Caro insegnante. Amichevoli suggestioni per godere (l)a scuola 8846482336, 9788846482334


188 82 534KB

Italian Pages [97] Year 2007

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD PDF FILE

Table of contents :
Indice
Dove ti si intrattiene intorno alle alterne fortune del “qui” e dell’“altrove”
Dove si introduce alla geosofia del “luogo”
Dove si specificano meglio i caratteri misteriosi, sorprendenti, dello spazio e il ruolo del rito da riscoprire
Dove si parla della bellezza un poco dimenticata di quell’età straordinaria che è l’adolescenza e del modo di resuscitare in ess
Dove si proclama con passione qual è la grande, unica, irriconosciuta e meravigliosa fonte del sapere e del modo per farla goder
Dove si insinua l’idea ingiuriosa e assai sovversiva di dimenticarsi dei “programmi” e di altre quisquilie consimili...
Dove, senza troppo infierire, si vuol aggiungere qualcosa su quella curiosa e deprecabile pratica chiamata “valutazione”
Dove si deve pur dire qualcosa su quell’altra formazione cancerogena che è appellata non sempre con pieno diritto “didattica”
Dove ci si occupa di un altro temibile e maldenominato oggetto: l’apprendimento. Qui si praticherà un po’ di omelìa sugli appren
Dove più o meno si forniscono spunti, idee, persino strumenti per... insegnare: tra l’altro la legge del “si può sbagliare” e il
Dell’indurre, del sedurre, dell’illudere: il primo giorno
Dove si introduce del sano erotismo nella prassi scolastica e si parla del lungo atto d’amore
Dove, incredibile a udirsi, si inneggia all’insegnamento, e al cordoglio che segue la sua giusta fine
Dove si pronuncia un sentito Peana ad Eros, dio dei legami
Dove si parla, con tremore ma anche con amore, delle arti neglette dall’istruzione tradizionale: con particolar enfasi intorno a
Dove si contrappone la scuola del desiderio a quella desiderata ardentemente dalle organizzazioni della grande industria per rif
Dove si enuncia, non senza enfasi, il compito urgente di un insegnamento amoroso, di un “nuovo ordine amoroso” dell’insegnamento
Bibliografia per pedanti
Recommend Papers

Caro insegnante. Amichevoli suggestioni per godere (l)a scuola
 8846482336, 9788846482334

  • 0 0 0
  • Like this paper and download? You can publish your own PDF file online for free in a few minutes! Sign Up
File loading please wait...
Citation preview

2001.50

5-02-2007

12:38

Pagina 1

Paolo Mottana è professore ordinario di Filosofia dell’educazione presso l’Università di Milano-Bicocca. È coordinatore e docente presso la Scuola di Specializzazione degli Insegnanti di Milano e presso i corsi abilitanti per insegnanti di Arte e Disegno (Cobaslid) dell’Accademia di Brera. Fra le sue pubblicazioni dedicate ai temi dell’insegnamento: Formazione e affetti, Armando 1993, Il mèntore come antimaestro (con Angelo Franza), CLUEB, 1996, Miti d’oggi nell’educazione. E opportune contromisure, FrancoAngeli, 2000, La visione smeraldina. Introduzione alla pedagogia immaginale, Mimesis, 2004. Ha al suo attivo anche una prova narrativa, Sospesi a un raggio di luna, Sperling & Kupfer, 1996. Informazioni ulteriori sulle attività del suo gruppo di ricerca possono essere reperite sul sito www.immaginale.it.

2001.50 - P. MOTTANA - CARO INSEGNANTE

Caro Insegnante “vero”, mi rivolgo a te che spero non ancora completamente mortificato, avvizzito, ossificato dal nulla che regna nelle nostre istituzioni formative, tutte figlie di quella grande peste del sapere che è stata la rivoluzione disciplinare, l’irruzione delle scienze analitiche e dei loro criteri astratti e polverizzatori nell’alveo della materia fermentante e cantante della grande ode cosmica del sapere, di quella effervescenza della forma e della sostanza tutta intera delle cose, cose vive, tessute dentro il grande corpo del mondo. Se hai ancora un po’ di sangue, di spirito, di anima, se non sei stato spolpato fin nel midollo dall’acido muriatico delle antologie e delle “storie”, dei dizionari e delle enciclopedie, tutta roba che corrode la bellezza del conoscere, se non ti sei ancora familiarizzato completamente con il neon, con il legno cattivo e scomodo dei banchi e delle cattedre, con il color cacca secca delle aule scolastiche, con il malcostume di malvestirsi e maleodorare del “corpo” docente. Se ci tieni almeno un poco al tuo presente e a quello dei tuoi innocenti allievi ancora vivi, allora questo libro può forse fare per te.

Paolo Mottana

Caro insegnante Amichevoli suggestioni per godere (l)a scuola

FrancoAngeli

I lettori che desiderano informarsi sui libri e le riviste da noi pubblicati possono consultare il nostro sito Internet: www.francoangeli.it e iscriversi nella home page al servizio “Informatemi” per ricevere via e-mail le segnalazioni delle novità.

Paolo Mottana

Caro insegnante Amichevoli suggestioni per godere (l)a scuola

FrancoAngeli

Immagine di copertina: Chiara Veggetti

Copyright © 2007 by FrancoAngeli s.r.l., Milano, Italy. L’opera, comprese tutte le sue parti, è tutelata dalla legge sul diritto d’autore. L’Utente nel momento in cui effettua il download dell’opera accetta tutte le condizioni della licenza d’uso dell’opera previste e comunicate sul sito www.francoangeli.it.

Indice

Dove ti si intrattiene intorno alle alterne fortune del “qui” e dell’“altrove” pag.

9

Dove si introduce alla geosofia del “luogo”

»

16

Dove si specificano meglio i caratteri misteriosi, sorprendenti, dello spazio e il ruolo del rito da riscoprire

»

22

Dove si parla della bellezza un poco dimenticata di quell’età straordinaria che è l’adolescenza e del modo di resuscitare in essa un poco di appetito d’apprendere

»

26

Dove si proclama con passione qual è la grande, unica, irriconosciuta e meravigliosa fonte del sapere e del modo per farla godere fino in fondo

»

29

Dove si insinua l’idea ingiuriosa e assai sovversiva di dimenticarsi dei “programmi” e di altre quisquilie consimili…

»

33

Dove, senza troppo infierire, si vuol aggiungere qualcosa su quella curiosa e deprecabile pratica chiamata “valutazione”

»

39

Dove si deve pur dire qualcosa su quell’altra formazione cancerogena che è appellata non sempre con pieno diritto “didattica”

»

43

5

Dove ci si occupa di un altro temibile e maldenominato oggetto: l’apprendimento. Qui si praticherà un po’ di omelìa sugli apprendimenti “sbagliati”, su quelli “per sottomissione”, quelli “per identificapag. 46 zione” e quelli, senti senti, “per passione” Dove più o meno si forniscono spunti, idee, persino strumenti per… insegnare: tra l’altro la legge del “si può sbagliare” e il “crampo della prova”

»

54

Dell’indurre, del sedurre, dell’illudere: il primo giorno

»

58

Dove si introduce del sano erotismo nella prassi scolastica e si parla del lungo atto d’amore

»

65

Dove, incredibile a udirsi, si inneggia all’insegnamento, e al cordoglio che segue la sua giusta fine

»

73

Dove si pronuncia un sentito Peana ad Eros, dio dei legami

»

78

Dove si parla, con tremore ma anche con amore, delle arti neglette dall’istruzione tradizionale: con particolar enfasi intorno a danza, musica, teatro e sesso

»

81

Dove si contrappone la scuola del desiderio a quella desiderata ardentemente dalle organizzazioni della grande industria per rifocillare la sua fame sempreverde di “capitale umano”

»

84

Dove si enuncia, non senza enfasi, il compito urgente di un insegnamento amoroso, di un “nuovo ordine amoroso” dell’insegnamento, come avrebbe detto Fourier

»

87

Bibliografia per pedanti

»

91

6

“No so niente di questo raffinato sapere dei Sofisti; io ho soltanto un piccolo corpo di sapere:la natura dell’amore”. Platone “… questo è il segreto di ogni formazione, essa non procura membra artificiali, nasi di cera, occhi occhialuti: piuttosto ciò che potrebbe dare questi doni è soltanto l’immagine degenerata dell’educazione. Essa invece è liberazione, rimozione di tutte le erbacce, delle macerie, dei vermi che vogliono intaccare i germi delicati delle piante, irradiazione di luce e di calore, benigno rovesciarsi di piogge notturne…”. Friedrich Nietzsche “Il nostro dovere più imperioso è di lavorare ad una pedagogia della pigrizia, del riaffioramento di istanze rimosse e degli svaghi”. Gilbert Durand “Un insegnante ha effetto sull’eternità; non si può mai dire dove termina la sua influenza”. Henry Adams “Essere calunniati e rimanere scottati dall’amore con cui operiamo, sono questi i pericoli del nostro lavoro, a causa dei quali però non abbandoneremo certo la nostra professione”. Sigmund Freud

7

Dove ti si intrattiene intorno alle alterne fortune del “qui” e dell’“altrove”

Caro Insegnante, probabilmente conosci questa storiella Zen che dice così: Studente Zen: “Ebbene, Maestro, l’anima è immortale oppure no? Noi sopravviviamo alla morte del nostro corpo, oppure veniamo annientati? Ci reincarniamo veramente? La nostra anima si dissolve e si divide in elementi che vengono riciclati, oppure entriamo, in quanto singole unità, nel corpo di un unico organismo biologico? Inoltre, conserviamo i nostri ricordi, oppure no? È forse falsa la dottrina della reincarnazione? È forse più giusta la nozione cristiana della resurrezione? E se è così, si risorge come corpi, oppure la nostra anima entra in una sfera spirituale meramente platonica?”. Maestro: “Guarda che ti si raffredda la colazione”. Carina, vero? Ora, il significato più evidente è appunto palese: attenzione a non sacrificare il “presente” ai voli astratti della mente, all’altrove, direbbe Milan Kundera, che era un nemico giurato di tutti gli intellettuali narcisisti perennemente insoddisfatti (come lui) e, appunto, a caccia di un altrove sempre irraggiungibile1. È un raccontino simpatico e acuto, come lo sono sempre i distillati di questi saggi maghi orientali. Ora vorrei pro1. Di questo problema il noto scrittore ceco rende un’impareggiabile rappresentazione nel suo romanzo La vita è altrove tradotto in italiano come sempre da Adelphi. 9

vare però un poco ad applicarlo con te alla vita scolastica, alla tua vita scolastica in particolare. Non è complicato e non occorre essere dei maestri Zen per comprendere che spesso il “presente” scolastico è assai sacrificato alle astrazioni talora inservibili e anche esteticamente poco gratificanti dell’“altrove” (che tuttavia, bisogna riconoscerlo, a volte anche lui ha i suoi buoni diritti). Ma concentriamoci sul presente. Il presente, che è una nozione dall’alta indecidibilità, almeno in filosofia, è pur sempre qualcosa di abbastanza intuitivamente afferrabile: è il tempo in cui. Il tempo che trascorri ora. Uno psicologo gestaltista (Fritz Perls per esempio) lo definirebbe: ciò che “ci trattiene nel presente e sottolinea il fatto che nessuna esperienza è possibile se non nel presente…”. Piuttosto ripetitivo, ma chiaro, non trovi? E come è il tuo tempo “presente” dentro la tua classe, nelle “ore” scolastiche, unità di misura del presente dell’insegnamento? Non lo sai? Io credo che spesso sia così: deludente, noioso, sfiancante (naturalmente non sempre, diciamo prevalentemente). E dove si svolge, cioè quale è il suo luogo del presente, il suo spazio, la sua dimora? Le “aule”: luoghi spesso freddi, anodini, deprimenti. È un tempo di cui si attende troppo spesso soprattutto la fine. Questo, non so se sei d’accordo, non è proprio il massimo. Alla lunga, questo trattamento muterà il moltissimo tempo trascorso dentro le “ore” di insegnamento in una routine sofferta e vuota. Un passato di cui persino la memoria si disferà con gusto, magari fatta eccezione per qualche rara isola di soddisfazione, di intensità (che andrebbe allora studiata con attenzione). Tu potrai dirmi che non c’è nulla di straordinario o di particolarmente sfortunato in questo, che la vita stessa è così e che dunque si tratta solo di adattarsi e di convivere con questo carattere strutturale dell’esistenza. Lo ammetto, è una tesi che ha i suoi sostenitori, anche di un certo peso, per quanto sia una tesi cui continuo a riluttare, se non altro per amor proprio. Oppure tu potrai dirmi che è falso, che non sempre è così, forse tu vivi un presente di continuo, sulfureo e appassionante 10

coinvolgimento: in questo caso questo libro non ti serve, chiudilo o se vuoi regalalo a un collega meno fortunato. Per l’esperienza che ho io, che insegno, per quanto in luoghi anche più autunnali e grigi del tuo, e dove pascolano esemplari della nostra specie ancora più mummificati e deprimenti (gli Accademici), la regola è quella di un “presente” tutt’altro che intenso, vissuto con debole entusiasmo, pigramente illuminato (ahi, le lampade al neon) e abitato da un palpabile senso di noia (non tanto negli Accademici stessi, che si drogano del loro stesso ego smisurato, ma negli studenti, che sono gli unici a poter fornire prova autentica del clima che si respira dentro le mura del luogo). Ora, perché tu possa diventare un Insegnante felice e appassionato, meta verso cui si propone di instradarti questo trattatello bizzarro – posto che tu non lo sia già, cosa che ti auguro di cuore, e che ti dispensa ipso facto dalla lettura – devi renderti consapevole di un fatto di importanza capitale: questo tempo è sterminato. È tantissimo. Non è il tempo di un breve corso di cucina o di karate, sono ore e ore e ore. Infinite ore di “vita”, vita vera, senza riscatto, tempo vitale, simile a quello degli operai che lo passano (ancor oggi) per anni e anni a una catena di montaggio, o quello dei minatori in una oscura galleria, o quello di un impiegato inchiodato alla sua tastiera. Tutta gente che avrebbe il diritto di dire che il proprio tempo di vita potrebbe essere trascorso in maniera più ricca, più stimolante e più soddisfacente. Proprio quello che potresti dire anche tu, e che in gran coro certamente potrebbero dire, e soprattutto, i tuoi allievi: anche loro infatti stanno trascorrendo infinite ore inchiodati a scomodi tavoli e a scomode sedie, in genere in aule il cui aspetto evoca o il monumentalismo tetro e angosciante o il funzionalismo anoressico e psicotizzante, comunque l’anatema di ogni traccia di sensualità e bellezza nelle forme, nelle tinte e negli arredi, davanti ad adulti spesso male in arnese che non sempre hanno chiaro quello che stanno facendo e soprattutto perché lo stanno facendo. E quegli allievi, ragazzi, giovani, oltre tutto stanno nella maggior parte dei casi trascorrendo lì il presente della stagione più straor11

dinaria della loro vita, gli anni più intensi, più complessi, più esplosivi, per ormoni, energia, curiosità, sensualità, sensibilità, corporeità e molte altre cose. Non è una cosa da poco che tanta, quasi la metà del loro tempo di vita scorra in un “presente” che solo arduamente si potrebbe considerare affascinante. (A proposito, so che leggendo queste frasi, alcuni di voi avvertiranno una dolorosa fitta alla spina dorsale, quella che qualcuno ha costretto loro a mantenere diritta per periodi lunghi e con pertinace inflessibilità: so che così siete diventati ottusi e moralisti; anche in questo caso debbo osservare fin d’ora che questo libro non fa per voi: per voi cure così violente sono pericolose, meglio dosi omeopatiche e lubrificate di regole per la buona comunicazione o per imparare a valutare test a risposta multipla. Questo libro non scherza e voi finireste con il sentirvi impallinati. Lasciate perdere ora prima che sia troppo tardi e che tra di noi si sia fatto anche troppo cattivo sangue). Comunque, stavo dicendo che ci sono orde di ragazzi ancora vivi, pieni di ormoni, gravidi di voglie, affamati d’esperienza, che irrompono, per destino da tempo stabilito nella storia, in un luogo che tragicamente li trasformerà, nella migliore delle ipotesi, in scialbi castratelli d’allevamento e, nella peggiore e più diffusa, in agenti indefessi del disprezzo sistematico della cultura, dei suoi funzionari e dei suoi devoti. Gente che sarà stata così profondamente eviscerata di qualsiasi curiosità, di qualsiasi desiderio di scoprire la materia invisibile e profonda del mondo e delle opere umane in esso, da fuggire fors’anche la lettura dei Reader’s digest e di riviste come Oggi o Gente. Mi pare un bello spreco di tempo e di “presente”, per tornare al nostro racconto Zen. Molti miei colleghi sono esattamente come l’allievo del dialogo: fanno discorsi che assomigliano moltissimo alle domande del giovane sprovveduto e nel frattempo quasi tutto si raffredda nella loro vita. Soprattutto nella loro vita lì, mentre fanno quei discorsi, intorno a loro. Chiaramente è gente parecchio disturbata (anche io con loro, beninteso, anche se forse oggi finalmente comincio a ve12

dere uno spiraglio di aurora): nessuno può diventare professore universitario senza essere profondamente disturbato, anzitutto nel suo rapporto con il tempo (quante serate in discoteca, o gite in bicicletta, o pomeriggi oziosi, o pomiciate interminabili avrà perduto un giovane studioso sostituendole con la lettura di spaventevoli tomi o con la meditazione di teoremi inimmaginabili, mentre i suoi ormoni avvizzivano inesorabilmente? – in questo, occorre dirlo, anche la bruttezza gioca un suo ruolo non irrilevante…). È quindi gente, per altro, che prova un piacere decisamente perverso nell’infliggere anche agli altri dosi massicce di strologar furioso sotto la forma ben acclamata della “lezione magistrale”, a persone che avrebbero per converso voglia di mordere a fondo e con gusto dentro la carne del sapere e della vita (che esiste, lo giuro, anche se molti l’hanno sostituita con un tessuto smaterializzato di astruse e smozzicate ventosità). Essi, fin da piccoli, spesso, hanno smarrito la via del piacere, sono finiti nel gorgo di un altro mondo, parallelo, gremito di paranoici pericolosi e dedito alla coltivazione ossessiva di forme di vita estinte e trascurabili mentre, parallela a loro, la cultura grassa e carnosa procedeva beffarda e indifferente. Non nego che qualche loro sforzo nel tastare ciechi il grande corpo del sapere possa avere indicato vie scoscese di scoperta per altri della stessa specie (parlano solo fra di loro, e sono scorbutici, e quanto!), ma reputo con convinzione che il loro prestarsi al divino compito d’insegnamento sia davvero nella maggioranza dei casi un delitto (per i loro poveri allievi, ma anche per loro, che dovrebbero essere mantenuti nell’atmosfera rarefatta e eterea che gli conviene). Appartieni anche a tu a questa stirpe di occhialuti pedanti (come li appellava Federico Nietzsche), sei anche tu un cadente e tarlato tronco di verbosità inutili, anche tu coltivi il feticismo del rigore, delle valutazioni oggettive, della storicizzazione obbligatoria, sei anche tu un fanatico ossessivo dell’ortopedia delle pronunce? Se appartieni a questa genìa, anche tu, te lo devo dire con franchezza, sei troppo conciato per questo libro. Prima rivolgiti a qualche psicoterapeuta neurolinguista o a qualche affiliato di Scientology. Ti tirerà su. Poi prova a leggermi. 13

Caro Insegnante “vero”, mi rivolgo a te che spero non ancora completamente mortificato, avvizzito, ossificato dal nulla che regna nelle nostre istituzioni formative, tutte figlie di quella grande peste del sapere che è stata la rivoluzione disciplinare, l’irruzione delle scienze analitiche e dei loro criteri astratti e polverizzatori nell’alveo della materia fermentante e cantante della grande ode cosmica del sapere, di quella effervescenza della forma e della sostanza tutta intera delle cose, cose vive, tessute dentro il grande corpo del mondo. Se hai ancora un po’ di sangue, di spirito, di anima, se non sei stato spolpato fin nel midollo dall’acido muriatico delle antologie e delle “storie”, dei dizionari e delle enciclopedie, tutta roba che corrode la bellezza del conoscere, se non ti sei ancora familiarizzato completamente con il neon, con il legno cattivo e scomodo dei banchi e delle cattedre, con il color cacca secca delle aule scolastiche, con il malcostume di malvestirsi e maleodorare del “corpo” docente. Se ci tieni almeno un poco al tuo presente e a quello dei tuoi innocenti allievi ancora vivi, allora questo libro può forse fare per te. Lo so, lo so che il tono che uso può irritare molti di voi, i più rarefatti, i più illividiti, i sorveglianti del linguaggio rigoroso, con le note, con le citazioni, con la metrica dell’intelligenza garantita, voi, i più snob, gonfi della vostra superiorità, filosofi, letterati, matematici con la sigla Prof. nella rubrica del telefono. Conosco la sindrome, ne ho sofferto anch’io, ma a quale prezzo… Non vi fate scrupoli, snocciolate le vostre recensioni accigliate, rancorose, beffarde. Ben conosco la vostra prosopopea, la titillazione compiaciuta della parte più malsana dello spirito elitario, di un’idea “alta” della cultura, tutta chiose, tutta virgolette, tutta bibliografie ragionate. Uno sport che aduna tutto il rancoroso popolo di frustrati, di emarginati dalla vita, di spostati che sono gli Accademici gibbuti. Fate pure, è nel vostro diritto, così come lo sprezzo che cestina direttamente il paragrafo non giustificato, la glossa manchevole, l’esergo non allineato, l’altezzosità aristocratica e calvinista che fa della castità feticista il suo esercizio quotidiano. 14

Che le mie parole siano uno sputo nel vostro occhio opaco e cisposo. Ma, Caro Insegnante, lasciamo i nostri vili detrattori. Tu che esisti, che hai ancora un briciolo di speranza, tu puoi ancora assaporare quest’esperienza antichissima e sorprendente, intensa e inconfondibile, unica, che è l’insegnamento, il grande insegnamento, le cui tracce e rovine giacciono e riaffiorano talora qua e là nel fango crepato della storia, o forse del mito. A te che ancora sei in condizione di amare a fondo questo lavoro, non nella forma indebolita e scarnificata che l’edificio scolastico ti regala ogni giorno, ma nella sua fremente e appassionata intera misura, spesso stornata dai luoghi deputati a promuoverla, a te dedico queste lettere, questa confidenza, questa speranza. A proposito, mi scuso fin d’ora per l’uso del caro al maschile, ma vorrei che fosse inteso come un neutro, o come un attributo ambisesso. Infatti il termine Insegnante con la I maiuscola vuole indicare una sorta di archetipo dell’insegnante, che io immagino personificato, ma che può essere inteso assolutamente sia come maschio che come femmina o come le varie possibili combinazioni secondo il Rapporto Kinsey. D’altra parte, se è pur vero che la femminilità o la maschilità dell’insegnante introducono un elemento di (s)oggettiva differenza, sia fenomenologica che comportamentale, le cose che dirò credo che possano in larga misura valere sia per l’una che per l’altro. Infine, sarebbe certamente interessante importare in maniera completa l’elemento soggettivo in questa trattazione, ma significherebbe dover fare i conti, oltre che con il genere, anche con un’infinità di altri descrittori alternativi, tipo il profilo psicologico, i gusti e le predilezioni, le scelte politiche, il contesto di provenienza, il dio da cui si è posseduti, se Apollo o Dioniso, se Eros o Atena, se Ermes o Artemide e così via. Sarebbe un’impresa davvero titanica, che, con un adeguato finanziamento, si potrebbe anche tentare di porre in essere, attendo notizie.

