario, molti altri modi di essere visti), forse non basta a spiegare alcuni dei risultati sorprendenti che ha ottenuto un cinema all’apparenza così difficile (presenza ai festival internazionali, mezione speciale nel 2007 a Venezia, poi la vittoria ad Orizzonti 2008 di un film di 9 ore visto da poche decine di persone). Intorno al cinema filippino contemporaneo si è creato un panorama critico favorevole grazie ad una congiuntura che non ha 1
“La bellezza non è niente altro che l’inizio del terrore”. Rainer Maria Rilke, Duino Elegy.
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molti precedenti; la creazione di una new wave filippina che passa da Cannes a Venezia a Berlino (Brillante Mendoza, Raya Martin, Aeraeus Solito, Adolfo Alix Jr, Janice Perez, e non per ultimo il giovanissimo Pepe Diokno) è sulla bocca di tutti da anni. Dietro la creazione di questo “discorso” festivaliero pienamente padronale, che si riverbera per anni nella critica, nella programmazione, nella cultura cinematografica2, e che tutti gli addetti ai lavori portano, più o meno consapevolmente, avanti (dai piccoli ai grandi festival, dai blog alle riviste), c’è una volontà precisa di curatori e programmatori. Questo “discorso” è il modo in cui i festival fanno politica, politica culturale e mercantile, costruendo miti, personaggi, premi, spartendosi territori, istituzionalizzando cinematografie nazionali e autori (il caso della Corea del Sud, e del New Corean Cinema dal 1996 in poi, passando da Cannes a Venezia, e, oltre, il caso di Apitchatpong Werasethakul, un “destinato”, tra musei e festival, a riscuotere successi unanimi). Per Lav Diaz questo fenomeno funziona fino ad un certo punto: troppo estremo, troppo puro il suo cinema, troppo diverso il suo approccio. Più giusto è forse l’accostamento/appartenenza ad un nutrito gruppo di cineasti più o meno conosciuti che in molti tendono ad accostare al suo lavoro. Questo perché negli ultimi anni, in maniera più o meno evidente, diversi registi, di diversi paesi, hanno sviluppato un rapporto molto interessante con il trattamento del tempo filmico e con un’etica/ estetica (che in molti casi sta alla base di questo atteggiamento) dell’attesa, definita anche della contemplazione, una tendenza insita nelle generazioni che hanno avuto come punti di riferimento sia Depardon, Deligny e perché no Wiseman, Straub, Godard, Herzog, Tarr, e che non hanno disdegnato un rapporto (alle volte ambiguo, altre volte molto interessante) con il video (inteso come tecnologia che permette di violare la durata limitata della pellicola e di alleggerire il dispositivo). In questo senso, cineasti giustamente celebrati e lanciati come Apichatpong Weerasethakul, Wang Bing, Pedro Costa, Jia Zhang-ke, o anche figure come Vincent Gallo o Gus Van Sant, hanno avuto un ruolo importante nell’“accompagnare” un pubblico più trasversale verso una nuova geneazione 2
Per un’analisi pià approfondita di queste tematiche, vedere: A. Bellavita, Il discorso del festival, in R. Menarini (a cura di), Le nuove forme della cultura cinematografica, Mimesis, Milano-Udine, 2012, pp. 73-74.
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dalle grandi potenzialità, come Lisandro Alonso, Sharunas Bartas, Carlos Reygadas, Albert Serra, Romuald Karmakar, Carlos Casas, Miguel Gomes. Fondamentali sono stati anche alcuni esponenti delle generazioni precedenti (su tutti Sokurov, Akerman, Hou, Benning, Piavoli, Yang, Encina, Guerin, Denis, Tsai Ming-liang), che hanno portato il pubblico più attento ad apprezzare una forte tendenza alla contemplatività e all’estremizzazione di certi processi, a certi slabbramenti temporali. Recentemente si è parlato e scritto di una sorta di “movimento”, il Contemporary Contemplative Cinema (CCC, da qui viene l’idea)3, con tanto di time line, film con o senza marchio “CCC”, precursori, maestri, allievi. Una vague “contemplativa” che attraversa il cinema mondiale, oggetto di un nuovo culto cinefilo. Questa contemplazione ha a che fare tanto con la lontananza da ogni regola del cinema narrativo classico (dialogo, storia, plot, “star”, quindi “plotnessness, wordlessness, slowness, alienation” sono i 4 punti programmatici) che con Deleuze, Sontag, Bazin ed il minimalismo. Contemplazione, attesa, crescita di situazioni puramente ottiche: è vero che la filosofia di molti di questi autori è profondamente legata a “lasciarsi il tempo”, a non costringerlo in gabbie narrative precostituite, a rovesciare la presunta oggettività del cinema portando alle estreme conseguenze il ribaltamento, conseguito dal neorealismo, del personaggio in spettatore e spingendo al limite la creazione di “una nuova forma della realtà considerata dispersiva, ellittica, errante o oscillante, operante per blocchi, con legami volutamente deboli e avvenimenti fluttuanti”4. Ma la forza e l’imprendibilità di Diaz risiedono anche altrove, e riescono ad eludere alcune di queste problematiche. Se la “durata”, da Evolution in poi, risulta l’elemento più evidente, centrale è la capacità dialettica di lavorare sul trattamento del tempo, strutturando i suoi film come una continua battaglia, messa in discussione del cinema (i modi di produzione) e del ruolo dell’artista (poeta, pittore o cineasta che sia attraverso la storia 3
4
L’interessantissimo Blog di “Harry Tuttle”, Unspoken Cinema, sta nel tempo portando avanti questa tesi: http://unspokencinema.blogspot.it/. Assolutamente da leggere, in questo senso, anche l’intervento di Dario Stefanoni su Encantos, “Gli Spietati”, 2007, http://www.spietati.it/z_ scheda_dett_film.asp?idFilm=3723 Deleuze a proposito di Bazin ed il neorealismo, in L’immagine-tempo, Ubu, Milano, 1989, p. 11.
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del movimento rivoluzionario e antigovernativo filippino), in un’esperienza che ci invita a tuffarci nell’estensione mortale del tempo (come fa appunto il cinema di Lav Diaz), che non ha paura di protrarsi, di distendersi fin dove sente di doversi estendere, di toccare il proprio limite in corrispondenza dell’illimitato, il tempo. Un’esperienza in cui immegersi, perché riemergendo a galla ci accorgeremo di conoscere meglio il tempo, di avvertire meglio la sua parentela con la morte ma anche la sua segreta, imprendibile, inspiegabile (e perciò tutta da indagare) assonanza con la vita5.
La situazione politica del paese e la repressione, che da anni lascia sul campo decine di rappresentanti di sindacati, associazioni progressiste, organizzazioni agricole, e la resistenza di artisti, poeti, cineasti, così come di gruppi armati, sono il motore dei suoi film, ma è la maniera in cui questi elementi dialogano in immaginifaglia (che vanno ben oltre a quelle che Deleuze definirebbe “puramente ottiche o sonore”, in un’estremizzazione e prolungamento “geologico” del lavoro di Ozu), anche diversamente dai grandi cineasti “rivoluzionari” come Wakamatsu, Adachi, o all’apparentemente lontanissimo Glauber Rocha, o al maestro Lino Brocka, che Diaz riesce a creare qualcosa di nuovo. Prima di tutto in termini di “percezione”, sviluppando un approccio completamente intimo e personale al dispositivo video (amatoriale, spesso) che si riverbera eccezionalmente sullo spettatore: nella singola inquadratura, che a volte può durare decine di minuti, il suono in presa diretta, aiutato dalla bassa qualità dell’immagine, permette una fusione unica tra spettatore e dispositivo. La povertà dell’immagine costringe ad arrendersi all’insieme e a non concentrarsi sul dettaglio, a dimenticare una visione tradizionalmente asservita alla narrazione e ad apprendere non solo a “contemplare” (non c’è paesaggio in Diaz, amore incondizionato per la natura, per la bellezza intesa in senso classico, per il “quadro”, attesa di una visione) ma ad abitare il tempo. I singoli blocchi di spazio-durata non sono assimilabili a dei “piani”: la maggior parte di essi funzionano più come “vedute” (pur senza veicolare tutte le informazioni di cui il cinema primitivo si 5
M. Grosoli, Death in the Land of Encantos, http://www.kinematrix.net/ venezia2007/recensioni/diaz_grosoli.htm
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serviva per infarcire l’inquadratura, e in un’ottica di ribaltamento del concetto stesso di veduta, di svuotamento del superfluo, del bello, di quello che ci può essere di “interessante” per uno spettatore in un’inquadratura); queste strane vedute sono squarci aperti nella foresta del reale, fratture, faglie temporali. Nelle sue immagini non c’è richiamo a nessuna “estetica” visiva contemporanea: questo bianco e nero, spesso sgranato, non ha a che fare con un’estetica da telecamera di sorveglianza (che il bianco e nero di bassa qualità fotografica richiama), né con la fissità della documentazione video di una performance, in cui una camera fissa cattura un’improvvisazione nel suo divenire. L’immobilità, la fissità, non è un vezzo, una scelta estetica, ma politica. Nota Lorenzo Esposito: Il trattamento del tempo in Lav Diaz – affinatosi attraverso i capitoli che da Batang West Side (2002) e Evolution of a Filipino Family (2004) portano fino a Heremias (2005) e a Death in the Land of Encantos (2007) – non ha eguali. Anche il Béla Tarr di Satantango è lontanissimo: il suo è tempo-scultura, quello di Diaz è tempo-mosaico. A ogni sospensione o lentezza o fissità, a ogni attesa sul ciglio della strada, corrisponde un tutto che frana, una frattura che spezza in due una vita sola e il mondo intero. Qui c’è tutto quello che il cinema mette in gioco come deposito reale di ciò che della realtà giochiamo a dimenticare. A cominciare dalla messa in crisi dello spettacolo, del picco dalle sembianze vitali di un momento in-dimenticabile, che invece ha di vitale solo la sua automatica declinazione al passato6.
Aggiungiamo che è nel montaggio che Diaz compone magistralmente il suo mosaico di macigni, blocchi enormi di tempo e spazio, portando i suoi film a dialogare più con gli earthworks di Robert Smithson (pensiamo a Spiral Jetty) e le opere di Richard Long, con Snow (Wavelenght), Marey, Eustache (soprattutto quello di Une salle Histoire e Photo d’Alix), Rivette, più che con gli apparentemente più vicini Bela Tarr o Pedro Costa. Il motivo è semplice: in gioco, nel cinema di Lav Diaz, c’è l’ambizione di poter costruire un mondo nuovo. Una nuova dimensione geo-politica delle filippine, una costruzione in senso storico, dialettico, politi6
L. Esposito, Lav Diaz: Rivoluzione e fotosintesi clorofilliana, in Nazione Indiana, http://www.nazioneindiana.com/2009/04/16/lav-diaz-rivoluzione -e-fotosintesi-clorofilliana/
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co. Una costruzione che passa per la tragedia di tutto un popolo, e che si prende l’onere di narrare “dal basso”, di proporre una visione della storia che mette al centro gli ultimi nel processo di costruzione di essa7. Dalle 4 ore di Batang West Side (che non a caso ci parla di una comunità filippina al di fuori del paese d’origine) in poi, il suo cinema è perfettamente in grado di permettersi una posta in gioco così alta, ed è proprio il capitale Death of the land of Encantos, suo film più intimo e grande, film che si prende il tempo di un uragano (9 ore) accettandone la sfida, a funzionare, insieme al gemello Melancholia, come la dimostrazione più evidente di quanto detto. Ma veniamo all’inizio: In November 30, 2006, super typhoon Reming (international name: Durian), struck the Philippines killing hundreds of people and burying villages around the Mayon volcano area in the Bicol region. Nine hours of relentless heavy rain and wind caused harrowing deaths and destruction. Volcanic debris, boulders, sand and mudflows covered the once verdant and serene place. The sight of the aftermath was apocalyptic. The typhoon was the strongest to hit the Philippines in living memory8. After reading a Philippine Daily Inquirer story about the aftermath of Reming (Durian is the international name), the strongest typhoon that ever hit the country in living memory, I decided to shoot some footage, not intently a full blown documentary; just record images of the tragedy, interview people, survivors, and give it to an NGO, the UN mission here, or any agency, foundation or institution that needed some footage9.
A due settimane dalla devastazione che ha colpito le Filippine, quando inzia a girare le prime inquadrature di quello che non diventerà un documentario sulla tragedia, Diaz ha l’intuizione di 7 8 9
Questo ruolo di “storico” di Diaz è ben descritto nel documentatissimo saggio di M. Bertolin Storia/storie. Evolution of a Philipino Family, in “Cinergie”, n. 7, 2009, pp. 33-35. Lav Diaz, Our Death, In Memoriam. In: http://www.e-kino.si/2008/ no-2-3/blazinice/our-death The Agony and the Ecstasy: Fragments of discussions with Lav Diaz on Death in the Land of Encantos, July 2007, http://alexistioseco.wordpress. com/2008/03/10/cinema-du-reel-3-interview-with-lav-diaz
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lavorare per stratificazioni emotive più che sulla registrazione dei dati. Immette così un altro elemento incancellabile per il popolo filippino, utilizzando prima sullo sfondo, poi sempre più vicino ai protagonisti, la presenza del vulcano Mayon (che nel 1814, durante l’era di dominazione spagnola, eruttò distruggendo tutto per chilometri). È proprio quella tragedia di quasi 200 anni prima a fungere da anello di congiunzione fra diverse generazioni, che si sono passate, attraverso i racconti, le poesie, la letteratura, la scultura, moltissime storie sull’enorme vulcano, la cui presenza turba ed affascina anche il gruppo di giovani artisti ed amici a cui Diaz dà vita in Encatos (quasi come la Saint-Victoire di Cézanne). Il vulcano, infatti, rappresenta la presenza incombente e minacciosa della natura, che trascende l’antica distruzione fino ad elevarlo a monumento estatico-malinconico di proporzioni enormi. Adding fiction became an imperative as I wanted greater discourse; the enigma of the majestic and imposing Mayon volcano, which was one of the major actors in Encantos by the way, offers a great metaphor for beauty, nostalgia, love of country, corruption, power, humility, death, destruction, redemption, truth, the thesis of suffering and pain as the greater truths of existence. The decision to include fiction is an aesthetic decision. And [it is] very personal, too. Even though I believe that a straight documentary would be very, very strong, my dread of doing it goes back to the documentary on street children and the still unfinished Sarungbanggi ni Alice (Night of Alice). Again, I felt like I was an intruder, a trespasser— an opportunist capitalizing on other peoples’ miseries. I didn’t want to go through that guilt trip again. Also, I wanted to experiment on form and have better control in the direction of its content. I wanted to balance it. Doing fiction puts you on so many levels—an observer, a critic, a philosopher, an empathic creator, a participant, the suffering poet, the man who loses everything. You are creating characters and their stories. Adding fiction somehow pushed my camera’s perspective in a different position. Shooting the documentary parts was like going to the battle zone. This was reality. No ifs and buts. You could be selective with your shots, with people whom you will speak with, but this was reality. You see things but then you wouldn’t know what’s going to hit you. The experience of immersion, or the pain of immersion, has the characteristic of the unknown. You have no control over it. At times it was so immediate and we could not control it. We’d be weeping in an instant. With fiction, there was some
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control. You write the treatment, the dialogue, have discourse with the actors, do rehearsals, chose the angles. You prepare. But during dramatizations, especially when the actors are truly immersed, then it would be a totally different dynamic. Just the same, you’d be weeping in an instant if a scene hits you. Also, with fiction you destroy all the cushions of the man with an irresponsible camera that records, turns his back, goes home, edits the scoop and waits for the next calamity, for the next scoop, who treats recording miseries as just a job, because you are actively engaging with it10.
Quello che all’apertura di Encantos è un paesaggio scuro, senza colori, in cui si scorge, nell’impossibile disseccamento della terra, il grondante peso degli inutili giorni passati dalla furia delle acque. Migliaia di corpi sono sepolti sotto la terra. Enorme è la loro presenza. Piove. Alberi secchi, alte palme defogliate, sassi che sorgono dalla terra smossa. Sono le rovine di una foresta, forse di un villaggio. Sfacelo, scempio, impeto, violenza, furia, strage, morte hanno preso il posto di tutto. L’acqua ha spazzato via ogni cosa. È in questa patria quasi lunare che il grande poeta filippino Benjamin Agusan è tornato (dalla Russia) fino a Padang, suo paese natale (e qui il richiamo è al Garcia Marquez di Cent’anni di solitudine o L’amore ai tempi del colera). L’incipit diventa decisivo. Due lunghe inquadrature, fisse. Poi la soggettiva di un uomo, che si incammina nel terreno devastato, timoroso. Stacco. Interno di una baracca. Una giovane donna è sdraiata nuda su di un canapè, il corpo ha la postura del disseppellimento. Armonia lacerata: una gamba è stesa, mentre l’altra disegna un angolo di poco superiore ai novanta gradi, ed ha il piede puntato, rigido. Il corpo sembra uscito dalla terra, poi ripulito e sdraiato per l’identificazione, a fianco una tenda in plastica. La videocamera si muove per scivolare sul suo corpo, silenziosa, ad inquadrarne il viso, e sembra mossa da un operatore arrivato per stabilire l’identità del cadavere. Ma questo movimento, in pochi secondi, ci trascina da un obitorio ad una camera da letto. La ragazza dorme, la sua pelle respira, ma una gamba è innaturalmente sollevata, il braccio destro con la mano vanno a coprire lo stomaco, il viso è girato come in un bambino dormiente, e la postura rivela come il corpo sia nettamente diviso in due. 10
Idem.
G. Bursi - La bellezza non è niente altro che l’inizio del terrore
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Una parte è ancora dentro la catastrofe, la rovina, l’altro la sta sognando. Perché l’ombra innaturale della gamba semialzata traccia il segno ed il solco della postura naturale, come se il corpo fosse vivo. Appunto. Persuasione della vita. Poi l’inquadratura taglia il corpo in una terza parte, trasversalmente. Rimane il viso, il braccio, un seno. La mano è aperta sul cuscino, il dorso arricciato. Una voce: “Sei bellissima”. Benjamin è tornato dopo tanto tempo per riavere quel corpo, possederlo ancora, ma l’evidenza della postura parla all’uomo della tragedia del fuori, del territorio devastato, della catastrofe. Il fatto è che quel corpo diventa anche specchio: l’uomo capisce in cosa la lontananza e l’abbandono hanno trasformato la carica del suo eros, ora tutt’uno col demone malinconico. La donna sdraiata, muta, sembra dire: posso essere posseduta a patto di essere perduta per sempre. La camera si sposta ancora, cercando un’inquadratura all’opposto del Cristo morto del Mantegna, o della foto del deposto Che Guevara ai giornalisti, quindi dalla testa ai piedi, e il corpo rivela nella posa ora più schiacciata tutto il suo classicismo: bianco, perfetto, pulito, plastico, impenetrabile, bachtinianamente un’individualità chiusa immescolabile con gli altri corpi e col mondo. “Da dove proviene la tua bellezza? Qual è l’origine della tua arrendevolezza mentre ti ritraevo?”. Un gallo canta. Un uomo, forse lo stesso, si aggira per le terre devastate, ora la camera è sul cavalletto e lo riprende da lontano. Dopo una lunga inquadratura, l’uomo finisce per sedersi di fronte ad una baracca ancora in piedi. Qui abbassa la testa, pesantemente, quasi la fa cadere, poi piange, per minuti, in figura intera, di tre quarti. Prima tiene le mani strette fra le gambe, poi appoggia la testa alla mano, richiamando la famosa posa düreriana. Disperato, scivola a terra. Agusan è l’emblema di un popolo ferito, devastato, oltraggiato dalle torture e da una guerra civile che dal dopo Marcos si è fatta strisciante, sottesa, invisibile al mondo. Una donna, in un territorio che sembra incontaminato, avanza faccia a faccia con l’obiettivo, ci guarda. Stacco. C’è un uomo di fronte ad un grande albero che racconta la strage, l’onda, i famigliari dispersi, l’impossibilità di ritrovare il corpo del fratello che potrebbe essere ovunque. Davanti a lui una piccola troupe lo sta intervistando, un uomo ed una donna fanno diverse domande, fuori campo. Diaz sceglie di mettere in scena, di far combattere tra loro diversi livelli di finzione fatti di ricordi, di visioni, di presunta realtà. E tutto questo perché diventa
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tutt’uno con la sua terra, e con lui la sua troupe, che magistralmente interpreta i testimoni, filma, registra il suono, e con lui ricorda: When I got there, it was hell. The smell of death was everywhere. All you could see was utter disarray, devastation, destruction, insanity, pain, sadness, unbearable suffering. Villages were gone, hundreds of people were buried alive, hundreds were missing. Pompeidom, worse than Mayon’s 1814 onslaught. It became a point and shoot exercise because everything was a part of the tragedy; it was just everywhere. You shoot in silence, trying to make sense out of the devastation. By then, a documentary was taking shape and initially, there was a subconscious thread that I was following, visiting the places where I shot the two films, and visiting friends. I was like… this was where we shot this scene, and we put the camera here. Now, the trees are gone, the road is now a river. The lead actor walked here, we followed him. The road is gone, it is now covered with sand and huge rocks, unbelievably huge rocks, some are bigger than nipa-huts [small homes constructed out of bamboo], and you wonder how the typhoon was able to carry them down. Many dramatic scenes happened in this house, now half of the house is gone; the owner says they almost drowned. I am reenacting the camera movement, imagining the characters are still there, and I am doing a take two or three of a certain scene. It was a very depressing exercise. I was thinking of doing juxtapositions—scenes from the two films and the remnant of the calamity in the locations where we shot them and of course, the whole tragedy as expressed by people we interviewed and those who got involved in the two productions. This became the initial mise en scene of the work, a shoot-edit exercise that’s taking place in my head. […] Back to Manila after a week of shoot, I watched the footage. It was harrowing. I couldn’t sleep.
La descrizione minuziosa dei primi venti minuti di Death in the Land of Encantos, confrontata con i ricordi, drammatici, delle lavorazione del film, riescono appena a rendere l’idea del magnifico incedere delle inquadrature, della straordinaria complessità e nettezza di un cinema in cui gli elementi politici ed estetici (percettivi), lavorano all’unisono per una regia che, già dalle poche inquadrature dell’incipit, riesce a scavare negli elementi più problematici e densi: le rovine (il paesaggio, la terra), l’eros (la pelle e la donna), l’attesa (della rivoluzione, di un cambiamento che non arriva), il ritorno. Lav Diaz affronta la tragedia filippina metten-
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dosi lui stesso in una condizione di sopravvissuto, e costruendo il film come un avvicinamento continuo ai suoi personaggi, fino a potersi confondere con Hamin, uno dei protagonisti. Finzione e realtà si congiungono in un paesaggio devastato, dove alle spalle delle rovine stanno altre rovine (le case, le foreste, gli animi), diventando l’elemento portante del film, insieme alle ossessioni di Diaz: il genio (quindi l’artista, il poeta, il corpo malinconico dello studioso, del letterato), il furore (delle acque, della natura, del suono), la nostalgia (del ritorno e dell’impossibile ricongiungimento, oggetto del desiderio celato), la ribellione (la pazzia di Agusan, il cui vertice drammatico è rappresentato dall’incontro al bar col suo torturatore, che vediamo finire il poeta nel finale, proprio nell’ultima inquadratura). Tutti questi elementi formano una costellazione di esperienze distinte di privazione e lacerazione con, sullo sfondo, la tragedia della separazione fra uomo e natura. Diaz sceglie di rendersi, insieme ai suoi personaggi, portatore di tutto il dramma del popolo filippino. Ognuno è testimone, ad ogni membro della crew tocca l’essere portatore del demone malinconico ed eseguire, uno dopo l’altro, una serie di azioni per accedere ad un rito di purificazione, di liberazione, di superamento del dolore attraverso il dolore, tema poi centrale e portante di tutto il successivo Melancholia. Tutto questo portato emotivo viene costruito e ricostruito attraverso un incedere narrativo che, unitamente ad una serie impressionante e straniante di flashback pre e post mortem (la tortura, la morte della madre), richiama in maniera sorprendente anche precedenti “vite”, film (il precedente Heremias): verso la settima ora Diaz inserisce infatti un pezzo del girato del precedente film, in cui viene predetta una catastrofe se si fosse, tramite l’uccisione di un serpente, ulteriormente offesa la natura. Si vede il ciak, poi il girato, inserito come se fosse un ricordo del passato. L’altro elemento fondamentale del lavoro di Diaz ci sembra quello sul bianco e nero. La scelta è stata di togliere il colore alla sua terra. Dar colore in latino significa anche mascherare, “to colour” è nell’inglese, abbellire, ornare, ma anche travisare. Diaz si allontana dalla seduzione del colore, dal suo essere supplemento alla verità, appunto per non negare la morte pur non mostrandola mai, correndo il rischio di fornire un’impressione di reportage fotografico di guerra. In questo senso ricordiamo un’osservazione di Barthes da La camera
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chiara in cui il critico riporta l’idea che il colore sia “un’intonacatura apposta successivamente alla verità originaria del Bianco e Nero. Il Colore è per me un belletto, un make-up come quello fatto ai cadaveri”11. Dove la televisione, in quei giorni, ci ha mostrato i colori dei corpi nelle fosse comuni, l’onda che spazza le case, poi insistentemente i cadaveri gonfi e riversi in strane posizioni, uscenti dal fango come manichini poi gettati, raccolti da uomini in bianco su camion, bruciati in falò, coperti di calce bianca, Diaz sceglie la strada esattamente opposta. Di fronte alla catastrofe la profondità va nascosta. Dove? Alla superficie. Nascosta “alla” superficie, non “nella” superficie. Come i corpi, i cadaveri sporgenti che non sono stati mostrati da Diaz pur essendo ben presenti, nel loro orrore, nelle 30 ore di girato per il film. Come le sue immense immaginifaglia che hanno la forza di modificare, da sotto la superficie, la storia filippina.
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R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Torino, Einaudi, 1998, p. 82.
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Andrea Bellavita
FRENCH HORROR STORY RACCONTO DI NATALE (2008) DI ARNAUD DESPLECHIN
Abel e Junon Vuillard hanno raccolto la famiglia nella casa di Roubaix per festeggiare il Natale. Tre figli, Elizabeth, Henri e Ivan in ordine di nascita, più un fantasma, il piccolo Joseph, il primogenito, morto a sei anni per un tumore. Elizabeth porta con sè il figlio Paul, adolescente appena ricoverato per problemi psichici, e la raggiungerà l’ex marito Claude, anche se quest’ultimo entra ed esce, e non dorme mai a casa Vuillard. Ivan arriva con la famiglia al completo: la moglie Sylvia e i piccoli Basile e Baptiste, gemelli. Henri, a sorpresa, si fa accompagnare dalla nuova fidanzata, Faunia. Si aggiungono Simon, nipote e fratello acquisito per tutti, e Rosaimée, la compagna della madre di Abel, mentre Spatafora, l’amico italiano un po’ ladro e un po’ innamorato, bussa spesso alla porta. Adesso ci sono tutti. È molto che la famiglia Vuillard non si trova al completo per Natale: almeno da quando, qualche anno prima, Elizabeth ha chiesto che il fratello Henri fosse ufficialmente bandito dalla casa e dai rapporti famigliari in cambio del pagamento dei suoi debiti (che pure non gli ha evitato un paio di mesi di prigione). Elizabeth è scrittrice e autrice di pièce teatrali, Henri è impresario: lui ha messo in scena i suoi lavori, poi si è macchiato di una colpa (inconoscibile per tutti) che ha segnato il loro rapporto. Ma c’è anche un’altra ragione per riunire tre generazioni: Junon soffre di mielodisplasia, e ha bisogno di un trapianto di midollo osseo per poter sopravvivere ancora per un po’ alla malattia. Si entra nella bella casa borghese dei Vuillard per festeggiare il Natale, e poi si rimane prigionieri: la casa di Roubaix è preda di un’hantise, e la presenza che aleggia nelle sue stanze è quella del rimorso. Si entra nella casa di Roubaix e si cerca di trovare spazio in una delle stanze, sovvertendo l’antico ordine delle proprietà e dei possessi, allungando qualche materasso e dormendo in letti che sono
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stati di altri, ma non si riesce più a trovare il proprio posto. Si entra nella casa di Roubaix e ci si perde in un labirinto di scale, stanze, saloni e verande, si può anche fumare una sigaretta nel giardino, stretti su una sedia a dondolo, ma poi si rimane prigionieri. Di Arnaud Desplechin, del suo cinema, e del suo racconto famigliare Racconto di Natale è una ragnatela dalla quale non si riesce a sfuggire, un gioco di scatole cinesi che rimanda ad altri film e ad altri racconti, una stanza degli specchi che deforma le sembianze e le certezze, che ribalta le ragioni e i nessi di causa ed effetto. Se si prova a raccontare un’altra volta la trama sostituendo il nome dei personaggi con quello dei loro interpreti, ci si rende conto di come Racconto di Natale duri da un minimo di quattro anni (quelli che lo separano da I re e la regina, del 2004) ad un massimo di diciassette (La Vie des morts, il primo film di Desplechin è del 1991). Jean-Paul Roussilion e Catherine Deneuve riuniscono i loro figli nella casa di famiglia, a Roubaix: Roubaix è la città natale del regista , e intorno alla “casa di Roubaix” ruota la vicenda del romanzo di famiglia di L’Aimée (2007), interpretato dai veri membri della famiglia Desplechin. Il padre Robert, il fratello Fabrice, e i due nipoti, si ritrovano nella casa che sta per essere venduta, e ricordano il ricordo (e il fantasma) della nonna paterna. Jean-Paul e Catherine accolgono i loro tre figli: Anne Consigny (Elizabeth), Mathieu Amalric (Henri) e Melvil Poupaud (Ivan). La moglie di Ivan è Chiara Mastroianni, la fidanzata di Henri è Emmanuelle Devos, l’ex marito di Elizabeth è Hippolyte Girardot. Emmanuelle Devos ha interpretato tutti i film di Desplechin, e poco di meno ha fatto Amalric: i loro corpi hanno dato vita ai due personaggi principali di I re e la regina. Dove Girardot interpretava l’avvocato che cercava di aiutare il folle Ismael/ Amalric, e la Devos chiedeva a quest’ultimo di adottarne il figlio, dopo essere stati amanti. Il nome di famiglia di Ismael era Vuillard: suo padre, Abel Vuillard, era Jean-Paul Rouissillion. In Comment je me suis disputé…(ma vie sexuelle), Amalric interpretava il protagonista Paul Dedalus: Paul Dedalus è il nome del figlio di Elizabeth in Rois et reines.
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Non si tratta soltanto di un vezzo, per lo spettatore e il critico, né di un gioco, per il regista: Racconto di Natale è l’ultimo tentativo di tenere insieme una grande famiglia cinematografica e di raccontare la famiglia attraverso il cinema. Non è un film, ma un luogo dello spirito, uno spazio/tempo sospeso tra l’autobiografismo (almeno dei sentimenti) e la finzione, dove ogni corpo attoriale sta per il suo personaggio, per tutti quelli che ha interpretato e per ciò che rappresenta come interprete. I legami di parentela di Racconto di Natale arrivano fino a Tournée (diretto e interpretato da Amalric) e sembrano trovare uno specchio sinistro in Vous n’avez encore rien vu di Alain Resnais (dove vivono, più che recitano, ancora Amalric, Hyppolyte Girardot e Anna Consigny), un altro racconto di casa infestata dai ricordi, fantasmi e rimorsi della mise en scene. Se Desplechin ha bisogno di quasi mezz’ora per presentare al suo spettatore i personaggi della sua storia, è perché deve consentire a chi varca la soglia della quarta parete di conoscere il passato e i segreti che agiscono e infestano questa casa: un passato fatto prima di tutto del suo stesso cinema. Ma anche di un’idea di cinema che è (del) passato: Desplechin cita i classici con noncurante disinteresse, riducendo nello schermo televisivo Il sogno di una notte di mezza estate di Dieterle e Reinhardt, Cenerentola a Parigi di Donen e I dieci comandamenti di DeMille. Semplici fantasmi che arrivano ad infestare il presente come ninnoli e vecchie fotografie su una credenza. Come i feticci e cimeli che riempiono le scatole sepolte negli armadi, ognuno pronto a far scaturire un non detto, un rimorso e un rimosso. Non è al cinema che l’ha partorito (e amato facendosi amare) che Desplechin fa omaggio: non a Chabrol cantore della bourgeoisie, né a Rohmer, né a Truffaut, ma a quello che ne ha costruito la mitologia. Non ai padri, ma agli antenati si può pregare e innalzare altari. Il film è organizzato in capitoli, ciascuno aperto da un cartello in sovrimpressione, e con la cesura di un occhio di bue che incornicia i personaggi. Reperti del passato, come le ombre cinesi che illustrano in apertura la genealogia della famiglia Vuillard. Quello di Desplechin è un cinema genealogico: i singoli racconti che costruiscono la saga universale sono intrecciati sotto la superficie di rimandi e riferimenti. E insieme mettono inesorabilmente in scena la famiglia (per extenso: la società) come il frutto di un legame genealogico che trae la propria forza di coesione dal debito e dalla mancanza.
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La famiglia Vuillard, i rapporti che legano i suoi componenti, è fondata sul rimorso e sul rancore. Emmanuel Burdeau, nella sua critica sui “Cahiers du Cinéma”, parla di un cinema del deuil, del lutto. Lutto come dono reciproco, come recita Abel nella sua orazione funebre di fronte alla tomba di Joseph: “mio figlio è morto, ho guardato dentro di me e mi sono accorto che non provavo nessun dolore, la sofferenza è una tela dipinta, le lacrime non mi avvicinano di più al mondo, mio figlio si è staccato da me come la foglia di un albero e io non ho perduto nulla…questa perdita è la mia fondazione, Joseph ha fatto di me suo figlio e io ne provo una gioia immensa”. Ma prima di tutto lutto come innesco di un debito. Abel, il padre di tutti gli uomini, e Junon, la madre di tutti gli dei, hanno fondato la propria genia su una mancanza: quella di Joseph, il figlio primogenito, il figlio del primo uomo e della divinità. Figlio morto per mancanza e incapacità, ma anche l’unico figlio ad essere veramente amato. Dal padre prima di tutto, l’unico ad averlo davvero conosciuto, come racconta Junon a Faunia, confidandogli che mentre Joseph cresceva, per morire, sotto una tenda ad ossigeno con il padre negli ospedali di Parigi, lei, la madre, era costretta ad allevare altri figli che non avrebbe amato. Joseph è il figlio della colpa, e per questo è il generatore di tutte le colpe. Di lui Junon dice che era “astratto”, perché nessuno l’ha davvero conosciuto, e tutti l’hanno visto in fotografia, rappresentato, amato e adorato a distanza, e per questo rispettato e mitizzato. Oppure odiato, in silenzio. La colpa è prima di tutto quella della madre, che gli ha trasmesso la leucemia, lo stesso male che adesso la sta consumando, e per la quale ha bisogno di ricevere il corpo (il midollo) e la carne da uno dei suoi figli. L’unico ad essere compatibile è Henri, il figlio odiato al sommo grado. Henri impiastro, come rivela di averlo chiamato Abel. Henri che nasce subito dopo Elizabeth e che tutti speravano potesse aiutare il fratello morente donandogli parte di sé, ma invano. Henri è il corpo inutile della famiglia: generato per sostituirsi a (e fisicamente sostituire una parte di) Joseph. Henri è il figlio non amato. Ancora Faunia strapperà a Junon un’altra confessione: la matriarca non ama la nuora Sylvia, perché gli ha portato via il figlio che amava, Ivan, ma non prova nessun rancore per questa nuova femmina che gli sta portando via qualcuno che non ama.
