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Italian Pages 156 [157] Year 2016
Qyodlibet Giorgio Agamben Che cos'è la filosofia?
Alla domanda «che cos'è la filosofia» - una questione che si pone tardi e di cui si può parlare solo fra amici - Agamben, in questo libro che è in qualche modo una
summa
del suo pensiero, non risponde
direttamente, ma attraverso cinque saggi, ciascuno dei quali presenta una sorta di emblema: la Voce, il Dicibile, l'Esigenza, il Proemio, la Musa. In ognuno dei testi, secondo un gesto che definisce il metodo di
Agamben, l'indagine archeologica e quella teorica si intrecciano stret tamente: alla paziente ricostruzione del modo in cui è stato inventato il concetto di lingua, fa riscontro il tentativo di restituire il pensiero al suo luogo nella voce; a una inedita interpretazione dell'idea pla tonica, corrisponde una lucida situazione del rapporto fra filosofia e scienza e della crisi decisiva che entrambe stanno attraversando nel nostro tempo. E, alla fine, la scrittura filosofica - un problema sul quale Agamben non ha mai cessato di riflettere - assume la forma di un proemio a un'opera che deve restare non scritta.
ISBN
16,oo
euro
978-88-7462-791-2
Il Ili Il l Il l
9 788874 627912
Giorgio Agamben
Che cos'è la filosofia?
Q!odlibet
© 2016 Quodlibet srl Macerata, via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 2 3 www.quodlibet.it
Indice
p.
7
Avvertenza
Che cos'è la filosofia? II
Experimentum vocis
47
Sul concetto di esigenza
57
Sul dicibile e l'idea
I23
Sullo scrivere proemi
I33
Appendice La musica suprema. Musica e politica
I 47
Riferimenti bibliografici
I 53
Indice dei nomi
Avvertenza
In che senso i cinque testi qui raccolti contengano un'idea della filosofia, che risponde in qualche modo alla domanda del titolo del libro, risulterà evidente - se lo risulterà - solo a chi ne avrà fatto in spirito di amicizia la lettura. Com'è stato detto, chi si trova a scrivere in un'epoca che, a torto o a.ra gione, gli appare barbara, deve sapere che le sue forze e la sua capacità di espressione non sono per questo accresciute, ma, semmai, diminuite e logorate. Poiché tuttavia, non può fare diversamente e il pessimismo gli è per natura estraneo - né, d'altra parte, gli pare di poter ricordare con certezza un tem po migliore - l'autore può soltanto affidarsi a chi avrà pro vato le sue stesse difficoltà - in questo senso, a degli amici. A differenza degli altri quattro testi, che sono stati scritti nel corso degli ultimi due anni, Experimentum vocis ripren de e svolge in una nuova direzione appunti della seconda metà degli anni Ottanta del XX secolo, che appartengono pertanto allo stesso contesto in cui sono nati La cosa stessa, Tradizione dell'immemorabile e ':·se. L'assoluto e l'Ereignis (poi raccolti in La potenza del pensiero, Vicenza 2005 ) e Experimentum linguae, ripubblicato come prefazione alla nuova edizione di Infanzia e storia (Torino 2001).
Che cos'è la filosofia?
Experimentum vocis
I.
È un fatto su cui non ci si dovrebbe stancare di riflettere che - benché vi siano state e vi siano in ogni tempo e luogo società i cui costumi ci paiono barbari o comunque inac cettabili e gruppi, più o meno numerosi, di uomini dispo sti a mettere in questione ogni regola, ogni cultura e ogni tradizione; benché, inoltre, siano esistite ed esistano società integralmente criminali e non vi sia, del resto, alcuna norma e alcun valore sulla cui vigenza tutti gli uomini riuscireb bero a trovarsi unanimemente d'accordo - tuttavia non vi è né vi è mai stata alcuna comunità o società o gruppo che abbia deciso di rinunciare puramente e semplicemente al linguaggio. Non che i rischi e i danni impliciti nell'uso del linguaggio non siano stati avvertiti più volte nel corso della storia: comunità religiose e filosofiche, a Occidente come a Oriente, hanno praticato il silenzio - o, come dicevano gli scettici, l' «afasia» - ma silenzio e afasia non erano che una prova verso un miglior uso del linguaggio e della ragione e non un'incondizionata dimissione di quella facoltà di parla re che, in ogni tradizione, sembra inseparabile dall'umano. Così ci si è spesso interrogati su come gli uomini ab biano incominciato a parlare, proponendo sull'origine del
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linguaggio ipotesi manifestamente incontrollabili e prive di ogni rigore; ma non ci si è mai chiesti perché essi continuino a farlo. Eppure l'esperienza è semplice: è noto che se il bam bino non è esposto in qualche modo al linguaggio entro gli undici anni di età, egli perde irreversibilmente la capacità di acquisirlo. Fonti medievali ci informano che un esperi mento del genere sarebbe stato tentato da Federico Il, ma lo scopo era tutt'altro: non già la rinuncia alla trasmissione del linguaggio, bensì, al contrario, proprio il desiderio di conoscere quale fosse la lingua naturale dell'umanità. Il ri sultato dell'esperimento basta da solo a destituire di ogni attendibilità le fonti in questione: i bambini, accuratamente privati di ogni contatto col linguaggio, avrebbero sponta neamente parlato l'ebraico (o, secondo altre fonti, l'arabo). Che questo esperimento non sia mai stato tentato, non solo nei lager nazisti, ma nemmeno nelle comunità utopiche più radicali e innovatrici, che nessuno - nemmeno fra coloro che non avrebbero esitato un istante a togliergli la vita - ab bia mai osato assumersi la responsabilità di togliere all'uomo il linguaggio, ciò sembra provare oltre ogni dupbio il legame inscindibile che sembra vincolare l'umanità alla parola. N ella definizione che vuole che l'uomo sia il vivente che ha il lin guaggio, l'elemento decisivo non è, secondo ogni evidenza, la vita, ma la lingua. Eppure gli uomini non saprebbero dire che cosa sia per essi in questione nel linguaggio come tale, nel puro fatto che essi parlino. Benché avvertano più o meno oscuramen te quanto sia inutile usare la parola nel modo in cui per lo più fanno, spesso a vanvera e senza avere nulla da dirsi o per farsi del male, ostinatamente continuano a parlare e a trasmettere ai propri figli il linguaggio, senza sapere se ciò sia il bene più alto o la peggiore delle sventure.