15

Dove si introduce alla geosofia del “luogo”

Torniamo al presente scomparso, al luogo. Prima viene il luogo, forse la forma. Prima viene Hestia, la dimora, il focolare. Nulla simboleggia con tanta forza la cattiva fama dell’educazione scolastica quanto lo squallore estremo dei luoghi in cui essa esercita il suo pallido rituale. La sciatteria degli arredi, la deprimente e burocratica tinta delle pareti, l’infima qualità di soffitti e pavimenti che non rinviano ad alcun cielo e ad alcuna concretezza terrestre ma solo all’indigenza degli ospedali e dei riformatori, la crudità opaca delle luci, la grettezza e negligenza dei materiali. Tutto questo, il corpo dei luoghi, la loro manifestazione fisica, lo stento, ancor prima che ogni altro estinguersi di senso del compito educativo in una società che alleva sinistramente vie di autorealizzazione trionfalmente ignare del mito e del magico Museo da cui ogni cosa promana, è la prova che l’educazione scolare non gode di alcun prestigio. Come può l’allievo e l’Insegnante che insieme a lui ore e ore vive dentro quelle mura, non assorbire come una spugna la nota triste e stonata che la miseria gli echeggia: “tutto questo non vale niente! Tutto questo è miserabile e insignificante!” Chi resta troppo a lungo nella scuola forse se ne accorge poco, come chi vive per tutta la vita in un solo borgo è sprovveduto nel distinguere le possibilità infinite delle architetture e delle geometrie urbane. Ma basta essere entrati qualche volta in uno 16

spazio pensato per educare, pensato a fondo, con cognizione, con passione, per accorgersi che infinite attenzioni potrebbero essere dedicate a incarnare anzitutto nella materia, nei muri, nelle sedie, nelle lavagne, nelle luci, nei pavimenti, in ogni cosa, ogni cosa, il valore e il significato dell’impresa di insegnare ed apprendere. Entrare in una scuola e assorbire, spesso inconsciamente, un messaggio di svalorizzazione, degno compare di quello che ogni mese ci si vede recapitare con lo stipendio, è tutt’uno. Ma questo è vero tanto per l’Insegnante quanto per lo studente. Anch’egli varca la soglia di un luogo di cui “è detto” trattarsi di un luogo di educazione, ma che in realtà assomiglia per molti versi a qualsiasi struttura di contenzione, di sorveglianza o di terapia massificata come una caserma, un ospedale psichiatrico o un carcere. Non c’è bisogno di scomodare l’intelligenza e l’acribìa (udite, snob della parola!) archeologica di Foucault per avvertire la solidarietà profonda, radicale, che accomuna questi luoghi nel medesimo compito di livellare, annullare, sterilizzare. E infatti questi miserabili antri ci riescono: producono mortificazione, depressione, anomìa profonda, sradicamento. Certo, imparare non è una festa, ma deve proprio essere un funerale, una tecnologia di inamidazione sistematica, d’inaridimento estensivo? Questo è anche un tuo problema, Caro Insegnante. La scuola è la tua casa, per venti o trenta ore la settimana. Lì dentro tu vivi, operi, incontri, parli, desideri perfino talvolta, mi auguro. È un luogo acconcio, asseconda il tuo impegno, le tue intenzioni, oppure li sconfessa, li sabota, li ostacola? Che effetto fa sui tuoi studenti? Forse tu pensi che passi inosservato, che mettere i tuoi studenti in una stalla o nello studiolo di Federigo da Montefeltro non muterebbe nulla, anzi che la stalla è un posto più adatto, più funzionale alla loro animalità. Ma queste stanze gelide, questi materiali stanchi, queste luci smorte sono peggio di una stalla. Una stalla ha odore, ha cuore, ha energia, anche se abbandonata. 17

Queste aule sono invece un luogo di terrore, degli spazi di tortura, delle in-abitazioni, se così si può dire, proprio come le camere (o camerate) di molti ospedali, proprio come certe celle collettive. Caro Insegnante, questo è primariamente un problema del tuo istituto, dei tuoi “superiori”, è un problema di danaro, ma resta comunque anche un tuo problema. Che cosa puoi fare tu perché il manifestarsi di questo luogo sia più fascinosum, possa assomigliare, magari approssimativamente, a una dimora dove si impara? Una dimora dove si impara! Quali sono i suoi caratteri? Te lo sei chiesto o hai dato tutto per scontato fino ad oggi? Cerca di immaginare cosa farebbe bene, cosa valorizzerebbe il tuo lavoro, cosa aiuterebbe i tuoi allievi a simbolizzare nello spazio, anzi nel “luogo”, che per genealogia viene prima dello spazio, il senso del loro stare a scuola. Lo so, torme di giornalisti insipienti e di accademici moralisti incitano a restituire alla scuola il suo torvo alone disciplinare, il suo volto latrante di Cerbero, la sua atmosfera saturnina, pregna di rigore, di geometrie separative e allineatrici, di sistemi computerizzati di valutazione. La crudele smorfia inquisitoria che giace nei sotterranei della cultura dell’istruzione, il ghigno gesuitico delle procedure di sorveglianza e di repressione affiora oggi come non mai, come risposta sedicente astuta allo sfaldarsi delle autorità costituite, alle tanto esecrate promozioni di massa, all’indebolimento compianto dei sistemi di punizione. Ma tu credi che sia questa la strada, rinsaldare il fantasma sadico della sanzione e della bacchetta? Oppure sai, visitando i sotterranei della tua ormai consunta ma ancora viva sensibilità, che la scuola deve essere qualcosa di molto più sofisticato, di molto più disinibito, di molto più potente, intrinsecamente potente? Certo, per carità!, non si tratta di “maternizzare” ulteriormente la scuola (orribile espressione ululata con foga dal volto torvo del Senex che vorrebbe riportare l’istruzione ai fasti della ferula e dei semi di fagiolo sotto le ginocchia). È vero, forse la scuola si è un talora po’ infemminilita, il che vuol dire ingentilita peraltro, 18

specie nel ciclo dell’infanzia (d’altra parte è piena di donne, sarebbe difficile il contrario), ma bisognerebbe essere forse grati a questa presenza, al poco di calore che è lentamente penetrato nei suoi locali spogli, disadorni, dissonanti. Non si tratta, d’altra parte, lo riconosco, di femminilizzare la scuola, come viceversa però non si tratta, per contrappasso, di rimaschilizzarla. Sarebbe ora di sbarazzarsi di questi schematici fardelli genetici. Forse, oltre a queste figurine riduttive, che una psicoanalisi poverella ha diffuso nel nostro gergo, madre, padre, fratelli, o peggio, il G.A.B. dei transazionalisti (genitore, adulto, bambino), bisognerebbe incrementare il nostro codice (perfino Bernstein l’avrebbe trovato ridotto!) di simboli per aiutarci a veder quali altri influssi potrebbero arricchire l’immagine e la carne di questo luogo abbandonato e perduto (posto che mai ci sia stato, e c’è di che dubitarne). La scuola – tu ed io, Caro Insegnante – è sbagliata, ab origine, la scuola fa male, diciamolo!, fa ammalare l‘esperienza, fa appassire anche le poche possibilità di provar autentico desiderio di conoscere qualcosa (certo, lo so che non è il tuo caso singolo… ma intanto prova a pensarci). Quanti libri, quante figure, quanti oggetti passati nella scuola sono poi risultati inservibili, distrutti, disinnescati dal trattamento scolastico, come per una terribile corrosiva alchimia invertita? Si apprende altrove, ahimè, ancora l’altrove, si sa. Non credo sia necessario ricordare quello che un poco di consapevolezza antipedagogica, sanamente antipedagogica, ci ha trasmesso nei decenni passati riguardo alle funzioni uniformizzanti, cataloganti, insomma (diciamolo) sostanzialmente repressive o perlomeno conformizzanti dell’istituzione scuola (che ancora, nonostante i suoi imbellettamenti, meglio balbettamenti innovativi, non ha cambiato in nulla la propria missione). Che forse si credeva che con qualche modernizzazione, un poco di autonomia, qualche sostegno psicosocio, un poco di computer, o qualche ulteriore test e paratest si rifacesse la scuola? 19

Come ristabilire allora ab imo o provare almeno a restituire un po’ di linfa a questa terribile succhiasangue? Come far sì che in essa si insinui la potenza della magìa d’insegnare e apprendere, da sempre scrupolosamente evitata e purgata, a me sembra una domanda interessante. Che cosa puoi fare tu anzitutto, nel tuo piccolo, come si dice. E per cominciare, per tornare al “luogo”, cosa puoi fare per creare la tua “casa” dell’insegnamento? Cosa ci deve essere dentro? E come deve essere fatta? Da chi puoi essere aiutato? Quale “geosofia”, cioè quale sapienza profonda, quasi mistica, deve presiedere alla generazione di luoghi che devono soprattutto esprimere simbolicamente la propria vocazione, ancor prima che concretamente?1 Ricordati, non mi stancherò di ripeterlo, che è molto importante la prima impressione che eserciti, e che esercitano anche i muri, sui tuoi allievi (e di converso su te stesso). Ti prepari per bene a questo evento? Prepari il tuo spazio, fai un sopralluogo, cerchi di modificare qualcosa? Come accogli i tuoi studenti? Arrivi prima o dopo di loro? Che cosa trovano loro nell’aula? Come avviene questo primo incontro? Potresti preparare l’aula, come sai, curando la disposizione dei banchi, in modo poi da poter ben addobbare un discorso che giustifichi, rispetto al tuo modo di insegnare, quella disposizione. Potresti fare trovare un biglietto sui loro banchi, anche personalizzato, in cui gli comunichi qualcosa che vuoi che loro sappiano prima di vederti. Potresti entrare e poi far ascoltare un brano musicale, anch’esso dotato di un significato, che poi potrai spiegare. Puoi curare bene il tuo abbigliamento, le parole che dirai, le immagini o i trasparenti che proietterai, sempre che tu ti sia dato la pena di prepararli e di controllare che in aula ci sia l’attrezzatura (funzionante) che possa poi animarli. 1. Il termine “geosofìa” l’ho rubato al filosofo e teosofo francese Henry Corbin che lo utilizza per indicare il paesaggio visionario della mistica persiana gnostica nel suo volume Corpo spirituale e terra celeste, pubblicato in italiano da Adelphi (ancora?) qualche anno fa. 20

Potresti sorprenderli. Sorprendere, la radice della conoscenza, secondo Platone e Aristotele (che non sono proprio gli ultimi in questa materia). È una cosa importante sorprendere all’inizio, incuriosire, addirittura sedurre, perché no? Sei abbastanza disinibito per sedurre i tuoi allievi? Ma soprattutto, loro ti interessano abbastanza da volerli sedurre? Ti sei mai fatto questa domanda: “Mi piacciono i miei allievi?” È una questione importante, non è banale. Ti piacciono, ti piace quell’età o ti ripugna, che rapporto hai con l’infanzia, l’adolescenza, la giovinezza (uno psicoanalista direbbe con la tua infanzia, adolescenza, giovinezza)? Non sarai lì a scuola per caso, o per vendicarti di qualche sopruso patito, o per fare l’impiegato d uno sportello senz’anima? Chiediti se ti piacciono i tuoi allievi, se puoi innamorarti (sì, innamorarti) di loro. Perché una risposta negativa sarebbe decisiva credo, anche per spiegare il cattivo andamento delle tue quotazioni. Ma di questo parleremo dopo.

21

Dove si specificano meglio i caratteri misteriosi, sorprendenti, dello spazio e il ruolo del rito da riscoprire

Ma torniamo allo spazio, lo spazio anzitutto, Caro Insegnante, è importante. È il primo segno. Il segno che resta impresso. Quasi come il vestito che indossa il tuo amore la prima volta che lo incontri. Certo, la scuola è già nota, esiste già una prefigurazione (pessima) di essa. Non c’è sorpresa. I ragazzi, tu, sapete già cosa aspettarvi. Ma proprio per questo, a maggior ragione, puoi contare sulla sorpresa. Potresti accendere degli incensi, perché no? Troppo new age? Pazienza, accendi dello zolfo, del fosforo, accendi te stesso, te stessa, sii un corpo incendiato del tuo desiderio di essere lì, in quel posto, con loro. Fai sentire che ti sei preoccupato, che hai atteso questo momento. Questo farà sentire importante il luogo e importanti anche loro. Loro capiranno, per una volta, di non essere lì per caso, ma perché c’era qualcuno che davvero li attendeva, magari un po’ pateticamente, poco importa, ma con trepidazione, con curiosità, con desiderio. Faglielo sentire (certo occorre che tu ne abbia, di desiderio, ma, ripeto, se non ce l’hai, a mio parere, è meglio che cambi mestiere, perché è già difficile avendocelo), trasmettiglielo, con la cura, la presenza, l’attenzione, le attenzioni. Poi, con loro, potrai fare molto altro. Lo spazio potrà diventare un primo grande tema di condivisione. Potrete migliorarlo insieme, facendolo diventare il primo perno dell’apprendimento: la costruzione della dimora dell’imparare. Sempre con attenzione agli scopi, a ciò che può aiutare a imparare. Io per esempio credo 22

nella penombra, credo che essa aiuti a concentrarsi, che introduca un po’ di intimità, di silenzio, ma penso che sia anche un fattore di sorpresa, di spiazzamento. Perciò non posso lavorare in aule dove non si possa modificare la luminosità. Tu cosa pensi possa essere d’aiuto? Quali oggetti, quali cose appese alle pareti? (le terrificanti “cartine geografiche” forse?) Puoi magari ottenere un permesso per dipingere, per fare dei murales, dei graffiti, magari con l’impegno di cancellarli a fine anno. Cosa può rendere più comodi i sedili, un cuscino forse? Puoi chiedere di portare un cuscino. Può essere utile avere fiori freschi tutti i giorni, oppure incaricare ogni tanto qualcuno di procurare un dolce da consumare insieme in certi momenti speciali? Puoi individuare un piccolo spazio in cui si entra solo per fare comunicazioni importanti, rituali, quasi sacre, come un piccolo prytaneion1. Un cerchio davanti al gruppo, o al centro di esso, un po’ salomonico, magari segnato con il gesso e che viene ricalcato ogni volta che viene utilizzato. Da lì si diranno solo cose preziose, intime, profonde, da parte tua e degli allievi. Un piccolo centro del mondo della classe, il suo altare, il suo pulpito, da utilizzare con rispetto e con un’attenzione quasi liturgica, dedicato alla specifica cerimonia che è l’insegnare, alla sua divinità, Levana2. Storci il naso? Ti pare puerile? Purtroppo allora sei vecchio e sciocco, non sai di che materia è fatta l’educazione, cosa reca gioia in un gruppo di ragazzi, cosa lo lega, quali sono i dettagli 1. Il prytaneion, luogo dove ardeva il fuoco della comunità, nell’antichità, poi identificato con la stessa dea Hestia, dea appunto del focolare, era il luogo centrale del convenire umano. Di esso parla, tra gli altri, James Hillman, insieme a Carlo Truppi ne L’anima dei luoghi, edito da Rizzoli due anni fa. 2. Levana è la dea tutelare dell’educazione secondo i latini, ripresa da Thomas De Quincey nel suo Suspiria de Profundis e ancor evocata da René Scherer come nucleo affermativo e resistente di un’infanzia non riducibile alla pedagogizzazione sistematica, con il suo corpo mitico, demoniaco ed elfico… (si veda soprattutto il bel volume Enfantines, pubblicato in Francia da Anthropos nel 2002). 23

del fare educativo, la sua filigrana segreta, che per esempio invece aveva così ben intuito quel maghetto di Baden-Powell. È un mondo di finzione, di cerimonia, di segretezza, di prova e di complicità, è un luogo altro, gerarchico, complesso, ricco di procedure e di simboli, non il grado zero della comunicazione alimentata da qualche manuale di psicopedagogia per Ottentoti che credi tu. Tu mi devi credere quando ti dico che l’educazione scolastica ha bisogno come il pane di riti. Proprio così. Il rito, la liturgia, l’iniziazione, in forme tutte da reinventare, da adattare ai mutati contesti, alla tua specifica materia, alla tua indole, al tuo luogo. Ma i riti debbono tornare. Ai ragazzi piacciono. E anche a me. Piace il senso di affiliazione, la segretezza, l’aura voluttuosa che effettivamente restituiscono all’educazione la sua dimensione costitutivamente ambigua, il suo sfondo di oscurità, l’elemento anche drammatico che la contraddistingue come passaggio, come assunzione entro mondi nuovi, come misura di soglie e di separazioni, come vicenda che rivela i misteri della vita, della morte, del corpo e della mente. Fai sentire lo scarto tra la “casa” dell’educazione e la realtà ordinaria. Celebra un piccolo rito, una formula, un canto, una musica, un gesto, per significare l’accesso nella “zona” misteriosa delle trasformazioni e allo stesso modo il recesso da essa. Non vedi il bisogno di sigle, di segni, anche sul corpo – tatuaggi, piercing, griffe – da cui sono affascinati i tuoi adolescenti? Riconoscila, inscrivila nella tua pratica prosciugata di ogni sacralità, reintroduci cerimonie, linguaggi iniziatici, persino abbigliamenti, perché no? È vietato? L’educazione non è una faccenda di trasmissione come vuole il paradigma informatico dell’insegnamento che domina sul paesaggio arido e miserabile delle nostre istituzioni formative, è un mistero di corpi, emozioni, saperi, pratiche, che va celebrato secondo una procedura esatta, affinché una trasformazione avvenga. Caro Insegnante, pensa. Pensa alla tua casa, alla loro casa, alla casa del sapere. Quanta natura, quanta cultura, quanto Eros ci 24

deve penetrare? E quali forme di ciascuno di essi, perché si crei l’atmosfera adatta? Io non posso dirti tutto ora, dentro a questo libricino, altrimenti diventerebbe un manuale, e secondo me i manuali fanno male al sapere, ma se vuoi puoi provare a chiedermelo, se trovi il modo (magari mi scrivi una mail o vieni a trovarmi, che è anche meglio). Nel frattempo prova a scavare nella tua sensibilità, nel cuore della tua infanzia, della tua adolescenza, oppure lasciale perdere, se sono state troppo brutte e infelici, pensa ad un’adolescenza bella e intensa, ricca e piena di scoperte, pensa al luogo che avresti desiderato per scoprire e per trasformare l’esperienza di capire e di imparare in un’avventura e non in una sodomia continuata, un abuso dei cervelli e dei corpi qual è quella che prevalentemente si somministra nei nostri degradati istituti.