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Henri è stato bandito dalla sorella Elizabeth, per un peccato che nessuno potrà conoscere (e che nessuno pensi solo ad una cosa banale come l’incesto…), e ora ritorna, per specchiarsi nel nipote Paul, l’unico che lo va a cercare (irriconosciuto), che ha per lui un pensiero famigliare. E l’unico che con lui condivide la responsabilità e il dono: poter donare a Junon il midollo per sopravvivere. La vendetta di Henri è quella di poter finalmente fare ciò per cui è stato odiato: ora può prendere un pezzo del proprio corpo e donarlo alla vittima e alla generatrice di tutti i mali. Se non ha potuto salvare Joseph, potrà far sopravvivere Junon. Non c’è legame di affetto tra madre e figlio, ma solo di reciproco rancore, vendetta e mancanza. E solo attraverso questo dono (un dono-lutto, ancora) potrà raggiungere il perdono: nella piccola recita natalizia che Basile e Baptiste mettono in scena la notte di Natale, si racconta la storia del Principe Zorro, che la sorella principessa aveva fatto bandire da casa perché si macchiava di orribili delitti. Il piccolo Zorro ammetterà: “ho dormito con una capra” (iperbole dell’incesto, e della sua assurda banalità), e Abel, nel ruolo del “grande re”, gli concede il perdono, ma soldato dopo che gli è stato strappato un braccio, una parte del corpo. Il male genealogico Nessuno dei rapporti che si stringono tra i personaggi è immune dall’errore e da un donarsi all’altro prima di tutto come seme per poter generare una vendetta e una dipendenza. Faunia è amata da Henri, ma soltanto come momentaneo pharmacon (benefico e venefico insieme) per il lutto della moglie morte. Sylvia e Ivan si amano per puro caso, per scommessa, per una decisione di altri: nel ricordo (che emerge come un’altra forma di leucemia genetica da una foto in una scatola) sono stati Simon e Henri a “lasciarla” ad Ivan, il più debole di tutti, il ragazzo fragile, il piccolo matto, che trema come una foglia al pensiero di parlare con una ragazza. Gliel’hanno lasciata, senza lasciare al contrario la facoltà di decidere ad entrambi. Sylvia scopre di aver vissuto un amore per sbaglio, e decide di riconquistarlo: si concede a Simon, lo ama nella vecchia camera dei bambini, e si concede allo sguardo del marito e dei figli, mentre
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divide il letto con un altro. Prima di lasciare la casa, gli confida: “ho inventato Ivan vivendo con Ivan, inventerò te non vivendo con te”. Qualcosa che sembra rimandare alle pagine di L’Homme qui amait ma femme, il romanzo parigino di Simonetta Greggio, rilettura disincantata e incestuosa di Jules et Jim. Il male è genetico e genealogico: Junon passa il tumore a Joseph, Ivan passa al nipote Paul una scheggia di follia, e alla sua visita in ospedale gli offre alcool e sigarette, Henri ugualmente cerca di corromperlo con il suo comportamento, l’unico veicolo per riuscire a stabilire un vero legame di affetto. Elizabeth, per prima, intossica il figlio con la sua tristezza. Accompagnandolo in una corsa nel parco, Henri rivela a Paul che finalmente, proprio il fatto di condividere con il nipote la compatibilità per il trapianto, lo rende sicuro di essere davvero “uscito da Junon”, uscito geneticamente e non partorito dalla madre. Henri esce da Giunone come Minerva dal cranio di Giove: non attraverso un parto, un passaggio, un dono, ma una partenogenesi, una scissione cellulare. Non ci può essere parto, né rapporto figliale, in un nucleo in cui tutti i componenti si chiamano per nome, senza mai utilizzare, letteralmente, il “nome del padre”, né quello della madre: padre e madre cosmogonici, Abel e Junon rimangono tali per tutti. Genia e stirpe di dei eccezionali e terribili, accostandosi ai quali non si può che rimanere bruciati. Sylvia lo rimprovererà benevolmente a Ivan, e Faunia riuscirà a salvarsene soltanto fuggendo, lei ebrea al rito di un Natale talmente cristiano da diventare pagano. Sono dei i Vuillard, divinità terribili che fra loro possono fondersi benevolmente nell’incesto: che cosa fa, in fondo, Henri, attraverso il suo dono estremo, se non di entrare nuovamente nella madre dopo esserne uscito? Che cos’è quello di Simon e Sylvia se non un incesto tra fratelli, ben più esplicito di quello tra Henri e Sylvia? Cosa fa Faunia, disegnando un piccolo cerchio sul polso di Paul al momento di partire, se non iniziare il nipote acquisito al mistero dell’amore sensuale, proiettando ancora una volta su di lui il fantasma dello zio debosciato? Questo è il cinema del lutto di Desplechin, del rapporto basato sul debito, del dono come germe per ottenere qualcosa in cambio. Eppure, nella casa di Roubaix, in cui si rimane prigionieri della possessione, non si piange mai, né si grida, non ci si dispera, né si
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soffre. Al massimo si può brindare ubriachi “come il Duca d’Orleans…alla salute di quel coglione del capitano (Junon) e a quel coglione del luogotenente (Elizabeth)”, per poi crollare a terra, sbronzi, come Henri. La casa di Roubaix non è quella di Festen né di Melancholia: nella casa di Roubaix si beve, e molto, si fumano sigarette, molte di più, e si esercita la nobile arte del cinismo e della battuta. Si guarda alla morte (Junon) con ironia, alla propria dissoluzione e perdita (Henri) con divertito autocompiacimento, al proprio tradimento (Ivan) con una scrollata di spalle. Racconto di Natale non è mai un dramma, non conosce il senso della tragedia, ma soltanto quello della farsa. La dissoluzione della famiglia si gioca a pari e dispari, finisce sotto il tavolo, o a gambe all’aria. Racconto di Natale è sospeso tra una parentesi di morte e una di vita: si apre con l’orazione funebre di Abel e si chiude con la genesi di una nuova famiglia impossibile. Usciti di casa Ivan e Elizabeth, ridotto Henri a un corpo prestatore di vita, Abel e Junon ricostruiscono un’altra stirpe con dei nuovi figli, più profondamente voluti e amati, Simon e Paul. Fuori dal reticolo dei legami genealogici con il cinema di Desplechin, Racconto di Natale fa pensare intensamente ad American Horror Story, la serie meta-horror di Ryan Murphy: per il fuoco dissolutorio dei legami famigliari e del rapporto tra una madre e i propri possibili figli, per l’ironia crudele e dissoluta, per il gioco enciclopedico dei rimandi al proprio racconto interno, per la scelta di far interpretare personaggi diversi agli stessi interpreti intessendo rimandi e sottotesti. A Desplechin non interessa l’orrore, e l’unico mostro che vive tra le pareti di quella casa di Roubaix è Anatol, il lupo che sonnecchia in cantina, che dovrebbe spaventare i bambini, che immaginiamo poco più intento a fare la guardia alle bottiglie di vino. In questa French Horror Story non c’è spazio per la realtà ultraterrena e per un’hantise fatta di spettri e di creature che provengono dall’aldilà. I semidei della famiglia Vuillard riescono benissimo a farsi male da soli.
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Federico Giordano
IDENTITÀ, UMORISMO, SURMODERNITÀ IL TEMPO CHE CI RIMANE (2009) DI ELIA SULEIMAN
Osservare Il tempo che ci rimane è ripercorrere nello spazio di un unico film lo spettro temporale che dal cinema muto s’estende sino al modernismo radicale della post-nouvelle vague. Dal cinema classico caratterizzato da un découpage invisibile al cinema del montaggio proibito. Suleiman riesce con una sola inquadratura a collegare, con un’arguzia a tratti addirittura godardiana, le comiche del muto con il pensiero di André Bazin1.
Il tempo che ci rimane è uno di quelle opere che richiedono premesse didascaliche per essere comprese appieno. Non può essere svincolato dalla vicenda privata dell’ “autore”, che, in questo caso si identifica con il regista dell’opera e con li protagonista della stessa. Elia Suleiman è palestinese, nato a Nazareth nel 1960 da padre artigiano e madre un’insegnante. Il genitore viene arrestato con l’accusa di contrabbandare armi con il Libano, mentre sta recandosi a pesca, attività che il film testimonia essere la sua innocua passione quotidiana. Elia stesso viene arrestato mentre passeggia tranquillamente per le strade cittadine, con l’accusa di essere parte dell’OLP. Viene bruscamente sollecitato a firmare un rapporto che confessi una sua appartenenza all’organizzazione. Fuggito a Londra, laddove si dedica a lavori non artistici, quali barman e cuoco, ritorna dopo poco più di un anno e subisce un interrogatorio all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. Gli viene chiesto se fosse stato in contatto con gruppi terroristici durante il suo soggiorno inglese. Al ritorno in Palestina sviluppa un deciso interesse per il cinema e inizia a girare i suoi primi lavori, avviando un abbozzo di rapporto 1
G.A. Nazzaro, Il tempo che ci rimane, in http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-film-della-settimana-il-tempo-che-ci-rimane-di-eliasuleiman/?printpage=undefined
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Cinema senza fine
con l’industria israeliana del cinema. L’aneddotica vuole che in risposta all’incredulità del produttore Shagrir di fronte sua richiesta di potere montare un film gratuitamente, egli ribatte che avendo gli israeliani rubato il suo Paese, almeno potevano concedergli questa piccola rivalsa)2. In seguito si trasferisce da clandestino, in America per molti anni. A New York “introdotto nell’ambiente cinematografico dallo scrittore John Berger, ha potuto assimilare il cinema d’autore europeo (in particolare di Michelangelo Antonioni, Jean-Luc Godard, Wim Wenders e Aleksandr Sokurov) e americano (John Cassavetes)”3. Elia sviluppa un interesse particolare per l’immagine degli arabi nei media occidentali e inizia a costruire il suo personaggio di osservatore silente e attonito delle storture del mondo. I suoi film più noti Cronaca di una sparizione e Intervento divino sono stati oggetto, come pure Il tempo che ci rimane di polemiche e critiche di ordine “politico-contenutistico”. Il primo lungometraggio, in particolare, viene accusato, in campo arabo, di essere stato finanziato dal fondo israeliano per i film di qualità, e in campo israeliano viene boicottato dalle emittenti televisive4; il secondo viene nominato come possibile candidato per l’Oscar come miglior film straniero, ma diventa oggetto di polemica e di rifiuto dell’Academy perché proveniente da un paese – la Palestina – non riconosciuto dalle Nazioni Unite5. Le note biografiche sono tratte da G. Nurith, G. Khleifi, Palestinian Cinema: Landascape, Trauma, and Memory, Indiana University Press, Bloomington, 2008, pp. 40-43 3 S. Di Giorgi, Palestinese, Cinema, Ad Vocem, Enciclopedia del cinema, Treccani, Roma, 2004. Allo stesso autore si rimanda per una sintesi in italiano sul cinema palestinese: S. Di Giorgi, J. Rundo, Una terra promessa dal cinema: appunti sul nuovo cinema palestinese, Edizioni della battaglia/ La luna nel pozzo, Palermo/Bologna, 1998. 4 G. Nurith, G. Khleifi, op. cit. 5 ���������������������������������������������������������������������� Tale rifiuto avvenne sebbene in passato l’Academy avesse preso in considerazione paesi anch’essi non riconosciuti quali Hong Kong o Puerto Rico Cfr. H. Naficy, Accented Filmaking and Risk Taking in the Age of the Postcolonial Militancy, Terrorism, Globalization, Wars, Oppression and Occupations, in M. Hjort (a cura di), Film and Risk, Wayne State University Press, Detroit, 2012, p. 150. Anche Il tempo che ci rimane è stato al centro di polemiche politiche: sebbene in molti lo abbiano difeso, un politico israeliano che voleva far dichiarare Suleiman nemico dello Stato. Cfr. S. Rose, Elia Suleiman: Stories My Father Told Me, in The Guardian, 15 giugno 2010. 2
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Il tempo che ci rimane nasce da un memoriale del padre del regista, scritto quando questi, già in età avanzata e malato, viene sollecitato dal figlio. Fonte ulteriore una serie di lettere della madre e di testimonianze raccolte dal regista fra amici e vicini6. Non si tratta di una ripresa pedestre di queste storie, ma una rielaborazione dopo che esse si sono sedimentate e sono riuscite a trovare un accordo con la poetica del regista. Tale poetica, se in qualche modo ad essa si attagli una definizione sintetica, si potrebbe definire “rabbia sospesa”: un lavorio di estrazione dell’ “assurdo” che sottintendono le vicende visualizzate, senza far predominare il politico, ma emanando un rancore furente, tanto più evidente in quanto trattenuto, “pietrificato”, come ci segnala, giustamente, sia pure da una prospettiva critica (su base politica, non estetica), Gianfranco Cercone: Osservo però che il rancore che permea tutto il film – un rancore così profondamente introiettato da diventare una seconda natura – dà luogo a un film che qualcuno potrebbe ritenere umoristicamente stilizzato; ma che a mio parere si potrebbe definire meglio, rigido e ossessivo. Che pare proprio la proiezione di un rancore pietrificato.7
Il film è suddiviso in quattro parti ben distinte, le quali seguono un prologo folgorante che pone chiaramente le questioni alla base del film. Elia rientrato in Palestina sale su un taxi che si perde nella pioggia battente, mentre il tassista si chiede “Ma che sta succedendo? Cos’è questo posto? […] E ora che cosa faccio? Dove vado, 6
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“’I heard these stories from my father’, Suleiman says. ‘When he fell sick, I asked him to write them down. But I didn’t think I was mature enough to handle them: it’s a thin rope to walk along without falling into all kinds of aesthetic and political traps’. He also gathered evidence from his mother’s letters and the recollections of friends. Then, when he came to shoot the film, in the actual homes where his family once lived, the older residents of Nazareth added more details. The scene of Israeli soldiers looting, for example, was based on the testimony of a woman from whose balcony they were filming. ‘She showed me bullet holes in her house’, Suleiman says. ‘She had brought stuff from Beirut on her honeymoon, and then the Haganah arrived and started to take it. I said, ‘I’m gonna take revenge for you’”, dichiarazioni rese dal regista a Steve Rose, Ibidem. G. Cercone, Il tempo che ci rimane di Elia Suleiman: un rancore pietrificato contro Israele in http://www.libertiamo.it/2010/06/19/il-tempo-che-cirimane-di-elia-suleiman-un-rancore-pietrificato-contro-israele-
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come ci torno a casa? Eli dove sei? Dove… dove sono?”. Spazio, tempo, identità e smarrimento della stabilità di tali variabili: tutto il film, tematicamente, è in abisso in questa sequenza. In seguito si raccontano le vicende della famiglia Suleiman in quatto parti separate. La prima, in flashback, durante l’occupazione del 1948, narra le vicende dei genitori e del nonno di Elia, che firma da sindaco di Nazareth le pesanti condizioni della resa. In particolare risalta per forza espressiva la riproduzione dell’azione di rappresaglia violenta nei confronti della contenuta resistenza del padre Fouad. La seconda parte include l’infanzia di Elia e le difficili condizioni di vita nella Palestina occupata, con la famiglia in continuo rapporto con i parenti esuli fuori dal paese e soggetta all’indottrinamento istituzionale e al controllo capillare dello stato israeliano. La terza parte si sofferma sulle vicende private della malattia del padre e dell’adolescenza del figlio, fino a quando questi non è costretto all’esilio. Infine il presente con la madre silente ed anziana, in una casa di cura e le nuove generazione che sembrano del tutto estranee al contesto locale e piuttosto innestate ormai in una società globalizzata. Suleiman: identità, umorismo, scissione Le matrici e i punti di riferimento del lavoro di Suleiman sono usualmente individuate dalla critica nel lavoro di Buster Keaton e Jacques Tati, ma il Buster Keaton che sembra trasmettersi in Il tempo che ci rimane, più che quello della piena maturità, ������� è ����� quello che trova la piena adesione con la poetica dello spaesamento del Beckett di Film8. Il mondo, nel suo primo mostrarsi, si sfrangia e l’identità si frantuma nella catatonia e in una “disperazione laconica”9. L’atmosfera da humour nero kafkiano, sembra originare dalle 8
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Cfr. H. Breesheet, Segell Ikhtifa/Chronicle of Disappearence in G. DönmezColin, Wallflower, Londra, 2007, pp. 169-180. Gli altri autori a cui Bresheet accosta, con pertinenza, il film di Suleiman, individuandone una matrice nel teatro dell’assurdo, sono Tati e il Nanni Moretti di Caro Diario. J. Gugler, Creative Response to Conflict, in Id. (a cura di), Film in the Middle East and North Africa. Creative Dissidence, University of Texas Press, Austin, p. 29.
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esperienze private del regista, e, paradossalmente da una sorta di prossimità ed assorbimento dell’umorismo ebraico. Il protagonista è assoggettato ad una colpa impalpabile, sormontato da un’autorità cieca e inaccessibile (Il processo di Kafka), cui si reagisce avvertendo il rovescio risibile delle situazioni di pressione e in questa azione esercitando un effetto di catarsi: i traumi del mondo esterno non possono sfiorare il soggetto, il quale li rovescia in occasioni umoristiche, dunque potenzialmente piacevoli10. Lo stesso riconoscere il versante comico di alcune esasperazioni delle proprie condizioni familiari nel film (la zia svampita, i vicini molesti, il marito che fa prostituire la moglie) molto hanno a che spartire con un tema classico dell’umorismo ebraico. Tale forma umoristica è espressione della tipica “autoironia come tratto identitario”, tratto che trova una singolare consonanza con le opere del regista palestinese. Come pure la indubbia vocazione al cacciarsi nei guai del genitore di Elia richiama alla mente quella figura archetipa della cultura ebraica, anche cinematografica, che è lo schlemiel11. D’altro canto Suleiman è un palestinese convinto delle proprie ragioni, corrispondenti a quelle della propria appartenenza etnica, ma non riconosce all’israeliano un ruolo di “nemico assoluto” che ne deneghi lo spazio del confronto con esso. È nota l’amicizia che lega Suleiman al maggior regista israeliano Amos Gitai, testimoniata dall’esito filmico del documentario War and Peace in Vesoul del 1997. Quanto c’è di nuovo nell’umorismo di Suleiman, che è comune a ���������������������������������������������������������� Gitai, e riunisce i due autori, in questo caso, è���������� il delo����� calizzare l’identità, il ribellarsi alle etichettature e a luoghi comuni che vorrebbero una contrapposizione fra appartenenze sancite una volta per tutte. In fondo Suleiman se dovesse riconoscere a se stesso un’identità, prima ancora che quella palestinese, che pure racconta con tale passione e precisione, probabilmente sarebbe quella “diasporica”, dell’esiliato, identità moderna che trova affini il vivere tra i confini fisici ed esistenziale dell’uomo contem10
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Cfr. S. Freud, L’umorismo, in Opere (1924-1929), vol. X, Bollati Boringhieri, Torino, 1978, p. 505, e l’interpretazione di questo passo freudiano come sottintesa ermeneutica dello humour ebraico in E. Jona, Lo stereotipo antisemita, in S. M. Barillari, Motti, arguzie, facezie e altre “forme semplici” della cultura popolare, Meltemi, Roma, 2000, pp. 81-82. In proposito si veda F. Borin (a cura di), Freedonia: cinema comico ebraico americano, Comune di Modena/Comune di Venezia, 1982.
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poraneo. L’identità è un’idea regolativa, mai attinta ed attingibile, che però definisce un progetto di vita per l’uomo moderno, l’uomo dell’esilio continuo. In questo, ancora una volta, Suleiman si avvicina, probabilmente in maniera inconsapevole, ad una figura archetipa del pensiero ebraico, quella del nomadismo abramitico. Abramo si affida ad un nomadismo senza prospettive di ritorno, e di raggiungimento della meta (la Terra Promessa), è l’ignoto a dominare i suoi spostamenti12. Accanto al nomadismo abramitico, un altro nomadismo, su altri presupposti, sembra essere modello per Suleiman, quello dell’Ulisse omerico13, che pur nelle continue digressioni, avverte il ritorno all’οἶκος, l luogo del riconoscimento come proposito che orienta le proprie azioni, e che appare sempre possibile, pur nelle estreme difficoltà che si presentano di fronte al νόστος. Suleiman sembra scisso14 fra un desiderio di ritorno al luogo dell’origine da procrastinare continuamente e un desiderio di allontanarvisi e sciogliersi nel nomadismo assoluto, dunque sembra scisso fra Abramo e Ulisse, fra Israele (e la modernità anomica15) e il Mediterraneo (e la tradizione e l’appaesamento). L’uomo contemporaneo è colui il quale non sa “trovare luogo”. Se l’identità è 12
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Un movimento simile al percorso nomadico abramitico è quello dell’ “infinita” apertura dei testi sacri ebraici, mai sottoponibili ad una interpretazione conclusiva. Sui nomadismi di Abramo e Ulisse cfr. F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Bari, 1996; P. Ricci Sindoni, Abramo: vocazione e provocazione al nomadismo. Una lettura filosofica in E. Baccarani (a cura di), Il pensiero nomade, Cittadella, Assisi, 1994, entrambi i saggi traggono ispirazione da E. Lévinas, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, Raffaello Cortina, Milano, 1998, pp. 217-219. e per un confronto fra il nomadismo di Ulisse e quello di Abramo, oltre al già citato testo di Levinas, S. Quinzio, Abramo e Ulisse, due eroi per due mondi, in http://www.emsf. rai.it/aforismi/aforismi.asp?d=137. Per la centralità della categoria di nomadismo nella contemporaneità si veda Millepiani, I, 1994, “Geofilosofia. Il progetto nomade e la geografia dei saperi”; T. Villani, I cavalieri del vuoto. Il nomadismo nel moderno orizzonte urbano, Mimesis, Milano-Udine 1992. Su Ulisse, homo viator e figura di erranza e dilazione, e sulla differenza fra l’Ulisse omerico e quello dantesco, votato alla negazione del confine cfr. C. Resta, Geofilosofia del Mediterraneo, Mesogea, Messina, 2012, pp. 25-26 ; F. Saffioti, Geofilosofia del mare, Diabasis, Reggio Emilia, 2007, pp. 11-129. Sull’identità “interstistiziale” di Suleiman cfr. H. Breeshet, op. cit. Sull’ “assenza di luogo e sullo sradicamento della realtà urbana contemporanea che ci rende nomadi su questa Terra si veda P. Perulli, Visioni di città. Le forme del mondo spaziale, Einaudi, Torino, 2009, pp. 111-118.
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sempre stata il riconoscersi di una comunità in un luogo specifico, la mondializzazione ha reso tutti i luoghi spazio, pura estensione geometrica, funzionale al dispiegamento della “tecnica” moderna16 e il “ritorno al luogo d’origine”, il νόστος, è un movimento continuamente dilazionato. In effetti nella Palestina militarizzata e soggetta al controllo statuale egli vede una metafora del mondo contemporaneo globalizzato, in maniera sempre più pregnante quanto più passano gli anni (dal 1948 fino alla contemporaneità). In questo senso il suo cinema, pur così “locale”, è certamente universale ed epocale����������������������������������������������� , e pur così palestinese è in certo modo israeliano, se si fa di Israele uno dei paradigmi della globalità. Un film epocale Il film di Elia Suleiman è uno di quei rari film che possono dirsi “epocali”. Riesce a cogliere lo����������������������������� spirito dei tempi raccontando una storia globale e privata assieme. Gli avvenimenti del film sono il resoconto delle gesta di un popolo che corrisponde ad una vicenda privata, ad un livello di intimità che è la maggiore possibile, dacché si tratta delle storie familiari del regista. La peculiarità di questo incrocio privato/pubblico, intimo/comunitario è che le due dimensioni sono in contemporaneo attrito e necessaria corrispondenza. Quanto usualmente sarebbe relegato nello spazio della non-visibilità, per non dire nel pudore dello spazio confidenziale della famiglia, accolto dalla convenzionale ospitalità e reticenza che costituisce questa peculiare identità gruppale, diviene qui non solo esibito, ma proposto come metafora di una condizione esistenziale “generale”. Il silenzio allibito e, in certo modo, brutale della madre nel finale, la sua figura sacrale e indifferente ad altro che non sia la musica che proviene dalla radio suscita un sorriso raggelato. Scrutare la sua malattia e accoglierne, sia pure come retropensiero, la sua comicità, ha un qualcosa di pornografico. E la crudeltà, e in certo modo il “cinismo” 16
Cfr. fra gli altri L. Bonesio, Geofilosofia del paesaggio, Mimesis, MilanoUdine, 1997; Id. Oltre il paesaggio, Arianna, Bologna, 2002; F. La Cecla, Mente locale – Per un’antropologia dell’abitare, Elèuthera, Milano, 1993; Id. Perdersi. L’uomo senza ambiente, Laterza, Bari, 2000.
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salutare, con cui Suleiman ci conduce a prenderne atto, fa sistema con la crudeltà con cui ci rappresenta la banalità del male nel corso dell’intero lungometraggio. Vi assistiamo stupefatti e divertiti, ma ci accorgiamo, però, che il nostro sorriso, alla fine, altro non è che quello della servetta tracia, nel senso più deteriore17. Stiamo ridendo del nostro vuoto, della nostra condizione esistenziale franta, dell’accettazione del male e della nostra battaglia inane o peggio della nostra immobilità rassegnata al nostro essere gettati nel mondo senza scopo, o nell’impossibilità di confrontarsi con i torti, privati e pubblici, che ci rende. Quindi al privato corrisponde e si oppone un pubblico ritroso, ed entrambe le dimensioni vengono accolte come se si guardasse in faccia la Medusa, sostenendo lo sguardo su ciò su cui lo sguardo non è sostenibile: la malattia, il dolore, l’ingiustizia cieca, la mancanza di senso del mondo18. Tale scrutare l’interdetto produce una reazione protettiva e di distanziamento, che è un sorriso che sconfina presto nel rictus. Nel film al visibile corrisponde il non visibile, dunque, e alla storia corrisponde la cronaca. Ma a rendere il tutto “epocale” è anche la peculiare situazione che viene illustrata. Non è una storia qualunque, o una storia privata che, pur metafora di territori più ampi rispetto alla sua ubicazione, resta definita entro i confini nazionali (come capita, ad esempio, in Baaria), ma è la “Storia” attraverso la quale si definisce un crinale essenziale della modernità: Israeliani e Palestinesi, la condizione di guerra perpetua che nasce dal diritto negato e che si realizza in una zona mediterranea del tutto peculiare. Il Mediterraneo si vorrebbe origine culturale e simbolica dell’Occidente, e si vorrebbe un incrocio fra terra e mare che risolva i conflitti nella mediazione19, e la Palestina si vorrebbe om17 18
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Su questa figura si veda H. Blumenberg, Il riso della donna di Tracia. Una preistoria della teoria, Il Mulino, Bologna, 1988. La sola salvezza, il solo modo per sostenere lo sguardo della Gorgone, ovvero il “male”, è trasformarla in eikon, tradurla in riflesso attraverso la riproduzione in immagine, è quanto fa Suleiman con il suo “male” privato. Sul punto si veda lo stimolante capitolo Chi è Medusa del libro di J. Kristeva, La testa senza il corpo. Il viso e l’invisibile nell’immaginario dell’Occidente, Donzelli, Roma, 2009 in particolare pp. 38-40. Cfr. C. Resta, op. cit., passim. Sul Mediterraneo, mare di incontri e di scontri, si veda anche P. Matvejević, Breviario Mediterraneo. Un nuovo breviario, Garzanti, Milano, 2002.
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phalos della cultura moderna, in quanto luogo sacro delle tre religioni: luogo centrale del Mediterraneo in cui si sprigiona la storia del mondo e origina la connessione Oriente/Occidente20. Questo luogo simbolico essenziale della contemporaneità si definisce per mezzo di rapporti di potere spaziali, nell’appropriazione dei confini sui quali si giocano le vicende dei protagonisti. Tali confini sono privati e pubblici, fisici e mentali. Se la definizione dei confini fisici entro cui sono compressi i palestinesi è evidente, lo è altrettanto l’interdetto esercitato su alcune questioni di “spazio mentale”21, come quando, a scuola, viene vietata l’espressione critica nei confronti dell’America, se definita “imperialista” o viene imposta la partecipazione al concorso di canti ebraici ai bambini della “minoranza araba”, o la visione di film sionisti con Kirk Douglas. I rapporti di potere passano anche attraverso variabili temporali. Il controllo sul tempo “libero” lo dunque denega in quanto tale, che si esercita la più evidente compressione della libertà del popolo palestinese. Questo tempo libero dalla prassi lavorativa quotidiana e dalla routinaria omologazione occidentalizzante è impossibile da attingere. Alla razionalità occidentale imposta dal nuovo mondo del controllo sotto lo stato di Israele è impossibile sfuggire, persino quando si cerca il gesto estremo, come il suicidio tentato ripetutamente dal vicino in un gesto sempre identico, continuamente consegnato al fallimento, alla pura coazione a ripetere, che altro non fa che confermare l’insensatezza, lo svuotamento razionale cui la vita sotto occupazione costringe. Il tempo libero, in quanto svincolato da ogni legame dal sistema di potere, dovrebbe essere anche “liberato da vincoli”, ma il continuo, inutile, insistere nelle pratiche di irreggimentazione e controllo da parte dei soldati israeliani ne ostacola lo sviluppo verso questa direzione potenziale. Quando il padre di Elia va a pescare con il suo amico, ed è sottoposto alle domande dei soldati israeliani, ogni sera identiche, sulla loro attività e sui motivi della stessa se ne ha una conferma lampante. In certo senso la richiesta dei soldati non differisce di molto dal gesto continuamente riprodotto del vicino potenziale 20 Cfr. C. Resta, op. cit., con riferimento all’Hegel delle Lezioni sulla filosofia della storiai, pp. 88-91. 21 “Lo spazio [è] uno dei luoghi in cui il potere esercita una violenza simbolica come violenza non percepita” P. Perulli, op. cit., p. 98.
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suicida. Sono azioni che hanno perso ogni senso profondo e che si restituiscono nella pura forma del loro apparire, senza avere una vera ragione che le motivi22. Il tempo si perde in un continuo ritorno dell’identico, privo di scopo. Nel procedere degli anni, all’interno del film, si giunge alla contemporaneità israeliano/palestinese. In essa permangono, forse, i ricordi del passato mitico della zona come punctum del Mediterraneo, ma tutto, ormai, è mutato nella sostanza. Persino la “società del controllo” attivata dagli israeliani non sembra più specifica di questo territorio. Mediterraneo: mare che da sempre si infiamma, ma anche capace, da sempre, di trasformare lo scontro in incontro, il fronte di guerra in confronto, il pólemos in diálogos, di scorgere, al culmine del contrasto più teso, l’invisibile e più potente armonia che al fondo di ogni cosa trattine ei contendenti. […] Da mediterranei ci eravamo forse illusi di poter trattare il conflitto arabo-israeliano come una guerra moderna, una guerra di terra nata per questioni di confine, di frontiere, di terre da conquistare. Anche se le frequenti azioni terroristiche suggerivano la difficoltà crescente di una messa in forma di questa guerra, tuttavia essa ci appariva limitata, arginabile, governabile e la pace sembrava ormai vicina. Ma il radicalizzarsi dello scontro ha mostrato quanto fragile fosse l’illusione di riuscire a “mettere in forma” una guerra nell’epoca della mondializzazione. Dopo lo scatenarsi di questa nuova forma di “guerra globale” non ci è più concessa nessuna illusione circa la possibilità di arginare i conflitti, di localizzare la guerra, di chiarire delimitazioni spaziali23
L’insieme Palestina/Israele, sebbene sia ancora apparentemente un territorio delimitabile da confini e comunità contrapponibili che attecchiscono entro di essi, è divenuto uno spazio senza luo22 Le tecniche di irreggimentazione attraverso spionaggio e sorveglianza, senza remore all’uso diffuso dei supporti della tecnica, da parte dello stato israeliano nei confronti dei palestinesi, sono paragonabili, a detta di uno studio dedicato alla questione a quelle della Stasi nella Germania dell’Est, e richiamano all’autore i concetti deleuziani di “controllo” e foucaultiani di “disciplina”. Cfr. E. Zureik, D. Lyon, Y. Abu-Laben, Surveillance and Control in Israel/Palestine. Population, Territory, and Power, Routledge, Abingdon/New York, 2011, in particolare E. Zureik, Colonialism, Surveillance and Population Control in Israel/Palestine, pp. 3-46. 23 C. Resta, op cit.i, pp. 17-18.
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go, una distesa omogenea e “onnipolitana”24, nessuna differenza vi è fra questa Nazareth contemporanea, così com’è rappresentata nell’ultima parte de Il tempo che ci rimane, e una qualunque altra realtà urbana. Vi è solo una esplicitazione maggiore del meccanismo del controllo che coinvolge qualunque realtà globalizzata, fino a risultare “rivelante”, ma solo per epifanie, non certo attraverso una strategia che vuole manifestarsi linearmente ed esplicitamente come brutale. Ad esempio un carro armato segue con il proprio cannone i movimenti di un giovane palestinese che va a gettare della spazzatura in un cestino, mentre parla al telefonino organizzando un aperitivo e disponendo la partecipazione ad una festa al The Stones con un DJ famoso, nella scena successiva una camionetta, che alloggia alcuni soldati israeliani, si ferma di fronte al The Stones, nel quale sono riuniti dei giovani che ballano. I soldati proclamano il coprifuoco, ma nel farlo i soldati israeliani scuotono i visi a ritmo della musica. Il confine non è più luogo del confronto in cui le differenti identità si riscoprono “limitate” e si commisurano senza annientarsi l’un l’altra25, semplicemente perché il confine, nel mondo onnipolitano, si è liquefatto. Quanto permane è uno “spazio tra”, in cui si formano identità traballanti, che, in questa loro incertezza, si rispecchiano reciprocamente. Della condizione di identità incerta e controllo biopolitico onnipervasivo, funzionale solo al perpetuarsi di se stesso del modello della tecnica “sconfinata”, la Palestina è paradigma, ma esso pervade tutto il globo. Il solo modo per reagirvi è la fissità perplessa che rigetti il contagio nel rifiuto dell’azione e del mescolarsi col quotidiano, o il gesto dadaista, anch’esso fine a se stesso (l’attraversamento del muro eretto dagli israeliani con il “salto con l’asta”). Un film della surmodernità Marc Augé definisce quale termine definitorio della contemporaneità, in opposizione alla postmodernità che giudica una ����� «���� som24 P. Virilio, “La deriva del continente”, in Millepiani, 3, 1994, pp. 1‑16. 25 Cfr. C. Resta, op. cit., pp. 102-103 ; F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Bari, 1996, p. 48.