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2. Partiamo dall'idea dell'incomprensibile, di un essere in teramente senza rapporto col linguaggio e con la ragione, assolutamente indiscernibile e irrelato. Come è potuta na scere una simile idea ? In che modo possiamo pensarla ? Un lupo, un istrice, un grillo avrebbero forse potuto concepir la ? Diremmo noi che l'animale si muove in un mondo che è per lui incomprensibile ? Come non riflette sull'indicibile, così nemmeno il suo ambiente può apparirgli tale: tutto in esso gli fa segno e gli parla, tutto si lascia selezionare e inte grare e ciò che non lo riguarda in alcun modo è per lui sem plicemente inesistente. D'altra parte, la mente divina per definizione non conosce l'impenetrabile, la sua conoscenza non incontra limiti, tutto - anche l'umano, anche la materia inerte - è per essa intellegibile e trasparente. Dobbiamo dunque guardare all'incomprensibile come a un'acquisizione esclusiva dell 'homo sapiens, all'indicibile come a una categoria che appartiene unicamente al linguag gio umano. Il carattere proprio di questo linguaggio è che esso stabilisce una particolare relazione con l'essere di cui parla, comunque lo abbia nominato e qualificato. Qualsiasi cosa nominiamo e concepiamo, per il solo fatto di essere stata nominata è già in qualche modo pre-supposta al lin guaggio e alla conoscenza. È questa l'intenzionalità fonda mentale della parola umana, che è già sempre in relazione con qualcosa che presuppone come irrelato. Ogni posizione di un principio assoluto o di un al di là del pensiero e del linguaggio deve fare i conti con questo caratte re presupponente del linguaggio: essendo sempre relazione, esso rimanda a un principio irrelato che è esso stesso a presup porre come tale (ovvero, nelle parole di Mallarmé: «il Verbo
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è un principio che si sviluppa attraverso la negazione di ogni principio» - cioè, attraverso la trasformazione del principio in presupposto, dell'àpx{J in ipotesi). E questo è il mitologema originario e, insieme, l'aporia cui si urta il soggetto parlante: il linguaggio presuppone un non linguistico, e questo irrelato è presupposto dandogli, però, un nome. L'albero presupposto al nome «albero» non può essere espresso nel linguaggio, si può solo parlare di esso a partire dal suo aver nome. Ma allora che cosa pensiamo quando pensiamo un essere interamente senza rapporto col linguaggio ? Quando il pen siero cerca di afferrare l'incomprensibile e l'indicibile, esso cerca in verità di afferrare precisamente la struttura presup ponente del linguaggio, la sua intenzionalità, il suo essere in relazione a qualcosa, che si suppone esistente fuori dalla relazione. E un essere interamente senza rapporto col lin guaggio possiamo pensarlo solo attraverso un linguaggio senza alcun rapporto con l'essere.
3·
È nella struttura della presupposizione che si articola l'in treccio di essere e linguaggio, mondo e parola, ontologia e logica che costituisce la metafisica occidentale. Col termine «presupposto» designiamo qui il «soggetto» nel suo signifi cato originale: il sub-iectum, l'essere che, giacendo prima e al fondo, costituisce ciò su cui - sulla cui pre-sup-posizione - si parla e si dice e che non può, a sua volta, essere detto su nulla (la 1tp oç), ma non con qualsiasi parte. Poiché ogni suono è prodotto dal battito di qualcosa su qualcosa o in qualcosa, e cioè sull'a ria, ne consegue che solo emettano voce quei viventi che ricevono in sé l'aria» (ivi, 1 4- 1 6). Questa definizione do veva risultargli insoddisfacente, perché a questo punto egli ne enuncia una nuova, che doveva esercitare un'influenza determinante nella storia della riflessione sul linguaggio: «Non ogni suono del vivente è voce, come abbiamo det to (infatti si può emettere un suono con la lingua o anche tossendo), ma occorre che colui che batte sia animato e ac compagnato da qualche immaginazione (�E'tà (j>avtacriaç nv6ç). La voce è infatti un suono significante (OTJ�avttKÒç 'lfO(j>oç) ...» (ivi, 29- 3 2) . S e ciò che distingue i l linguaggio dalla voce è i l suo ca rattere semantico (cioè il suo essere associato a delle affe zioni nell'anima, qui chiamate immaginazioni), Aristotele non precisa che cosa costituisca la voce animale in linguag gio significante. Ed è qui che intervengono in funzione de terminante le lettere (ypa��a'ta), che il De interpretatione elencava infatti nel plesso semantico solo come segni di ciò che è nella voce. Le lettere non sono semplicemente segni, ma elementi (cr'tOtXEta, l'altro termine greco per designa re le lettere) della voce, che la rendono significante e com prensibile. «La lettera (cr'tOtXEt ov)» afferma con chiarezza la Poetica «è una voce indivisibile, ma non una voce qualsiasi, bensì quella per cui una voce diventa intellegibile ( auv8ETI, yiyvEcr8at q>rovf!). Anche degli animali vi sono voci indivisi bili, ma nessuna di queste le definisco lettere. Le parti del la voce intellegibile sono la vocale (q>rovftEv), la semisonante ('IÌ�t(j>rovov) e la muta (èiq>rovov)...» (Poet. 1 4 5 6 b 22-2 5). La definizione è ribadita nella Metafisica: «Elementi (cr'tOtXEta)
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della voce sono ciò di cui è composta (m)yKEt'tat) la voce e le ultime parti in cui essa è divisibile» (ivi, 1 0 1 4 a 26) e nei Problemi: «gli uomini producono molte lettere (ypa��a'ta), gli altri viventi nessuna o, al massimo, due o tre consonanti. Le consonanti combinate con le vocali formano il discorso. Il linguaggio (J.6yoç) non è un significare con la voce, ma con certe affezioni (1ta8Eatv) di essa. Le lettere sono affe zioni della voce» (Probl. X, 39, 8 9 5 a 7 sgg.). Gli scritti sugli animali sottolineano la funzione della lingua e delle labbra nella produzione delle lettere: «Il linguaggio attraverso la voce è composto di lettere (ÈK 'toç) sono diversi e terzo, oltre ad essi, è il linguaggio (J.6yoç)... Il linguaggio è l'articolazione della voce con la lingua (yÀm'tlJ). La voce e la faringe emettono le vocali, la lingua e le labbra le consonanti. E da esse si produce il lin guaggio» (Hist. anim. 5 3 5 a sgg.). Se torniamo ora all'enunciato che apre il De interpretatio ne, possiamo dire che Aristotele vi definisce una ÈP�llvda, un processo di interpretazione che si svolge fra ciò che è nel la voce, le lettere, le affezioni dell'anima e le cose: ma la fun zione decisiva - quella che rende significante la voce - spetta proprio alle lettere, l'ermeneuta ultimo e primo è il ypa��a.