25

Dove si parla della bellezza un poco dimenticata di quell’età straordinaria che è l’adolescenza e del modo di resuscitare in essa un poco di appetito d’apprendere

Ora vorrei parlarti un poco degli adolescenti. Non perché i bambini siano meno importanti ma perché sono gli adolescenti ad essere incappati di recente in una sbagliatissima cattiva nomea e quindi mi paiono più bisognosi di qualche breve annotazione riabilitante. È curioso, ma dominano secondo me alcuni terribili malintesi su questa età, che giocano a sfavore della loro esperienza scolastica. Il vecchio adagio che l’infanzia sia aperta, vibrante, intensa e l’adolescenza angustiata, annoiata e disturbata mi pare abbia negli ultimi anni davvero salassato la nostra pazienza. Tu e io sappiamo perfettamente che non è così. Se gli adolescenti di oggi appaiono talvolta un po’ tristi e disorientati lo si deve non all’età loro ma all’età del mondo, alla sua decrepitezza, alla sua scarsa capacità di offrire accoglienza all’età più bella, più ricca, più viva. Tu hai avuto un’adolescenza triste? Pazienza, in ogni caso cerca di non farla pagare ai tuoi ragazzi. Anch’io all’epoca ho patito le pene dell’inferno per un amore sfortunato, ma santoiddio me la sono anche goduta. E molto. Il tempo non passava mai, mi sembrava possibile fare tutto e se non proprio tutto ho fatto parecchio, ho provato parecchio. A quell’epoca non ero ancora completamente deprivato e boicottato dalla mia purtroppo già emergente personalità intellettuale e bigiavo, giocavo a basket durante le ore di religione, mi facevo le canne e sognavo le ragazze e le baciavo e mi sembrava incredibile e leggevo con passione cose che a scuola non si sognavano certo di farmi assapo26

rare, Musil, Bataille, Sartre, persino de Sade. Il tempo era quasi fermo perché era gremito di cose, tutte nuove, tutte incredibili, tranne certe miserabili e noiosissime spiegazioni durante certe ore di scuola. Ok, io sono stato fortunato (o così mi pare), anche se c’era chi giocava molto meglio di me a pallone o sapeva stare, a differenza di me, su una ruota sola con il Gilera 50. Ma allora forse sono nella posizione adatta per cercare di spiegarti come non far fallire l’adolescenza che è l’età mitica, l’età dove tutto è possibile e tutto desiderabile, l’età “onnipotenziale”, a patto di non spegnerla con la verbosità, l’ottusità, la metodicità infausta della programmazione curricolare a elettroencefalogramma zero. Mettiamola così: potenzialmente un adolescente non anestetizzato dal nulla che gli viene propinato dai maggiori media fabbricati dagli adulti, un adolescente con corpo e anima ancora non troppo grippati dalle scorie della stupidità scolastica, dell’ebetudine televisiva e del diserbante massiccio di certi locali del tutto privi d’anima come i fast food o i salotti di casa, ha semplicemente fame di tutto, senza limiti. Sta a noi offrirgli un cibo appetitoso. E questo è affare non da poco, non solo perché siamo in competizione con le veline o i giocatori di calcio, che scintillano bellezza, lusso e voluttà – per parafrasare Baudelaire – ma perché quello che di solito ci viene in mente di ammannirgli è roba disgustosa, precotta, surgelata, mummificata. In questo sono più bravi i religiosi, da cui bisogna imparare, con umiltà, sì, proprio con umiltà. I dosaggi geniali, talvolta, di sport, riti devozionali, preghiera, certo anche quella – il cuore dell’adolescente ha più sete di spiritualità di quanto tu non creda, miscredente, e amore sotto forma di agape (carità, impegno, aiuto ai bisognosi eccetera) – è spesso un cocktail che calza a fagiolo all’adolescente. Certo molto meglio di una formazione tutta giocata sul rigore intellettuale e sull’etica storico-sociale più qualche visita ai musei. L’adolescente ama l’avventura, in tutte le sue forme, la trasgressione, vuole il sapere tutto intero, non fatto a pezzi e ridotto in minuscole dosi da somministrare per via rettale, così come accade (o si vorrebbe che accadesse) a scuola. La grande impalcatura metallica e disciplinare delle materie scolastiche è la 27

morte della conoscenza, altro che storie. Vedersi somministrati grigi piattini di fisica separati dalla biologia, di filosofia separata dalla letteratura, di storia separata dall’arte e così via è un insulto alla voglia di capire, di abbracciare, di tuffarsi dentro la “carne del mondo”. Il sapere riguarda il grande corpo di ciò che vive e trabocca tutto intorno, non un cumulo di segni frantumati in tutte le direzioni come dopo una deflagrazione cosmica. Non per niente un adolescente sano (e lo so che purtroppo se ne fanno ammalare un sacco con le schifezze che sono in vendita in giro) ama i romanzi, le poesie, i film, la danza, la musica, dove l’esperienza è ancora intera, dentro una storia, dentro una materia in cui ci sono insieme filosofia, etica, biologia, matematica, letteratura. Come si fa a ricomporre questo corpo a brani del sapere per farlo anche solo vedere ai nostri aspiranti amanti della cultura? Non credo che basti l’interdisciplinarità, anche lei è figlia dello strappo e lo porta cucito come un marchio, come uno stigma. Per conto mio, e te lo consiglio, ricorro molto all’immaginario, alle immagini, alla facoltà immaginativa. Nelle immagini, nei quadri, nelle poesie, nei film, nella musica permane l’unità della realtà e della conoscenza. L’atto di apprendere è, almeno in principio, unitario, integro, avvincente, appassionante, riconoscibile, prossimo, carnale. È ispirato da Ermes e da Orfeo, ma soprattutto dal grande afrodisiaco della bellezza. Dopo, solo dopo, con calma, si potrà aprirlo per guardare le sue parti. Ma prima occorre una visione fatta di carne e sangue e ossa e terra e acqua e fuoco. Non si può partire da insulse astrazioni, da bocconcini tritati di cose di cui non si riesce neppure a riconfigurare un principio d’unità (epistemologico), ma neppure e soprattutto un principio di radicamento nella natura, nella cultura, nel corpo del mondo. Occorre uscire fuori dai recinti, dai microrecinti, dagli sgabuzzini dove la parcellizzazione ossessiva del medesimo ci ha rinchiusi, e i nostri allievi con noi. Respirare, far respirare gli alberi frondosi del sapere, riabilitare la coesione e la complicità profonda che ogni forma di rappresentazione intrattiene con il suo referente e che deve essere esperita, colta fisicamente, nello sguardo, nel corpo. 28

Dove si proclama con passione qual è la grande, unica, irriconosciuta e meravigliosa fonte del sapere e del modo per farla godere fino in fondo

La grande esclusa dalla scuola è l’autentica fonte del conoscere (ahi, qui la dico grossa!), l’arte, sì, proprio lei, quella che invece può essere ardentemente amata dai nostri allievi. L’arte come comunicazione intera dell’esperienza, non ridotta a insipide astrazioni, a formule, a concetti. L’arte come forma, come esposizione dell’ente sullo sfondo dei suoi significati più irraggiungibili, come sua riconfigurazione simbolica, ricca di potenziali vie di interpretazione, inesauribile cornucopia proprio come inesauribile è l’esperienza stessa, indecidibile, misteriosa, appassionante. Ricorda, Insegnante diffidente, quasi per ognuno dei nostri mortali argomenti c’è qualcosa di corrispondente nei grandi romanzi, nelle opere di pittura, nella danza, nella musica. La psicologia si può meglio imparare immergendosi nelle coreografie di Pina Bausch o nei romanzi di Kafka, nelle confidenze di Etty Hillesum e nelle poesie di Rilke. La filosofia (almeno quella che vale la pena di godere) è tutta sperimentabile nella grande poesia, nella pittura, nel cinema. Persino la matematica o le scienze sarebbero meglio comprensibili e più accettabili attraverso il confronto con le arti, si pensi all’influenza delle formule matematiche nella musica o nell’architettura (roba vera, sperimentabile, dentro al mondo, non separata da esso) o in certa pittura astratta o in certe raffigurazioni complesse antiche e medievali, per non parlare delle spettacolari biografie dei matematici, anche quelli 29

ancora “viventi”. Ma non è facile, oppure forse sì, occorre rompere il velo che ci tiene prigionieri nella falsa convinzione che il sapere sia quello lì, sotto formalina, anziché quello carnoso che il mondo ci profila non tanto nella sua immediatezza, ma in opere che lo hanno interiorizzato a fondo e poi restituito in forme altamente simboliche, cioè ricche di sensi che possano essere percorsi, respirati, assaporati, morsi. Certo non si tratta di utilizzare le immagini come le si maneggia nella gran parte dei corsi di storia dell’arte, come chincaglieria obsoleta e tenuta sotto spirito da maneggiare come se fosse di cristallo. Si può non gustare l’arte solo a patto di aver patito un’introduzione critica tutta intera, un tirocinio barboso e mutilante alla terminologia specifica del medium e la immancabile contestualizzazione storico-sociale. L’opera immaginativa vive di vita propria e va anzitutto vista, goduta, palatata tutta intera, senza sovrastrutture, infrastrutture, chiacchiere inutili, senza saperne nulla, va delibata così anche più volte, prima che si possa scendere lentamente e cautamente nel suo ventre. Altrimenti diventa anch’essa spazzatura scolastica, roba da “studiare” per poi sbarazzarsene. Occorre creare un’aura di mistero, quasi di devozione intorno all’opera, ma soprattutto lasciarla vivere, liberamente, con tutto il tempo necessario, con pazienza, per poi intercettare sentieri che forse non conducono da nessuna parte ma la dischiudono, la approfondiscono, la rivoltano persino. Occorre favorire la meraviglia, la scoperta, il godimento (sì, la jouissance anche a scuola, con buona pace di Lacan). Per esempio, e per venire a qualche piccola istruzione pratica (ma è solo in amicizia), quando mostri un film, un quadro, quando fai leggere un libro, non dirgli niente prima (al tuo studente meraviglioso), non inquadrarlo dentro la griglia carbonizzante delle categorie storiografiche, letterarie, critiche, artistiche. Non prepararlo. Fagli vedere, gustare, masticare da solo. Poi non spiegare nulla, almeno all’inizio, non pilotare (tu sei già zeppo di pregiudizi, di astrazioni inutili, di concetti grassi e ostruttivi). Lasciagli tempo. Fallo meditare da solo, ma30

gari buttando giù qualche appunto. Fagli vedere ancora, in un silenzio quasi mistico. Poi a poco a poco, seguilo nella sua andatura. Magari potresti solo stimolarlo, se nicchia troppo, con una domanda larghissima, tipo, “Cosa hai visto?”, “Cosa c’è qui?”, e guidarlo a concentrarsi sulla materia pullulante, sui dettagli, sulla fisionomia appariscente di ciò che ha visto, udito, letto (le immagini naturalmente non sono solo quelle iconiche, ma anche quelle letterarie, coreografiche, teatrali, musicali, non c’è bisogno che te lo dica, vero?). Solo lentamente scaturiranno i significati, le interpretazioni, i confronti, forse finanche qualche categoria “seria”. Quello che conta è l’esperienza di contatto e di piacere con le immagini, siano esse gratificanti o terribili, come talvolta si conviene, luminose o ricche d’ombra e di drammaticità. Non è facile perché bisogna selezionare, provare, sbagliare, rifare tutto da capo. Avere speso anni sui teoremi e sui logaritmi purtroppo serve a poco ora, insegnare non è fare il ricercatore, adesso bisogna intuire, grazie al nostro sensore interno e a un po’ di attenzione, come appassionare questi giovani affamati a qualcosa che così come lo maneggiamo è davvero insopportabile, almeno a chi è sano. Perché certo ci sono studenti che imparano apparentemente con gusto quella sbobba che gli somministriamo, ma attenzione: sono quelli già disturbati, già conformati. Guardali, gli studiosi, sono già quasi esanimi, già gobbi, occhialuti, già diafani come i libri che compulsano per diventare inutili e noiosi come noi. Quelli vivi, quelli che hanno carne e sangue, che hanno gusto, non sanno che farsene di cibo vizzo e surgelato. Vogliono tutto, ma un tutto formidabile, non materia di scarto. Hanno ragione loro, rammentiamolo. Essi non sono quelli che non capiscono, gli asini, i fannulloni, come spesso amiamo definirli, sono quelli ancora vivi! Sono loro i veri giudici del nostro insegnamento, solo quando avremo coinvolto loro, e magari spiazzato i nostri beniamini, sapremo di aver fatto un buon lavoro. Che desolazione essere confortati dai soliti ragazzini disturbati e saccenti, foruncolosi e depressi. Io voglio il sorriso di quello 31

che normalmente finirà a fare il calciatore o di quella che mi guarda con compassione perché sa già come gira il mondo e dove tirano i soldi e che io non ho spostato di un millimetro perché non ne sono capace, perché per lei io sono patetico mentre il mondo delle veline è mitico e scintillante. Per carità non si vuole dire con questo che bisogna patinare la scuola, e poi, onestamente, come riuscirci? Siamo tutti d’accordo (non sia mai! anche se forse talvolta qualche dubbio sulle scale dei valori non sarebbe proprio un male avercelo) che quei lustrini sono per lo più falsi e alienanti. Eppure dobbiamo chiederci perché per converso occorra difendere il grigiore e l’incuria, il foruncolo e la sciatteria. La grande cultura non è foruncolosa, non è sciatta, non è grigia, è incendiaria. Ritroviamo questo incendio e scottiamo il culo ai nostri studenti!

32

Dove si insinua l’idea ingiuriosa e assai sovversiva di dimenticarsi dei “programmi” e di altre quisquilie consimili...

Lo so che ti senti spesso legato mani e piedi ai cosiddetti programmi, i programmi ministeriali, che, come dice la parola stessa, sono pensati in antri m(o)nastici (con rispetto per la categoria peraltro) e inquisitorî, iperistituzionali, nel cuore della distanza che si consuma dai luoghi caldi del fare educazione e spesso da accademici ingessati dal troppo amido e da funzionari desiderosi di temperare esigenze talvolta infinitamente diverse e spesso incoerenti tra loro. Essi, te lo posso dire con franchezza, sanno più o meno nulla di quello che succede dentro la tua classe, dentro la tua aula, e le loro preoccupazioni olezzano di stantìo e di impiegatizio. È roba partorita in stanze ancor più deprimenti, se possibile, di quelle che abiti tu e quindi puoi immaginarti l’effetto. Da persone che purtroppo, volenti o nolenti, hanno interiorizzato schemi, tabelle, funzioni, paragrafature e codicilli come unica dieta per anni e ora non sanno più non solo parlare ma neppure pensare diversamente. Sono intasati di schematismo e di tabellismo, una delle peggiori malattie che abbia contagiato il mondo della formazione insieme all’altro spaventoso male dei crediti nella partita ormai doppia dell’insegnare-apprendere. Ma tu in verità te ne fai un alibi, lascia che te lo dica. Questi benedetti programmi, che non si fanno nemmeno leggere, peggio delle istruzioni per la compilazione dei redditi, e al pari forse solo di quelle per la compilazione delle schede di valutazione, è ro33

ba per lo più utile per fare riciclaggio e che andrebbero risparmiati ai poveri alberi da cui provengono. Roba morta e che produce morte, come la cadaverina. Lascia stare. Lo so, anche i genitori ti impongono i programmi, come se ne sapessero qualcosa. Talvolta si arriva all’assurdo che uno zelante studente con gli occhialini possa sottolineare una defaillance della tua prestazione perché si allontana dai programmi. Che tristezza! Tu abbozza, dammi retta. Fai finta. Tu non sei una macchina e, chiaramente, quando le macchine ti avranno definitivamente sostituito, questo libro non avrà più ragion d’essere (ma sono pronto a scommettere che questo non accadrà davvero mai, almeno ove si coltivi un sapere autentico e non un semplice know how, parola che peraltro, se pronunciata troppe volte, può produrre una peristalsi convulsiva). Lascia perdere i programmi. I programmi sono come dei menù. Non si può mangiare tutto, specie se lo si mangia come se ogni cosa fosse equivalente. Tu puoi amare qualche cosa di quello che c’è nel programma, puoi conoscere bene qualche cosa di quello che c’è (o anche non c’è!…) nel programma, e i tuoi studenti ameranno e impareranno probabilmente solo quello che tu ami e conosci per bene, dammi retta. Se vuoi provarci, a fare tutto, per il bene della causa, fallo, ma vedrai che avrai solo perso tempo, perché quello che i tuoi ragazzi avranno imparato sarà sempre solo quello che tu avrai veramente desiderato insegnare, e oltre tutto meno bene perché gli avrai dedicato meno tempo. Infischiatene dei programmi. I tuoi superiori (parola un po’ grossa per degli insegnanti – spesso poco ispirati – tradotti in funzionari…) o i genitori dei tuoi studenti esigono subito delle prove? E tu dagliele. Fai delle esercitazioni finte. Simula e poi da’ i voti, se proprio devi, facendoli prelevare da un cilindro. Tu puoi insegnare solo quello che ti fa delirare di piacere, oppure, se proprio non riesci a delirare, almeno quello che non ti fa schifo. L’impostazione enciclopedica dei nostri programmi, o peggio storicistica, vecchia e consunta, non va, non alimenta, non fecon34

da. Tu devi strappare la carne cruda del sapere e gettarla così, nuda e viva e sanguinante, nell’arena del piacere di capire. I tuoi leoncini non si accontenteranno di roba rifritta, e male. Vogliono materia cucinata a quattro stelle, almeno. E tu sai che questo puoi farlo per alcune cose, quelle che ti hanno sempre affascinato, o che ti seducono ora. Qualcuno si sarà perso qualcosa? Questo è guardare il bicchiere mezzo vuoto. La verità è che qualcuno avrà ricavato qualcosa, di bello, di succulento, di animato, e non il solito nulla che regna nella falsa democraticità dell’omologazione dei contenuti e dell’astinenza del giudizio. Ok, c’è questa storia del POF, va bene. Capisco la collegialità, la collaborazione, il progetto condiviso. Fai uno sforzo, ma non cedere sulla tua anima, non vendere il tuo sogno di come si fa a calare la vita pullulante dentro a un esercizio didattico, dilata il POF, domina il POF, infila nel POF tutto il tuo amore, mi raccomando. Una falsa idea di scienza e di conoscenza – ma Goethe e qualcun altro (tipo Socrate e Gesù) se ne erano ben accorti – predica di assumere freddezza e distanza dagli oggetti di studio, per neutralizzarne effetti-alone e altri demoni. La verità, te lo garantisco, è che si capisce solo quello che si ama, perché solo quello che si ama chiama a comprendere, ad andare in fondo, a non accontentarsi, ai dettagli, alle fisionomie, alle viscere (entrañas dice Maria Zambrano, per citare una filosofa come si deve, per parlare della verità). Bisogna che ti faccia una confidenza. Tu non sei obbligato veramente mai a fare quello che l’autorità ti dice di fare. Se pensi che qualcosa stia assopendo il tuo desiderio, la tua voglia, il tuo piacere di insegnare, evitalo. Non ti piace quel testo, buttalo. Non ti piace quell’autore, dimenticalo. Non ti piace fare le interrogazioni, non farle. Non ti serve valutare con i voti, non sei obbligato. Come già detto, fai finta. Sì, fingi! Usa i dadi se non trovi di meglio. Oppure affidati a I Ching. Fai copiare. Fornisci tu il testo. Io per esempio penso in modo convinto che la valutazione didattica serva poco o niente. E allora? Faccio finta. Faccio fare un compito scritto ma gli lascio portare tutto da casa. Tu mi dirai 35

che sono pazzo. Ma io voglio dirti una cosa che spero ti farà riflettere. Tu credi che se non sei riuscito a farli appassionare alle cose che insegni durante l’attività autentica di insegnamento sarà l’esame, la prova, il testo o saildiavolo cosa a farglielo imparare per davvero? Nella migliore delle ipotesi li obbligherà a estenuanti memorizzazioni, che evacueranno non appena la miserabile faccenda della prova non si sarà estinta. La vomiteranno, la roba ingerita in quel modo. (Tra parentesi: evita come la peste i compiti per le vacanze, la più grande stronzata della cultura didattica! È roba pazzesca anche solo da pensare. Se avranno imparato qualcosa da te cercheranno da soli cibo per le loro anime, altrimenti obbligarli a interrompere il loro sacro tempo vacuus, sempre che i loro genitori e amici glielo lascino godere, è un peccato capitale, che produrrà lavori e apprendimenti della peggior specie, quelli in odio e di malavoglia. Al massimo, se li hai “presi”, alludi a qualche lettura o film o, meglio, luogo che “si” potrebbe andare a cercare…). Tornando a bomba, vogliamo intrattenerci sul processo digestivo? Ti devo spiegare l’influenza dell’appetito, della qualità del cibo (dagli ingredienti ai condimenti e così via)? Ti devo spiegare i rischi di un’ingestione eccessiva di proteine e lipidi in un tempo troppo breve? Hai bisogno di altre prove? Hai qualche ricordo della tua stressante corsa dell’ultimo minuto per raccattare una sufficienza? A me non interessa chi corre a raccattare una sufficienza. Se la vuole così gliela regalo. Faccio beneficenza. Non mi interessa chi studia per sbarazzarsi al più presto di ciò che studia. Lo ignoro. Vuoi rimanere uno scimmione carne da macello incapace di distinguere la bellezza da una massa di escrementi? Fa’ pure. Io insegno. Come si dice: “disce aut discede”. E a “discedere” ti aiuto io se capisco che sei solo interessato ai crediti o al pezzo di carta. Ti assicuro, Caro Insegnante, che non fa bene lavorare per produrre pezzetti di carta insulsi, e nemmeno per raccattarli. Occorre – lo so di dire una cosa gigantesca – occorre crederci e occorre credere anche di poter convincere a credere. Altrimenti tutto è inutile. Ci riuscirai con uno, con due, con quattro. Non importa. 36

Quei quattro saranno i tuoi Alcibiade e i tuoi Agatone. Per gli altri comunque non ci sarebbe salvezza. Se vuoi accanirti a sodomizzare i tuoi studenti con la sorveglianza, la disciplina, le prove, serviti pure, ma ne ricaverai poco: finirai per perdere anche quei quattro. Ma se il primo anno ne guadagnerai due, il secondo sarai più bravo e probabilmente saranno sei e quello seguente magari otto. È quello che ti auguro. Più o meno dovrebbe succedere così. Si chiama circolo virtuoso. Ti faccio i miei auguri. Ma se ti affidi alle forze di polizia, come si dice, sono cacchi tuoi. P.S.: Mi accorgo ora di aver usato qualche parolaccia nel testo, per esempio “stronzata”. Vedo il tuo sguardo accigliato e faccio marcia indietro. Qui bisogna che parliamo un momento del turpiloquio. Non voglio criticare le tue scelte estetiche, per carità, se non ti piacciono le parolacce, come si chiamano, non usarle. Sarai più “polito”. Ma vorrei rompere una lancia o qualcosa d’altro a favore di qualche sana irruzione del turpiloquio. A parte l’effetto positivo che fa alla salute psichica ogni tanto sbottonarsi la giacca ed eruttare un po’ di sana bile attraverso la parolaccia, mi pare che sia un forma linguistica troppo vilipesa. Se la guardi bene, anzitutto, è sempre roba corporea, sessuale, piena di vita. I dialetti, che la sapevano lunga sulla vita concreta, son zeppi di meravigliose “parolacce”, conservatesi anche nella miglior poesia in vernacolo. Ma non voglio fare il pedante. Voglio solo dirti che la parolacce sono parte del tessuto vivo della lingua. Lo so, tu non ami quei ragazzini che dicono troppe parolacce oppure non ti piacciono le parolacce in bocca alle signorine. Eppure sono un sintomo anche di libertà, di un certo senso grasso della vita. Preferisci la gente ingessata e imbaccalita? Io no. Lo so, qualche volta, quando dico una parolaccia a lezione, vedo che alcuni studenti (quelli addestrati a un’idea d’adulto del tutto idealizzata e mistificante) fanno l’aria stizzita. Allora mi piace ancora di più. Lo considero uno stimolante per i loro culi impagliati. Lo so che i tuoi studenti sono molto abituati all’uso del linguaggio forte. Naturalmente non si tratta di sfidarli sul loro terreno, semmai di mostrare l’uso valido anche dei linguaggi considerati inferiori. 37

Personalmente credo che un eccesso di citazioni, malattia da cui sono afflitti molti miei colleghi, faccia all’apprendimento molto peggio che una sana parolaccia su misura per i vari bersagli che lo meritano. Naturalmente le parolacce vanno amministrate con misura. Essendo estremi del linguaggio tollerato in veste ufficiale, te ne puoi concedere diciamo una ogni due lezioni. Gli escrementi e gli organi genitali sono quelle che danno maggior soddisfazione. Comunque anche invettive contro la miseria, la femmina del toro o quella del maiale possono appagare a sufficienza. Mentre le consacrazioni della polenta e gli improperi contro la povera “paletta” le giudico del tutto inefficaci.