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ma arbitraria di tutti gli aleatori»26 il termine surmodernità. La surmodernità si definirebbe in tre forme dell’eccesso. Eccesso di tempo in primo luogo: «la storia sembra non avere senso perché accelera e si avvicina. Il nostro passato individuale si inscrive, non appena vissuto, nella storia»27. Così tutti gli avvenimenti storici (dal Vietnam, alla questione palestinese) ci vengono proposti in successione dai media e proposti come spazio della nostra quotidianità, senza che si intraveda un filo conduttore fra gli stessi, e senza che essi possano contribuire a dare un senso alla nostra vita. Eccesso di spazio in secondo luogo, ovvero una sensazione di eccesso correlata al restringimento del pianeta: si ha l’impressione di essere coinvolti in avvenimenti che accadono dall’altro capo del globo. Eccesso di individualismo, infine. Ognuno di noi è oggetto dello sguardo che ci si rivolge dallo schermo, dalla dimensione mediale. Tutte queste variabili sono rappresentate nel film di Suleiman e sono interne alla strategia retorica d’interpellazione del fruitore. Da un lato la questione israeliano-palestinese, pur nella sua distanza spazio-temporale, si inscrive nella nostra quotidianità di pubblico occidentale. Ci troviamo in vicende che percepiamo prossime spazialmente, attraverso la mediatizzazione cui partecipano che ce le sottopone con costanza regolare presso le nostre abitazioni attraverso gli spazi mediali, e “storicizzate” seppure vicine nel tempo. Tale vicende, rese visibili nella mediatizzazione, sollecitano la nostra risposta “individualista” ad esse È chiaro che le figure di ciò che propongo di chiamare surmoderni����������� tà danno forma a un paradosso e a una contraddizione: in un senso aprono ogni individuo alla presenza degli altri, corrispondono a una circolazione più facile degli esseri, delle cose e delle immagini. Ma in un altro senso fanno ripiegare l’individuo su se stesso, rendendolo testimone piuttosto che attore della vita contemporanea. Questa contraddizione si esprime in modo esemplare negli spazi che ho proposto di chiamare non-luoghi28.
26 M. Augé, Il senso degli altri. Attualità dell’antropologia, Bollati Boringhieri, Torino, 2000, p. 116. 27 Ibidem. 28 Ivi, p. 117-118.
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Per Augé la surmodernità si enuncia nei non-luoghi29, spazi di transito in cui non si riesce ad assestare una corrispondenza fra identità e territorio. Sono territori in cui «nessuno si sente a casa propria, ma non si è nemmeno a casa degli altri»30. Sono i luoghi “spettacolarizzati”, “mediatizzati”, resi visibili prima ancora che abitabili31. In essi si può sviluppare una forma minimale di localizzazione, una “localizzazione d’urgenza” in cui il provvisorio è vissuto come definitivo e in cui l’altro non è assegnabile ad un’appartenenza ad un luogo definito32. Se l’”altro” non è concepibile come localizzato, anche il “proprio” vacilla, perde un’identità stabile e si limita a vedersi scorrere la vita innanzi senza “agirla”. È questo che fa Suleiman, in particolare quando recita di persona il proprio personaggio: osserva senza agire, in questo da un lato cedendo all’impossibilità di modificare la condizione esistente, e dall’altro resistendo ad una partecipazione che confermi il meccanismo coercitivo su cui si basa. All’uomo della diaspora non resta che scorrere in uno spazio tutto uguale, senza localizzazione e senza confini, e non resta che osservare, contemplare immoto quello che accade, mescolandosi a flussi in cui scorrono, senza riconoscersi: identità ormai non definibili territorialmente, e in quanto tali, sempre in limine ad un conflitto che non sembra poter trovare punto di equilibrio. La sola, magra, consolazione, è la consapevolezza cinica della crudeltà, e in fondo dissennatezza umoristica, del meccanismo che presiede la vita associata globalizzata, e la possibilità di esprimerla attraverso una rabbia fredda e trattenuta.
29 Il riferimento principale è il ben noto M. Augé, Nonluoghi. Introduzione ad un antropologia della surmodernita, Elèuthera, Milano, 1993. 30 M. Augé, Il senso degli altri, cit. p. 118. 31 Ivi, p. 119. 32 Ivi, p. 121.
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Marcello Walter Bruno
AUTOBIOGRAFIA DI UNA NAZIONE VINCERE (2009) DI MARCO BELLOCCHIO
Si può ragionare del ministero Mussolini come di un fatto di ordinaria amministrazione. Ma il fascismo è stato qualcosa di più: è stato l’autobiografia della nazione. Piero Gobetti Ma mi trovo spesso a domandarmi se il berlusconismo non sia una sorta di autobiografia della nazione, dell’Italia d’oggi. Norberto Bobbio
1. Un’ipotesi: Mussolini come Berlusconi Prim’ancora di vedere per la prima volta il DVD di Vincere, sono guidato da un sospetto: che un film su Mussolini realizzato nel 2009 – all’apice del ventennio berlusconiano fatto di aperture al postfascismo (è del febbraio 2008 la fusione di Forza Italia con Alleanza Nazionale nel PdL, Popolo della Libertà) e di commistione pubblico/privato (è dell’aprile 2009 lo scandalo Noemi e la ricusazione di Berlusconi da parte della seconda moglie, l’ex attrice Veronica Lario) – possa essere non tanto e non solo uno scoop giornalistico in sede storiografica (pur essendoci a monte un documentario Rai e il libro di Alfredo Pieroni Il figlio segreto del Duce) quanto piuttosto una riflessione autoriale sul rapporto fra sesso e politica, seduzione e potere, masse e media. Un film, insomma, che riflette (su) il passato per riflettere (su) il presente. Il mio atteggiamento non ha bisogno di difese: se il modello della comunicazione di Jakobson poteva ancora essere tacciato di una concezione “postale”, mutuando dalla teoria matematica di Shannon l’esigenza di veicolare un segnale da un emittente a un rice-
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vente, tutte le successive teorizzazioni semiotiche della “conversazione audiovisiva” non possono che accogliere le opzioni politiche dei cultural studies (in particolare Stuart Hall) sul carattere attivo (abduttivo) dello spettatore/lettore. Il testo dunque, rispettando i limiti dell’interpretazione posti da Eco sotto l’etichetta di intentio operis, è un territorio di caccia in cui si è autorizzati a inseguire (ma non allucinare) qualunque senso: l’unico senso vietato è quello indimostrabile a partire dalla letteralità del testo. Le aspettative dello spettatore reale, in questo caso, non fanno altro che ribaltare un’assimilazione già presente nel senso comune e nella ricerca scientifica: è del 2002 un convegno dell’Università di Firenze su La notte della democrazia italiana, Dal regime fascista al governo Berlusconi; così come il fiorire di libri sul populismo tende a saldare la postmoderna politica mediatica alle moderniste tecniche della propaganda. Lo storico Antonio Gibelli, stabilito che “è del tutto evidente che Berlusconi non è Hitler né Mussolini”, trova poi altrettanto evidente che ci sono elementi comuni tra lui e molte personalità della politica novecentesca che hanno basato il proprio potere sulla fascinazione personale, sulla forza di elementi seduttivi e illusionistici, sulle sofisticate strategie di costruzione della propria immagine, sull’uso del proprio corpo come parte del carisma. In particolare, come è stato notato, più Mussolini che Hitler [...]1.
Nel 2011, la rivista MicroMega dedica ben due numeri al tema “Berlusconismo e fascismo”, definendo il primo come l’equivalente funzionale del secondo. Si tratta allora, ripeto, di ribaltare l’equazione: stabilito che è possibile vedere in filigrana Mussolini nelle apparizioni di Berlusconi, forse è possibile vedere in filigrana la contemporaneità nell’affresco storico di Vincere. Procedo alla visione con carta e penna: l’eccesso di immagini rende impossibile qualunque ekphrasis all’analista di film, eppure proprio questo obbligo alla pertinentizzazione costringe a incanalare la percezione verso la costruzione di un’isotopia precisa. Il testo non è il punto di convergenza di un polo “poietico” e di uno “estesico”: la visione è già interpretazione, la passeggiata nel bosco audiovisivo è già ermeneutica. 1
A. Gibelli, Berlusconi passato alla Storia, Donzelli, Roma, 2011, p. 87.
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2. Verifica: prove d’isotopizzazione È lo stesso leader ad aver notato pubblicamente che un anagramma di “Silvio Berlusconi” è “l’unico boss virile”: fierezza del potere (a sfondo lessicalmente mafioso) che combacia con la potenza sessuale, quasi ad attestare l’eternità dell’orda presupposta da Freud. Il film di Bellocchio inizia – in un paesaggio che mescola i neon pubblicitari, simbolo di una Milano da bere datata 1914, con falliche ciminiere e falliche guglie di duomo (d’uomo di Milano?) – proprio da questo sfondo di machismo italico, in cui la giovane donna sensuale è sedotta per sempre dall’uomo coi baffi che sfida Dio a fulminarlo, spezza la sua fuga per lasciare sangue e baci, fa sesso con la resistenza di un animale (l’occhio che luccica nel buio ricorda quello del ghepardo nell’incipit di 2001: Odissea nello spazio). Il giovane Mussolini che esce nudo sul balcone quasi esponendosi allo sguardo delle future folle oceaniche (votate alla guerra): non c’è in questo esibizionismo tutta la novità del passaggio dal panopticon al synopticon, dalla società della sorveglianza al regime del potere-spettacolo a base sessuale? Se è tutta di Mussolini la foga politica dell’agitatore di folle e dell’uomo d’azione violenta, è di Berlusconi questo godimento della seduzione che procede dalla performance pubblica e giunge ad una sorta di possesso totale della donna, non a caso assimilata alla folla come nella psicologia ottocentesca di un Gustave Le Bon. Se è giusto notare che la fascistizzazione tramite propaganda è possibile solo dopo che il duce ha assestato la sua dittatura, mentre il partito-azienda Forza Italia vince le elezioni contando su un elettorato che è già target e audience delle reti Fininvest, bisogna anche ricordare che il giovane Mussolini è giornalista e scrittore: i media sono onnipresenti nel film di Bellocchio sotto forma di cinema (prima muto e poi sonoro, tra fiction internazionale e cinegiornali Luce) e di stampa, a ricordarci costantemente il rapporto strutturale che lega le dittature novecentesche al controllo delle immagini tecniche e dell’informazione giornalistica. Il direttore dell’organo socialista Avanti! che, per ambizioni bonapartiste, passa all’interventismo e conseguentemente all’anticomunismo, può ben ricordare l’imprenditore edile e mediatico che – dopo aver beneficiato degli appoggi del partito socialista al governo – accentua il lato anticomunista (antisindacale, antifemminista ecc.) del cra-
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xismo per approdare ad una sua versione di culto della personalità. La logica per cui il giornalista Mussolini decide di chiamare la sua testata Il Popolo d’Italia è la stessa per cui il partito-azienda della Fininvest si chiama prima Forza Italia e poi Popolo della Libertà, poi ancora Forza Italia: il populismo deve esattamente costruire il proprio corpo-oggetto elettorale come soggetto desiderante unitario, comunità immaginata. La bandiera che sventola sul rogo dei giornali di sinistra ha gli stessi colori di quella che segnerà la “scesa in campo” del proprietario del Milan. Una delle scene emblematiche del Caimano è quella in cui una valigia piena di banconote sfonda il tetto di una stanza e si apre impattando contro un tavolo: i soldi che “piovono dal cielo” alludono ad uno dei misteri irrisolti della biografia berlusconiana, quello della provenienza dei capitali per costruire Milano 2. In Vincere, il sogno del nuovo giornale viene realizzato dall’innamorata Ida, che vende tutti i suoi averi per regalare al focoso amante/marito la proprietà di un organo (di stampa) per influenzare l’opinione pubblica: la casa vuota è il simbolo dell’amore come passione; ma è il corpo nudo di Ida che, testimoniando una sorta di spoliazione mistica e contemporaneamente sensuale, allude alla fede politica come spostamento libidico dalla sfera del corpo a quello dell’ideologia. Il carattere del personaggio maschile/maschilista, capace di possedere ma non di donarsi, dunque incapace di accettare il donare e donarsi della donna, si rivela nel rifiuto di questo scambio simbolico (il capitale in denaro come equivalente del figlio con lo stesso nome) a favore del concetto di prestito e della pratica della ricevuta: Benito prende carta e penna e procede solennemente a mettere nero su bianco, esplicitando il debito ma annullando la valenza simbolica del dono. Un gesto formale e magniloquente che ricorda quello, esibito in televisione in prime time, di Silvio Berlusconi che firma un fantomatico “contratto con gli italiani”, ovviamente privo di qualunque validità legale – pura actio retorica, volta ad ammantare le eterne promesse del politico con gli stilemi procedurali delle transazioni economiche. Bellocchio ci fa vedere Ben che suona il violino: il grand’uomo coltiva il corpo ma anche lo spirito, è esperto negli sport ma anche nelle pratiche artistiche. Ma come non ricordare il Berlusconi chansonnier e cantautore, che intrattiene pubblici eterogenei (dai clienti delle navi Costa ai grandi della Terra riuniti in sedi istitu-
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zionali) con il suo repertorio di classici francesi e composizioni alla napoletana? Se questa allusione sembra troppo veloce, si può passare alla lunga scena ambientata nell’ospedale militare, con la suggestiva trovata di proiettare sul soffitto una Passione cinematografica muta e in b/n, col doppio risultato di avere un Cristo che guarda dall’alto del cielo (in una stanza) e di accostare le sofferenze del Salvatore con quelle dell’Uomo del destino: eterna allusione cristologica del dittatore, che si è ripetuta quando l’autonominato “unto del Signore” s’è trovato ferito e sanguinante per l’attentato di un povero squilibrato (l’arma del delitto consistendo, ironia della sorte, in una riproduzione miniaturizzata del duomo di Milano). La visita del Re è seguita dalla lite fra le due donne che si contendono il duce: e qui non sfuggirà che il sedicente cattolico Berlusconi s’è trovato a vivere la sua relazione con Veronica Lario mentre ancora era sposato con la madre dei suoi primi figli. I costruttori d’imperi sono infedeli? Si direbbe che Bellocchio, appassionato di psicanalisi, sposti la questione dall’immaginario maschile ai fantasmi femminili: ciò che davvero colpisce nella storia di Ida e Benito non è tanto la capacità di oblio e rimozione del maschio fallocratico, la cui immagine pubblica non combacia con la realtà delle vicende private, ma piuttosto proprio la pervicacia della donna, che in nome dell’amore “movimento collettivo a due” nega la trasformazione del suo uomo in qualcosa di fisicamente e sentimentalmente lontano. La presenza di Mussolini all’esposizione futurista del 1917, che Bellocchio sottolinea con effetti grafici che connettono il movimento marinettiano all’estetica pubblicitaria (sotto il segno di Depero), rimanda ad un’altra importante questione del rapporto fra avanguardia artistica e politica reazionaria: se la modernità è ancora difendibile come inadempiuto progetto di liberazione e progresso, il modernismo estetico si è rivelato perfettamente assimilabile e assimilato dai totalitarismi, grazie a quel passaggio nevralgico che Benjamin ha definito “estetizzazione della politica”. Ma la politicaspettacolo è esattamente il proprio del metodo Berlusconi, che è consistito nel riciclare in funzione elettorale tutto l’apparato estetico nazional-popolare elaborato dalla neotelevisione; e, a quanto ci dicono analisti come Panarari, l’egemonia sottoculturale di Mediaset poggia su insospettate avanguardie come il situazionismo, matrice di riferimento di autori fondanti tipo Antonio Ricci.
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Anche la scena dell’imitazione del duce Benito Mussolini da parte del figlio universitario Benito Dalser ricongiunge l’arte contestativa all’egemonia culturale sotto il segno dell’Edipo: la perfezione della parodia presuppone qui addirittura la discendenza biologica dell’imitatore dall’imitato, quasi a confermare il carattere identificatorio di ogni ribellione. In un’epoca in cui «bisogna essere grandi attori», come dice lo psichiatra alla psichiatrizzata Ida, vincere è impossibile: il potere occulta tutto ciò che contravviene alle versioni ufficiali, la realtà viene sostituita scientificamente da quello che Maurizio Ferraris chiama realitysmo. Ma neanche la dittatura riesce a vincere: e così ciò che appare puro gossip può rivelarsi importante quanto un’intercettazione storiografica; come in Buongiorno, notte il finale configura una sorta di condizionale controfattuale, la possibilità di raccontare la storia di Vincere apre all’attesa di svelare i segreti dell’Italia contemporanea. 3. Conclusioni sulla frase-immagine Rivedendo il film, noto meglio il finale che si riaggancia all’orologio dell’inizio: il tempo occorso per la punizione della hybris non è stato di cinque minuti ma di quarant’anni; il titolo VINCERE messo dopo l’inquadratura del busto di Mussolini schiacciato da una pressa può essere un commento ironico alle pretese dittatoriali (e contemporaneamente, ricordiamolo, alla follia amorosa di quella donna il cui desiderio si è acceso per il maschio che ha sfidato Dio) ma anche una sorta di profezia sul crollo di un regime a noi più vicino. Noto, come elemento formale ricorrente, la mescolanza fra corpi profilmici e schermi cinematografici: è un meccanismo che si ritroverà – con l’ovvia sostituzione da parte delle immagini televisive – in Bella addormentata, film più esplicitamente dedicato all’ideologia del corpo in epoca berlusconiana. Noto, come elemento narrativo ricorrente, la doppia vita familiare del cavalier Mussolini, che ricorda quella del cavalier Berlusconi: il peccato del giovane Benito non è solo quello di non saper dire “Ti amo” (dice “Ich liebe dich” per gusto della comunicazione paradossale) quanto quello di mentire; e forse anche quello della donna, schiava d’amore e d’orgasmo, è quella di mentire a se stessa (quelle del matrimonio religioso con un ateo sono immagini-ricordo o un inserto soggettivo allucinatorio?).
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L’immagine più intensa del film è forse quella in cui Ida s’arrampica sulla grata dell’ospedale-prigione e, nel nero della notte punteggiato dal bianco dei fiocchi di neve, lancia nel vuoto le sue lettere. Questa composizione mi rimanda al concetto di “frase-immagine” che Jacques Rancière ha costruito per render conto del diverso grado di mescolanza degli elementi di senso (per definizione linguistici ovvero verbalizzabili) e degli elementi figurali (legati al godimento estetico, dunque propriamente ineffabili). La bellezza di questa inquadratura non è forse tutta nel gioco dei colori e delle forme geometriche, aldilà di qualunque valore narrativo o simbolismo culturale? Certo, e forse proprio questo è il senso dell’immagine: la dispersione delle lettere (delle frasi linguistiche) è il simbolo della dissipazione di qualunque meaning of life, così come nel kubrickiano Rapina a mano armata la volatilizzazione delle banconote era la sterminazione del valore all’interno di un dispositivo apparentemente cronometrico (di nuovo gli orologi che scandiscono la sfida!). Ho dunque verificato la mia isotopia oppure ho perso il mio tempo? Ogni spettatore riceve dal film le proprie aspettative in forma invertita, proprio come succede agli amanti: Vincere parla proprio (anche) di questo e per questo va agganciato all’epoca dell’enunciato ma anche all’epoca dell’enunciazione, che è quella in cui la neotelevisione – prima spettacolo come politica, poi politica come spettacolo – è diventata l’autobiografia della nazione.
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Lorenzo Esposito
NON SEI NULLA NE CHANGE RIEN (2009) DI PEDRO COSTA
Melodramma familiare e dramma della scrittura. Il romanzofilm, la nostra eterna lettera non spedita, è un codice misterioso, un cifrario che, oltre alla chiave, contiene il ricamo che la custodisce. Per nulla secondario che l’anno di Ne change rien di Pedro Costa sia anche quello di Tetro di Coppola. Povero coraggioso giovane marinaio Bennie, che scendi dalla nave con le tue tre corone in forma di lettera e ti vedi investito dall’Oceano in tempesta di Tetro tuo fratello, che già fa impazzire l’alfabeto (Demy incontra Ruiz, Powell ritrova Minnelli), e a te toccherà leggere e rileggere, fino a piegare lo specchio sulla pagina, fino a che il tuo occhio capovolto combaci con le lettere dall’altro lato. Come in Costa (O Sangue, Casa de Lava, Ossos…), nelle storie di sangue di Coppola la vita è in senso inverso, sempre preda d’altra giovinezza, distillato hoffmaniano di nevrosi e fantasticherie, anche se neve e arcobaleno offrono ali grandi abbastanza per recapitare la lettera e decifrare la struttura delle frasi. (Sempre nel fatidico 2009 – lo documenta giustamente questo libro – ecco Il tempo che ci rimane di Elia Suleiman, dove il padre racconta e scrive la Storia nei suoi quaderni e la madre spedisce lettere ai palestinesi della sua famiglia cacciati da Nazareth nel 1948. Il figlio, Suleiman stesso, ha un’asta olimpica in mano e davanti a sé il muro israeliano, una rincorsa e… oplà, siamo dall’altra parte. Ancora legami di sangue, disperatamente malinconici, che usano la ripetizione comica del quotidiano per scalfire l’orrore, saltano e abbattono il muro sintetizzando l’effetto con la causa, rendendoli speciali entrambi). In Ne change rien Jeanne Balibar canta la canzone di Johnny Guitar, lettera d’amore finalmente. Canta ed è più fantasma di Vincent Gallo/Tetro, immersa in una spettralità assoluta, ombra pulviscolo macchia particella d’una combustione già lontana. (Gallo stesso
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deve aver imparato la lezione, visto che in seguito nel sottovalutatissimo Promises Written in Water lo sfrigolio pellicolare brucia e distilla e solarizza e tumorizza dall’interno il film – Brakhage? Wahrol? Garrel? – facendone incespicare la lingua mentre dimostra che non ne ha – Godard? – mentre la ridefinisce come fosse sul tavolo autoptico della morgue). E così Pedro Costa si pone subito dopo la sparizione, dopo il film, dopo l’immagine. Non è la prima volta, ma se nella precedente nerissima trasparenza (Où gît votre sourire enfoui?) il potere vitale di Straub-Huillet resisteva, qui Costa riesce a stare sul bordo di uno specchio e farsi sottilissimo, di vetro, così simile al cacciatore di luce che è Coppola… All’opposto di un’osmosi regista-attrice, Ne change rien registra (non si può più dire filma, né ritrae…) l’allontanamento dall’oggetto Jeanne Balibar (non a caso rinvenendola solo dalle parti del Rivette di La Duchessa di Langeais, apertamente citato). Lascia che l’immagine si faccia barlume, che neppure ci sia più oggetto e che i soggetti diventino diffusa luminosità spettrale, ciò che resta del fuoco. Che immagine è questa, umbratile e immateriale, che letteralmente annulla la distanza, un’immagine potentissima e insieme senza contorni, con una sua luce ma senza più sorgenti, totalmente esposta alla propria sottoesposizione, sfibrata e granulare, quanto più eterea tanto più umana? E cosa resta di ‘lei’ prima di sparire? Romantica come un western, visionaria come un noir… Forse la spettralità della vita conquista brevi istanti di carnalità nello sforzo di chi finge di giacere accanto al supporto, e invece lo strema, strappandolo via granello dopo granello. La grana si fa granitica, monumento alla luce e all’ombra indifferenziate – non più video, non più pellicola, non più digitale (già in Juventude em Marcha). Mentre ancora il celibato assoluto della macchina, che ossessa si rivede perdere (e prendersi?) tempo in cerca di spazio, non ha nulla di meccanico, ma torna fatale al fantasma che sperava di non raccontare più. Allora Pedro Costa è sempre alla ricerca di un’innocenza che non c’è mai stata, alla stregua di una coda di cometa in fuga, una scia flebile, di cui si scorge il lume fra un barbaglio e l’altro (dovendo inoltre, l’occhio, imporsi un passo leggero, inapparente, proprio quando sfida l’eterno… De Oliveira insegna: Belle toujours. Non a caso più di recente, per l’ultimo sublime Gebo e l’ombra, Costa ha accettato di esserne il sostituto nel malaugurato caso l’ultracentenario cineasta non ce l’avesse fatta).
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Dunque: non si cambia nulla perché tutto sia differente? Anzitutto in Ne change rien c’è una nuova furtività, non più di chi filma senza (voler) essere visto, ma proprio un occhio lasciato lì, nell’ombra, macchina senza regista né operatore, che filtra la luce, e che non appartiene a nessuno se non al fatto che è lì, nella filigrana di toni e accordi, imperterrito come quegli oggetti cui si fa a tal punto abitudine che diventano invisibili. E ciò implica l’idea romanzesca di un segreto, di un mistero, di un agire clandestino. Da questo punto di vista è chiaro che non solo Ne change rien non è un documentario, ma anzi spiega bene come sia questo l’unico genere davvero inesistente, essendo ovviamente dappertutto, a cominciare da qualunque idea di finzione (allo stesso modo, per sua stessa ammissione, si sa che Frederick Wiseman, non è il più grande documentarista, ma uno dei più importanti romanzieri americani degli ultimi quarant’anni). Ecco allora un romanzo intitolato Ne change rien che racconta la storia di un incrocio di luce, corpo, suono, e del tempo che ci mettono a conquistarsi uno spazio. Una storia narrata fra il crepuscolo e l’alba, dove si rincorrono fantasmi e tormenti d’amore in forma di canzone. Nero su nero. Sonno. Origine. Perdita. Trapasso. Un interdetto, una zona cui stare semplicemente accanto e cui poi anche aggrapparsi con ferocia, procurando sulla luce stessa ferite e feritoie, che sono già il sintomo di una partitura musicale (ricordiamoci che Costa è stato studente prediletto di António Reis, imparando da lui che tutto si gioca nel bilico fra un’inquadratura e l’altra). Immaginiamo allora delle donne (tutte le donne dei film di Costa) su una spiaggia nera che si sporgono verso l’orizzonte, che aspettano, che forse si immolano, che tracciano, in un basso continuo, contrappunti, strattoni, violentissimi silenzi… È questo che più o meno tutti intendiamo per morte del cinema? Non saper più resistere e esistere nel mistero? Credere di poter vedere tutto (“Se almeno potessimo vedere!”, dice giustamente de Oliveira in Gebo e l’ombra)? Ma questa, come sapevano bene i Lumière, è la prima cosa che si è smarrita. Ecco perché Costa è paradossalmente alla ricerca di una postura omogenea, qualcosa di segreto che non dipenda solo dallo sguardo, diciamo una fotogenia della perdita, filmando infine la perdita stessa, la sua irrimediabilità. Godard lo chiama sterminio. Costa si impone la durezza necessaria a rinvenire qualche sopravvissuto.
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Cinema senza fine
Se c’è un cinema contemporaneo (come si sa, intempestivo e inattuale) è quello che indaga il corpo dell’immagine, anche se in via di sparizione, anche se sottilissimo e areiforme, e che letteralmente lo resuscita, come in un cerimoniale che estrae brani perduti di luce e ombra, che ne ricostruisce il tessuto spettrale. È il cinema che sa che per stare così, fra vita e morte, l’unica identità possibile è l’anonimato. Dallo strazio dei corpi deve emergere lo spazio che travalichi la loro stessa messa in scena. Il soggetto del film non è Jeanne Balibar, ma l’infilmabile del soggetto. Fino a poter dire, del cinema stesso, non sei nulla.
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Marco Grosoli
LO SPAZIO MUORE FILM SOCIALISME (2010) DI JEAN-LUC GODARD Il film precedente di Jean-Luc Godard, Notre Musique, del 2004, si reggeva su una struttura tripartita: inferno, purgatorio, paradiso. La terza sezione “paradisiaca”, con la resurrezione della terrorista kamikaze e il giardino dai confini spinati ma inoperanti, si voleva in qualche modo una risoluzione, o un sollevamento, degli altri due segmenti: la composizione utopica dei conflitti (territoriali, metafisici, sociali) impostati fin lì. È un approccio dialettico in senso squisitamente godardiano: la dialettica può essere dappertutto, persino nella tripartizione dantesca – ma mai e poi mai nella famigerata triade tesi-antitesi-sintesi. Quest’idea viene puntualmente ripresa da Film Socialisme. Abbiamo di nuovo tre segmenti: uno ambientato in una nave da crociera con frequenti digressioni a-topiche costruite da montaggi di immagini di repertorio e cartelli, uno relativamente narrativo sulla dismissione di un garage francese o svizzero (il film su questo punto non è chiaro), un montaggio di cartelli, voci e immagini di repertorio (“alla Histoire(s)”) su alcune città del Mediterraneo. La prima parte, dunque, in qualche modo sintetizza le altre due, nella misura in cui formalmente è un ibrido delle due parti che seguiranno. La sintesi, insomma, qui precede tesi ed antitesi. Un personaggio, a un certo punto, compie una digressione sulla dialettica, abbastanza lunga da far trasparire che la dialettica è tale solo quando nega se stessa come processo – solo quando, cioè, lascia intravedere il presupposto a cui può adempiere solo contravvenendolo, quello secondo cui il Tutto è già contenuto in partenza nel particolare. È dunque vano, in quest’ottica, pensare che possa esserci un Universale che raggruppi tutte le particolarità, o le processi. E qui entra in gioco Un film parlato di Manoel de Oliveira, pellicola sul cui solco si muove Film Socialisme. Nel film lusitano, una crociera
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poliglotta si addentrava sulle rive del “mare di mezzo”, sempre più consapevole che il destino della frastagliata Europa è non tanto la catastrofe, ma dentro la catastrofe. A farne le spese era soprattutto l’ingenuità yankee dell’ufficiale interpretato da John Malkovich, e la sua pretesa di porre il suo inglese quale lingua franca di una felice babele di dissonanze fonetiche. In altre parole: sua era la pretesa, imperialista, di porsi a Universale abbracciante ogni particolarità. Ebbene: in Film Socialisme troviamo la medesima sprezzante negazione del metalinguaggio. I sottotitoli inglesi, che dovrebbero teoricamente garantire la comprensibilità universale dei dialoghi nonostante le svariate lingue che vi si parlano1, sono qui ben lontani dall’inglese oxfordiano: è invece ciò che Godard ha chiamato navajo English, una “ultrapidginizzazione” che rende il senso della frase a malapena comprensibile. Ad esempio, “Il faut savoir dire ‘nous’ pour pouvoir dire ‘je’“ diventa “say we say I”. Questo genere di sottotitoli, ovviamente anche fuori sincrono rispetto all’immagine, manifesta che là dove dovrebbe esserci l’Universale, c’è invece un particolare che con l’Universale è strutturalmente in costante tensione (quale esempio migliore in questo senso della minoranza Navajo?). Questa spaesata crociera di anziani che galleggiano in una sorta di soddisfatto eterno presente, certo, è l’Europa di oggi, ma più il film prosegue e più traspare il sogno di un’Europa diversa, o forse l’unica possibile. È un sogno non molto distante da quello, universalista e post-sebastianista, proposto sette anni prima dalla crociera di Oliveira. È un’Europa in cui l’Universale si dà immediatamente nelle sue particolarità. Nel punto esatto dove finisce la seconda parte ed inizia la terza, Godard racconta di una famiglia dallo stesso nome di quella dei meccanici della sezione centrale, Martin, impegnata nella resistenza contro i tedeschi e vicina al gruppo di Combat. Il loro slogan era “libérer et fédérer”. Il secondo verbo fa subito pensare all’entusiasmo di Fernand Braudel per il Mediterraneo da lui descritto: una federazione di fatto, con monadi geograficamente interconnesse dalla loro stessa 1
Certo, i maligni avrebbero buon gioco qui a sostenere che la lingua francese è comunque preponderante. Sarebbe tuttavia difficile negare che, nei secoli, le ipotesi più mature di universalismo, in Europa, sono sempre venute dalla Francia. O se non le più maturi, quantomeno le meno peggiori.