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Si rifletta all'operazione decisiva per la storia della cultu ra occidentale che, sotto l'apparenza di una descrizione che il tempo ha reso ovvia, si compie in questi scritti. roviJ e wyoç, voce animale e linguaggio umano sono distinti, ma coincidono localmente nell'uomo, nel senso che il linguag gio si produce attraverso una «articolazione» della voce, che non è altro che l'iscrizione in essa delle lettere (yp> e la «prossimità essenziale» fra la voce e il M>yoç, che definiscono la metafisica occidentale: «Se, per Aristotele, "i suoni emessi dalla voce" (ta Èv 'tij dice Socrate nel Filebo «si rese conto che la voce è infinita (cprovijv 01t€tpov - annpov vale letteralmente "inesperibile, im praticabile, senza via d'uscita") e per primo comprese che in questo inesperibile (Èv t àndpq>) le vocali non sono una, ma molte e che ivi sono anche altre cose che non appartengono propriamente alla voce, ma hanno pure parte a un certo suono e che vi è un numero determi nato anche di queste, dopo essersi reso conto di ciò, separò un terzo genere di lèttere (ypaJ.1J.10trov), quelle che noi diciamo ora mute (acprova). Distinse poi fra di loro, fino a ciascuna unità, queste lettere mute e senza suono, e così le vocali e le intermedie fra le vocali e le mute fino a che, una volta conosciuto il loro numero, attribuì a ciascuna il nome CHOtXEtov. Vedendo poi che nessuno potrebbe impararne una sola per se stessa senza le altre tutte ed avendo argomentato da ciò che esiste un legame (8EO'J.10V) unitario che in qualche modo le unifica tutte, ad esse applicò una tecnica che chiamò grammatica>> (Phil. r 8 b 5 -d 2 ) . Mentre da questa inesperibilità della voce Platone non dedusse la necessità dei ypOJ.1J.1Uta (nel Fedro egli critica anzi decisamente l'inven zione di Theuth, accusata di far perdere agli uomini la memoria), ma quella di una teoria delle idee, Aristotele seguì invece senza riserve il paradigma egizio di Theuth, espungendo conseguentemente come ri dondanti dal plesso semantico le idee. N
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Se l'antropogenesi - e la filosofia che la rammemora, cu stodisce e incessantemente riattualizza - coincidono con un experimentum linguae che situa aporeticamente il ÀO yoç nella voce e se la ÉpJlTJVEia, l'interpretazione di questa esperienza che ha dominato la storia dell'Occidente sem bra aver raggiunto il suo limite, allora ciò che non può non essere oggi in questione nel pensiero è un experimentum vocis, nel quale l'uomo revochi radicalmente in questione la situazione del linguaggio nella voce e provi a assumere da capo il suo essere parlante. Ciò che è giunto a compimen to non è, infatti, la storia naturale dell'umanità, ma quella specialissima storia epocale in cui la ÉpJlTJVEia della parola come una lingua - cioè come un intreccio consapevole di vocaboli, concetti, cose e lettere, che, attraverso i ypaJlJla ta, ha luogo nella voce - aveva destinato l'Occidente. Oc corre, pertanto, interrogare sempre di nuovo la possibilità e il senso dell'experimentum, indagarne il luogo e la genea logia per indagare se non vi sia, rispetto ai ypaJlJlata e al sa pere che su di essi si fonda, un altro modo di venire a capo dell'inesperibilità della voce. Esso non è, nella nostra cul tura, un fenomeno eccentrico o marginale, che, cercando di dire quel che non si può dire, si avvolge necessariamente in contraddizioni; esso è, piuttosto, la cosa stessa del pensiero, il fatto costitutivo di ciò che chiamiamo filosofia. Negli stessi anni in cui formulava la frattura invalicabi le fra il semiotico e il semantico, Benveniste scriveva quel saggio sull'Apparato formale dell'enunciazione, nel quale veniva indagata la capacità del linguaggio di riferirsi, at traverso gli shifters «io», «tu» «qui», «ora», «questo» ecc. non a una realtà lessicale, ma al proprio puro aver luogo.
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«lo» non indica una sostanza, ma la persona che pronun cia l'istanza di discorso contenente «io», così come «que sto» può essere solo l'oggetto di «un'estensione simultanea all'istanza presente di discorso» e «qui» e «ora» «delimita no l'istanza spaziale e temporale contemporanea all'istan za di discorso che contiene il pronome "io "». Non è qui il luogo di ripercorrere queste analisi giustamente celebri, che hanno trasformato la teoria tradizionale dei pronomi e definito in modo nuovo il problema filosofico del soggetto. Interessa qui chiedere piuttosto in che modo si possa inten dere la «contemporaneità» e la «simultaneità» fra lo shifter e l'istanza di discorso Qakobson parla anche, a questo pro posito, di una «relazione esistenziale» fra il pronome «io» e «l'enunciazione») senza far ricorso a una voce. L'enuncia zione e l'istanza di discorso non sono identificabili come tali che attraverso la voce che le proferisce. Ma, in quanto si riferisce all'aver luogo del discorso, la voce che è qui in questione non può essere la voce animale, ma, ancora una volta, la voce in quanto ciò che deve necessariamente esser tolto perché, nel suo non luogo, i ypaJ..LJ..La'ta e, con essi, il di scorso abbiano luogo. L'enunciazione situa, cioè, il sogget to, colui che dice «io», «qui», «ora» nell'articolazione fra la voce e il linguaggio, fra il «non più» della rovi] animale e il «non ancora» del J..6 yoç. È in questa articolazione negativa che si situano le lettere. La voce si scrive, diventa ÈyypaJ..LJ..La 'toç, nel punto in cui il soggetto, colui che dice «io» si rende conto di essere in luogo della voce. Per questo, come Hegel ha mostrato nella Fenomenologia dello spirito, è sufficiente trascrivere la certezza sensibile che si afferma nel pronome «questo», e negli avverbi «qui» e «ora» per vederla svanire («qui» non è più qui, «ora» non è più ora), perché la voce su cui essa si fondava dilegui definitivamente. L'edificio del
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sapere occidentale riposa in ultima istanza su una voce tol ta, sullo scriversi di una voce. Questo è il suo fragile, ma tenace mito fondativo.
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È possibile pensare la relazione tra la voce e il linguaggio altrimenti che attraverso le lettere ? Un'ipotesi possibile è suggerita da Ammonio quando, nel suo commento, accen na corsivamente alla voce come materia (UÀll) della lingua. Prima di provare a seguire questa ipotesi, occorrerà, però, confrontarsi con la tesi, enunciata da J.-C. Milner, secon do cui lettera e materia sono sinonimi, poiché la materia - intesa nel senso della scienza moderna - è eminentemente translittérable, trascrivibile in lettere (Milner I 98 5 , p. 8). A questa tesi, Milner aggiunge il corollario secondo cui let tera e significante sono diversi ed è proprio la loro inde bita confusione che ha indotto Saussure a attribuire, negli Anagrammi, alla lettera le proprietà del significante e, nel Corso, al significante i caratteri della lettera. Possiamo allora dire, nei termini di Milner, che l'opera zione di Aristotele consiste appunto nell'identificare la let tera - il ypaJ..LJ..La - col significante, col divenir semantica della rovi]. A condizione di aggiungere, contro la tesi di Milner, che la materia - almeno se la si restituisce al paradigma pla tonico di una xcòpa, di un puro aver-luogo - non è invece mai traslitterabile, non può mai essere lettera e scrittura. Sia, nel Timeo, la definizione del terzo genere dell'esse re, accanto al sensibile e all'intellegibile, che Platone chiama xropa. Essa è il ricettacolo (\moòoxiJ) o un porta-impronte (ÈKJ..Laye'iov) che offre un luogo a tutte le forme sensibili,
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senza, però, mai confondersi con queste. Essa non è né pro priamente sensibile, né propriamente intellegibile, ma viene percepita come in sogno «con un ragionamento bastardo, accompagnato da assenza di sensazione». Se, proseguendo l'analogia suggerita da Ammonio, consideriamo la voce come xropa della lingua, essa non sarà pertanto legata gram maticalmente a questa in un rapporto di segno né di ele mento: essa è, piuttosto, ciò che, nell'aver-luogo del ì..oyoç, percepiamo come irriducibile ad esso, come l'inesperibile (èbtEtpov) che incessantemente l'accompagna e che, né puro suono né discorso significante, percepiamo all'incrocio fra questi con una assenza di sensazione e con un ragionamen to senza significato. Abbandonando ogni mitologia fonda tiva, possiamo allora dire che, in quanto xropa e materia, essa è una voce che non è mai stata scritta nel linguaggio, un in-scrivibile che, nell'incessante tramandamento storico della scrittura grammaticale, resta ostinatamente tale. Tra il vivente e il parlante non vi è alcuna articolazione. La lettera - il ypaJ.tJ.la, che pretende di porsi come l'esser-stata, come la traccia della voce - non è nella voce né in luogo di questa.