38

Dove, senza troppo infierire, si vuol aggiungere qualcosa su quella curiosa e deprecabile pratica chiamata “valutazione”

Naturalmente tu devi aver fiducia che molti (studenti dico) o addirittura tutti possano essere coinvolti, presi nella tua rete, ma devi anche essere sapere che questo è illusorio. Tu farai il possibile, proprio così, renderai la tua cucina così gustosa e sorprendente che almeno un assaggio tutti lo vorranno fare, ma è giocoforza che qualcuno se ne vada per fratte, perché ha altro in mente, perché anch’egli è libero, perché tu, proprio tu, comunque non gli piaci, perché i suoi geni volgono altrove, la sua “ghianda”1 maturerà in altri terreni, ad altre latitudini. A volte è dura, perché proprio quello studente bello e impossibile o quella studentessa in fiore piena di talento in cui credevi magari ti tradisce, e ti tradisce per il tuo collega più detestato e la sua trascurabile disciplina umanistica, ma che non a caso detesti perché è bravo e bello e un poco ti somiglia. È vero, è dura, vorresti uccidere lui (o lei), il tuo collega e alla fine anche te stesso (sto parlando a chi ama questo lavoro, si intende), ma devi lasciarlo/a andare. Così come non puoi tenere tutti i craponi (o caproni che è lo stesso, con tutto il rispetto per chi lavora sodo per l’eguaglianza 1. La “ghianda” è il termine adottato da James Hillman per definire il daìmon, il talento esclusivo di ogni allievo, che forse esiste in lui, come pensava Platone, fin da prima di nascere. Della “ghianda”, secondo lo psicologo americano, ogni insegnante, dovrebbe imparare, mediante l’addestramento meticoloso della sua immaginazione erotica, ad accorgersi. Su questo puoi vedere, di Hillman, Il codice dell’anima, pubblicato da Adelphi. 39

di possibilità e di risultati), o quelli che del tuo amore per le creature della terra e del cielo, del mare e dell’etere, a te che insegni le belle scienze, preferiscono di gran lunga i miracoli dell’arte, a quelli che alla tua sapienza geologica, chimica e alchemica, geofila, meglio, preferiscono la musica delle sfere. Alcuni ti sfuggiranno di mano, altri non ti avranno neppure visto, presi nelle magiche nuvole dell’etere infinito, così candidi talora nella loro adolescenza e giovinezza, come Atteone verso altri specchi d’acqua, verso la loro Artemide, lo sguardo su una stella sì, ma migliaia di galassie lontana dalla tua… Questo beninteso (scusa ma devo dire una cosa ai soliti violenti contro sé stessi che declamano continui “peana” alla causa della valutazione, magari agghindata da valorizzazione, valutazione in itinere e altre simpatiche ingegnerie), non significa che la valutazione non serva (per carità!!!). La valutazione è una cosa, una praticaccia, che aiuta forse a comprendere a che punto si è quando c’è una qualche scala da salire. Ma, intanto non sempre c’è una scala da salire, anche se debbo riconoscere che spesso effettivamente c’è. Per esempio se stai imparando a suonare un controfagotto qualcuno ti aiuterà a capire se puoi affrontare un certo pezzo o meno (per esempio il tuo orecchio). Oppure se vuoi diventare un bravo utilizzatore di un tornio a controllo numerico in qualche modo ci sarà qualcuno che dovrà verificare se stai forgiando fondi di padelle o monete (per esempio il tuo occhio). E non c’è dubbio, come si vocifera con eccessiva convinzione, che qualche provetta possa anche stimolare i soliti competitivi, o possa fornire un brutto modo, esteticamente sconveniente (e analogicamente discutibile), per simulare una mutilazione iniziatica, ma io penso che la prova, la verifica, il giudizio debbano soprattutto – ascoltami bene – essere richiesti, ripeto, essere richiesti, debbano cadere cioè come il cacio sui maccheroni quando si è pronti a riceverli, a farne tesoro, a comprenderli pienamente e non debbano essere adoperati come granate per sfondare le resistenze nemiche. 40

Tu dirai che io voglio sfasciare le nostre certezze, la struttura disciplinare del dispositivo educativo (direbbe qualche collega di cui non faccio il nome), ma è solo così che ti si aprirà un mondo. Occorre squarciare il velo! (questa frase, o slogan, se preferisci, andrebbe sottolineata). Sì, squarciare il velo, sbarazzarsi di tutti i luoghi comuni, le false credenze (e ingenue!), di tutti i paracarri contro cui si scontra l’autentico esercizio di quel mestiere straordinario che è insegnare e di quel piacere profondo, quasi estatico, che può essere l’imparare. Tu pensi che senza il maglio della valutazione tutto l’edificio di carte che avrai stentatamente costruito andrà in pezzi. Proprio vero, proprio così, se è un edificio di carte, se è fragile e pallido, se è roba di scarto. Ma se è fulgido e stabile, ricco e affidabile, frutto della tua passione e della tua attenzione al senso profondo dell’insegnare e imparare, non cadrà, credimi. In ogni caso mi pare una buona prova, che ne dici? Per ora, come vedi, sono costretto a fare il censimento di tutte le sciocchezze da cui è contaminata la cosiddetta cultura didattica, piena di parolette (vere parolacce anzi, in questo caso…) sempre uguali e che hanno il potere sinistro di accecare completamente rispetto a tutto, dico tutto!, quello che si potrebbe fare se ce ne si dimenticasse. Tutta quella roba, curricoli, test, prove, compiti, voti eccetera eccetera, serve come salvagente a chi non ha la minima idea di cosa sia insegnare, fìccatelo in testa. Serve a dare una forma a ciò che può spaventare per la vastità e per la libertà infinita che si rivelerebbe. Fídati. Immagina Socrate alle prese con una scheda di valutazione! Ma Socrate se ne strasbatteva delle valutazioni… Socrate sapeva amare, vedeva lontano, sapeva parlare, sapeva intrattenere, sapeva distillare la “verità” anche da una rapa, sapeva perfino godere (anche dei suoi allievi, anche letteralmente), pur brutto come era. Cosa lo rendeva divino, come diceva di lui il suo nobile allievo Alcibiade, come mai a lui gli splendevano gli agalmata (le immagini sacre) del dio in trasparenza? Prova a chiedertelo. 41

Capisco che Socrate sia un modellino un tantino elevato. Potresti provare con Gesù, o con Lao Tze, o con Makarenko, in mancanza di meglio, o persino con don Milani, per parlare di roba più a portata. D’altra parte un qualche diavolo di modello devi pure avercelo. Pensa ai grandi maestri dell’arte, spesso misconosciuti, pensa ai grandi coreografi, ai grandi registi, ai grandi capiscuola della pittura, soprattutto pensa a qualcuno che sia un vero “artefice” dell’insegnamento.

42

Dove si deve pur dire qualcosa su quell’altra formazione cancerogena che è appellata non sempre con pieno diritto “didattica”

Il grande caravanserraglio della didattica, ahi! Quanta intelligenza sprecata, lo dico con un poco di simpatia perfino, dietro alla messa a punto di tante cianfrusaglie del tutto inutili, battezzate con i linguaggi più impropri, tutto un armamentario da guerra, strategie, tattiche, obiettivi, rinforzi, no, no Caro Insegnante, dammi retta, lascia perdere, lascia perdere!, i rinforzi lasciali portare ai tuoi nemici, i cattivi maestri, ne hanno bisogno. Lascia cadere tutta la batteria dei compiti, dei programmi, delle prove scalari, degli input, degli output, delle osservazioni mirate, dei criteri, del cognitivo, dell’affettivo, del fisico e dell’astratto, tutta roba che è servita e tuttora serve per far produrre carta che anche lei sarebbe meglio non fosse mai stata strappata ai suoi alberi d’origine e a sviluppare tronchi secchi dell’apparato accademico. Diotiscampieliberi poi dall’industria della didattica on line, della teledidattica e dei vari pacchetti (!?) multimediali, con i loro tutor-on-line e le loro sigle da neolingua orwelliana. Lascia le aziende affette dalla peste del profitto a montare questi obbrobri per aumentare il fatturato. Alle aziende lo sfruttamento, a te l’educazione, sono due faccende che un principio costituzionale dovrebbe sancire come divise e incomunicanti. Ma tant’è. Il computer va bene per scaricare gratuitamente la musica e per “chattare” con nuovi amichetti, non per insegnare. Forse sono un filo reazionario, oppure un tardivo bolsce43

vico, non lo so, ma so che quella roba lì, se qualcuno non la fermerà, finirà per distruggere definitivamente una delle più straordinarie esperienze della vita umana e a trasformarla in un’altra forma di fast-food. Lo so che tu sei un ingegnosissimo computerminded e che ti diverti con tuo figlio a perlustrare i sotterranei della rete e in proprio fabbrichi software che rivendi ai tuoi amici del club tennistico e animi anche un megablob sulle collezioni di figurine degli anni ’60. Ma in classe, ti scongiuro, lascia perdere. La tecnologia non è cattiva, mioddio (potrebbero accusarmi di profanazione e blasfemìa, se dicessi una cosa del genere), ma va usata in forma del tutto sussidiaria. In classe devono entrare le parole, le immagini, la musica e per tutto questo spesso occorre della tecnologia, anche dell’altissima tecnologia, ma il tutto deve essere sorretto da un organismo vivo (tu e il tuo gruppo, tu e il tuo allievo, dentro il luogo magico che avrete scelto) e non da un macchinario come quello su cui sto strimpellando forsennatamente ora, che anche se effettivamente si dimostra utile, allo scopo di scrivere, non mi fa evadere neanche un minuto dalla mia strutturale solitudine, dal senso di separatezza, di sradicamento e disorientamento che l’essere un terminal di comunicazione (terminal, come i famosi malati), anche se poi radunato in forum o altre amenità consimili, mi fa sentire e di cui nessun palliativo ingegneristico può diminuire di un grammo il potere di alienazione. Giacché, seppure illustri filosofi-patacca (sostanzialmente somatofobici) che non sanno più come rimediare una sponsorizzazione (mioddio, questo “coso” su cui scrivo mi corregge blasfemìa e non mi corregge sponsorizzazione, questo dice tutto!) alla loro ricerca, si sono messi a sragionare e a celebrare nuove forme di collettività virtuale, la comunicazione, il piacere, la sessualità (perfino!) – (come allora se la vecchia sessualità epistolare fosse qualcosa di così diverso per esempio) – generati dal computer e da tutte le sue protesi, ricòrdati che l’esperienza in sangue ed ossa e umori vari, almeno fino a che noi stessi saremo fatti di questa materia non artificiale, resterà insostituibile, ripeto, 44

insostituibile, per avere accesso anzitutto alla carne del mondo, al suo tessuto profondo, e alle sue fonti di godimento. Così la vede questo vecchio reazionario. Ma eravamo sulla didattica, da cui tu già diffidi lo so, da irriducibile disciplinarista quale sei. E in fondo hai ragione, anche se, non per dar manforte alla didattica, semmai alla provincia di sapere cui giurisdizionalmente dovrebbe essere prestata la sua opera in altro modo, devi fare attenzione a un certo piccolo mondo di variabili che il fatto di essere assai ferrato nella tua casella disciplinare, per quanto larga sia, non tiene nella dovuta considerazione. Insegnare è un compito serio e complesso, come mi pare di essere in treno (è un francesismo) di spiegarti. E certo molti degli attrezzi messi a punto nelle officine didattiche sono perlopiù superflui e spuntati, non lo metto in dubbio, però tu non devi assumere l’aria saccente di chi crede di poter sbaragliare il campo delle inibizioni ad imparare solo con il maglio della sa(cce)pienza. Ok, tu sei uno di quelli bravi. Sei un po’ gigione e fai arrapare tutti i tuoi allievi appena apri la bocca. Ok. Ma dopo l’arrapamento, ci sai davvero fare? Perché qui casca l’asino. Non bastano i preliminari sulla scena della passio insegnandi (è un latinismo), occorre reggere tutto il rapporto. A incendiare gli occhi di qualche istericuccio basta parlar bene, aver estro e magari un po’ di humour, il che comunque è già un bel vantaggio, ma si dà il caso che fino a che non si passa ai fatti, cioè a far interiorizzare a fondo, permanentemente, ciò di cui tu con tanti birignao e tanto mestiere hai suonato la sinfonia, di apprendimento non si possa parlare. E infatti occorre che adesso, tu ed io, a quattrocchi e senza ulteriori riboboli, parliamo un momento di apprendimento, così che poi non ci tocchi di tornarci sopra.

45

Dove ci si occupa di un altro temibile e maldenominato oggetto: l’apprendimento. Qui si praticherà un po’ di omelìa sugli apprendimenti “sbagliati”, su quelli “per sottomissione”, quelli “per identificazione” e quelli, senti senti, “per passione” Lo so, sono d’accordo, apprendimento è una parola che andrebbe asportata chirurgicamente dal dizionario da tanto è vergognosa, ma non riesco a trovare di meglio, se non con l’ausilio della metafora. Sarebbe meglio fioritura, o distillazione, o trasmutazione, sono d’accordo, ma perfino tu credo finiresti per non seguirmi più, a star dietro a queste meravigliose immagini. Invece io ti voglio sì portare a pensar questa brutta parola proprio come guarigione, aurora, rinascita, ma prima bisogna farci i conti, sì, con tutta la sua letteralissima beotaggine. Si apprende in modi molto diversi, questo lo sai anche tu, in una scala dalle molteplici e sfumatissime variazioni. In questo c’è una vastissima letteratura, che comunque puoi benissimo evitare di pupparti. Te lo spiego io, in modo sintetico e pressocché definitivo (abbi pazienza con la mia μbris, arroganza, dal greco). Da una parte ci sono gli apprendimenti che definiremo per comodità “sbagliati”, di solito debitori di personalità, ahimè, disturbate, e gravemente. Di questi non parleremo, ma se ti interessa c’è parecchia letteratura in commercio che può aiutarti a snebbiare anche questo settore sul quale, te lo dico con franchezza, il tuo potere di sovvertire il pronostico è a dir poco scarso. Per questi dolci diseredati occorre qualcosa di più, come dire, appropriato e particolare. Ci sono ragazzi che rovesciano tutto quello che apprendono nel suo contrario o altri che lo frullano in tanti mirabili pezzetti 46

e poi lo vomitano senz’alcun nesso, altri ancora rovistano nella spazzatura del sapere, ma non ne traggono le piccole gemme perdute, combinano solo degli aggeggi informi e inutilizzabili. Ma, come ripeto, il duro lavoro con i più disgraziati – a meno che tu non abbia la vocazione per le sciagure umane, e non mi sembri il tipo (se lo sei esistono favolose strutture specializzate dove potrai sfogarti alla grande) – non fa per te. Lo so, purtroppo a volte casi così sfortunati penetrano anche nella tua aula e tu ci stai male o te ne fai un alibi per lamentarti come il tuo solito. Per lui c’è il sostegno e se non c’è allora qualcosa non può funzionare a dovere nella tua “casa”. Poi esistono altre questioni, per esempio quella degli stranieri, e temo che da loro sarai tu a dover imparare, per guidarli, molto più di quanto tu non veda ora. D’altro canto non credere, anche dentro la “gaussiana” dei normali, cioè fra quelli che ti sembrano nella norma appunto, di colore bianco e italianissimi, un apprendimento a dir poco decente non è davvero la regola, proprio no. Anzi. E spesso, come si sa, cinesi e sudamericani sono molto ma molto più motivati. Tu sei il primo a scambiare lucciole per lanterne e magari con un pizzico di truffaldina consapevolezza. Eppure. Eppure. Caro Insegnante, io provo a dirtelo, poi, nella sconfinata libertà di farsi e fare del male, tu puoi sempre scegliere di continuare a protrarre il nulla, poco male, nessuno se ne accorgerà più di quanto non accada ora. Sarà il tuo cuore, secondo me, il tuo cervello, e anche la tua libido, a risentirne. Pazienza. Comunque. Intanto prova a venirmi dietro. Ti dirò due o tre cose anche abbastanza ovvie, ma che ti devi scolpire tra le meningi e il perineo, come un lapidario diagnostico di base, ok? Per comodità divideremo il campo in tre grandi categorie di apprendimenti “giusti”. Quelli “giusti” ma finti: “per identificazione” e “per sottomissione”; e quello “giusto giusto”: “per passione” (la parola è troppo grossa per te? Pazienza). Cominciamo dai primi due, anzi cominciamo dal primo, quello più diffuso e perfidino. L’apprendimento per “sottomissione” 47

(ad un persecutore, che sei tu). Debbo in larga misura queste considerazioni sacrosante alla geniale coppia di psicantropi inglesi Donald Meltzer e Martha Harris, ma non è necessario che tu li compulsi personalmente, a meno che tu non sia un fanatico (nel qual caso troverai l’indicazione in bibliografia). Li cito solo perché lo meritano, ecco tutto. Il primo è il caso dello studente che chiameremo “furbo” o di fretta. Intendiamoci, all’Università per esempio uno studente è sempre di fretta, in parte per l’enormità (quantitativa) delle prove a cui è sottoposto, in parte perché non vede l’ora di sciogliere gli ormeggi dai tentacoli della grande piovra dell’insegnamento coatto (cioè l’Accademia), dimostrando peraltro di aver capito poco della vita (io ci sono stato parecchi anni fuori corso all’Università e li ricordo come assai divertenti, ma tant’è – e non mi seviziare con considerazioni sociologico-bolsceviche tipo “ma non tutti se lo possono permettere”, perché lo so benissimo, ma conosco benissimo anche l’arte di arrangiarsi e il gusto di farla in barba ad un sistema che vuole spappolarti dentro i suoi artigli non appena possibile) (!). Comunque: qual è la fenomenologia del nostro studente sottomesso tipo? La conosci benissimo. È uno che cerca le scorciatoie. Non è la sua storia quella di fare i conti davvero fino in fondo con la sbobba grigia e fredda che tu gli hai somministrato, e allora “fa finta”. Chiede ai compagni cosa è importante memorizzare e cosa no. Viene a vedere gli esami (se è all’Università, dove questa razza prolifera), studia quello che tu ami sentirti dire, se è un vero professionista costruisce addirittura un rapido dossier sulle tue manie. Magari durante le lezioni ogni tanto ti fa la domanda giusta, tanto per farsi notare. Di solito, se fai le interrogazioni programmate, studia gli ultimissimi giorni, ed esclusivamente l’indispensabile. Se ha favella, e spesso ce l’ha, la fa franca e magari anche alla grande. Se gli manca, la fa franca lo stesso, ma molto meno alla grande. Il suo segreto è immagazzinare moltissime informazioni in poco tempo, trattenere questo bolo male impastato e indesiderato 48

nell’angolo della guancia per due o tre giorni (il tempo necessario per passare la prova, un po’ come faceva mio fratello quando non poteva sputare la carne che mia madre l’obbligava a mangiare), e poi vomitartelo addosso in modo più o meno organizzato. Infine vederlo dissolvere, il bolo, nel giro di pochi minuti (magari qualche frammento gli può rimanere tra i denti per qualche anno, ma è del tutto inservibile e può solo provocare guasti alla sua bocca). Con il tempo uno così può fare carriera e diventare un allegro professionista e metter in piedi qualche simpatica azienduccia dal nome esilarante e fabbricare apprenditori per sottomissione di discreto livello perfezionando il curriculum di una vita e facendolo fruttare bene. Sai qual è il guaio? Che non è facile beccarli questi, e finisci perfino per rispettarli, anzitutto perché l’hai fatto anche tu, non ci sono santi. Anche tu sei stato un perfetto miscredente, uno che la dava a bere, quando gli andava bene. Un economo, in fondo questa è un’operazione economica, meglio economicistica, che si mette in atto quasi sempre quando la sbobba, appunto, non merita, di per sé o nell’insieme. Francamente è difficile apprendere per passione il codice di Procedura penale, anche se sono certo che qualcuno riesce a propiziare anche questa santa transustanziazione (della sbobba in manna). Io credo, comunque, che non sia gratificante per te tutto questo. Hai un bel dire che l’allievo non deve essere colonizzato interiormente, che è libero di imparare anche solo strumentalmente e altre baggianate finto-democraticistiche simili, ma il risultato è misero, serve a “superare la prova”, punto. Ed è la peggior conferma di quanto male faccia una cultura dell’insegnamento che ha fatto della valutazione, esame, compito, interrogazione, il feticcio, il perno intorno a cui gravita tutto il resto. Pensaci. E capita persino che da pisellone quale sei, uno di questi abili infinocchiatori, che talora lo fanno inconsapevolmente, perché così hanno capito che possono salvare il proprio narcisismo senza danno e senza scoprirsi troppo, tu lo eleggi a beniamino, ne fai il “primo della classe”. Perché lui è proprio “come tu lo 49

vuoi”. Dice quello che tu vuoi che dica, alza la mano per farti le domande che lusingano le tue aspettative, bela quando tu vuoi che beli. Certi furbacchioni te la fanno proprio in barba. Ma attento, perché lui fa così con tutti, anche con il collega che detesti. Guardati da lui, è un piccolo prostituto dell’apprendimento. Anche se non posso negare che faccia una certa simpatia. Della stessa genìa, ma con più cuore almeno, è quello che impara per “identificazione”. Fa più o meno le stesse cose, solo il suo sguardo invece che furbetto è proprio rapito, povero. Lui soffre di una certa debolezza di personalità e letteralmente si fa allagare da te. Spesso è proprio “bucato” dentro e si appoggia ad ogni figura anche solo lontanamente autorevole che gli capita a tiro. Il suo sport preferito è annuire mentre tu parli e a volte, mentre ti ascolta in estasi, se gli vai vicino, puoi sentire che fa le fusa. Non ti è mai capitato? Ok, allora questo libro fa proprio per te. Di solito almeno qualcuno di questi in una lunga carriera dovrebbe capitarti. Ma se tu sei così, diciamo, un po’ in disarmo, sappi che ci sono insegnanti che mietono messi di questo tipo. I grandi carismatici o i belloni, o gli Actor’s Studio falliti finiti a insegnare (con cordoglio), fanno cucciolate di beatificati. I loro allievi, quasi in massa (esclusi quelli che proprio perché sei seduttivo decidono che ti guarderanno con astio e te la faranno pagare, invidiosi e gelosi), sono tutti pronti ad essere introdotti nella camera iperbarica del tuo fascino e a finire invischiati nella tua bava ragnosa, più o meno. Il loro apprendimento è frutto di pura adesione, quando non di schietto parassitismo, e farai fatica a staccarteli di dosso a fine lezione, quasi fossero delle mignatte. Tu e loro state proprio bene insieme, fatte delle belle coppie, anzi “fate gruppo”. Non si può negare, questa è una situazione perfetta. Tu parli, o dimostri, o esegui, o imiti, e loro, lui, lei, ti guardano con occhio innamorato. Magari non verrebbero proprio a letto con te, ma comunque li hai incatenati, hai fatto presa, sono sedotti. In sé, niente di male, anzi. È una buona cosa. Però non posso nascondertelo, in questo 50