M. Grosoli - Lo spazio muore
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separazione. È senz’altro a questo che pensa Godard: la culla della democrazia come qualcosa a cui tornare nella stagnazione odierna, in cui si naviga a vista. Si possono comparare solo quelle cose che sono tra loro incomparabili, si dice a un certo punto. Questa linea di dialogo vale, naturalmente, tanto per il collage di frammenti tra loro incommensurabili a cui come di consueto Godard si dedica, quanto per la concezione politica che vi è sottesa. Tornare a quella rete di particolarità è per Godard l’unico destino che possa darsi un’Europa davvero unita. È questo, in fondo, ciò che dice Alain Badiou nella conferenza semivuota che tiene all’interno della nave. Non è che dobbiamo tornare alle origini della geometria: semplicemente, le nostre origini sono la geometria, per cui tornare alle origini significa senza dubbio ritornare alla geometria. Ovvero: ritornare a quella interconnessione spaziale che fu, nel Mediterraneo, il fenomeno originario della nostra civiltà occidentale. E continua Husserl pochi istanti dopo attraverso un personaggio che lo cita: qualunque sia la forma che assume, la geometria rimane sempre la geometria: una, unica. Perciò, sono una cosa sola la geometria in quanto politica sognata da Godard e quella messa in pratica da lui stesso per virtù di mise en scène. Ci riferiamo, certo, alla capacità del montaggio di mettere in relazione tra loro elementi violentemente eterogenei – ma anche alla assai meno celebrata (ma ancor più straordinaria) maestria pittorica del regista franco-svizzero. È già a livello delle singole inquadrature che Godard cerca di visualizzare l’aria “tra” le cose teorizzata già in Pierrot le fou attraverso Elie Faure. E lo fa creando un’armonia visiva tra i suoi elementi che nulla deve ai limiti del quadro tutt’intorno. Si tratta, per così dire, di consonanze geometriche ritrovate episodicamente tra linee giocate in maniera dispersiva, centrifuga, che letteralmente ignorano la spinta centripeta che i limiti del quadro garantirebbero. È facile, in altre parole, avere davanti a un’inquadratura di Godard l’impressione di qualcosa di rigorosamente armonico, eppure sfacciatamente scentrato. Questa definizione, tuttavia, rimarrebbe largamente insufficiente se non si tenesse conto del fattore decisivo del mutuo organizzarsi di linee e angoli: la luce. In Godard, i contrasti di luce conferiscono alle coordinate del quadro una nitidezza ancora maggiore di quanto facciano le linee stesse. Molto spesso vengo-
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no tenute in primo piano figure che si agitano nel buio assoluto e, sullo sfondo, piena luce. Molto del fascino delle inquadrature godardiane deriva dal rapporto visivo tra le figure in piena luce e quelle in piena ombra, le une e le altre dai contorni ugualmente nitidi. Altro slogan che da anni viene ripetuto di film in film: “A cause de quoi la lumière? A cause de l’obscurité”. La luce insomma è una sorta di limite critico dello spazio geometrico, il cruciale momento a-geometrico in cui la geometria si invera. Se la geometria è una e solo una è perché la luce, è una e solo una. E qui rientra in gioco il primo termine dello slogan dei Martin: “libérer”. Non basta “fédérer”, non basta la coordinazione geometrica: essa si fonda, infatti, su un momento di negatività, di rescissione, da cui non si può prescindere. Per diventare visibile, la geometria ha bisogno di un punto di opacità, che possiamo benissimo identificare con la différance di Derrida (che del resto figura tra i molti autori citati), quella con la “a”, la differenza che illumina e orienta un certo sistema di differenze. Questo momento di negatività preliminare è la ragione precisa di quella che per decenni è stata la formula-chiave (non dichiarata) del cinema godardiano: non esistono le unità minime; per lui, all’opposto di un Resnais o della Rive gauche tutta, non esistono i singoli mattoni con i quali costruire un testo, un’immagine, un messaggio, una forma. Esiste solo l’immagine, esiste cioè la sintesi istantanea di diversi elementi, ma non gli elementi presi singolarmente. Per questo un personaggio lega insieme l’abolizione della proprietà privata all’indomani del 1789, l’instaurazione della comunità dei beni e la dichiarazione di Saint-Just “Io disprezzo la polvere di cui sono fatto e che vi parla”. La comunione di tutti gli uomini procede solo dal negarsi dell’uomo singolo. E la figlia di quel personaggio propone direttamente come programma politico il fatto che ciò che si dice non appartiene a chi parla, “Io è un altro”. Ciò che preme a Godard, innanzitutto con il suo indefesso gioco visuale di reciproca compenetrazione tra le linee e la luce, è l’abbraccio originario tra la coordinazione geometrica e la “negatività preliminare”. Liberare e federare. Lo chiarisce uno dei brani che di pellicola in pellicola Godard ama citare più spesso, presente anche qui: “Madame, quels sont ces yeux nombreux qui dans la nuit regardent? Monsieur, soudain souci, soudain souci m’étonne. Il n’y a plus personne. Pourtant moi, je vous parle, et vous, vous m’entendez tout ce que vous
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répondez. Monsieur, à travers tout, quelles sont ces images, tantot en liberté, tantot enfermées? Cet énorme pensée où des figures passent, ou bruit ou des couleurs? Madame, c’était l’espace. Et l’espace se meurt”. Lo spazio muore: se non ci fosse in esso un punto di trapasso al di là di se stesso, non sarebbe più spazio. Lo spazio descritto in questo passaggio è molto chiaramente quello bergsoniano/deleuziano fatto esclusivamente della acefala, reciproca interazione tra le immagini. È insomma lo spazio dell’infinito rincorrersi analogico delle immagini delle Histoire(s) du cinéma. Ed è altresì lo spazio della terza sezione di Film Socialisme, un montaggio di montaggi, ognuno un assemblaggio di materiali di repertorio (indifferentemente fiction e documentari) dedicato a un luogo affacciato sul Mediterraneo: Egitto, Grecia, Napoli, Israele/Palestina, Barcellona... E Odessa, certo, perché il Mediterraneo di Godard è una coordinazione di monadi, e non un concetto geograficamente restrittivo – e trattandosi della città sulla cui scalinata la scienza del montaggio ha raggiunto le vette che ha raggiunto... Ad ogni modo, questo montaggio ripropone il rischio a cui già le Histoire(s) si sono felicemente prestate, e cioè che tutto questo accumulo di immagini possa lambire pericolosamente l’informe. E non è un caso. L’informe è assai presente, fin dall’inizio, in Film Socialisme. Fin dalla prima inquadratura: il mare aperto. E poi il vento, che lungo tutta la prima parte è oggetto di una vigorosa amplificazione sonora, con cui si insiste assai sul suo rumore grezzo, indeterminato. Nella seconda parte, il bambino “rivoluzionario” esclama “E quando mi chiederete dell’uguaglianza, io vi parlerò della merda”. L’informe, insomma, è la materia stessa in cui si forma il comune. È la bassissima definizione delle riprese da telefonino o da telecamerina qualunque che imperversano nel primo terzo, e che chiunque potrebbe aver girato. L’informe è quel mare indispensabile a che si dia la mediterranea insularità federativa che sogna Godard. E per questo lo tiene in così grande conto: per lui, “l’origine è la geometria” significa che ad ogni istante si ripropone l’origine, quest’ultima essendo l’abbraccio sempre riproposto tra la geometria e la luce, ovvero il punto in cui la forma si lega all’informe distaccandosene. Ed è questo, ciò a cui assistiamo in ogni piega visuale del cinema di Godard – giusto corrispettivo formale dello sforzo politico di costruire una comunità unitaria grazie alla
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differenziazione. Se quest’ultima costruzione è il gesto originario del nostro orizzonte occidentale, non si può insomma non tener conto del fatto che la cerniera quintessenziale tra la forma e l’informe si chiama “immagine” – o “neve sull’acqua”, come Godard ama definirla. È questo il valore politico dell’immagine, oggi come l’altroieri – un valore che è sempre stato il beau souci del cinema godardiano, ancor più del montaggio. Dialogo sul ponte della nave: Hollywood è la mecca del cinema, perché vi si riuniscono uomini che guardano tutti verso la stessa direzione, che è poi la tomba del profeta (il Mito della fine del Mito). Ma è una mecca in larga misura messa in piedi e fatta prosperare da... ebrei. Che l’immagine, in quanto decisivo punto di scambio tra l’informe, quindi il comune, e la differenza, abbia in sé una decisiva valenza politica, è nientemeno che il programma politico su cui si incentra la seconda parte. Ma conviene arrivarci per gradi, con una sorta di “zoom” che parta dalla struttura complessiva del film. Esso inizia, appunto, con una crociera sul Mediterraneo con passeggeri di età media piuttosto avanzata. “Des choses comme ça”, è il titolo di questo terzo. Il tran tran della ginnastica, delle cene, del karaoke, della discoteca viene inframezzato, fra le altre cose, da una specie di giallo risalente a più di settant’anni prima: quando, durante la guerra di Spagna, venne portato via l’oro della banca nazionale, ma un terzo di esso non si seppe mai che fine fece e quale nazione se lo prese. È insomma l’Europa di oggi: la sua inerzia, la sua impasse – “povera Europa... immagina un deserto”, si dice a un certo punto. Ma anche i fantasmi del passato che si ripropongono. Se il fantasma in questione è la guerra di Spagna, non è un caso: Godard ha passato gli anni Novanta a ripetere che i conflitti nei Balcani ripetevano la medesima impotenza europea nei confronti della Spagna sessant’anni prima – e la decade tutta era in sostanza il ripetersi dei terribili anni Trenta. Oggi che la recessione mondiale ha buttato tutti davvero negli anni Trenta, Godard ritrova nella medesima guerra di Spagna un’epitome lampante della speculazione finanziaria (i soldi che scompaiono nel nulla) per rilanciare l’analogia. È un’Europa, insomma, sospesa e in attesa di una redenzione. Essa arriva nella terza parte (“Nos humanités”), che tesse uno spazio utopico in cui si cuciono insieme Egitto, Grecia, Napoli, Odessa Israele/Palestina, Barcellona, ognuno col proprio irripeti-
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bile contributo culturale (la dissoluzione della forma come forma quintessenziale nel caso della città partenopea; il legame indissolubile tra tragedia e democrazia nel caso di Atene etc.). È il passato e il futuro dell’Europa se mai ne avrà uno: l’unione dell’eterogeneo. Ma come si è arrivati a questa trasfigurazione? Come si è passati dalla stanca crociera della prima parte alla visione utopica del vecchio continente nella terza? Dalla generalità cumulativa e indiscriminata della prima parte si arriva all’Universale utopico della terza solo portando agli estremi la particolarità, come avviene nella seconda. La dispersa accozzaglia allegorica sopra la nave diventa utopica federazione insulare fondata sul montaggio, solo grazie a un tuffo nell’infinitamente piccolo, vale a dire seguendo un caso assolutamente particolare, quello della dismissione di un piccolo garage a conduzione familiare tra le montagne, causa crisi economica. I genitori, stanchi e disorientati, si ritirano nel Midi. I figli, abbondantemente minorenni, si candidano alle elezioni. Vinceranno, come a ribadire che dalla crisi economica si può uscire esclusivamente attraverso la politica. Arriva una troupe televisiva, condannata come al solito a non capire nulla o quasi, a riprendere i fenomeni letteralmente girandogli intorno confusamente anziché a partire dalla statica, olimpica armonia della dispersione che Godard elargisce in ogni inquadratura. Lo dice bene una delle inquadrature più belle del film: una giornalista che prende appunti su un bloc-notes contro a un muro, coperta dall’ombra di una pala eolica in movimento. La cronaca contro la Storia – dove la seconda altro non è che il ripetersi sempre uguale, ciclico, del movimento e della luce, rispetto a cui non ci siamo mossi di un passo dalla necessità “insulare/federativa” che ci ha fatto nascere. E qual è stato il programma che ha fatto vincere i due bambini? Avere vent’anni, avere ragione, e imparare a vedere prima di imparare a leggere. Eccola qui, l’immagine non come strumento politico, ma come politica tout court, come compresenza in atto della forma e dell’informe. Al momento in cui questo capitolo veniva una prima volta redatto (agosto 2012) erano passati due anni e tre mesi dalla prima presentazione del film. Nel frattempo, una nave della Costa Concordia è naufragata a pochi chilometri dall’isola del Giglio. La nave di Film Socialisme era una Costa Concordia che non naufragava; lo
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faceva, invece, l’imbarcazione di Un film parlato, in una delle rare occasioni di divergenza tra le due opere. Poi c’è stata la primavera araba, che ha squassato il Mediterraneo in una misura che ancora non si è in grado di valutare appieno. E la speculazione finanziaria ha iniziato una violenta e interminabile azione offensiva contro i paesi del sud (Spagna, Italia e Grecia in primis), con la sostanziale complicità dei paesi del nord (Germania, Finlandia, Olanda e Austria), ben felici che qualcun altro abbia alti interessi sul debito al posto loro, che possono quindi tenerseli bassi. I secondi, naturalmente, sono quelli che più strenuamente si oppongono a qualsiasi ipotesi effettivamente federativa tra gli stati dell’unione, perché dalle disparità strutturali possano continuare ad arricchirsi, in varie maniere, solo gli stati più ricchi. Il vecchio continente, insomma, si sta spaccando sempre di più in due. È perciò quanto mai significativo che Godard insista, e con argomenti assolutamente convincenti, alla fine del primo decennio degli anni Duemila, che l’Europa vera è quella del sud, per ragioni politiche e culturali prima ancora che economiche. Non male per un autore che i pigri, gli ingenui e i finti smaliziati (questi ultimi, i peggiori) da decenni reputano completamente tagliato fuori dalla realtà.
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Giona A. Nazzaro
ANDARSENE, PER RESTARE NEL MONDO IL CAVALLO DI TORINO (2009) DI BÉLA TARR
[Carmen: Come si chiama quando gli innocenti stanno in un angolo e i colpevoli in un altro? Cameriere: Non lo so, signorina… Carmen: Scoprilo, imbecille! Cameriere: Io non saprei come fare… Carmen: Ma sì, è quando tutti hanno sciupato tutto, quando tutto è perduto ma il giorno si leva e si può almeno respirare… Cameriere: Questa si chiama l’aurora, signorina…] (Prénom Carmen)
“Questa è una mentalità genocida”, mi dice Julio Bressane e traccia una linea nell’aria che nel primo buio della sera sembra come restare lì, sospesa nel vuoto. Come se avesse acquisito una vita propria. “Questo è il cinema”, continua indicandomi la linea appena tracciata. Muovendo il dito intorno, sopra e un po’ a lato di questa linea appena tracciata, aggiunge: “E poi c’è un altro cinema: praticato da pochi. Ma che esiste. Che continua a vivere, con difficoltà. Un cinema sempre meno tollerato e mal sopportato”. Con la mano Bressane sposta le linee nell’aria, le confonde e mi guarda con occhi spalancati. Spostare le linee. Il crimine per eccellenza. E mentre illustra gesticolando il conflitto che ingaggia la linea maggiore con l’altra che gli sta intorno Julio dice: “Una mentalità genocida”. Gli occhi si fanno profondi. “Una mentalità genocida”, ripete. Ripenso quindi a Julio Bressane mentre ritorno alle immagini della fine del mondo secondo Béla Tarr contenute in A torinoi ló, Il cavallo di Torino. Due mondi distanti geograficamente ed este-
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ticamente si saldano in una ripulsa profonda di una pratica che azzera il mondo per rimodellarlo a propria (non)-immagine e somiglianza. Nella casa che Tarr elegge set del suo film, compresi i pochi esterni, il regista mette in scena la fine del suo cinema. Un gesto che si esilia in una casa dopo una corsa a perdifiato di quello che forse è il cavallo per il quale Nietzsche ha invocato il perdono del brutale vetturino che lo percuoteva. Un atto di pietà, dunque, prelude alla ritirata. Nietzsche opponendo il proprio corpo alla furia delle percorse compie l’ultima scelta possibile. Il proprio annullamento come corpo, prima del silenzio. Troppo male offendere il mondo. Poi tace. E Béla Tarr si chiede che fine abbia fatto la creatura che ha beneficiato dell’atto d’amore del filosofo. Ed è uno scarto potente. Il cavallo irrompe con tutta la sua forza nel film trainando un calesse. Sembra allo stremo delle forze, come se dietro di lui il mondo scomparisse mentre lui avanza. Forse è proprio così. Ed è proprio questo venire meno, il cuore dolente del film di Tarr. Si muore e c’è poco altro. Forse resta la renitenza al morire stesso, darsi alla morte consapevoli dell’ineluttabilità del proprio finire ma opponendo a essa sino all’ultimo l’opposizione dei tessuti che rifiutano di cedere al logorio. Resistere al genocidio nonostante tutto? Chissà. E come in Le armonie di Werckmeister, la macchina da presa di Tarr esplora sontuosamente ogni angolo dell’abitazione nella quale sono rifugiati un padre e sua figlia. Contando i giorni che restano prima della fine, officiando sempre il medesimo rito quotidiano. Alzarsi, vestirsi, mangiare, dormire. Mentre fuori imperversa il vento più potente mai ascoltato dai tempi di Sjoström. In questa forbice fra logica genocida e autodistruzione Tarr pone il sigillo di quello che è considerato essere ormai il suo ultimo film. Un film fatto di resti, di rifiuti, nel senso stretto di cose e vite cui è stato rifiutato il diritto all’esistenza. Eppure. Quando si presentano i gitani chiedendo acqua, i due si stringono in un patto d’esclusione contro di essi. La condivisione delle risorse resta un problema, e persino quell’angolo di mondo povero, sul quale aleggia l’alito del cavallo salvato da Nietzsche, non è immune dalla logica dell’esclusione, del potere. Il germe del genocidio. E non è un caso che i due, decidendo di voler andare via, non riescono ad abbandonare se stessi. Ritornano quindi (eternamente?), ad attendere la fine. Questa però ora ha un sapore
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diverso. La logica del genocidio erode tutto e quando si spegne la luce dell’ultima candela non resta altro che il nero. (Ma si sa che il buio è sempre il luogo dell’agguato della luce) Béla Tarr mette in scena un film definitivo. Nel senso che con esso il regista sceglie, a quanto pare, di non procedere oltre nella sua ricerca formale. Un’opera che pone una domanda fondamentale e alla quale lo stesso Tarr fornisce una risposta violentemente negativa. Apparentemente. Abbiamo ancora bisogno del cinema? Serve a qualcosa il cinema? Per Tarr non ci sono dubbi: il cinema non serve più a niente. O meglio: il cinema la cui presenza non è più necessaria è proprio quello che Tarr vorrebbe continuare a fare ma nella cui efficacia politica non crede più. E che comunque non interessa a nessuno di coloro che potrebbero ancora economicamente renderlo possibile. Senza contare quelli che ne dovrebbero scrivere… Il cinema come gesto he racconta qualcosa è giunto alla fine ed è per questo motivo, diametralmente opposto, che Holy Motors ci commuove, perché Carax si muove solo per la bellezza del gesto. Non resta altro. Incurante di quelli che non capiranno. Tarr, invece, conferisce al proprio gesto un tutt’altro valore. Un gesto assoluto e definitivo. Ultimativo. La macchina da presa di Tarr è come se tracciasse gli ultimi perimetri possibili del mondo. Una ricognizione finale, prima del lamento che accoglie il venire meno. E se in Carax c’è del giubilo nell’inventare ancora una volta le maschere infinte del cinema possibile, Tarr compone una sinfonia funebre struggente che assume inevitabilmente i tratti di una sfida. Contro la logica del genocidio e dello sterminio, la potenza di un gesto che si oppone e che produce esattamente quel cinema che continua a provocare differenza, scarto, alterità. Quel cinema inviso e non amato, se non come programmatica dichiarazione di stima, nei cui confronti Bressane correttamente nota le macchinazioni della logica del genocidio. Strategicamente Tarr assume il punto di vista dell’erosione per mettere in scena un film che crea problema. Che non permette di essere consumato. Che quasi ricattatoriamente si pone sotto il segno di una “bellezza” monumentale, come una sorta di sconvolgente versione terrorista del film d’autore da festival. E in quanti sono caduti nel tranello! Felici di cadere nella trappola pur di chiudere la pratica Tarr. Ed è da questo punto terminale che Tarr, ponendo
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fine al suo lavoro di regista, ci lascia in eredità un problema grave. Lui ha fatto i suoi film ma la critica cosa ha fatto per meritarseli? E cosa faremo per farli continuare a vivere? Certo, i film di Béla Tarr hanno conosciuto una vita soddisfacente nei festival internazionali dove la sua presenza era quasi tollerata, come una sorta di dazio da pagare prima di passare alla festa successiva. In Svizzera e in Germania sono persino usciti in qualche cinema. Ma poi? Da molti anni a questa parte, sia a livello del linguaggio che a livello delle politiche culturali, una certa idea di cinema è stata progressivamente messa al bando (basti notare cosa diventati i festival sempre più il regno dell’esistente e sempre meno luogo e laboratorio di nuovo, per quanto contraddittorio). Come in un rigurgito debolissimo di pensiero debole (che però è fortissimo…), si continuano a intonare inni prostrandosi di fronte a qualsiasi cosa che segni un distacco da una pratica filmica aperta, rischiosa. E liberaci dal cinema! Torna il fascino resistibilissimo del film scritto “benissimo” e della “bella fotografia”. A questa ideologia del falso Tarr oppone provocatoriamente un film “girato benissimo” (per riprodurre una formula abusata) che si separa con veemenza dall’ideologia dominante che identifica nel cinema solo un prodotto culturale. Che da prodotto morirà. Il cavallo di Torino, in questo senso, è davvero un film terminale. Perché chiede d’essere cinema. Comunque. Mettendo in luce un conflitto che non offre più via di scampo. E Tarr scende in campo nell’Ungheria di Viktor Orban, dove va in scena un vero e proprio esperimento di eugenetica culturale. Il genocidio come strumento del consenso e di conseguenza creazione di un’altra estetica. Di regime, ovviamente. Quel regime soft fatto di lustrini e gente ricca che ride che tanto piace pure alla sinistra attratta dalle chimere del liberismo finanziario. Offre uno spettacolo inquietante e profondamente malinconico vedere Il cavallo di Torino ergersi fisicamente contro una mutazione politica di tale vastità (perché Tarr quest’aberrazione l’ha vissuta sulla propria pelle in casa sua). E, al contrario, offre uno spettacolo desolante il silenzio disinteressato nel quale questo genocidio si compie. Tutti complici. Così, mentre dalle nostre parti si ciancia a vuoto di cultura e di cinema, in un abbraccio di asfissiante pochezza, Tarr si sottrae alla logica del gioco. Ogni piano-sequenza è un NO! reiterato con con-
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vinzione e disperazione. Come il NO! di Nietzsche che non reggendo la vista del cavallo percorso dal vetturino si lancia al collo dell’animale per interrompere lo scempio. Ed è in questa convinzione di un esserci ultimo che il film di Tarr risplende nerissimo. Si resta sino alla fine anche quando non c’è nient’altro da fare. La logica del genocidio culturale, che a ogni latitudine si declina in forme diverse, trova nel film di Béla Tarr un’esemplificazione che non ammette repliche. Le cose sono così. Oggi, ma anche domani. Occuparsi solo di cinema è collaborazionismo. Considerato che per “loro” il cinema è solo un dettaglio. Radiografare quindi un momento storico e trasfigurarlo nel gesto di un rifiuto. Ecco Il cavallo di Torino. Farlo diventare il segno di una testimonianza. E persino di una solidarietà. Il cavallo di Torino è il cinema della fine del mondo. Occhi spalancati sul mondo. Con la macchina da presa di Béla Tarr traccia sul terreno i segni nel grano dell’ultima resistenza di un cinema che si prepara a scomparire. “C’è sempre stato chi ha voluto far tacere questo cinema”, mi dice Julio. “Ci provano sempre. Non vogliono sentire altre voci” e non si riferiva necessariamente (e solo) agli scherani della destra. Quindi… Nietzsche. 491. Solitudine, anche per questo! A: Così vuoi tornartene nel tuo deserto? – B: Io non sono rapido, io devo aspettarmi – si fa tardi tutte le volte prima che l’acqua sgorghi alla luce, fuori della fontana del mio io, e spesso devo patire una sete più lunga della mia pazienza. Per questo me ne vado nella solitudine – per non bere nelle cisterne di tutti. In mezzo a molti io vivo come molti e non penso con il mio io: dopo qualche tempo mi accade sempre, come se mi si volesse esiliare da me stesso e derubare l’anima – e me la prendo con tutti e temo tutti. Il deserto mi è allora necessario per ridiventare buono1.
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F. Nietzsche, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, Mondadori, Milano, 1971, p. 226
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Alberto Spadafora
IL PUNTO DI FUGA THE TREE OF LIFE (2011) DI TERRENCE MALICK “Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere” Ludwig J. J. Wittgenstein (Tractatus logico-philosophicus)
Nel 1921 il filosofo austriaco – ricorda l’epigrafe introduttiva – palesa la rinuncia, dettata dall’imbarazzo, a considerare ciò che il linguaggio umano non riesce a spiegare. Di contro, Umberto Eco nel 1980 motiva una nuova via da intraprendere: “ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare”1. La narrazione saggistica è invece l’approccio con il quale chi scrive tenta e quindi non rinuncia sia a narrare sia a teorizzare il penultimo Alla 69a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia è stato presentato in concorso To the Wonder (2012) lavoro del regista texano, vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes nella primavera 2011 per decisione di una giuria presieduta da Robert De Niro. L’opinione di chi scrive parafrasando Curzio Maltese, il quale apre la sua recensione da Cannes affermando “L’opinione di chi scrive è che The Tree of Life sia il più straordinario dei film visti in concorso”2, è che The Tree of Life sia un film definitivo. Un’opera che fin dalla prima visione espande il medium cinematografico di significante per invadere con merito il campo di significato più ampio delle arti realizzate dall’intelletto umano. Siccome Malick, al pari di Proust, Vermeer, Antonioni, Horowitz, Nureyev, CartierBresson, Pink Floyd, Zymborska, ha realizzato un’opera che diviene patrimonio artistico del tempo e dello spazio a cui l’uomo appartiene. 1 2
Umberto Eco, Il nome della rosa. Introduzione, Bompiani, Milano, 1980. C. Maltese, The Tree of Life, “La Repubblica”, 18 maggio 2011.
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Ossia – premette il filosofo Emanuele Severino nella sua analisi di The Tree of Life – ci si ritrova di fronte a “un’opera di genio”3. Intervistato il giorno prima di volare a Cannes per la presentazione in anteprima mondiale di Cosmopolis, adattamento di David Cronenberg del suo profetico monumento letterario, alla domanda su quali film abbiano segnato la sua vita, Don DeLillo risponde sorprendentemente: “Il film che ha avuto l’effetto maggiore sulla mia vita è recente: The Tree of Life di Terrence Malick”4. Perché il film di Malick diventa materia di osservazione da parte degli interpreti più eterogenei della realtà culturale? Perché il film di Malick invita al gioco delle parti gli studiosi (di cinema) su cui l’analisi e la post-analisi hanno maggiore presa? Perché il film di Malick diviene esempio sacrale di punto di fuga contemporaneo del mezzo cinema e anticipazione del cinema del domani: “Terrence Malick, come D.W. Griffith, non ha fatto un film per l’oggi. The Tree of Life è il (cinema del) domani. Vederlo oggi, nel nostro tempo, è un privilegio”5? Le risposte risiedono per l’appunto nella volontà di non tacere, siccome le vie percorse dalla narrazione saggistica prospettano – di fronte a The Tree of Life – le riflessioni più ardue, più appassionate, più contraddittorie, più ardite, più stimolanti ma anche più opinabili – perché personali, e tendono alla verifica di “espressioni e sentieri ignoti, anche col rischio concreto di perdersi”6. Le risposte, insomma, nascono dall’assunto che il capolavoro di Malick sia un esempio immaginifico di reinvenzione e di rigenerazione del cinema contemporaneo. La sinossi di The Tree of Life, nei termini specifici di analisi del film, è minima. Come sempre nel cinema di Malick, essa aderisce piuttosto a un pretesto drammaturgico per cui la narrazione vuole divenire teorizzazione. Diversamente dai suoi precedenti lavori, però, una traccia autobiografica si aggiunge qui alla suggestione della regia e al coinvolgimento della scrittura. In The Tree of Life Malick Malick confessa se stesso, uomo dalla biografia sepolta. Il cuore del racconto: “C’è uno splendido film nascosto dentro il 3 4 5 6
E. Severino, Natura e fede secondo Malick: il film come una tragedia greca, “Corriere della Sera”, 30 maggio 2011, p. 36. A. Monda, Il piccolo profeta, “La Repubblica”, 17 maggio 2012, p. 63. G.A. Nazzaro, The Tree of Life. Il film galassia di Terrence Malick, “Micromega Online”, 16 maggio 2011. M. Toscano, Cosmo(a)gonie, “Duellanti”, luglio 2011, p. 1.
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magma di The Tree of Life. È la storia di una famiglia texana nei magnifici anni Cinquanta”7, è la storia di una famiglia medio borghese, gli O’Brien, nel Texas degli anni Cinquanta. Figure genitoriali manichee e tre figli legati tra loro. Verso la madre (la rivelazione preraffaellita Jessica Chastain) una devozione, anche edipica, assoluta. Nei confronti del padre (Brad Pitt, superlativo) invece sentimenti di rabbia, di conflitto e di odio. Dopo gli anni a Waco (paese natio di Malick, non a caso) il trasferimento in un’altra città, la notizia del suicidio di uno dei figli, diciannovenne (Malick stesso ebbe un fratello suicida). Il prologo, al pari di un’ouverture sinfonica, è la creazione del Cosmo e del pianeta Terra, a cui segue la comparsa e poi la scomparsa dei dinosauri. La cornice, al pari di quella di un quadro così come teorizzata da Stoichita8, è l’ampia apnea dei ricordi d’infanzia in cui Sean Penn (uno dei figli, ora adulto, forse il regista stesso) è immerso, circondato dalla geometria della sua solitudine negli anni Zero. L’epilogo, al pari di un ultimo atto teatrale, è l’incontro su una spiaggia, colmo di rimpianti e salvificazioni, di rimorsi e pacificazioni, di lutti rielaborati e accettati, tra tutti i personaggi della finzione. Per concludere con la discesa dell’ascensore sulla strada contemporanea, con un sorriso accennato da Sean Penn verso la macchina da presa. La smisurata quinta opera di Malick ingloba sia la creazione terrestre sia il vagito di un neonato: il regista texano disegna un progetto estetico ed emotivo che spalanca (letteralmente) il cinema verso nuovi punti di fuga, inserendo un racconto privato familiare all’interno di ciò che è appartenenza collettiva: ossia invitando lo spettatore (e il personaggio meta-narrativo, Sean Penn) a riflettere sull’esistere umano, nel suo senso primo ed etico. I miti fondatori della Creazione e della Coscienza si riproducono in un contesto familiare e riflettono genesi e formazione, dolore e bellezza, commozione ed estasi, splendore del pensiero e del linguaggio, violenza dell’incomprensione e della frustrazione, potenza della vita e del lutto (invero morte). I movimenti della macchina da presa di Emmanuel Lubezki sfiorano la sensualità tattile più ardita e ambiziosa, restituendo quadri visivi mai concessi prima. The Tree of 7 8
M. Mancuso, The Tree of Life, “Il Foglio”, 18 maggio 2011. V.I. Stoichita, L’invenzione del quadro. Arte, artefici e artifici nella pittura europea, Il Saggiatore, Milano, 2004.
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Life è un gesto di speranza e di amore, senza confini né limiti, nei confronti del (nostro) mondo. Quello stesso mondo dove una volta il carnivoro risparmiò l’erbivoro... È proprio questa breve ma discussa sequenza (in cui un dinosauro, iniziale aggressore di un altro più debole perché già ferito, solleva gli artigli e lo lascia sopravvivere) a svelare la divergenza più ampia tra Malick e Kubrick: quest’ultimo – complice per capolavori e ambizioni – si serviva di un osso e di una ellissi per alludere (e sostenere) come nel progresso fossero incluse la violenza e la dominazione, laddove Malick contraddice l’istinto della natura per alludere (e sostenere) come alla base dell’evoluzione ci siano la pietà e la misericordia. Ecco dunque Terrence Malick riproporre la teoria delle due forze (opposte e compresenti) che abitano il mondo, la Natura e l’Uomo, già espressa nei precedenti capolavori: “Nei suoi film precedenti, il senso di meraviglia per i misteri della natura, del cosmo e del senso umano erano sempre presenti, ma sullo sfondo. In The Tree Of Life invece prendono il sopravvento sulla storia e il risultato è un credo cinematografico sulla trascendenza spirituale”9. A introdurci il binomio contrastante in The Tree of Life è l’iniziale voice-over della figura materna la quale, con il fraseggio tipico con cui Malick contrappunta il suo cinema, esplica allo spettatore la semplicità della tesi. Eppure l’opera di Malick è dolorosa (probabilmente per questo “aperta a fragorosi rifiuti”10 da parte dello spettatore critico). Per evidenziare la traiettoria Malick regala alla storia del cinema la materia incandescente e insondabile della cosmogonia: senza remore, Terrence Malick affianca Stanley Kubrick: l’origine della vita, al cinema, è ora datata 2011 e non solo più 2001. La rappresentazione audiovisiva dell’esistenza umana vive con The Tree of Life una rivoluzione biologica. Malick ne mostra l’origine e l’evoluzione, tessendo tra loro -in un intreccio sublime dalle proporzioni inaudite- formazione del Cosmo e gravidanza umana, meteorite sulla Terra e suicidio umano. La legatura che egli compone non è per nulla esente dalla sofferenza, dal trauma, dal lutto, dal rimpianto, anzi. Il tormento del ricordo in Sean Penn. Il tormento della perdita in Jessica Chastain, distrutta dal suicidio del figlio e a cui non bastano i conforti espressi dalla madre (Fiona Shaw, un 9 10
M. Adams, The Tree of Life, “Screen Daily”, 16 maggio 2011. S. Danese, The Tree of Life, “La Nazione”, 18 maggio 2011.
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cammeo eccelso). Il tormento del fallimento personale e professionale in Brad Pitt, padre spezzato dai rimorsi e lavoratore licenziato. Il tormento matrimoniale nei due che si scontrano e si aggrediscono fisicamente, in cucina, mentre smarriscono nel tempo qualsiasi complicità sentimentale. Tormenti per l’animo umano che sul pianeta Terra non trova pace per via dei contrasti e delle influenze divergenti che la famiglia genera e modella nelle relazioni interpersonali. Adler, insomma, psichiatra e psicanalista viennese di rottura dal collega Freud. Laddove invece avevamo Emerson, filosofo naturalista statunitense, all’origine della suggestione in La sottile linea rossa. Per la prima volta nella sua carriera Malick filma la contemporaneità, o meglio lo spazio scenico contemporaneo: il regista introduce il racconto con protagonista Sean Penn ritmando immagini metropolitane, veloci, rischiarate solo dai neon e dalle luci urbane notturne. Tali immagini irrompono come uno shock visivo nella filmografia di un autore da sempre rivolto a contesti narrativi passati – il South Dakota e il Montana nel 1959 (La rabbia giovane), Chicago e il Texas nel 1916 (I giorni del cielo), l’isola di Guadalcanal nel 1942 (La sottile linea rossa), la Virginia nel 1607 (The New World). Ora l’impianto scenografico ideato dal collaboratore Jack Fisk regala allo spettatore visioni iperrealistiche di interni di loft, di abbaglianti edifici stagliati contro il cielo, di nevrotici corridoi di uffici, di scorci maestosi riflessi sulle vetrate, di algide piazze finanziarie e di spigoli architettonici di acciaio. Lo spazio scenico contemporaneo è allestito come fosse un acquario, in cui l’adulto trattiene il respiro e non misura l’apnea. L’ambizione di Malick – unica nel panorama contemporaneo – è quella di narrare per teorizzare, di applicare la base grammaticale filmica per formulare una prosa e un linguaggio cinematografico nuovi. Egli formula un disconoscimento, senza alcun intento polemico o programmatico o provocatorio, nei confronti della cinematografia riconosciuta. Bensì, per rispondere unicamente a una sfida prima etica e poi artistica che intraprendere con se stesso. Come se il regista texano fosse alla ricerca (conclusa) di un definitivo posizionamento dell’artista e dell’artigiano implicati nella produzione di arte. Gli sforzi, va detto, demiurgici che Malick compie nella realizzazione di The Tree of Life sono sovrumani, inarrestabili, epici, eroici.
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Se per narrazione, ossia l’insieme degli stili e delle soluzioni audiovisive scelte, intendiamo ciò che astrae il film dalla sinossi e lo rende non solo prodotto narrativo ma anche e soprattutto modalità autoriale, allora la narrazione malickiana approda con The Tree of Life alla definitiva teorizzazione. La rivoluzione biologica apportata qui da Malick ha il suo manifesto nell’articolazione libera del montaggio – lo specifico filmico che insieme al primo piano compone la grammatica cinematografica. A partire dalla scansione temporale delle sequenze (per non dire della singole scene), il regno della reinvenzione cinematografica in The Tree of Life passa attraverso il montaggio. L’artificio tecnico adottato da Malick – e dai suoi collaboratori Hank Corwin, Jay Rabinowitz, Daniel Rezende, Billy Weber, Mark Yoshikawa – porta a una disgregazione definitiva della scatola narratologica. Ancor più che con la fluidità della sua macchina da presa, è con la sintassi del montaggio che Malick raggiunge l’astrazione del suo stesso stile. La (non) consequenzialità delle sequenze (in orizzontale) e delle immagini (in verticale) perde definitivamente qualunque prevenzione classica Jim Clark, montatore britannico, ha sempre celebrato la natura del montaggio classico in quanto invisibile agli occhi dello spettatore. Il montaggio ora è visibile, dichiarato, sfrontato, ostentato, e frammenta il tessuto originario in una vertigine, per cui la spirale – forma che ricorre più volte nel film – diviene segno distintivo di tutta l’architettura filmica e non solo scenografica. Le immagini, soprattutto nei primi sorprendenti venti minuti, alternano paesaggi e dettagli umani, volti del passato e visi contemporanei, abitazioni d’un tempo e spazi attuali, mentre le età biografiche dei personaggi si mescolano e si inseguono. Un montaggio che procede per aggregazione e non per segmentazione, e svela l’impressione ancor prima dell’espressione: l’accorgimento tecnico non è ideato a favore della narrazione ma, viceversa, è esso stesso una trama della narrazione. Attraverso il montaggio Malick dichiara l’ambizione sottesa all’astrazione. Dal Festival dove viene presentato in anteprima mondiale, Alberto Barbera saluta The Tree of Life come forse pochi altri hanno saputo fare meglio: Il sipario di Cannes si alza sul film maggiormente atteso degli ultimi anni, svelando una delle opere più ambiziose concepite in oltre cen-
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to anni di storia del cinema. L’oggetto misterioso prende forma sotto i nostri occhi attoniti e impreparati, si direbbe persino inadeguati (a giudicare dalle reazioni istericamente negative di una parte del pubblico presente in sala). Un grumo di emozioni intense e suggestioni visive inedite che nessuna prosa verbale può sperare, neppur lontanamente, di evocare. Malick si spinge in territori formalmente inesplorati per interrogarsi sul senso stesso della vita, il mistero della sua creazione e quello (se possibile) ancora più grande della sua fine. Poetico e sperimentale, mistico e realistico, epico e intimistico: The Tree of Life sfida ogni convenzione, fa piazza pulita di tutti gli stereotipi narrativi, prescinde dalle logica di causa ed effetto alle quali la prosa cinematografica ci ha da sempre abituati. Le consuete tensioni che condizionano la vita di una comunità familiare sono messe in relazione con la genesi stessa dell’universo, le dinamiche psicologiche scatenate dalla morte di un figlio evocano i fenomeni che segnano l’evoluzione magmatica del cosmo, i conflitti umani acquistano una profondità sconvolgente nella prospettiva della primordiale contrapposizione fra innocenza e violenza, natura e spirito, realtà bruta e bellezza trascendente. Non credevamo più possibile ritrovare al cinema (dove ogni storia sembrava già essere stata raccontata, e ogni immagine mostrata), la verginità di uno sguardo capace di reinventare la banalità di un gesto quotidiano, arricchendolo di profondità insondabili. I temi di Malick sono gli stessi sui quali si sono interrogati da sempre i filosofi: il silenzio di Dio e l’indifferenza della natura, la tentazione innata del male e l’alternativa impervia della grazia, l’immensa forza dell’amore e l’infinito rovello dei sensi di colpa. E, alla fine, il mistero indecifrabile della morte che, sola, può dare un senso alla vita. Si può non condividere il misticismo di Malick e opporre resistenza alla sua concezione fideistica dell’universo. Ma non si può rimanere indifferenti di fronte allo splendore visivo e alla intensità emotiva di un film che si spinge là dove pochissimi sinora avevano osato avventurarsi11.