L' «antico dissidio» (naì..a tà otaopa, Resp. 6o7 b) fra poesia e filosofia deve allora essere pensato da capo in que sta prospettiva. Nel pensiero del '9oo, la separazione fra questi due discorsi - e, insieme, il tentativo di riunirli - ha raggiunto la sua tensione massima: se, da una parte, la lo gica ha cercato di purificare la lingua da ogni ridondanza poetica, non sono mancati, dall'altra, filosofi che hanno invocato la poesia là dove sembrava che i concetti risultas-
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sero insufficienti. N o n si tratta, in realtà, né di due opzioni rivali né di due possibilità alternative e senza rapporto fra di loro, quasi che il parlante potesse scegliere l'una o l'altra arbitrariamente: poesia e filosofia rappresentano piuttosto due tensioni inseparabili e irriducibili all'interno dell'unico campo del linguaggio umano e, in questo senso, finché ci sarà linguaggio, ci saranno poesia e pensiero. La loro dua lità testimonia, infatti, ancora una volta della scissione che, secondo la nostra ipotesi, si è prodotta nella voce, al mo mento dell'antropogenesi, tra ciò che restava del linguaggio animale e la lingua che si andava costruendo in suo luogo come organo del sapere e della conoscenza. La situazione della lingua nel luogo della voce è causa, infatti, di un'altra irriducibile scissione che traversa il lin guaggio umano, quella fra suono e senso, fra serie fonica e musicale e serie semantica. Queste due serie, che coincide vano nella voce animale, si separano ogni volta e si oppon gono nel discorso secondo una duplice, inversa tensione, in modo che la loro coincidenza è impossibile e, insieme, irri nunciabile. Ciò che chiamiamo poesia e ciò che chiamiamo filosofia nominano le due polarità di questa opposizione nel linguaggio. La poesia ha così potuto essere definita come il tentativo di tendere al massimo in direzione di un puro suo no, attraverso la rima e l' enjambement, le differenze fra se rie semiotica e serie semantica, suono e senso, rovf) e ì..oyoç; la prosa filosofica potrà allora apparire, per converso, come tesa verso il loro appagamento in un puro senso. Contro questa lectio facilior del loro rapporto, occorre piuttosto ricordare che decisivo è, per entrambe, il momento in cui rovfJ e ì..oyoç, suono e senso sono a contatto - inten dendo, con Giorgio Colli, il contatto non come un punto di tangenza,, ma come il momento in cui due enti sono uniti (o,
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piuttosto, separati) solo da un'assenza di rappresentazione. Se chiamiamo pensiero questo momento di contatto, possia mo allora dire che poesia e filosofia sono in realtà interne l'una all'altra, nel senso che l'esperienza propriamente poeti ca della parola si compie nel pensiero e l'esperienza propria mente pensante della lingua ha luogo nella poesia. La filoso fia è, cioè, ricerca e commemorazione della voce, così come la poesia, secondo quanto i poeti non cessano di ricordarci, è amore e ricerca della lingua. La prosa filosofica, in cui suono e senso sembrano coincidere nel discorso, rischia pertanto di mancare di pensiero, cosi come la poesia, che non cessa di opporre suono e senso, rischia di mancare di voce. Per que sto, come ha scritto Wittgenstein, «la filosofia la si dovrebbe propriamente soltanto poetare» ( «Philosophie diirfte man eigentlich nur dichten», Wittgenstein 1 977, p. 5 8), a condi zione di aggiungere che la poesia la si dovrebbe propriamen te soltanto filosofare. La filosofia è sempre e costitutivamen te filosofia della - genitivo soggettivo - poesia e la poesia è sempre e originariamente poesia della filosofia.
1 8. Se chiamiamo factum loquendi il fatto della pura e sem plice esistenza del linguaggio, indipendentemente dal suo at testarsi in questa o quella lingua, in questa o quella gramma tica, in questa o quella proposizione significante, possiamo allora dire che la linguistica e la logica moderne hanno potu to costituirsi come scienze solo lasciando da parte come un presupposto impensato il factum loquendi, il puro fatto che si parli, per occuparsi unicamente del linguaggio in quanto è descrivibile in termini di proprietà reali - in quanto, cioè,
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è questa o quella lingua, ha questa o quella « grammatica», comunica questo o quel contenuto semantico. Noi parlia mo sempre all'interno del linguaggio e attraverso il linguag gio e parlando di questo o di quell'argomento, predicando qualcosa di qualcosa, dimentichiamo ogni volta il semplice fatto che ne stiamo parlando. Nell'istante dell'enunciazio ne, tuttavia, il linguaggio non si riferisce a nessuna realtà lessicale né al testo dell'enunciato, ma unicamente al pro prio aver luogo. Esso fa riferimento soltanto al suo aver luogo nel togliersi della voce, si tiene in relazione negativa con la voce che, secondo il mito, sparendo, gli dà luogo. Se questo è vero, allora possiamo definire il compito del la filosofia come il tentativo di esporre e di fare esperienza di quel factum che la metafisica e la scienza del linguaggio devono limitarsi a presupporre, di prendere, cioè, coscienza del puro fatto che si parli e che l'evento di parola accade al vivente nel luogo della voce, ma senza che nulla lo articoli a questa. Dove voce e linguaggio sono a contatto senza alcuna articolazione, là avviene un soggetto, che testimonia di que sto contatto. Il pensiero che voglia rischiarsi in questa espe rienza deve situarsi risolutamente non solo nello iato - nel contatto - fra lingua e parola, semiotico e semantico, ma anche in quello fra la cj>roviJ e il Àoyoç. Il pensiero, che - fra la parola e la lingua, l'esistenza e l'essenza, la potenza e l'at to - si rischia in questa esperienza deve accettare di trovarsi . ogni volta senza lingua di fronte alla voce e senza voce di fronte alla lingua.
Sul concetto di esigenza
Sempre di nuovo la filosofia si trova davanti al compito di una definizione rigorosa del concetto di esigenza. Que sta definizione è tanto più urgente, in quanto si può dire, senz'alcun gioco di parole, che la filosofia esige questa de finizione e che la sua possibilità coincide integralmente con questa esigenza. Se non vi fosse esigenza, ma solo necessità, non potreb be esservi filosofia. Non ciò che ci obbliga, ma ciò che ci esige; non il dover-essere né la semplice realtà fattuale, ben sì l'esigenza: questo è l'elemento della filosofia. Ma anche la possibilità e la contingenza, per effetto dell'esigenza, si trasformano e modificano. Una definizione dell'esigenza implica, cioè, come compito preliminare una ridefinizione delle categorie della modalità.
Leibniz ha pensato l'esigenza come un attributo della possibilità: omne possibile exigit existiturire, «ogni possibi le esige di esistere». Ciò che il possibile esige è di diventare reale, la potenza - o essenza - esige l'esistenza. Per questo Leibniz definisce l'esistenza come un'esigenza dell'essenza: «Si existentia esset aliud quiddam quam essentiae exigentia, sequeretur ipsam habere quandam e � sentiam, seu aliquid
CHE C O S ' È LA FILOSOFIA ?
novum superadditum rebus, de quo rursus quaeri potest, an haec essentia existat, et cur ista potius quam alia». («Se l'esistenza fosse qualcos' altro che un'esigenza dell'essenza, ne seguirebbe che anch'essa avrebbe una qualche essenza, cioè qualcosa che si aggiungerebbe alle cose; e allora si po trebbe nuovamente chiedere se questa essenza a sua volta esista, e perché questa piuttosto che un'altra»). Nello stes so senso, Tommaso scriveva ironicamente che «come non possiamo dire che la corsa corre, così non possiamo nem meno dire che l'esistenza esista». L'esistenza non è un quid, un qualcosa di altro rispetto all'essenza o alla possibilità, è solo una esigenza contenuta nell'essenza. Ma come comprendere questa esigenza ? In un frammento del r 689, Leibniz chiama questa esigenza existiturientia (termine formato sull'infinito futuro di exi stere) ed è attraverso di essa che egli cerca di rendere com prensibile il principio di ragione. La ragione per cui qualco sa esiste piuttosto che nulla «consiste nella prevalenza delle ragioni di esistere (ad existendum) su quelle di non esistere, cioè, se è lecito dirlo con una parola, nella esigenza di esistere dell'essenza (in existiturientia essentiae )». La radice ultima di questa esigenza è Dio («dell'esigenza di esistere delle essenze - existituritionis essentiarum - bisogna che vi sia una radice a parte rei e questa radice non può essere che l'ente necessario, fondo - fundus - delle essenze e fonte - fons - delle esisten ze, cioè Dio . . . Mai, se non in Dio e attraverso Dio, le essenze potrebbero trovare una via per l'esistenza - ad existendum» ).