momento, mentre sono lì sbavanti al tuo cospetto, non imparano niente. Questa comune beatitudine è piacevole, anche troppo, e fa dimenticare ad ognuno chi è, cosa gli interessa davvero, quali sono i suoi problemi. Lì ci sono dei perfetti burattini, incatenati dal miele della seduzione. Ma sono imbaccaliti. Non sono lì veramente loro, ma il loro volto buono, finché dura. Quello che imparano è ad imitarti, ti rubano pezzetti d’abito da indossare sui loro corpi di diversa taglia, talvolta con effetti esilaranti involontari. Alcuni parlano, si muovono, si atteggiano proprio come te, ma fanno anche la tua parodia, inavvertitamente. Prima o poi si sveglieranno, ci si augura, e allora si sentiranno storti e, per ben che ti vada, te la faran pagare. Chiederanno il conto. Certo, a differenza dei primi, i sottomessi, questi qualche cosa la incamerano. Se li saprai slegare con grazia, di qualcosa ti resteranno grati, qualche tua mossetta gli resterà addosso, ma perché imparino davvero devono liberarsi di te, del te inconscio e sproporzionato che ha soddisfatto il loro (e il tuo, e quanto!) narcisismo. Qui sì c’è il Grand Ballet del rispecchiamento, il coro del “come stiamo bene insieme” e del non lasciamoci più. Ma, ahimè, occorre che qualche crepa, e severa, si insinui perché un apprendimento “per passione” si possa dare. Un apprendimento non finto, non imitato, non parassitario, un apprendimento pieno, anima e corpo, carne e sangue, come mi piace anche chiamarlo. L’apprendimento vero viene subito bene a quelle persone cui la natura ha fornito il perfetto equipaggiamento per fare esperienze e distillarne scienza. Esistono, te lo assicuro, a volte li si chiama “imparati”, non per niente. Una misteriosa alchimia di cure parentali, corredo genetico, ambiente privilegiato, fortuna, clima favorevole e chissà cosa altro fa sì che alcuni, rari, imparino sempre e comunque, e nel migliore dei modi. Tu li lasci per errore nella tana dell’orso bianco allo zoo e loro, anziché venir divorati, se ne vengono fuori avendo appreso un’infinità di cose sul comportamento di questi animali, talora hanno imparato a dialogare 51

con loro, come San Francesco. Gli si ferma la macchina nel deserto e anziché perdersi d’animo, come fossero Ken Follett o Wilbur Smith, contattano il loro agente editoriale per avvisarlo che ci sarà un libro d’avventura in serbo per lui nel giro di poche settimane. Li metti in una classe scolastica e riescono a imparare anche quello che tu non ti sei mai sognato neppure di inserire in programma, anzi che tu non sai nemmeno. Loro, invece, l’hanno scoperto, prima di te. Ma non ti sbeffeggiano, anzi, te lo regalano, con modestia (falsa?). Sono per così dire perfetti. Beh, questi non dovrebbero neppure venirci a scuola, non ti fare bello dei loro successi. Loro prescindono da te, dalle macerie (sì, macerie, non materie) scolastiche, dall’ottusità della programmazione ministeriale. Loro imparano, con autentica passione, e tu sei solo un opaco incontro nella loro mirabile carriera di persone semplicemente fortunate e felici di esistere. Ma a qualcosa di simile, se cerchi ispirazione, dovresti provare a pensare anche per quelli un po’ più sgarruppati. Non potrai mai renderli così perfetti (e antipatici), ma far sì che imparino con passione, che studino, leggano, si esercitino, provino, con desiderio, con dedizione, con curiosità, con amore persino, in tutto presenti, al completo per così dire, con i loro pensieri, la loro storia, i loro sentimenti, le loro debolezze finalmente esposte senza timore, con il loro orgoglio, la loro luminosità, il loro ardore, la loro ingenuità, la loro bellezza, qualcosa del genere, dovrebbe essere la tua unica e massima ambizione “professionale” (e personale). Non ce n’ è (è un gergalismo), imparare con passione vuol dire semplicemente trasformare l’esperienza in elisir. Ogni esperienza, che deve, come vedremo, essere preparata in modo che sia autenticamente desiderabile, deve divenire fonte di motivato sforzo, di coinvolgimento, di interrogativi e di ricerca, di approfondimento e di interessamento sincero. Questo non è qualcosa che possa capitare solo ai fortunati, è qualcosa che almeno qualche volta capita a tutti, quando la “cucina” è buona, almeno se non si è stati troppo violati e sabotati in precedenza. E allora si tratta di lavorarci seriamente sopra. 52

Perché l’allievo si renda disponibile, si dischiuda, un po’ come la moleca del granchio, apra le sue ali anziché ingobbirsi nella paura di una struttura minacciosa e mortificante, si cimenti, sbagli, cada, si rialzi, con un minimo di fiducia, di sostegno, un sostegno che gli garantisca di poter parlare senza sentirsi sotto tiro, di potersi manifestare nelle parti più deboli senza il timore di essere irriso, insomma di poterci “essere”. Solo a questa condizione si può verificare un’esperienza di autentico apprendimento, toto corpore, tota mente, toto corde (sono latinismi, per la cronaca, con tutto il corpo, con tutta la mente, con tutto il cuore, ma anche con tutta la pancia, direi). Ma come fare?

53

Dove più o meno si forniscono spunti, idee, persino strumenti per... insegnare: tra l’altro la legge del “si può sbagliare” e il “crampo della prova”

Beh, occorrono diverse attenzioni indubbiamente, che ora vorrei ripassare con te. Innanzitutto, per tornare al problema di questo luogo speciale dove deve svolgersi l’imparare, sappi che è necessario che esso sia un luogo affidabile e protettivo, proprio così, alla faccia di quelli che detestano il maternage. Protettivo vuol dire una cosa essenziale. Dentro lo spazio della educazione, quale che sia, fosse anche un corso per imparare a lavare i piatti (attività tutt’altro che ovvia peraltro, non foss’altro per la scelta dei detersivi, per l’economia dell’acqua, per la qualità e il livello della trasparenza dei vetri, della morbidezza delle ceramiche, della diluizione dei calcari e così via), occorre, te lo scrivo a chiare lettere, che si possa sbagliare, l’ho detto. Un po’ come nelle aule dei tribunali, ma mi auguro con più sincerità e onestà, occorrerebbe che ci fosse una scritta a caratteri cubitali che recitasse: “qui si può sbagliare”o anche “nessuno è perfetto”, come in A qualcuno piace caldo, un film molto attento alla diversità, infatti. Vedi, questo può apparire pacifico, ma non è propriamente così, perché, al contrario, dall’aria melmosa e putrida delle aule al codice implicito che vige in esse, al sapere presunto sulla vita scolastica, tutto parla di una cosa che entra violentemente in collisione con questo semplice e basilare principio: la valutazione. Non voglio insistere più del necessario sulla barbarie culturale costituita dalla pregnanza assolutamente sproporzionata che è at54

tribuita da studenti e docenti alle prassi della valutazione, al punto da trasformarle di fatto nell’attività principale, quasi totemica dell’educazione scolastica, ma d’altra parte dovrai convenire con me che essi, e anche tu, spesso, non fate che parlarne: voti, prove, esami, scrutini, sembra che la scuola si riduca ad un valutificio. Questo “blob” che dilaga ovunque, questa escrescenza malata dell’apparato scolastico, l’enfasi, anche solo retorica, sulla valutazione, induce di fatto una sindrome comportamentale che potremmo definire il “crampo della prova”. Gli allievi non pensano ad altro e finiscono per assumere una posizione, difensiva e contratta, tutta rivolta al fatidico suo “superamento” (con ogni mezzo). Di fatto questo li conduce dritti dritti verso l’apprendimento per sottomissione, mi capisci? La pervasività del senso di valutazione trasuda da tutto, dalla disposizione dei banchi, dai materiali scolastici, dal bisbiglio, dal nascondimento. L’abito disciplinare del corpo scolastico, assai ingessato, bisogna dire, e che talora ha certo anche dei meriti, induce a imparare per forza, ma non certo per passione, e quindi ad imparare poco e male, come già evidenziato. Occorre che invece si solleciti un apprendimento per desiderio, occorre che tu non ti accontenti di vedere sadicamente i tuoi allievi rincorrere la sufficienza, ma che essi vogliano ardentemente imparare quello che tu con tanta grazia e talento gli avrai reso superinteressante, dimenticandosi della prova, dell’esame, dell’interrogazione per quanto programmata. Caro Insegnante, aiutami, cerca di capirmi, non c’è salvezza nella cultura della valutazione. Bisogna attenuarne radicalmente l’impatto, bisogna scrostarla dalle pareti, dai sottobanchi, dai bagni, dai corridoi, dai Collegi dei docenti, dai Consigli di classe. Fai qualcosa. Loro devono imparare perché tu sei riuscito a rendergli desiderabile imparare, non perché occorre passare l’esame. E attento, perché la schiuma del valutazionismo è sottile, si infiltra da tutte le parti, per esempio in certi tuoi toni, quando fai dell’ironìa sulle domande talora ingenue dei tuoi allievi, quando li squadri con malevolenza, quando fai una domanda a sorpresa, 55

quando fai un commento un poco salace sul loro abbigliamento, sul loro linguaggio, sulle loro smorfie, sui loro gusti, specie se tutto questo lo fai all’inizio, quando ancora vi conoscete poco. Anche se tu a volte non gli piaci, e loro fanno finta di fregarsene dei tuoi giudizi (se non fanno finta vuol dire che tu conti zero per loro, ma ricordati che è solo demerito tuo), loro sono molto insicuri (quasi quanto te, che hai una paura folle della loro valutazione, peraltro, vero?) e ogni tua parola gli lascia un segno, una cicatrice, una ferita. Ricordati, tu sei sempre l’adulto, il Prof, una figura che conserva un suo grigio carisma e ognuno di loro, anche se forse faticherebbe ad ammetterlo, è alla ricerca di conferme, di gratificazioni, di incoraggiamento (autentici, si intende, non di maniera, che lo capiscono subito). Loro magari ti provocano, ma è per vedere se tu sai reggere la loro incertezza, la loro debolezza, il loro bisogno di sostegno. Quando si entra in una situazione nuova, quale che sia, anche quando entri in un bar, per dire, ci sono molte cose che ti intimoriscono (più o meno inconsciamente). Lo sguardo degli altri, il loro giudizio, l’igiene del luogo, la cortesìa del barista, la fila, lo sgomitamento. Quando si entra in un’aula scolastica, specie all’inizio, le paure sono molteplici, più o meno specifiche alla situazione, e, te lo garantisco, quasi nessuna, anzi nessuna, serve per migliorare le possibilità di apprendimento. I ragazzi hanno paura del nuovo, come tutti (chi più chi meno, certo). Hanno paura dello sguardo dei compagni, hanno paura di sbagliare (e lì sanno che la questione dello sbagliare è cruciale, purtroppo), hanno paura di fare brutta figura, di essere visti da tutti mentre sbagliano, hanno paura di non essere accettati, di essere brutti e antipatici, hanno paura, e quanta, di essere ignorati (!), hanno paura di te, del tuo sguardo, del tuo giudizio, delle tue valutazioni, hanno paura che li tratterai male (e magari cominciano a trattarti male proprio perché hanno paura che tu lo faccia per primo, come spesso magari gli è capitato). Hanno paura di tutto, anche della loro ombra, e magari fanno gli arroganti per questo. Al contempo sognano, sognano di fare bene, di essere apprezzati, di conquista56

re tutti e tutto, di fare colpo sulle ragazze o viceversa sui ragazzi, di essere accettati, di essere lodati e vezzeggiati, di vivere un momento di assoluta gloria. Desiderano essere “visti”, proprio così. Come vedi, sono parecchio presi dalla faccenda della valutazione. E tu, tu non sei da meno, bada. Anche tu condividi le stesse paure e le stesse speranze, talora persino a un grado più elevato. Anche perché sei da solo, e specialmente se sei alle prime armi, anche tu hai paura di non essere accettato, di sembrare brutto o incapace o non preparato. Anche tu hai paura di fallire, di perdere la faccia e magari di essere preso da un attacco di panico, di andare in apnea e di cadere riverso in mezzo all’aula per la paura. Hai paura di fartela nei calzoni, metaforicamente. Hai paura che ti divorino, che facciano un bel pranzetto delle tue belle speranze. Non è così? Sotto la sicumera da battaglia c’è un ragazzino e una ragazzina spaventata che ogni volta si gioca la faccia, tutte le sue insicurezze, e magari fai l’arrogante per mascherarle. Anche tu vorresti essere amato, idolatrato, desiderato, come tutti. Per tutti è così. Lo diceva anche Hegel. È questo il fondo del nostro desiderio. Quindi ora lo sai. Sai che queste paure, che pure sono in parte ineliminabili, sono per così dire strutturali, costitutive dell’evento, ma non aiutano, non aiutano a essere liberi, ben disposti, a proprio agio, sinceri, autentici. Inducono al mascheramento, alla difesa, alla fuga, alla finta. Allora occorre attenuarle. E tu puoi aiutare te stesso e loro a percepirle meno, a mitigarle.

57

Dell’indurre, del sedurre, dell’illudere: il primo giorno

Un modo per fare questo è non assumere subito un carattere minaccioso e spiegare per bene il senso di essere lì. Se poi ti sei preso la briga, prima, di sistemare un po’ il luogo, come si diceva, magari ora è più accogliente e puoi spiegare cosa vuol dire per te un luogo accogliente e in che modo questa accoglienza è collegata all’attività di insegnamento e all’imparare che tu auspichi che accada in quel luogo. Puoi aiutare a capire in che cosa consista imparare, magari facendo qualche esempio. Puoi fare un po’il ganzo e renderti simpatico, puoi dare alla valutazione un peso per ora molto insignificante. Puoi aiutare tutti ad albergare questo nuovo spazio, dando il tempo ad ognuno di dire qualcosa, di presentarsi, magari con una piccola attività simpatica che però non costringa a doversi subito esporre troppo. Fai il bravo maestro. Spiega tutte le cose che ti sembrano utili per far comprendere che cosa significhi essere lì, in modo che quel luogo sia riconosciuto, proprio così, riconosciuto come un luogo dove imparare. Spiega che cosa vuoi fare con loro, e come, spiega perché ci sei tu, e non un altro, avranno la sensazione che non è proprio un caso tutto questo. Inventati qualcosa per rendere appetitosa la tua materia. Offrigli un degno aperitivo e se riesci a indurre una certa ebbrezza, infilando un po’ di alcool (spirito) dentro al tuo cocktail, congratulati con te stesso. Ti sentirai meglio. Hai bisogno di immagini? Usale! Hai bisogno di musica? Usala! Hai bisogno di una valletta? Trovala! Nulla è impossibile. 58

Tutto può essere usato per rendere gradevole il luogo. Ci vuoi portare il tuo cane? Perché no? Assicurati però che non morda e che non ci sia nessuno allergico. Il paesaggio fuori è brutto? Attrezzati con un trompe-l’oeil. Caro Insegnante, vedi che sto anche un po’ scherzando. Ma è questo che devi fare. L’ebbrezza puoi finire per provarla anche tu. Osa! Sì, osa. Si osa troppo poco nel lavoro di insegnamento. Ma questo lavoro sta tutto nell’osare, nel credere che si può trasformare quasi ogni cosa in una opportunità per fare esperienza. Li devi soprendere, la prima volta. Devi fare colpo, almeno un po’. Li devi far sentire bene. E se sei bravo, farli anche ridere. Li devi incuriosire, proprio così, perché la volta dopo tornino con un pizzico di voglia in più. Certo non ti puoi limitare a una grande giornata d’apertura e poi sodomizzarli per tutto il tempo successivo. Come ogni buon attore, perché certo un po’ di recitazione non guasta, devi reggere la parte fino alla fine, devi aver pronte soluzioni per tutto il tuo tempo. Certo, più avanti, con la confidenza, la simpatìa, l’intimità potrai attenuare i fuochi d’artificio, potrai anche ogni tanto infilare qualche giorno di tiepida routine, ma non perdere mai completamente la tensione. Occorre tenere vivo il desiderio, come se la tua classe fosse la tua fidanzata. Se sei fortunato ti innamorerai. Magari anche solo di una tua allieva, o di un tuo allievo. Sì, innamorarsi, proprio così, censori da quattro soldi (li sento, con i loro occhi cerchiati dalla troppa masturbazione, più o meno intellettuale). Se ti innamori di qualche tuo allievo non è peccato (ho detto innamorarsi, non passare all’atto, lo dico per i censori… Perché? Non ci si può innamorare di un adolescente? Socrate se la ride). Il giorno prima della lezione penserai a lui o a lei e ti preparerai con più motivazione. Ti farai anche bello o bella per loro. Curerai il tuo abbigliamento, ma anche le tue parole. Lo so cosa hanno detto Jakobson e Rosenthal, sull’effetto Pigmalione, e so anche che tanto non c’è niente da fare. Le preferenze viaggiano sottopelle, tanto vale usarle. Se ti innamori è fatta, garantito (attento solo a non istupidirti completamente, tipo fissare con occhio 59

glassato la tua bella o il tuo bello per otto minuti filati…). Il guaio è quando i tuoi studenti non ti piacciono, quando cominci a diventare un vecchio barbogio che moralizza, che non riesce a identificarsi un minimo, quando ti pesa il loro odore, il loro linguaggio, la loro musica, il loro vestiario. Se sei arrivato a questo punto meglio che ti ritiri. Farai solo danni, perché non c’è niente che porti al cattivo insegnamento come la mancanza d’amore (Eros, ndr). Una prima grande giornata, di questo hai bisogno, innanzitutto. Ci siamo capiti: non sottovalutarla. Tutto quello che farai quel giorno, per via del noto effetto imprinting, resterà impresso nei giovani encefali e nei giovani leonini ventricoli dei tuoi ragazzi a caratteri di fuoco, proprio così. Attento a non sottovalutare quel momento. Cura tutto il tuo aspetto, dai calzini alle mutande, non fosse mai che ti caschino i calzoni o che qualcuno ti sfidi a mostrare il colore delle tue mutande, oppure, peggio, che ti venga un malore e uno dei tuoi ragazzi sia costretto a slacciarti la camicia per farti rinvenire a suon di massaggio cardiaco (sicuramente ce n’è uno che lo sa fare). È come andare ad un appuntamento con una sconosciuta(o), fatti bello(a)! Cura le cose che dici, il tono con cui le dici, decidi prima se userai il tu o il lei (con gli adolescenti, è ovvio, dare del lei ai bambini è simpatico ma dopo un po’ diventa grottesco) e spero che tu conosca la differenza. Molti usano il tu perché hanno paura, sperando così di assicurarsi la benevolenza dell’uditorio. Altri lo usano con disinvoltura, anche con un po’ d’arroganza, un po’ pretescamente, e io non ho mai sopportato il tu dei preti, abbi pazienza Insegnante cattolico. Questo chiamare per nome e dare del tu anche a cinquant’anni, lo trovo più di ogni altra cosa mistificante e un po’ insolente. A volte un tu può essere molto invasivo e minaccioso. A volte è meglio un lei, usato con timidezza e con rispetto, di un tu presuntuoso o finto amicone. Certo il lei è un po’ freddino, non lo si può negare, d’altro canto è elegante e conferisce spessore alla relazione. Personalmente credo, ma è solo un parere questo, che all’inizio il lei sia giusto e che il tu, come 60

in ogni relazione che si rispetti, se l’intimità crescerà, se l’amicizia crescerà, verrà da sé. Altrimenti vorrà dire che il rapporto non si è sgelato e allora un sano lei sarà comunque preferibile a un tu posticcio e inquisitorio. Infine, non si può negare comunque che il tu avvicini e “simmetrizzi” i rapporti mentre il lei non può non apparire anche un po’ formale. Insomma, è anche una questione di personale sensibilità. Vedi tu. Sicuramente il voi è vietato, sarebbe come usare espressioni tipo “ecco il Signor Direttore” oppure “mi usi la cortesìa”. Evitare di diventare subito lo zimbello della classe è certamente igienico. Per converso anche evitare di scaldare troppo prematuramente la situazione con sciocchezze del tipo “qui siamo tutti uguali” o raccontando la propria triste storia di figlio di braccianti calabresi morti entrambi in un disastro sismico e poi tutta la trafila degli orfanotrofi, è senz’altro conveniente. Non farti scudo della tua biografia. A parte il cattivo gusto, in epoca di fiction miserande, tu non sei lì come persona, è meglio che lo chiariamo subito. Tu sei lì come Insegnante. Può anche essere che qualche piccolo aneddoto della tua vita suoni interessante e divertente di tanto in tanto, ma solo di tanto in tanto. Per il resto devi fare la tua parte e presentarti al meglio, come un serio cultore di ciò che fai, non come uno che fa fatica a essere Insegnante. Se vuoi fare la storia di come sei diventato Insegnante, narrando con cura i passaggi cruciali per introdurti in modo più popolare all’assemblea fai pure, è un po’ americano, ma può anche andare: un po’ come quelli che devono sempre parlare della loro famiglia e del loro cane, come il tenente Colombo, ma lui lo sa fare bene. Io lo eviterei la prima volta, il rischio è la barba, cioè di produrre la barba. In qualche modo dovresti cercare di essere scintillante quel giorno, sì, almeno quel giorno. Di fare colpo, ma soprattutto, sottolineo soprattutto, di lustrare per bene tutta l’argenteria del sapere per cui ti stai adoperando come umile servitore, come mediatore. Falli sognare. So che non è facile, ma non è impossibile. Molti dicono che i ragazzi di oggi sono vecchi, disincantati, annoiati, iconoclasti. Può darsi, ma la mia esperienza dice che invece 61

aspettano di poter esprimere i propri sogni senza inibizioni come non mai. La verità è che c’è qualcosa di storto nella pressione sociale che li fa sentire obbligati a mostrarsi duri e disincantati. Ma sono assai più timidi e disarmati di quanto tu non creda, anche quelli davvero induriti dalle botte della vita. Sta a te non confermare la triste nomea della città di Dite che è diventata la scuola. Sta a te sgelare il loro cuore, disincrostarlo da tutto il ciarpame che le culture giovanili (???), i media (!!!), le famiglie, gli hanno cucito addosso come una crisalide di cemento. All’inizio non mostrare tutta la pochezza cui spesso sono ridotte le materie nella formazione scolastica, spacciandogli antologie o manuali e leggendo o sfogliando materiali senz’anima e senza Dio. Farli sognare vuol dire proporgli l’inaspettato. Scuotili, prendili per le spalle e sollevali di un metro da terra. Usa il cinema! Usa le luci, la musica. Usa la poesia. Usa il tuo repertorio di grande attore. Scova qualcosa di prezioso nella polvere della tua memoria, identificati con loro, scava dentro il tuo cervello rammollito e anchilosato per trovare quello che senti possa essere davvero sconvolgente per sciogliere la brina dai muscoli facciali dei tuoi allievi e abbozzarvi un sorriso, una speranza, un piccolo arcobaleno ancora pallido. Lo so, è possibile che qualcosa in loro all’inizio ti deluda e che ti caschino un po’ le braccia. Ma attento, non li stai vedendo bene. Così come loro, per la verità, non è detto che riescano ancora a metterti perfettamente a fuoco. Ma tu in particolare li vedi ancora male, li vedi affogati nella bruma delle tue aspettative e anche un poco ancora come un unico corpo informe. E va bene, non c’è la ragazzina bellissima che ti eri immaginato, ok. Neanche il giovane pieno di forza ed energia cui speravi di appoggiarti. Sono anche malvestiti (certo le mode giovanili sono esasperanti! Non lo si può negare). Ma devi tenere duro, perché li scoprirai piano piano. E tu sei lì per testimoniare il cantico della terra, la magnifica Ode che promana dal tuo mondo di sapere, di studi, di bellezza che vuoi condividere con loro. Anche loro li de62