L’approccio a un film di Malick non può dirsi completo se non prende in esame anche le scelte musicali che il regista compie. Insieme alla partiture originali composte appositamente da Alexandre Desplat, Malick crea con The Tree of Life “un film filosofi11
A. Barbera, The Tree of Life, “Cinematografo.it” (“La Rivista del Cinematografo – Fondazione Ente per lo Spettacolo”), 16 maggio 2011. Il corsivo è mio.
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camente stereofonico”12. Laddove vi erano Fauré (In Paradisum da “Requiem Op. 48”) in La sottile linea rossa (1998), Wagner (Preludio da “L’anello del Nibelungo. L’oro del Reno”) e Mozart (“Concerto per pianoforte No. 23”) in The New World (2005), Camille SaintSaëns (Acquario da “Il carnevale degli animali”) in I giorni del cielo (1978), vi sono ora Mahler (Primavera senza fine da “Sinfonia No. 1 in Re maggiore”) e Smetana (La Moldava da “La mia patria”) e Berlioz (Agnus Dei da “Requiem Op. 5”) e Respighi (Siciliana da “Antiche arie e danze per liuto. Terza suite”) e Brahms (Andante moderato da “Sinfonia No. 4 in Mi minore, Op. 98”) e Schumann (Allegro affettuoso da “Concerto per pianoforte in La minore, Op. 54”) e Bach (Preludio e fuga a 3 voci in Do minore da “Il clavicembalo ben temperato. Primo libro”). Eppure, nello sterminato spartito polifonico con cui Malick avvolge il suo quinto film13, in The Tree of Life la scelta più suggestiva è quella associata alla parentesi cosmogonica. Come commento sonoro alla sequenza della creazione dell’universo il regista texano utilizza il brano Lacrimosa, estratto dal Requiem for My Friend che, alla prematura scomparsa di Krzysztof Kieślowski, lo storico collaboratore Zbigniew Preisner conclude e dirige nel 1994 in occasione della messa funebre del regista polacco. L’etica laica proposta da Kieślowski rivive grazie al riconoscimento definitivo da parte di Malick: Lacrimosa, per coro e orchestra, restituisce il processo di creazione e formazione e distruzione, quindi di vita e di morte indissolubilmente intrecciate. Un processo laico, dove è assente alcuna interferenza di credo perché è ancora assente prima di tutto l’uomo. Infatti, in tutto ciò, il Big Bang è restituito da Malick in maniera silenziosa, distante, con pudore, come un tuono lontano e sordo. “Non udiamo nessun boato dell’esplosione. Come a dire: non vi fu alcun fragore in quegli istanti, perché nessun uomo era lì ad ascoltare”14. Nel film, la porta della memoria si spalanca silenziosa e subacquea mentre la porta del peregrinare si apre silenziosa sul desertico terreno assolato Floria Sigismondi cita esplicitamente la porta messa in scena da Malick – affidando all’attraversamento di essa il 12 13 14
S. Danese, The Tree of Life, “La Nazione”, 18 maggio 2011. Cfr. F. Vittorini, Voci dissolte, “Duellanti” n. 71, luglio 2011, p. 22. L. Barnabé, Il quinto elemento, “Duellanti” n. 71, luglio 2011, p. 21.
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ricongiungimento di due solitudini erranti (John Hawkes ed Elle Fanning) – nel cortometraggio Leaning Towards Solace (novembre 2012) inserito all’interno del progetto Valtari Mystery Film Experiment dei Sigur Rós. I due elementi della Natura, acqua e terra, vanno a convergere nella lunga sequenza conclusiva che li descrive più felicemente: un lembo di terra battuto dal mare. L’attraversamento delle porte annulla le distanze temporali e avvicina i personaggi: nel sollievo dalla convivenza con il senso di colpa rivolto al passato, il futuro ha ora la matrice di una catarsi che si apre tra acqua e terra. Non a caso – sebbene sprovvista di reale senso narratologico – l’ultima inquadratura del film, a camera fissa, ritrae un ponte, collegamento di acciaio e granito “Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della terra? (Giobbe 38; 4,7)” si legge nell’epigrafe di apertura in The Tree of Life tra terre separate dall’acqua. Intanto, il punto di fuga – il ponte di collegamento – verso l’evoluzione cinematografica mostra di fondarsi sull’ambizione, sia artistica (dell’opera) sia meta-artistica (della saggistica sull’opera), sconfiggendo così in entrambi i casi lo scetticismo wittgensteiniano. Un’ambizione necessaria. Appunta Stéphane Delorme, redattore capo di “Cahiers du cinéma”, nel suo editoriale dedicato all’événement malickiano di The Tree of Life : “������������������ ������������������� Ne devrait pas occulter ce qu’il invente ici, sur la manière rarissime de faire un film, de le penser, de le tourner, de le monter, et sur son ambition mystique d’inventer un autre cinéma”15. Il cinema contemporaneo ha bisogno di ambizione. Il cinema contemporaneo ha bisogno dell’ambizione malickiana.
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S. Delorme, Mystique de la mise en scène, “Cahiers du cinéma” n. 668, giugno 2011, p. 5. Il corsivo è mio.
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Marzia Gandolfi
IL CINEMA COME GUARIGIONE LA GUERRA È DICHIARATA (2011) DI VALÉRIE DONZELLI È molto probabile che se ti chiami Giulietta e ti innamori di Romeo, prima o poi un dramma segnerà la tua vita. E così accade a Giulietta e Romeo, giovani, belli e innamorati a Parigi e tra le lenzuola, dove incarnano il loro amore e concepiscono Adam. In quella fase di felicità piena e sfacciata in cui ti coglie la vertigine dell’immortalità e di un’eterna primavera, il destino si abbatte improvviso come l’inverno, che Valérie Donzelli interpreta col movimento omonimo di Antonio Vivaldi. Dentro il suo film più bello, che trasfigura un dolore autobiografico, la regista francese racconta la malattia che ha colpito il suo bambino e lo ha costretto cinque anni a soffrire e lottare per un’alba che non diventasse subito sera. Giulietta e Romeo sono allora il doppio finzionale di Valérie Donzelli e Jérémie Elkaïm che si mettono in scena e a nudo come coppia e come genitori, proiettando letteralmente sullo schermo i propri fantasmi. Fantasmi sconfitti eppure incalzanti che chiedevano un palcoscenico e una catarsi. Risvegliati da un sonno greve hanno riattualizzato il dolore e (ri)dato forma al loro peggiore incubo, chiamandosi di nuovo alle armi e alla guerra. Perché ad Adam viene diagnosticato a diciotto mesi un cancro e una sorte infausta. Allora Valérie/Giulietta torna a Marsiglia, a l’Hôpital de la Timone, ad ascoltare ancora una volta la terribile sentenza e a duplicare l’incredibile avventura umana che l’ha condotta fino a La guerra è dichiarata, una commedia drammatica e pop, incredibilmente piena di ritmo, musica e colori. Un film etico e ‘ferocemente personale’ che trasforma la maledizione in elezione, è per superare tutto questo che Giulietta e Romeo si sono incontrati, che rifiuta la suspense, aprendosi sugli otto anni di Adam e su una malattia neoplastica evidentemente sconfitta nonostante la prognosi sfavorevole. La disperazione si trasforma in fantasia e si libera in un film libero e magnificamente
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(e fermamente) sbilanciato dalla parte della vita. La guerra è dichiarata mette in immagini il diario tenuto per cinque anni (dal 2003 al 2008) da una madre e da un padre, da una donna e da un uomo, registrando le campagne di una guerra insostenibile ma sostenuta: la diagnosi, l’intervento, la cura, i progressi, le battute d’arresto, i vicoli ciechi, i colpi inferti e i miracoli insperati. Quelle delicate operazioni strategiche si raccontano e si svolgono adesso sullo schermo, arruolando lo spettatore che guarda agire, correre, sbattere, cadere, rialzarsi, svenire, tornare in sé, danzare e cantare i due protagonisti, figure archetipali, reminder dell’inestricabile e impenetrabile binarietà della cifra di realtà biologica e di realtà fittizia. Presentati da una voce off come persone normali, col loro carattere familiare e sociale, con i loro problemi di soldi o di notti insonni tiranneggiate da un neonato, Giulietta e Romeo portano un nome classico e shakespeariano, che indica da parte della regista la volontà di trascendere l’aneddoto e di muoversi verso l’universale. Genitori del primo uomo (Adam), affrontano la guerra col sorriso e con sentimento anelante, appena alterato dalla carezza della morte che li incrocia nelle corsie, avvincendo non solo chi è padre o madre ma tutti quelli che amano. La guerra è dichiarata è un film d’amore e un film sull’amore dove la malattia è soltanto criterio di valutazione del sentimento. Sentimento che supera la prova e ‘guarisce’ un bambino, sentimento che separa la coppia sullo schermo come nella vita, sentimento che la ritrova nella scrittura (Jérémie Elkaïm è anche co-sceneggiatore), ridimensionando lo sbandamento di un dolore attraversato, partecipato e poi testimoniato. Perché la scrittura offre una risorsa ineguagliabile in ogni contingenza, stimola i bisogni di apprendimento e consente la rivisitazione introspettiva di emozioni, concetti, immagini del reale ad essa riconducibili e con essa esprimibili. Comporre il loro disagio (estremo) li ricompone, li cura, li tiene di nuovo insieme, ripatteggiando, ricucendo e riconciliandoli con il presente. Come a François Truffaut nel cinema e a Emmanuel Carrère in letteratura, a Valérie Donzelli riesce magnificamente il trasferimento della vita e delle sue ferite sulla ‘pagina’. Come loro risceneggia e riconsegna ad altro linguaggio la propria traiettoria esistenziale, rendendola punto di riferimento memorialistico prezioso. La guerra è dichiarata trasforma i fatti in ‘arte-fatti’, assume il valore di una vera e propria testimonianza andando oltre la tra-
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scrizione semplice e immediata delle vicissitudini biografiche, che d’altra parte alimentano da sempre la produzione artistica della regista. Il magma lavico dell’esperienza patita dalla Donzelli attraversa l’imbuto stretto del linguaggio, elevandosi dalla condizione di materiale grezzo e privatissimo e trovando una nuova organizzazione testuale. Il suo vissuto profondo sperimenta la mediazione calcolata del linguaggio cinematografico, la forma e l’attività di sublimazione in grado di trasformare la dimensione informe del proprio dolore nel miracolo dell’opera. L’efficacia razionale ed emotiva di cui può disporre il cinema le permette allora di rielaborare le conoscenze, di orientare il pensiero autobiografico prescindendo le derive intimistiche, ridischiudendola alla vita e svelando al mondo la sua solitaria ricerca. Sfidando la tentazione di tacere, la scrittura autobiografica e cinematografica della Donzelli rivela un potere lenitivo e ricostituente, rendendosi interprete della sua storia e riconnettendola alle narrazioni e alle memorie collettive. Concentrando in poco meno di due ore cinque anni di vita, La guerra è dichiarata ha saputo trasfigurare l’esperienza passionale più privata in un film che attribuisce a quell’esperienza singolare un valore universale, generando orientamenti di rilievo e di partecipazione. Al punto che le note più intime della biografia eludono qualsiasi schema narcisistico, scoraggiando nei fruitori fantasmi voyeuristici. Armata di una Canon EOS 5D e ‘illuminata’ dalla luce naturale, la Donzelli avanza febbrilmente dentro la malattia e attraverso personaggi frenetici che corrono sempre contro il tempo e contro il cancro, ingrandito e minaccioso sullo schermo. Come le cellule impazzite, i protagonisti invadono il campo e intraprendono la corsa, grande motivo del film, inciampando in ellissi, pause, esplosioni di rabbia, dialoghi cantati, rimbalzi e cedimenti. Il dolore puro così difficile da raccontare respira (e si respira) a pieni polmoni in un’opera veloce e resistente che trasforma la tragedia in coreografia nobilitante e spiazzante, armonizzando con la musica le immagini e le lacrime. Lontana da una formazione tradizionale, fieramente indipendente ed emancipata dagli oneri dell’industria cinematografica, la Donzelli gira un film esuberante con una libertà formale, un senso del ritmo, una musicalità della ‘prosa’, una freschezza e una vivacità senza pari, che mantengono il cinema in uno stato di giovinezza permanente. Cinema, il suo, in cui confluiscono e persistono sen-
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za mai cercare l’ammiccamento del riferimento le proprie passioni cinematografiche: i colori vivaci, le canzoni, il gusto del meraviglioso e la disponibilità a trattare con leggerezza argomenti seri di Jacques Demy, l’urgenza di riprendere e l’inseguimento dei personaggi di Jean-Luc Godard, la voce over, la miscela di autobiografia e finzione e il desiderio di mettere in scena personaggi ordinari in modo straordinario di François Truffaut. Campionando brani di memoria cinematografica, la Donzelli edifica la sua commedia su questi mattoni, che le servono poi per congegnare al meglio l’idea e partecipare dinamicamente a un patrimonio cinematografico, impiegandolo, riadattandolo, trasformandolo. Erede orgoglioso della Nouvelle Vague, col suo look casual e una regia che è firma di stile e di pensiero, La guerra è dichiarata si dà come rifrazione, come riflesso tanto degli amori cine-letterari della regista quanto delle sue vicende biografiche. E ancora dà enfasi a veloci movimenti di (foto)camera a seguire le relazioni tra personaggi e ambienti, ignorando le pause e interrogando come nessun altro la vertigine, la paura, la sofferenza, lo spasimo. I protagonisti si spendono, si muovono, si sbracciano e si abbracciano per restituire benessere e salvezza al loro bambino, fino a perdere i sensi in una delle sequenze più forti e permanenti. Il collasso di Giulietta in ospedale, dopo una corsa impazzita sulla musica elettronica di Yuksek che la sbatte contro le pareti e poi la rimbalza, nasconde il dramma di un fiato azzerato e interpreta un dolore ingovernabile in attesa della risonanza che determinerà il futuro del proprio figlio. Il venir meno della protagonista, atto concretissimo e insieme astratto, ha un significato esplosivo e trasmette un’idea di tenacia perché dietro l’apparenza della resa, il mancamento di Giulietta rivela un piano e una volontà di rivincita. Informata al risveglio del tumore del figlio, la protagonista è pronta ad affrontarne l’urto e la violenza, lasciando spazio alla verbalizzazione dei sentimenti. Risoluta e mai rassegnata teorizza e poi mette in pratica la ripresa, che contempla la fuga come evasione e mai come soluzione. La crisi della presenza, che rende più vulnerabile la propria essenza, è superata allora con l’amore, luogo unico e ideale dove porre una speranza di riscatto. Non c’è traccia di compiacimento o di compatimento per se stessi ne La guerra è dichiarata, c’è invece una precisione e un’onestà che lasciano ammirati e arricchiti, c’è ancora un’osservazione
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lucida che non disegna una teoria del dolore ma ne osserva l’evolversi, passo dopo passo. La Donzelli ha compreso che l’afflizione non è uno stato ma un processo che ha bisogno di una storia per dirsi mentre i giorni passano e ogni giorno quello che sembrava assoluto si trasforma, registrando novità o ritorni parziali, perché la sequenza non si ripete mai uguale. Ogni mattina per Giulietta e Romeo il paesaggio è nuovo, la sorpresa di segno opposto e il dolore troppo forte per permettere loro di farla franca con champagne e flûte apparsi per incanto come in un film di Demy. Eppure anche nei momenti peggiori della malattia, il dolore non impedisce loro la gioia, ed è incredibile quanta felicità e persino allegria esprima il film della Donzelli, felicità e allegria che Valérie e Jérémie hanno conosciuto insieme nutrendosi l’uno con l’altra nei luoghi in cui il dramma si consumava e in cui tornano otto anni dopo come attori e autori. Senza svilire mai la fatica del dolore, senza resistere alle emozioni, i due artisti ribadiscono l’importanza della parola e della scrittura come essenziale mezzo di comunicazione, forza espressiva, lenitiva e creatrice che (ri)mette le mani e risana lo scarto di essere stati sottoposti alla più crudele delle esperienze. Un’esperienza che ha strappato il figlio dal nucleo familiare, lasciandoli soli, isolati e incapaci alla fine di rivivere la propria vita com’era prima. Separati ma saldi nel sentimento, Valérie Donzelli e Jérémie Elkaïm giorno dopo giorno e film dopo film non smettono comunque di dichiararsi il loro amore portando con sé e in libera associazione i loro ricordi, firmando con Main dans la main un altro mélo coniugale, che (ri)frequenta il loro tempo coniugale. Mai finito e sempre risonante di echi e di rime. La guerra è dichiarata è piena di quell’amore e di quell’esperienza estrema di amore a cui dà forma facendosi mezzo terapeutico che recupera e cresce. Riappropriandosi materialmente e simbolicamente del loro vissuto, il cinema interviene in aiuto della coppia artistica, incrementandone la consapevolezza e riaffermando la vita. Perché il processo creativo produce benessere, attiva risorse impensate, elabora, educa e trasmette creativamente agli altri, porta fuori, porta alla luce, trasformato, compreso. La guerra è dichiarata è manifestazione autentica di un sentire profondo e come tale di valore inestimabile. Le immagini incalzanti di musica e sature di colori primari, di narrazione off e di utilizzo diegetico delle canzoni, si alimentano al serbatoio di
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pulsioni e di dati esperienziali singolari che l’artista ha portato a coscienza e che adesso offre a una nuova analisi. La guerra è dichiarata emerge il vissuto complessuale e lo porta a evoluzione e nella direzione del cambiamento dopo un adattamento strategico che ha fatto fronte alla malattia e al senso di morte incombente. Il film diventa finestra dell’inconscio sommerso che rende visibile, tangibile, esprimibile, attribuendo un senso a esperienze interiori altrimenti irraggiungibili. Tre volte vulnerabile all’incontro col reale, come donna, come madre, come artista, Valérie Donzelli realizza un’opera che la rimette al mondo e la fa sentire ancora al mondo, intervenendo in esso, affrontandolo, dando voce a un io autobiografico ferito e ammutolito che ricomincia a vivere nel momento in cui diventa frase, periodo, immagine e sequenza fornita di senso. La scrittura del film presiede alla riparazione di quanto si è frantumato, oltrepassando la propria fattualità e instaurando un altro ordine della memoria. Disponendo su carta ‘sensibile’ la scrittura autobiografica e organizzando in una commedia drammatica le tracce significative di problematiche (ir)risolte, La guerra è dichiarata è una fotografia scattata tempo dopo il dolore senza la quale probabilmente Valérie e Jérémie non potrebbero riconoscersi e ripartire. Articolazione preziosa che svolge retrospettivamente il passato, La guerra è dichiarata riforma e ricompone quello che probabilmente si voleva dimenticare e a cui adesso lo schermo conferisce il distacco necessario a superarlo, nella volontà matura di non cancellarlo e di portarlo con sé per sempre. Non più nascosto dentro di sé ma esposto e in evidenza come quel rossetto rosso e lucido applicato alle labbra di Valérie, aperte in un grido di resistenza capace di aggregare e nobilitare la più solitaria ricerca di senso dentro una (bella) storia d’amore salvata dalla scrittura e ‘cantata’ a voce spiegata. Il cinema sgrava la regista da pesi altrimenti non attenuabili liberandola fin dall’affiche, che ‘grida’ letteralmente la volontà di restare nel flusso della vita, nella sua circolarità (im)perfetta, nella ruota luminescente di un luna park, in un ipercinetismo mirante al raggiungimento di uno scopo specifico: la sconfitta della malattia. Valérie riaffonda con la penna prima e una fotocamera digitale dopo nella materia prima, nel vissuto che nessun altro può vivere al posto suo ma che ha un’immediata ricaduta sullo spettatore per cui diventa afferrabile e partecipato.
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A renderci empatici fino alla commozione, inarrestabile e inevitabile, è l’eccitazione creativa, l’urgenza e il senso di sollievo che avvertiamo fotogramma dopo fotogramma fino al frame stop davanti al mare, che omaggia il fanciullo di Truffaut e conclude la sua grande fuga. Su una spiaggia deserta riepiloga e termina pure la Donzelli la sua corsa a perdifiato volgendo lo sguardo al mare e le spalle alla macchina da presa, per custodire un oltre che appartiene solo loro. Una gara di velocità e di lunga distanza La guerra è dichiarata ha la gravezza di un patimento fisico (e morale) e la leggerezza della scorreria al Louvre dei dreamers di Godard.
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Alessandro Stellino
SE QUESTO È UN FILM THIS IS NOT A FILM (2011) DI JAFAR PANAHI Il contesto è noto: costretto agli arresti domiciliari e condannato a non girare film per un ventennio, il cineasta iraniano Jafar Panahi convoca l’amico e collega documentarista Mojtaba Mirtahmasb affinché lo riprenda mentre illustra la sceneggiatura a cui stava lavorando prima del divieto. “Non posso girare film ma nessuno mi impedisce di leggere una sceneggiatura e fare l’attore”, dice il regista. La maniera in cui il film è arrivato al Festival di Cannes, dove ha avuto la sua prima internazionale, è ugualmente nota: spedito fuori dall’Iran in una chiavetta USB nascosta in una torta. Forse non è andata proprio così, ma poco importa: si stampi comunque la leggenda. This Is Not a Film contiene già nel titolo tutte le informazioni necessarie a decrittarne la forma. “Questo non è un film” è la dichiarazione che dovrebbe tenere il regista al riparo dall’accusa di contravvenire al divieto imposto; “Is This Not a Film?” è invece l’implicito quesito esposto per mezzo di una realizzazione che mette in discussione altre contravvenzioni: quelle proprie della messa in scena. In un momento di radicale trasformazione del mezzo cinema e del suo linguaggio, This Is Not a Film è l’indagine consapevole di un momento d’arresto ma anche la testimonianza in prima persona dell’irriducibilità al buio o al silenzio dell’immagine e della parola. L’atto di resistenza compiuto dal regista è un atto di resistenza del filmabile: filmare è agire, e in’ultima analisi, la manifestazione dell’insopprimibile necessità del cinema. Non sono pochi i film che, negli ultimi anni, hanno esplicitato tale statuto ontologico. Per stare al 2011, impossibile non citare Cut di Amir Naderi e Arirang di Kim Ki-duk, due elaborazioni diverse figlie di una medesima urgenza. La morte del cinema è un’ombra perenne gettata su un futuro sempre più incerto; la morte dell’autore uno spettro che da tempo tormenta registi e critici. Di fronte alla temuta paralisi, al senso di precipizio, all’imminenza della
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scomparsa, l’autore immola il proprio corpo in maniera sacrificale, si denuda, si fa pestare a sangue, piange, urla, punta la macchina da presa alle tempie. E il cinema si fa esso stesso precipizio improvviso, scomparsa di sé e superamento della paralisi attraverso l’ibridazione delle forme, la mescolanza di realtà e finzione, la discesa in campo del regista che, esibendola, riafferma la propria corporeità. Si tratta, inevitabilmente, di un cinema dell’ambiguità. Arirang è davvero un film sull’impasse creativa di un regista che sente di non aver più niente di nuovo da dire o piuttosto la subdola messa in scena di una finta crisi, drammaturgia mascherata da confessione? Un amo avvelenato offerto in pasto a critici che vedono nell’estetica del fallimento l’ultima spiaggia (dorata) di una teoria dell’autore sempre più difficile da sostenere? Comunque si intenda leggerlo, il film del regista coreano non fa altro che riproporre il dilemma al centro del cinema diretto, spostandone l’asse d’analisi. In Arirang non c’è niente che non avesse già detto Jim McBride più di quarant’anni prima con David Holzman’s Diary nel 1967. L’eccezionale finale del film, con il finto regista – alter ego di quello reale – che sbraita di fronte alla macchina da presa in una stanza che oggi saprebbe di confessionale, ammettendo con rabbia l’impossibilità di servirsi del cinema per comprendere il mondo circostante e il proprio ruolo in esso, stroncava sul nascere le pretese di una forma cinematografica sorta solo qualche anno prima. Ma se Kit Carson, in preda ai suoi furori, poteva estrarre dal caricatore la pellicola e farla a brandelli, gettando discredito su Godard e la sua “verità 24 fotogrammi al secondo”, oggi che quella striscia di celluloide si è dissolta in una miriade di pixel, accartocciata e incenerita come nella Strada a doppia corsia di Monte Hellman, la questione non riguarda più il reale e l’etica della sua rappresentazione ma la relazione tra autore e spettatore, l’esistenza del primo messa in discussione dalla sparizione del secondo. Il futuro non è scritto Non più e non solo “Cos’è il cinema?” dunque ma, prima ancora, “Dov’è il cinema?” e “Per chi è il cinema?”. Impossibile parlare di cinema, oggi, senza indagarne i luoghi di visione e le modalità di
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fruizione. Limitarsi all’analisi del film non fa altro che mettere in evidenza l’obsolescenza di strumenti critici inadeguati a decifrare le trasformazioni in atto. Fino a poco tempo fa era chiaro a tutti cosa fosse un autore e si discuteva del chi lo fosse o meno. La questione era in realtà di poco conto, pronta ad essere spazzata via da faccende ben più rilevanti. “Qual è lo spettatore?” è la domanda da cui partire per formulare un’ipotesi sul futuro del cinema. La netta percezione da parte della critica di un’interruzione del dialogo con il lettore fa il paio con la dissoluzione dello spettatore che diserta la sala cinematografica e intraprende una nuova relazione con l’oggetto filmico, modificandone lo statuto. Non è più il film a dettare tempi e modi di fruizione, inchiodando lo spettatore allo schienale della poltrona, ma lo spettatore a ridurre il film in proprio potere, modificandone velocità di scorrimento, interrompendone a piacere l’andamento, negandogli attenzione ad ogni sollecitazione esterna. Non siamo più gli stessi esseri umani di 50 anni fa, le nostre abitudini sono radicalmente cambiate, così come il nostro essere sociali, e non si vede perché il film debba rimanere lo stesso se tutto il resto si trasforma. Ciò che è cominciato con l’avvento della televisione, con la diffusione delle videocassette prima e dei dvd dopo, ha preso ulteriore slancio con la comparsa di internet, il capillare propagarsi della banda larga e l’immediata disponibilità dei film sullo schermo del computer grazie ai forum di condivisione, ai torrent e al direct download. Parlare di cinema senza affrontare le conseguenze di questa deflagrazione significa chiudere gli occhi per paura di ciò che si potrebbe vedere e invece mai come adesso si ha bisogno di tenerli spalancati per osservare la mutazione in corso e testimoniare di una pelle che cambia. Vedere film è molto più semplice oggi di quanto lo fosse anche solo cinque anni fa: solo i nostalgici e gli snob possono rammaricarsi del fatto che (quasi) tutti i film di Garrel siano disponibili su Youtube. La qualità dei film non è migliore delle copie che circolavano prima, né peggiore, cambia solo la modalità di scoperta: un tempo si vedeva J’entends plus la guitare su Fuori Orario o se ne leggeva sulle pagine di qualche rivista, oggi lo si recupera grazie a un link su Facebook. Detto questo, Garrel interessa comunque a pochi, nulla è davvero cambiato. La disponibilità dei suoi film non lo rende più appetibile, e forse si gioisce allo stesso modo di cui ci si lamenta: per i motivi sbagliati.
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La vitalità del cinema non è mai stata messa in discussione dalle innovazioni tecnologiche, anzi, sovente ne ha goduto. Sostenere che la quantità di opere interessanti prodotte nell’arco di un anno a livello internazionale sia rimasta immutata rispetto a dieci, venti, cinquanta o settant’anni fa sarebbe da folli: non è così, ma solo perché il cinema ha perso – e da tempo – la sua centralità all’interno della cultura di massa. Forse il suo appeal è ancora superiore a quello delle altre arti, quantomeno tra i più giovani, ma, in termini puramente quantitativi, sono drasticamente diminuite tanto la produzione quanto la fruizione (non dimentichiamo la progressiva rilevanza acquisita nell’ultimo decennio dalle serie tv, tanto nei palinsesti di programmazione pubblici che in quelli “privati” e, stando la buona qualità di molti prodotti seriali, pur sempre di televisione si tratta e non di cinema). Se ci sono pochi film buoni è anche e soprattutto perché ci sono pochi film. Ma quei pochi buoni bastano a far ben sperare. Mutano le modalità spettatoriali e solo a partire dalla loro analisi si può cominciare a proporre un rinnovamento della discussione sullo statuto artistico del cinema. La sala cinematografica, benché continui ad essere idealmente il luogo d’elezione per la visione del film, nella pratica non lo è più. E non può essere l’arena in cui si gioca la battaglia critica, specie in un Paese come il nostro, in cui una distribuzione asfittica ne restringe penosamente gli orizzonti. Potrà sembrare una posizione elitaria e radicale ma limitare il proprio sguardo, e il dibattito, a quella manciata di opere che raggiungono gli schermi delle nostre sale significa tagliare fuori l’80% delle opere più interessanti, innovative, inquiete, fertili e stimolanti della produzione attuale. Epurata da buona parte dei quotidiani nazionali, la critica della carta stampata rischia di ritrovarsi a corto di argomenti se non sarà in grado di identificare un cinema che spesso e volentieri non trova più sul grande schermo il proprio hic et nunc, ma altrove esiste, viene visto, e vibra di rinnovamento. Il giorno dell’iguana Inevitabile e forse pleonastico ribadire la portata dei mutamenti in atto, ma nel momento in cui si sceglie di prendere in considerazione tra i film più rilevanti degli ultimi tempi un’opera girata in
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parte con un telefonino e difficilmente destinata a raggiungere il grande pubblico delle sale, il ragionamento appena esposto risulta un prologo necessario. This Is Not a Film dice molto più sul futuro del cinema di quanto facciano tutti i film in 3D visti negli ultimi tempi messi insieme (Avatar compreso). Inscenare una contrapposizione tra cinema in 3D e cinema girato con il telefonino non ha senso né interessa: il 3D è un revenant del passato, un vecchio artificio che non ha mai saputo porre le basi per nessun tipo di reale rinnovamento della forma film ed è stato già ripetutamente accantonato per via della sua incompatibilità con la natura fisica dello sguardo umano (si legga in proposito l’illuminante riflessione di Walter Murch al riguardo). La tridimensionalità al cinema esiste da sempre e si basa su un’ideale rifrazione dell’immagine su due schermi: quello della sala e quello interno allo spettatore. La tridimensionalità non è un effetto: è la sostanza stessa dell’illusione cinematografica. Restando su questo territorio, varrebbe la pena soffermarsi sull’uso della profondità di campo nel film di Panahi/Mirtahmasb: il regista viene raramente inquadrato in maniera frontale, come a voler evitare uno standard iconografico da “prigioniero politico”; piuttosto si sceglie sempre una ripresa diagonale o anche solo leggermente angolata che restituisca l’ampiezza dello spazio in cui Panahi è recluso, pur sempre l’appartamento di una famiglia benestante, un set ricco e variegato, pieno di vie di fuga, all’interno del quale Panahi sembra muoversi sempre a suo agio, senza dar segno di costrizione. Se costrizione c’è, si direbbe, essa riguarda non tanto l’uomo quanto il regista, e il film parla infatti non dell’evasione (desiderata, cercata, attuata) dell’uomo ma di quella del regista, come a dire che la condanna più penosa è quella all’inattività artistica e professionale. Quando Panahi decide di raccontare come avrebbe girato una delle scene del film mai realizzato, l’inquadratura in plongée lo schiaccia mentre, chino sul parquet, traccia con l’aiuto del nastro adesivo i confini di un set immaginario (alla Dogville, tanto per intenderci) entro il quale mimare una possibile messa in scena. Tra le sequenze del film è quella più dolorosamente inefficace, tanto che il regista stesso, in più di un’occasione, esprime platealmente la propria insofferenza. Da questo momento in avanti, lentamente e per spostamenti progressivi, il film passa da uno stato riflessivo a uno attivo: non
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più meditazione sul fare cinema, ma semplicemente cinema. Non prima di un’altra, fondamentale sequenza, in cui Panahi mostra una scena di Oro rosso sull’enorme schermo 16/9 appeso alla parete per illustrare la necessità di adattare il proprio sguardo all’imprevedibilità imposta dalla recitazione di un attore non professionista: “l’attore è il regista, in quel momento” dice Panahi “la direzione è sua”. Potrebbe sembrare un escamotage per riaffermare il proprio ruolo (“faccio l’attore ma in realtà sono il regista di questo film”), o forse solo un’ulteriore dimostrazione di resa di fronte all’impossibilità di spiegare a parole un film (“Quando racconti un film, devi raccontare un mucchio di dettagli. E in casi come questo il film deve prima essere realizzato per poter essere raccontato”). Ma forse è altro ancora, perché a ben pensarci la prima ora non è altro che un gioco di finto svelamento, molto più sottile di quello messo in mostra da Kim Ki-duk in Arirang e lucido quanto quello operato da Jim McBride nel finale di David Holzman’s Diary, e il film sta tutto nell’ultimo quarto d’ora. Quello che si è visto prima era necessario perché si trattava di un percorso di distrazione, come quello compiuto dall’iguana – bizzarro e simbolico animale domestico di casa Panahi – quando si arrampica su divani e librerie, e Panahi in mente fin dall’inizio l’obiettivo finale: uscire dal set fittizio (quello del film su un uomo recluso nel proprio appartamento e impossibilitato a girare film) e entrare in quello reale (quello del film su un regista che imbraccia la macchina da presa per riappropriarsi della condizione di libertà negata). La svolta ha luogo quando, al termine della giornata, Mirtahmasb abbandona l’appartamento del regista lasciando la videocamera accesa sul tavolo della sala da pranzo. Il regista filma con il telefonino il collega che raggiunge l’ascensore, dal quale spunta fuori un ragazzo, addetto alla raccolta della spazzatura. Il giovane riconosce il regista e chiede se stia girando un film. Segue un attimo di sospensione, la sensazione di un pericolo imminente: e se fosse un poliziotto in borghese? “Stavamo solo parlando” dice Panahi, “non stiamo facendo un film”. Il ragazzo entra in casa del regista, nota la videocamera ad alta definizione sul tavolo e chiede come mai non usi quella per riprendere. “Anch’io ho un telefonino” dice “vuol dire che anch’io posso fare un film?”. A questo punto Panahi imbraccia la videocamera e accompagna il giovane in ascensore, continuando a riprenderlo mentre si ferma ad ogni piano per rac-
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cogliere i sacchi di mondezza depositati dagli inquilini sul pianerottolo. Arrivati nel seminterrato, il regista segue il giovane mentre spinge un bidone nella semioscurità del garage. In sottofondo si sentono, sempre più forti, gli scoppi dei fuochi d’artificio e le urla dei festanti (è l’ultimo dell’anno). “Sa qual è la cosa peggiore?” dice il ragazzo voltandosi a guardare in macchina “diplomarsi con il massimo dei voti e poi scoprire che non c’è lavoro”. Ora siamo fuori dal caseggiato, le luci di un fuoco acceso di fronte al cancello riverberano sulle mura dei palazzi accanto. “Non venga fuori, signor Panahi” intima il giovane “vedranno che ha la macchina da presa”. E nell’ultima inquadratura, prima della dissolvenza a nero finale, c’è più cinema che in tutto il resto del film. Basta un’inquadratura a fare un film? Evidentemente no, ma un grande regista sa come dare senso a un film intero anche con un’inquadratura sola. Epilogo. La camera stylophone Improvvisamente tutto è finto e tutto diventa estremamente reale. Nell’ultimo quarto d’ora, il film di Panahi si spoglia del falso statuto di opera documentaria di testimonianza e diventa, brevemente e in maniera lancinante, film di finzione sulla verità del cinema. Se l’epoca del blockbuster moderno ha segnato la vittoria planetaria di un cinema che nutriva a piene mani la fame di finzione, i corsi e ricorsi della storia fanno sì che ad approssimarsi sia nuovamente una tendenza di tipo opposto, quella decisa a soddisfare una diffusa fame di realtà. Questo non vuol dire che a farla da padrone, nei prossimi anni, sarà il cinema documentario, ma che in quest’epoca di radicale transizione, spaesamento e smaterializzazione del film, il miglior cinema riaffermerà il proprio statuto per mezzo di un modello “vertoviano”, e che i proclami di Astruc e Zavattini a favore di una nuova scrittura cinematografica, più leggera e alla portata di tutti, grazie alla diffusione di videocamere e telefonini, sono sempre più prossimi ad avverarsi. Con ciò non si intende certo dire che il cinema in toto ne gioverà. Un certo cinema sta davvero morendo, in parte è già morto e non sa di esserlo (e non se ne rendono conto nemmeno i critici), in parte sopravvive come reliquia del passato, cinema della nostalgia
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nato vecchio che invecchierà più in fretta di altri. Ma le frontiere sulle quali si sta davvero giocando la battaglia per la sopravvivenza delle immagini in movimento come rappresentazione di un mondo che si accorda ai nostri desideri sono frammentarie e mutevoli tanto in senso geografico quanto in senso tecnico. E saranno i migliori registi all’opera oggi a indicarci la strada, da Terrence Malick a Ben Rivers, da Aleksandr Sokurov a Miguel Gomes. This Is Not a Film ha segnato il 2011 almeno quanto Leviathan di Véréna Paravel e Lucien Castaing-Taylor ha segnato il 2012: girato sull’orlo dei flutti, tra voli di gabbiani e teste di pesce mozzate, per mezzo di videocamere superleggere e impermeabili (le stesse usate dai surfisti per filmare le loro acrobazie acquatiche), è il film in 3D che il cinema di questi anni ha inseguito a lungo e non era ancora riuscito a darci.