Un paradigma dell'esigenza è la memoria. Benjamin ha scritto una volta che, nel ricordo, noi facciamo l'esperienza che ciò che sembra assolutamente compiuto - il passato - ri-
SUL CONCETTO DI ESIGENZA
diventa di colpo incompiuto. Anche la memoria, in quanto restituisce incompiutezza al passato e lo rende così in qual che modo per noi ancora possibile, è qualcosa come un'esi genza. La posizione leibniziana del problema dell'esigenza è qui rovesciata: non è il possibile a esigere di esistere, ma il reale, il già stato a esigere la propria possibilità. E che cos'è il pensiero se non la capacità di restituire possibilità alla realtà, di smentire la falsa pretesa dell'opinione a fondarsi soltanto sui fatti ? Pensare significa innanzitutto percepire l'esigenza di ciò che è reale di ridiventare possibile, rendere giustizia non soltanto alle cose, ma anche alle loro lacrime. Nello stesso senso Benjamin ha scritto che la vita del prin cipe Myskin esige di restare indimenticabile. Questo non significa che qualcosa che è stato dimenticato, esiga ora di tornare alla memoria: l'esigenza concerne l'indimenticabile come tale, quand'anche tutti lo avessero per sempre dimen ticato. L'indimenticabile è, in questo senso, la forma stessa dell'esigenza. E questa non è la pretesa di un soggetto, è uno stato del mondo, un attributo della sostanza - cioè, nelle pa role di Spinoza, qualcosa che la mente concepisce di essa come costituente la sua essenza.
L'esigenza è dunque, come la giustlzta, una categoria dell'antologia e non della morale. Non è nemmeno una ca tegoria logica, in quanto essa non implica il suo oggetto, come la natura del triangolo implica che la somma dei suoi angoli sia uguale a due angoli retti. Si dirà, cioè, che una cosa ne esige un'altra, quando, se la prima è, anche l'altra sarà, senza, però, che la prima la implichi logicamente o la contenga nel proprio concetto e senza che obblighi per questo l'altra ad esistere sul piano dei fatti.
CHE C O S ' È LA FILOSOFIA ?
A questa definizione dovrebbe seguire una revisio ne delle categorie antologiche che i filosofi si astengono dall'intraprendere. Leibniz attribuisce l'esigenza all'essen za (o possibilità) e fa dell'esistenza l'oggetto dell'esigenza. Il suo pensiero resta, cioè, ancora tributario del dispositivo antologico, che divide nell'essere essenza e esistenza, po tenza e atto e vede in Dio il loro punto di indifferenza, il principio «esistentificante» ( existentificans ), in cui l'essenza si fa esistente. Ma che cos'è una possibilità che contiene una esigenza ? E come pensare l'esistenza, se essa non è altro che un'esigenza? E se l'esigenza fosse più originale della stessa distinzione fra essenza e esistenza, possibile e reale ? Se l'essere stesso fosse da pensare come un'esigenza, di cui le categorie della modalità (possibilità, contingenza, neces sità) non sono che le inadeguate specificazioni, che occorre revocare decisamente in questione ?
Dal fatto che l'esigenza non sia una categoria morale, consegue che da essa non può provenire nessun imperativo, che essa non ha cioè nulla a che fare con un dover-essere. Ma, con ciò, la morale moderna, che si dichiara estranea alla felicità e ama presentarsi nella forma categorica di un'in giunzione, è condannata senza riserve.
Paolo definisce la fede (m>.
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La distinzione fra la dictio (la parola nel suo aspetto semantico) e il dicibile doveva riuscirgli impervia, perché egli cerca di chiarirla subito dopo senza completamente riuscirei: «Ciò che ho chiamato dicibile è parola e tuttavia non parola, ma ciò che nella parola si intende ed è contenuto nell'animo (verbum est nec tamen verbum, sed quod in ver bo intelligitur et animo continetur). Ciò che ho chiamato dictio è una parola, che significa, però, nello stesso tempo due, cioè tanto la parola stessa che ciò che si produce nell'animo attraverso la parola (verbum est, sed quod iam illa duo simul, id est et ipsum verb11m et quod fit in animo per verbum significat)» (ibid. ). Occorre non lasciarsi sfuggire le sfumature attraverso cui Agostino - ricorrendo, ad esempio, a preposizioni diverse - cerca di definire la differenza. Nella dictio, è in questione qualcosa (il significato) che resta indissolubilmente legato alla parola significante (è una parola - verbum est - e, insieme, ciò che si produce nell 'animo - in animo - attraverso la parola - per verbum ) ; il dicibile, invece, non è propriamente una parola (verbum est nec tamen verbum), ma è ciò che dalla parola (ex verbo) si percepisce con l'animo. La situazione aporetica del dicibile fra il signi ficato e la cosa è qui evidente.
5· L'espressione «la cosa stessa» appare in un passo decisivo della Settima lettera di Platone, un testo della cui influenza nella storia della filosofia siamo ancora lontani dal prendere coscien za. Una comparazione della fonte stoica citata da Sesto con la digressione filosofica della lettera mostra, infatti, delle singolari affinità. Diamo qui per comodità il testo della digressione: Per ciascuno degli enti vi sono tre, attraverso i quali è necessario che si generi la scienza, quarta è la scienza stessa, quinto si deve porre quello stesso attraverso cui (ciascun ente) è conoscibile (yv(I)O"tov) ed è veramente. Il primo è il nome, secondo il discorso definitorio (A.Oyoç), terza è l'immagine (dòmì..o v), quarta è la scienza. Se vuoi intendere quel
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che ora ho detto, prendi un esempio e pensa così intorno a ogni cosa. Vi è un che detto cerchio (Kudoç Ècrti tt ÀtyO!ffiv ov), il cui nome è quello stesso che abbiamo appena proferito; secondo è il suo A.Oyoç, composto di nomi e di verbi: «ciò che in ogni punto dista ugualmente dagli estre mi al centro>>: ecco il A.Oyoç di ciò che ha nome «tondo», «circonferen za>> o «cerchio>>. Terzo è ciò che si disegna e si cancella e si forma col tornio e si distrugge, ma di tutto questo nulla patisce il cerchio stesso (aùtòç ò KUKÀoç), intorno al quale sono tutte queste cose, perché è altro da esse. Quarta è la scienza e l'intelletto e l'opinione vera intorno a queste cose; e tutto ciò si deve pensare come una unica cosa, che non ha sede nelle parole (ÈY cj>mvaìç) né nelle figure corporee, ma nelle anime (Èv 'JIUXaìç), per cui è chiaro che è altro dalla natura del cerchio stesso e dai tre di cui si è parlato ( 3 42 a 8 - d r ) .