vi capire. Da quanto tempo digiunano dalla bellezza? Da quanto tempo non entrano in contatto con qualcosa che li faccia bagnare un po’ per l’eccitazione? Gli devi vendere un viaggio, mettiamola così (lo so che qui persino alcuni dei più arditi fra di voi mi abbandonerà, ma ormai devo andare avanti). Devi vendergli un viaggio, a tutti loro. Ed è incredibilmente dura. Ma tu sei convinto, il viaggio è meraviglioso, tu lo sai, loro non ancora, anzi sono diffidenti. Ma tu gli devi far fare un assaggio, devi mettergli la voglia matta, come si suol dire. Li devi far tornare a casa talmente esaltati da implorare ai genitori i soldi per il tuo viaggio, e se i genitori glieli negheranno, talmente invasati da rubarli. Li costringerai a rompere i loro porcellini di porcellana, o giù di lì, o ad aprire un mutuo per seguirti sulla tua barca. Perché il tuo corso sarà su una barca. Beh, è ovvio. Non l’avevo detto? Tu sarai il nocchiero di una splendida navigazione e loro la tua splendida ciurma. Ma se preferisci potrai invece imbarcarli sul tuo pullman ogni comfort. Tu l’autista e loro una Congregazione di Pellegrini in viaggio verso l’Oriente, roba che non si sognano neanche. Io credo che tu mi abbia capito. Poi il viaggio deve cominciare. E devi dimostrarti una buona guida, un buon esploratore, una guida indiana sì. Ogni giorno il paesaggio muterà un poco e certi giorni resterà il medesimo, per riposarsi, rifocillarsi e battere attentamente la zona. Li manderai in giro a scrutare l’orizzonte e ognuno avrà un compito. Per qualche tempo potrete installarvi in una piccola radura, e costruirci il vostro campo. Qualcuno accenderà il fuoco, qualcuno andrà a cercare il cibo. Tu amministrerai tutti i riti e loro diventeranno belli come il paesaggio e si innamoreranno della nuova terra, della tua Eldorado. Gli adolescenti sono fatti così, vogliono l’avventura, vogliono una terra da esplorare e una guida indiana che gli insegni i trucchi per evitare di essere fatti a pezzi dai predatori che infestano la zona. Tutto questo è nelle tue mani. Se ti rassegni ai programmi, ai soliti libri di testo, alle volgarità delle spiegazioni raffazzonate, ai compiti in classe, alle interrogazioni che 63

tutti si attendono con la barba di due mesi, di due anni, di due secoli, la bellezza scomparirà in pochi minuti, tutto si spegnerà, la noia vi soffocherà nelle sue pigre e immobili gore, e tu invecchierai senza aver capito un tubo di ciò che insegni, dei tuoi ragazzi, di te stesso. Sarai sempre più deluso, più impotente, diventerai paranoico e invidioso, comincerai ad avere dei tic e tutti capiranno da fuori che sei un Insegnante, nient’altro che il solito Insegnante, sfigato, depresso, ulceroso. Il Consiglio di classe diventerà il luogo della tua terapia di gruppo e lo scrutinio l’occasione per prenderti le tue miserabili rivincite. Diventerai bilioso e ottuso e i tuoi ragazzi avranno trascorso con te un tempo di cui si rammenteranno a fatica, un tempo inutile, arido e del tutto trascurabile. Sempre che tu non sia diventato cattivo al punto di prendertela con loro, di scaricare la tua bile su di loro, aiutando la ruota inesorabile dell’entropia a fare più presto il suo corso, e lasciando sul corpo e sul cuore dei tuoi giovani succubi le impronte incancellabili della tua frustrazione. Ma tu non permetterai che questo accada e ti preparerai con amore per evitarlo, di questo ne sono certo. Perciò proseguiamo. Vediamo ora come si prosegue il viaggio e che cosa serve perché tu faccia le cose per bene, se ancora non lo hai capito al cento per cento.

64

Dove si introduce del sano erotismo nella prassi scolastica e si parla del lungo atto d’amore

Abbiamo detto della prima lezione. Forse avemmo dovuto dedicare un po’ più di tempo alla preparazione prima della lezione. Ma credo che ormai sia evidente quanto tu debba dedicare al paziente lavoro di sopralluogo, alla predisposizione dei materiali, alla disposizione fisica, al controllo del funzionamento di tutte le apparecchiature, anche le più umili. Non che sia un danno tremendo se qualcosa non funziona perfettamente, ma come sai tutti i ritmi ne andrebbero un poco disturbati, e questo, la prima volta, è meglio sempre che non accada. Inoltre vale una regola generale, una regola che deve essere interiorizzata per il buon andamento di tutto il tuo lavoro: ogni idea deve essere coerente con ciò che la dovrà rendere pratica concreta. Ogni tuo obiettivo richiederà mezzi adeguati. Ti dico questo, perché non è affatto facile rendersi conto di questa ovvia massima nella normale vita scolastica. Spesso la relazione tra ciò che si fa e ciò che si dice è molto traballante, gli orari non vanno con i contenuti, i luoghi con ciò che vi deve accadere, le persone con i loro compiti e così via. Questo fa male perché ostacola tutto quello che si progetta, ma soprattutto fa male per un secondo, grave motivo, fa male perché trasmette un messaggio che svalorizza e crea confusione in tutti coloro che partecipano all’azione nel suo complesso. Se i banchi non sono funzionali a sostarvi per ore, non sarà soltanto maggiore la fatica di apprendere per la scomodità, ma anche perché quello è un altro segnale del poco valore che tutta l’attività didat65

tica riscuote attraverso le sue modalità di manifestarsi. Ma su questo forse qualcosa avevo già detto prima a proposito del “luogo”: il luogo educativo deve simbolizzare il suo valore, il suo senso, in ognuno dei suoi aspetti, se possibile. Magari tu lavori in una scuola di periferia, malfamata, come si dice, e questo già non giova. In più vivi nell’epoca che ha attribuito alla scuola un ruolo sempre più negletto, in cui ce la si cava meglio ad essere incolti e babbioni, piuttosto che ricchi di sapere e di autentica bellezza. È vero. Se tu aggiungi a questo anche l’incuria del tuo proprio “luogo”, allora, mi capisci, parti davvero con il piede sbagliato. E noi, questo, non vogliamo proprio che succeda. Ma torniamo alla sera della prima. La sera prima, la sera prima della prima, voglio che tu vada a letto tranquillo e dorma bene per essere all’altezza del grande incontro che dovrai avere con la bellezza dei tuoi giovani partner. Fra di loro forse (anzi, per forza) c’è il tuo Agatone, la tua Eloisa, e perché no, il tuo Zack Mayo (da Ufficiale e gentiluomo, ndr), il tuo Charles Norstadt (da L’uomo senza volto, ndr) o il tuo Tod Anderson (da L’attimo fuggente, ndr). Non ti paia troppo di basso profilo quest’ultimo suggerimento filmografico. Ti consiglio di studiare per bene questi tre film, c’è da imparare da essi più che da quasi tutta la letteratura pedagogica nel suo insieme. E sai perché? Perché essi sono vivi e inesauribili, non te lo dimenticare. Ispezionandoli con cura e con attenzione vi potrai scoprire (elenco) le fissazioni dell’insegnante, la sindrome necessaria dell’allievo preferito e il suo contenuto erotico e parentale, l’isolamento e la solitudine dell’educatore, il paesaggio della formazione con le sue invarianti, il mistero del “luogo” educativo, la corporeità educativa e la sua prossemica, la morte letterale e quella metaforica, il ruolo dello sguardo d’infanzia come affermatività de-misurata (come dice Schérer, se non conosci questo autore affari tuoi ma hai perso qualcosa di essenziale), la perdita di sé nell’atto educativo. E così via. C’è questo e molto altro. Come sempre, impara dalle immagini! 66

Ma poi, come si diceva, c’è il lungo atto d’amore, più o meno lungo a seconda di come lo traguardi nel suo insieme, lezione per lezione, o nell’arco di un intero corso, o come preferisci. Ogni atto (quello che gli instancabili agrimensori della pratica formativa chiamano orrendamente unità didattica), ha un suo tempo e, se metti in successione i diversi elementi che compongono ciascun atto (che duri un’ora o un anno), vedrai che c’è di che preoccuparsi (nel senso etimologico di occuparsi per tempo). Il primo passo l’abbiamo visto. In un mio noioso libro precedente (1993), l’avevo chiamato istituzione, ma forse allora avevo la testa piena di psicanalismi non sempre utili. Oggi potremmo semplicemente chiamarlo “il primo incontro”. Poi viene il momento più bello (per te), quello che allora chiamavo illusione e che forse potremmo chiamare “i preliminari”, o anche “la coda di pavone”, pensando alla gestualità inconfondibile del grande uccello alchemico. Qui, te lo dico senza mezzi termini, tu devi sedurre i tuoi ragazzi. Non più semplicemente con l’aspetto, il tono, le prime frasi, ma con la tua autentica competenza, con il tuo “savoir faire” (che in francese suona assai meglio e più ricco d’ambiguità del corrispettivo italiano che sa già di pragmatismo anglosassone (“saper fare” appunto). Se tu sei un Insegnante di inglese, stupiscili cantando una canzone dei Red Hot Chili Pepper senza musica, per esempio. Scherzo naturalmente. So che non è materia per la pappamolla che sei diventato. Comunque potresti ugualmente cercare di incoraggiare il loro interesse sfruttando la tua sapienza dell’inglese per favorire il loro accesso a qualcosa che potrebbero avere tra le loro mire del momento e traducendogli velocemente il codice criptato (non il linguaggio di Internet perché lo sanno meglio loro, ma magari quello dei film porno sempre recitati in inglese). Anche qui sto scherzando. Resta il fatto che tu devi sembrare un buon Insegnante di inglese: se ami la poesia scegline una affidabile e recitagliela, spiegala a fondo, falli entrare dentro, nelle maglie del linguaggio, se ami la letteratura o la filosofia o la danza prova a fargliele sentire, fagli vedere un film in lingua originale, 67

magari una breve sequenza, e fagli il play-back in italiano. Se avrai scelto un film interessante per loro avrai già fatto centro. Oppure traducigli davvero un brano musicale, magari una rarità, che solo pochi di loro possano conoscere ma che possa interessare tutti gli altri. Insomma, mi hai capito. Lo stesso vale per ogni contenuto. Lo sappiamo che con le cose fisiche è più facile. Se uno insegna ad arrampicare la roccia potrà fare una rapida salita senza corda con discesa a testa in giù, come uno scimmione. Ma tu che insegni elettronica o tu che insegni economia aziendale, che cosa puoi fare? Sono sicuro che qualcosa puoi scovare (beh, potresti insegnargli a giocare in borsa, per esempio, e a organizzare qualche speculazione di gruppo, con introito finalizzato a bevute insieme; tu che insegni elettronica potresti mostrargli come penetrare dentro i neuroni artificiali di qualche robot giapponese). Insomma ora non sono in grado di seguire tutta la parossistica parcellizzazione delle materie di cui poveretti siamo tutti testimonial a volte un po’ troppo prigionieri e impotenti. Comunque qui quello che è in gioco è convincerli che sei bravo, che di te si possono fidare. Occorre fare presa perché smettano di diffidare e mollino un po’ di difese, un po’ di corazza e ti elargiscano almeno una sufficienza sulla loro personale pagella per i docenti (che è rigidissima, come sai bene). Datti da fare. In questa fase loro non impareranno niente, ma non è questo che importa. Qui loro devono incamerare la persuasione sufficiente a fargli ammettere che vale la pena provarci (quindi nessun atteggiamento valutativo mi raccomando!). È il momento in cui vige la legge dell’apprendimento per identificazione e quindi se alla fine del tuo show loro fanno tutti sì sì con la testa, la missione è compiuta. Se gli spunta un sorriso mentre parli e qualcuno di loro (non quelli sempre a caccia di conferme naturalmente, gli isterici, ma quelli magari un po’ più riluttanti e rognosi) ti squadra almeno incuriosito, allora puoi dire di aver fatto centro. Avrai fatto un gran passo avanti, specie se sarai riuscito fin lì a non parlare ancora di valutazione (magari aggirando anche le loro richieste in tal senso: “ne parleremo al momento 68

opportuno, non preoccupatevi per ora, ci sono cose più importanti…” e via disertando il problema). Perché chiamo questa fase anche “illusione”? Perché, come dicevo più sopra, qui non si impara ancora sul serio “in carne e sangue”, qui si fa finta, tu fai il tuo recital e loro prendono appunti, ti guardano, magari fanno domande, ma non si mettono ancora in gioco e forse non ne hanno ancora neppure intenzione: è tanto meglio stare a guardare te che fai il clown: se sai fare il clown non ti vergognare, dacci dentro, come si suol dire è tutto “grasso che cola”. (Nota a margine: Se lo sai fare; perché se ci provi e sei una schiappa, scendi al grado zero del loro interesse, e forse anche del tuo, sempre che tu ne sia consapevole. Per intenderci, una battuta di troppo o molto brutta, che non fa ridere, è un tonfo davvero mortale). Lo so, tu ti starai dicendo che io predico di non fare valutazioni e compagnia e intanto sono supervalutativo con te. Hai ragione, ma se posso dirtelo in tutta franchezza, me ne sbatto. Tu devi essere valutato, specie da te stesso, con simpatia, si intende, ma devi essere attento, sei tu il capo, sei tu il grande professionista, non te lo dimenticare. Dunque non credere di poter improvvisare o di poter fare il cretino, con la scusa che “libera per tutti”. Libera per loro, questo talvolta può aiutare l’apprendimento. Libera per te forse capiterà, ma di rado, sia chiaro. In ogni caso, se il numero ti riesce, una volta, due, per un po’ di tempo, non solo ti sarà assicurato un plus di fiducia e di curiosità che non può che lubrificare tutta la macchina, ma starai anche meglio tu, il tuo narcisismo si gonfierà un po’ e la voglia di prepararti anche meglio per la volta dopo, almeno per un po’, dovrebbe restare alta (salvo sedersi se poi si resta troppo in questa condizione). Ma il bello, caro mio, ha ancora da venire. È il terzo momento quello chiave. Una volta lo chiamavo saccentemente “modulazione”, ma se dovessi ridefinirlo ora, che sono un po’ più disinibito, lo chiamerei proprio “fare l’amore”. Eh 69

sì, perché qui c’è il corpo a corpo, la risimmetrizzazione (direbbero i miei colleghi cui piace trasformare il sesso in geometria), il richiamare a essere tutti soggetti, il mettersi in gioco a fondo. All’inizio loro erano come pezzi di ghiaccio, magari anche un po’ rabbiosi, ma il primo incontro, se è andato bene, li ha un po’ sciolti, gli ha dato casa, li ha fatti respirare e intravedere ShangriLà. Se i preliminari li hanno scaldati per bene, se tu li hai lavorati al punto giusto, ora dovrebbero essere come pere sull’albero. Solo una spinta per cadere nelle tue fauci voraci, o meglio, nelle fauci dell’apprendimento in piena presenza, “con passione”, appunto. Ma non è che questo sia puro godimento. Questo è anche duro. Tu non stai più lì a fare il burattino. Ora sono loro a dover fare, a doversi cimentare, e tu avrai il ruolo di sostenerli, di chiamarli in causa, di farli provare, anche di valutarli, con simpatia, come un buon istruttore. A questo punto, se l’entusiasmo è salito, saranno loro stessi a voler fare, a volersi sperimentare e se non saranno ancora proprio pronti, spingerli un po’ non sarà così violento come se fossero ancora all’inizio, duri e rigidi come baccalà. Ora è il tempo dell’esercizio, del fare e rifare le volte che occorre, fino a che non cominciano a incorporare, a fare proprio, a deglutire e metabolizzare quello che c’è lì, la polpa, la ciccia, la cosa viva che tu avrai sapientemente preparato per la loro fame. Che si tratti di provare un passo di danza, una interpretazione di una poesia, un calcolo di volo, un salto alla Fosbury, una canzone dei Pink Floyd con la giusta pronuncia inglese, poco importa. L’importante è che lo facciano, senza troppa paura, con le loro carte, senza finzioni, senza doppi fini, per il piacere e la voglia e l’interesse che tu avrai fatto nascere in loro, non per rubare una sufficienza. Non per una valutazione scientifica, magari per il tuo bravo, perfino per il tuo voto sentito, questo sì, per il tuo sorriso, o per quello del compagno, ma soprattutto perché è nata la voglia di provarci, anche di competere, ma soprattutto di mettere le loro mani su una cosa amabile, desiderabile, intrigante, per cui vale la pena anche rischiare di sbagliare, di cascare gambe all’a70

ria e riderci sopra. Mi hai capito, la tua, la mia, la loro utopia pedagogica! Non esiste? Tu dici che non esiste? Che è il delirio di un pazzo squilibrato che scrive in un italiano approssimativo sperando in buone vendite? Può darsi. Ma allora perché in tanti corsi, da quelli di vela, a quelli di karate, a quelli di teologia, a quelli di poesia, a quelli di mimo, di danza, di tantra tibetano la gente gode come un riccio a provarci, anche con istruttori spesso più bastardi e valutativi di te che cerchi anche di fare il simpatico? Certo, sì, proprio così, perché c’è la motivazione. Ma non solo. C’è il “luogo”, c’è spesso un maestro carismatico e competente e non svogliato, c’è altra gente vogliosa come loro, ci sono le attrezzature, c’è il mare, o la musica, o il partner per la posizione del pettirosso che inforca il ramo di ciliegio (nel tantra), e non è neanche male pure se la pratica è orientata a risvegliare la Kundalini. Proprio così, tutta fantascienza. Tutta fantascienza? È questo che pensi? Sei arrivato fin qui e pensi che sia fantascienza dentro la scuola o l’Università o gli altri posti dove certo l’anima di Socrate e di Gesù avrebbero una sincope? Forse. Forse hai ragione tu e allora butta via questa cosa che hai fra le mani. Ma forse il miracolo è possibile. E tutto sommato io credo che sia largamente nelle tue mani, proprio così. Non lo dico né per sovraesporti né per ingigantire il tuo senso di colpa in caso di fallimento. Ma ormai io la vedo così. O tu sei un’Insegnante con la I maiuscola (il che non significa che devi fare l’arrogante), con tutto l’equipaggiamento (specie quello erotico), oppure non ci sarà nessun apprendimento, nessun insegnamento, solo noia, e routine, e compiti, e voti, e schede di valutazione e venditori di fumo targati o teledidattica pronti a rilevare il tuo “luogo” nel mondo e a lasciare un mucchio di cuori, di corpi e di cervelli vergini in balìa dell’industria dell’istruzione e della polluzione di massa dei media. Pensaci, amico, caro Insegnante. Ma se pensi che questo non sia un miracolo, ma una possibilità, un’opportunità, non solo per loro, ma per te, per trarre dal 71

tuo lavoro motivo di interesse, di orgoglio, di eccitazione perfino, proprio di eccitazione (cosa che forse potrà lenire almeno un poco la ferita dello scarso salario), allora non hai che da provarci. All’inizio ti costerà un poco, parlo a te che sei convinto di poter sbaragliare ogni difficoltà solo con il bagaglio della tua sapienza della materia, a te “disciplinarista”, come dicono, che è un epiteto che mi guarderei bene dall’esibire troppo in giro. Ti costerà, ti costerà anche in umiltà, in ricerca, in studio, studio degli altri anzitutto, studio delle loro possibilità e modo di funzionare, e desideri, ma studio anche delle tue voglie profonde, forse per capire che questa non è la tua storia, che tu sei lontano anni luce dal voler insegnare a una “falange” di pubescenti riottosi e anche non sempre ben lavati. Che tu vuoi essere uno scrittore, o un ricercatore, o un professionista lontano qualche galassia dai nostri amichetti tutti piercing e tatuaggi. Sarebbe una fausta scoperta, cui dovrebbe seguire immantinente anche ritiro dal campo di gioco, per fare largo a gente più ben disposta, con culi meno pesanti del tuo, con tutto il rispetto. Non c’è niente di peggio degli insegnanti che sono lì ma non vorrebbero essere lì né ora né mai. Dio ce ne scampi. Sì, è anche un fatto vocazionale, come quasi tutto credo, benché qualche comportamentista possa pensarla diversamente. Certo, facendo meglio le cose anche qualcuno che prima non lo credeva potrebbe credere che sia possibile farlo. Ma tu, vero Insegnante, sai che se uno non ci è tagliato, alla prima frustrazione grossa crollerà, e diventerà cattivo, sadico e punitivo. O anche peggio: depresso e persecutorio, paranoico e vittimista. Bleah!