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DARE UN VOLTO ALLA MACCHINA-MONDO HUGO CABRET (2011) DI MARTIN SCORSESE “Mi piace immaginare che il mondo sia un unico grande meccanismo. Sai, le macchine non hanno pezzi in più. Hanno esattamente il numero e il tipo di pezzi che servono. Così io penso che se il mondo è una grande macchina, io devo essere qui per qualche motivo. E anche tu!”
(Hugo Cabret)
1. I diorami e i panorami di cui scriveva Benjamin, nel suo percorso alle origini del moderno lungo la Parigi baudelairiana e le visioni della sua vie-vue moderne, scorgendoli in quanto progenitori dei film (e anche della qualità inerente ai film di immagine-cristallo, di implicazione futura, fin nel colore, nel sonoro, nei movimenti di macchina, e perfino nella virtualità di ciò cui aprirà l’effetto digitaale, e il 3D), il gusto tutto visuale e sganciato dal narrativo della féerie, i trucchi ottici di una phisique amusante su cui sperimentava la fotografia, la spettacolarità delle Esposizioni universali, l’ipnosi e la prestidigitazione: tutto converge e viene documentato dai primi film di Méliès. Manipolazioni di luce che il diorama rende spettacolari. La distrazione dello spazio urbano si coniuga con la focalizzazione dell’occhio, che ascende al cielo e fluttua come un pallone areostatico, immagine che ossessionava le “pitture nere” di Odilon Redon e che Méliès riprometta nei suoi “film-à-surprise”, altrettanti giocattoli visivi racchiusi nella sfera di un cinema già ossessionato dalla compulsione a “vedere oltre”, a travalicare il tempo della visione, a entrare nel dispositivo che scompagina il tempo, lo rende “contemporaneo del futuro”. In fondo è questo meccanismo che Scorsese collega a una ossessione che da sempre è dei suoi film: quella del desiderio-colpa
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connesso alla forma dell’occhio, all’esperienza aurorale e infantile di spiare la propria origine, la propria filogenesi, scena primaria in cui l’atto generativo, la copula genitoriale, è il motore e insieme l’interdizione del piacere scopico. Scorsese lo fa con due prerogative: la prima è quella di giocare la tridimensionalità dentro un ripensamento, tutto wellesiano, della profondità di campo operandone un rovesciamento plastico verso la nostra condizione di spettatori: siamo noi, la nostra coalescenza con lo schermo-sala a costituire, estroflettendola, la profondità, mentale e ottica, della profondità di campo. La seconda liberandosi della compulsione-colpa dell’occhio perseguito-persecutore proprio ponendosi su quello stesso terreno di gioco. In tal senso è lo sguardo bambino, il suo corpo in fuga e metamorfico, il suo nascondersi nella torre del tempo, il suo inscriversi nella Gare originaria, nel movimento stesso dell’invenzione della macchina cinematografica, in quel moto dell’arrivo del treno, che già, tridimensionalmente, investiva i primi spettatori dei Lumière, irrompendo, in modo allucinatorio, nella sala. Allora la stazione di Hugo Cabret, la torre dell’orologio, la funzione di guardiano-osservatore dell’immagine-tempo, la filogenesi del padre perduto e sostituito dal “padre del cinema”, l’assimilazione del suo stesso corpo, con il nesso occhio-cuore, con l’automa spirituale, con il suo processo ricostruttivo, con la sua aleggiante e onirica presenza-assenza fantasmatica: in questo processo Scorsese è capace di riconvertire la prigione allucinatoria, la camera psicotica, l’incubo da cui non si esce (che aveva messo in scena, su un versante neoespressionista, in Shutter Island), in una ridefinizione, rilocazione e trasformazione degli spazi chiusi (la stazione, la torre, la casetta/cenotafio di Méliès, la stanza del sogno, l’armadio delle meraviglie…) in altrettante zone aperte, flussi di liberazione della capacità scatenante e meravigliosa del fare cinema, come messa in gioco, come meccanismo di piacere automatico. I giocattoli che Méliès vendeva alla gare e i “giochi magici”, i trucchi del suo cinema sono serissimi e insieme terribilmente divertenti, pericolosi e paurosi, perturbanti e incantatori, fanno perdere e girare la testa, come il Taumascopio o il Taumatropio della fantasmagoria ostensoria di un pre-cinema (che insiste e prosegue negli effetti digitali, come ci mostra Scorsese), procuravano thaumos, meraviglia . Il Taumatropio “presentava una testa, braccia e gambe da un lato, e il resto del corpo, uno scettro e una corona
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dall’altro. Mostrando il primo si diceva: Ecco una testa, due braccia e due gambe. Notate, non c’è nessuno! e si faceva poi ruotare velocemente il disco ottenendovi l’apparizione di un re incoronato con il seguente commento: come Napoleone, di nessuno sono capace di fare un re”1. Esiste una connivenza tra il cinema e la malinconia. Le opere fantastiche , le vecchie storie che la Black Maria (che era il teatro di posa in cui Edison girava i film per i suoi kinetoscopi e che prese il nome dai furgoni della polizia così chiamati, ai quali assomigliava), sapeva raccontare così bene, e, al tempo stesso, le storie di nostalgia, sono della proiezioni nel buco nero dell’avvenire2.
Il volto rotante, e la testa che si volta, lo sguardo trapassante che trattiene le ombre amate sono le attitudini misteriche di Orfeo. Ed è simile a una iniziazione orfica (quei misteri antichi in cui le prove iniziatiche erano tutte riferite a un viaggio inferico per trarne una immagine fantasmatica, e destinarla insieme a una perdita connessa allo sguardo e al voltarsi, così come erano costellati da apparizioni nel buio, e che, in forza di queste analogie, Cocteau riferiva a un sentimento primario del cinema) il tragitto del ragazzino, fin dalla sua corsa negli ingranaggi labirintica della torre, inseguito dal fantasma persecutorio dello sguardo-tempo destinato ad essere ribaltato in una conquista di quella stessa visione cui insieme presiede e si sottrae. Il meccanismo illusorio della manovella che gira, come una ruota del tempo tracimante, le membra e le teste in dettagli e primissimi piani, l’incessante nella ripresa e ri-proiezione di corpiombre: sono attitudini del cinema come “fantasma delle origini”, e insieme come alchimia trasmutativa in cui la luce e il tempo sono essenziali. Annerimento della materia, luce nera solforosa nel cui carbone si nasconde l’oro, rotazione del crogiolo, figure della “testa di corvo” e del teschio, che stanno per la prima operazione di putrefactio: attitudini dell’ “opera al nero” in alchimia. Fase au noir della malinconia consustanziale al cinema. É la malinconia del volto sospeso in aria di Pierrot lo si incontra di1 2
A. Costa, La morale del giocattolo: saggio su Georges Méliès, CLUEB, Bologna, 1989, p. 20. J. Leutrat Vita dei fantasmi. Il fantastico al cinema, Le Mani, Genova, 2008, p. 6.
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segnato in una stampa d’epoca (la fin de siècle che vede l’origine del cinema dai giochi di prestigio e dalle fantasmagorie ipnotiche) che ritrae l’attrazione illusionistica della “testa parlante” e indica questa melanconia che appare, come uno sguardo in macchina, anche nella testa di cera di Emil Reynaud “intento ad azionare i delicati meccanismi del suo teatro ottico, a proiettare la sua pantomima luminosa dal titolo Pauvre Pierrot”3. Automatico sguardo in macchina, occhi fissi dell’automa dorato, che non sappiamo se rida o pianga mentre ci guarda dalla ripresa meliesiana dello Scorsese di Hugo Cabret. Si tratta di essere posseduti in questa fase dall’immaginazione, di una mania che è degli illusionisti, dei mostratori, “i fanatici, i pionieri disinteressati, capaci come Bernard Palissy di bruciare i mobili per alcuni secondi di immagini tremolanti, non sono né industriali, né scienziati, ma gente posseduta dalla propria immaginazione”, come scriveva Sadoul. E il fuoco, che è insito nel mettere a fuoco il movimento, e nello “scrivere su carta che brucia”, come dice Pasolini, sembra destinato a camminare con me, a camminare con il cinema, fin dalle origini. Il destino del padre orologiaio (fabbricatore di tempo) del piccolo Hugo, è quello di votarsi al fuoco (filosofale e alchemico) dell’incendio di un museo di immagini e automi, così come fu destinale l’avventura raccontata dallo stesso Méliès dell’incendio, nel 1901, del suo Theatre: “Corsi al teatro e benché solo, inondato da torrenti d’acqua sporca e a rischio che mi crollasse in testa il soffitto grondante, riuscii a portar via mensole, tavoli, accessori preziosi, automi, pezzi meccanici che si trovavano sul palcoscenico e a metterli in un posto sicuro”4. Nel film di Scorsese questa messa a fuoco del movimento insiste più volte: quando Papà Georges mostra a Hugo svolazzanti rimasugli carbonizzati facendogli credere di avere bruciato il taccuino delle immagini (quello dove l’automa disegnato si animava facendo scorrere velocemente le pagine come nei “cinemini” di quando eravamo piccoli), o nella volontà del vecchio magicien di bruciare le sue pellicole (salvo ad essere ripescate nei bassifondi delle fogne e delle catacombe parigine). 3 4
A. Costa, cit., p. 19. R. Redi, a cura di, Verso il Centenario Méliès, l’immaginario, Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, Di Giacomo, Roma, 1987, pp. 66-67.
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Il tempo si brucia nell’athanor delle immagini e perde forma mentre si trasforma, per poi riformarsi nella luce di una stella che arriva da un tempo trapassato (quella donna-stella cometa provvista di bacchetta magica che vola sospesa nell’aria e accende lo schermo del cinema). Hugo ha il nome di Victor che scrisse, riportando quanto visto nella “bocca d’ombra” spiritica del sogno notturno di un telescopio in un cielo estivo e stellato del 1834, Si rien avait une forme, ce serait cela, e ha un cognome Cabret dove risuona un crabe che sta per granchio, che va indietro nel tempo, e un cabrer che indica l’essere costretti a rivoltarsi indietro, come fece Orfeo guardando nel nero dell’Ade, ri-suscitando e insieme allontanando l’ombra. Questione di profondità o di vastità, dove cercheremo invano quale avventura autenticamente poetica possa venirci incontro, da un momento all’altro, nell’oscurità di ciò che si rivela essere insieme centro di gravità e punto di fuga dei passaggi che attraversiamo. Senza dubbio, dall’antichità di Medusa, Edipo, Baubo, Orfeo, Atteone..., innumerevoli figure ci dicono l’intemporalità di queste precoccupazioni. Ci mostrano anche che la forza dell’interdetto allo sguardo è la misisura di una fascinazione che è anche quella per l’origine , che ci riporta ancora e sempre alla notte sessuale, con l’imprescrivibile desiderio di vedere, sebbene a occhi chiusi5.
Tale vedere è in Hugo Cabret crittogrammatico, e in tal senso l’occhio viene come posto fuori dalla sua orbita e reso cieco-veggente proprio quando si posa sul cuore, su una cifra a forma di cuore capace di rianimare le immagini (e di dar luogo a una scrittura, allo scrivere con l’inchiostro delle immagini), tale il senso del “buco della serratura” a forma di cuore, una clavis magica in cui la “porta alchemica”, l’ingresso nel palazzo regale dell’Opus/Cinema coincide con il nostro essere ibrido, il nostro essere un corpo insieme di carne e di ombra, organon macchinino ma anche carne immaginaria, è nel corpo che si apre la porta delle immagini. Scorsese in Hugo ci mostra l’ultradimensionalità di una tale esperienza, fasciando con bendaggi di mummia il proprio automa spirituale e stringendoselo al petto, o squarciando il nostro tora5
A. Le Brun, Si rien avait une forme, ce serait céla, Gallimard, Paris, 2010, p. 35.
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ce e scoprendovi in un sogno mangiato dal sogno gli ingranaggi del tempo, che ci riportano i messaggi-immagini-geroglifici di un Voyage dans la Lune. E’ appunto a una ‘N-dimensionalità’, a una stereoscopia finalmente liberata da ogni effetto e introdotta negli affetti cui ci convoca Scorsese-Méliès (con il jeu di Renoir qui evocato, attraverso l’automaton fatto di luce, la cui règle possiede le ragioni affettive che la ragione non conosce, e del resto ciascuno ha le sue ragioni e vede attraverso il binocolo il gesto d’amore che meglio si immagina). Ed è attraverso una ‘porta alchemica’ in tutto analoga a quella della villa del Marchese di Palombara (alchimistapoeta autore dei sonetti alchemici della Bugia, surrealistico gioco di parole tra il lume e il trucco, la ‘potenza del falso’), la cosiddetta “porta magica”, istoriata di simboli alchimistici e sopravvissuta a Roma in Piazza Vittorio, che Hugo fa il suo ingresso nella Casa del Mago, simile a quell’Autre Monde ou les Etais et Empires de la Lune che l’alchimista Cyrano de Bergerac descrisse nel 1657, ed è infilando una chiave d’oro nel buco nero a forma di cuore in mezzo alle costole d’oro del proprio ‘automa spirituale’ che abbiamo accesso a una visione che si rivolge verso di noi come rovesciando e concretizzando un’altra profondità di campo. Ma dobbiamo, sempre con Hugo, salire sulle torri del tempo, che è come scendere nei sotterranei ventrali in cui gli ingranaggi, i vapori, le corde, le botole, le scale a spirale, le pulegge, le grate, le carrucole, le fornaci etc...si attorcigliano, roteano, si avviluppano, si aprono e si chiudono come palpebre meccaniche, su visioni iperboliche e catacombali (dove sono nascosti, come geroglifici della scrittura magica di uno scarabeo d’oro alla Poe, le bobine dei film di Méliès), per poter gettare uno sguardo, col nostro occhio bambino, dal buco della serratura, verso un au de là che il cinema traspone aldiquà, e che fa emergere sulla crosta nebulosa e ricoperta di piccoli occhi-stelle che si forma sulla superficie pellicolare del crogiolo d’alchimista.
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2 “Ma se un poeta moderno sostiene che per ciascuno esiste un’immagine a cui tutto il mondo poi si riduce, per quanti essa non salta fuori da una vecchia scatola di giochi?”
(Walter Benjamin Giocattolo e gioco. Osservazioni a margine di un’opera monumentale in F. Cappa e M. Negri, a cura di, Figure dell’infanzia, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2012)
Nel 1781 Francois Dominique Séraphin aveva introdotto in Francia, dalla corte di Versailles al Palais Royal, un teatro d’ombre cinesi a cui assegnò il suo nome, che ebbe successo fino al 1870. Baudelaire titolò Théâtre de Séraphin (nome evocante anche apparizioni angeliche) una sezione dei suoi Paradis Artificiels, in cui descriveva le allucinazioni da hashish. Artaud indicò a Jean Paulhan, la sua intenzione di inserire in Le théatre et son double un testo così intitolato, inviatogli dal Messico nel 1936. Nel 1937 Jean Renoir ricostruisce ne La Marsigliese uno dei numeri di Séraphin, Le Pont cassé. Nel 1982 Ruiz filmò in un corto, Ombre chinoises, la propria teoria della luce a partire dalle trentasei situazioni tragiche codificate da Henri Polti. Sono nel sotterraneo, respiro, con i soffi appropriati, meraviglia, sono io l’attore. L’aria intorno a me è immensa (...). Imito il guerriero medusizzato (...). Il grido che lancio reclama all’inizio un buco di silenzio, che si ritrae, poi il rumore di una cataratta, rumore d’acqua, ed è giusto, perché il rumore è legato al teatro. É così che in ogni vero teatro, procede la comprensione del ritmo. Vuol dire che si rinnova la magia della vita. (…). Grande come una conca che si tiene del cavo della mano, questo segreto; è così che la Tradizione parla. Tutta la magia dell’esistenza dovrà passare attraverso un solo petto quando I Tempi si saranno riformati. E questo sarà come un grande grido, la sorgente della voce umana, una sola e isolata voce umana [...] bocca a bocca e soffio a soffio, farla passare non dalle orecchie, ma attraverso il torace dello spettatore6.
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A. Artaud, Le Théâtre et son double, Gallimard, Paris, 1964, pp. 224-227.
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Ruiz, in un dialogo avuto con lui a Parigi, sosteneva che, piuttosto che con la nuca, è con il petto che si vede meglio. Avete mai sentito parlare della visione extraretinica? Furono I surrealisti a sperimentarla con René Daumal che era medico e fece più volte questa esperienza di lettura visiva del mondo attraverso il petto. Ecco, guardate questa foto di una rivista surrealsta del gruppo Le Grand jeu : la casa fissata sul petto, la luce...Daumal con il petto poteva leggere Le Figaro! Teorizzava la visione dell’uomo delle caverne, che quando scappava dalle bestie feroci si rifugiava nelle caverne dove c’era un buio assoluto e quindi era abituato a vedere con tutto il corpo. [...] Chiamava queste cellule che vedono attraverso il petto e che vanno direttamente al cervello, piccole orecchie7.
Questa visione con l’occhio del torace, con lo sguardo del cuore, questa coalescenza tra il nostro biologico thaumos, e il dispositivo bionico che incarna e materializza, ridimensiona, i corpi-duratefantasmi dello schermo avviene, come mostrato da Scorsese, suscitando le ombre, re-suscitando le meraviglie e le fantasie con forza d’amore (e questo nesso amore-passione-immagine lo figura l’immagine animica della ragazzina, progenie immaginale di Méliès, lo testimonia, con la sua cura, il suo tramandare le immagini, il suo essere guida sottile “al di là” della casa e dell’armadio delle meraviglie, da cui si re-involano i disegni, le tracce mnestiche, gli scatti singoli, propriamente i fotogrammi arrotolati e che aspettano solo di essere rimessi a fuoco, così come lo testimonia Madame Méliès e il suo rivestire il corpo di luce della cometa cinematografica) traendo dal proprio corpo un doppio risonante secondo l’atletismo affettivo di Artaud, oppure, come mostra Scorsese in Hugo, fasciando di bende come una mummia l’automa misterico, il corpo d’oro che ci abita, il ludione cui Deleuze nelle pagine conclusive di L’immagine-tempo si richiama, riferendosi a Schefer, come uno sguardo/proiezione che ci rivolge giungendoci alle spalle quale fascio di luce, il lampo che rianima il corpo prometeico e frankensteiniano e da luogo all’immagine vivente, alla reviviscenza dell’ombra (nachlaben dell’“accessorio in movimento”, direbbe Warburg), e squarciando il nostro torace scoprendovi in un “sogno mangiato dal sogno” gli ingranaggi del tempo. 7
R. Ruiz, E. Bruno, L. Esposito, B. Roberti, D. Turco, Ruiz Faber, Minimum Fax, Roma, 2007, p. 30.
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Nel film di Scorsese le potenze del falso (e il loro rapporto con la terribile e splendida visione cristallina di un occhio inerente alla stessa manifestazione del reale, di una forza motrice del pensierocinema che fin da Vertov assimilava il corpo dell’operatore di immagini con l’ircocervo, l’animale-uomo-con-la-.macchina-da-presa scatenante poteri di dislocazione possibile-impossibile lungo i binari dell’immagine-tempo) sono attivate in una costruzione della immagine-cristallo, direbbe Deleuze, che attiene a uno oscuro scrutare nelle falde del tempo, facendo vagare e insieme mirando lo sguardo veggente nella polvere delle strade, in piano-sequenza, sospinti dal raggio pulviscolare della proiezione, lungo gli scivoli e le traiettorie notturne della Parigi grande ventre delle immagini moderne (e in tal senso Scorsese non cessa di proseguire l’amata lezione rosselliniana, fin dentro una sorta di “neorealismo fantastico”). Si chiama cristallina una descrizione che vale per il proprio oggetto, lo sostituisce, lo crea e insieme lo cancella [...] fa posto continuamente ad altre descrizioni che contraddicono, spostano o modificano le precedenti. La descrizione stessa, ora, costituisce il solo oggetto scomposto, moltiplicato [...], le descrizioni cristalline, che costituiscono il proprio oggetto, rinviano a situazioni puramente ottiche e sonore tagliate dal proprio prolungamento motorio: un cinema di veggente, non più di attante. La coalescenza di un’immagine attuale e della propria immagine virtuale8.
Attitudini del moderno che mai come in questo film sono riassunte e rilanciate lungo una ricostruzione delle immagini memoriali, pittoriche e letterarie oltre che filmiche, che segnano il cinema del nuovo millennio come una sorta di macchina spaziale del Novecento, di navicella spaziotemporale, stellare, di tutta una nebulosa dell’immaginario (magia vivente e plastica che già il Kubrick di Eyes Wide Shut o il Cameron di Titanic avevano operato). Allora vedendo il film ci si apre a un esercizio immaginario, un atletismo delle immagini ri-suscitate e riattraversate. Bisogna farsi circondare dalle visioni turbinose delle Tentation de Saint Antoine (quelle di Flaubert furono illustrate nel 1896, ci8
G. Deleuze L’Immagine-Tempo, Ubulibri, Milano, 1989, p. 82 e segg.
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nema nascente, da Odilon Redon, dove, nella terza litografia, il suo ardente e nero carboncino disegna una figura nuda di donna che emerge e si avvolge in un velo oscuro che le copre il volto, cinta ai fianchi da un lenzuolo: Io sono sempre la grande Iside! Nessuno ancora ha sollevato il mio velo! Il mio frutto è il sole, recita la didascalia), oppure visitare in un impeto naturalistico i quarti di bue sulla scena e nei macelli del Ventre de Paris, o discendere nella Nuit des temps, o ancora cavalcare in sella a schermi multipli l’Epopée napoleonica, come avvenne in altrettanti spettacoli d’ombre al mitico Chat Noir parigino di fine Ottocento, tra simbolismo e occultismo e avanguardie, cui quei titoli sono riferiti. Un interessante rilancio della tradizione del teatro d’ombre [...] viene fatta nel 1885, ormai alla vigilia della nascita del cinema, dal caricaturista Rodolphe Salis al Cabaret Le Chat Noir. I punti di forza di questa iniziativa furono [...] l’introduzione di perfezionamenti tecnici sempre più sofisticati (sagome articolabili, uso del colore, effetti di profondità), [...] la collaborazione di nuovi ingegni, quali Alphonse allais, Caran D’Ache, Henri Rivière, Albert Robida [...] il rinnovamento del pubblico che non è più quello dei Séraphin, ma il sofisticato pubblico di un cabaret artistico-letterario d’avanguardia9.
“Il cinema ebbe origine in un crogiolo in cui si trovavano confusamente mescolate magia e scienza, ciarlataneria e arte”10. Il cinema-crogiolo è teatro d’ombre, Théâtre de Séraphin, e insieme sopravvivenza delle antiche iniziazioni misteriche, “strumento per forgiare allucinazioni”, come dice Baltrusaitis a proposito delle prospettive, aberranti e non, lanterna magica, magaloscopia, quale fu l’invenzione barocca di un gesuita mistagogo come padre Athanasius Kircher, microscopio solare, che fu sperimentato dal rivoluzionario Jean-Paul Marat. E forse su quella sindone sopravvissuta magneticamente alla sua tinozza negli scoli fognari parigini si può scorgere in trasparenza il futuro volto allucinato di Artaud nel film di Gance: del resto Robertson, physicien-aéronaute e uomo di cinema ante litteram, nei suoi spettacoli di fantasmagoria, all’indomani del Terrore, evocava con il pantascopio lo spettro di Marat: “in realtà padre Kircher, questo erudito e mistificatore 9 10
A. Costa, cit., p. 28. A. Costa, cit., p. 23.
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che era attratto soprattutto dal procedimento meccanico e dalla depravazione delle forme rappresenta l’anello di raccordo tra le rinascimentali Wunderkammern e la spettacolarità barocca, tra la pratica dell’arte retorica e l’esercizio delle scienze occulte”11. Un gioco da ragazzi, in alchimia si dice un ludus puerorum e ne parla Eireneo Filalete nel suo Introitus “aperto al palazzo chiuso del Re”: “Perché una volta conosciuta questa cosa, il tutto non è altro che un’opera di donne e un gioco di bambini, cioè cuocere. A causa di quest’arte suprema, i Saggi nascosero questo segreto...” ( Filalete, XXII). Come regolare e manipolare, senza scottarsi e senza bruciare la sostanza, questo fuoco di cottura? Ci vuole la capacità innocente di vedere tutto meravigliosamente come un bambino (il bambino nascosto e invisibile nei recessi del tempo filmato da Scorsese in Hugo), la cura della parte femminile di tessere e ruotare la ruota di fuoco. Tutto sta nel saper vedere e nel saper toccare, il cinema è optico e aptico. Questa filosofia della veglia, dell’attendere e fissare nel fuoco le immagini, farsene possesso e restare veglianti, è figurata in una formella della cattedrale di Amiens di cui scrive Fulcanelli, dove un personaggio, che da parte sua Ruskin riferiva a Elia profeta (o Elia Artista?) davanti alla ruota infuocata del carro della Visione, viene così interpretato, riferendolo a un atteggiamento filosofale, dall’alchimista novecentesco: il nostro personaggio ha gli occhi aperti [...] sembra stia vegliando mentre accanto a lui si sta effettuando la lenta azione del fuoco di ruota […] noi lo possiamo vedere mentre è assolutamente distolto da una qualsiasi preoccupazione di ogni tipo. Egli veglia e sorveglia, paziente ma un po’ stanco. Terminate le gravose fatiche d’Ercole, il suo lavoro si riduce al gioco da bambini di cui parlano i testi, cioè a sorvegliare il fuoco, cosa che anche una donna che sta filando può facilmente fare e farlo bene [...]12.
Si tesse in tal modo con il film una veste di luce che ci avvolge nell’esperienza osmotica ed empatica della visione, come concrezione di una natura altra, di un livello profondo, al limite insondabile, del manifestarsi naturale: “Ogni cosa, nella Terra smeraldina 11 12
A. Costa, cit., p. 26. Fulcanelli, Il Mistero delle Cattedrali. L’interpretazione esoterica dei simboli ermetici della Grande Opera, Edizioni Mediterranee, Roma, 1979, p. 42.
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del mondo immaginale, diventa corpo angelico di un firmamento (di un universo stabile, firmum, di significati, per quanto inesauribili) di senso cui partecipa e fa partecipare chi accede alla sua visione (...) una cognizione immaginale che è insieme esperienza empirica e rivelazione, visione sensibile e trasformazione spirituale” 13��. Questa facoltà trasmutativa delle immagini compie un lungo tragitto: che parte da una concezione dell’unus-mundus, di un’anima mundi immaginale, da una esperienza che connette cosmogonia degli elementi e operatività visionaria al confine tra alchimia e filosofia (una operatività eleusina, misterica in cui la natura si faceva teatro delle apparizioni, cioè ricettacolo oscuro di un “venire alla luce” dell’intima natura delle cose e del loro processo ri-generativo) attraversa i neopitagorici e i neoplatonici. Qui le cifre orfiche, le risonanze e le segnature del mondo fenomenico si riversano in una catena dell’essere come aureo filo che lega e intesse le cose conferendogli la loro giusta immagine (la loro corrispondenza). La naturphilosophie romantica, ma di ascendenza rivoluzionaria e illuministica (in cui la luce razionale era via di accesso entro una meccanica cosmica che inerisce al moto rivoluzionario degli eventi, delle trasformazioni, dei conflitti sociali e cosmici a un tempo, come nelle speculazioni di Auguste Blanqui in L’eternità degli astri), dove il paesaggio del sublime era investito da tempeste magnetiche, furie liminali, elettricità trasmutativa e accedeva a una trasfigurazione della natura che mentre risaliva all’archè delle sue tracce ne enucleava il carattere di evento, avvenimento, visione in avvenire. Per cui le forze degli elementi si riversavano nella potenza titanica di un meccanismo senza soggetto, di una enorme macchina della visione e dell’evento che ogni volta imprimeva al mondo un processo del farsi immagine (fotografata e siderata, sospesa e orbitante nel firmamento celeste, terra celeste, heideggeriano sostanziarsi della lichtung, del venire in luce, in visione, della terrestrità), attraverso i mezzi scatenati (e inventati dalla nascente civiltà delle macchine, della comunicazione e del movimento), dove il costrutto temporale, la velocità, come la sospensione della durata (sublimata o precipitata nella-dalla materia), si concretava in costrutto immaginale, in concrezione visionaria. 13
P. Mottana, La Visione Smeraldina, introduzione alla pedagogia immaginale, Mimesis, Milano-Udine, 2004, pp. 26-27.
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Questo tragitto approda, contemporaneamente alle apparizioni di Mèliès, al dispositivo del cinematographe Lumière, alle vues intese come paesaggi-passaggi di vis animate, come conformarsi secondo l’occhio senza soggetto della macchina da presa, di una natura intima e concreta delle cose, seconda natura del fenomenico, suo velo appercettivo e subliminale. Un esplicitarsi progressivo di quella materia immaginale nel dispositivo ottico-fotografico sempre più dipanato sulla appercezione dell’infinitesimo darsi alla visione da parte dell’incedere del tempo, cioè del processo naturale di concrezione temporale che trascorre tra i vari piani, i mondi elementali, i gradi dal geologico all’animale all’umano, del configurarsi di intensità archetipiche, di segnature, di vis originarie. La psicagogia di sensi immaginali si ripartiscono in un pentalfa lungo la sensorialità corporea prolunga, come una attivazione di organi sottili, delle protesi invisibili del potere di raffigurazione intrinseca e inerente alla corporalità della cosa, al volto della natura, al paesaggio carnale e luminoso che si manifesta nella circolazione della cifre immaginali. Le facoltà costruttive delle immagini prendono vita nel meccanismo stesso di questa inerenza e vengono attivate dalla macchina della visione, corrispettivo di una più vasta meccanica celeste, di un dispositivo immaginale occulto, nell’occhio insito stesso del reale. 3. “Ma forse ci siamo fatti sorprendere dall’Immaginario che il cinema ha costruito prima di ogni sperimentazione, ipotizzando tutta una serie di corpi bionici ottenuti grazie ad una tecnologia sottopelle […]. È a questo punto che allora posso chiedermi in che senso il cinema come tecnologia ha servito l’uomo o se ne è servito. In particolare, l’occhio meccanico del cinema ci ha restituito la vista oppure ce l’ha rubata?” (F. Casetti, L’occhio, la mano, la macchina in M. Monteleone, a cura di, Ibridazione uomo-macchina. Identità e coscienza nel cinema post-moderno, Ente dello Spettacolo, Roma, 2005)
L’interrogativo su cui Casetti lavora da tempo circa la “modellizzazione” di uno sguardo da parte del dispositivo-cinema anche
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come effetto di pensiero inaugurato dalla modernità, implica un orizzonte etico che pone la questione “faustiana” di una animazione della macchina da un lato e di un automatismo dell’animato (l’umano, l’animale, il post-umano, l’ibrido), dall’altro. Una morale dell’occhio è anche ciò che è implicato nel cinema di Scorsese, e in particolare in Hugo Cabret si mette in forma come questione del “fantasma nella macchina”. É il creaturale, il creazionale, il rapporto tra occhio umano e occhio di Dio, così come quello di creazione naturale e creazione artificiale che viene interrogato. Il cinema in tal caso può essere sentito come redenzione e maledizione, strumento di liberazione o arma faustiana di assoggettamento del mondo. Il tempo, e la sua dimensione, il suo costrutto naturale-artificiale qui è snodo per dare un volto, e dunque uno sguardo e un’anima, alla nostra coalescenza col mondo, al nostro far parte del grande meccanismo regolato dal “grande orologiaio”. Ecco allora che il corpo-bambino che presiede agli ingranaggi, e visi nasconde, o l’animale-anima-animazione che traligna nei disegni-atti della creazione (così come i riferimenti che giustamente Casetti mette in gioco a tal proposito: la scimmia che gira la manovella nel Cameramen keatoniano, o il King Kong che trascorre dalla giungla selvaggia alla convulsa “giungla della città”, grazie proprio all’irruzione nell’habitat naturale dell’apparato artificiale del cinema) diventa il gioco creaturale-creazionale insieme come liberazione e pericolo, redenzione e maledizione: se nell’automa, come sapevano gli inventori tardo settecenteschi e anche Edgar Poe che ne scrisse, si nasconde qualcuno o qualcosa, ciò deve restare segreto: così come il genio nella lampada-lanterna magica o l’animadoppio che appare luminosamente nel fondo dei nostri occhi. Nel 1973 a Monaco viene pubblicato un romanzo inedito di Gustav Meyrink, Das Haus des Alchimisten, La casa dell’Alchimista. Il romanzo, incompiuto, è “ambientato in una città mitteleuropea, e possiede i più bizzarri personaggi ed eventi, sullo sfondo di una equivoca caffetteria orientale, di un arcano laboratorio di orologeria e di uno studio cinematografico che ha sul tetto una piata per l’atterraggio di aerei”14. Influenzato e affascinato dal cinema espressionista, Meyrink, che si era occupato anche di teatro insieme a Roda-Roda che fu sceneggiatore e attore cinematografico, 14
M. Verdone, a cura di, Deformazione e realta, Roma, Bulzoni, 1985, p. 108.
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era attratto dalla macchina ipnotica e trasmutativa del cinema. Negli abbozzi per La Casa dell’Alchimista l’oscuro dottor Steen, manipolatore d’anime e alchimista “nero” alla Mabuse o Caligari, considera il film mezzo altamente suggestivo ai fini delle operazioni demoniache di suggestione delle coscienze, in cui egli è ben cosciente il cinema e la psicoanalisi possano giocare un ruolo. Meyrink introduce nel romanzo i due lati, abissale e ascensionale, dell’esperienza alchemica. Sono compresenti figure come l’orafo-alchimista Gustenhover e [...] l’orologiaio spirituale, che rimettendo a posto lancette, rotelline e spirali interviene contemporaneamente anche sull’anima del possessore del meccanismo rotto: il tema si ritrova in Der Uhrmacher (1926), racconto che contiene in nuce uno dei motivi centrali del romanzo incompiuto, e che, secondo uno studioso austriaco, Arnold Keyserling, simboleggia l’iniziazione dello stesso Meyrink secomdo la tradizione gnostica15.