Non solo alle parole che aprono la digressione: «Per cia scuno degli enti vi sono tre, attraverso i quali è necessario che si generi la scienza» corrisponde puntualmente il «tre si congiungono fra loro» da cui esordisce la citazione stoica di Sesto, ma i «tre» qui menzionati (il >, l'oggetto reale, 'tuyxavov e il > (Christum esse natum) è vera in ogni tempo, sia prima che dopo la sua nascita. Nelle parole di Bonaventura, che così riassume le tesi nominaliste: «Altri so stennero che l'enunciabile (enuntiabile) che è vero una volta, è sempre vero e sempre si conosce nello stesso modo [ . . . ] così alcuni affermano che a/bus, alba e album, che sono tre vocaboli diversi e hanno tre modi diversi di significare (modi significandi), tuttavia implicano uno stesso significato (unam significationem important), sono un solo nome. So stengono, cioè, che l'unità dell'enunciabile deve essere intesa non dalla parte del vocabolo o del modo di significare, ma dalla parte della cosa si gnificata. Una sola cosa è prima futura, poi presente e poi ancora passata; pertanto enunciare che questa certa cosa prima è futura, poi presente e poi ancora passata non implica alcuna diversità degli enunciabili, ma solo dei vocaboli (non facit diversitatem enuntiabilium, sed vocum)>>. In questo senso la dottrina nominalista di Abelardo ha, com'è stato osservato (Courtenay 1 99 1 , pp. r r -48), un'evidente ascendenza plato nica e un'altrettanto evidente connessione (anche terminologica) con la dottrina del dicibile, che egli chiama «enunciabile>> . L'oggetto della conoscenza non è, per Abelardo, né la parola, né il concetto né sempli cemente la cosa, ma la cosa in quanto è significata dal nome: «Certa mente quando sosteniamo che esse (le forme comuni delle cose) sono diverse dai concetti (ab intellectibus), in questo modo introduciamo come terzo fra la cosa e il concetto il significato dei nomi (praeter rem et intellectum tertia exiit nominum significatio)>> (Abelardo 1 9 1 9, p. 1 8). In questo senso egli può scrivere che la logica «tratta delle cose non considerate in sé, ma in quanto hanno nome (non propter se, sed propter nomina)» (De Rijk 1 9 5 6, p. 99) e che, tuttavia, logica e fisica sono inse parabili, perché è necessario indagare se «la natura della cosa consenta con l'enunciato (rei natura consentiat enuntiationi)>> (ivi, p. 2 8 6). L'idea porta il dicibile verso la massima astrazione possibile ri spetto alla lingua, ma questa astrazione non è quella del concetto, bensì quella che mantiene il dicibile ancora in relazione non con i nomi di una lingua, ma con quella verità dell'ente verso cui tendono, senza mai raggiungerla, tutti i nomi e tutte le lingue. L'idea è il puramente dicibile che è l'inteso di tutti i nomi e che, tuttavia, nessun nome né alcun con cetto di una lingua possono da soli raggiungere. Momigliano ha soste�
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nuto che il limite dei Greci era che essi non conoscevano le lingue stra niere - il che, almeno fino a un certo momento, è vero; Platone e Ari stotele sapevano, tuttavia, perfettamente che una stessa cosa è nominata in modo diverso secondo le varie lingue (questo è implicito nel passo della Settima lettera in cui si dice che i nomi non hanno alcuna stabilità e nella tesi del De interpretatione secondo cui le parole non sono le stesse per tutti gli uomini). Il nome KtncM>ç nomina la stessa cosa che è intesa dal latino circulus e dall'italiano «cerchio»: ma il cerchio stesso resta in ciascuna lingua soltanto omonimamente nominato. Potremmo allora dire che, in ultima istanza, l'elemento linguistico proprio dell'i dea - il dicibile - non è semplicemente il nome, ma la traduzione, o ciò che è traducibile in esso. B enveniste ha visto nella traduzione il punto in cui si tocca la differenza fra il semiotico e il semantico. Si può trasporre, infatti, il semantismo di una lingua in quello di un'altra (è la possibilità della traduzione), ma non il semiotismo di una lingua in quello di un'altra (è l'impossibilità della traduzione). All'incrocio di una possibilità e di una impossibilità, la traducibilità si situa, cioè, sulla soglia che unisce e divide i due piani del linguaggio. Di qui la sua rilevanza filosofica, che Benj amin ha messo in luce. L'arduo passaggio dal semiotico al semantico è qui cercato non all'interno di una lingua, ma, attraverso la pluralità delle lingue, nella totalità compiuta delle loro intenzioni. Per questo, come aveva intuito Mallarmé, rispetto all'idea la lingua perfetta non può che mancare (/es langues imparfaites en cela que plusieures, manque la supreme). In suo luogo sta, secondo Plato ne, il logos della filosofia, che riporta ogni lingua verso il suo principio nel Musaico (la filosofia è, per questo, «la musica suprema>>: Q>tM>croQ>iaç [ . . . ] o'ÌXnlç J.JEyicr'tT]ç !J.OumJciìç, Phaed. 6r a; ancora più esplicitamente in Resp. 499 d: la filosofia è «la musa stessa>>, aùnì 1Ì Moucra).
! 8. Il problema dell'idea non è separabile dal problema del suo luogo. Che le idee abbiano luogo (EXEt tòv t61tov) «al di là del cielo» (\mepoupavwv t61tov, Phaedr. 247 c) può solo significare - come Aristotele e Simplicio puntualmente os-
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servano - che esse «non sono in un luogo (oùK Èv 't01tql, Phys. 209 b 34; J.LTIÒÈ oMoç Èv t61tq>, Simplicio 1 8 8 2 p. 4 5 3). E, tut tavia, esse, che non hanno luogo e, per questo, rischiano di non essere («ciò che non è né in cielo né in terra non è nulla», Tim. 52 b), sono essenzialmente connesse, anche se «in modo assai aporetico ( a1topc.Otata, lett. «del tutto impraticabile») e difficilissimo da afferrare (òucraÀIDtotatov, Tim. 5 I b)», con l'aver luogo degli enti sensibili, che ne ricevono l'impronta ('t'U1tro8Évta à1t' améòv, Tim. 5 0 c) in modo «difficile da dire e meraviglioso (òoopacrtov Kat eauJ.Lacrt6v, ib id )». E poiché la dottrina del luogo (xcòpa) svolta nel Timeo è stata letta nel la storia della filosofia, almeno a partire da Aristotele, come una dottrina della materia, in questione è qui, allo stesso ti tolo, la relazione fra le idee e la materia. Riassumiamo per sommi capi l'esposizione del Timeo. Questa ha inizio con la costatazione dell'insufficienza della posizione di due specie di esseri, il paradigma intellegibile ed eterno (l'idea) e la sua imitazione, il sensibile. Il «terzo e di verso genere» (tpitov {i)..;M)v yÉvoç) viene pertanto introdotto come un'esigenza o un postulato irrinunciabile (il ').jyyoç «co stringe» - eicravayKaçetv - a «farlo apparire» - ÈJ.Lavicrm, 49 a). La sua natura, «difficile e oscura», viene non propriamen te definita, ma descritta attraverso una serie di qualificazioni successive. Innanzi tutto esso è il «ricettacolo» (futooxl)) di ogni generazione. Tutte le cose sensibili, che incessantemen te si generano e si distruggono, hanno bisogno di qualcosa «in cui» (Èv q}) apparire, come le figure che un artefice pla sma nell'oro hanno bisogno del metallo per prendere for ma (da questa immagine, Aristotele può aver dedotto che in questione sia qui la materia dei corpi). Questa «natura che riceve tutti i corpi» è sempre la stes sa e deve essere in sé priva di forma, come è amorfo un .