72

Dove, incredibile a udirsi, si inneggia all’insegnamento, e al cordoglio che segue la sua giusta fine

Caro Insegnante, questo tuo è un lavoro coi fiocchi, alla faccia di chi ne parla male o superficialmente senza conoscerlo. È uno dei mestieri più privilegiati (e non certo per un fatto di orari e di ferie, come abbaiano i denigratori), anche se fai di tutto per non rendertene conto e ti vittimizzi. Squarcia il velo! Te l’ho già detto. L’insegnamento è infinita possibilità, purché tu spezzi le catene che ti hanno gettato addosso, fin dall’infanzia, facendoti credere che insegnare fosse quella barba malpagata in cui si tramano compiti in classe, si preparano lezioni nauseanti e si somministrano voti e sanzioni disciplinari più o meno corporali. Questo non è insegnare, questo è fare il funzionario del Ministero dell’Istruzione di Noè. Tu devi avere altre idee, le tue, prima di tutto, ma anche quelle depositate nell’immenso museo della Cultura, della Storia, del Mito persino. Pensa ai Guru, ai Maestri d’ascia e di arti marziali, pensa ai grandi scalatori, pensa ai profeti, pensa agli oratori dell’antichità, alle Scuole filosofiche pagane, alla Skolé e al Peripatos, al Giardino epicureo, pensa alla scuola neoplatonica, alla corte di Lorenzo il Magnifico, o al magistero di Steiner, ai falansteri di Fourier, ai templi, ma soprattutto pensa alla bellezza. La bellezza del sapere autentico, della poesia, della musica, della matematica, della danza, della vita biologica e delle forme della materia, pensa al fulgore delle particelle e dello spazio infinito, pensa al tesoro delle lingue e dei miti, pensa alle leggende e alle storie, pensa alla forma dei luoghi, 73

pensa all’esercizio fisico, specie se immerso nella natura o gettato nelle strade, pensa alla grande sessualità, ai rituali dell’amore. Tutto questo (e l’infinito altro) è degno o non è degno di essere partecipato, di essere straripato, di essere esondato nei corpi e nelle menti e nei cuori e nelle pance di questi nostri piccoli, giovani, flessibili, delicati (anche se non lo vogliono dare a vedere) adepti? Tutto questo non è solo degno, è sacro, e come ogni cosa sacra va custodita e trasmessa con devozione, con senso del rito, con magìa. Tu sei un mago, non sei un semplice Insegnante. Il Mago era il sapiente nell’antichità (e non la fattucchiera o il chiromante di questo nostro tempo truffatore) e tu sei ancora il Mago, devi solo ricordartene perché tu possiedi la Magìa, che come spiega bene Giordano Bruno nel suo libro sui Legàmi, è scienza d’amore, di comprensione del modo di generare e tessere unioni, di riconoscere e far riconoscere l’infinita tela delle reticolari corrispondenze che corre in tutte le direzioni, quelle visibili e quelle invisibili, e che fa del nostro mondo un cosmo animato e vivente per ogni dove e di cui si tratta sempre e ancora di testimoniare la forma, la figura, le immagini, le impronte, le formule magiche e segrete, il nesso che passa tra il fiorire e il respirare e l’illuminare e il dormire, e il morire, e il vivere e l’amare e così e così. Ok. Mi sono lasciato andare, Caro Insegnante. Un po’ come se tu fossi un mio allievo e io ti dovessi rivelare quel miracolo tanto poco avvertito che è il continuo formarsi e deformarsi del tutto, questo in cui stiamo e che da tempo abbiamo perduto di vista. A proposito, non ti ho parlato delle gite scolastiche. Le gite scolastiche sono la grande occasione di reintrodurre l’avventura, quella vera, nella vita scolastica. Moltiplicale. Spogliale di tutta l’armatura finto intellettualistica, in realtà puramente turisticomuseale che le incatena. La gita può essere il ritorno alla Terra, all’acqua, al fuoco, all’aria, il magico ritorno ad un’esperienza 74

plurale e pulsante di vita. La gita dovrebbe essere un concorso di mutuo insegnamento, con l’aiuto del ginnasta (l’insegnante di educazione fisica), del letterato, dell’artista, dello scienziato. Finalmente il corpo vivente nella natura, o nelle strade. Lo sport va ritrovato sugli alberi e nei torrenti, nei campi e nelle arterie metropolitane. Altro che il corpo astratto delle palestre. Un corpo vivo, immerso nella materia, denudato. Falli correre, sporcarsi, portateli in discoteca, mangiate di gusto, insediateli dentro al corpo della natura. Vai a cercare gli artisti, non le opere, entra con loro nell’atelier di un pittore, di un fotografo, di una coreografa. Portali nelle baite, nei rifugi, su un veliero. Fagli costruire un ponte, come i boy-scout, falli godere e godi anche tu. Leggi insieme a loro grandi libri nel buio di una stanza, o intorno a un fuoco, corri con loro in bicicletta, fate l’autostop di gruppo. Portali all’alba al macello o al mercato ortofrutticolo, dentro all’acciaieria o in miniera. Portali alla vendemmia. Insomma, ci siamo capiti, la gita è la pepita dell’insegnamento. Non c’è bisogno di vedere il film di Pupi Avati per saperlo. Caro Insegnante, non perdere l’occasione, fanne tesoro1. Ma torniamo all’atto amoroso. Così come hai dato importanza all’inizio, al “primo incontro” e dovrai cercare poi sempre, ogni giorno, ad ogni incontro, di rinnovare l’incanto di questo inizio, caratterizzandolo in qualche modo, attraverso un piccolo rituale se possibile o comunque attraverso una forma di “esordio” che solleciti ogni volta interesse, attenzione e concentrazione, dovrai anche prestare una notevole cura ai momenti di chiusura. La chiusura è sempre un piccolo tempo di separazione, di scioglimento, di congedo e anch’essa necessita di una sua ritualità, magari simmetrica alla prima (io, come faccio all’inizio, per esempio cerco di trovare un brano musicale da ascoltare che mantenga il clima dell’attività appena conclusa ma lo stemperi in una ritmica rilassante e quasi onirica, restituendo tutti al “fuori” del luogo, 1. Nella bibliografia troverai un bel libro che racconta una grande gita a “trekking” letterario: quello di Valeria Fraccari. 75

della “casa” dell’apprendimento, come se stessi eseguendo una prolungata e simbolica chiusura a chiave della sua porta). A maggior ragione quando si verificherà l’ultimo incontro, la lezione di chiusura, sarà bene che essa (lo so che lo fai, ma lasciami dire) sia un’occasione per un importante rilievo, che in essa si compia un autentico momento di bilancio, di ripercorrimento del periodo trascorso, magari con una formula che tu puoi inventare, anche attraverso il loro aiuto. E che poi, a sancire questa separazione, questa fine, per quanto temporanea, il rituale sia più complesso, più sontuoso, un momento di autentica restituzione, un momento munifico, in cui da una parte e dall’altra ci si regali qualcosa e si possa anche vivere una dimensione festiva, conviviale, ludica, liberatoria. A te l’onere di immaginare i molti possibili modi attraverso cui dare vita a questa fine. La fine di un anno scolastico, ancor più che quella di un corso, è una fine dotata di un certo risalto e necessita di un solenne saluto, magari scandito in più attività ultime, tempi, riti. Se un’esperienza educativa è stata ricca, vissuta, goduta, puoi stare certo, caro Insegnante, che la sua fine sarà un momento anche toccante, con una certa commozione (anche tua), che sarà percepibile un’atmosfera quasi luttuosa. Tutto questo dovrà essere in certo qual modo celebrato, simbolicamente, come momento di necessario passaggio, di distruzione e di nuova creazione. Ma soprattutto il suo carattere festivo dovrà essere sollecitato e organizzato, perché in esso, nella festa, tutti i diversi elementi della separazione e della memoria, della speranza e della trasgressione, possano trovare accoglienza. In questo senso tutta l’attività didattica potrebbe, come spesso si fa, correre verso questa occasione finale, esservi mirata e trovare lì il suo compimento e la sua consumazione, un po’ come accade quando si organizza una recita, una mostra, uno spettacolo, una qualsiasi creazione collettiva capace di rammemorare, di riepilogare ampiamente il senso e la concretezza anche del lavoro comune, della vita comune, dell’Eros comune. Immagino che questi miei suggerimenti tu possa averli vissuti come ovvi, come il ripasso di qualcosa che è già perfettamente 76

presente nella tua pratica, nel tuo ruolino di marcia, nel tuo DNA di bravo Insegnante e che, addirittura, la necessaria genericità di queste righe possa averti anche un poco disturbato, tu che sei abituato a delibare la letteratura didattica pregna di indicazioni pratiche preziose, di esercitazioni, di unità didattiche integre in ogni loro parte, dalla descrizione operativa degli obiettivi alla predisposizione delle prove valutative, di come trattare gli studenti selvaggi, gli zingari, gli arrabbiati, per farli a immagine e somiglianza della scuola. Me ne congratulo. Ma attento, probabilmente questo promemoria è stato un po’ stucchevole, ma io lo considero necessario, magari per chi, a differenza tua, o forse con più candore, queste cose non le fa sempre, non per intero, non con la necessaria enfasi né con quella che secondo me è anche la necessaria solennità e integrità.

77

Dove si pronuncia un sentito Peana ad Eros, dio dei legami

Avrai notato che mi piace sottolineare la presenza di Eros in tutto quello che accade sulla scena formativa. Forse ti apparirà un po’ patetico, ma io lo ritengo un ingrediente essenziale, la vera benzina in assenza della quale tutto il moto del processo finirebbe con l’essere stentato, sincopato, frenato. L’Eros che peraltro, anche se occorre sempre reclamarlo con rituali appropriati, soprattutto la cura della bellezza, in ogni sua forma, da sé stessi, agli oggetti, alle dispense, ai libri, agli strumenti, ai luoghi eccetera eccetera, è peraltro diffuso. Esso è infatti racchiuso proprio nella cultura di cui tu ti fai latore, e lo è anche e soprattutto dentro i cuori e le menti tua, anche se a volte te lo scordi, e dei tuoi allievi. Occorre solo favorirne l’effusione, con la disponibilità, un po’ di sana seduzione, un po’ di entusiasmo. Molto di questo è nella sensibilità, nella tua sensibilità, che innescherà quella di coloro che hai intorno, nella scelta delle letture, delle immagini, nel modo in cui si leggerà e si immaginerà. Soprattutto: le immagini. Nelle immagini, sapientemente selezionate, specie se si tratta di immagini d’arte, solo le opere d’autentica dedizione al corpo del mondo, come i grandi artisti sanno fare. Nelle immagini, a differenza che nei manuali, nelle antologie, in tutte le schematizzazioni che un approccio sterilizzatore e scientista ha inoculato ai grandi bacini del sapere ancora vivo e selvatico, la realtà si offre in tutta la sua gamma di forme nella mediazione altamente simbolica che l’artista, come esegeta della 78

sua tessitura profonda, ha saputo ricavarne e restituirle. A differenza che in una fotografia, la natura immaginata è più appariscente, più profusa, ma soprattutto più colta, richiede attenzione e esercizio per essere riconosciuta nelle sue forme intrecciate, nella sua complicazione, nella sua solidarietà e integrità di organismo reticolare. Esordire da un’opera d’arte, scelta con cura e con “amore”, è sempre il modo migliore per sollecitare l’interesse, perché nell’arte le stesse cose sono riscoperte, trascese, approfondite e restituite nel linguaggio inesauribile del simbolo, della metafora, di tutta la complessa tropologia di cui il linguaggio dell’artista è il crogiolo. Apprendere veramente è partecipare a questo crogiolo, immergervisi, approfittare della radura che il linguaggio sempre poetico dell’immaginazione artistica ci ha messo a disposizione e che così ciecamente è stato allontanato dalla didattica. Ogni briciola del sapere può essere almeno in parte resa più affascinante dalla mediazione che le opere dell’immaginazione attiva, trasmutativa, simbolica dei poeti-pittori-danzatori-registi-attori-scrittori-musicisti ci ha messo a disposizione (magari usando prima l’arte contemporanea che proviene dallo stesso contesto comunicativo cui appartengono anche i tuoi ragazzi e invertendo così i consueti paradigmi storicisti). Senza dimenticare che un tale giacimento di immagini simboliche è presente in tutta la rappresentazione mitica e leggendaria della nostra storia, e dell’altrui. Dai miti pagani a quelli nordici, dalla Bibbia al Bhagavad Gita (il Canto indù del… Beato), dai racconti degli Inuit alle fiabe ottocentesche, l’immaginario della natura, delle relazioni umane, del rapporto tra cosmo e uomo, tra trascendenza e immanenza, tra mistero e realtà, è stato illuminato in tutte le su forme. Ed è forse e sempre a partire da lì che ancora ogni modesto cammino scavato dentro a ciò che ci rende più ricchi nei confronti di ciò che siamo e che ci circonda, dovrebbe prendere le mosse. Io ci credo, e credo che questo grande tronco, ancora al di qua delle grandi ripartizioni disciplinari, che non è solo l’ambito separato delle arti liberali o del sapere umanistico, ma che è la rappresentazione di tutto, prima che il tutto fosse 79

frantumato, credo che questo sapere debba essere il terreno di cultura di ogni possibile deviazione, di ogni ramificazione anche legittima. Occorre ancorare ogni sapere, anche il più apparentemente tecnico e prosciugato, in questo midollo possente che è l’organismo unitario del nostro mondo e della sua rappresentazione. Questo aiuta molto Eros, che presiede ai legami, anche se talvolta in modo estroso e imprevedibile. Proprio come talora imprevedibili e non pensati, non intuiti, sono i nessi che corrono tra quelle ramificazioni talvolta davvero disseccate che sono le discipline, le materie, che di materico hanno ormai ben poco attaccato addosso. I fili sottili che corrono tra matematica, musica, danza, astronomia, fisica, biologia, arte astratta, arredamento, miti delle origini. O quelli che corrono tra chimica, filosofia, poesia, elettromagnetismo, sessualità, dottrine esoteriche, scienze della terra. Ci sono maestri che tu devi frequentare di più, devi conoscere i grandi teoremi di una conoscenza non divisa, non parcellizzata, non martoriata, da Portmann a Steiner, da Fourier a Bateson ai tanti che hanno lottato per sollevare il sapere dalle caverne platoniche dove è sprofondato ad un’atmosfera più rarefatta, o più densa, ma sicuramente più vicina alla vita, alla vita come si dà e come è percepibile nella sua integrità interdipendente, prima ancora di essere nominata, rotta, resa disponibile al profitto e all’abuso di un demiurgo senza radici. Per questo, per avere Eros come compagno e custode del tuo compito, ti prescrivo più immagini, immagini di sale e di fuoco, non le illustrazioni dei libri di testo, immagini tutte da assaporare prima ancora che venga il tempo di analizzarle, di sventrarle, di trasformarle in formulette o in aride concettualizzazioni. Immagini dove fare il bagno, nudi e felici, ben prima di addobbarle di tutto il peso cascante delle teorie ermeneutiche e della scienza strumentale.

80

Dove si parla, con tremore ma anche con amore, delle arti neglette dall’istruzione tradizionale: con particolar enfasi intorno a danza, musica, teatro e sesso

Naturalmente Eros può penetrare nei nostri spazi educativi, specie dove pascolano gli adolescenti e soprattutto se si viene incontro alle loro esigenze vitali di conoscenza della carne del mondo, senza escludere ciò che proprio questa conoscenza alimenta e arrichisce. Agli adolescenti, nell’adolescenza, le grandi domande, i grandi misteri si affacciano con violenza e potenza inusitata. È questa l’età che vuole scendere nell’Ade e assaporare i baccanali e i riti di accoppiamento. Occorre fornire loro occasioni per assaporare gli autentici saperi della nostra Terra, saperi ermetici, quelli che tengono insieme il particolare con il tutto, la morte con la vita, il cielo con la terra. Gli adolescenti vogliono, a volte senza neppure saperlo, proprio quei saperi, quelli che radunano corpo e mente, emozioni e pensieri, carne e sangue, sesso e desiderio. Quindi la musica, il teatro, lo sforzo fisico, la sessualità come forma di conoscenza profonda, estatica, liberatoria. Quando queste cose avranno piena legittimità nella vita educativa? Quando vi penetreranno come perno di ogni autentica formazione umana? Quando questo accadrà, esse vi saranno tenute come nucleo dei processi formativi, potente volano di ogni altro sapere, perché cruciali nella vita dei giovani, che desiderano esplorarle, viverle, conoscerne i segreti e le possibilità. Come mai siamo ancora vincolati a un modello di sapere tutto mentale, tutto apollineo, e nulla di dionisiaco penetra dentro ad esso, inumidendolo, infuocandolo, liberandolo? 81

Tutte le scuole dovrebbero dedicare almeno la metà (ahi, goduria impossibile!) del loro tempo al corpo, alla danza, alla recitazione, all’esercizio fisico non solo nell’accezione ancora una volta parcellizzante degli sport ma anche delle arti fisiche, come esistono in oriente, arti marziali, arti poietiche, arti circensi. E lo stesso sport dovrebbe essere concepito maggiormente come transazione con la natura in tutta la sua carnale presenza fisica e meno come culto di una corporeità astratta e competitiva, disciplinata e calcolante. Perché la scuola non prevede anche attività di tipo marziale, nel senso dell’esercizio del guerriero, sia per ragazzi che per ragazze, come il tiro con l’arco, il duello con i bastoni, la lotta corpo a corpo? Troppo osé per l’etica melensa che affolla le nostre aule? Perché non allenare lo spirito bellico, aggressivo, la violenza che c’è necessariamente in ogni adolescente facendogli provare l’eccitante finzione della battaglia? O perché non insegnare le fascinose tecniche circensi, almeno quelle prestidigitatorie, saltatorie, buffe, se non quelle acrobatiche e funamboliche? Fargli imparare il salto mortale, la piramide umana, i giochi di abilità con le palle, le clavette, fargli fare gli sputafuoco, perché no? C’è qualche regolamento sulla sicurezza che lo vieta? Se non c’è lo troverebbero, ne sono certo. Avere contatto con gli animali è forse chiedere troppo? Fargli assaporare l’arte del lavoro fisico, dalla muratura alla carpenteria, dal cesello al restauro, dalla scultura alla rilegatura. E infine, perché non fare entrare la sessualità, finalmente come grande pratica vitale, estatica, persino religiosa, e non come una pragmatica d’idraulica e d’igiene accoppiate in un ben triste cocktail degno della regina Vittoria? Insegnare il sesso, proprio così. Far conoscere le grandi tradizioni, dal Tantra alla sessualità magica, dal sesso come mistero e rito alla nudità come incontro folgorante con il trascendente. Almeno fare conoscere, fintanto che la nostra ipocrisia ci vieterà l’esercizio pratico che tanta cultura del corpo, del piacere, della disinibizione e della autentica conoscenza reciproca potrebbe liberare nei nostri adolescenti 82

ahimè abbandonati a sé stessi proprio nella avventura più affascinante, misteriosa, e iniziatica della loro giovane vita. Pensa, giovane Insegnante non castrato e inaridito da un’educazione zeppa di tabù, il sesso a scuola (un’“altra” scuola, si intende, un luogo di vera vita e vera cultura)! Ah, che deliziosa follia! Esperti nell’arte amatoria che suggeriscono esercizi, posizioni, e ne rivelano il potenziale trasformativo, liberatorio, estatico, cognitivo, facendolo esercitare! Camere profumate, soffuse, in cui accostare il mistero della sessualità, non certo per abolirlo, ma per guadagnarne le dimensioni magiche, le coordinate, l’ampiezza e la profondità esistenziale. Perfino una scuola di cosmetica, la grande arte del trucco, dell’abbigliamento, dell’uso di aromi e oli profumati sarebbe un interessante complemento afrodisiaco! (Sì, va bene, forse mi sono fatto prendere la mano da un certo esotismo – ma sarebbe meglio dire da un certo autentico, indispensabile, esoterismo – ma non è un caso, è proprio lì che, a differenza di qui, esiste una cultura della sessualità che non sia inibitoria, violenta, esorcistica!) Che civiltà misera resta la nostra che propaganda il sesso come pura prestazione e non ne sa invece promuovere tutta la carica culturale, iniziatica, tutta la grammatica sofisticatissima e inesauribile (ben al di qua e al di là di ogni problematica riproduttiva): in onore di Eros e di Afrodite! Hai ragione, questa, per ora, lo riconosco, è proprio fantascienza, anche se, caso mai tu fossi incaricato di fornire qualche informazione su questa materia ai tuoi giovani scalpitanti e pieni di ormoni destinati ad allevare foruncoli, sempre che tu non sia l’Insegnante Moralista certificato dal Vaticano (ma anche se lo fossi, fallo per dovere), ti prego aiutali a comprendere la vastità di questo lato della vita, aiutali a percepire l’immensità, l’articolazione e la ricchezza anche simbolica e comunicativa di questo universo magico che rimane per noi uno dei grandi perduti buchi neri.

83

Dove si contrappone la scuola del desiderio a quella desiderata ardentemente dalle organizzazioni della grande industria per rifocillare la sua fame sempreverde di “capitale umano”

Può darsi che tutto questo appaia generico e approssimativo. Se tu lo vorrai, caro Insegnante, potrò entrare maggiormente nei dettagli, non tanto nel rendere curricolare il percorso di apprendimento e nello stendere un paradossale programma per obiettivi e strategie didattiche dell’educazione al sesso, della sua metafisica e della sua pragmatica o di qualsiasi altro contenuto che si voglia conservare denso e vivente, figùrati, non rientra nel mio sistema di comprensione del mondo, no, ma potrò però aiutarti a cercare di concretizzare la tua intuizione, facendo appello alla tua memoria, alla tua sensibilità, alla tua cultura, alla tua trasgressività, anche, affinché la dimensione fisica, erotica, danzante dell’esperienza vitale possa diventare anche per te degna di essere inserita nell’attività dell’insegnamento alla pari di altre aree più accreditate e professionalizzanti. Su questo punto bisogna che dichiari la mia radicale estraneità all’eccesso di preoccupazione che grava sul mondo formativo da parte delle imprese e delle altre “parti sociali”. La scuola ha certo tra i suoi compiti quello di preparare a fare i conti con il lavoro, la fatica, il profitto e gli stipendi, ma se dovesse ridursi a questo, come vuole l’establishment (è forse una parola fuori moda? Non credo), temo che non possa che rassegnarsi ad essere un luogo dominato solo dalla depressione e dalla aridità delle scienze applicate (con tutto che anche loro dovranno pur sopravvivere da qualche parte). 84

La scuola ha, secondo me – seguimi, caro Insegnante – il compito di risarcire i giovani (bambini, adolescenti, studenti universitari nelle loro fitte e iridate multiformità), di ciò di cui la nostra società li priva, cioè grandissime fette dell’esperienza umana e mondana: appunto la grande cultura, l’arte, i grandi saperi della natura e dello spirito (per dirla un po’ all’antica), ma anche e perché no, soprattutto, dell’esperienza fisica, espressiva, creativa, erotica, simbolica, persino gastronomica, il grande sapere alchemico della trasformazione delle materie vive in cibo delizioso, cui certo la Confindustria, lo sappiamo, non è particolarmente interessata. In barba alla Confindustria e ai moralizzatori della Dea Economia! Tu, Caro Insegnante, non sei una protesi dell’apparato industriale cannibale e mortificatore, e non è vero che è “nell’interesse dei giovani”. Le imprese, ormai con l’aiuto devoto dei Sindacati, ahimè, sanno trasformare chiunque in un’appendice della loro macchina attraverso la loro formazione interna, che sia apprendistato o grande formazione istituzionale. Non hanno alcun bisogno che il mondo dell’educazione pubblica o privata (specie quella confessionale!) favorisca ulteriormente il loro sfruttamento, se non nel senso di abolire ancora di più, anticipatamente, la divergenza del “capitale umano” (mioddio! parlano così, sì, parlano così…) di cui hanno bisogno (peraltro sempre meno dalle nostre parti perché se lo vanno a cercare più a buon mercato altrove: fioccano i tecnici e gli esperti dall’Oriente e dal Sud del mondo – irrisarcibile effetto della contaminazione di culture meravigliose –, come gocce di pioggia!) La scuola è e dovrebbe restare un’altra cosa: l’opportunità massima che la nostra società può offrire di conoscere ciò che non è utile all’impresa, figùrati un po’, proprio così. Matematica astronomica, gastronomia afrodisiaca, poesia persiana, danze esoteriche, miti balinesi, la scienza del Carnevale e del Circo, il nuoto controcorrente nei fiumi, la metafisica neoplatonica, l’estetica delle liliacee, la scrittura Pali, la musica alchemica di Edgar 85

Varése, il teatro povero di Jerzy Grotowski, il magnetismo del corpo desiderante, il cinema immobile di Sokurov e così via. Non credi? Se hai conosciuto uno studente che ti costringeva ad essere pragmatico, vuol dire che era già marcio dentro. Non esserlo del pari. Come ti dicevo più sopra, il corpo giovane, la mente fresca, virginale, ancora con un filo d’anima, vuole cibo più succulento delle applicazioni tecniche o dell’educazione civica di modernista memoria. Sì, lo so, che ci sono problemi sociali, di emarginazione, di integrazione necessaria, di avviamento al lavoro e così via. Ma ora non mi scocciare con i tuoi sociologismi e ascoltami. Prima di tutto questo e proprio per non diventare solo carne da macello, essi hanno assoluto bisogno di materia che dilati il loro orizzonte in tutte le direzioni. Altrimenti non avrai fatto altro che generare ulteriore disperazione, senso di vuoto, smarrimento, dipendenza e passività manipolabile da chiunque. Non è un picciol compito quello che ti spetta amico, se hai un poco di fede nel senso profondo del tuo “mestiere”. Preferisci essere un ingranaggio della grande macchina dell’ottundimento e dell’inaridimento sistematico? È affar tuo, anzi, è una scelta politica. Personalmente credo che alla lunga ne pagherai le conseguenze anzitutto nel tuo personale degrado, nella tua progressiva demotivazione, sfiducia, paranoia e biliosità esplosiva. Ma naturalmente non posso non rispettare il tuo punto di vista. Non posso? Non posso proprio? E invece posso. Me ne frego della tua rispettabile mediocrità, ci caco sopra. I nostri ragazzi non hanno affatto bisogno di mediocrità, di svendita agli apparati silenziatori e mortificatori, di diventare “polli d’allevamento” inebetiti e castrati di curiosità, entusiasmo, desiderio di capire e di meravigliarsi ancora e ancora. Non credo proprio. Quindi, datti una mossa.