Questa assimilazione dell’ingranaggio “animico” e di quello “meccanico”, questa revulsione del tempo Perfettamente “meyrinkiani” (anche nei loro risvolti alla Lang-L’Herbieir, e alla Ulmer, in un riattraversamento di un espressionismo iper-razionale oltre che surnaturalista), ci sembra già il film precedente di Scorsese Shutter Island. Qui il fuoco filosofico è assunto come meccanismo di controllo della mente e dei sogni, di trasposizione dell’anima su un piano percettivo parallelo in cui la colpa è, come sempre in Scorsese, assunta nella visione, ma questa volta si tratta di un occhio temporale che, anche con la metafora dell’incendio, assume, nella focalizzazione che si sposta e permuta le identità, una valenza tutta interna al dispositivo del cinema come vaso ermeticamente chiuso in cui tutto avviene e torna ad avvenire, solo spostando il fuoco. In Hugo Cabret l’ingranaggio della “torre dell’ orologio” presiede allo smistamento dell’immagine-movimento e dell’immaginetempo all’interno della stazione ferroviaria, che estroflette e introietta il Salon Indien dell’arrivo del treno lumieriano, ed è assimilato all’occhio, allo spiare, allo scrutare, e al trasferirsi all’interno di una 15
G. De Turris, in G. Meyrink, La casa dell’alchimista, Edizioni del Graal, Roma, 1981, p. 18.
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macchina di proiezione, che è anche l’automatismo perduto e il giocattolo alchemico di Papà Méliès (il quale non a caso abita al di là di un cimitero dall’aria egizia, come una mummia nel regno delle ombre cinematografiche), e di aggiustare le anime, viste come meccanismi allucinatori e ingranaggi occulti, si tratta nel film. In Hugo Cabret Scorsese, e la sua concezione della stereoscopia, come processo incarnativo capace di figurare un volto, e con esso un occhio, come sfera immaginale di prossimità-lontananza, prospettiva rovesciata e revulsione della profondità di campo, compie un processo di liberazione e riconoscimento del suo stesso, archetipico, rapporto filogenetico col cinema, e lo rende esperienza collettiva. Si tratta di dare un volto alla macchina. Le macchine parlanti, gli automata erano in passato teste di bronzo da cui provenivano misteriose voci. Bocche d’ombra, oracoli e simulacri che costituivano i congegni degli antichi misteri, misteri eleusini o orfici. La macchinazione e la rappresentazione sono state solidali, ma quelle illusioni furono così potenti da produrre un cambiamento di coscienza. Erano, come l’alchimia, dispositivi di trasmutazione. E allora dare un volto, una sembianza al macchinico, risponderà a un biunivoco desiderio di captazione, di fissazione ipnotica nel primo piano, e ancor di più dell’uscita dal piano, del vorticante approssimarsi-allontanarsi del volto-corpo delle immagini dallo-nello schermo alla-della sala (la Luna, così come i disegni rianimati, lo sguardo-luccicanza dell’automa così come gli occhi del bambino e della sua torre del tempo). Ed è lì che la macchina di proiezione, lo schermo, il raggio, il tras-formarsi dell’immagine fanno tutt’uno, la macchina è l’androide, la cinepresa è la protesi del corpo umano, si muove come un automa da sola e insieme si assimila alle braccia, alle gambe dell’uomo che vola sui tetti e si stende sui binari (che sia l’uomo con la macchina da presa vertoviano, il tetsuo metallo urlante e mutante di carne di Tsukamoto). In una riflessione collettiva sulla stereoscopia e sul 3D al cinema Andrea Pastor, dalle pagine di Filmcritica, così rifletteva: Il ragazzino che entra in campo in Hugo Cabret ripreso di spalle e per la prima volta va verso Méliès che è un venditore di giocattoli, è mozzafiato perché non è più l’entrata dal fuori campo al campo, che già di per sé, ma è l’entrata da una dimensione all’altra. E noi dove siamo?
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Qui non so se si possa ancora parlare di profondità di campo, perché questo presupporrebbe l’idea che ci sia un campo, invece qui il campo rimane il nostro sguardo e queste immagini, se usate da grandi registi, vengono usate per far sentire le storie in maniera diversa. Hugo Cabret finge di parlare di Méliès ma in realtà c’è Lumiere, e non solo perché si vede la sala di proiezione dei Lumiere, ma perché nel 3D usato da Scorsese io sento una tensione, una vicinanza al vero, nella finzione, che era quella di Lumiere, con il treno, ma non solo. Quando vedo la luna accecata io in una sala dalla perfetta proiezione in 3D, a Melzo, me la sono trovata davanti alla faccia16.
Il 3D del film di Scorsese pone, in modo potente e aurorale, l’utopia di corpi-ologrammi che ci abitano intorno così come veniva preconizzata da Saint Pol Roux nel suo Cinema vivente17, idolatrato dai surrealisti, dove si immagina un cinema del futuro che, tramite i raggi solari, materializzerebbe in mezzo a noi le immagini, profetizzando che il cinema circolerà in mezzo a noi nei salotti di casa. Ma tale è l’utopia che è connaturata al cinema stesso, in Hugo Cabret, come sottolinea Alessandro Cappabianca, notando come il film in fondo sia uscito dallo schermo da sempre, a partire proprio dai Lumiere, e dalla loro immagine del treno che entra nella stazione di La Ciotat. Nel suo uso corrivo, nel suo effetto, in fondo la tridimensionalità, il 3D della plasticità disegnata, riduce la stessa plasticità aptica (il richiamo nel prolungamento-durata a una “carne delle immagini”), lo sfondo, la profondità di campo, come se mettesse in evidenza la bidimensionalità, cioè il fatto che il cinema ha due dimensioni, proprio facendolo uscire dallo schermo e postulando, illudendone lo sguardo, una tridimensionalità. La domanda che forse il film, l’arcano (anche in senso bretoniano e surrealista) del film, la sua cifra segreta, pone (sulla scorta di quell’insistere misterioso di Scorsese, un po’ kubrickianamente, sull’aspetto arcano che ha il ricorrere del numero 4) è la nostra posizione dimensionale, cioè come il dispositivo del cinema, il suo (senza) futuro, la presenza delle sue invenzioni e trasmutazioni, ci immetta non tanto in una tridimensionalità, ma, laddove noi già ci troviamo come esseri fatti di tempo, e cioè in una quarta di16 17
A. Pastor, “Filmcritica”, n. 630, p. 18. Saint-Pol-Roux, Cinema vivente, a cura di Michele Canosa, Il Cavaliere azzurro, Bologna, 1984.
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mensione. Allora è possibile postulare il fatto che in fondo la terza dimensione, che è poi quella con cui noi normalmente vediamo, quella in cui viviamo, nel cinema, così come nella nostra vita segreta e nascosta cioè quella del pensiero, sia invece un problema di quarta dimensione. Quello che sta sotto al cinema o quello che non ha luogo è il fatto di postulare una dimensione ulteriore, una quarta dimensione.
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Alessia Cervini
RIPENSARE LA MODERNITÀ CINEMATOGRAFICA IL RAGAZZO CON LA BICICLETTA (2011) DI JEAN-PIERRE E LUC DARDENNE Un’antica leggenda narra che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno. Quando lo raggiunse, il re chiese al saggio quale fosse la condizione migliore e più desiderabile per l’uomo. Il saggio, rimanendo dapprima rigido e immobile, esplose poi in risata e rispose: “Il meglio per te è assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto”. Si chiude così Il ragazzo con la bicicletta: Martin insegue Cyril nella foresta, vuole picchiarlo e vendicarsi del torto che ha subito. Cyril si arrampica su un albero e, colpito da un sasso, cade. Giace a terra, rigido e immobile. Quando si alza, dice solo un “no” che suona come radicale presa di posizione, come rifiuto della violenza e della morte. Il ragazzo prende la sua bicicletta e torna verso casa, perché ciò che vuole è solamente vivere. In questo modo, la saggezza infantile di Cyril rovescia di segno la sentenza di morte pronunciata dal saggio Sileno. Nietzsche riporta la leggenda del re Mida e del saggio Sileno in una delle pagine de La nascita della tragedia: è il primo accenno a quella condizione di solitudine che l’uomo si troverà a dover affrontare una volta che Zarathustra avrà annunciato perentoriamente la morte di Dio. Affermare che Dio è morto significa, lo sappiamo, riconoscere l’esistenza di un vuoto di valori, a partire dal quale ripensare il senso dell’esistenza umana: quel senso che, nelle parole del saggio Sileno, sembra coincidere con l’attesa della morte e che, più avanti, corrisponderà nel pensiero di Nietzsche con l’affermazione della volontà di potenza, ovvero con l’accettazione incondizionata della vita. È questa la domanda che fa da sfondo a un film come Il ragazzo con la bicicletta: “Come vivere questa solitudine umana senza Dio,
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accertarla veramente”1? La solitudine dell’uomo diventa nel film la solitudine di un ragazzo, Cyril, abbandonato da un padre che non vuol avere con lui nessun tipo di rapporto. “Ho cercato di comprendere cosa passi nella testa di un ragazzo solo, abbandonato, come la violenza dei colpi che ha ricevuto possa non generare in lui una violenza distruttrice, come quella che lo ha colpito”2. La storia di Cyril e del suo incontro con Samantha, la donna che lo accoglie nella sua vita concedendo al ragazzo l’amore di cui entrambi erano alla ricerca, è la risposta al quesito filosofico che Luc Dardenne pone in un volume, la cui preparazione ha accompagnato la realizzazione de Il ragazzo con la bicicletta3. Una risposta che sembra riscoprire le ragioni, troppo spesso sopite, di un profondo umanesimo a cui oggi, forse, soltanto il cinema è in grado di dar voce. Tali ragioni trovano infatti il loro punto di raccordo in uno dei topoi più cari al cinema dei Dardenne, che si inscrive, proprio in virtù di questo, nella tradizione di quella modernità cinematografica che, dal cinema neorealista arriva, per poi eccederlo e superarlo, fino a quello di Bresson: l’incontro, inteso come evento inaspettato e non preventivabile, capace di imporre alla contingenza la sua più radicale riformulazione. Ed è in virtù del suo carattere eventuale e non consequenziale che ogni incontro risulta addirittura non comprensibile e non spiegabile, facendo ricorso ad argomenti totalmente razionali e logici. Una sera, dopo che Samantha ha accettato di ospitare Cyril a casa sua nei fine settimana, il ragazzo le chiede: “Perché hai voluto che venissi da te?”. “Sei tu che me lo hai chiesto”, risponde la donna. Il ragazzo insiste: “Sì, ma perché hai detto di sì?”. Samantha alza le spalle e risponde semplicemente: “Non lo so”. È questa l’unica cosa che in grado di dire, nel tentativo di rispondere a una richiesta di spiegazione. Accade la stessa cosa quando Cyril, Samantha e il compagno di lei sono in macchina. L’uomo ha un acceso diverbio con il ragazzo, in seguito al quale pone la donna di fronte a una scel1 2 3
L. Dardenne, Sur l’affaire humaine, Éditions du Seuil, Paris, 2012, p. 17. Le traduzioni qui proposte sono mie [N.d.R]. Ivi, pp. 7-8. Nella lettera all’editore che apre il testo, Luc Dardenne spiega che il libro ha origine da alcune note, scritte nel maggio del 2007, a proposito di due personaggi che sarebbero poi diventati Cyril e Samantha, i protagonisti de Il ragazzo con la bicicletta.
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ta che non ammette mediazioni: “O me, o lui”, dice. Ed è così che Samantha risponde: “Allora lui”. L’uomo ferma la macchina, scende e se ne va. Ancora una volta nessuna spiegazione, né richiesta, né data. Non c’è nulla, in effetti, che possa realmente dar conto (ed il film non tenta neppure di farlo) del perché la donna abbia agito come ha fatto; la sua, ancora una volta, non è una decisione dettata da un vero e proprio atto di volontà. Samantha probabilmente non avrebbe voluto lasciar andare il suo uomo, ma non è questo il punto. Nel momento in cui le viene chiesto di farlo, Samantha sceglie solamente perché deve farlo. Il che, però, non significa che il suo comportamento sia liquidabile superficialmente come il frutto di pura irrazionalità o impulsività. Esso semplicemente risponde a una logica che è capace di rompere la consequenzialità necessaria che lega l’espressione di una volontà all’azione che bisogna compiere perché essa possa trovare realizzazione. Ciò che la decisione di Samantha denuncia, dunque, non è tanto una precisa volontà, quanto una generica disponibilità all’incontro. Basta ricordare cosa dice Gilles Deleuze, nelle pagine iniziali de L’immagine-tempo4, parlando del Neorealismo, a proposito di un tema come quello dell’incontro, per riconoscere ne Il ragazzo con la bicicletta alcuni dei caratteri di quello che, per convezione, si definisce cinema moderno. Primo fra tutti la sostituzione della logica dell’azione (che qui ho connesso con l’affermazione di una volontà chiara da parte del personaggio) con una certa propensione alla veggenza, che per certi versi inibisce la volontà, a favore di un’apertura al fuori, il luogo dove solamente sono possibili gli incontri5. Facendo un passo indietro, allora, si può dire che l’orizzonte di riflessione aperto da un film come Il ragazzo con la bicicletta, e per certi versi da tutto il cinema dei Dardenne, pur prendendo le mosse da posizioni che sembrano del tutto simili a quelle classiche del pensiero nichilista (la presa di coscienza della profonda solitudine dell’essere umano e dell’assenza totale di un sistema immediatamente riconoscibile di valori), si mostra in grado, però, di rovesciare quelle posizioni e di trasformarle – diversamente da 4 5
G. Deleuze, L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano, 2001, pp. 11-24. Su questo tema si veda anche R. De Gaetano, Tra-due. L’immaginazione cinematografica dell’evento d’amore, Pellegrini, Cosenza, 2008.
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quanto accade in Nietzsche per il quale il nichilismo apre le porte alla volontà di potenza – non tanto nella solidità affermativa della volontà (che richiama la figura del Super-uomo, o almeno quella dell’eroe di un film hollywoodiano classico), quanto nella forza dirompente di un incontro. Il riferimento a Nietzsche, infatti, è celato, ma evidente, nelle parole di Luc Dardenne: “Esistono due tipi di felicità: la felicità ottenuta attraverso la volontà e la felicità ricevuta attraverso il riconoscimento”6. E allora, se il raggiungimento della felicità è la dimostrazione evidente che è possibile superare il vuoto nichilistico di valori e affetti, quella aperta dal riconoscimento (una parola preziosa che va pensata assieme a quella che le è immediate attigua, riconoscenza) – non dalla volontà, dunque – è la strada che conduce a questo superamento. Dire che a un meccanismo di riconoscimento debba essere affidata la possibilità stessa della felicità comporta una serie di considerazioni su cui è il caso di soffermarsi, perché è in esse che si può trovare la via d’accesso per una lettura il più possibile convincente non solo di questo, ma anche di altri film dei Dardenne. Ne Il matrimonio di Lorna, per esempio, un piccolo spiraglio di felicità si apre quando la giovane donna, protagonista del film, “riconosce” negli occhi dell’uomo che ha sposato per pura necessità una dolcezza che si era ostinata a non vedere. Per questo lo ama, anche se per un unico, inaspettato momento. La prima delle considerazioni a cui facevo riferimento, la più ovvia, forse, e anche la più facilmente riconducibile al tema già ricordato dell’incontro, è che non si dà felicità se non in una relazione, in un rapporto interpersonale e umano. Non c’è riconoscimento, infatti, che non richieda il coinvolgimento di almeno due parti, attivando fra di esse un sistema di scambi affatto banale. Riconoscendo qualcuno si è al contempo riconosciuti, in una reciprocità di sguardi che ricadono su colui che riconosce e colui che, essendo riconosciuto, si riconosce a sua volta, nella relazione che intrattiene con chi ha di fronte. Non c’è insomma nessun riconoscimento che non passi attraverso la messa in discussione e la ricomprensione di tutte le individualità coinvolte, che finiscono per costituire una unità, un corpo collettivo, nel quale però le singolarità non vanno perdute. Sto alludendo, come ovvio, al problema etico che un processo di riconoscimento 6
L. Dardenne, Sur l’affaire humaine, cit., p. 136.
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porta con sé: un afflato, quello etico, che anima potentemente tutto il cinema dei Dardenne. Ne Il ragazzo con la bicicletta la relazione etica si svela nella sua forma più elementare e primigenia: l’amore di una “madre” per il proprio figlio, l’amore di Samantha per Cyril, il ragazzo che la donna accoglie simbolicamente nel proprio grembo. “Questa prima relazione d’amore infinita della ‘madre’ per il figlio è, per tutti gli esseri umani, l’embrione di una sorta di corpus ethicum al quale essi partecipano. Partecipazione che si traduce nella capacità che ha ogni essere umano di provare la paura per la morte di un altro”7. L’etica, dunque, nasce con il manifestarsi della paura non della propria morte, ma di quella di un altro, prossimo (come è un figlio alla propria madre) ma diverso. È in questo gioco di riconoscimento, di prossimità e distanza, che si esplica la possibilità stessa dell’etica. Si può vivere la presenza di un altro come una minaccia all’autarchia narcisistica del proprio sé. È questo tipo di approccio che comporta il rifiuto dell’altro, la sua negazione, e il conseguente desiderio di far ritorno a una condizione di completo isolamento. Esattamente come accade al padre di Cyril, il quale non sa vedere nel figlio se non un ostacolo al tentativo di costruirsi una vita tutta sua, nuova e quasi solipsistica. Questa condizione di isolamento e di indisposizione all’accoglienza è sottolineata dal modo in cui il padre di Cyril è presentato nel film. Quando il ragazzo, accompagnato da Samantha, riesce a rintracciare suo padre, lo raggiunge nel ristorante in cui lavora. I due bussano alla porta, ma nessuno risponde. Il ragazzo si arrampica e riesce a intravedere il padre attraverso una finestra. L’uomo però non sente, perché la musica del ristorante è troppo forte, e non li vede perché è di spalle. Neppure lo spettatore è nella condizione di vedere l’uomo. Sul retro c’è un’altra porta, ma anche in questo caso nessuno va ad aprire. Cyril allora sale su un muro che isola ermeticamente il cortile del ristorante dal mondo circostante, metafora di uno sguardo che non vuole andar oltre i propri limiti, lì dove scorre la vita, anche quella di Cyril. Il ragazzo comincia a urlare chiamando il padre, finché questo lo sente. “Che ci fai qua?”, dice l’uomo. “Sono venuto a trovarti”, risponde il ragazzo. Il padre di Cyril apre la porta del 7
Ibidem.
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ristorante, fa entrare il figlio, poi si chiude di nuovo la porta alle spalle, lasciando che Samantha aspetti fuori. Nel ristorante avverrà l’unico incontro fra Cyril e suo padre, perché l’uomo dirà di non voler più vedere suo figlio, non varcherà mai la soglia che divide il suo mondo da quello di Cyril. Per suo padre, Cyril non è che la minaccia che la “bolla” in cui vive vada in frantumi a causa della semplice incursione dell’altro. “Per l’essere che viene al mondo, il tempo è rottura, alterazione, cambiamento di condizione, passaggio da uno stato pieno, omogeneo, continuo a uno stato diviso in cui compare un ‘me’ esposto ad un ‘altro’, minacciato di distruzione dall’ ‘altro’, un ‘me’ separato che non è più tutto e che aspira che a ritornare tutto. Questa alterazione è vissuta come paura panica di morire”8. È una condizione narcisistica quella che Luc Dardenne descrive, legandola fra l’altro all’ancestrale paura umana della morte o, come direbbe Freud, ad un egoistico desiderio di autoconservazione9. Ora, perché l’uomo abbandoni tale condizione (quella in cui si trovava prima di venire al mondo) è necessario non solo che egli riconosca l’esistenza del mondo esterno, mostrando interesse per esso, ma anche che lo riconosca come essenzialmente altro da sé. Si può dare il caso, infatti, in cui un soggetto narcisistico scelga come destinatario della propria libido un oggetto che è : “a) quel che egli stesso è (cioè se stesso), b) quel che egli stesso era, c) ciò che egli stesso vorrebbe essere, d) la persona che fu una parte del proprio sé”10. In ciascuno di questi casi, infatti, la relazione amorosa non ha ancora le caratteristiche di una relazione etica, perché cancella ogni distanza fra colui che ama e l’oggetto del proprio amore, decretando ancora una volta, di quest’ultimo, il sostanziale annullamento. Ecco dunque in cosa consiste la più grande “impresa umana”: riconoscere l’altro misurando la distanza che lo divide da me; allo stesso tempo, però, non considerare tale distanza incolmabile e tentare perciò di riempirla, senza per questo volerla esaurire. Vengono in mente alcuni dei momenti più belli di un film duro come Il figlio, in cui la distanza apparentemente incolmabile fra un uomo 8 9 10
Ivi, p. 64. Su questo tema cfr. S. Freud, Introduzione al narcisismo, Bollati Boringhieri, Torino, 2001. Ivi, p. 42.
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e il ragazzo che ucciso suo figlio era incisa simbolicamente sulle assi di legno faticosamente sollevate dai due nella falegnameria in cui il film si svolge. Qui, ne Il ragazzo con la bicicletta, la misura della distanza che divide Samantha da Cyril è labile, eppure potente, come il soffio di un respiro caldo. Una delle notti in cui è ospite a casa di Samantha, Cyril si sveglia, si alza dal suo letto e raggiunge la donna nella sua stanza. Samantha dorme accanto al suo compagno. Il ragazzo li osserva, poi quando intercetta fugacemente lo sguardo di lei, fugge nella sua stanza. Sente forse di aver violato uno spazio di intimità che non deve appartenergli. Sente di aver oltrepassato quella linea fragile che divide lo spazio del sé dallo spazio dell’altro. Samantha raggiunge Cyril, si siede accanto al lui e lo abbraccia. Senza neppure guardarla, Cyril dice: “È caldo”. “Che cosa?”, chiede Samantha. “Il tuo respiro”, risponde il ragazzo. Il quel respiro sta tutto il senso del loro incontro, del loro essere e sentirsi vicini, nonostante tutto. È lo spazio etereo di quel respiro che il cinema dei Dardenne non viola mai. In questo, come in altri film, la macchina da presa segue discreta i movimenti, i gesti, gli attimi di incertezza dei personaggi; quasi applicando alla lettera quell’idea zavattiniana di “pedinamento” che era stata alla base della poetica neorealista. Ma è soprattutto lo sguardo dei personaggi sul mondo che li circonda a non essere mai forzato: mai, infatti, lo spettatore vede o sa di più, di quel che vedono gli occhi di coloro che danno corpo ai film. La macchina da presa si muove con loro, è al loro livello, senza comunque mai infrangere quella distanza che è garanzia di uno sguardo che voglia davvero dirsi “etico”. Uno sguardo, quello dei Dardenne, capace di darsi dei limiti, fino a imporsi d’arrestarsi, cosicché la realtà possa procedere, da sola, oltre i confini del cinema; così come va via Cyril alla fine del film, quando la macchina da presa lo osserva, immobile, risalire per l’ultima volta sulla sua bicicletta e girare l’angolo, e andare là dove la vita lo attende. Distanza, però, non vuol dire distacco e qui, come altrove, il cinema dei Dardenne riesce a mantenersi caldo, come è caldo il respiro di Samantha quando abbraccia Cyril. È quel calore che permette alla macchina da presa di cogliere, nello scorrere quasi banale del quotidiano, l’irrompere di qualcosa che Bresson avrebbe definito “grazia”. Come quando segue la pedalata affannosa e liberatoria di Cyril che, con la sua maglietta rossa, torna da Samantha, la sera in
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cui ha compiuto una rapina ai danni di un edicolante e di Martin, suo figlio. È nello scorrere di pochi attimi che qualcosa come un “evento” accade, nel momento esatto in cui il ragazzo decide di sottrarsi ad un circolo di violenza che, se non fosse stato interrotto, avrebbe finito col risucchiarlo. Cyril chiede scusa a Samantha per ciò che ha fatto. “Vorrei venire a vivere con te, per sempre”, dice. Una promessa di eternità che la donna, ancora una volta, accetta senza chiedere spiegazioni. Ciò che vuole dal ragazzo è solamente un bacio, per poi riaccoglierlo fra le sue braccia in un autentico gesto d’amore che sancisce, per entrambi, il momento di una nuova, seconda nascita. Sarà allora che i due potranno pedalare l’uno accanto all’altra, e anche in quel caso, la macchina da presa sarà lì a guardarli allontanarsi insieme.
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Claudio Bartolini
ASIMMETRIE DEL (CYBER)CAPITALISMO COSMOPOLIS (2012) DI DAVID CRONENBERG
“Lei ha la prostata asimmetrica” (Dottor Ingram, Cosmopolis, Don DeLillo, 2003).
Anomalie. Piccole, impercettibili varianti in un sistema rigoroso. Fori che bucano le pareti di stanze pressurizzate, incrinandone gli equilibri. Virus, inoculati in organismi sani e messi al lavoro per riconfigurare il metabolismo, vampirizzare le funzioni dell’ospite, alterarne irreversibilmente il funzionamento. Da quasi cinquant’anni David Cronenberg lavora sulle disfunzioni, mettendo in scena l’immaginario della propria contemporaneità per prefigurare scenari di crisi simbolica e materiale. Dal parassita afrodisiaco che in Il demone sotto la pelle si insinuava nell’ipermoderno centro residenziale, scardinando le coordinate del luogo e dei suoi ospiti, al tumore cerebrale provocato dal programma televisivo cancerogeno di Videodrome, fino alle variabili impazzite di La mosca e alle sostanze sintetico/stupefacenti di Il pasto nudo ed eXistenZ, il cineasta di Toronto ha seguito la linea retta di un preciso programma creativo. Creando un macrotesto coerente e coeso rispetto alla costante delle proprie ossessioni, Cronenberg ha variato i codici, i generi e le consuetudini della sua arte sulla base dei mutamenti che la contemporaneità gli ha sottoposto nel corso dei decenni. Negli anni Settanta e Ottanta trionfano le viscere e il sangue, l’horror e la solidità di sguardo, i parassiti di Shivers e i pungiglioni fallici di Rabid. Sete di sangue, la paura delle malattie veneree e i nuovi modelli di sessualità onnivora. L’autore attinge a un mondo profondamente tattile, tagliando e trasformando i corpi per esplorarne il (dis)funzionamento. Feti mostruosi come escrescenze tumorali sono il corrispettivo visivo del collasso dell’istituzione
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familiare; ferite addominali nelle quali inserire VHS rendono conto del crescente strapotere coercitivo dei mass media; spaventose trasformazioni in insetto sono ovvie conseguenze di uno sviluppo scientifico regolato solo dall’hybris di folli mad doctor, a loro volta pilotati da deviate logiche industriali. Tutto è carne, putrefazione e mutazione corporea, in una messa in scena fantahorror scandita dalla concretezza di effetti visivi creati artigianalmente. Poi irrompono gli anni Novanta e l’immaginario al quale Cronenberg attinge subisce uno scarto profondo. La liquidità dello sguardo postmoderno prende il sopravvento sugli appigli solidi della modernità, svincolando progressivamente l’idea dalla sua rappresentazione materica. Se in Inseparabili, la macchina da presa si ferma un attimo prima di penetrare il corpo, in M. Butterfly è l’immagine della mente a creare la realtà virale: René Gallimard si innamora di un uomo che crede donna al punto da credere di averlo ingravidato con la sola penetrazione anale. Nel frattempo le riflessioni sui media si ancorano a supporti sempre meno invasivi e le VHS viscerali di Videodrome diventano realtà virtuali da connettere al midollo spinale attraverso semplici fori (che incrinano gli equilibri di stanze pressurizzate). I sistemi di senso – industriali, economici, tecnologici – sono cambiati, e Cronenberg modula la sua rappresentazione disfunzionale del reale interpretandone le direttrici. Irrompe il melodramma, con la sua eterea carica emotiva, e la centralità del corpo spalanca interstizi di dialogo con una mente sempre meno organica e sempre più psicologica. I tumori cerebrali diventano scissioni psichiche, i mutanti impazziti sono ora uomini intimamente in crisi nel loro rapporto con il mondo e gli affetti. Nel nuovo millennio l’equilibrio mente/corpo è nuovamente rivisitato, con la prima che si impossessa della scena e diviene epicentro teorico di riflessione. Spider, A History of Violence e La promessa dell’assassino riflettono lo smarrimento interiore dell’individuo contemporaneo, la perdita di coordinate e ancoraggi solidi e le difficoltà nel rapporto con il sistema circostante. L’homo cronenberghianus si muove in contesti thriller e noir, da sempre territori di elezione per la messa in scena di scissioni identitarie e doppi giochi contestuali. Dennis Cleg duplica il reale sulla base della propria schizofrenia; nella mente del mansueto Tom Stall alberga il serial killer Joey Cusack, incarnazione del rimosso tornata
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a far visita al protagonista; Nikolai Luzhin smarrisce la sua identità di agente sotto copertura nel ruolo di un mafioso della Vori V Zakone. La liquidità postmoderna evapora in universi di senso immateriali e lo spettatore fatica a riconoscere il timbro di un autore fino ad allora legato indissolubilmente alla visceralità di sguardo. In realtà, il macrotesto cronenberghiano procede senza freno a mano lungo la sua linea retta e in esso sono riconoscibili le medesime ricorrenze teoriche degli esordi, semplicemente condotte a uno stadio materico altro. Se il virus degli esordi si legava a fobie e ossessioni solide (malattie veneree, pervasività tecnologica), con il passare del tempo sono proprio tali ossessioni contestuali ad aver subito alterazioni profonde, debordando nei territori dell’immateriale (il virtuale, l’identità, la delocalizzazione dell’informazione e del lavoro). Inevitabile, dunque, che anche il virus teorizzato dal cineasta canadese, con il passare degli anni, abbia dato vita a opere sempre più focalizzate sull’individuo e sempre meno palesi nella loro messa in scena deformante dei tempi. A Dangerous Method e Cosmopolis costituiscono in questo senso un ulteriore punto di svolta e, sicuramente, di non ritorno. La deviazione nel sistema dell’intangibile interna al macrotesto dell’autore trova nei due film dei nuovi anni Dieci consacrazione e compimento. Campi e controcampi, dialoghi in(in)terrotti, parole e omissioni, (an)affettività e asetticità formale: il cinema di Cronenberg ha compiuto il definitivo salto nel mondo delle idee, evaporando la materia e privandola di ogni valore spendibile. Se in A Dangerous Method, però, i confronti verbali interni al triangolo Freud/Jung/Spielrein e i pellegrinaggi nei meandri della mente conducono all’elaborazione di teorie psicoanalitiche coerenti, Cosmopolis abbatte anche quest’ultima logica di racconto, dando vita a circonvoluzioni dialogiche prive di qualunque referente oggettivo e consegnate al mondo dell’immateriale, al pari dei sistemi finanziari continuamente evocati e mai realmente esperiti. Adattando il romanzo di Don DeLillo, testo chiave della letteratura americana contemporanea, Cronenberg porta a compimento lo stato gassoso del proprio cinema mentre, parallelamente, rende conto dei mutamenti di rappresentazione dell’immaginario economico mondiale. Negli anni Trenta del New Deal e dei grandi moloch industriali la Settima Arte americana rifletteva l’attualità
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economica attraverso la messa in scena dell’industria pesante (pensiamo alle sequenze nella catena di montaggio di Tempi moderni); negli Ottanta dell’edonismo e delle bolle economiche la materia si liquefaceva nei flussi di denaro impalpabile di Wall Street e nel consumismo mediatico di Essi vivono, comunque ancorati a centri di potere concreti e ben localizzati. Nel panorama capitalista odierno, l’ingranaggio economico gira soltanto nel mondo delle idee, situato in un luogo virtuale e disancorato da ogni supporto tangibile. Nel pianeta Terra esistono soltanto punti di accesso al cybercapitale remoto, che Cronenberg si limita a mettere in scena sotto forma di schermi e display luminosi, attraverso i quali Eric Packer può essere a conoscenza delle nubi di denaro gassoso che ogni giorno muove (in)consapevolmente1. Nella capsula per il teletrasporto di Seth Brundle è finito il capitale, mentre nella realtà riscontrabile rimangono simulacri privi di senso. Cosmopolis è il frutto di un meticoloso lavoro in sede di sceneggiatura, nel quale Cronenberg mantiene le parole ed elimina gli atti per consegnarci un trattato verbale sulla deriva dei tempi e sull’autoannientamento capitalista. A bordo della sua limousine, Packer vede fallire il proprio impero senza poter (voler) opporre resistenza, mentre espone i propri dubbi esistenzial/economici a moglie, collaboratori, amanti e guardie del corpo. La narrazione, scandita da primi piani e interruzioni di dialogo, elide le emozioni a beneficio di un totale straniamento dell’Io, presente di fronte alla macchina da presa, ma a sua volta delocalizzato sul piano identitario ed emotivo. Le (rare) sensazioni forti presenti e meticolosamente descritte nel testo da DeLillo – la breve estasi che Eric prova dopo la scarica elettrica inflittagli dall’amante/ bodyguard, la morte per mano di Benno Levin – sono confinate nel fuoricampo, nel non detto e nel non mostrabile di un cinema che si fa pura astrazione concettuale dei suoi tempi. Come i quadri di Mark Rothko, più volte evocati e a più livelli coinvolti nella scena 1
Suggestiva la riflessione che propone Giulio Sangiorgio, in un ottica di ribaltamento che dal post-moderno sconfina nel post-umano: «Eric/ Robert Pattinson, marcio Candide del tardocapitalismo è, almeno in potenza, post-umano: la tecnica non è più strumento che agisce sul mondo, che lo manipola […], la tecnica è strumento che rende il mondo paesaggio interiore dell’uomo». G. Sangiorgio, Cosmopolis, in “Gli Spietati”.