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«materiale da conio» (ÈKflaye"iov, 5 0 c, il termine contiene l'idea di un «impasto», cfr. flcXO"crro, flclK'tpa) che può assu mere le impronte di tutte le forme che riceve. Questo por ta-impronte viene così paragonato a una «madre», ciò da cui riceve l'impronta al «padre» e la natura intermedia fra di essi a un «figlio» . Se la madre non fosse priva di una for ma propria, l'impronta (ÈK't'U1tOOfla) che riceve non sarebbe visibile, perché la sua propria forma «si mostrerebbe ac canto» (1tapEflatvOflEVOV - Aristotele userà nel De anima, 429 a 20, lo stesso verbo per precisare che se l'intelletto materiale mostrasse una sua propria forma accanto a quel la dell'intellegibile, farebbe ostacolo alla comprensione). Il terzo genere, madre, ricettacolo e porta-impronte, è, dun que, una «specie invisibile» ( avopa-rov elòoç, l'espressione è, in greco, in qualche modo contraddittoria) e «per natura al di fuori delle forme o idee (ÈK'tÒç eiòrov, 5 I a)»; e, tutta via, «partecipa in modo assai aporetico e difficilissimo da afferrare)) dell'intellegibile. A questo punto, in una sorta di vertiginoso riepilogo, Pla tone conclude che occorre dunque ammettere ( ÒflOÀA>YTl'tÉov - il verbo ÒflOÀoye"iv, confessare, designa una verità che non si può non riconoscere) tre generi di essere: I ) uno ingene rato, e incorruttibile, che non riceve in sé nulla né va mai in altro, invisibile e non sensibile (avai0"9rl'tov), che si contem pla con l'intelligenza; 2) un secondo, omonimo e somiglian te al primo, che si genera e si distrugge incessantemente in qualche luogo (€.v nvt 't01tf-!)) e che si afferra con l'opinione accompagnata da sensazione (flE't' aicr91lcreroç); 3) un terzo, lo spazio (xo)pa), anch'esso eterno e non soggetto a distru zione, che fornisce una sede (E.òpa) alle cose generate. Esso è «tangibile con un ragionamento bastardo accompagnato da assenza di sensazione (flE't' avm0"9rlcriaç a1t'tÒv ì.oytcrflcp nvt
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vòecp), appena credibile. Guardando ad esso come in un sogno, noi diciamo che è necessario che tutto ciò che è sia in un certo luogo e occupi uno spazio (€.v nvt 'tMQ> Kat Ka'tÉXOV x�av) e che ciò che non è né in cielo né in terra non è nulla)) ( 5 2 b).
È stato Diano il primo a notare che il modo in cui Plato ne designa la conoscibilità della x�a è affatto singolare. Non solo perché «tangibile)) (un aggettivo che egli usa altrove esclu sivamente per i corpi sensibili) contrasta fortemente con «ane stesia))' assenza di sensazione, ma anche e innanzitutto per ché invece di servirsi della formula normale «Xropiç)) o «avEu aicr91locroç))' senza sensazione, egli preferisce l'espressione paradossale «con anestesia, accompagnato da un'assenza di sensazione))' Diano I 973, passim). Che cosa si percepisce quando si percepisce una «assenza di sensazione)) ? Che cosa intende Platone, scrivendo che percepire l'aver luogo di qualcosa non significa semplicemente non percepire, ma percepire un'assenza di percezione, sentire un'anestesia ? Mentre l'idea è semplicemente non sensibile ( avaicrOr]'tov), qui l'anestesia diventa tangibile, è percepita come tale. Il ca rattere «bastardo)) del ragionamento che percepisce, come in sogno, la xropa deriva dal fatto che esso sembra mescolare insieme le due prime forme di conoscibilità, l'intellegibile e il sensibile. Se Platone può scrivere che la xropa partecipa, anche se in modo difficile da afferrare, dell'intellegibile, ciò è perché idea e spazio comunicano attraverso l'assenza di sensazione, come se l'anestesia che definisce negativamente l'idea acquisisse qui un carattere positivo, diventasse una forma specialissima di percezione.
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Platino, commentando il passo del Timeo, precisa che quando l'anima, con un ragionamento bastardo, percepisce la materia, essa non pensa tuttavia nulla, ma riceve e pa tisce qualcosa: « Questo 1ta8oç, questa passione dell'anima sarà come quando essa non pensa nulla ? No, poiché quan do non pensa nulla, non dice, anzi nemmeno patisce nulla. Quando invece pensa la materia, allora patisce un'affezione che è come l'impronta del senza forma (nmov -rov ÒJ..lopq>ou)» (Ennead. Il, 4, I o). Se Platone si era servito della metafora dell'impronta, scrivendo che la x�a, in modo difficile da dire e meraviglioso, «riceve un'impronta» (ro1to8Év-ra, Tim. 5 0 c) delle idee, qui la relazione s'inverte: sono le idee che rice vono un'impronta dell'amorfo. Al di là della colorazione mistica che Platino sembra conferirle, decisivo è qui che la xffipa revochi in questione e neutralizzi l'opposizione semplice fra intellegibile e sen sibile, che si rivela inadeguata. Nell'esposizione aporetica della teoria delle idee nel Parmenide, Platone aveva mostrato come l'assoluta separazione tra idee e sensibili (il pensarle xropiç, separatamente; Aristotele, riprendendo l'argomento per la sua critica, parlerà di un XffiP tcrJ.t6ç, di una separazione) conduca a conseguenze assurde. Alle aporie del xropiç e del XffiPHJJ..loç, Platone, forse rispondendo a critiche che già cir colavano nell'Accademia, dà, con un felice gioco di parole, la risposta geniale della xffipa. N el punto in cui riusciamo anesteticamente e impuramente a percepire non soltanto il sensibile, ma il suo aver luogo, allora l'intellegibile e il sensi bile comunicano. L'idea, che non ha luogo né in cielo né in terra, ha luogo nell'aver luogo dei corpi, coincide con esso. È quanto Platone dice con inconsueta decisione poche ri ghe dopo: «A ciò che è veramente, viene in aiuto un discorso vero per la sua precisione, mostrando che, finché si tengono
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separate una cosa e l'altra (cioè l'idea e il sensibile), nessuna delle due può allora entrare nell'altra per diventare una sola cosa e, insieme, due (Ev OJ..la -ramòv 1mì òoo yt::vflcrt::creov)» ( 5 2 c-d).