86

Dove si enuncia, non senza enfasi, il compito urgente di un insegnamento amoroso, di un “nuovo ordine amoroso” dell’insegnamento, come avrebbe detto Fourier

Tu probabilmente credi, se sei un Insegnante di scienze, per esempio, che le scienze siano quella caricatura compresa dentro il tuo manuale. Beh, scordatelo. Non è così. Bisogna che ricominci tutto daccapo. Anzitutto brucia il tuo manuale. Ok, ti hanno messo nella casella “scienze naturali” del grande organigramma della conoscenza industriale (e questo non è un vantaggio ma, per ora, è difficile uscire da queste celle), ma le scienze anzitutto vanno ricostruite, da te, proprio da te. Come sono nate, al posto di cosa sono nate, come si sono formate? Fai un po’ di archeologia. Vai a scoprire qual è il grande campo delle scienze, il loro posto, il loro luogo. Poi cerca di capire come guardano al loro posto, ai loro oggetti, ai loro luoghi. Come trattano la natura, visto che spesso si occupano di essa, e la trattano per lo più come una apparecchiatura meccanica di funzioni. Beh, allora c’è qualcosa che non funziona, precisamente. La natura non è solo un insieme di organismi che “funzionano” (questo serve a questo, quello a quello, bla bla), è anche un grande spettacolo, per esempio, è anche un grande corpo vivente che ha una sua interiorità e una sua esteriorità, tutta da ritrovare, per sé, non per noi. È anche estetica! Leggiti Portmann, tanto per cominciare. Vediti un film o due di Piavoli, oppure di Andrej Zdravic, studiati i quadri di Georgia O’Keeffe (che tra l’altro mostrano bene la componente erotica del mondo vegetale!), ritrova il corpo elementare del mondo, il corpo denso di umori, di spirito, di bellezza, prima di 87

ridurlo a un grande impianto termodinamico o a una grande officina stantuffeggiante in input e output. E poi magari usa proprio tutto questo per far entrare i tuoi studenti nel mondo della natura, per rinascerci dentro e per sentirne spessori, significati, desideri. Questo vale per tutti, ritrovate l’aurora di ciò di cui vi occupate, non dico le sue origini, ma la sua fisionomia, la sua personalità, il suo farsi luce prima che diventasse leggi, principi, classi, schemi, categorie. Perché è a quella carne che dovete anzitutto ricondurre i vostri allievi. Insegnante di matematica, di fisica, di giurisprudenza, di statistica, non propinare gli effetti ultimi della reificazione del mondo, ma la sua alba, se proprio devi. Non procedere deduttivamente, ma induttivamente, parti dalle storie, dalle creature, dalle forme originarie, e poi magari spiegane la corruzione o la razionalizzazione in leggi, misure, tabelle. Non ti accontentare dei manuali, te ne prego, dagli i libri veri, le immagini, magari d’epoca, faglieli toccare, non radunare mille cose in poche righe, dedicati a qualcuna, ma facendola assaporare, mordere, penetrare. Cerca figure, biografie, storie, materia viva, appassionali! Mi piacerebbe mettermi lì con te, Insegnante di informatica, o con te, Insegnante di chimica, o con te, Insegnante di economia aziendale, a cercare di capire come uscire dal tranello del sapere morto, dei libri di testo (anche quelli fatti bene sono comunque “libri di testo”!), della costruzione geometrica del sapere (ahi, Cartesio!). A provare a individuare gli oggetti che possano far scintillare lo sguardo dei tuoi allievi, farli avvicinare, aiutarli a sentire vivente quella roba che tu gli somministri. Mi piacerebbe. Magari lo farò. Ma, per ora, ti prego, provaci, se mi hai capito. Non è detto che tu debba fare sempre così, ogni tanto potrai infilare qualcosa di veramente indigesto, ci sta, è ovvio, quando tu avrai conquistato l’apprendimento “con passione”, e dopo non sarà più un problema terribile un po’ di concime tecnico, una qualche dose di noia patentata, perfino qualche pura memorizzazione a fin di bene. È all’inizio che tuttavia, non mi stanco di ripeterlo, come vedi, devi spiazzarli, stupirli, affascinarli, consentirgli di sperimentare le zone vive, sapide, ribollenti, della tua 88

“zona” di sapere. Da qualche parte ci deve pur essere, magari nascosta, imprevista anche da te, anche nei territori più aridi una piccola oasi deve pur esserci. Probabilmente ti costerà fatica, e di sicuro sarà più facile affidarsi alla struttura mummificata di un manuale, ma, lo sai, l’effetto è radicalmente diverso, inutile che te lo ripeta. Se poi la scientificizzazione più grossolana ha spazzato ogni cosa, se sei nel deserto dei Tartari, o del Gobi, e a farti compagnia c’è solo qualche iguana perduta o qualche crotalo disorientato, allora almeno celebra il lutto per la tua materia scomparsa, componi tu stesso un epicedio, fatti aiutare dai tuoi allievi a seppellire un sapere morto (magari fatti aiutare anche dall’iguana) e vai a cercartene un altro vivo, sempre che tu voglia insistere. Se vuoi insegnare non hai altra risorsa che il tuo amore, che l’amore dei tuoi ragazzi, che l’Eros racchiuso e sapientemente sigillato, da secoli di puritanesimo cieco sordo e muto, dentro i forzieri della conoscenza, quella grande, profonda, potente, smisurata che emana dall’esperienza, dalla esperienza infinita della natura, dell’arte, della vita, della morte. A volte tu ti chiedi, nel buio della tua cameretta, come mai spesso i tuoi ragazzi preferiscono fare qualche lavoretto sottobanco, imparare un mestiere dozzinale ed evitare l’esperienza scolastica, che tu consideri essenziale, fondamentale. Allora ficcati nei loro panni e guarda, guarda il mondo dai loro occhi. Che cosa vedi? Guarda bene! Che cosa vedi da quegli occhi? Che cosa vedono in te, in un aula, in un libro di testo, in un universo fatto a pezzi e mal rattoppato di insegne indecifrabili e inutilizzabili? Cosa vedono? Vedono il grande nulla che questa nostra modernità ha fatto calare sulla vitalità della cultura, della vita, del desiderio di scoprire, di capire, di stupirsi. E allora? Meglio due soldi guadagnati in fretta, magari soggiacendo alla durezza (ma finalmente una durezza vera, perlomeno) di qualche capoofficina, di qualche caporeparto, di qualche capospaccio, che quella messa in scena avvilente e incomprensibile che vivono e patiscono per ore dentro un’istituzione bugiarda e vuota come una scoreggia. In questo piccolo libro, in questo trattatello incostante, in questo taccuino da taschino ho solo potuto dirti qualche pensiero, 89

infonderti qualche idea, magari farti sorridere, se hai ancora un po’ di humour, ma il problema resta tuo. Cosa puoi fare per sconvolgere quello che vede il tuo studente insoddisfatto e ferito? Come puoi restituirgli almeno un po’ di curiosità, almeno un po’ di desiderio per la cultura? Tutto quello che serve ce l’hai dentro e davanti (anche se qualcosa va certamente cercata in profondità, scavata e riesumata…), nella grande equivalenza celebrata dal mercato non è che manchi l’offerta. L’importante è saper scegliere, rintracciare i sentieri interrotti, ricucire i fili, ridare splendore ai metalli ossidati, alle stoviglie sbreccate, alle tovaglie sfilacciate. Tocca a te imbandire la tavola per quella grande fame che si tratta solo di far riconoscere, e che è anche tua, anche tua. Come è mia. Non credere che io parli da qualche scranno speciale nella tela di qualche Giudizio Universale, anch’io solco ogni giorno la tua stessa cacca, magari in compagnia di quella parata di casi umani che sono i miei colleghi, che certo non hanno nulla da invidiare ai tuoi tolte le solite insigni eccezioni. Ma negli occhi dei miei studenti amo veder brillare un poco di curiosità, di desiderio, di stupore. E non mi succede sempre, né con tutti, figurati, ma qualche volta, e ogni volta il primo a goderne sono io, proprio così. E allora mi industrio, cerco di capire come ho fatto, come fare. Voglio che accada ancora, ne divento dipendente. E capisco che succede quando la tavola è ben imbandita, quando il cibo non è contraffatto, quando il mio stesso amore per quello che dico è autentico, non fasullo. Proprio così. È una questione alchemica: trovare la materia prima, spremerla, cuocerla, torturarla, sbiancarla, fino a che tutta la feccia non svanisce e il fisso che resta è il firmamento, firmamentum, il grande infinito meraviglioso cosmo che ci circonda e che aspetta di essere abitato con godimento, con sensibilità, con misura e discernimento dai nostri allievi, perché sia un mondo in cui natura e cultura, maschio e femmina, cielo e terra, mente e corpo si desiderino e facciano un patto, un patto amoroso. 90

Bibliografia per pedanti

Per chi proprio non ce la fa a non perlustrare la geologia segreta del testo, suggerirei poche ma ardenti letture, ordinate secondo la passione che meritano. Del già citato James Hillman consiglierei di compulsare le prime due parti di Il codice dell’anima, Adelphi, 1997 e anche L’anima del mondo e il pensiero del cuore, riedito da Adelphi (2002) a basso costo, e anche, mi pare adatto, L’anima dei luoghi. Conversazione con Carlo Truppi, che è un libricino zeppo di buone idee, Garzanti 2004. Se poi cerchi una riflessione un po’ pedagogica ragionata del pensiero dell’autore americano potresti cercare in qualche biblioteca (perché, ahimè, è ormai estinto), il mio (e anche di Nicoletta Lucatelli) L’anima e il selvatico. Idee per controeducare, Moretti e Vitali, 1998. Visto che ci siamo, mi si perdonerà se mi pongo subito in seconda fila, aggiungo qualche mia cosetta atta a rinforzare i messaggi impartiti: in particolare, e senza troppo allargarmi, due piccoli libri: Miti d’oggi nell’educazione. E opportune contromisure, che Angeli mi pubblicò nel 2000, dove già proponevo di riparare ai danni prodotti all’esperienza di imparare dall’homo insipiens della nostra trista contemporaneità e, per gli spiriti eletti, anche La visione smeraldina. Introduzione alla pedagogia immaginale, Mimesis, 2004. Secondo me un piccolo saggio che ho scritto sull’adolescenza, Nella radura dell’adolescenza, pubblicato in un volume che si intitola un po’ pomposamente L’adolescenza nell’epoca della globalizzazione e a cura di due cari amici, Luigi Angelini e Delia Bertani, presso Unicopli, male di sicuro non ti può fare. 91

Tra i filosofi non farti scappare Schopenhauer come educatore di Nietzsche, edito nel volume delle Considerazioni inattuali (in Italia l’ha pubblicato Einaudi, se non sbaglio, a meno che non preferisci l’edizione completa di Adelphi). Se vuoi della filosofia in poesia che ti arricchisca l’Anima, le Elegie duinesi di Rilke dovrebbero essere il tuo risveglio e la tua buonanotte, sul comodino. Inesauribili! (Varie edizioni, ma a me piace quella Einaudi tradotta da Enrico e Igea De Portu. Sempre per l’Anima (con la maiuscola), e sempre sul comodino, almeno il Diario di Etty Hillesum (Adelphi) e Gli imperdonabili di Cristina Campo. Poi, vediamo un po’. Agli scienziati debbo per forza consigliare qualcosa di Adolf Portmann: sì, almeno devi leggerti, visto che pare sia ancora in circolazione, Le forme viventi. Nuove prospettive della biologia, pubblicato, sempre da Adelphi, nel lontano 1989. Anche Il Tao della fisica, del buon vecchio Fritjof Capra, pubblicato pure da Adelphi, non dovrebbe mancare (questa casa editrice mi deve remunerare in qualche modo, o io lei). Ho citato Martha Harris e Donald Meltzer e ora mi tocca almeno ricordarteli: assolutamente nutritivo anche se scritto un po’ troppo in psicanalese è il loro Il ruolo educativo della famiglia. Un modello psicoanalitico dei processi di apprendimento. Lo trovi ancora, anche se è del 1986, pubblicato dal Centro Scientifico. Sulla stessa falsariga, consiglio, perché è pieno di esperienza fresca, un libro collettaneo, ma scritto perlopiù da Isca Saltzberger-Wittenberg, L’esperienza emotiva nel processo di insegnamento e di apprendimento, edito da Liguori nel 1993. Mi è capitato sottomano in questi giorni un bel libricino, di Valeria Fraccari, Difesi dagli incanti, pubblicato dall’editore Il Filo di Roma, un’insegnante proprio come te, ora vicepreside, sventurata lei, dove racconta una straordinaria esperienza di trekking letterario verso i luoghi di Dino Campana: è magico, è vivo, è una polifonia arricchita dalle ricche voci poetiche degli studenti in carne ed ossa. Un bell’esempio di apprendimento per passione en plein air. 92

Per rafforzare la tua cognizione dell’Eros, sempre che tu ce l’abbia vivo e vegeto e custode della tua esistenza, proprio come l’angelo, c’è un’intera biblioteca, anzi, tutta la grande letteratura, da Saffo a Proust a Philip Roth a Garcia Marquez a Guimarães Rosa (nessuno può capire qualcosa dell’amore senza aver letto L’amore ai tempi del colera o Grande Sertão) eccetera eccetera. Ma se vuoi qualcosa che stuzzichi i tuoi ventricoli più esigenti, prova con Octavio Paz, La duplice fiamma, ES, 2006, e con il vecchio Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, 2005. Lascia perdere quasi tutto il ciarpame filosofico, da Curi a Givone e compagnia cantando (i filosofi non sanno quasi mai parlare d’eros). Lascia perdere Lacan e i lacaniani, ti fanno perdere la voglia di qualsiasi cosa che anche solo lontanamente profumi di desiderio. Se vuoi puoi seguire qualche sentiero spinoso con George Bataille, sia nella riflessione che nella narrazione… ma soprattutto, se vuoi sovvertire il tuo sguardo irrancidito su questi temi leggiti e rileggiti quella perla rara che è il massiccio Nuovo mondo amoroso dell’obliato ma ineludibile Charles Fourier (edizioni ES). Ma piuttosto rifletti sulla pittura di Delvaux, o di Bellmer, o di Balthus! Su infanzia ed eros, mi spiace ma è in francese, dovresti leggerti i bei saggi di René Schérer compresi nel volumetto intitolato delicatamente Enfantines, Antropos, 2002. O anche, in italiano, però forse è un po’ troppo provocatorio per te, Co-ire. Album sistematico dell’infanzia, tradotto da Feltrinelli nel 1989 e ormai solo in biblioteca. Sul sesso, mi spiace dirlo, ma non c’è niente di meglio del volumone, dall’autore poco raccomandabile, lo ammetto (Julius Evola!), che titola però grandiosamente La metafisica del sesso, Mediterranee, 1994. Suggestivo, provocatorio, e talora un po’ schematico, comunque per palati forti Teoria del corpo amoroso di Michel Onfray (2006, Fazi). Infine non posso esimermi dal suggerirti pochi film indispensabili nella tua videoteca di insegnante amoroso: • Pianeta azzurro di Franco Piavoli, senza se e senza ma; • il trittico di Weir, Gibson e Hackford citato nel corpo del testo; 93

• La leggenda del re pescatore, di Terry Gilliam (è indispensabile per spiegare la via immaginativa al processo di apprendimento, o la cognizione del dolore, se preferisci). Tutta la filmografia di Andrej Tarkovskij e di Alexander Sokurov (forse di quest’ultimo potresti risparmiarti Kamen, ha siderato anche me): lo so, è roba non di facile digestione, ma ti farà bene, te lo assicuro: diciamo che è una cura un po’ violenta al tuo “sguardo” in disarmo. Anche qualcosina sull’infanzia di Abbas Kiarostami come Dov’è la casa del mio amico o… E la vita continua. Non ti perdere i film di Kim Ki-duk (tutti tranne Time), quelli di Wong Kar-Way (almeno In the mood for love e Happy together), quelli di Tran Anh Hung (almeno L’odore della papaya verde e Solstizio d’estate) e anche un po’ di quel geniaccio di Shinya Tsukamoto. Anche HiHi di Edward Yang e Autumn Moon di Clara Wei, assolutamente. Che ci posso fare? La bellezza viene dall’Oriente! E poi? E poi…

94

Un anno di e-book Una biblioteca ricca di centinaia di titoli in tutte le discipline: economia, psicologia, sociologia, didattica, storia, filosofia … Una modalità flessibile ed efficace per accedere subito ai contenuti, per effettuare ricerche mirate, per scorrere rapidamente i testi, per individuare con immediatezza un dato, una citazione, un nome… Per la comunicazione scientifica gli e-book presentano ampi vantaggi, facilitandone la diffusione e l’accessibilità. I lettori possono trovare nelle modalità di scorrimento e di ricerca nel testo delle opportunità per la lettura veloce assolutamente superiori a quelle rinvenibili nel libro a stampa. Gli e-book non ingombrano, si archiviano facilmente, sono sempre e subito disponibili. Gli e-book in formato pdf sono la copia esatta del libro in formato cartaceo.

Per saperne di più sull’utilizzo e le forme di acquisto: www.francoangeli.it

FrancoAngeli e-book Una nuova dimensione per condividere le conoscenze. Per l’università e per la professione.

www.francoangeli.it Un patrimonio sempre aggiornato di conoscenze e nuovi servizi. Facile e intuitivo nelle ricerche. Veloce da interrogare. Modalità intelligenti di selezione e di fruizione. A servizio di docenti, studenti, professionisti.

Ricerche semplici e complete

Possibilità di scegliere il “livello” (textbook, ricerca, guida per professional...)

Filtri semantici

Suggerimenti ragionati e pertinenti

Argomenti chiave

Acquisti sicuri

Sintesi veloci

Descrizioni approfondite

FrancoAngeli La passione per le conoscenze

2001.50

5-02-2007

12:38

Pagina 1

Paolo Mottana è professore ordinario di Filosofia dell’educazione presso l’Università di Milano-Bicocca. È coordinatore e docente presso la Scuola di Specializzazione degli Insegnanti di Milano e presso i corsi abilitanti per insegnanti di Arte e Disegno (Cobaslid) dell’Accademia di Brera. Fra le sue pubblicazioni dedicate ai temi dell’insegnamento: Formazione e affetti, Armando 1993, Il mèntore come antimaestro (con Angelo Franza), CLUEB, 1996, Miti d’oggi nell’educazione. E opportune contromisure, FrancoAngeli, 2000, La visione smeraldina. Introduzione alla pedagogia immaginale, Mimesis, 2004. Ha al suo attivo anche una prova narrativa, Sospesi a un raggio di luna, Sperling & Kupfer, 1996. Informazioni ulteriori sulle attività del suo gruppo di ricerca possono essere reperite sul sito www.immaginale.it.

2001.50 - P. MOTTANA - CARO INSEGNANTE

Caro Insegnante “vero”, mi rivolgo a te che spero non ancora completamente mortificato, avvizzito, ossificato dal nulla che regna nelle nostre istituzioni formative, tutte figlie di quella grande peste del sapere che è stata la rivoluzione disciplinare, l’irruzione delle scienze analitiche e dei loro criteri astratti e polverizzatori nell’alveo della materia fermentante e cantante della grande ode cosmica del sapere, di quella effervescenza della forma e della sostanza tutta intera delle cose, cose vive, tessute dentro il grande corpo del mondo. Se hai ancora un po’ di sangue, di spirito, di anima, se non sei stato spolpato fin nel midollo dall’acido muriatico delle antologie e delle “storie”, dei dizionari e delle enciclopedie, tutta roba che corrode la bellezza del conoscere, se non ti sei ancora familiarizzato completamente con il neon, con il legno cattivo e scomodo dei banchi e delle cattedre, con il color cacca secca delle aule scolastiche, con il malcostume di malvestirsi e maleodorare del “corpo” docente. Se ci tieni almeno un poco al tuo presente e a quello dei tuoi innocenti allievi ancora vivi, allora questo libro può forse fare per te.

Paolo Mottana

Caro insegnante Amichevoli suggestioni per godere (l)a scuola

FrancoAngeli