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(sugli schermi di un display in auto, nelle parole di Didi Fancher, nei desideri vuoti e feticisti di Eric, emblematicamente sui titoli di coda) anche il film di Cronenberg è astrazione di realtà mediante continue “pennellate” atte a raggiungere la perfezione geometrica e cromatica dell’inquadratura. Cosmopolis è un’opera frontale di rara immediatezza, la cui messa in quadro si abolisce in camera fissa, in leggere panoramiche e in carrelli all’indietro (con zoom contrapposti) per lasciare spazio al protagonismo dialogico e simbolico. Gli elementi dell’arredo filmico che così spesso entravano in rapporto/conflitto con il personaggio, assumendone connotati ed esistenza carnale, sono ora semplici e devitalizzate cornici dell’azione. La “inscindibilità tra tecnologia e capitale” imprigiona l’anima degli schermi televisivi e ne blocca irreversibilmente lo sviluppo organico: se i televisori di Videodrome sanguinavano in seguito alla mostra degli omicidi, i monitor di Cosmopolis, pur restituendo l’accoltellamento in diretta del capo del Fondo Monetario Internazionale, non subiscono le conseguenze “fisiche” dell’accaduto. Questo, essenzialmente, per due motivi: prima di tutto la già accennata esclusività funzionale dell’apparecchio, diretta emanazione del capitalismo in remoto e, dunque, distante da ogni referente in carne e ossa; in seconda istanza, il legame simbiotico tra l’apparecchio tecnologico e il suo proprietario fisico, anch’egli quasi del tutto svincolato dalle connessioni con l’istanza reale e delocalizzato anche a livello geografico (“Dov’è il tuo ufficio? Cosa fai tu esattamente?” sono domande poste a Eric Packer che non trovano risposte comprensibili secondo la tradizionale topografia urbana). Anche la limousine, a differenza delle auto “partecipanti” agli amplessi di Crash, si limita a contenere, isolare e traghettare il protagonista: la totale indifferenza dell’ingranaggio meccanico nei confronti del suo utilizzatore riflette emblematicamente i mutamenti di un capitalismo non più bisognoso di compiersi a partire dal sudore dell’essere umano sui macchinari. L’auto di Packer procede verso l’obiettivo, incurante tanto di ciò che accade sui suoi sedili, quanto delle manifestazioni che impazzano per le vie di Manhattan. Ma è proprio attraverso la contrapposizione tra “dentro e fuori l’automobile” che Cronenberg sviluppa e insinua il virus, estrinsecazione amplificata della malattia che affligge e corrode il cyberca-
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pitalismo. Agli interni cristallizzati, immobili nell’asetticità delle luci fredde di Peter Suschitzky e nel sound design di Howard Shore a suggestioni statiche, si oppongono esterni caotici, dalle tonalità marroni invase da sporcizia e residuati di epoche passate. Quello che si consuma nell’acquario su ruote è un viaggio atemporale tra un passato del quale non arrivano nemmeno i suoni e un presente/ futuro in via di autodisfacimento. “Questa è una protesta contro il futuro” afferma con decisione Jane Melman, mentre fuori dai finestrini impermeabili ai rumori impazzano cori di manifestanti aggrappati a giganteschi topi, simboli di un sindacalismo strenuamente opposto ai modelli dominanti al grido ricorrente: “Uno spettro si aggira per il mondo. Lo spettro del capitalismo”. “Sono persone generate dal mercato” o, più probabilmente, sono residuati di un mercato precedente che devono esistere per affermare quello esistente. Ma anche nelle nuove strutture dell’economia intangibile, isolata dal passato e dalle sue lezioni, il virus riesce a fare breccia. L’anomalia cronenberghiana, specchio (nemmeno più di tanto) deformante della crisi economica del 2008 (prefigurata da DeLillo già nel 2003) incrina gli equilibri della narrazione e di Eric Packer, da una parte interprete privilegiato del nuovo sistema, dall’altra sottilmente attratto dai fossili del vecchio immaginario2. Già il presupposto di base del racconto permette una prima distorsione dell’ordine: Packer deve tagliarsi i capelli e vuole assolutamente recarsi da un barbiere di Hell’s Kitchen, attraversando tutta Manhattan. Potrebbe chiamare un parrucchiere nel suo ufficio, oppure farlo salire direttamente a bordo della limousine. Eppure, opta per una tra le zone più malfamate di New York, come se volesse provare qualche emozione forte nello scoprire il mondo ai margini del suo universo di segni virtuale. Questo è soltanto il primo di una serie di spiragli che il protagonista apre all’irruzione 2
L’ambivalenza del percorso di Eric Packer è ben sintetizzata da Massimo Causo: “Il film nasce sull’autodeterminazione di un personaggio che descrive per se stesso un percorso di gloria che è al contempo una esplicita via crucis, una figura che si spinge alla fine del suo mondo (quel mondo che definisce e incarna) per compiere un atto che è allo stesso tempo un ritorno al (proprio) passato e il compimento di un futuro annunciato e fatalmente cercato: come dire, il paradigma di qualsiasi parabola cronenberghiana, fatta di veggenza e fatalismo, rivelazione e consapevolezza, determinazione e destino”. M. Causo, Il mondo interno dell’esterno dell’interno, in “Cineforum” n. 515, giugno 2012, pag. 5.
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del dato umano, concreto, esterno. Seguiranno le discese dall’auto per incontrare la moglie in un bar e in biblioteca (simbolo di un consumo culturale ormai obsoleto), la tappa in un motel per abbandonarsi a un fugace e primordiale amplesso con la bodyguard Kendra, la sosta notturna nei pressi di un campo di street basket dove sperimentare sulla pelle le proteste sindacali (la torta in faccia di Petrescu, che dichiara emblematicamente “Sono un morto vivente!”) e l’omicidio ai danni della guardia del corpo Torval. Tutto è compiuto meccanicamente e quasi automaticamente: la mente non è mai dove si trova il corpo e le azioni (ordinare al bar, vivere il rapporto sessuale, persino uccidere) sono compiute mentre si parla (ancora e sempre) d’altro fino a dimenticarsi di ciò che si sta facendo (“Ho ordinato questo?”). Packer osserva ed esperisce il reale tangibile durante le brevi interruzioni del percorso negli interni ovattati della limousine, mettendo in cortocircuito gli assiomi di un ingranaggio che dovrebbe restare dematerializzato. Lui, sovrano del calcolo e dell’oscillatoria preveggenza finanziaria, spalanca le porte all’emorragia in virtù di una spinta irresistibile verso l’elemento di natura, in grado di far saltare il banco nella logica di comprensione del (nuovo) esistente. L’attrazione verso questa variabile, a lui comunque incomprensibile, rende conto di quanto, in fondo, anche Eric sia un essere umano, la cui esistenza risponde alle regole fisiche del reale. Quando il dottor Ingram gli diagnostica un’asimmetria prostatica, il suo sistema di comprensione va in pezzi, per il semplice motivo che il corpo, di nuovo e come sempre in Cronenberg, ha stabilito una connessione con la mente. Nel nuovo cinema cronenberghiano, l’irruzione della carne rimane al di fuori dell’inquadratura ma prende comunque forma come concetto: la materia viene così elevata a idea di materia, insinuandosi con rinnovato vigore nella psiche del protagonista. Durante il monologo conclusivo, Benno Levin smaschererà le ragioni dell’autoannientamento del capitale di Eric, identificando nella mancata considerazione del dato di natura il fallimento dell’intero modello economico. In un meccanismo guidato da un sistema di calcolo del tutto privo di margini organici, è proprio l’imprevedibilità umana (di natura) la variabile capace di spingere al collasso l’intera struttura: ignorando e sottovalutando quest’ultima, Packer non ha compreso le oscillazioni dello yuan (il giapponese yen), ro-
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vinandosi con le sue stesse mani. Ancora una volta, Cronenberg inocula in una rappresentazione estrema e disfunzionale della contemporaneità un virus, rendendo conto al pubblico delle sue tappe evolutive. A partire dal contagio (ben prima dei titoli di testa), proseguendo con la gestazione (la limousine come macchina incubatrice asettica) la manifestazione (la scoperta della prostata asimmetrica, l’omicidio di Torval) e la diffusione (l’effetto-domino dell’operato di Packer sull’economia mondiale), l’autore canadese conduce lo spettatore alla catastrofe, portata a compimento nella soffitta sporca e maleodorante di Benno Levin. Tuttavia, a differenza delle opere precedenti, al termine del percorso virale non c’è morte, né tantomeno rinascita. Se la nuova razza contaminata dal parassita afrodisiaco era destinata a fondare un nuovo ordine in Shivers e la piccola Cindy portava (addosso e nel mondo) i segni della psicoplasmica in Brood. La covata malefica. Se Max Renn si aboliva in video – prefigurando una nuova esistenza dominata dalle regole del mass media – e il figlio di Brundle-Mosca sopravviveva al mostruoso padre nel grembo di Veronica Quaife. Se in eXistenZ “Siamo ancora nel gioco?” e in A History of Violence non sappiamo come reagiranno i figli di Tom Stall all’esposizione alla violenza paterna, in Cosmopolis Cronenberg non chiude la narrazione e non apre a possibili, ulteriori livelli di accesso. La crisi economica è l’oggi e, molto probabilmente, sarà il domani del sistema capitalista occidentale: perché, dunque, lasciare intravedere spiragli? Pur di conservare il proprio finale oscuro allungando ulteriori ombre sul destino che attende il cybercapitalismo, il cineasta taglia la morte di Packer presente in DeLillo elidendo anche l’ultimo, possibile atto. L’immagine conclusiva, con la pistola di Benno Levin puntata alla testa del protagonista, è la più potente dichiarazione di contemporaneità possibile: l’Occidente comprende il proprio scacco (matto), consegnandosi nelle mani di un passato che ritorna, ineluttabile e fatale. Di un’anomalia virale mai del tutto estinta. Di un alter ego perturbante e impossibile da eliminare. E quando (e se) quel grilletto sarà premuto, si apriranno le porte della nuova Annexia, dove anche l’idea di capitale sarà per sempre estinta.
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Excipit enrico ghezzi
IL DUEMILAUNICO (E LA SUA IMPROPRIETÀ) SEPOLTO, VIVO / CHI MUORE SI RIVEDE In un angolo luminoso del suo scrivere raro, artavadz peleŝian si scaglia contro l’illusione ideologica del cinema quale attuazione promessa o già avvenuta dell’operadartetotale wagneriana, figuraschermo infinitamente duttile e mutante, ala e vessillo di uno scavare appassionato attraverso gli strati sovrimpressi di diverse trasparenze. Da reperire e da catalogare forse, sempre col debito cieco utopico di un costruttivismo globale, dove anche le più invisibili e indistinguibili vernici e patine e dimensioni (alla 3Dennesima potenza debolezza) si intrecciano per manifestare il nuovo corpo digitale del cinema. (Il racconto ve(t)rificato o ancora vetrificante di ciò si dà a vedere (senza darsi a intravedere) probabilmente nell’opera tutta di cronenberg, giustamente epico (o epicocomico epicomico) anche o specialmente quando si glorifica nel patirsi ‘ultimo cineasta (ebreo) del mondo’). La grandillusione renoiriana o straubhuillettiana (il vedere/vedersi quasi rinascimentale dell’autore, inscritto nella contemplazione calma ‘umana’ del quadro (ri)composto, nell’ascolto che è attesa e capacità di reperire le ragioni di tutti e di nessuno, inestricabilmente troppo umane) sta nell’intrecciarsi e comunicarsi olimpico dell’arazzo postsettecentesco (anche nell’esito della frontalità straub che chiama per darci la chiave dell’altra parte, dove la luce illuministica cerca l’ombra per riconoscerla senza sovraccaricarla drammaticamente e romanticamente nelle diverse violenze di fichte novalis jeanpaul schelling hegel holderlin – cineasti sommi, tanto il loro soggetto è già migrato in forma filmico-onirica, inventandosi ‘cinema’). Ma il cinema è nodo gordiano e insieme la spada che lo annulla. Il più radicale ri-inventore del cinema, oggi ancora, nei giorni del crepuscolo eterno – rallentato e quasi fermo o addirittura in riavvolgimento avanzato – di belatarr e lavdiaz
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e di soderbergh e tsaiminglian e..e..e.. – ci appare rossellini, che raccoglie la sfida dell’automatismo filmico rinviandola allo scacco infinito e sfinito del test di rorschach di irene/ingrid in Europa 51, e contrapponendole l’adirezionalità centrifuga letteralmente vertiginosa del finale di Francesco Giullare di Dio, i frati dervisci vorticanti cascanti, a perder la testa e i sensi per sensi strade cieli dopo la fine. Gli altri due gemelli di un trio fatale, orsonwelles e alfredhitchcock, lasciano uno il risultato dell’evento nascosto che affida a donchisciotte il compito trionfale di distruggere e azzerare il cinema nello schermo in cui si esibisce e si barrica, l’altro la riscoperta che nel cortile si inscrive tutto il theatrum mundi e che non se ne esce se non calandosi nell’interstizio nero tra i fotogrammi, vivendo in tale nero la sola immagine possibile del mondoteatro che è il presente registrato la cui vertigine coincide nelle troppe vite (la prima compresa) a ognistante apparenti e disparenti. Il colpo di peleŝian annulla a sua volta la fine e pone il racconto del cinema nel solco del palindromo debordiano: in girum imus nocte et consumimur igni. Lo spostamento è minimo ma decisivo. Il monte ararat dove si posa l’arca delle immagini non è piramide immane in costruzione ma culmine di una rovina immensa e babelica, miniera devastata dal fulmine, sfasciume e valanga, echi di un’esplosione già avvenuta di cui ci resta l’immagine – frammenti innumerevoli di immagine più che immagini del frammento. Insieme scavo e museo a cielo aperto, il cinema accoglie simula filma tutti i cantieri, ri-presenta quel che è possibile filmare, tanto che il set ricopre ogni spazio immaginabile, realizza il reale scavalcando o moltiplicando in duna infinita le differenze e le ripetizioni, riproiettando lo smisurato concerto senza direttore in un confronto di parallele che si toccano solo ‘all’infinito’. Né, potremmo dire, la scorciatoia digitale muta la situazione. Il mondo si beve in un google e il coincidere sempre più preciso di ‘simulazione’ e ‘finzione’ lascia margini infinitesimi ai giochi ipotizzabili. Anche il compito di produrre il ‘negativo’ poiché il ‘positivo’ ci è gia dato (Kafka) sembra l’alternativa di un prillar di moneta in aria, rappresentazione troppo pesante della faccia pellicolare filmica e delle impalpabili/impulpabili megabolle monadicofinanziarie dell’oggi. Nella prospettiva rovesciata di peleŝian, il mondo non si ‘ri’ né de-costruisce, né cerca di realizzare o raggiungere figure a venire;
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la montagna, esplosa o implosa crollando su di sé, è il deposito la cui archeologia dissipata permette e suggerisce – mediante il gioco e la fatica – l’invenzione e l’uso di nuovi codici sepolti, formatisi proprio nel collasso di una sorta di lingua generale e portati alla luce dal cozzo di strati di immagine e di elementi scambiati, esposto in forma di a-presentazione o di ir-rappresentazione. (Jean paul, che cambiò il proprio nome, scrive la frase cruciale degli ultimi duecentocinquanta anni: ‘la vita è l’anagramma dei nostri desideri’). (Giulio Camillo scrisse il sensazionale L’Idea del Theatro, catalogo urgente e rinviato della memoria delle immagini, pubblicato postumo a venezia nel 1450, cinquecento anni prima di warburg e warhol). All’ultramontaggio e tramontaggio digitale si oppone il vaticinio peleshianiano del ‘montaggio a distanza’, che con qualche ragione potremmo chiamare ‘sormontaggio’. Lasciare indietro il montaggio, fino a oggi fase ultima della post-produzione, compresa l’onnipotenza del digitale ‘poter tutto cambiare’ nella fine o dopo la fine o all’interno di qualunque scena inquadratura fotogramma. Spostando invece il punto di vista a distanze irraggiungibili dall’artistico-umano, in lontananza cosmica capace poi di tuffarsi in acqua vicino a noi; per parte nostra guardando il montaggio più battente e frenetico investendolo rifilmato e ripensato in pianosequenza, e cercando di sentire la velocità della luce – e oltre – che rende ultrarapido il più lento e posato dei ritratti filmici, se appena ci diamo la pena e il godimento di avvertire il brusìo con cui un volto semplicemente filmato in primo piano ci fa sentire l’abisso da cui proviene, monolito del sembiante umano. (Andare a parare). Del resto, se si va a scavare, si trovano ovunque nel cinema immagini in guisa di parate militari o folk, dalla Big Parade vidoriana ai film di johnford, dal finale di Elèna et les Hommes di renoir alle armate di cloni elettronici nel buddhino di bertolucci (già comandante di campo nell’ultima ArmataRossa filmica), o in transformer sparsi a disseminare le possibilità di ‘trance’. Ma infine la tv tutta è il compimento della grande parata inaugurata dall’uscir di fabbrica e scender dal treno degli operai e dei borghesi lumière. (Una fantasia. Dentro un’altra. Se già stiamo postvivendo, uomini sepolti vivi nel cuore del monte franato. La cui vita è possibi-
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le solo trovando e quasi suggendo un respiro ultimo trattenuto (à bout de souffle) in apnea sine die, quella che corre il cinema, quella che (les 400 coups) inebria il piccolo léaud di truffaut schiacciato in centrifuga al lunapark, obbligato a volare al limite di uno schermo circolare (i dioscuri della nouvelle vague consegnano ancora il loro segreto offuscato nel visibile, uno trincerato nel museo in cui fa scorrere in parata ogni tipo di immagine e di reminiscenza, diario sconfinato di pittore tentato dall’arte del(l’auto)ritratto ovale (vedi l’incontro cruciale godardweekend rollingstones schifanononumano benecapricci ballardcrash – e poi cronenberg e giù attraverso i motori sacri di carax almeno arrischiati, invece di trovarsi a riscoprire il sacrogral della ‘realtà’ avendo sbucciato a stento l’involucro plastico della mela – ... apple. – in vendita), l’altro dischiudendo e riseppellendo nei finali dei primi due suoi film lo slittare improvviso del mondo, sparate sul pianista tutti i vostri 400 colpi, l’incanto del surplace morto/vivo resta e si ricarica nel non sapere ‘chi’ e ‘se’ guarda il mare, o nessuno, e lo slittamento nel bianco della neve, nel morire della non-immagine – Oh, il rovello omicida del montaggio – che mi induce a non voler mai chiudere la parentesi in atto – Non si tratta proprio di inventare il cinema – lo sapevano da subito buñuel, e ford e vigo e vidor e vertov dovzhenko murnau lang – ma di arrivare, per carezze amorose e bracci di ferro, a ri-sentire come il cinema ci ha reinventati, innumerevoli golem nascosti vivi nel sottosuolo o annegati mai annegati spiriti d’acqua sul fondo. L’abbecedario del cinema a venire è la lettera rubata preregistrata nascosta e esibita in ogni punto di 2001 Odissea nello Spazio. Il cui articolarsi è ovviamente la storia del cinema – incredibilmente vicina alle ‘storie di cinema’ di godard. Dove tutto il mondo è museo e miniera, nel grand jeu del monolito. Evocarla mi porta al mio personale poter coincidere (con esiti forse non meno disastrosi del 2001 delle twin towers) passionalmente – passione cartesianspinoziana, se si vuole – con la scena/ situazione del venir meno di HAL9000, vertice mélo dell’uomo disconnesso, lasciapassare inevitabile e struggente perché il genere stesso possa gettare l’occhio nell’abisso maelstrom, vedendo stravedendo fino a oltre la velocità della luce, l’occhio mantenuto strenuamente surplace nel passaggio segreto tra wide e shut, dove si intravvede il nonvedere, l’ultravedere cormaniano accecato, e
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infine nulla da vedere perché la scena e l’immagine ci inghiottono e sorpassano, ci lasciano indietro pietrificati in sculture, visti rivisti da altri sguardi divinamente annoiati e distratti dal ‘dé(ad)jà vu’ che già fummo e che li intenerisce o incredulisce. Ri-siamo per la prima volta risalendo oltre la vista, introflessi nell’occhio che non si vede, accecato dall’intensità non sua, battito di luce impazzito impossibile (non è la luce che proietta sullo schermo, e che (secondo buñuel)-riflessa- spaccherebbe il mondo esplodendolo?). Accettato per gioco nonsoperché l’incarico di scriver(vi/ti) qui, ambirei non solo per comodità dare un testo chiuso e compiuto in qualunque punto si interrompa. Ovvero, mai. Troppe albe mi hanno sorpreso e dilettato nel godimento dell’intravvedere e nell’angoscia del ripetermi. e---: Così, (in ordine) sparso. Strano aderire, pensandoci, dei garrel ultimi allo scacco tragico del resnais del momento Je t’Aime Je t’Aime / Stavisky (poi filtrato e depositato con forsennata olimpicità nello shining Providence). Il prezzo del risalire anche la porzione infima di tempo immaginabile, mutandola in aspetto spaziale, è solo la gratuità del biglietto di solo ritorno, impossibile e insieme obbligato, compreso da sempre nel nostro respiro affidato o affittato. In Girum Imus Nocte.. Forse son faville, ma sembrano immagini, le luci di moonfleet che invitano al naufragio di cui sare(m)mo infiniti spettatori sopravviventi sopravvedenti la corrente stessa, e l’ondata che siamo. Garrell, dicevo, che nella Jalousie tocca il tasto invisibile di un né bianco né nero maivisto, rimontando all’ indietro e allinsu, contrabbandiere sublime di qua e di là della frontiera dell’alba. Film d’amore estremo, in cui l’amore è quel che non è, ovvero quel che non si vede e non si sente e solo svanendo si certifica. Il cinema memoria non nostra, bolla irsuta schwittersiana, davvero fummo e siamo noi a soffiarla? E i luoghi. Corpi e luoghi, il cinema. Falsi ritorni. Meglio: ‘si può tornare solo dove non siamo mai stati’ (da uno pseudoheidegger). L’isola. Spazio dove si esercita, schermata da nebbia e da cortine mortali, un’attività filmica delirante sperimentale assoluta, da castello sadiano. Tutto sul cinema d’oggi (soprattutto su quello che (ildocumentario ah hahaha..) si crede immune dalla maledizione della realtà, pensando di salvarsene ‘documentandola’) è raccontato da KingKong L’Invenzione di Morel The Most Dangerous Game
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L’Isola dei Morti Matango Un po’ come se i morti rivivessero (o se ci trovassimo certificati e schedati noi in tale situazione -quella del morto), esigendo un qualunque ‘risarcimento’ (perché ci lasciaste morire? O perché ci faceste vivere?), l’unica grande chance di liberarci dall’autogiustificazione ideologica esiziale del ‘genere documentario’, affiorò quando i maestri e le famiglie dei bambini di una scuola nel cuore della francia chiesero di godere anch’essi di una ‘percentuale’ dei numerosissimi premi vinti e delle vendite in tutto il mondo di un film ‘documentario’ (di Philibert) sulla loro stessa scuola. La risposta piagnucolosamente cinica di autori produttori burocrati vari: allarme, se tutte le persone docufilmate dovessero chiedere un rimborso o una quota dei ricavi sarebbe in pericolo la libertà e l’indipendenza di questo cinema !
‘I film non si fanno, si rifanno’ (irvingthalberg, produttore geniale di Freaks e della Garbo modello del monroestahr di eliakazan per The Last Tycoon, la famosa scena della monetina presa e ripresa al volo: ‘ma..il nichelino?..- ah, oh, niente, era solo per tener sveglia l’attenzione..). Solo che il nichelino è il gesto intero del cinema, la microipnosi subliminale scovata e filmata varie volte da jacquestati, punto d’ equilibrio tra attenzione e distrazione. Manifesta in altro modo nei film ormai non rari (ultimo amosgitai con An Araby) risolti tecnicamente e visivamente in un solo pianosequenza (dopo il The Rope di hitchcock e l’Arca Russa di sokurov) che infine mettono fuoricampo ‘tutto il mondo’ rispetto all’avvincersi e avvincerci di una performance di scultura in diretta nello spazio (non lontana dalla situazione del serpente incantato dalla nudità danzante di debrapaget ne La Tigre di Eschnapur/Sepolcro Indiano di fritzlang. L’intervallo tra fotogrammi attende ancora la nostra mutazione in veri e propri sommozzatori della luce (oh il finale sublime di La StregaRossa di edwardludwig).
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E per ora queste torsioni sono anche cravatte che strangolano il cinema, salvo che il Detour come in Ulmer non si infinitizzi nel gesto del cappio o della cravatta o del filo strangolante, che è infatti l’immagine del cinema come apnea preagonica (di nuovo lang, Cloak and Dagger, e hitch, Il Sipario Strappato/ TheTornCurtain, con anche una folgorazione – la lavagna il cancellino gli occhi sbarrati di paulnewman – di ‘memoria non nostra’). Qualche settimana fa, un pomeriggio con sokurov fino a notte un un’ala desueta del Louvre. Molte statue infagottate dall’imballaggio per un nuovo trasloco, trovate così dalla troupe. Molto silenzio, le immagini digitali sul monitor di controllo parevano spente rispetto all’illuminazione splendente dal vivo. Aleksandr tranquillo, attento ma anche distratto da un rovello appena affiorante. Mi piace molto un suo improvviso avvicinarsi a una statua, toccandola e invitando poi un attore vestito da ufficiale nazista a fare lo stesso gesto. Per andare in bagno, in una pausa, vengo accompagnato da due guardie, devo attraversare tutte le sale di scultura greco-romana e lo spazio è pieno di sensori. A ritroso, con la vescica più leggera, mi fermo a metà di una scalinata, mi volto e guardo verso l’alto, trafitto da uno sguardo che non c’è. Sorridono le guardie nel semibuio, si è lì che tornerà la Nikè di Samotracia dopo il restauro. Poco dopo, abbraccio sok, appena sceso da un trabattello dove cercava un punto di vista che tagliasse lo spazio in modo inverosimile per quanto plausibile rispetto alla posizione supposta di due comparse. Ci si saluta davanti al museo, dopo aver scambiato un paio delle quattro-cinque frasi che ci siamo rivolti in sette-otto ore. Mi porto via lo sguardo mancante – aveva ragione Fondane, immaginando la Nikè come scolpita e costruita senza testa già dall’artista – di una testa che resisterà invisibile a ogni restauro. In mano, tengo la mia testa, povero piccolo cefaloforo senza miracolo. Stazione di milano. Corro per arrivare al mio vagone, il treno è in partenza, ho perso tempo prima in albergo rimuginando nella colazione ora per fare il biglietto a un automatico. Corro su un marciapiede che corsi tanto e amorosamente, tra i venti e i trentanni. Corro nonostante il peso delle mie sacche. Corro e non mi rendo conto che il biglietto mi è caduto di tasca. Un istante prima di salire sul treno palpandomi non sento il cartoncino ripiegato
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nel taschino più sicuro. Vedo un controllore che sta per salire al portellone dopo. Vedo nei suoi occhi un’espressione che si collega di colpo allo sguardo di una ragazza, taglio basso rivolto a un mio piede, venticinque secondi fa. Il treno non parte, il controllore è ancora a terra, i vicini del mio posto assistono sbigottiti a un tastarmi frenetico di tasca in tasca – ne ho sette o otto – con tessere foglietti chiavi penne fogli ripiegati. Autoperquisizione sempre più inquieta e senza esito. In un lampo rimonto la sequenza degli sguardi, scendo, il controllore sembra guardare qualcosa nella sua mano sinistra che ora si mette in tasca mentre sale sul primo gradino. Gli chiedo comicamente ‘lei ha per caso il mio biglietto? Mi è caduto mentre correvo..’-- ‘Sì,sì, glielo avrei dato dopo, sul treno..’. Sul treno partito, mi abbandono a un falso rilassamento. Cerco di ascoltare uno dei ‘blind joe death’ di john fahey. Ma soprattutto aspetto che riaffiori qualcosa dal mio rush. La corsa non può tradirmi. Tre ore dopo scendo a roma, basito, con l’occhio tipico di chi non è riuscito a ricordare non dico un complicato ragionamento o un discorso evanescente tutto su bordi frananti, ma direttamente la più luminosa delle ‘idee’. Un’idea di cinema che smodatamente trovo geniale, non mia perché già ‘ex-mia’, una sorta di apparizione lampante e risolutiva. Indimenticabile, ne ero certo la sera prima a genova, sicuro che avesse già trovato e occupato uno spazio suo in me, o viceversa. Invece, un nulla già inghiottito e assaporato dal passato remoto. Talmente bella che anche incontrandola tra poche ore non ne riconoscerei più la bellezza stessa – quasi immiserita dal non essersi registrata. Forse mi sento punito dalla puntualità con cui questo bagliore di immagine s’è dissolto e dileguato nel fuoco (‘igni’), cosa che mi capita spesso, ma che ogni tanto ricupero prima che l’ordigno sia del tutto disinnescato e inerte. E poi, no! Questa era troppo ‘bella’. Non riesco a scontarla col mio solito discorso sulle rushes, sul cinema non montato sempre infinitamente più intenso di quello pensato voluto realizzato stampato montato. O rifugiandomi nella reminiscenza – che per tutto il viaggio mi ha ‘hanté’ – del gesto/cinema straordinario di belatarr, primo a incarnare la possibile ‘fine dei cineasti’ rispetto a un più automatico e generalizzato sopravvivere trionfale del cinema, col quale sarebbe possibile un confronto (oltre il siderale fuoricampo del cavallo di nietzsche senza nietzsche, immagine stupefacente di assenza
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dell’assenza) solo se un lavdiaz cominciasse a fare film di centocinquanta ore almeno, frammenti non di una durata ma di uno spazio scheggiato esploso, in cui non si trovasse ‘un posto al mondo’, ma un posto PER il mondo. (L’immortalità soft cui il cinema provvede è il nodo di cui più fatalmente subiamo il fascino, in un orizzonte di intensità e frequenze che si vogliono massime e assolute, dove invece l’ intensità individua(bi)le si distende assottiglia distribuisce in radiazione di fondo indebolita e spettrale). Rinviando per non chiudere, mi si è imposto un testo che ebbi modo di scrivere quasi vent’anni fa, richiesto per un catalogo collettivo intitolato ‘passeggiate romane’. Mi piacciono le ultime due righe, o quattro-cinque, ve ne impongo anche le altre dieci precedenti, credo per puro masochismo: ‘The Greatest Love si intitola Europa51 nella versione in lingua inglese. L’Amour est le plus fort fu il titolo francese (vituperato dai Cahiers) di ViaggioInItalia. L’Amore si chiama un sublime dittico di Rossellini. E Rossellini per noi è con pochissimi altri (se devo dire quando sono nato, mi piace definirmi ‘nato tra Europa 51 e Johnny Guitar’) uno di quelli che riescono a volgere e stravolgere in amore il terribile meccanismo automatico della fascinosa macchina bellica che è il cinema. E l’estraneità, cui da sempre il cinema ci consegna facendoci credere di guardare qualcosa, ci appare allora a tratti una liberazione dalla maschera che definiamo ‘noi stessi’. Dove lo ‘stesso’ che ripete ribadisce rafforza il soggetto lo indebolisce invece come un’ombra; ‘noi stessi’ è un altro che ci guarda. Irene/Ingrid alla fine non guarda gli umili per strada né loro guardano lei. Né per lei né per gli altri c’è controcampo. Il suo sorriso non è per noi né per Roberto Rossellini, anche se Marco Melani e Rossellini possono farcelo credere (si potrebbe dire l’opposto? Ma il cinema dice – se dice – l’opposto).
Cinema Jean-Luc Douin, Dizionario della censura nel cinema. Tutti i film tagliati dalle forbici del censore nella storia mondiale del grande schermo 2 Massimo Donà, Abitare la soglia. Cinema e filosofia 3 Angelo Moscariello, Breviario di estetica del cinema. Percorso teorico-critico dentro il linguaggio filmico da Lumière al cinema digitale 4 Dziga Vertov, L’occhio della rivoluzione. Scritti dal 1922 al 1942 5 Enrico Biasin, Giovanna Maina, Federico Zecca (a cura di), Il porno espanso. Dal cinema ai nuovi media 6 Thomas E. Wartenberg, Pensare sullo schermo. Cinema come filosofia 7 Roland Quilliot, La filosofia di Woody Allen 8 Andrea Panzavolta, Lo spettacolo delle ombre. Un itinerario tra cinema, filosofia e letteratura 9 Francesco Ceraolo, L’immagine cinematografica come forma della mediazione. Conversazione con Vittorio Storaro 10 Luca Taddio (a cura di), David Cronenberg. Un metodo pericoloso 11 André Bazin, Jean Renoir 12 Andrea Rabbito, Il cinema È sogno. Le nuove immagini e i principi della modernità 13 Alessandra Spadino, Pasolini e il cinema ‘inconsumabile’ Una prospettiva critica della modernità 14 Raffaele De Berti, Il volo del cinema. Miti moderni nell’Italia fascista 15 Valentina Re, Cominciare dalla fine 16 Damiano Cantone, I film pensano da soli 17 Marco Senaldi, Rapporto confidenziale. Percorsi tra cinema e arti visivee 18 Marco Boscarol (a cura di), Tetsuo: The Iron Man. Il cinema di Tsukamoto Shin’ya 19 Luca Cosci, Monica Innocenti, Abcinema: abbecedario della settima arte 20 Andrea Panzavolta, Passeggiate nomadi sul grande schermo. Saggi sul cinema da Ingmar Bergman a Tim Burton 21 Francesco Zucconi, La sopravvivenza delle immagini nel cinema. Archivio, montaggio, intermedialità 22 Gianni Volpi, Alfredo Rossi e Jacopo Chessa (a cura di), Barricate di carta. «Cinema&Film», «Ombre rosse», due riviste intorno al ’68 23 Cosetta Saba, Archivio, Cinema, Arte 24 Cristina Formenti, Il mockumentary. La fiction si maschera da documentario 25 Stefania Schibeci, Le Phénomène de l’extase di Salvador Dalì 1
Finito di stampare marzo 2014 da Digital Team - Fano (PU)