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I l termine xffipa significa il luogo, lo spazio inoccupato che un cor
po può occupare. Esso è etimogicamente connesso con vocaboli che si gnificano una privazione, ciò che resta quando si toglie qualcosa: xiJpa, vedova, e xiìpoç, vuoto. Il verbo XffiPÉOl significa > del geometra (J.oytcr116ç - secondo il significato prevalente del termine tanto in greco che nell'uso platonico - dovreb be tradursi più esattamente con «calcolo») è bastardo - cioè pertinente insieme all'intellegibile e al sensibile - perché non si riferisce immediatamente a dei corpi sensibili, ma al loro puro aver luogo nello spazio. A differenza del Àoyoç delle lingue naturali - e tuttavia contiguamente ad esso - il Àoytcrll6>, la definizione cessa di essere tautologica: la monade non è un ente reale, ma è ciò che risulta dalla pura relazione signifi cante fra la parola e la cosa. «Uno» è ciò che è detto, se si considera in se stessa la pura relazione fra il linguaggio e il suo relato. Per questo Aristotele poteva scrivere che il matematico e aggiun geva che i sostenitori delle idee fanno la stessa cosa senza accorgerse ne: > quei contenuti delle proposizioni ( o ), la cui consistenza egli, come i suoi predecessori medievali, non situa né in re né nella mente, ma in una no man 's land, che egli chiama (Aussersein). Ciò di cui ne va nel linguaggio è una cosa «senza patria>> (heimatlos), che non appartiene né all'essere né al non-essere. La scienza dell'oggetto, che, in quanto scienza generale del non-reale, si potrebbe supporre complementare, come suggerisce il suo inventore, alla metafisica come scienza generale del reale, assomiglia certamente alla patafisica che, esattamente negli stessi anni, Jarry definiva come . In ogni caso è significa tivo che, alla fine della storia della filosofia occidentale, la sopravviven za di ciò che, nel suo momento iniziale, definiva l'oggetto per eccellen za del pensiero debba essere cercata in concezioni che la storiografia �
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filosofica rubrica in una posizione quanto meno marginale. Eppure nel )>> (ibid. ). La stessa formulazione, «quanto nel canto è linguaggio>>, impli ca, tuttavia, che vi sia in esso qualcosa di irriducibile alla parola, così come l'insistenza nel sancirne l'inseparabilità tradisce la consapevolez za che la musica è eminentemente separabile. Proprio perché la musi ca segna l'estraneità del luogo originario della parola, è perfettamente comprensibile che essa possa tendere a esasperare la propria autonomia rispetto al linguaggio; e tuttavia, per le stesse ragioni, altrettanto com prensibile è la preoccupazione che non si spezzi del tutto il nesso che li teneva insieme. Tra la fine del V secolo e i primi decenni del IV si assiste infatti in Grecia a una vera e propria rivoluzione degli stili musicali, legata ai nomi di Melanippide, Cinesia, Frinide e, soprattutto, Timoteo di Mileto. La frattura fra sistema linguistico e sistema musicale diventa progressivamente insanabile, finché nel III secolo la musica finisce col predominare decisamente sulla parola. Ma già nei drammi euripidei un osservatore attento come Aristofane poteva accorgersi, facendone nelle l't
LA MUSICA SUPREMA. MUSICA E POLITICA
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Rane la parodia, che il rapporto di subordinazione della melodia al suo supporto metrico nel verso era ormai sovvertito. Nella parodia aristo fanesca, la moltiplicazione delle note rispetto alle sillabe è icasticamen te espressa attraverso la trasformazione del verbo dì.iooro (girare) in EÌ.EtEt€tÀiooro. In ogni caso, malgrado la tenace resistenza dei filosofi, nelle sue opere sulla musica Aristosseno, che pure era uno scolaro di Aristotele e criticava i cambiamenti introdotti dalla nuova musica, non pone più a fondamento del canto l'unità fonematica del piede metrico, ma una unità puramente musicale, che chiama «tempo primo» (tp6voç 7tpcihoç) ed è indipendente dalla sillaba. Se, sul piano della storia della musica, le critiche dei filosofi (che pure dovevano ripetersi molti secoli dopo nella riscoperta della mono dia classica da parte della Camerata fiorentina e di Vincenzo Galilei e nella perentoria prescrizione di Carlo Borromeo: «cantum ita tempera ri, ut v erba intelligerentur>>) non potevano che apparire eccessivamente conservatrici, c'interessano qui piuttosto le ragioni profonde della loro opposizione, di cui essi stessi non erano sempre consapevoli. Se la mu sica, come oggi sembra avvenire, rompe la sua necessaria relazione con la parola, ciò significa, da una parte, che essa smarrisce la coscienza della sua natura musaica (cioè del suo situarsi nel luogo originario della parola) e, dall'altra, che l'uomo parlante dimentica che il suo essere già sempre musicalmente disposto ha costitutivamente a che fare con l'impossibilità di accedere al luogo musaico della parola. Homo canens e homo loquens dividono le loro vie e perdono la memoria della rela zione che li vincolava alla M usa.
3· Se l'accesso alla parola è, in questo senso, musaicamente determinato, si comprende che per i Greci il nesso fra musica e politica fosse così evidente che Platone e Aristotele trattano delle questioni musicali solo nelle opere che consacrano alla politica. La relazione di quella che essi chiamavano JlO'UcrtKT) (che comprendeva la poesia, la musica in senso proprio e la
APPENDICE
danza) con la politica era così stretta che, nella Repubblica, Platone può sottoscrivere l'aforisma di Damone secondo cui «non si possono cambiare i modi musicali senza cambiare le leggi fondamentali della città» (424 c). Gli uomini si unisco no e organizzano le costituzioni delle loro città attraverso il linguaggio, ma l'esperienza del linguaggio - in quanto non è possibile afferrarne e padroneggiarne l'origine - è a sua volta già sempre musicalmente condizionata. L'infondatezza del /...6-y o ç fonda il primato della musica e fa sì che ogni discorso sia già sempre musaicamente accordato. Per questo, ancor prima che attraverso tradizioni e precetti che si trasmettono nel medio della lingua, gli uomini in ogni tempo vengono più o meno consapevolmente educati e disposti politica mente attraverso la musica. I Greci sapevano perfettamente ciò che noi fingiamo di ignorare, e, cioè, che è possibile ma nipolare e controllare una società non soltanto attraverso il linguaggio, ma innanzitutto attraverso la musica. Come altrettanto e più efficace del comando dell'ufficiale è, per il soldato, lo squillo della tromba o il rullo del tamburo, così in ogni ambito e prima di ogni discorso, i sentimenti e gli stati d'animo che precedono l'azione e il pensiero sono de terminati e orientati musicalmente. In questo senso, lo stato della musica (includendo in questo termine tutta la sfera che imprecisamente definiamo col termine «arte») definisce la condizione politica di una determinata società meglio e pri ma di qualsiasi altro indice e, se si vuole mutare veramente l'ordinamento di una città, è innanzi tutto necessario rifor marne la musica. La cattiva musica che invade oggi in ogni istante e in ogni luogo le nostre città è inseparabile dalla cat tiva politica che le governa.
LA MUSICA SUPREMA. MUSICA E POLITICA
È significativo che la Politica di Aristotele si concluda con un vero e proprio trattato sulla musica - o, piuttosto, sull'importanza della musica per l'educazione politica dei cittadini. Aristotele comin cia infatti col dichiarare che si occuperà della musica non come di vertimento (7tatÒta), ma come parte essenziale dell'educazione (7tat8da), in quanto, cioè, essa ha per fine la virtù: «come la ginnastica produce una certa qualità del corpo, così la musica produce un certo ethos>> ( 1 3 3 9 a, 24). Il motivo centrale della concezione aristotelica della musica è l'influenza che essa esercita sull'anima: > ( 1 3 40 a, 5 - 1 r ) . Ciò avviene, spiega Aristotele, perché i ritmi e le melodie contengono delle immagini (6Jlotroj.Lata) e delle imitazioni (Jlq.duwta) dell'ira e della mitezza, del coraggio, della prudenza e delle altre qualità etiche. Per questo, quando li ascoltiamo l'anima è affetta in forme diverse in corrispondenza di ciascun modo musicale: in modo nel misolidio, in uno stato d'animo nel dorico, > nel frigio ( 1 3 40 b r - 5 ). Egli accetta così la classificazione delle melodie in etiche, pratiche e entu siastiche e raccomanda per l'educazione dei giovani il modo dorico, in quanto (crta